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(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

Il pensatore francese Louis Lavelle (conosciuto come uno dei maggiori esponenti dello Spiritualismo personalista francofono) ha scritto molti libri tra i quali due dedicati alla definizione di cosa è «essere».
I titoli di questi libri sono i seguenti: − Louis Lavelle, Introduction a l’ontologie, Presses Universitaires de France, Paris 1951; Louis Lavelle, De l’être, Librairie Féliz Alcan, Paris 1928.
Ed il secondo (la cui copertina ho riportato in foto) è a mio avviso quello più denso, completo ed anche davvero prezioso al giorno d’oggi. Esso ci permette infatti di tornare a gettare sull’«essere» uno sguardo che è insieme profondo, amplissimo, equilibrato e soprattutto libero da fuorvianti pregiudizi ideologici di parte (come, ad esempio, quello di Heidegger). Quindi questo è il libro di Lavelle che io consiglio più caldamente di leggere.
Tuttavia per comprendere il valore di questo libro dovrò fare una piuttosto lunga premessa. E spero che qualcuno dei miei lettori abbia la motivazione per seguirmi in questo percorso. Quanto poi ai miei lettori che sono filosofi, dico subito che possono sorvolare su molte parti della susseguente esposizione, dato che esse sono certamente ad essi già arcinote.
Il pensiero dell’essere (circa l’essere) è ciò da sempre che in filosofia viene definito come ontologia (dai termini greci “On” e “ontos” che identificano appunto questo elemento e concetto). Apparentemente questo argomento può interessare poco alla maggior parte di noi, anche se invece ai filosofi ha interessato molto (sebbene con fasi alterne). Ma sta di fatto che nell’essere noi non solo ci viviamo totalmente immersi − e fino al punto che nemmeno ce ne rendiamo conto (come ebbe a dire Romano Guardini), con la conseguenza che possiamo non vederlo e nemmeno conoscerlo −, ma inoltre, se non fossimo «essere» (ossia se non ricevessimo e anche possedessimo questa entità), noi semplicemente non esisteremmo.
Ossia «non saremmo».
È evidente (ed assolutamente intuitivo) che quindi l’essere equivale all’esistenza. E precisamente al suo sostegno, per quanto invisibile ed inafferrabile. Per cui è altrettanto evidente che i filosofi si sono dovuti interessare da sempre dell’essere, dato che esso è il nucleo stesso della loro riflessione su ciò che osservano tutt’intorno a loro, ossia cose, uomini ed eventi Diciamo che la riflessione su questo aspetto è iniziata con Parmenide in primo luogo, e poi con Eraclito, Aristotele e Platone. Per poi passare alle riflessioni di Agostino di Ippona e Tommaso d’Aquino (unitamente all’intera Scolastica medievale della quale egli fece parte). In ogni caso la riflessione sull’essere va considerata praticamente obbligatoria per il filosofo.
Fatto sta che non tutti i filosofi hanno inteso l’essere allo stesso modo. Ed inoltre i filosofi antichi lo hanno inteso in modo molto diverso da quelli moderni. Bisogna anche dire che tra quelli antichi ha sempre prevalso la definizione dell’essere fornitaci da Aristotele. Quindi di fatto quando si parla di ontologia si tende a parlare del suo intendimento dell’«essere». E con quest’ultimo è stato inteso soprattutto l’essere esteriore, ossia quello mondano ed universale che si trova al di fuori della coscienza e tuttavia resta comunque alla sua portata. Ma intanto per il pensatore greco l’«essere» era sì ciò che esiste tutt’intorno a noi, però lo era soprattutto come ciò che esiste realmente, ovvero indubitabilmente (per quanto sia qualcosa di inafferrabile). E la realtà veniva allora interamente intesa come ciò che è più conoscibile ossia ciò che è più vero. Allora tuttavia la conoscenza più vera era quella «meta-fisica», e non invece quella «fisica». Era cioè quanto era possibile conoscere solo andando oltre quanto i sensi (la percezione dei nostri organi sensoriali) ci suggeriscono come reale. Tommaso e la Scolastica finirono poi per identificare l’«essere» più reale possibile (l’”Ens realissimus”) con Dio in persona (specie in relazione al concetto di mondo volontariamente creato).
E su questa falsariga l’ontologia è andata avanti per secoli almeno fino a Cartesio, a partire dal cui pensiero la filosofia ha iniziato poi ad interessarsi molto più di ciò che esiste dentro di noi (la coscienza e l’Io conoscente-pensante) che non di ciò che esiste dentro di noi. Essa ha insomma iniziato a disinteressarsi sempre più di quell’antico concetto di essere che comunque era stato sempre considerato prevalentemente esteriore. Con gli empiristi e Kant infine l’ontologia finì per venire addirittura condannata come campo di pensiero nel quale venivano presi in considerazioni solo oggetti irreali. Emblematico per questo è stato il concetto di «sostanza», che da Aristotele in poi era stato considerato l’essere invisibile ma realissimo che sorregge l’esistenza delle cose. Era nato con ciò l’orientamento prevalentemente «idealistico» della filosofia, ossia la sua convinzione che la realtà (ossia di fatto l’essere stesso) può venire colto solo in quanto conosciuto. Il che richiedeva l’azione indispensabile di un soggetto cosciente-pensante-conoscente, ossia il nostro Io. Cosa che poi poneva in primo piano in filosofia la «teoria della conoscenza» in luogo della questione e realtà dell’essere.
Da allora in poi un lungo oblio ha seppellito l’ontologia facendo credere agli uomini che essa non sarebbe risorta mai più. Naturalmente lo stesso oblio ha seppellito la metafisica, che all’ontologia era stata sempre intimamente congiunta. Infatti non a caso (come abbiamo visto) essa si era intrecciata fino dall’inizio con il concetto di essere entro una conoscenza che aveva l’ambizione di cogliere l’invisibile, ossia l’ultra-sensibile.
Ma di questo oblio fu infine responsabile soprattutto il Positivismo, con la sua idea secondo la quale non vi è alcun «essere» ma vi è solo la realtà mondano-universale conosciuta in primo luogo dalla scienza (e precisamente per mezzo degli esperimenti permessi dagli strumenti tecnici). Bisogna anche dire che, da questo momento in poi, la scienza empirica (sperimentale) stessa si è eretta come un angelo dalla spada di fuoco per impedire agli uomini di tornare all’ontologia.
Eppure questo veto non ha avuto effetto. Perché a partire dal XX secolo (e con diverse premesse già nel XIX secolo, come quella del nostro Antonio Rosmini) in modo davvero stupefacente l’ontologia riappariva in filosofia. Il che avveniva ovviamente soprattutto nel contesto di una generale e violenta reazione al Positivismo. In altre parole i filosofi ricominciarono a chiedersi cosa fosse mai quell’invisibile e pur tangibile «quid» esistente dietro le cose, ossia ciò che fa sì che le cose esistono. Insomma era ridiventata stupefacentemente di nuovo del tutto attuale la domanda squisitamente metafisica circa il «cos’è l’essere?». E con ciò era rinata di fatto anche la metafisica.
È comunque evidente che – in seguito all’accumulo nel tempo di una grande mole di conoscenze filosofiche e scientifiche, e tutte estremamente pragmatiche − l’ontologia non poteva più rinascere nella sua forma antica. Eppure, però, essa rinacque non solo nella mente dei filosofi ma anche nella mente dei teologi.
E per questi ultimi (dopo la lettera enciclica “Sapientae Christianae” di Papa Leone XIII nel 1890) essa rinacque esattamente nella sua forma antica, ossia quella scolastica di ispirazione aristotelica. Dato che essa aveva continuato intanto ad essere equivalente alla conoscenza dogmatica del mondo che la Chiesa cattolica aveva conservato disinteressandosi quasi completamente della filosofia e soprattutto della scienza. Intanto comunque diversi filosofi credenti si conformarono a questa nuova e vecchia forma dell’ontologia. Il loro numero è molto grande, e la relativa scuola di pensiero assunse il nome di “neo-scolastica” o “neo-tomismo” (con esponenti in tutti i paesi del mondo). Ma tra loro bisogna nominare notissimi pensatori come Jacques Maritain e Edith Stein (sebbene la loro ontologia fu per diversi aspetti notevolmente diversa) ed infine Erich Przywara e Romano Guardini.
Il fatto interessante è però che l’ontologia rinacque anche in altre forme, ossia forme non-teologiche.
E non pochi furono i filosofi che si allinearono su questa forma non teologica ed a-religiosa della riflessione sull’essere. Uno dei più noti tra loro fu senz’altro quel Martin Heidegger, secondo il quale non si doveva parlare più assolutamente di «essere» ma invece solo di esistenza, ossia del cosiddetto «esser-ci» (“Dasein”: «essere-qui») che poi corrispondeva all’uomo esistente. Ecco dunque insorgere una seconda dicotomia entro la nuova filosofia dell’essere o ontologia (dopo quella causata dalla teologia), e cioè quella che fece nascere la «filosofia dell’esistenza» o «esistenzialismo». Eppure essa ebbe l’ambizione di lasciare di fatto ancora nell’oblio il concetto di «essere» portando in primo piano solo quello di esistenza. Nemmeno così però il concetto di «essere» sparì dall’ambito di interesse dei filosofi. Ed ecco che ci approssimiamo finalmente al campo al quale appartenne la riflessione di Lavelle.
Questi filosofi vollero insomma continuare a pensare all’«essere» come ad una realtà tanto invisibile quanto innegabile e perfino tangibile, ossia come l’elemento entro il quale tutto esiste. Anche qui i nomi da fare sarebbero moltissimi. Ed anche in questo campo ci si sono da fare molte differenziazioni nella definizione dell’«essere». Ma io mi limiterò a menzionare soltanto Nicolai Hartmann, Karl Jaspers, Nicolaj Berdjaev e appunto Louis Lavelle.
I primi due ebbero una visione del tutto a-religiosa dell’«essere». Eppure vi è una sensibile differenza tra il primo, Hartmann (per il quale l’essere coincide con non nient’altro che il mondo reale in tutte le sue forme, ossia quel mondo che filosofia e scienza possono indagare senza nemmeno entrare in conflitto tra loro), e il secondo, Jaspers (per il qual l’essere è l’”avviluppante” invisibile di ogni cosa, che sussiste indubitabilmente ma si trova del tutto al di fuori della nostra portata, ossia il totale ”Oltre”; e quindi può venire colto solo dalla metafisica). È evidente la differenza che vi è tra questi due concetti di «essere». Quello di Hartmann coincide infatti con la Totalità di cose e concetti esperibile del mondo, e quindi non è altro che quanto sperimentiamo tanto nell’esperienza esteriore che interiore. Per Jaspers, invece, l’«essere» è e resta qualcosa di inafferrabile e misterioso (esattamente così com’era nell’antica onto-metafisica),e sulla cui natura quindi siamo costretti a restare assolutamente muti.
Ebbene in tal modo la dimensione del mistero dell’«essere» si rivela costituire così la terza grande dirimente della moderna ontologia. E non c’è bisogno di dire che (si sia o meno religiosi), una volta inteso l’«essere» a questo modo, è di nuovo estremamente prossimo il suo intendimento come Dio. Ecco che, esattamente come era avvenuto nell’antica ontologia (specie cristiana e scolastica) è ri-emerso il concetto di Dio-Essere; ossia di Dio come la forma più alta, estesa, profonda, inafferrabile e indicibile dell’«essere».
È evidente che non si tratta di altro che di quell’«esistenza di Dio» che la Scolastica aveva troppo semplicisticamente identificare con l’universo (il mondo creato) e che Agostino prima e Cartesio poi avevano molto più acutamente identificato con la Sua presenza nella nostra interiorità animico-spirituale.
E bisogna dire che anche Edith Stein (nonostante il suo allineamento all’antica onto-metafisica scolastica) aveva inteso l’esistenza divina in questo modo (specie ispirandosi ad Agostino; ma, per l’intermediazione di Alexandre Koyré, anche a Cartesio).
Comunque è chiaro, in questo più generale riconoscimento dell’«essere» come mondo, ovviamente la moderna ontologia laica coincide in molti aspetti con quella religioso-teologica (com’è riconoscibile in Maritain, Stein, Przywara e Guardini). Ora però, se Berdjaev ha certamente inteso l’«essere» come Dio, ma soprattutto nella forma di un’inesauribile e possente potenza creativa che non cessa di generare il «nuovo», Lavelle invece lo ha inteso come Essere, ma soprattutto come la Totalità inesauribile, eterna, omni-presente, avvolgente, inafferrabile e soprattutto totalmente misteriosa, nel cui seno tutto esiste. Insomma, senza ricorrere affatto ai concetti e strumenti dell’antica onto-metafisica (specie l’intendimento aristotelico-tomistico dell’essere come puro concetto), egli ha di fatto restaurato l’antica concezione metafisica dell’«essere». Ed in questo modo ha permesso a tutto di noi di supporne indubitabilmente la presenza schiacciante dietro ogni cosa ed ogni evento. In particolare nel tenere presente che tutto il mondano-universale (ossia cose e individui) non sono altro che parti finite che certamente non sussisterebbero se non ricevessero costantemente il “dono” dell’essere che l’«essere-quale-Dio» elargisce loro (amorosamente e misericordiosamente).
Tuttavia, per tornare alle antiche definizioni di «essere», Lavelle fa emergere la più forte di esso (in quanto immediatamente intuitiva), ossia quella di Parmenide – l’essere non è altro che «ciò che è» in quanto diverge radicalmente dal Nulla. E fino al punto che il Nulla stesso non è assolutamente in grado di minacciarlo, dato che in definitiva rientra inevitabilmente in esso (infatti l’affermazione di qualcosa di negativo è pur sempre l’affermazione di un «qualcosa»). È evidente la straordinaria forza che ebbe questa definizione di Parmenide, che ancora oggi si oppone quindi a quella (ben più intellettualistica e sfumata) di due tra i maggiori geni della filosofia, ossia Platone ed (un po’ meno) Aristotele.
Orbene, è evidente che ciò ci permette di intendere la nostra esistenza e quella del mondo come dotate di un senso che nessuna visione filosofica non-ontologica ci consente di fare. Il che implica inoltre anche la possibilità (della quale Lavelle parla esplicitamente) di vivere la nostra vita nella prospettiva prevalente dell’eternità (ossia l’immortalità della nostra esistenza animico-spirituale), nel rapporto costante ed intimo con Dio, ed infine rinunciando alla schiavitù al tempo ed allo spazio (che sono null’altro che forme parziali dell’«essere»), ossia soprattutto la schiavitù verso cose ed eventi mondani (inclusa ovviamente l’ossessione per il possesso e per il successo).
Per questo consiglio a chi senta la voglia e la forza per farlo di leggere senz’altro l’estremamente illuminante libriccino di Lavelle dal titolo “De l’être”.
Naturalmente il pensiero di Lavelle è estremamente più complesso e profondo di quanto emerga in questa mia estrema sintesi. Per cui il mio prossimo lavoro filosofico (a Dio piacendo) sarà un’analisi delle prevalenti forme moderne dell’ontologia

(*) Dottore di ricerca in filosofia presso la FLUL di Lisbona.

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Nonostante le perplessità sospettose e critiche su Malebranche che avevamo espresso nei nostri ultimi scritti al riguardo e pubblicati anche su Academia Edu [Vincenzo Nuzzo, “Recensione: un’immagine critica di Malebranche come metafisico, filosofo, teologo e uomo religioso”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ > ; Vincenzo Nuzzo, “Definizione, legittimità e limiti di un’autentica filosofia religiosa. Bonaventura a confronto con Malebranche, Habermas e i pensatori tradizionalisti”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ >; Vincenzo Nuzzo, “La gnoseologia di Malebranche e il nuovo paradigma conoscitivo onto-metafisico nelle science empiriche (Wolfgang Smith)”, Il Corriere Metapolitico, 2024 (in via di pubblicazione)], la lettura Beatrice K. Rome dal titolo “The philosophy of Malebranche” (PM) [Beatrice K. Rome (a cura di), The Philosophy of Malebranche. A study of his integration of faith, reason and experimental observation, Henry Regnery Company, Chicago 1963] ci ha permesso di vedere il nostro pensatore sotto una luce molto diversa. In questa luce egli è apparso infatti come uno dei più originali e geniali filosofi del suo tempo (quello in cui dominò la metafisica razionalistica con vertice in Leibniz) e forse anche dell’intero pensiero umano. E vedremo poi che l’originalità filosofica di Malebranche consiste in particolare nella simultaneità in lui di un’epistemologia platonica (essenza) con un’onto-metafisica realista (esistenza) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIab p. 129-139]. Insomma Dio non è per lui affatto il puro intelligibile di Platone (anche se contiene le idee necessarie per conoscere) perché Egli è in primo luogo Essere. Pertanto Egli è la “Pura Ragione” (la fonte primaria dell’intelligibilità) soltanto nella misura in cui è il Dio-Essere per eccellenza. E cioè null’altro che quel “Colui che è” dell’Esodo biblico, a sua volta corrispondente all’”Io sono Colui che sono”, che non a caso i più forti pensatori cristiani (come ad esempio Agostino ed Eckhart) avevano posto al centro del loro pensiero.
In generale per il pensatore (così come per tutto il pensiero cristiano a differenza di Platone ed anche di Aristotele) l’Essere non può venire ridotto al Pensiero.
Ma l’originalità di Malebranche non consiste affatto solo in questo, dato che la sua visione è talmente eterogenea da finire per apparire in molti aspetti addirittura ambigua e contraddittoria.
E comunque essa è fortemente oscillante. Cosa che può venire considerata anche un demerito, ma intuitivamente ha molto più l’aspetto di un’originalità consistente nella mancata adesione del pensatore a rigide scuole di pensiero. E va detto che nel suo caso la scuola di pensiero primaria è quella della metafisica razionalista che ebbe come principali esponenti Cartesio e Leibniz. A causa di ciò dal pensiero di Malebranche c’è da imparare molto più di quanto sia prevedibile in base ai caratteri generali della metafisica razionalista.
Il grande merito dello studio di Rome è dunque proprio quello di mostrarci questa evidenza. Il che avviene poi nell’evidenziare gli elementi emergenti soprattutto dal confronto del pensatore prima di tutto con Cartesio ma anche con molti altri suoi interlocutori (diretti e indiretti), critici ed anche affini del suo tempo (tra i quali Church, Arnauld, Régis, Leibniz, Hobbes, Hume. Bacone, Berkeley, Spinoza). Sono molto utili anche i commenti su Malebranche che la studiosa riporta da Gilson (quale rappresentante del pensiero tomista). Non a caso, infatti, Malebranche si rivela in PM anche come uno dei più forti pensatori cristiani che abbiano mai operato in filosofia. E questo contraddice gran parte delle critiche che gli avevamo rivolto nella nostra precedente recensione. Queste nostre critiche negavano infatti al pensatore lo status di rappresentante di una metafisica davvero religiosa, per cui egli restava rappresentante di una metafisica razionalistica nella quale Dio aveva unicamente una valenza gnoseologica – ossia incarnava unicamente la suprema Ragione. Evidentemente quindi la sua metafisica non fu affatto solo razionalista ma ebbe anche aspetti intensamente religiosi. E quindi essa, a causa di ciò, si pone abbastanza al di fuori dei caratteri della complessiva scuola di pensiero alla quale egli appartenne entro la storia della filosofia.
Su questa complessiva base cercheremo ora di riassumere i contenuti e gli elementi di valore che caratterizzano il pensiero di Malebranche una volta osservato da un punto di visto come quello di Rome. Ma dobbiamo preliminarmente chiarire che (entro questa recensione) il nostro principale obiettivo di ricerca è lo stesso di quello degli studi che abbiamo condotto finora su Malenbranche, e cioè comprendere bene il suo inquadramento in quella metafisica razionalista del suo tempo che oggettivamente si presenta con i caratteri di una solo apparente metafisica religiosa.

1- Malebranche e Cartesio. I caratteri generali del pensiero di Malebranche e la sua epistemologia o teoria della conoscenza.
Uno dei principali meriti di Rome (PM) è quello di porre a confronto i due filosofi mostrandoci come tra di loro vi siano state grandi convergenze e grandi divergenze allo stesso tempo. E con ciò possiamo riconoscere anche alcuni tra i caratteri più generali del pensiero di Malebranche.
Peraltro il più rilevante di tali caratteri (nettamente distintivo rispetto a Cartesio) è che per lui Dio è la Ragione stessa ma non è invece affatto l’Idea (Pensiero), bensì è l’Essere per eccellenza.
Il che ha immediatamente un grande significato, dato che il pensiero di Malebranche si pone nel solco dell’ontologia più che non nel solco della gnoseologia. Con la conseguenza che la sua appartenenza alla metafisica religiosa appare molto meno intensa di quella di altri pensatori del tempo.
Tuttavia Rome ci mostra per questo anche alcuni ben precisi motivi filosofico-dottrinari che lo giustificano. Uno di questi, come abbiamo appena detto, è che la filosofia di Malebranche sembra a prima vista un’epistemologia (come quella di Cartesio), ma poi, a ben guardare, appare essere soprattutto un’ontologia. E quindi – più che rientrare nei limiti della metafisica razionalista − si presta a venire fruttuosamente confrontata con un serie di altre ontologie antiche e moderne. Anzi addirittura si presenta come un metro di paragone paradigmatico per tali ontologie.
E questo può venire considerato lo spunto più rilevante per la comprensione di Malebranche che lo studio di Rome ci consente. Il problema al proposito è anche che il pensatore oscilla fortemente tra l’idealismo (in parte cartesiano ed in parte platonico) ed il realismo, sfuggendo però all’identificazione con entrambi. E questo, come abbiamo già visto, è forse l’aspetto più stupefacente, creativo ed originale di tutto il suo pensiero. Addirittura infatti molte volte la sua dottrina sfiora l’idealismo estremista di Berkeley. Alla fine dei conti comunque si può e di deve dire che la filosofia di Malebranche è di fatto in primo luogo realista sebbene con forti punte di idealismo. È su questa base che la sua metafisica resta in concordanza con l’ontologia cristiana, a sua volta giustificante il riferimento obbligato al mondo creato come luogo di esperienza probante. Almeno in una certa misura si tratta insomma di una visione filosofica tendenzialmente idealistica alla quale però non ripugnano affatto le prove di realtà [[Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V-VI p. 305-316]. Il punto è tuttavia che Malebranche non si aspetta affatto queste prove dai sensi (percezione), bensì molto più dalle verità matematiche applicate ai fatti. E questo perché per lui (come anche per Cartesio) solo queste verità sono indubitabili in quanto auto-evidenti. È soprattutto in questo senso, dunque, che il suo pensiero rientra senz’altro nei limiti della metafisica razionalista del suo tempo.
Molto in generale, comunque, Malebranche si distingue da Cartesio soprattutto perché considera gnoseologicamente fallimentare per definizione la conoscenza dell’anima (introspezione, auto-conoscenza, conoscenza interiore, esame interiore) e dunque la conoscenza del “Sé” (come lo definisce Rome). E di questo parleremo in un paragrafo a parte dedicato solo a questo importantissimo tema filosofico-psicologico. Comunque, sempre in grandi linee e grossolanamente, Malebranche non appare essere affatto diverso da Cartesio (Rome afferma infatti che egli comincia dove l’altro finisce) a causa della grande relatività del suo scetticismo ed empirismo; relatività che riconduce poi all’altrettanto evidente idealismo di massima del suo pensiero [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. E ciò riguarda la critica all’intendimento dell’idea come pura rappresentazione, che a sua volta riguarda molto da vicino la critica del pensatore all’innatismo delle idee sostenuto da Cartesio. Cosa della quale parleremo nell’apposito paragrafo.
Quello che è inoppugnabile è comunque il fatto che Malebranche si differenzia fortemente sia dalla metafisica (esteriorista) di Aristotele che da quella (interiorista) di Cartesio a causa del suo forte non-concettualismo e quindi non-intellettualismo. E questo è un altro elemento di forte originalità del suo pensiero.
In ogni caso la differenza principale tra Cartesio e Malebranche (e quindi anche il nucleo stesso della filosofia di quest’ultimo) sembra stare (almeno sulla base dello studio di Rome) in un’epistemologia nel complesso dai caratteri molto specifici, e che soprattutto non si lascia separare da una franca ontologia.
Uno degli aspetti di tale epistemologia consiste in ogni caso nella differenza del ricorso di Malebranche alla matematica (specie alla geometria) ed ai suoi principi, a confronto con quello di Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, Iab p. 7-19]. Ciononostante però il suo ricorso alla matematica si basa sullo stesso metodo della “Mathesis Universalis” di Cartesio, ossia sull’aspirazione ad una razionalizzazione della conoscenza che segua le linee portanti di questa scienza. In tal modo Malebranche si aspettava l’insorgere di una conoscenza razionale totalmente interiore basata sull’intuizione di idee intelligibili delle cose (che in Cartesio sono però le idee innate ossia create), che i sensi però non forniscono affatto, essendo essi per natura confusi ed inaffidabili. Tale conoscenza consiste insomma in una razionalizzazione delle cose che è basata sull’applicazione ad esse dell’esatta proporzione o relazione matematica, entro la quale in verità non vengono conosciute le cose bensì soltanto le relazioni tra le cose. Ad esempio l’estensione sensibile (caratterizzata dalla differente grandezza delle cose) è in gran parte solo illusoria ed apparente proprio in quanto è fatta appena di cose separate e non invece di rigorose e certe proporzioni matematiche. L’esempio classico addotto a tale proposito è l’illusione di una differente grandezza del sole a seconda della sua distanza dal nostro punto di osservazione.
In altre parole, come Cartesio, Malebranche aspirava fortemente ad una purificazione razionale della conoscenza del mondo esteriore. Eppure la conoscenza illusoria (ossia delle apparenze) non era altro che la più usuale e intuitiva ontologia del pensiero umano, intesa come la visione di un mondo di cose per nulla ancora razionalizzato dal soggetto. Ne consegue che la vera conoscenza del mondo è per lui unicamente basata su esatte relazioni tra idee, ed affatto invece sulla percezione sensibile di cose esteriori. Solo queste relazioni sono infatti immutabili a differenza della relazione tra cose. In questo senso quindi egli non fu per nulla empirista.
Ma qual è esattamente, allora, la differenza di questa visione rispetto a quella di Cartesio?
Essa consiste sostanzialmente nei seguenti aspetti: − 1) nel considerare l’idea il vero oggetto della conoscenza; 2) nel forte incidere in essa di un certo empirismo e sperimentalismo baconiano (che modifica sensibilmente l’impiego della matematica e la dottrina della “Mathesis universalis” così come anche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza) ; 3) nel già commentato forte incidere in essa di una franca ontologia (che pone in primo piano l’esistenza invece dell’essenza); 4) nella dottrina dell’occasionalismo che considera Dio l’unica vera causa svalutando così le cause fisiche (unicamente occasionali e circostanziali).
Il primo punto non richiede commenti in quanto rappresenta senza alcun dubbio l’aspetto più idealista ed anti-empirista della dottrina di Malebranche. Ma riguardo a questo punto va detto comunque he Malebranche e Cartesio si distinguono per l’atteggiamento gnoseologico positivo del primo e negativo del secondo. Il nostro pensatore infatti non attribuì alcun valore fondamentale al dubbio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. Ma a ciò si aggiungono altre differenze tra i due pensatori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201] che convergono tutte nel fatto (fortemente sottolineato da Rome) che Cartesio fu un radicale filosofo dell’essenza (come anche Duns Scoto e Suarez) per il fatto di ritenerla il fondamento della determinazione e quindi capace di generare l’esistenza. Per questo il pensatore postulò (diversamente da Malebranche) l’assenza totale di necessità in Dio e nell’Essere, l’inerzia della materia-estensione e la totale secondarietà del movimento all’estensione stessa (di per sé inerte). Si trattava insomma dei tratti di un Essere che consisteva totalmente nell’essenza e non nell’esistenza, e che quindi veniva determinato dall’essenza stessa per cui non era affatto di per sé determinato (e quindi necessario).
Riguardo al secondo punto Rome [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, IIc p. 25-35] ritiene che per Malebranche la matematica fu una perfetta ed insuperabilmente esemplare scienza universale (quanto ad evidenza, certezza esattezza e rigore), ma comunque restava del tutto insufficiente da sola (senza esperienza, fatti e prove sperimentali, cioè scienze fisiche). Ciò in quanto puramente essa di per sé (ossia da sola) è puramente a priori, e quindi per definizione non è provata.
Per rendere più chiaro il processo, ritenuto necessario in alternativa, è utilissima l’immagine fornitaci da Rome – Malebranche riteneva che si dovesse rendere tangibile l’intelligibile per mezzo di linee tracciate su carta (e ciò costituiva per lui la geometria stessa) ma sempre tenendo in mente un’idea. La studiosa sottolinea anche che Cartesio abbandonò egli stesso nel tempo lo sperimentalismo al quale inizialmente aveva creduto. lasciandosi andare a d un radicale apriorismo. Quindi in questo senso Malebranche e Cartesio partirono da radici filosofiche comuni. Tuttavia va detto anche che (come precisa Rome) Bacone ritenne disdicevole per l’esperimento anche la minima dose di apriorismo, e cioè anche la minima dose di deduzione; in quanto essa anticipava il risultato e quindi finiva per compromettere un risultato dell’esperimento che doveva essere invece del tutto aperto. E bisogna dire che la scienza empirica si attenne da allora in poi (e fino ad oggi) proprio a questo, costituendo così una linea teoretico-conoscitiva che non sentì mai le esigenze alle quale poi Cartesio avrebbe dato corpo.
Fatto sta che, in conflitto con tutto ciò, Cartesio sviluppò il metodo dell’esame interiore, in forza del quale tutto si aspettava che sarebbe stato conoscibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, III p. 41-54].
Ma è evidente che questa presa di posizione è del tutto incompatibile con l’esteriorismo empirista al quale prestò invece fede Malebranche (nel non trascurare l’apporto di Bacone alla conoscenza). A causa di questo suo empirismo (che lo induceva a non perdere mai di vista la verità dei fatti dell’esperienza), il nostro pensatore ritenne che le idee fossero presenti naturalmente nella percezione e non fossero state invece mai create ed infuse da Dio nella mente umana [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II p. 55-58, II, IIb p. 60-63]. E per questo si oppose all’innatismo delle idee cartesiano assumendo così una posizione decisamente criticista che poi avrebbe trovato espressione prima nell’empirismo e poi in Kant. A causa di ciò egli non fu mai tanto scettico quanto lo fu invece Cartesio, e quindi conservò (sebbene nel sospetto metodico) una certa fiducia nei sensi.
In particolare ciò riconduce di nuovo (secondo Rome) Malebranche a Bacone, dato che quest’ultimo esigeva il ritorno discensivo obbligato ai sensi (nell’esperimento) dopo aver contemplato l’intelligibile ed universale. Il che comporta il vincolo dell’intelletto ai sensi.
E questa fu effettivamente anche la posizione di Malebranche. Per Rome ciò fu anche il contrario della tendenza di Cartesio (affatto condivisa da Malebranche) a considerare unicamente l’uomo come fonte della verità, togliendo quindi al mondo ed alla Natura questo carattere. Cosa che Malebranche non poté condividere proprio a causa della sua tendenza al realismo con il valore attribuito all’esistenza, all’essere ed al mondo esteriore. Pertanto tale realismo, anche se nato nel seno dell’idealismo cartesiano, stava già preparando l’empirismo che si sarebbe sviluppato nel XVIII secolo. Ciononostante non va dimenticato che restò comunque in Malebranche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza. Ma comunque (come abbiamo appena visto), Rome sottolinea a tale proposito anche l’importanza della messa alla prova della pura conoscenza (relativa a puri oggetti ideali) mediante l’esperienza e l’esperimento, e quindi in relazione alle cose concretamente esistenti. E con ciò esprime anche la sfiducia nei sensi che Malebranche indubbiamente nutrì, senza però cessare di considerare i sensi come fondamentali per la conoscenza. Nonostante questo la sua teoria della conoscenza fu abbastanza apriorista da ritenere che la vera scienza si occupa di pura conoscenza (leggi universali). Tuttavia va tenuto conto che questo lo pensava anche uno scienziato naturale come Newton. In ogni caso, nonostante tutto ciò, per Malebranche il vero oggetto di conoscenza restò comunque l’idea.
Riguardo al terzo punto (ontologia) va detto che esso è intrecciato anche con il terzo in quanto investe il causalismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : I, IIIa p. 42-44 ]. Infatti − negando totalmente ogni causa finale ed ammettendo solo cause efficienti – Cartesio aveva abolito ogni legame tra mondo attuale ed Origine divina, considerando pertanto il mondo come spiegato autonomamente.
Ed a ciò si aggiunge che egli ritenne le cose come “estensione” in quanto esse sarebbero tali fin dall’inizio in primo luogo per essenza (ossia primariamente), e non invece in forza della creazione (ossia secondariamente). Insomma, anche se create, esse dovevano essere necessariamente così (in forza di un oggettivo dover essere ideale), cioè così come erano state pensate e poste in essere da Dio originariamente. Oltre a ciò – differenziandosi fortemente da tale concezione (certamente molto idealistica) − Malebranche non negò mai l’esistenza degli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, Ib p. 60-63]. E quindi assunse anche in questo una posizione realista nonostante l’idealismo della sua principale dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza.
Vedremo ulteriori aspetti di questo carattere della visione di trattando specificamente della sua ontologia.
Riguardo al quarto punto spicca in Malebranche un razionalismo basato specificamente sull’idea di Dio come vera Causa e quindi sull’idea della più perfetta relazione possibile riconoscibile tra potere (causa) ed effetto [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. In particolare, dice Rome, questa dottrina si poneva in conflitto con l’idea di Hume secondo la quale la causalità sarebbe la meno chiara e distinta delle idee. Invece, secondo Malebranche, una volta ricollegata al Dio-Causa, essa sarebbe una delle idee più chiare e distinte che ci siano. E ciò perché esprimerebbe la connessione necessaria sussistente tra l’Essere infinitamente perfetto e gli effetti, a sua volta fondata nel potere divino e nella sua volontà ovvero nella sua onnipotenza (che può essere solo efficace). Si tratterebbe insomma della più perfetta connessione possibile tra potere ed effetto.
E tuttavia ciò avviene per Malebranche perché lui di Dio teneva presente in primo luogo la perfezione dell’Essere e solo dopo il potere, ossia l’attività. Ma tutto ciò ci riconnette con la sua visione della relazione tra essenza ed esistenza, entro la quale egli divergeva totalmente da Cartesio. Per lui infatti la nostra mente non ha alcuna idea chiara del potere e quindi dell’attitudine creativa di Dio, ossia dell’efficacia creativa (che poi altro non è se non la relazione tra essenza ed esistenza). Al massimo invece abbiamo un’idea sufficientemente chiara di Dio come Essere (il che richiama poi la primarietà ontologica dell’esistenza). E così al massimo possiamo comprendere il fatto che Dio pone in essere delle esistenze. Al di fuori di questo ambito non vi era per lui altro che un vuoto, inconsistente e massimamente insicuro intellettualismo astratto (ossia un essenzialismo). Che poi effettivamente non fu molto diverso entro la Scolastica e la visione di Cartesio.
Tale dottrina (nel suo complesso) è a sua volta connessa con l’occasionalismo di Malebranche, ossia la totale svalutazione delle cause “occasionali” e cioè fisiche, ordinarie e circostanziali, e quindi appena circostanziali; dunque l’unica forma di causalità che ordinariamente (naturalisticamente) si prende in considerazione.
E l’aspetto epistemologico di questa complessiva visione è l’idea di Dio come Colui che è in possesso dei più perfetti possibili principi di conoscenza (ossia di nuovo le verità matematiche), dai quali derivano poi gli altrettanto perfetti principi dell’essere, in modo tale che ne scaturisce la creazione di un mondo anch’esso altamente perfetto. Ed è evidente che qui viene allo scoperto anche in Malebranche una delle principali aspirazioni della metafisica razionalistica (con capostipite in Leibniz), ossia l’aspirazione a dare conto della perfezione incontestabile del mondo creato da Dio, che a sua volta riposa sui principi eterni e trascendenti della matematica.
Eppure si delinea comunque qui la grande lontananza di Malebranche dalla dottrina di Dio come Causa Sui che invece Cartesio sostenne a spada tratta [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : III, I p. 120-128; Ia p. 120-127]. E ciò accade perché Malebranche, diversamente da quest’ultimo, considerò tali idee trascendenti come separate dall’essenza divina, per quanto esse fossero comunque presenti in Dio. È comunque difficile dire se egli, come Platone, considerò le idee come davvero onticamente trascendenti rispetto a Dio. Non lo lascia credere l’altro fondamentale aspetto della sua epistemologia, e cioè la dottrina della conoscenza delle cose per mezzo della visione delle idee in Dio. Ma comunque fu per questa serie di motivi che egli considerò Dio primariamente esistenza e non invece essenza. Il che comporta che la Sua sostanza non poteva venire caratterizzata dal principio del Causa Sui. Infatti se Dio (come pensava Cartesio) è primariamente essenza, allora è di per sé (ad opera della propria essenza) causa della propria esistenza, esattamente così come (sempre ad opera della propria essenza) è causa dell’esistenza delle cose.
Come poi vedremo Rome chiarisce comunque che per Malebranche l’occasionalismo costituisce in un discorso sostanzialmente metafisico applicato alla Natura ed al piano creaturale, ossia alla Fisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. E comunque si tratta di una dottrina fortemente razionalistica che emerge quando il pensatore descrive Dio come unica vera Causa di ogni cosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168].
Intanto il pensatore ritenne responsabile della distorta dottrina della causalità soprattutto l’antica metafisica di tipo scolastico, anch’essa razionalista ma in tutt’altro senso) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. Vale la pena di approfondire il perché di tale divergenza così come analizzato da Rome. Ebbene Malebranche accusò la Scolastica di comportarsi come l’uomo ingenuo, scambiando così per vere cause solo quelle immediate (come entro una causalità nella quale il corpo responsabile dell’urto viene considerato la causa). Oltre a ciò però questa scuola di pensiero (entro la propria dottrina della percezione) scambiò per cose reali quelle che invece erano solo forme (ossia essenze, e quindi cose intelligibili). Si trattava delle qualità intelligibili che costituivano le proprietà degli oggetti. Ed esse quindi non esistevano per davvero ma si limitavano a venire conosciute. Pertanto Malebranche contestava alla Scolastica di aver elaborato unicamente una gnoseologia, mascherandola però da ontologia. E come tale la contestava radicalmente.
Chiaramente sbiadiva in tal modo nella Scolastica il concetto di Dio-Essere. E in tale contesto le forme-qualità (intese come cause) risultavano essere causa di sé stesse (causa sui) facendo in modo che sbiadisse anche il Dio-Causa.
Rome sottolinea pertanto che (p. 164), almeno rispetto alla causalità, ossia rispetto al concetto di Dio-Causa, Malebranche è in effetti ben più cristiano della Scolastica, che invece si rifece quasi integralmente ad Aristotele più che alla Rivelazione cristiana. Laddove questo pensatore aveva preteso di far passare per Fisica quella che era soltanto una metafisica estremamente intellettualistica (e quindi per questo tendenzialmente razionalista). Ma a tale proposito Malebranche prese posizione anche contro la metafisica post-scolastica e moderna di Suarez.
E qui in particolare (il pensatore si oppone ad una visione metafisica della Natura (incentrata sull’intelligibile) che trascura non solo la Fisica ma anche il concetto di Essere. Sebbene la Scolastica abbia illegittimamente assimilato alla cosa concreta questa entità metafisica.
Nella lettura di Rome l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega comunque ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (in sé perfetto) domina di gran lunga su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo è stato Lui ad originare il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre perché quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti esso nemmeno esisterebbe). Pertanto l’occasionalismo ci mostra che in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Questa dottrina è insomma (almeno in un cero senso) una sorta di panteismo incentrato nel concetto teologico di Incarnazione.
Ed inoltre Malebranche (p. 171) sottolinea (diversamente da Spinoza) che non vi è assolutamente nulla di necessario nella causalità divina − come avviene invece entro la rigida connessione tra causa ed effetti. E questo è vero per lui in termini teologici, cioè a causa dell’incondizionata libertà divina; in conformità alla quale non vi è alcuna connessione necessaria tra la volontà divina – cosa per cui dalla volontà divina non ci può assolutamente aspettare ciò che umanamente ci si immagina. In termini però più propriamente filosofici con ciò sconfiniamo così di nuovo nell’ambito della concezione della relazione tra essenza ed esistenza. E non solo, perché sconfiniamo anche nell’ambito dell’estrema razionalizzazione di Dio che era stata posta in atto entro tale relazione. Infatti la relazione causa-effetto contestata da Malebranche assimila di fatto l’essenza al volere divino, che si trasforma in tal modo in un a priori razionale (la Ragione divina quale principio costitutivo del mondo) dal quale dovrebbe essere possibile venire dedotto tutto ciò che riguarda l’esistente. Ma per il nostro pensatore non è affatto così, dato che Dio certamente vuole l’esistente (ossia lo pronuncia come Parola) sebbene il suo volere resti inconoscibile ed imperscrutabile.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino ad essere la sua vera e primaria causalità) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza. E così si distanzia decisamente dal modello cartesiano (gnoseologico e non ontologico) in forza del quale si pretende di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza. Il che avviene per la via della pura conoscenza (cioè previamente o a priori), e non invece per la via dell’ontologia (cioè per constatazione ossia a posteriori). Quindi noi umani possiamo sì connettere l’esistente con il volere divino, ma non possiamo in alcun modo dedurre razionalmente il secondo al primo (in quanto a priori). E qui Malebranche riconosce un ben preciso limite cognitivo della mente umana – noi non abbiamo affatto un’idea dell’efficacia creativa nel consultare le verità archetipiche divine (ossia di fatto idee creative nella mente divina). Per questa serie di motivi, dunque, il senso del mondo e della creazione non può secondo lui venire cercato nel mondo delle essenze divine a priori.
Ebbene questo differenzia Malebranche senz’altro da Cartesio. Ma lo differenzia anche da Leibniz, sebbene Rome non lo dica. Viene infatti posto un limite ben preciso a quella teodicea metafisico-razionalista (connessa alla pretesa volontà di bene divina in relazione al migliore di mondi possibili) che non a caso ha trovato nel tempo proprio in tale ambito la sua più stridente contraddizione in relazione all’evidenza inoppugnabile del male dominante nel mondo creato.
Evidentemente invece il nostro pensatore non fu vittima di questo costrutto solo apparentemente filosofico-religioso, che invece era stato unicamente metafisico-razionalista, e pertanto ha preteso di prescindere senza scrupoli dalle evidenze dell’esperienza mondana. E quindi necessariamente il razionalismo religioso con la Rivelazione non aveva avuto nulla a che fare. Con la conseguenza che esso non può in alcun modo vantare il diritto di presentarsi come un’autentica filosofia religiosa.
In tale contesto, quindi, uno degli aspetti dottrinari centrali in Malebranche fu l’affermazione dell’assoluta non necessità dell’atto creativo (per lui un libero atto d’amore il quale conferisce l’esistenza all’essenza, o qualcosa) e proprio per questo non è per nulla intelligibile – cioè non si sa affatto perché avvenga [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201; IV, IVa p. 209-220].
E di nuovo qui il concetto di Essere divino addirittura sopravanza il concetto di Causa nel ricomprenderlo totalmente in sé. Infatti – attenendosi alla dottrina di Malebranche − si può anche dire che, nel creare, Dio aggiunge l’essenza ad un’esistenza in sé vuota di contenuto. Ma intanto, dato che Dio è in primo luogo Essere, risulta molto più vero il contrario, e cioè che Egli aggiunge l’esistenza ad un’essenza che altrimenti resterebbe tragicamente irrealizzata, ossia astrattamente vuota (e quindi utile unicamente per la conoscenza ma non, invece, per la comprensione del perché delle cose così come sono). Questo però può venire sostenuto solo se Dio viene considerato molto più Essere che non essenza – laddove nel secondo caso il suo agire diviene necessario e quindi condizionato. Invece la pienezza dell’aggiunta dell’esistenza all’essenza può esserci solo se l’agire divino è assolutamente incondizionato. Ed è alla fine per questo che il concetto teologico di «somiglianza» (dell’uomo a Dio) consiste, secondo Malebranche, in primo luogo nell’essere, e cioè, più concretamente nell’esistenza.
Da tutto ciò consegue quindi che l’occasionalismo non fu affatto una dottrina naturalistica (immanentista), per quanto essa non sia stata nemmeno l’opposto, cioè aprioristica (trascendentista). Per Malebranche, insomma, Dio non è assolutamente Causa in base e soprattutto in obbedienza al fenomeno naturale della causalità. Quindi, in ultima analisi, non si tratta affatto di azione bensì invece della semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia si tratta dell’esistenza stessa del mondo da Lui creato − essa è insomma di per sé causalità senza nemmeno bisogno di invocare la dimensione naturale del movimento.
Eccoci dunque di nuovo di fronte all’ontologia. La causalità per Malebranche è infatti ben più essere che non attività.

Oltre a tutto ciò vi è un aspetto che chiama di nuovo in causa molto direttamente la sua ontologia, e precisamente l’importante discorso (già finora più volte menzionato) riguardante la relazione sussistente tra essenza ed esistenza ed inoltre la diversa concezione di ciascuna di esse da parte dei due pensatori. Infatti, afferma Rome, l’epistemologia di Malebranche è in primo luogo un’ontologia “esistenziale”, secondo la quale anche l’idea stessa (che è essenza e rappresenta l’universale) “prima di tutto è” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Infatti per lui l’universale stesso ha una portata permanentemente ontologica e non epistemologica. Insomma l’universale (idea) è una realtà ontica. Pertanto l’idea cartesiana secondo la quale è sufficiente avere idee chiare e distinte (per affermare qualunque cosa) non può essere assolutamente vera. E ciò perché non bastano affatto chiarezza e distinzione interiori (e quindi svincolate dal mondo esteriore). Occorre invece la presa in considerazione dell’essere, e quindi esistenza, ossia un riscontro nel mondo esteriore. Ecco dunque perché Malebranche fonda le idee in Dio. Perché Egli è in primo luogo Essere. E come tale permette di conferire essere (onticità) ai principi della conoscenza che invece il platonismo concepisce solo come astratte forme intelligibili (prive di onticità). Per tale motivo il platonismo cristiano può, secondo Rome (ed in concordanza con Malebranche) essere la sola forma di fondazione della conoscenza. E con ciò abbiamo già gli elementi fondanti della dottrina della “visione in Dio”. In forza di essa infatti si parte prima dalla conoscenza di sé stessi e dei corpi, e poi si giunge all’idea di infinito alla quale segue infine la “visione” (intuizione) di Colui che è. Questa è propriamente la visione in Dio.
Ebbene, va però osservato che tutto ciò è estremamente coerente rispetto a Malebranche. Ma non rispetto a Platone. Dato che diversi pensatori hanno dimostrato che per lui l’idea non venne considerata affatto priva di onticità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 10-14 p. 87-91, I, 2-5 p. 107-111, I, 25 p. 127-128; Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010 , II,VI,III, p. 172-176 ; II, VI, IV, p. 176-186 ; II, VI, VI, p. 190-197; II, VII, I, p. 214-217 ; III, XI, II, p. 323-336 ; II, VII, II, p. 217-221 ; III, XI, III, p. 336-344 ; IV, XVII, I, p. 544-548 ; IV, XVI, II, p. 501-511]. E questa era una precisazione che andava assolutamente fatta.
Ma comunque questa serie di osservazioni di Rome ha un’estremamente importante conseguenza conoscitiva, e precisamente teoretico-conoscitiva. Il che è di grande importanza se studiamo Malebranche partendo da quelle acquisizioni della filosofia moderna che hanno contraddetto frontalmente questa evidenza nel porre la quasi tragica problematicità della conoscenza. Infatti in forza di ciò la conoscenza in Malebranche coglie necessariamente gli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Tutto ciò sta in relazione alla diversa concezione della mente da parte di Malebranche e Cartesio. Il secondo infatti concepì la mente sostanzialmente come pensiero puro, ossia (come dice Malebranche nella sua critica) come intelletto, coscienza ed in ultima analisi “concezione”. Il che comportava poi un «cogito» inevitabilmente dualistico in quanto incentrato nell’isolamento del soggetto rispetto al mondo, ossia nella conoscenza puramente interiore. Insomma per Cartesio la dimensione intellettuale era da considerare il carattere essenziale della mente. Ebbene tutto ciò era invece per Malebranche appena “sentimento interiore”, ossia una facoltà ben più prossima alla percezione che non al pensiero puro. Proprio per questo, commenta Rome, è stato da lui attribuito un empirismo anche in maniera alquanto esagerata.
In ogni caso però – nel concepire il sentimento interiore come carattere essenziale della mente – il nostro pensatore considerava la mente stessa come prodotto delle modificazioni prodotte dalla Natura sull’anima. Ed eccoci quindi al cospetto d [] ella conoscenza (quale carattere essenziale della mente) sulla base nell’inevitabile connessione tra spirito e sensi ed anche tra spirito e volontà.
È evidente quindi che, mentre Malebranche concepì l’orientamento esterioristico della mente, Cartesio invece ne concepì l’orientamento unicamente interioristico. Ne deriva quindi in Malebranche una teoria della conoscenza estremamente realistica, efficace, effettiva, che resta al riparo da qualunque problematicità e negatività, e quindi è unicamente positiva. Ed essa naturalmente relativizza fortemente il pensiero puro come carattere interioristico della mente.
Su questa base ed in tale ambito, entro il discorso di Rome, più avanti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299], raggiungiamo il nucleo stesso della dottrina di Malebranche, che consiste in una teoria della conoscenza nei fatti né idealistica né realistica, ma basata comunque sulla teoria delle idee e quindi almeno formalmente idealistica. Ecco che a nostro avviso la grandezza di questo filosofo consiste in proprio questo – ossia nell’aver adottato una dottrina idealistica (platonica) senza però mai restare invischiato in essa, ossia nelle sue più estremistiche conseguenze. Questo mostra tuttavia anche che Malebranche non fu mai per davvero un empirista, e che inoltre molto probabilmente pose le basi (per mezzo di una teoria della conoscenza che punta all’oggetto intelligibile) ad una filosofia moderna com’è quella di Husserl. Proprio in tale contesto possiamo infatti cogliere il motivo ed anche il nucleo dell’idealismo del nostro pensatore (teoria delle idee), che non appare quindi essere una scelta né causale né ideologica. Malebranche insomma sa che la percezione è del tutto insufficiente per la conoscenza dell’oggetto da parte del soggetto. Perché essa è connessa di fatto alla sola dimensione esteriore, limitandosi così ad appena sfiorare la superficie del soggetto per mezzo dei sensi. Ma oltre questo limite essa non va, e quindi resta di fatto fuori del soggetto. Egli comprende quindi che, per concepire una conoscenza efficace ed autentica, bisogna invocare qualcosa di interiore, ossia l’intelligibile. E questo qualcosa sono le idee in quanto rappresentative degli oggetti. Ecco allora che la conoscenza degli oggetti per mezzo di idee si basa in effetti sulle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi, e non invece sulla mera percezione movente dagli oggetti esteriori. La conoscenza è dunque connessa in verità a tali modificazioni, e non invece alle semplici qualità degli oggetti esteriori che sollecitano i sensi (come pensava la Scolastica e come pensa anche l’uomo ingenuo). Insomma Malebranche intuisce che la teoria della conoscenza esige la postulazione di un passaggio ulteriore oltre la sollecitazione dei sensi da parte delle qualità degli oggetti. Esige insomma la dimensione interiore (cioè le modificazioni indotte dai sensi nell’anima, entro la quale vengono colte le idee), nel mentre comunque prende atto della realtà inoppugnabile della dimensione esteriore. Dunque essa non può essere né unilateralmente idealista né unilateralmente realista. Ebbene, una volta portato questo discorso alle sue estreme conseguenze, dobbiamo ritrovarci necessariamente di fronte alla “visione in Dio”, e cioè della conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio. Perché in questo modo a quanto appena detto viene aggiunto il fattore della trascendenza della conoscenza – soltanto in virtù della quale il conoscere è al riparo delle distorsioni indotte dal divenire, le quali sono fonte di illusione (come nel caso della differente grandezza di oggetti posti vicino o lontano). Del resto però per Malebranche non sarebbe sufficiente nemmeno la pura deduzione delle cose da principi trascendenti e razionali a priori (come postulato da Cartesio), dato che essa prescinde totalmente dalla realtà del mondo esteriore (ossia sfugge ad ogni prova, e quindi si presta a pensare oggetti inesistenti e quindi irreali). Nello stesso tempo però la conoscenza delle cose per mezzo di idee (che completa e non contraddice la contraddizione) ci permette di conoscere il vero oggetto, e cioè quello intelligibile; il quale sfugge alle distorsioni illusorie indotte dal divenire. Tutto ciò costituisce pertanto una vera e propria “rivelazione naturale delle cose” entro la quale gli a priori sono altrettanto necessari quanto i sensi (percezione). Rome non manca di sottolineare che tutto ciò assume in Malebranche una dimensione fideistico-religiosa e mistica (la fede nel mondo creato da Dio). Ma nonostante questo non manca di essere (a differenza di quelle di Cartesio e della Scolastica) una teoria della conoscenza estremamente affidabile ed anche pragmatica.
In particolare, ella dice, in essa l’esistenza degli oggetti viene colta nella Volontà di Dio, mentre la loro essenza nella sua Ragione. Ritroveremo tutto questo poi nel concetto di “estensione intelligibile”. Ancora una volta è evidente qui l’anticipazione di quella quota di empirismo che si sarebbe manifestata nella filosofia di Kant e successivamente anche nell’aspirazione husserliana ad un realismo in equilibrio con l’idealismo. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva di Malebranche appare essere ben più equilibrata e ragionevole di queste ultime, e quindi del tutto esemplare. Anche perché essa concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben motivato.
Su questa base risulta del tutto comprensibile come Rome faccia emergere la contraddizione radicale dell’empirismo realista da parte di Malebranche, mostrandoci in tal modo che l’attribuzione di empirismo al nostro pensatore è stata in realtà abbastanza superficiale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. Non a caso il punto è qui proprio il realismo religioso, nel contesto del quale la conciliazione tra Ragione e Fede va posta per il nostro pensatore in maniera radicalmente diversa dal modo in cui essa venne posta entro la Scolastica. Infatti, per quanto possa apparire paradossale in base a tutto ciò che abbiamo visto finora, Malebranche afferma che la credenza nell’esistenza di un mondo esteriore rappresenta uno dei più grossolani errori mai commessi in filosofia ed anche in teologia. Ed il motivo di ciò risiede ancora una volta nel nucleo (idealistico) della sua teoria della conoscenza, e cioè nel postulare che sono le idee e non le cose (esteriori) il vero oggetto di conoscenza, ovvero (come abbiamo visto) unicamente l’oggetto intelligibile.
Per lui infatti (sulla base di quanto abbiamo già visto) la Ragione può realmente venire conciliata con la Fede. Ma ciò risulta impossibile sia se (come in Cartesio) la conoscenza di basa sulla sola Ragione, sia se (come avviene nella Scolastica) la conoscenza si basa sui soli sensi.
In questa sede infatti egli contraddice ogni realismo ed empirismo (assumendo così una posizione insieme idealistico-cartesiana e giansenista) nel contraddire la fede (naturale e ingenua, che è basata sui sensi secondo la Scolastica) nel mondo esteriore, e nel sostenere però (diversamente da Cartesio) la perfetta concordanza tra Ragione e Fede. In un’ultima analisi egli ritiene che siano le Scritture (e non i sensi) a rivelarci l’esistere indubitabile del mondo esteriore. Nel primo caso infatti prevale in solo criterio interioristico (estremisticamente idealista), mentre nel secondo caso prevale invece il solo criterio esterioristico (estremisticamente realista, per quanto ammantato di metafisica), con la conseguenza dell’avvaloramento di una visione del mondo e dell’essere che coincide totalmente con quella ingenua. In entrambi i casi, dunque (aldilà delle affermazioni formali delle due scuole), Ragione e Fede devono necessariamente divergere.
Pertanto (come poi vedremo di nuovo a proposito della sua teoria della percezione) non va trascurato che nel pensiero di Malebranche si delinea in ogni caso un realismo esterioristico incentrato sull’esistenza delle cose, che, secondo il pensatore, la percezione certamente ci rivela.
Ma intanto qui ci troviamo di fronte ad un insieme di empirismo ed anti-empirismo, o anche scetticismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV-VI p. 299-316]. Ci troviamo insomma in tal modo di fronte alla “rivelazione naturale delle cose“ della quale abbiamo prima parlato. Che Malebranche postula – concedendo così alla percezione il ruolo che ad essa legittimamente spetta, fino a rivelarci un effettivamente esistente mondo “fuori di noi” – soltanto nella misura in cui il coglimento percettivo delle cose esteriori non contraddica il ben più rilevante coglimento dell’idea quale cosa. Ciò significa che per lui lo spirito (soggetto cosciente-conoscente) sta solo condizionatamente in relazione con la cosa esteriore, e cioè solo nella misura in cui la cosa esteriore si presenta a noi come idea. Solo in questo caso infatti la percezione assume il reale ruolo conoscitivo che le spetta di diritto, rivelandoci così un davvero incontestabile mondo esteriore.
E proprio questa felice costellazione conoscitiva corrisponde alla “rivelazione naturale delle cose”, entro la quale l’affidabilità dei sensi viene riconfermata per l’unico motivo che a noi (entro l’anima) la cosa si presenta come idea.
Per questo motivo molto giustamente Rome sottolinea che è stato molto poco giustificato attribuire a Malebranche una dottrina entro la quale le idee non sarebbero altro che “copie” (rappresentazionali) delle cose esteriori. Dottrina che svaluterebbe totalmente il ruolo della percezione, saltandola a piè pari per stabilire invece una relazione diretta tra la cosa esteriore e l’idea. Ebbene la chiave di questa complessiva questione consiste nel fatto che Malebranche attribuì un ruolo conoscitivo alla percezione, nel postulare (diversamente da Cartesio) che l’idea è di fatto già presente nell’oggetto che la percezione intanto ci rivela. Il che corrisponde poi alle facoltà mentali costituite dall’attenzione e dalla concentrazione (invece che del puro pensiero).
Per lui sono infatti tali facoltà mentali quelle che configurano l’idea chiara e distinta della quale abbiamo assoluto bisogno per concepire un oggetto. E dunque in tal modo il ruolo della percezione non è altro che quello di rivelare l’idea contenuta nell’oggetto. E proprio su questo si basa il metodo induttivo nel quale egli credette nel contesto di uno sperimentalismo simile a quello baconiano. Ebbene ciò non significa affetto che la percezione equivalga alla cognizione. Ma essa almeno introduce validamente a quest’ultima. Va però considerato che essa si limita a rivelarci l’esistenza delle cose, e non la loro essenza. Con tutti gli errori ed illusioni da ciò comportati. Pertanto, oltre la percezione, la conoscenza resta per Malebranche bisognosa di quelle idee trascendenti (prevalentemente matematiche) dalle quali soltanto scaturisce la vera certezza.
Ecco allora che l’attenzione diverge di fatto dai sensi, i quali ci conducono indubbiamente all’errore, allontanandoci dalle idee delle cose. E ciò segna i limiti del valore della “rivelazione naturale delle cose”, la quale ci permette di cogliere l’indubitabilità del mondo esteriore, ma solo entro i limiti della sua esistenza, trascurando così totalmente la rivelazione dell’essenza delle cose (ossia il loro «cos’è?»). In altre parole il mondo esteriore ci viene rivelato dalla percezione in maniera assolutamente indubitabile (per la via dell’esistenza), sebbene la rivelazione naturale sia indubbiamente vera solo entro le leggi della Natura. Il che corrisponde poi ad una dimensione che rivela sì l’indubitabile (l’incontestabile esistenza del mondo esteriore ossia esistente) ma intanto non ha alcun vero valore gnoseologico in quanto non riesce a rivelarci l’essenza delle cose. Cosa alla quale però invece (almeno secondo Malebranche) Cartesio aspira solo illudendosi, dato che ciò non è affatto alla portata dell’uomo naturale. Infatti tutto ciò è per lui il prodotto di una corruzione che è avvenuta con il Peccato di Adamo e la Caduta, e quindi ha reso naturalmente deficitaria la conoscenza umana. Ecco quindi che di nuovo la dimensione teologico-religioso incide in modo decisivo entro la teoria della conoscenza di Malebranche.
Abbiamo appena parlato del legame esistente per il nostro pensatore tra spirito e oggetti esteriori. Quest’ultimo corrisponde in effetti anche al legame esistente nell’uomo tra lo spirito (o anche pensiero) e la volontà [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. E questo è realmente uno degli aspetti più fondamentali della teoria della conoscenza di Malebranche. Specie perché esso spazza via qualunque problematicità della conoscenza e dunque qualunque moderno scetticismo gnoseologico. Il nostro pensatore ritiene infatti che tra questi due elementi vi sia un legame obbligato nel senso specifico della conoscenza di un oggetto esteriore (p. 250-252). E se non fosse così il pensiero resterebbe del tutto vuoto e quindi sarebbe non solo inefficace ma anche inutile – sostanzialmente perché esso non sarebbe deputato alla conoscenza di un oggetto. Più ampiamente si tratta comunque dell’affermazione di un obbligato legame tra pensiero e sensi, con la contraddizione frontale del dualismo cartesiano. Tale problema si riconnette comunque alla già discussa definizione della mente – corrispondente alla domanda circa il pensiero puro come possibile essenza della mente (che Cartesio affermò senza mezzi termini). Rome ci mostra al proposito che Malebranche fu su questo sostanzialmente d’accordo con Cartesio – specie nel ritenere la sostanza un attributo che ne rendeva possibile l’esistenza nel mentre però ne definiva preliminarmente l’essenza. Per questo motivo anch’egli (come Cartesio) ritenne il pensiero come carattere “spirituale” della mente. E però egli si rifiutò di accettare il legame causale sussistente tra essenza ed esistenza. E quindi finì per concepire la sostanza come ben più esistenziale che non essenziale. Per tale motivo, quindi, a suo avviso, il pensiero da solo (luogo dell’essenza) finiva per girare a vuoto (rivelandosi così inutile ed inefficace) se non prendeva contatto con l’esistenza, ossia con la cosa reale. Ed in questo senso quindi il pensiero doveva necessariamente agire come conoscenza degli oggetti.
Connesso con ciò è comunque il tema della presumibile migliore conoscenza della mente (conoscenza interiore) rispetto alla conoscenza del corpo (conoscenza esteriore), che Cartesio aveva affermato in maniera altrettanto dogmatica. Rome ci mostra come anche a tale proposito Malebranche fu in via di principio d’accordo con Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. E tuttavia vide le cose anche in modo opposto (p. 260). E ciò sulla base del fatto che (come abbiamo già visto) egli ritenne l’introspezione appena un “sentimento interiore”, e quindi una sorta di obbligata percezione dell’interiorità animica. Il che stava in relazione con la sua svalutazione della conoscenza interiore. Pertanto si può dire (sulla base di Rome) che Malebranche accettò il puro pensiero come «cogito»,, ossia conoscenza immediata dell’anima (includente dubbio, immaginazione, sensazione, volontà). E tuttavia solo in via di principio. Perché intanto, a suo avviso, ciò non bastava affatto alla conoscenza completa dell’anima, in quanto diretta. Invece noi siamo costretti ad attribuire all’anima le qualità sensibili attraverso un pensare (ragionamento) solo indiretto. Dato che (guardando all’anima) non possiamo conoscere lo stato della qualità da essa contenuta. E tutto ciò rappresenta quindi per Malebranche il “sentimento interiore” quale “semplice visione” (“simple vue”).
In relazione con ciò, secondo Rome, vi è il fatto cruciale in virtù del quale, mentre Cartesio considerò il pensiero, quale atto mentale, come indistinto rispetto al proprio contenuto, invece Malebranche lo considerò come strettamente legato al proprio contenuto, e quindi legato anche inscindibilmente alla percezione e quindi alle qualità percepite, ossia all’oggetto esteriore.
E questo riafferma di nuovo l’assoluta non problematicità della conoscenza, oltre ad anticipare la teoria della conoscenza husserliana (intenzione) entro la quale l’atto di pensiero è inscindibilmente legato ad un oggetto esteriore (intenzionale) situato costantemente ai limiti della coscienza. È per questo che il realismo di Malebranche coincide ancora una volta con quello di Husserl.
In Rome ritroviamo comunque un’ulteriore importante definizione del pensiero come atto di concezione diverso dal contenuto della concezione nel contesto della teoria della conoscenza di Malebranche (p. 256). Ella sottolinea infatti che il nostro pensatore (diversamente da Cartesio) divise costantemente il pensiero dai propri contenuti, e quindi anche il contenuto della concezione (quale atto mentale) dai propri contenuti. Per tale motivo il puro triangolo geometrico non era per lui equivalente (come in Cartesio) allo stesso pensiero puro, ma costituiva invece un’oggettualità separata dalla sostanza del pensiero. Per cui era impossibile, a suo avviso, la naturale convergenza del pensiero (nel corso dell’introspezione) tra pensiero ed oggetti supremamente intelligibili.
E bisogna considerare che proprio questo fu per Cartesio il fondamento della certezza ottenibile per mezzo dell’introspezione – ossia il coglimento di un oggetto che equivaleva totalmente all’atto del pensiero.
La contestazione di questo evitava quindi in Malebranche l’equiparazione dell’oggetto ideale con la sostanza stessa del pensiero o pensare (intellettuale), mantenendo così il contenuto del pensiero nella sua oggettualità indipendente dall’atto di pensiero. Il che comporta nuovamente l’impossibilità di una conoscenza umana della mente (auto-conoscenza o conoscenza interiore), ossia l’avere un’idea distinta di essa (come ritiene invece Cartesio). Tutto ciò rende dunque impossibile l’auto-conoscenza, o conoscenza interiore, dalla quale Cartesio si aspettò la purificazione assoluta della conoscenza stessa. In tale contesto viene pertanto in primo piano l’atto mentale invece del suo contenuto (ma tra loro rigorosamente separati). Ne consegue pertanto che, secondo Malebranche, noi non possiamo avere un’idea distinta della mente (in quanto sostanziale puro pensiero) − anche se essa consiste in matematica, resta non accessibile alla nostra conoscenza.
E ciò relativizza fortemente la sua convergenza con l’idea di Cartesio secondo la quale la conoscenza della mente sarebbe per definizione migliore di quella del corpo.
Malebranche comunque (diversamente da Spinoza) considerò l’oggetto ideale comunque trascendente e non immanente, e quindi diverso dall’estensione e dalla corporeità. Quindi non ebbe affatto una psicologia naturalistica.

In ogni caso Malebranche e Cartesio differiscono gnoseologicamente soprattutto per la dottrina della “visione in Dio”, della quale parleremo però in paragrafo specifico. Quindi, aldilà di tutto ciò che abbiamo visto, l’aspetto più rilevante della sua epistemologia fu la sua dottrina della “visione in Dio” delle cose.
Nei paragrafi seguenti verranno comunque esposti altri aspetti della dottrina di Malebranche che sono riconducibili alla sua originale epistemologia. Tra questi (a proposito della “visione in Dio”) constateremo una delle principali differenze tra Cartesio e Malebranche, ossia la necessità del potere divino in luogo della sola attitudine creativa di tipo puramente intellettuale. Il potere è infatti ciò che non solo genera le cose dal nulla ma anche le modifica. Ed in entrambi i casi si tratta di deviazione da ciò che è intellettualmente prevedibile, ossia esiste a priori così come a posteriori.

2- La dottrina delle idee di Malebranche e la sua teoria della mente.
La critica di Malebranche alla dottrina delle idee cartesiana si caratterizza per la negazione dell’idea come pura rappresentazione ed inoltre per la contestazione dell’innatismo creazionista delle idee [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. Infatti, come abbiamo già visto, nel concepire l’idea, secondo Rome, Cartesio confuse l’idea stessa con l’atto di pensiero e con il suo oggetto.
E così negò totalmente l’onticità dell’idea considerandola in tal modo come puro concetto, ossia una pura rappresentazione senza alcun corrispettivo oggettivo-oggettuale. Per Cartesio dunque l’idea era di pura natura spirituale e non aveva necessariamente alcuna relazione con gli oggetti in quanto atto conoscitivo. Malebranche la pensava invece in modo completamente diverso. Quanto poi all’innatismo delle idee egli riteneva che l’idea innata (e quindi necessariamente creata da Dio partendo dal nulla) deve essere finita per definizione. E quindi come tale non può affatto contenere la molteplicità delle cose, ossia gli oggetti reali rappresentati dalle idee.
Con tale aspetto dottrinario siamo quindi ancora nel pieno dell’epistemologia di Malebranche, e pertanto anche della sua gnoseologia e teoria della conoscenza. E questa dottrina è in effetti quella in relazione alla quale il nostro pensatore si presta di più a venire giudicato.
Non a caso nei nostri precedenti scritti abbiamo commentato il suo pensiero specie in relazione a tale aspetto. Si delinea infatti qui chiaramente un idealismo. E quest’ultimo a prima vista sembra caratterizzare totalmente il pensiero di Malebranche. Di esso del resto Rome prende atto nell’appaiare il nostro pensatore sia a Cartesio che anche a Berkeley [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266, VI, I p. 279-284, VI, III p. 292-299, VI, VIa p. 310-313]. In base a tale idealismo vengono infatti svalutati in un solo colpo sia la percezione sia anche gli oggetti del mondo esteriore che la sollecitano. Per cui in definitiva sembra che l’esistere del mondo esteriore sia meramente relativo alla sua effettiva percezione, secondo il famoso «esse est percipi». Cosa per cui sembrerebbe a prima vista impossibile che in Malebranche possa riscontrarsi anche un empirismo. Eppure, come abbiamo visto più volte, quest’ultimo esiste per davvero, dimostrando così che il suo pensiero fu realmente molto multiforme ed estremamente originale.
L‘Autrice ci fornisce comunque un’immagine di insieme della teoria delle idee di Malebranche, mostrandoci che essa fu sostanzialmente metafisica (come lo stesso occasionalismo), e quindi restò fortemente legata alla teologia oltre che all’epistemologia.
Non va intanto dimenticato che comunque Malebranche e Cartesio differiscono in primo luogo proprio in virtù della dottrina delle idee: − infatti per il primo esse non sono innate né create (sebbene non vengano dai sensi), mentre per il secondo sono innate e create. Il che significa che per il primo le idee sussistono in una maniera oggettiva ed insieme trascendente, sottraendosi pertanto alla loro collocazione nella mente umana (come dotazione fornitale da Dio). Le idee sono insomma per Malebranche vere e proprie oggettualità intelligibili radicalmente trascendenti. In estrema sintesi per Malebranche le idee risiedono fuori della mente mentre per Cartesio risiedono in essa.
In ogni caso la principale obiezione di Malebranche all’innatismo delle idee in Cartesio (idee come realtà oggettive create ed infinite) consiste nell’ammissione che nella mente esiste un’idea di infinità ma non invece una molteplicità di idee infinite [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIg p. 88-100].
Un aspetto fondamentale della questione delle idee è comunque (secondo Rome) la parziale accettazione (a livello della fisiologia della mente) da parte di Malebranche di quella che la studiosa definisce come la quarta teoria delle idee (ossia quali modificazioni puramente interiori dell’anima). Tuttavia è anche vero che egli nello stesso tempo la rigettò da un altro punto di vista. in quanto espressione dell’orgoglio umano (somiglianza dell’anima a Dio di tipo scolastico, ma in parte anche cartesiano) ed anche in relazione alla differenza tra idea di infinità e presenza di infinite idee nella mente. E nelle obiezioni a questa teoria Malebranche si manifesta come più realista che non idealista [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIIb p. 101-103].
L’argomento principale per il pensatore consiste nel fatto che la mente umana non è affatto infinita − come lo è invece la mente divina, motivo per cui solo quest’ultima può contenere la molteplicità infinita delle idee − e per tale motivo non è neanche estesa, ossia in alcun modo spaziale. Non costituisce insomma affatto un modo intelligibile dell’estensione (la «res cogitans») come invece è per Cartesio. Per questa serie di motivi è del tutto ovvio che essa non possa ospitare alcuna molteplicità intelligibile che comunque è immanente, ossia estesa (cioè le idee innate in quanto create). E tutto questo sta di nuovo in relazione con la sua concezione della mente, della cui dotazione ideale egli sottolinea fortemente la limitazione riduttiva. Infatti le idee non sono per lui altro che rappresentazioni, ossia “stati” della mente, sebbene posseggano comunque una reale onticità. E come tali esse sono oggetti ideali che devono necessariamente divergere onticamente dagli oggetti reali esteriori che esse intanto rappresentano. In altre parole esse non stanno affatto per l’oggetto reale, per quanto siano comunque delle oggettività intelligibili (come per Platone).
In tal modo Malebranche privilegia la sostanza ideale rispetto al modo della mente. E nel complesso svaluta il modo della mente in relazione all’evidenza che la mente stessa non è quantitativa e quindi non può esprimere (come modo) l’oggetto esteriore senza dover coincidere con tale quantità. Con ciò Malebranche si oppone quindi al soggettivismo idealista di Cartesio – per il quale di fatto l’idea sta per l’oggetto reale (laddove quest’ultimo per lui non è altro che puro pensiero).
In definitiva comunque (come abbiamo già accennato) la dottrina delle idee di Malebranche culmina nella dottrina (gnoseologica, epistemologia e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio” che tratteremo in paragrafo specifico. Ed in questo contesto il pensatore postula la dipendenza delle menti umane da Dio per conoscere verità immutabili con certezza [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, XI p. 116-119]. Queste idee vengono però secondo lui semmai rivelate da Dio, ma non create nella mente, e quindi non sono affatto innate. Le idee cioè risiedono nel regno divino trascendente e non nella mente.
Secondo Rome si notano anche qui tracce di un platonismo che probabilmente fu di forte tradizione cristiana, risalendo a pensatori come Agostino e Tommaso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Tale tendenza del pensiero vedeva in particolare nella verità una realtà trascendente oggettiva (idee) alla quale anche Dio stesso si riferisce, pur essendo però esso stesso la Verità (e quindi contenendo in qualche modo le idee invece di esserne trasceso). A tale proposito dobbiamo perciò supporre ipotizzare che Malebranche non abbia superato i limiti della Rivelazione cristiana nel pensare al rapporto del Padre (quale Essere) con il Figlio-Logos-Sapienza, ossia colui che meglio incarna le Idee. Pertanto non deve aver concepito una reale trascendenza ontologica delle Idee rispetto all’Essere divino (cosa che avrebbe costituito un’eresia). Quello che è certo è però che Malebranche svincola le idee dall’Essere divino ossia dalla sua essenza (che invece Cartesio considerava equivalente totalmente ad esse), e quindi può considerarle come qualcosa di funzionale entro l’essere ed agire divino. Esse sono infatti per lui appena frutto della Volontà divina e non del suo Essere. E proprio per questo le idee possono essere radicalmente trascendenti in quanto assolutamente intangibili. Tanto che perfino la Volontà divina si serve di esse ma non le incarna mai del tutto. Pertanto esse sono intangibili nel senso di una radicale oggettività. Motivo per cui la Volontà divina può servirsi di esse solo così come sono (in quanto oggettive, immutabili ed universali verità matematiche) ma non può plasmarle a suo piacimento nella maniera arbitraria che era stata concepita da Cartesio. Insomma per lui non è nemmeno pensabile l’azione di un “genio maligno” di natura pseudo-divina che generi verità contrarie alla Ragione [René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976, I p. 105-115, II p. 117-133, III p. 135-164, IV p. 165-179] . Le idee (o verità eterne) esistono infatti prima che qualunque Volontà divina possa generarle o plasmarle.
Anche per questo esse non possono venire integralmente create da Dio, ossia non possono venire create dal nulla (e cioè non possono dipendere integralmente dall’illimitato ed incondizionato potere divino). È in questo senso che esse sono per lui “forme eterne”. Insomma Dio non viene certo ontologicamente trasceso dalla realtà delle idee (come supposto da Platone), ma comunque nell’ospitarle in sé, rispetta scrupolosamente i criteri oggettivi ed universali di razionalità che anche per Lui sono da considerare inderogabili. Per tale motivo Rome sottolinea che, a tale riguardo, la filosofia cristiana di Malebranche si approssima al creazionismo divino concepito da Tommaso e si discosta invece dall’esemplarismo di Bonaventura (secondo il quale Dio avrebbe creato appena delle idee che sono modello di essere e non invece le cose stesse). Comunque la studiosa non manca di sottolineare che in questo ambito sono tradizionalmente insorte una serie di aporie riguardanti la possibile limitazione della Volontà divina.
In ogni caso, secondo l’Autrice, la dottrina delle idee di Malebranche tocca un aspetto basilare della teoria della conoscenza in generale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VII p. 90-91], e cioè il modo in cui il pensatore intende la teoria della conoscenza, la gnoseologia e l’epistemologia. La quale si incentra per lui nella conoscenza ordinaria dell’oggetto esteriore e quindi nel fondamentale ed imprescindibile atto di riconoscimento. In particolare si tratta del fatto (che già abbiamo evidenziato) che la percezione deve già contenere un’idea della cosa, ossia un contenuto intelligibile (che prescinde totalmente dalla previa creazione divina di idee nella mente).
Se così non fosse, infatti, all’anima (quale momento conoscitivo ben inferiore alla mente, ossia all’intelletto ed al pensiero) sarebbe impossibile riconoscere l’universale (ovvero l’essenza) che è connesso all’oggetto dal quale essa viene eccitata ad opera della percezione. Il che significa che il riconoscimento non avviene affatto a priori, ovvero in virtù delle idee create da Dio nella mente, e quindi non parte affatto dall’alto (dalla mente) ma avviene già nel contesto della percezione.
Proprio in relazione a questo egli concepisce (come Platone) un regno di idee oggettive e trascendenti al quale si riferiscono sia la mente umana che la mente divina. E così contraddice Cartesio, il quale, nel ritenere le idee create da Dio, ritiene uguali il mondo di idee presenti nella mente umana e quello presente nella mente divina.
Ma comunque, secondo Rome, la particolarità della dottrina delle idee in Malebranche sta più in generale in relazione al suo intendimento di Dio come in primo luogo “Colui che è” ovvero Essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. La differenza (estremamente rilevante) rispetto alla dottrina cartesiana delle idee create consiste a tale riguardo nel fatto che Cartesio condiziona strettamente la creazione divina del mondo alla conoscenza di Dio da parte di sé stesso – si tratta insomma dell’atto di pensare sé stesso da parte di Dio. Ed in tal modo vincola strettamente le idee all’essenza divina e non invece alla sua esistenza. In questo senso per lui Dio costituisce un insieme inscindibile di ontologia e gnoseologia. E quindi, nel conoscere sé stesso, Dio si riconosce come una verità che equivale totalmente al mondo esteriore – senza quindi alcun bisogno che le idee passino per la propria realizzazione in cose. Il che comporta che esse possano essere appena mezzi di conoscenza e non invece radice di esistenza. Per Malebranche invece le idee sono “super-essenziali” in quanto sono in primo luogo destinate alla realizzazione, e pertanto sono in primo luogo idee di cose (più che concetti deputati alla conoscenza). Insomma le idee sono per lui destinate in primo luogo all’attualizzazione ed all’esistenza temporale. E pertanto più che realtà gnoseologiche sono possibilità di essere. Esse pertanto non restano affatto nel campo dell’essenza ma sconfinano invece sempre in quello dell’esistenza.
Dunque, secondo Rome, entro tale epistemologia indissolubilmente legata all’ontologia (ma in maniera ben più corretta di quella di Cartesio), la deduzione è possibile solo di concerto con l’induzione. La quale deve dunque partire dal sensibile per poter aspirare al supremo livello della contemplazione delle essenze intelligibili. In tal modo il sensibile ricorda l’ideale mentre l’ideale guarda al reale. La conoscenza consiste quindi sempre in doppio processo (ascendente e discendente).
E proprio a tale proposito ci sembra che la teoria della conoscenza di Malebranche possa aiutare a portare ordine entro quel realismo delle essenze mondane (il cosiddetto “mondo degli onta”) che poi sarebbe stato sostenuto da Husserl ed ancor più dai suoi allievi − nella forma specifica di ricerca fenomenologica circa le essenze mondane [Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano 2002, II, 9a p. 53-58, III, 29 p. 141-143; Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, III, 2-3 p. 58-68]. Infatti entro questa dottrina si è teso a considerare come essenza qualunque cosa particolare ed immanente – come ad esempio sia il sole che la sfera. Non sembra invece essere così per Malebranche, secondo il quale l’ambito delle essenze non combacia affatto con quello delle cose esistenti, ma invece è solo il risultato di una conoscenza induttiva (ascensiva) che muove da queste ultime per raggiungere un livello che con il mondo reale non ha più assolutamente nulla a che fare. Pertanto nella ricerca fenomenologico-husserliana circa le essenze mondane deve aver operato un certo equivoco e forse perfino un errore concettuale
Da tutto ciò risulta comunque che il vero razionalista religioso è Cartesio e non Malebranche, che invece è integralmente un filosofo cristiano dato che si rifà strettamente alla Rivelazione senza inventare nulla. E questo implica per Rome anche il suo costante riferimento a pensatori cristiani come Agostino, Filone, Tommaso e Padri della Chiesa

3- La dottrina (epistemologica e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio”.
Di nuovo ci ritroviamo con ciò di fronte alla forte tendenza di Malebranche all’idealismo, ossia ad una dottrina gnoseologica secondo la quale la conoscenza non è costituita dall’immediata relazione tra il soggetto cosciente (mente-anima) ed il mondo esteriore per l’intermediazione della percezione, ma è invece rappresentata dall’intuizione delle idee (a loro volta rappresentanti di per sé le cose) da parte della mente-anima. Ma per lui queste idee non risiedono già nella mente-anima (come ritiene invece Cartesio secondo l’innatismo) – quindi non sono immediatamente a disposizione della Ragione –, bensì si trovano collocate in Dio stesso. Pertanto a suo avviso, in assenza dell’esistenza divina, noi di fatto non siamo per nulla in grado di conoscere.
Il versante empirista (e strettamente teoretico-conoscitivo) di questa dottrina consiste comunque nel fatto (già da noi evidenziato più volte) che le idee delle cose sono per Malebranche già presenti nella percezione
Ecco allora che per lui Dio è luogo supremo della conoscenza, ossia Colui nel quale noi realmente conosciamo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Però intanto va sottolineato che questo Dio dalla valenza gnoseologica è radicalmente diverso da quello che vuole e crea (p. 125). Insomma non è affatto l’essenza-creante-l’esistenza che viene postulata da Cartesio. E qui si delinea il già accennato tratto distintivo tra Cartesio e Malebranche, che è la netta distinzione da parte di quest’ultimo del potere divino dall’intelletto, laddove invece il primo considera Dio unicamente come puro intelletto creante. In particolare, anche se le Idee fanno parte della sostanza divina (e quindi non lo trascendono, come in Platone), Dio ha come proprio oggetto le idee invece di generarle (crearle) nell’atto di pensare e soprattutto di pensare sé stesso. Per essere più precisi, quindi, per Cartesio la creazione è di natura unicamente intellettuale (quindi puramente gnoseologica e concernente il puro pensiero), mentre per Malebranche essa è di natura integralmente ontologica, e quindi esige qualcosa di più del puro pensiero per generare le cose e modificarle, ossia un fattore di trasformazione della pura essenza creata, e quindi il potere.
Naturalmente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134] tutto ciò sottolinea la natura puramente comprendente di Dio e mette invece in secondo piano la sua natura causante. E con ciò ci spostiamo in Malebranche di nuovo sul piano della causalità e dell’occasionalismo, così come anche sul piano della relazione tra essenza ed esistenza. Ma sullo sfondo di tale dottrina si delinea di nuovo la visione di Cartesio con la centralità di quel Causa Sui che invece Malebranche non condivise affatto. Infatti per Cartesio Dio è Causa Sui nel contesto di un fare che è in primo luogo pensare (potere conoscente e solo entro questi limiti creante), e come tale sta in radicale concorrenza con l’azione delle forze materiali della Natura. Egli infatti si provvede di attributi proprio perché può concepire senza limiti il creabile (primariamente intelligibile) più che il creato ossia il reale esistente. Ne consegue che per Dio avere attributi (e possedere quindi un’identità mediante gli attributi, ossia l’essenza) equivale all’essere causa di sé stesso. In tal modo egli conferisce esistenza a sé stesso nel pensarsi. Ma ciò è pensare sé stesso e non invece conoscere le cose esteriori. Quindi gli attributi divini pensati da Dio non sono affatto le qualità delle cose da Lui conosciute. Dio dunque, per Cartesio, pensa soltanto sé stesso ed affatto invece il mondo esteriore. Naturalmente la dottrina della visione in Dio non corrisponde affatto a questo intendimento cartesiano delle cose e del pensiero divino. Per Malebranche infatti in Dio noi vediamo effettivamente le cose esteriori, sebbene solo come idee.
Eccoci dunque di fronte alla più radicale differenza esistente tra Cartesio e Malebranche. Essa consiste soprattutto in due elementi: − 1) per Malebranche Dio è esistenza e non essenza, e quindi sussiste ed agisce del tutto indipendentemente dal pensiero; 2) le idee per lui esistono del tutto indipendentemente da Dio, nel mentre Dio esiste indipendentemente da qualunque pensiero (idea), sebbene le idee rientrino comunque nella sua sostanza di immutabile.

4- L’ontologia di Malebranche.
Abbiamo già visto che l’ontologia influenza così tanto l’epistemologia del pensatore da renderla assolutamente specifica ed originale. Specie in uno scenario in cui la metafisica razionalistica (da Cartesio in poi) stava introducendo in filosofia l’epistemologia proprio a scapito dell’ontologia anticipando così uno scenario in cui quest’ultima sarebbe finalmente svanita oppure avrebbe assunto nuove forme decisamente bizzarre e devianti. Inoltre abbiamo già avuto modo di constatare molti aspetti della centratura ontologica (e non gnoseologica) del pensiero di Malebranche. Ma ora è arrivato il momento di spostare direttamente la nostra attenzione su questo aspetto.
Probabilmente il concetto e principio più centrale dell’ontologia di Malebranche consiste nel fatto che l’Essere autentico è infinitamente lontano da qualunque essere ideale e non è quindi affatto in esso risolvibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Non a caso esso non coincide affatto con i contenuti del pensiero di Dio (sia il pensiero di sé stesso che quello delle cose) ma coincide invece unicamente con l’Essere divino tout court, ovvero con il suo primario e paradigmatico esistere.
Pertanto, per il nostro pensatore, l’essere esiste irriducibilmente all’essere ideale ma anche allo stesso essere reale meramente esteriore. Probabilmente questa è stata una delle forme più radicali di ontologia in quanto essa sembra esprimere la formula più piena e radicale di definizione dell’ontologia: − in essa l’essere deve essere assolutamente irriducibile a qualunque essere ideale. Definizione che poi fa ovviamente prevalere l’essere reale. Possiamo comprendere meglio tutto ciò se confrontiamo questa definizione di ontologia con quella estremamente moderna di Nicolai Hartmann, secondo il quale l’Essere include alla pari dimensione ideale e reale quasi senza alcuna differenza oltre ad essere comunque autentico solo se reale in quanto mondano [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982].
Ma qui Malebranche non si riferisce affatto all’essere mondano, bensì a quello divino (in quanto assolutamente paradigmatico, ossia essere per eccellenza). Solo Dio per lui è pienezza e paradigma dell’essere. E qui incidono nuovamente le differenze esistenti tra lui e Cartesio, specie nel concepire sia il pensare sé stesso da parte di Dio sia nel concepire la conoscenza umana di Dio. L’aspetto gnoseologico fondamentale della faccenda è la differenza esistente tra la conoscenza delle cose e la conoscenza di Dio – la prima richiede l’applicazione di un’idea (essenza) all’esistenza della cosa (indeterminata per definizione), mentre per la seconda non vi è semplicemente alcuna idea da applicare all’esistenza, per cui Dio viene conosciuto solo tramite quest’ultima. Pertanto noi apprendiamo solo “che Dio è” e non “cosa è”. Questo è senz’altro un limite della nostra mente, ma comunque esso va accettato pienamente ed umilmente.
Qualcosa di molto simile accade anche entro la conoscenza che Dio ha di sé stesso nel pensarsi – infatti per Malebranche l’idea che Dio ha di sé stesso non è mediata dalla rappresentazione ma unicamente dall’esistenza. È per questo che la natura di Dio consiste unicamente nell’esistenza. Ed è sempre per questo che Egli «è» (essenza) in primo luogo Essere – la sua essenza coincide totalmente con l’Essere.
A causa di tutto questo quindi, secondo Malebranche, lo stesso nostro pensare Dio rifluisce sempre immediatamente nella Sua esistenza. Cosa per cui non appena lo si pensa, Egli già è – “se lo si pensa, allora Egli è”. Insomma basta solo pensarlo (come accade ad esempio in preghiera) per essere immediatamente in Sua presenza. E questo è stato del resto affermato anche da Guardini nella sua riflessione sulla preghiera [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89]. Ma in termini filosofici ciò implica soprattutto l’indubitabile ed infallibile certezza circa l’esistenza di Dio; nonostante il fatto che Egli resti un radicale absconditus per i nostri sensi.
Non vi sono dunque affatto idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dall’uomo (l’idea che il singolo uomo ha di Dio). Cosa che invece oggi avviene ordinariamente entro la ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logico-critica dell’idea di Dio (spesso francamente distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Insomma ciò che Malebranche sottolinea è prevalentemente la primarietà ontologica dell’esistenza.
Insomma per lui l’ontologia si lascia riassumere totalmente nella primarietà dell’esistenza.
Proprio per questo tra la sua ontologia e quella neo-tomista di Maritain esiste una notevole parentela, dato che per entrambi i pensatori l’esistenza è in primo luogo “atto di esistere”.
La pienezza dell’esistenza viene espressa per lui esattamente da Dio ed esclude quindi qualunque altra dimensione dell’Essere. Per tale motivo egli ritiene che si conosce Dio non per la via di idee (concetti, rappresentazione), ossia per la via dell’essere ideale, ma invece solo per la via del più pieno essere possibile, ossia l’esistenza espressa al massimo grado.
Si potrebbe dire, quindi – sul piano propriamente religioso – che in fondo Malebranche sostiene che la conoscenza di Dio non è altro che l’esperienza del Dio vivo, e quindi la prima si riduce alla seconda. Il pensarlo, come abbiamo visto, è già essere in Sua presenza.
Con tutto ciò dobbiamo di nuovo tornare all’epistemologia che si riconferma intrecciata strettamente in Malebranche con l’ontologia. Infatti (come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti) quella del nostro pensatore è un’epistemologia (già di per sé molto speciale) che è strettamente connessa all’esistenza, e quindi alla necessaria realizzazione delle idee. Le quali sono quindi da considerare non forme vuote deputate alla conoscenza bensì invece molto più possibilità di essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 130-133]. Ecco che l’epistemologia di Malebranche si caratterizza in primo luogo per la sua indispensabile conciliazione con l’ontologia (e quindi per il realismo), il che corrisponde poi alla sua netta differenziazione (anti-cartesiana) tra essenza ed esistenza. Si tratta di ciò che abbiamo già visto prendendo atto della definizione delle idee come “super-essenziali”, in quanto esse rientrano molto più nell’ambito dell’esistenza che non in quello dell’essenza. Ed abbiamo visto anche che questo è un altro dei tratti fondamentali della differenza che lo divise da Cartesio.
Sempre in questa parte del testo di PM Rome sottolinea giustamente che tutto ciò evidenzia in Malebranche una forte tensione sussistente tra un’epistemologia molto tendenzialmente platonica (in quanto incentrata nella teoria delle idee) ed un forte realismo onto-metafisico configurato dall’importanza primaria concessa all’esistenza e quindi anche alla necessaria realizzazione delle idee.
Ed in tal modo ritorniamo ai tratti fondamentali di una gnoseologia e teoria della conoscenza, entro le quali alla percezione viene assegnato un ruolo di un certo valore ed inoltre la mente (il pensiero) viene considerata atta in primo luogo a conoscere le cose del mondo esteriore.
Insomma la percezione è per lui un vincolo ineluttabile, che rende la conoscenza radicalmente diversa dalla relazione riflessiva con sé stessi (l’introspezione concepita da Cartesio). Proprio a causa di questo vincolo per Malebranche non può esservi alcun fisiologico dubbio nel conoscere.
E questo perché (sempre a causa del vincolo della percezione entro la conoscenza) nel conoscere non si ha mai a che fare con la pura essenza ma sempre invece con il mondo creato esteriore.
Ecco che la visione in Dio (quale risorsa per salvare la conoscenza dallo scetticismo e dal relativismo) è connessa al fatto che per Malebranche è la Natura (e non invece l’uomo) la vera misura delle cose. Per tale motivo secondo lui Dio è da considerare una Ragione che è perennemente legata alle cose. Ed in tale contesto l’attenzione assume importanza decisiva insieme alla percezione e l’esperimento.

Inevitabilmente, così come l’epistemologia di Malebranche, anche la sua ontologia deve differenziarsi nettamente da altre ontologie, e specialmente da quella scolastica. Quest’ultima molto in generale si caratterizza infatti per le qualità attribuite agli oggetti, qualità che vengono considerate costituenti l’oggetto stesso in quanto esteriore e sensibile (per quanto comunque considerato intelligibile ossia concettualizzato). Di contro l’oggetto concepito dal nostro pensatore possiede un’onticità ideale che lo sottrae al mero regno del sensibile e lo colloca unicamente nel regno dell’”estensione intelligibile”. Sebbene non si debba dimenticare che Malebranche concepisce un mondo di relazioni matematiche sovrapposto alla mera percezione, il quale ci permette la conoscenza altrimenti inficiata irreparabilmente dal mutamento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299].
Inoltre l’ontologia di Malebranche convoca ovviamente anche l’occasionalismo con il concetto di Causa Sui del quale abbiamo già discusso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIc p. 135-139]. Infatti la differenza che lo divide da Cartesio a tale riguardo è incentrata esattamente nell’accento da lui posto sull’esistenza in luogo dell’essenza. Per Malebranche insomma Dio non è appena causa della propria esistenza (a partire dalla propria essenza), ma è invece l’esistenza stessa per eccellenza, ossia è molto più che causa della propria esistenza. È per tale motivo che Dio non è ultimamente nemmeno potere, ma è in primo luogo Essere. In particolare è un Essere assolutamente originario, che non riconosce dietro di sé alcuna causa giustificante. È insomma un Essere radicalmente auto-giustificato. E ciò ci riporta alla concezione dell’Essere che venne affermata da pensatori come Jaspers e Berdjaev. Presso i quali l’Essere è talmente radicalmente originario da porsi (specie in Jaspers) in un «oltre» per definizione intangibile, invisibile, irraggiungibile, innominabile e indefinibile (che poi è lo spazio della metafisica stessa), fino al punto da essere assolutamente non categorizzabile e quindi presentarsi (coerentemente) molto più come un’assenza che come una presenza.
Connesse con ciò sono tutte le considerazioni che abbiamo già fatto riguardo all’occasionalismo, e che quindi qui vanno qui solo completate. Infatti in il concetto di Dio-Causa è inscindibile da quello di Dio-Essere. Ed ecco quindi che l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (cioè il più perfetto che ci sia) domina su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo (in quanto Essere pieno ed originario) è stato Lui stesso a porre in essere il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti nemmeno esisterebbe). Pertanto in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Ed inoltre Malebranche sottolinea che (diversamente da Spinoza) non vi è nulla di necessario nella causalità divina, ossia non vi è nulla di ciò che si riscontra nella naturale connessione tra causa ed effetti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Non si tratta insomma di nulla che riguardi la causalità naturale. Ed ecco perché (come abbiamo visto discutendo l’occasionalismo) non possiamo prevedere assolutamente gli effetti della volontà, così come non possiamo in alcun modo dedurre a priori il mondo voluto da Dio. Ed infine (ancora più generalmente) non possiamo dedurre l’esistenza dall’essenza.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino a costituire la sua causalità senza per questo nemmeno aver bisogno del movimento) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza, tanto che (secondo il modello cartesiano: puramente gnoseologico e non realmente ontologico) pretendiamo di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza; ossia per la via di pura conoscenza e non di ontologia.
Uno degli aspetti centrali di tutto ciò è pertanto l’assoluta non necessità dell’atto creativo (libero atto d’amore che conferisce l’esistenza all’essenza, o “qualcosa”) e che proprio per questo non è per nulla intelligibile, ovvero non si sa assolutamente perché avviene [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201]. Ciò che distingue da Cartesio e Spinoza è in sintesi l’assenza totale di necessità (e quindi in qualche modo anche intelligibilità razionale di tipo matematico) nella sua complessiva visione: di Dio e della Natura. Dio infatti non è affatto causa in base al fenomeno della causalità naturale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, IVa p. 209-220]. Quindi non si tratta di azione ma invece di semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia l’esistenza stessa del mondo creato (essa è di per sé causalità). La causalità per Malebranche è insomma ben più essere che non invece attività.
In ogni caso la radice della visione del pensatore è il creazionismo opposto all’azione delle cause secondarie. Infatti la presenza divina nel mondo (ossia la sua natura di primario esistente) non è altro che la creazione stessa in quanto già portata a termine. Ed essa include quindi in sé (trascendendoli) tutti gli elementi propri della causalità naturale di tipo unilateralmente fisico: − azione, movimento, forza.
E ciò contraddice per Rome l’idea pagana di singole entità divine agenti (politeismo, spiriti della Natura). Ma contraddice anche l’idea cartesiana della causalità ritrovata nel nostro spirito (per mezzo dell’esame interiore introspettivo) come idea chiara e distinta. Cosa che non a caso sarebbe stata poi contestata da Hume in quanto affatto veridica – infatti la causalità non era per lui affatto un’idea chiara, ma era invece appena una confusa d oscura idea di natura inconsistentemente metafisica. A ciò avrebbe poi fatto da eco Kant nel dichiarare che l’idea di causalità non era affatto oggettivamente fisico-naturale ma era invece solo il prodotto della proiezione degli a priori mentali (totalmente soggettivi) sul mondo naturale. Ancora una volta, quindi – sebbene nel contesto di un pensiero sostanzialmente religioso –, Malebranche si mostra in questo anticipatore dell’empirismo del XVIII secolo.

5- L’intendimento del pensiero e dell’auto-conoscenza. La concezione del Sé.
In questo ambito ritroviamo un altro importantissimo elemento di comparazione tra Malebranche e Cartesio. E tale elemento riguarda in generale la dimensione interiore, o anche “Sé”, con l’inevitabilmente connessa auto-conoscenza o conoscenza interiore. Laddove questi sono tutti elementi di rilevanza primaria in Cartesio con la sua dottrina del «cogito».
Comunque – restando così (almeno in una certa misura) anche entro l’orbita della dottrina cartesiana − Malebranche intende il pensiero non come intelletto (puro pensiero) bensì invece come raccoglimento e comprensione e infine soprattutto “concezione” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I -II, p. 243-266]. Ed è evidente che la dimensione dell’intelletto o puro pensiero corrisponde integralmente in Cartesio al «cogito» (e più generalmente alla mente nella sua interezza, ossia a tutto ciò che è «mentale»). Con la conseguenza che quest’ultimo non può non comportare un dualismo, dato che il puro pensiero (con l’intera connessa dimensione soggettuale) non può non contrapporsi radicalmente all’essere (con l’intera connessa dimensione oggettuale). Ed infatti Rome specifica che per il pensatore il «cogito» è da considerare in primo luogo come un puro atto del soggetto (più che non realtà di coscienza).
Ella ritiene che però su questo specifico aspetto i due pensatori siano stati sostanzialmente d’accordo. Ma comunque viene da lei anche precisato che per Malebranche la mente è sostanzialmente “attenzione” più che “Io penso”, e quindi è qualcosa di ben più ampio che pura epistemologia e logica. Cosa che poi corrisponde all’esistere assolutamente primario della mente, ovvero alla dimensione esistenziale di quest’ultima.
Abbiamo già esaminato questi elementi nei paragrafi precedenti, ma vale la pena qui di soffermarsi di più sui dettagli della diversa visione di Cartesio e Malebranche.
In definitiva infatti Rome ci suggerisce che Malebranche contestò il fatto che Cartesio si aspettava decisamente troppo dal «cogito» in quanto puro pensiero capace di far nascere in sé gli oggetti stessi (secondo uno schema di onto-generazione causale che legava per lui il pensare all’esistere) e quindi anche come privilegiato metodo conoscitivo (posto al riparo dall’errore). Proprio per questo egli sosteneva in maniera estrema che la conoscenza della mente era per definizione migliore di quella del corpo. Rome sottolinea che in fondo anche per Malebranche il puro pensiero venne considerato l’essenza ultima della mente e dell’anima. Ma oltre a ciò egli ritenne il pensiero come spirituale soprattutto in quanto “sentimento interiore” (più che pensiero puro). Il che era l’effetto del fatto che in tutto questo egli attribuiva un valore e ruolo anche alla percezione. Insomma per lui il pensiero aveva anche una valenza percettiva, essendo connesso alla conoscenza reale degli oggetti. Proprio per questo per lui si trattava della mente esistente e non invece puramente essenziale (pensiero puro). Ecco quindi che Cartesio concepiva il «cogito» come un affermare sé stessi (corrispondente all’auto-evidenza delle verità entro il puro pensiero) che istituisce anche un’equivalente tra la mente stessa e i contenuti del suo puro pensare (verità matematiche: geometria). Insomma il pensiero era per Cartesio unito ed equivalente onticamente ai propri oggetti. Il triangolo era insomma la stessa cosa del pensiero puro. Malebranche invece li separò (separò cioè dal pensiero, ossia l’atto, i contenuti del pensiero). Ne consegue che per lui si delinea in tal modo un vero e proprio oggetto esteriore e quindi una quantità – si pensa sempre una quantità. Gli stessi principi matematici erano per lui vincolati ad una dimensione fisico-corporea (che è quella dell’esperimento ed anche della percezione).
Nello stesso tempo quindi per Malebranche la mente risultò inaccessibile al pensiero come idea distinta (come avviene nell’auto-conoscenza o conoscenza interiore). E pertanto essa finì per apparirgli come affatto meglio conoscibile del corpo
Nel complesso, quindi, per Malebranche, il «cogito» (e l’intero metodo di conoscenza cartesiano: esame interiore) era da considerare come non realizzabile e pertanto solo illusorio.
Pertanto per lui Cartesio ebbe torto nel considerare l’introspezione (priva di qualunque vincolante correlato esteriore) come l’unico luogo della verità. E con ciò, quindi, le qualità degli oggetto (concernenti sempre l’estensione) gli apparvero come primarie rispetto al puro pensiero, costringendolo quindi ad assumere una posizione empirista e realista accanto a quella idealista.
Appare quindi evidente che Malebranche – quando considera la dimensione interiore e quindi il Sé −, diversamente da Cartesio vede davanti a sé l’amplissimo ambito della mente (con tutte le sue funzioni naturali) più che non la dimensione sostanzialmente metafisico-gnoseologica del puro pensare. Ma a differenziare i pensatori non basta nemmeno questo, dato che il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, la “visione in Dio”, ha anche una franca dimensione di fede e quindi non è affatto solo gnoseologica ma è anche religiosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Essa fu infatti per lui anche la vera e propria unione a Dio. Insomma il conoscere le cose per mezzo delle idee presenti in Dio (gnoseologia) corrispondeva per lui anche all’unione fideistica a Dio, ossia alla penetrazione nella vita divina.
La visione ben più ampia della mente, che il nostro pensatore ha, si traduce soprattutto nell’affermazione dell’assenza di fatto (e quindi illusorietà) di quell’atto di auto-conoscenza che invece costituisce il nucleo stesso del «cogito» cartesiano. In luogo dell’auto-conoscenza egli riconosce infatti qualcosa di mentalmente ben più ampio come il “sentimento interiore”, il quale non è affatto piena conoscenza, contenendo anche un aspetto fortemente percettivo.
Insomma, ancora una volta, si ha l’impressione di ritrovare qui l’anticipo di alcuni aspetti della teoria husserliana della conoscenza, entro la quale – nel contesto del concetto di intenzione, di datità e pre-datità, e di momento pre-giudicativo della conoscenza– la dimensione conoscitiva sta fortemente in continuità con quella percettivo-corporea [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Introduzione, Mondadori, Milano 2008, II, I, I, 1-4 p. 441-448; Pedro MS Alves, Carlos Aurélio Morujão (trad), Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, II, Voll, I, I, § 11, 49-51, p. 68-71].
E tutto ciò ci riporta alla relazione tra spirito e volontà prima discussa, elemento dottrinario che poi porta con sé di nuovo la presunta migliore conoscenza della mente invece del corpo da parte di Cartesio. Il che sta ancora una volta in connessione con la negazione dell’auto-conoscenza da parte di Malebranche.
Oltre a tutto ciò, a moderazione dell’importanza del puro pensiero e dell’auto-conoscenza, sta ovviamente anche l’empirismo del nostro pensatore. Infatti Malebranche considerò sì fondamentali le nozioni primarie (trascendenti) ma le considerò intanto sempre da comprovare mediante l’esperimento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. In questo consiste quindi il suo sperimentalismo baconiano. E per questo, come sottolinea Rome, egli è estato considerato unilateralmente empirista (come Hume) da parte di diversi suoi interlocutori, sebbene questa sia un’affermazione troppo estrema.
Ebbene proprio in questo contesto si delinea entro la sua dottrina il sentimento interiore come conoscenza solo indiretta dell’anima (in sé invece impossibile quale piena introspezione) e quindi mediata inevitabilmente dalla conoscenza delle qualità sensibili degli oggetti esteriori. In altre parole per lui la mente può venire al massimo conosciuta per mezzo della percezione, al pari degli oggetti esteriori. Il che spazza via la conoscenza diretta ed incondizionata della mente concepita da Cartesio.
Secondo Rome, comunque, Malebranche risolse il problema dell’inconoscibilità della coscienza (non riconosciuta invece da Cartesio) sul piano gnoseologico-fideistico, cioè considerando meditazione e preghiera come un vero e proprio atto di cognizione-volizione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, III p. 267-278, VI, I p. 279-284]. Questo concetto va chiarito sulla base della sua discussione da parte della studiosa. Tutto si basa sul fatto che Cartesio attribuisce all’essenza una conoscibilità che si fonda sul fatto che essa sarebbe addirittura attività in concorrenza con l’esistenza (che per lui è invece assolutamente inconoscibile oltre che inerte). È per tale motivo che egli ritiene impensabile l’esistenza senza l’essenza che la genera e addirittura la muove. Ma Malebranche la pensa al proposito in modo del tutto opposto, ritenendo così l’essenza inconoscibile e l’esistenza invece pienamente conoscibile. Essa lo sarebbe in particolare in quanto coincidente con la nostra stessa vitalità (definita da Rome come “auto-esistenza”), che poi affonda le sue radici nello stesso Sé, ossia l’interiore. Il quale in tal modo finisce per lui per divenire equivalente all’esistenza stessa.
In particolare si tratta quindi del Sé quale auto-coscienza, ossia l’intensa e vitale relazione con noi stessi che noi per natura intratteniamo. E quindi solo come tale il Sé risulta conoscibile. Più precisamente però si tratta qui del fatto che la volontà si pone in concorrenza con la pura conoscenza, presentandosi come dotata di una capacità che quest’ultima non possiede affatto – tale capacità è quella di conoscere anche l’inconoscibile attraverso appunto il volere. Ed è esattamente questo che avverrebbe per Malebranche entro il volere la propria esistenza.
In ogni caso è proprio per questo motivo che egli postula una perfetta equivalenza tra l’oggetto dei sensi e quello della fede. È infatti per tale motivo che egli ritiene che siano le Scritture ciò che per davvero ci rivela l’esistenza di un mondo esteriore.
È evidente qui l’ascendenza agostiniana di questa complessiva dottrina. Ma viene anche il sospetto che in questo modo Malebranche abbia colto il vero senso del «cogito», che è ben più ontologico che non gnoseologico. Non a caso Agostino aveva precorso Cartesio proprio nel considerarlo per davvero come un «cogito-sum», ossia come la maggiore rivelazione possibile del nostro esistere.
E questo proprio a causa della volizione amorosa che ci lega a noi stessi.
In ogni caso proprio su questa base Malebranche negò il sussistere della materia, nel ritenere che, a descrivere il mondo, basta pienamente il concetto di esistenza.
Ecco insomma che di nuovo in Malebranche la dimensione gnoseologica e quella religiosa appaiono fortemente intrecciate.
Per tale motivo, secondo la studiosa, il nostro pensatore (nonostante il suo razionalismo) rientra in verità molto più nell’antica tradizione teologico-cristiana della prevalenza della fede sulla filosofia (ragione), e specialmente per il fatto che considera il mondo esteriore conoscibile non solo con i sensi ma anche per mezzo della Rivelazione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. In questo senso egli si fece quindi sostenitore di un vero e proprio realismo religioso.
Tutti quelli appena discussi sono però aspetti molto specifici della sua teoria della mente.
Più in generale invece, secondo Rome, il suo fu un rappresentazionalismo più favorevole alle idee che non ai sensi come facoltà conoscitive. In tale contesto si delinea pertanto un suo tendenziale idealismo che lo approssima fortemente a Berkeley.
Tutto ciò significa allora ancora una volta che il suo pensiero fu diviso tra idealismo e realismo.
Ma la tensione tra queste due tendenze venne in definitiva superata da quel valore a lui attribuito all’esistenza che attenua fortemente il suo idealismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284].
L’idealismo appare infatti essere (in via di principio) anti-religioso in quanto nega il mondo creato (oggetto) a favore della dimensione mentale soggettiva. Così il mondo diviene superfluo (oltre che inaccessibile) a contraddizione della fede religiosa. E ciò corrisponde peraltro alla presa di posizione di un moderno pensatore realista come Hessen – il quale contestò radicalmente ogni idealismo a favore di un pieno realismo, coinvolgendo nell’accusa all’idealismo l’intera metafisica cristiana di tipo scolastica in quanto dominata dall’intellettualismo di Aristotele [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955].
Del resto però la stessa visione religiosa di Malebranche finisce per dissolvere anche il suo realismo. Dato che egli non crede affatto in un mondo esteriore indipendente dall’azione divina in ogni suo minimo particolare (cosa che lo portò, come abbiamo visto, a negare l’esistere della materia). E con ciò egli diviene decisamente di nuovo un idealista.
Secondo l’Autrice domina comunque qui una sfiducia verso l’onticità del corpo a favore della mente, cosa che sicuramente riavvicina Malebranche a Cartesio (p. 281-282). Intanto comunque (a fronte di tutto ciò) Malebranche si presenta come pensatore davvero unico, in quanto egli (diversamente da Berkeley) conferì alle idee l’onticità di oggetto reale universale (come il Platone correttamente interpretato), e quindi sfuggì in tal modo all’immaterialismo (nominalista e concettualista) che è da sempre proprio dell’idealismo. A causa di tutto questo si può riaffermare che Malebranche è stato forse uno dei filosofi più originali mai vissuti. E questo a causa della sua forte imprevedibilità e inclassificabilità.
E in relazione a questo vale la pena di riprendere il concetto già discusso di “estensione intelligibile” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299]. Infatti proprio grazie ad esso possiamo meglio comprendere perché Malebranche pensi che le Scritture siano la migliore testimonianza dell’esistenza del mondo esteriore. Ciò è infatti vero perché l’estensione appare intelligibile nel pensiero del mondo che ha Dio. Ancora una volta quindi in tal modo la sua epistemologia appare inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presenta come una vera e propria filosofia religiosa più che invece come una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). L’estensione intelligibile non è quindi altro che una visione del mondo come estensione e corporeità. Ed esso è radicalmente diverso dalla relativa visiona cartesiana, secondo la quale queste ultime non sono altro che essenza, ossia qualcosa che sussiste solo entro il puro pensiero ed anzi proprio in esso vengono generate. Il che cancella totalmente il concetto di esistenza in quanto del tutto inconsistente e per nulla veridico, ossia al riparo da errore ed illusione.
Rome (p. 294) ci fa peraltro notare che si profila si nuovo qui un Malebranche idealista, mentre la Scolastica fu in verità realista ed anche in modo ingenuo. Infatti l’estensione intelligibile non è altro che una rilettura del mondo delle apparenze che interpreta l’oggetto come unicamente ideale, ovvero come idea (ossia come si presenta nel pensiero divino), e quindi del tutto al riparo dal divenire e quindi dalle conseguenti illusioni. Ebbene qui il pensiero di Malebranche vira decisamente verso l’idealismo, ritrovando in questo modo almeno una certa convergenza con l’essenzialismo di Cartesio. Infatti gli oggetti ideali (compresi nell’estensione intelligibile) non sono altro che quelle essenze universali che restano immutabilmente sé stesse, e sono quindi del tutto diversi dalle qualità dell’oggetto esteriore. Pertanto proprio in questa sede il pensatore può esprimere la sfiducia che gli nutre anche verso la percezione (nonostante il suo empirismo) – egli riconosce infatti che l’oggetto esistente non potrà mai venire davvero conosciuto se non si coglie intanto la sua essenza. E quindi qui anche l’accento da lui posto sull’esistenza diviene solo relativo. Si può dire quindi che il mondo esteriore è per lui indubitabile solo in quanto riconosciamo che esso esiste (“è”), ma non in quanto riconosciamo le essenze che determinano le cose in esso esistenti. Naturalmente quindi – entro la sua complessiva teoria della conoscenza − questa limitazione richiede il suo superamento mediante il ricorso alla dimensione intelligibile della conoscenza mediante a priori universali.
Questo quindi può venire considerato l’assetto (decisamente idealistico) della sua teoria della conoscenza una volta portata fino alle sue estreme conseguenze.

6- La teoria della percezione.
Dopo tutto ciò che si è detto, è già abbastanza chiaro com’è stata la dottrina della percezione di Malebranche. Ma comunque vale la pena di soffermarsi su come la descrive Rome.
Le cose si riassumono in effetti nella solita ambiguità delle sue idee. Infatti Malebranche teorizzò l’insufficienza della percezione insieme alla convinzione che i sensi ci rivelano comunque l’esistenza delle cose [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV p. 299-305]. E questo connota peraltro in modo decisamente positivo la sua teoria della conoscenza. Il che rende il nostro pensatore estremamente interessante in un contesto filosofico (iniziato al suo tempo proprio con Cartesio) che finì per teorizzare la problematicità della conoscenza, ossia la sua negatività di atto conoscitivo. Malebranche ritenne invece che noi conosciamo indubitabilmente ed efficientemente gli oggetti esteriori. Sebbene di primo acchito li conosciamo solo come esistenti, e solo dopo (per mezzo di un processo conoscitivo lungo e complesso) li conosciamo come essenze. E questo configura un realismo autentico (come abbiamo visto perfino di carattere religioso) che non si configura invece (nonostante le apparenze) nemmeno nella teoria della conoscenza scolastica.
Ed il motivo di ciò fu che tale realismo non fu mai unilaterale ma restò invece in costante equilibrio con l’idealismo. Proprio in questo senso Malebranche fu intensamente realista, sebbene (come abbiamo visto) l’idealismo non scomparve mai dall’orizzonte del suo pensiero ed anzi ne rappresentò il compimento ultimo.
Naturalmente − come Rome non manca di sottolineare (p. 303) e come risulta evidente anche da tutto ciò che abbiamo visto finora − la sua teoria della percezione è alquanto ambigua. Ma lo è del tutto a ragione. In primo luogo perché dall’altro lato vi è la sua teoria delle idee ed anche la sua più matura teoria della conoscenza (entro le quali la percezione viene decisamente svalutata). E tuttavia, secondo la studiosa, va sottolineato che il suo “rappresentazionalismo” (idee) è stato non poco esagerato e forzato dai suoi interpreti (venendo concepito in maniera troppo letterale) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. E tale affermazione cade proprio a proposito dell’idea di Malebranche secondo la quale le Scritture sono la vera prova del mondo esteriore, con la conseguente convergenza tra sensi e fede. Insomma il pensiero di Malebranche – oltre che come empirismo − è stato anche illegittimamente interpretato come un internalismo che elimina qualunque esternalismo. Va comunque sottolineato che per il pensatore (dato che per lui la percezione non è affatto cognizione) non vi è alcuna possibilità di prova reale e naturale del mondo esteriore dei sensi (e per questo ricorre all’autorità delle Scritture) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V p. 305-310]. E questo sembra contraddire radicalmente il suo empirismo. In effetti però tutto si chiarisce laddove egli (come Bergson) afferma la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIa p. 310-313], entrando così in radicale conflitto con Cartesio.
In altre parole si può dire che il pensiero di Malebranche è stato scorrettamente interpretato sia nell’esagerare il suo realismo sia nell’esagerare il suo idealismo.
Malebranche fu comunque davvero decisamente anti-empirista (come abbiamo già visto discutendo la sua ontologia) nel rigettare totalmente la credenza nel mondo esteriore quale grossolano errore che secondo lui fu tipico della filosofia scolastica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. In questo però egli afferma (come abbiamo visto) l’unità di Fede e Ragione. È infatti proprio la Fede ciò che gli permette di controbattere l’errore del radicale esteriorismo di tipo ingenuo della Scolastica (la quale secondo lui si rifece più all’intellettualismo metafisico di Aristotele che non alla Rivelazione cristiana).
In aggiunta a ciò egli contempla addirittura esplicitamente una conoscenza dei misteri cristiani che rientri nella conoscenza di Dio (p. 320-321). Siamo in tal modo decisamente nel campo del non conoscibile (assenza di apprensione) e dell’irrazionale. E però siamo comunque ancora in campo gnoseologico perché questo è lo stesso ambito della visione in Dio delle cose esteriori.
Tuttavia (come abbiamo già visto più volte e come vedremo ancora a proposito della metafisica) vi sono anche luoghi del pensiero di Malebranche nei quali il suo empirismo e sperimentalismo emerge in modo prepotente suggerendo così interpretazioni del tutto contrarie [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317].

7- La metafisica di Malebranche.
La caratterizzazione della metafisica di Malebranche è in verità l’aspetto più rilevante di questa recensione – specie nel rispondere alla domanda circa la sua appartenenza reale (o meno) alla metafisica razionalistica del suo tempo. Per tale motivo questo tema ha attraversato già questa nostra intera trattazione. Quello che diremo qui è pertanto solo la puntualizzazione di alcuni aspetti specifici del tema.
Abbiamo già parlato diverse volte del modo in cui Rome inquadra la metafisica di Malebranche.
Ma comunque l’aspetto più rilevante della sua visione sembra essere il fatto che, non considerando Dio come essenza bensì invece come essere, il suo pensiero sfugge (almeno in via di principio) ai caratteri generali della metafisica razionalistica del proprio tempo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. La studiosa lo dice con estrema chiarezza (nel discutere la dottrina dell’occasionalismo), affermando che egli è stato uno dei pochissimi pensatori del suo tempo che non abbia considerato Dio come essenza. Ad esempio è pura essenza il Dio di Cartesio e Spinoza.
E tutto ciò è estremamente significativo, perché mostra in Malebranche la forza di pensare in maniera fortemente contro-corrente.
In questo suo pensare estremamente originale si rivelano quindi essenziali la dimensione dell’Essere in generale (ontologia), dell’Essere divino e quella della sua capacità di creare.
Peraltro proprio a tale proposito possiamo comprendere meglio quale sia il ruolo e compiuto della metafisica presso Malebranche: − essa è strettamente connessa con la Fisica grazie al ricorso a Dio come Causa e come Essere. Non a caso, come abbiamo già accennato, Rome chiarisce che in Malebranche l’occasionalismo (così come anche la teoria delle idee) costituisce in primo luogo una metafisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. Insomma esso non è altro che la dottrina creazionista applicata alla Fisica.
E dunque possiamo registrare il fatto che il pensatore sostiene per davvero una metafisica razionalista (la Fisica stessa) anche nel constatare la presenza dinamica di Dio negli eventi, ossia nel fare più teologia che non scienza. Tuttavia l’Autrice sottolinea che, nell’intendimento di Malebranche, ciò è qualcosa che va ben oltre la Rivelazione e quindi non manca di essere propriamente filosofico. Come abbiamo visto a proposito dell’occasionalismo, si tratta comunque di una dottrina fortemente razionalistica incentrata sul concetto di Dio-Causa.
E a tale proposito abbiamo constatato anche le differenze che separano la metafisica del nostro pensatore da quella della Scolastica ed anche di Suarez.
Per quanto possa sembrare paradossale, con questo concorda fortemente anche il già commentato empirismo di Malebranche [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317]. In questa sede di PM, infatti, abbiamo una sintesi degli elementi che comunque configurano una metafisica razionalistica anche in Malebranche. Presso il quale (diversamente da Cartesio) essa ha però sempre un risvolto empirista e sperimentale, quindi non prescinde mai dall’esperienza, e pertanto è sempre realista oltre che idealista. La parte idealista è rappresentata dalla primarietà dei principi razionali trascendenti. Ed in tale contesto si colloca anche un realismo criticista simile a quello del XX secolo: − ossia la dichiarazione dell’inesistenza di oggetti illusori.

Conclusioni.
Abbiamo appena discusso quello che a nostro avviso è il tema centrale nello studio del pensiero di Malebranche, ossia la sua appartenenza o meno alla metafisica razionalistica. Ma in queste conclusioni vorremmo cercare di pervenire ad una definizione ultimativa e chiara di questo tema.
Prima di fare questo vorremmo però evidenziare quelle che possono venire considerate le coordinate principali di questo pensiero così come sono emerse mediante l’analisi di PM. In ogni caso ci riferiamo con ciò in particolare alle coordinate di quella stessa metafisica razionalista nella quale il pensatore in particolare si riconobbe. In qualche misura l’esposizione di tali coordinate può venire considerato anche una sorta di sunto del pensiero di Malebranche.
Volendo previamente riassumere questi tratti portanti del suo pensiero si può dire che egli non ebbe affatto come propria principale preoccupazione la sola rigorosa razionalità della metafisica ma invece anche ben altri suoi caratteri. Che a volte addirittura divergono dalla rigorosa razionalità.
Ecco dunque le coordinate principali del suo pensiero.
Non vi è dubbio che nel pensiero di Malebranche (e precisamente entro la sua teoria della conoscenza) sia presente un empirismo addirittura sperimentalista (che conferisce ovviamente alla percezione il valore che ad esso spetta), ma comunque sempre assistito dalla deduzione a partire dai principi razionali a priori e dunque intelligibili. Filosoficamente quindi il nostro pensatore rientra almeno in parte nella sfera dell’esteriorismo empirista e non in quella dell’interiorismo cartesiano. E tuttavia va precisato che il suo pensiero sfugge decisamente allo sperimentalismo baconiano dato che esso non tollerò nemmeno la minima dose di apriorismo e quindi di deduzione. In ogni caso la teoria delle idee di Malebranche (idea come vero oggetto della conoscenza) resta il campo di una teoria della conoscenza che nel suo nucleo è primariamente idealista.
Malebranche si differenziò comunque dall’idealismo di Cartesio rispetto alla concezione degli oggetti come estensione, e precisamente l’estensione concepita da Dio trascendentemente e fin dalle origini (prima ancora della creazione) in quanto puro pensiero. E tale concezione vedeva gli oggetti come essenza e non come esistenza, e dunque li collocava in primo luogo nella sfera del pensiero (come intelligibili) e non in quella del mondo esteriore. Il nostro pensatore prestò invece sempre fede ad un originario mondo di esistenti (le cose reali) e non di essenze intelligibili. Sebbene abbiamo visto che questa credenza ebbe precisi limiti, come ricorderemo più avanti.
Nel complesso, entro l’occasionalismo, anche Malebranche espresse l’esigenza della metafisica razionalista in generale di dar conto di un mondo perfetto in quanto creato da Dio secondo rigorosissimi ed infallibili principi matematici. Ed in questo quindi egli si riconobbe nelle stesse idee che furono di Cartesio, Leibniz ed altri (tra i quali anche Spinoza).
Malebranche si discostò però da questa metafisica razionalista sempre nel contesto dello stesso occasionalismo. Il che avvenne soprattutto per mezzo di due obiezioni critiche: − 1) la contestazione del concetto cartesiano di Causa Sui, secondo il quale Dio (in quanto primariamente essenza) era causa della propria esistenza tanto quanto era un’essenza puramente a priori che generava l’esistenza; 2) la contestazione del concetto ordinario e ingenuo di causalità. In tal modo, alla fine dei conti, l’occasionalismo smentì la teodicea razionalista affermatasi con l’essenzialismo sia di Cartesio che di Leibniz. Il quale soprattutto pretendeva di dedurre le caratteristiche del mondo (specie la sua perfezione) dalla conoscenza dell’essenza divina in quanto invariabile volontà di bene (ecco l’idea leibniziana del «migliore di mondi possibili»). Il particolare si trattava di una perfezione razionale del mondo che però si manifestava più a priori che non a posteriori, e quindi trascurava colpevolmente (come insignificante) l’evidente imperfezione del mondo esistente. Quello che veniva concepito era insomma più che altro un mondo ideale (reso perfetto dalla sua adesione ai principi matematici) che, poi, in relazione all’arbitraria volontà divina, trovava la propria migliore realizzazione possibile nel mondo immanente. Anche Malebranche credette di certo ai principi matematici come criteri di perfezione del mondo, ma nello stesso tempo collocò il loro agire nell’immanenza del mondo esistente, ossia nel mondo governato dalle leggi studiate dalla Fisica. E quindi fu pienamente consapevole della loro relatività.
Assolutamente esemplare (specie per la sua grande originalità) è in ogni caso la teoria della conoscenza di Malebranche, che invoca la conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio (“visione in Dio”) – avendo inoltre perfino una dimensione fideistico-religiosa e mistica.
In via di principio essa si presta pertanto a rientrare entro la classica metafisica razionalista del tempo, che di certo non si negò mai al possesso di un risvolto religioso (sia pure molto vago).
Ma nello stesso tempo questa dottrina sfugge all’unilaterale apriorismo cartesiano, e quindi tiene in debito conto anche il ruolo della percezione. In particolare essa sfugge dunque sia all’idealismo che al realismo. E proprio per questo (cioè non soggiacendo alle esigenze unilaterali né dell’idealismo né del realismo) ci permette la conoscenza del vero oggetto, ossia quell’oggetto intelligibile che comunque (come vedremo) è assolutamente ontico. Ci troviamo così di fronte ad una sorta di idealismo equilibrato e ragionevole, che in qualche modo anticipa le aspirazioni (sia di Kant che di Husserl) ad un realismo che resti al riparo dalla postulazione metafisica di oggetti irreali. In questo senso quindi la teoria della conoscenza di Malebranche è davvero esemplare. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva del pensatore appare essere ben più equilibrata e ragionevole rispetto a quella degli altri esponenti della metafisica razionalistica, e quindi risulta per davvero del tutto esemplare. Anche perché essa – ben più della restante metafisica razionalista − concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben fondato (certamente molto più di quello tomistico-scolastico in quanto affatto dogmatico). In questo senso, quindi, essa fu molto più apertamente ed autenticamente religiosa della restante metafisica del tempo.
L’epistemologia di Malebranche (incentrata sulla destinazione all’esistenza, invece che all’essenza, da parte delle idee) ci mostra del resto che il vero razionalista metafisico fu Cartesio e non lui. Questo suo intendimento delle idee infatti è strettamente legato all’intendimento di Dio come Essere (ossia come il “Colui che è” dell’Esodo biblico), e non invece come Colui che genera il mondo già nel semplice atto di pensarsi. Con Malebranche l’epistemologia assunse pertanto un deciso volto ontologico. E questo è l’aspetto più originale ed interessante del suo pensiero in uno scenario in cui proprio la metafisica razionalista stava lasciando affermare la prima del tutto a scapito della seconda, anticipando così un’evoluzione che si sarebbe sempre più rafforzata nei secoli successivi.
In particolare nel suo pensiero, grazie alla netta definizione dell’essere (ontologia) e dell’Essere divino, non vi sono per nulla idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dai singoli uomini. Cosa che però oggi avviene ordinariamente entro quella ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logica-critica dell’idea di Dio (spesso anche distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Abbiamo anche notato più volte che le prese di posizione (gnoseologiche ed ontologiche) di Malebranche si offrono come modello per rivedere criticamente alcuni sviluppi recenti della filosofia (specie in relazione alla Fenomenologia di Husserl). Per esempio l’affermazione di una necessaria conoscenza induttiva (che parta dalle cose esistenti per pervenire al mondo trascendente delle essenze intelligibili) sembra correggere validamente la dottrina husserliana della ricerca fenomenologica puramente immanente circa le essenze mondane.
Nel contraddire poi la causalità naturale e necessaria di Spinoza (entro il concetto di Dio-Causa) Malebranche contraddice l’idea pagana di singole entità divine agenti nel mondo (politeismo, spiriti della Natura). Ed in tal modo adombra anche (sebbene in un altro ambito) la dottrina empirista di Hume, secondo la quale (diversamente da Cartesio) la causalità non sarebbe affatto un’idea chiara e distinta, ma invece solo una confusa idea metafisica. Il che anticipa poi anche l’idea di Kant, secondo la quale la causalità stessa non era altro che appena proiezione degli a priori mentali sulla Natura.
Nel complesso quindi il genio di Malebranche si presenta come capace non solo di anticipare sviluppi ulteriori della filosofia ma anche di porre le loro più corrette basi.
In ogni caso uno degli aspetti principali del suo complessivo pensiero fu la critica molto severa da lui rivolta al «cogito» cartesiano quale presunto unico luogo di conoscenza veridica nel contesto dell’introspezione (quale perfetto metodo di purificazione della conoscenza e più in generale della Ragione). E questo perché per lui al puro pensiero andava sempre associata anche la percezione, ossia l’ambito dell’esperienza sensibile. Il che si basava poi sulla distinzione tra il pensiero come atto ed i suoi contenuti (nei quali interveniva necessariamente la percezione di oggetti reali esteriori), laddove invece Cartesio li ritenne una sola cosa. Per tale motivo il nostro pensatore ritenne il puro pensiero necessariamente legato alla conoscenza degli oggetti esteriori, e quindi lo ritenne incapace di configurare veri oggetti per mezzo del semplice ripiegandosi su sé stesso (ossia nl contesto di quell’”epochè” che poi in Kant darebbe divenuta la “riduzione trascendentale” ed in Husserl la “riduzione fenomenologica”).
Nel complesso, quindi, il metodo del «cogito» (consistente nella pura introspezione) apparve a Malebranche come vano e fallimentare, e dunque del tutto inservibile. Cosa che poi confuta in maniera piuttosto forte i fondamenti stessi del moderno idealismo.
Orbene, dato che la dottrina cartesiana del «cogito» fu una metafisica applicata all’interiorità soggettuale (dominata a sua volta dalla più rigorosa razionalità), è evidente che anche solo questa critica di Malebranche pone il suo pensiero abbastanza ai margini della metafisica razionalista del suo tempo. Laddove quest’ultima si rivela essere stata molto unilateralmente (e quindi scompostamente) idealista.
Del resto uno dei principali aspetti che distinse il nostro pensatore da Cartesio fu la sua attribuzione di un’effettiva onticità all’universale, e quindi alla sfera delle essenze e delle idee in quanto espressione dell’”è” della cosa. In altre parole le idee per lui non rappresentavano affatto la cosa esteriore ma invece la incarnavano letteralmente – l’idea era per lui la cosa stessa. E fu per questo che, a suo avviso, per una conoscenza affidabile e veridica, non bastavano affatto le idee chiare e distinte (ma unicamente astratte) alle quali Cartesio aspirava. Era invece necessaria la conoscenza di una vera e propria cosa – che essa fosse trascendente ed intelligibile oppure immanente e sensibile. Per tale motivo egli affermò sì l’incontestabile esistenza del mondo esteriore, ma precisò anche che essa si verificava nel contesto di una “rivelazione naturale” che riguardava unicamente l’esistenza delle cose (e dunque un aspetto gnoseologicamente molto limitato) ma non la loro essenza. Cosa che secondo lui non poteva venire assolutamente trascurata. Tutto questo sta poi in relazione con l’abolizione di ogni problematicità della conoscenza sulla base della teoria della conoscenza di Malebranche (aspetto che abbiamo posto più volte in luce nell’analisi di PM). In particolare a tale riguardo egli affermò con forza il legame inscindibile esistente tra spirito e sensi ed inoltre tra spirito (dunque pensiero) e volontà − ossia in ultima analisi con gli oggetti esteriori, i quali per lui vengono molto più vitalmente voluti che non invece conosciuti (confutando così frontalmente la disconnessione tra tali elementi che era stata ipotizzata entro il dualismo cartesiano). Il che concorda poi con il fatto che egli postulò (anticipando così Bergson) la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente. In ogni caso, comunque, egli non si lasciò mai coinvolgere nella teoria più elementare e ingenua della percezione (che è stata da sempre condivisa dall’uomo comune e dalla fisiologia scientifica, ma in fondo si era presentata anche entro la dottrina scolastica delle forme sensibili), secondo la quale realmente le qualità degli oggetti esteriori ecciterebbero i sensi trasformandosi poi immediatamente in rappresentazioni e concetti, e quindi in tal modo si rivelerebbero al soggetto conoscente. Egli precisò invece che il momento principale della percezione era costituito dalle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi. Ed in tal modo postulò la necessità di un aggiuntivo momento interiore che doveva integrare quello meramente esteriore. Proprio su questa base egli ipotizzò che l’idea fosse presente già entro la percezione, venendo così colta da facoltà mentali diverse dal pensiero puro (in quanto prossime alla percezione stessa), ossia attenzione e concentrazione. E con questo egli sembra nuovamente anticipare il concetto husserliano di «intenzione».
Ebbene tutto ciò viene ulteriormente rafforzato e chiarito dalla sua elaborazione del concetto di “estensione intelligibile”. Che di fatto fu la rilettura dell’indubitabilità del mondo esteriore alla luce del punto di vista costituito dal pensiero divino del mondo stesso. Tale concetto ci mostra ancora una volta come la sua epistemologia fu inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presentò come una vera e propria filosofia religiosa più che come invece una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). Tuttavia proprio in questo ambito la teoria della conoscenza di Malebranche (una volta portata fino alle sue estreme conseguenze) diviene decisamente di nuovo idealista, in quanto riconosce la decisiva importanza del ricorso alle essenze intelligibili trascendenti (uniche capaci di rivelarci l’”è” della cosa) in concorrenza con la percezione che ci rivela invece appena l’esistenza del mondo e delle cose in esso contenute. In questo senso il suo idealismo (nonostante la concomitanza di un solido realismo) deve assolutamente venire considerare il compimento ultimo del suo pensiero. Bisogna però considerare anche che questo suo idealismo sbiadisce laddove egli considera l’esistenza (come abbiamo già visto) come qualcosa che viene più voluto che non conosciuto, e quindi può venire conosciuta indipendentemente da qualunque essenza. Qui infatti il realismo prevale di nuovo. A ciò va aggiunto inoltre che la vera conoscenza del mondo non consisté per Malebranche né nella conoscenza dell’estensione in quanto esistente né nella conoscenza delle cose reali, ma invece nella conoscenza delle relazioni matematiche che legavano le cose. Il che poi rientra nel carattere più generale della sua gnoseologia, secondo la quale il vero oggetto di conoscenza era l’idea e non la cosa.
Nel complesso ci sembra che il realismo costantemente in equilibrio con l’idealismo – che è uno degli aspetti più tipici del suo pensiero – sta esemplarmente a dimostrare che la filosofia non ha affatto bisogno di queste prese di posizioni estremistiche ed in conflitto tra loro, ma ha invece bisogno di una conciliazione tra esse, che è poi l’unica in grado di esprimere l’estrema complessità (specialmente metafisica) dell’Essere. E ciò trova peraltro un preciso riscontro nella moderna ontologia di Hartmann, secondo il quale è totalmente assurdo contrapporre essere ideale (idealismo) ed essere reale (realismo).
Possiamo dunque dire che, in questa sfera di idee di Malebranche, la concomitante metafisica razionalista del tempo si riaffaccia di nuovo sebbene in un modo che è fortemente condizionato da tutte le premesse (di diverso senso) che abbiamo appena discusso. E quindi non si presenta affatto nelle forme che assunse in altri pensatori.
Una di queste premesse è senz’altro quella del forte legame della metafisica alla fede, a sua volta legata ben più al Dio della Rivelazione che non a quello della pura Ragione. E questo conferma quindi che, anche laddove il pensiero di Malebranche sembra rientrare comunque entro la concomitante metafisica religiosa, ciò avviene soltanto nella forma di un’autentica e forte filosofia religiosa. Il che viene fortemente supportato da Rome, la quale afferma che il pensiero di Malebranche rientra in effetti propriamente nella grande tradizione della filosofia cristiana che sostenne la perfetta conciliazione tra Fede e Ragione. E questo certamente non fu un elemento proprio della metafisica razionalista del tempo. Pertanto questo è forse l’aspetto che caratterizza in modo più specifico la metafisica razionalista del nostro pensatore. Laddove poi tale impressione viene ulteriormente rafforzata nel constatare che egli concepì esplicitamente la possibilità e liceità della conoscenza dei misteri cristiani, ossia di qualcosa che sfugge totalmente sia alla razionalità sia perfino alla conoscibilità stessa. Oltre a ciò, come abbiamo visto, questa metafisica religiosa fu capace di dar vita ad un realismo religioso estremamente ben fondato che sfuggiva alle contraddizioni di quello scolastico. E proprio tale elemento di pensiero si offre oggi al pensatore religioso come una risorsa di enorme valore, dato che attualmente il realismo è invece unicamente ateo e scientista.
Oltre a ciò il tratto caratterizzante di forse maggiore valore del pensiero di Malebranche è quello di aver dato vita non solo ad un’epistemologia in equilibrio con l’ontologia (che non ha pari nel pensiero moderno) ma anche ad un’ontologia estremamente paradigmatica, che si presta quindi a fungere da metro di paragone di tutte le ontologie del pensiero umano (quelle antiche e quelle moderne). E in tale aspetto domina decisamente la convinzione di Malebranche secondo la quale la creazione divina è integralmente ontologica e non invece intellettuale come secondo Cartesio.
Essa insomma non crea solo apparenti idee di cose (in quanto puro pensiero) ma invece crea effettive e reali idee di cose (del tutto svincolate dal pensiero), ossia delle vere e proprie possibilità di essere. E ciò sta inoltre in relazione con il fatto che per lui Dio è integralmente Essere e non Pensiero, e quindi non è in alcun modo essere ideale ma invece è solo e soltanto essere reale, ossia esistenza. Proprio questo complessivo tratto dottrinario si presta secondo noi a costituire il paradigmatico metro di paragone per la pienezza ed autenticità di altre ontologie.
L’altro aspetto estremamente caratterizzante il pensiero di Malebranche è poi quello dell’esclusione da parte sua di qualunque problematicità della conoscenza. Il che fa di esso una risorsa di non poco conto in quello scenario filosofico post-moderno nel quale lo scetticismo generato da questa presunzione si è infine trasformato in una umiliante schiavitù della filosofia alla scienza empirica.
Infine ultimo aspetto caratterizzante Malebranche è la teoria della percezione come elemento indispensabile della conoscenza del mondo esteriore, ma solo rispetto all’esistenza e non rispetto all’essenza delle cose. E questo aspetto è estremamente interessante in quanto coniuga in maniera pressoché perfetta il realismo empirista con l’idealismo, permettendoci in tal modo di chiudere il cerchio delle eterne opposizioni che hanno nel tempo dilaniato la filosofia. Anche in questo senso quindi Malebranche si staglia sull’intero pensiero umano a causa di una visione che sembra non voler rientrare in alcuna vincolante scuola di pensiero. Ed in questo rientra senz’altro anche la concomitante dottrina della metafisica razionalista con tutta la sua insufficienza.

In estrema sintesi diremmo quindi che, per una svariatissima serie di motivi, lo studio del pensiero di Malebranche è ancora oggi estremamente utile e fruttuoso. E perché questo sia possibile basta guardare sotto le apparenze che invece a prima vista suggeriscono una piena appartenenza del pensatore a quella metafisica razionalista che ormai non solo non ha più alcuna attualità nello scenario filosofico ma inoltre non ha assolutamente retto ad una quantità enorme di critiche demolitorie. Non a caso nella più recente ricerca scientifico-religiosa della teologia si ripresentano ancora in maniera assolutamente insostenibile aspetti della teodicea che rappresentò uno dei suoi nuclei più forti.

(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Nello studioso di sapienza esoterica insorge molto forte la tentazione di considerare come unica valida ed autentica l’ontologia puramente dinamica. In essa l’Essere sussiste solo in quanto diffuso lungo la linea dello sviluppo recante dal Principio divino originario fino all’individuo determinato che emerge al termine di questo processo. Esso si presenta insomma unicamente come un flusso e non invece come un «qualcosa». In questo modello dottrinario l’Essere sarebbe quindi il contrario esatto della stabilità, contraddicendo così in primo luogo l’impressione (definita dai filosofi come «ingenua») che noi abbiamo di esso nella nostra esperienza quotidiana e nel corso della nostra esistenza. È evidente che in questo modo noi assimiliamo mentalmente l’Essere allo spazio ed all’estensione, riservando il dinamismo soltanto per il tempo. Al quale viene attribuito il nome di «divenire» ed al quale si ha difficoltà ad attribuire lo statuto di ontologia.
Non a caso vedremo più avanti che il tentativo filosofico heideggeriano di identificare temporalità ed essere viene considerato come il prodotto di questa dottrina onto-dinamistica.
Inutile dire comunque che questa questione ha attraversato l’intera filosofia. Agli inizi del pensiero greco infatti Anassimandro (nel concepire il divenire come polarizzazione degli opposti di un dio totalmente indefinito) ed Eraclito [Alessandro Lami (a cura di), I presocratici, Rizzoli Milano 2008, p. 129-139, 198-223] identificarono l’Essere proprio come dinamismo per poi venire controbattuti da Platone. Secondo il quale non era concepibile alcuna forma di autentica realtà che non fosse assolutamente stabile – e ciò sia a livello trascendente (Uno) che a livello immanente, e al livello dell’Essente. Il divenire infatti era per lui caratterizzato da una mutevolezza dell’Essente che ne rendeva impossibile fissare e determinare l’essenza della cosa, e conseguentemente conoscerla. Pertanto a suo avviso il far equivalere l’Essere al flusso inarrestabile del divenire generava un che di assolutamente indifferenziato e indeterminato rispetto al quale non era possibile alcuna conoscenza. E questo significava che non si poteva nemmeno essere certi della sua esistenza.
Ma subito dopo di lui venne Aristotele che – osservando la Natura proprio come avevano fatto Anassimandro ed Eraclito – considerò come perfettamente concepibile l’Essere dinamico in quanto processo di formazione dell’Essente a partire dalla sua originaria pura possibilità di essere, o potenza (“dynamis”) fino alla sua realtà individuale e determinata, o atto (“enérgheia”). Si tratta della famosa dottrina della potenza-atto che poi si sarebbe affermata come un caposaldo dell’ontologia.
Questo non significa però affatto che l’ontologia debba essere necessariamente dinamica. Infatti, al di là di questo, Aristotele elaborò in modo molto preciso il concetto di Essere considerandolo ciò che comunque sta al di sotto di questo movimento costituendo così ciò in cui assenza nulla può sussistere – né in quanto essere statico né in quanto essere dinamico. In questo senso quindi l’ontologia aristotelica fu solo apparentemente dinamica. Anzi essa costituisce il punto di riferimento di ogni ontologia staticista proprio nel porre al centro dell’attenzione l’Essere definito metafisicamente (che poi trovava la sua espressione nella «sostanza prima» o «ousía», corrispondente all’essenza platonica) che è da considerare come la realtà che, una volta ignorata, rende impossibile concepire qualunque genere ontologia. In altre parole, grazie alla riflessione aristotelica, noi sappiamo che, prima ancora di decidere se l’Essere sia statico o dinamico, dobbiamo concepire l’Essere come possibilità del «qualcosa». Ed esso è senza ombra di dubbio unicamente statico.
Individuare poi quali pensatori successivamente concepirono un Essere dinamico significherebbe fare un lunghissimo e corposo excursus entro in tutta la filosofia fino ai giorni nostri. Cosa evidentemente impossibile nello spazio di questo articolo. Per cui ci limiteremo a menzionare alcuni nomi di pensatori che concepirono l’Essere in questo modo nel corso del tempo: − sostanzialmente (tra gli altri) il Neoplatonismo (specie di Proclo), Eckhart e Heidegger.
Ma non vi è dubbio che il contesto di pensiero in cui l’onto-dinamismo è stato affermato in modo più deciso è stato certamente la Cabbala.
Per quanto ci riguarda abbiamo nel passato tentato di dare un volto all’ontologia dinamica in alcuni articoli che si servivano per questo della visione di alcuni pensatori in particolare, ma soprattutto sulla base della Cabbala [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68]. Ed in essi abbiamo dunque preso proprio la Cabbala come modello dottrinario per un’ontologia dinamica. E va detto che le cose stanno effettivamente così. A quel tempo avevamo nel complesso ritenuto troppo artificioso ed irrealistico (dal punto metafisico) il concetto statico di «essere» fino a considerarlo del tutto destituito di fondamento nel momento in cui si tenta di concepire un’ontologia. Specie in quanto esso era stato posto al centro dell’ontologia dalla Scolastica (ispirata da Aristotele) in relazione alle esigenze dogmatiche della teologia cristiana interessata a fornirci di Dio l’immagine del trascendente creatore dell’Essere universale. Il che stava poi in relazione agli studi che avevamo compiuto sull’onto-metafisica tradizionale recuperata da Edith Stein e riproposta in un realismo che intendeva superare l’oblio dell’ontologia verificatosi da Cartesio in poi e perpetuata da una lunghissima tradizione idealistica. Oggi ci siamo avveduti che invece le cose stanno in maniera esattamente opposta – l’unico modo per concepire una vera ontologia è quella di considerare l’Essere come statico e non come dinamico.
Su questa base recentemente però ci siamo imbattuti in tre generi di ricerca molto diversi tra loro, e cioè quella di Nicolai Hartmann [divisa nelle opere dal titolo “Neue Wege der Ontologie” (NWO), ”Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO), e ”Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941; Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982] – che ha appunto reintrodotto l’ontologia in filosofia proprio come Stein], quella di Julio Meinvielle dal titolo “L’influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano” (IGEAC) [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1995] e quella di Pietro Vassallo dal titolo “La restaurazione della filosofia” (RF) [Piero Vassallo, “La restaurazione della filosofia”. Appunti per una storia della metafisica nell’epoca moderna, C:/Users/admin/OneDrive/Desktop/Libro%20-Pietro%20Vassallo%20-%20METAFISICAE%20MODERN%20-%20TOMISMO.pdf].
L’opera di Meinvielle critica sostanzialmente la dottrina cabalistica in relazione all’onto-metafisica cristiana tradizionale, mentre quella di Vassallo sostiene la necessità di reintrodurre in filosofia l’ontologia tomista e cristiana. Ed allora abbiamo compreso che il concepire un’ontologia dinamica ha implicazioni che vanno ben oltre la questione filosofico-metafisica in sé, investendo anche i campi della cultura, della religione e dell’etica. Ci siamo accorti infatti che la Cabala di fatto rende impossibile concepire un’effettiva ontologia, e che quindi l’ontologia dinamica non può venire considerata in alcun modo l’ontologia nella sua pienezza, anzi deve venire considerata una non-ontologia. E questo (come vedremo nelle conclusioni) ha appunto rilevanti conseguenze in vari campi.
Ma come si può vedere uno degli indicatori più sensibili di tali conseguenze resta la visione cristiana dell’Essere, dell’uomo e del mondo. Infatti le due ultime opere che abbiamo considerato sono due opere apologetiche scritte a difesa del Cristianesimo. E se la prima si occupa solo della Cabbala e della Gnosi, senza mai nemmeno porre il tema dell’ontologia, la seconda invece pone questo tema esplicitamente ma sempre in relazione alla difesa del Cristianesimo. Tuttavia, nonostante abbia altre intenzioni, Meinvielle ci descrive di fatto l’onto-dinamismo cabbalistico.
Per questa serie di motivi il testo che più terremo presente in questo articolo soprattutto sarà proprio il suo IGEAC. Anche esso se è un testo molto istruttivo solo nella misura in cui è intanto estremamente settario e ristretto nel punto di vista che lo anima. La tesi di Meinvielle è infatti che Cabbala e Gnosi insieme avrebbero congiurato fin dai tempi remoti (già dal tempo di Mosé) contro il Cristianesimo per distruggere la civiltà e cultura da essa generata. La tesi di Vassallo (RF) sottolinea invece esclusivamente la necessità dell’onto-metafisica tradizionale per una visione che sia veramente in linea con una filosofia cristiana. Pertanto questo testo ci servirà per completare alcune argomentazioni di IgEAC.

1- I tratti fondamentali di una vera ontologia.
Per trattare questo tema ci serviremo in particolare dei testi di Hartmann NWO, GZO ed ELO.
Ora il pensatore tedesco non è stato assolutamente un filosofo cristiano, per cui la sua ontologia non reca affatto i tratti di questa visione filosofica né reca alcun tratto religioso. E peraltro essa sta in deciso conflitto con l’onto-metafisica tradizionale (iniziata con la Scolastica), che, come ben sappiamo, fu decisamente cristiana. La ricerca di Hartmann ha comunque il grande merito di aver fatto risorgere l’ontologia dopo che essa era stata seppellita totalmente dalla filosofia moderna di stampo sostanzialmente idealistico, che era iniziata da Cartesio e che aveva assunto la forma prevalente di una teoria della conoscenza. Per essa insomma è possibile accedere all’essere solo per la via della conoscenza (o anche della coscienza) – ossia ad opera del soggetto. Ma questo è avvenuto unicamente in maniera problematica e critica, ossia per mezzo di una forte messa in discussione dell’ovvietà del sussistere dell’Essere, la cui esistenza è stata quindi condizionata decisamente agli atti del soggetto ed ai contenuti di coscienza.
In questo modo quindi è stata fatta praticamente svanire soprattutto quella presa di posizione ingenua e quotidiana (quella dell’uomo comune esistente, che Hartmann definisce “naturale”) che del tutto giustamente ci fa apparire l’Essere come la più ovvia delle cose, ossia ciò in cui siamo indubitabilmente immersi nel corso della nostra esistenza come in una realtà assolutamente statica che ci trascende e soprattutto ci precede, ossia costituisce lo spazio in cui noi viviamo fin al primo momento del nostro venire al mondo. E bisogna dire – ad onta di tutte le pretese dell’idealismo da Cartesio in poi – che ciò è l’unica cosa al mondo che sia davvero indubitabile. Il resto è tale solo sulla base di pregiudizi. Cosa che Hartmann pone in evidenza con molta forza, sottolineando la natura unilaterale della presa di posizione idealistica rispetto alla Realtà – essa infatti non è altro che un’arbitraria visione del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54].
Non a caso una delle più forti affermazioni di Hartmann a favore dell’ontologia è quella secondo la quale l’Essente è “più antico” di qualunque oggetto generato dall’atto conoscitivo, ossia quell’oggetto che fronteggia la coscienza (come “Gegenstand”) per poi venire trasformato in “oggetto di conoscenza” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., ., Einleitung 11 p. 16-19, I, I, 1 ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54, II, III, 9 p. 77-83, II, III, 10b p. 84-85, II, I, 12c p. 96-97, II, III, 20bc p. 141-146, II, I, 12c p. 96-97, III, I, 22ab p. 151-153, III, I, 23 p. 156-162, IV, II, 42d p. 271-273; Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., IV p. 24-33]. Ed a ciò egli aggiunge che l’Essente è del tutto indifferente verso qualunque forma assunta da quest’ultimo, ossia sussiste in maniera assolutamente primaria e indipendente da qualunque condizionamento soggettuale [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., V p. 34-39].
Ecco, senza entrare entro gli aspetti estremamente complessi dell’ontologia di Hartmann − che abbiamo comunque esaminato ultimamente da diversi punti di vista [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann”, in: < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>; Vincenzo Nuzzo (*), “Nicolai Hartmann. Ontologia e conoscenza. La rinascita dell’essere”., in:
< https://cieloeterra.wordpress.com/2023/11/11/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-ontologia-e-conoscenza-la-rinascita-dellessere/ >] – queste due affermazioni pongono l’ontologia in una maniera così forte che è davvero difficile dubitare di ciò che essa sostiene. E peraltro l’argomento dell’antichità dell’essere rinvia inevitabilmente anche ad una sua concezione religiosa, e precisamente all’atto creativo divino. E dal punto di vista filosofico ciò pone il primato indubitabile del realismo.
Hartmann comunque (non condividendo alcuna concezione metafisico-religiosa) pone l’Essere (e precisamente l’Essente) come equivalente alla complessiva struttura del concreto mondo reale.
Ma intanto pone quest’ultimo come quel “contesto” (“Zusammenhang”) nel quale sussistono tutte le forme di Essere sulle quali ha speculato la filosofia, incluso quell’”essere ideale” che corrisponde in parte all’essenza ideale (posta per primo da Platone) ed in parte alla conoscenza stessa in quanto forma a priori in assenza della quale l’Essente manca del suo aspetto primario ossia l’«è», e quindi la sua determinazione stessa. Quest’ultima realtà infatti sussiste per noi uomini solo se siamo in grado di ri-conoscere ciò che abbiamo davanti, e quindi solo se siamo in grado di definire quel vago «qualcosa» che ci fronteggia nel mondo. In tal modo dunque noi diamo ad esso un nome, che a sua volta corrisponde ad un’essenza, e quindi ad un’idea o concetto. Hartmann definisce tutto questo come “obiettivazione” dell’Essente (corrispondente al suo intendimento come “Gegenstand”), ma di nuovo ribadisce che l’atto conoscitivo qui implicato non cambia assolutamente nulla nel suo sussistere assolutamente primario.
Questa insomma può venire considerata un’ontologia schietta e sobria, ossia coincidente con il mondo reale senza alcun bisogno di fare nemmeno ricorso a concetti metafisici come quelli che costituiscono l’intera ontologia tradizionale e cristiana, ossia quella di stampo scolastico. Vi manca per esempio totalmente quel concetto di “sostanza” senza il quale l’antica ontologia non osava nemmeno affrontare la realtà del mondo. E la sostanza non è altro che l’Essente metafisicamente compreso, ossia sussistente sulla base di quell’Essere che è anch’esso una realtà spiegabile in maniera unicamente metafisica – e cioè come il sussistere di «qualcosa» in luogo del nulla.
Ma in fondo lo stesso Hartmann ammette molto alla lontana questo concetto metafisico dichiarando che l’Essente è e resta qualcosa di assolutamente inafferrabile conoscitivamente e quindi di fatto inconoscibile [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3ab p. 46-48]. La differenza dell’antica onto-metafisica rispetto a questa presa di posizione consiste proprio nel fatto che essa, invece, non intendeva rinunciare a conoscere e comprendere la natura profonda dell’Essere (come realtà effettiva ed anche concettuale). Tuttavia ovviamente per poter fare questo doveva scendere nelle profondità metafisiche di tale realtà, ripercorrendo peraltro il cammino che si dipana dal suo primo insorgere fino alla realtà esperibile sensibilmente. Essa insomma sentiva il bisogno di accoppiare il concetto di Essere a quello di una Causa originaria del tutto nascosta alla vista ed anche irraggiungibilmente remota. Si tratta insomma dell’idea di Dio come Causa e come paradigma di ogni Essente. Dunque, entro l’onto-metafisica antica, l’Essere veniva associato strettamente all’esistenza divina. Ma questa associazione manca totalmente nell’ontologia di Hartmann, il quale rinuncia di fatto ad interrogarsi sulla natura ultima dell’Essente, dichiarando che esso sconfina senz’altro in una dimensione metafisica che però l’ontologia iper-realista da lui posta non ha alcun bisogno di indagare. Infatti per lui le “categorie dell’essere” (ossia quei grandi contesti di essere che permettono di raggruppare le singole cose ed eventi dando ad esse un volto unitario) sono totalmente deducibili dal mondo reale, e quindi non richiedono l’apporto di alcuna conoscenza metafisica (NWO).
Ma comunque ecco davanti a noi ciò che può venire considerato come una vera ontologia – che essa venga concepita in maniera religiosa o meno. Ed in termini filosofici essa deve venire considerata equivalente a un generico realismo. Questi insomma sono i tratti essenziali di quella che è una vera ontologia.

2- Cabbala e ontologia.
Una volta posta questa immagine dell’ontologia dobbiamo però restringere il nostro campo di indagine. La Cabbala infatti non contestava affatto l’esistenza del mondo reale né ne discuteva criticamente la sua struttura oggettiva. Al massimo essa si interrogava sulla sua necessità etica, dato che vedeva chiaramente nel mondo il male per eccellenza.
Per il resto essa si interrogava sulla natura ed origine dell’Essere esattamente come fa l’onto-metafisica cristiana, e quindi concepiva almeno una tendenziale relazione tra Dio ed Essere.
Vedremo quindi se l’ontologia a-religiosa debba venire eventualmente esclusa dall’impossibilità dell’ontologia che secondo noi scaturisce dalla Cabbala.
E veniamo quindi al testo di Meinvielle.
Dal punto di vista religioso il fatto fondamentale è che tanto le Scritture cristiane quanto quelle ebraiche fanno riferimento all’atto creativo divino originario rappresentato dalla creazione di Adamo. E (almeno in via di principio) la Cabbala in questo non è da meno, dato che anch’essa si è riferita fin dall’inizio a questo atto ed al suo frutto ossia il primo uomo Adamo [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 17-21]. E secondo l’autore lo fece peraltro elaborando contenuti dottrinari (sostanzialmente una “tradizione orale”) che conteneva già concetti metafisici cristiani (tra i quali la Trinità e la figura del Cristo quale Figlio). Peraltro era qui prevista anche una scienza di altissimo livello (in possesso di Adamo, e quindi teoricamente di ogni uomo) che consisteva nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri. Sussisteva insomma già una Gnosi, che però non aveva nulla di anti-cristiano. Essa però era limitata alla facoltà della Ragione concessa da Dio all’uomo. Proprio per questo, entro la sua suprema capacità conoscitiva, l’uomo era sottomesso a Dio (alla sua Grazia) e non concepiva assolutamente un’ascesa autonoma al divino che fosse in concorrenza con Dio. Per l’Autore si è in tal modo delineata quella “Cabbala buona” (in perfetta con le verità cristiane) che poi si sarebbe affiancata al Talmud, e cioè all’esposizione del culto divino come osservanza della Legge. Ed è estremamente probabile che essa abbia concepito anche il Dio-Essere. Tanto è vero che, come poi vedremo, entro le sue evoluzioni successive, la Cabbala tenne fortemente presente l’affermazione di Dio stesso circa la propria natura di Essere, e cioè l’”Eyeh”, ossia quell’”Io sono Colui che sono” (pronunciato nell’Esodo) che secondo Beierwalters non è altro che l’affermazione divina stessa circa la propria natura di Essere [Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2004, I-V p. 5-82]. In altre parole è Dio stesso ad affermare la necessità assoluta di un’ontologia.
Comunque nel complesso in questa fase siamo di fronte ad una Rivelazione divina che non solo non differenza affatto Ebraismo e Cristianesimo, ma inoltre si presenta anche con alcuni dei caratteri di quella Sapienza che poi i moderni pensatori tradizionalisti avrebbero indentificato come Scienza Sacra originaria ed universale [René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 15-59; Swami Sri Yukteswar, La scienza sacra, Astrolabio, Roma 1993, p. 31-57; 107-117; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988; LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 7-79; Luc Brisson, Neutrum utrumque. La bisessualità nell’antichità greco-romana, in: A. Faivre & F. Tristan (a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 58-60; Elemire Zolla, L’Androgino alchemico, ibd., p. 196; Pierre Deghaye, L’uomo virginale secondo Jacob Böhme, ibd., p. 205-230; Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995, p. 79-85]. In tal modo essa trascenderebbe tutte le Rivelazioni connesse a teologie specifiche e conterrebbe tutte le maggiori Verità metafisiche. Verità divine che l’uomo può conoscere non essendo costretto a limitarsi, nella relazione con Dio, alla sola fede cieca.
Mainvielle pone però in evidenza il progressivo divergere di questa tradizione orale ad opera dei “dottori” (precursori di Farisei e di altri sapienti settari ed esoterici) i quali sequestrarono il relativo sapere in sette élitarie (e spesso segrete) che escludevano la massa dei fedeli [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 20-23]. Questa Sapienza si sarebbe poi evoluta (in maniera sostanzialmente negativa e deviante) passando per varie fasi ed arrivando fino ai giorni nostri, ed inoltre passando da orale a scritta: − 1) una prima fase oscura in cui l’Ebraismo assorbì contenuti religioso-metafisici di tutti i popoli pagani orientali (specie gli Egizi e i Caldeo-Babilonesi); 2) una seconda fase rappresentata dagli scritti di Yochanàm ben Zakkày (nata I secolo a.C. e poi evolutasi fino al V-VI secolo d.C.); 3) una terza ed estremamente lunga fase che ha come centro e base il “seper-ha Zohar” di Mosè de Leòn (e che pare avrebbe ricevuto la sua sistematizzazione intorno al XII-XIII secolo d.C.); 4) una quarta fase rappresentata dalle fantasiose elaborazioni teosofiche rinascimentali, ed in particolare quella di Isak Luria.
Non vi è dubbio che lo Zohar rappresenta il cuore e centro di tutta la Cabbala. In ogni caso fin dall’inizio esso cominciò a presentare elementi gnostici che secondo l’autore sono di paternità primariamente giudaica (prima che cristiana), così che secondo lui, nel corso del tempo e delle varie elaborazionim Cabala e Gnosi finirono per coincidere quasi completamente. Va sottolineato però che la Cabbala lurianica (e quella simile, come ad esempio quella di Codovero) va considerata quella più lontana possibile dalla Rivelazione, in quanto basata sostanzialmente su una serie di riflessioni filosofico-teosofiche e metafisiche che decisamente sconfinerebbero nella pura fantasia.
Ecco dunque il contesto nel quale si sono formate le premesse dottrinarie necessarie per poter esaminare la possibilità di un’ontologia entro la Cabala.
Partiamo allora dalla prima delle idee metafisico-religiose in essa maturate, e cioè quella sviluppata sulla base del primo capitolo del Genesi (Ma’ asé Bereshit) ed inoltre del primo capitolo di Ezechiele (quello contenente la famosa visione del Carro). Siamo insomma esattamente alle origini dell’Essere. Questa idea è quella della Merkaba, ambiente divino del tutto simile allo gnostico Pleroma, e quindi realtà composta di esseri spirituali come gli Eoni [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 28-30]. Questa fu un’idea maturata nei circoli farisaici prima ancora del Sefer-ha Zohar di Mosè de Leòn. E tale dottrina contemplava anche la creazione divina per mezzo delle lettere dell’alfabeto ebraico, ossia le Sephiroth (che corrispondono chiaramente alla Parola o Verbo). E su questo si iniziò peraltro a concepire tutta una prassi teurgica che mirava all’ascesa intellettuale del tutto autonoma (ancora una volta tipicamente gnostica al divino), oltre che ad influenzare la creazione divina (a favore dell’uomo con mezzi magici) dato che Dio stesso era considerato creatore in quanto Mago. Nel complesso, sottolinea Meinvielle [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 24-26], in ciò possiamo constatare un allontanamento dalla tradizione primordiale che seguiva il principio demoniaco del “sarete dèi” unito al “non serviam”. E questo ci riporta alle profonde riflessioni fatte su questo da Dostoevskij nel considerare la libertà umana come la causa primaria del male [Nikolaj Berdjajew, Das Ich und seine Objekte, Holle, Darmstadt 1951, IV, 3 p. 191-194; Nikolaj Berdjaev, La concezione del male in Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, I, p. 8-25, I p. 32-35, I p. 40-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-81, V p. 85-93, VI p. 104-109, VIII p. 160-166; Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995 I, II, p. 88-110, II, I, p. 113-131].
In altre parole lo Gnosticismo (distinto dalla del tutto legittima Gnosi sia nell’Ebraismo che nel Cristianesimo) si presenta come un appoggio dottrinario potentissimo ad un atteggiamento umano negativo (in quanto anti-divino) che risale fino allo stesso Peccato originale, e quindi rappresenta perfettamente la ribellione dell’uomo a Dio e la separazione da Lui. Inoltre con ciò il peccato inizia a mostrarsi essere anti-divino in quanto chiaramente conoscitivo. E quindi finisce per assomigliare in maniera impressionante alla presa di posizione filosofico-idealistica moderna (sicuramente di stampo gnostico) che, proprio concentrandosi sulla teoria della conoscenza, ha finito per distruggere completamente l’ontologia. Ontologia che, invece, come abbiamo visto, era voluta espressamente da Dio stesso. E questo viene confermato peraltro dai riflessi cabbalistico-gnostici che Meinvielle (sebbene esagerando in severità ed anche in genericità dell’accusa) riconosce praticamente in tutta a filosofia moderna [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo…cit., I, VIII p. 96-101, I, IX p. 102-106, I, X p. 107-115].
Questo è comunque senz’altro un primo indizio per la costituzionale avversione della Cabbala all’ontologia, e quindi dell’impossibilità di concepire un’ontologia nel suo contesto.
Ma il primo dei momenti decisivi di questa tendenza viene quando iniziamo ad esaminare la dottrina dello Zohar [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, II, I, 4 p. 33-35]. Qui infatti si delinea un supremo mondo divino (costituito dai “tre splendori supremi”: − dall’En-Sof, dall’Adam Kadmon (corrispondente all’’Hochmah) e dall’Intelligenza, o Binah, corrispondente più o meno alla Sapienza divina femminile o Sophia). Il resto del mondo (costituito dalle dieci Sephiroth) è infinitamente separato da questa sfera suprema, ma configura intanto il mondo vero e proprio, ossia il mondo fisico e materiale. Ebbene la dinamica che produce il mondo supremo è propriamente emanazionistica, mentre quella che produce il mondo reale è invece propriamente creativa. Ma con l’emanazione di delinea quella continuità di essere che inevitabilmente lega il mondo divino a quello immanente portando il divino stesso in quest’ultimo. Pertantro questo della continuità (indissolubilmente legata all’emanazione) è senz’altro uno degli elementi più decisivi dell’intera dottrina.
Infatti si assume qui che, essendo Dio unità, le dieci Sephiroth del mondo (che sono di fatto gli attributi divini) non sono separati da Lui e quindi di fatto devono spostare totalmente Dio nell’immanenza. La continuità (quale carattere dell’emanazionismo) non permette altra possibilità.
Il problema è insomma che l’intero processo inizia come emanazione e non come creazione. E da qui tutto dipende. A causa di questo, infatti – per quanto grande possa essere la distanza tra il mondo divino supremo e quello inferiore –, comunque essi sono strettamente uniti dalla continuità.
Ma nella Cabbala le cose non si fermarono affatto qui. Infatti, secondo Meinvielle; in essa iniziò poco a poco un’interpretazione decisamente “naturalista” dello Zohar (che ebbe come protagonista Mosè de Leòn e poi anche Alolf Franck e Gershom Scholem), nella quale lo schema appena esposto venne modificato per mezzo dell’inserimento in esso di un elemento metafisico decisivo, ossia la separazione dell’En-Sof da tutte le entità successive [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., , II, II p. 37-48]. Cosa che portò alla modifica dell’Albero sefirotico, che assunse pertanto la struttura tutt’oggi nota. Ma comunque il Dio più radicalmente trascendente (l’En-Sof), ossia il Dio nella sua pienezza, cominciò a venire concepito come l’Abisso stesso, e cioè un totale “Deus absconditus” (totalmente privo di attributi e pertanto inconoscibile ed irraggiungibile), e quindi coincidente totalmente con il Nulla. Esso insomma non era unito più nemmeno al mondo dei “tre supremi splendori” ed infatti li al suo posto come prima entità comparve Keter, la Corona.
Questo però ha delle inevitabili conseguenze concettuali. In primo luogo questo Dio supremo è tutto tranne che Essere. Tanto che corrisponde al Nulla stesso. Motivo per cui non può essere in alcun modo un Dio-Persona che sia oggetto di conoscenza e di amore, così come Egli stesso non può essere soggetto di amore. In secondo luogo un siffatto Dio non può assolutamente creare, nemmeno secondariamente (come avveniva prima), per cui l’atto emanazionistico si rafforza ancora di più e con esso la continuità diviene ancora più inevitabile. E se non fosse così questo Dio svanirebbe semplicemente nel nulla e con Lui svanirebbe anche ogni prospettiva religiosa.
Esso infatti, come abbiamo visto, è inconoscibile ed irraggiungibile. Insomma, entro tale visione, è come se Dio non ci fosse affatto. Ne consegue ovviamente che – grazie al solo schema emanazionistico e non a quello creativo (che esige invece una Presenza divina ontica e personale, ossia esige il Dio-Essere) – Dio può manifestarsi solo se si traspone totalmente nel mondo. Cosa per la quale Egli deve abbandonare necessariamente la sua vera natura e quindi deve non solo trasporsi nel mondo ma anche trasformarsi totalmente in esso. Ecco insomma chiaramente esposto l’inevitabile panteismo della Cabbala. Che però non rappresenta (come sembra a prima vista) la positiva impregnazione divina del mondo, ma rappresenta invece l’espressione della del tutto negativa nullità di Dio, e quindi l’affermazione della sua inesistenza.
Il senso della “Shekinah” nello Zohar è esattamente questo, ossia la totale immanenza divina. Laddove essa manifesta il disperato bisogno che Dio ha del mondo. Cosa che poi inevitabilmente coinvolge anche l’uomo facendo di esso un dio. E così il cerchio si chiude.
Effettivamente, come ipotizza Meinvielle, per mezzo dell’affermazione dell’immanenza divina, la Cabbala realizza perfettamente l’originaria tentazione demoniaca manifestatasi nel Genesi – l’uomo diviene dio senza alcun intervento della Grazia, e peraltro nella totale assenza di un Dio-Essere e di un Dio-Persona. Dio insomma non è né un «qualcosa» né è all’origine di un «qualcosa».
Meinvielle ce lo fa vedere in modo magistrale. In virtù di Dio come Nulla, infatti, il passaggio dal «nulla al qualcosa» avviene per un improvviso (inspiegabile e arbitrario) arrovesciamento dell’Abisso originario divino (Caos, o En-Sof) in qualcosa, attraverso il dispiegamento di ciò che fino ad allora era avviluppato (ripiegato) in sé stesso. E così il Nulla divino si trasforma di colpo in pienezza ma intanto resta nulla, un “nulla mistico”.
Ecco allora che il cruciale «perché qualcosa e non nulla» si spiega senza ricorrere assolutamente al concetto di Essere. Che diviene così del tutto secondario, rendendo in tal modo del tutto superflua l’ontologia. E non è che per questo sia cruciale l’identificazione dell’Essere con Dio. Ciò che è cruciale è invece, in alternativa, l’Essere originario (che anche Aristotele aveva concepito senza in alcun modo concepire un Dio personale). Dunque è in sua mancanza che l’ontologia si dissolve.
Il che vale pertanto sia per l’ontologia atea (come quella di Hartmann) che per quella religiosa.
Ma intanto ciò sottolinea non solo l’apparenza ma anche l’inconsistenza apparente del tutto gnostica del mondo (per quanto dichiarato formalmente divino). Infatti, dice l’Autore, in realtà quando nel mondo prendiamo contatto con il «qualcosa» creato, noi in verità prendiamo contatto con il Nulla divino senza il quale esso non sussisterebbe. Il che equivale a prendere contatto con il Nulla. Perché peraltro questo passaggio da Nulla a qualcosa avviene esclusivamente in Dio, e noi ne cogliamo appena i riflessi apparenti. Questo mondo nel quale pure Dio vive ha insomma i caratteri di una totale inconsistenza di essere. È insomma di fatto esso stesso è appena un nulla apparente. Ci troviamo di fronte ad un chiaro panteismo, ma esso appare molto meno grave rispetto alla dissoluzione dell’Essere alla quale intanto qui assistiamo.
Ecco quindi un chiaro secondo indizio per l’impossibilità dell’ontologia nella Cabbala. Ed essa appare qui in stretta relazione con il paradigma emanazionistico, che assume la sua formulazione più forte in relazione all’Abisso-Nulla divino. Carattere fondamentale dell’emanazione, infatti, è quello dell’erompere assolutamente spontaneo, “istantaneo”, naturale e casuale dell’Essere divino, in assenza di qualunque volontà e scopo. Siamo insomma già in pieno nichilismo.
Infatti l’Essere compare ormai come del tutto secondario al Nulla.
E dobbiamo peraltro registrare che proprio in questo modo viene concepito il Dio in quanto Nulla che oggi è stato ripreso dalla teologia scientifica di ispirazione buddhista; entro la quale viene affermata la secondarietà dell’essere e la negazione di Dio come Persona. Ma con ciò diviene ovvio anche il divenire attuale, entro l’attuale teologia, del discorso circa panteismo ed anche di una sua certa valorizzazione.
Meinvielle sottolinea il fatto che la Cabbala ha tentato in tutti i modi di nascondere il panteismo dietro un discorso teista. Ma ovviamente non poteva riuscirci. Infatti ciò si lascia riconoscere nella dottrina zoharica della creazione, che è in verità pura teogonia (auto-rivelazione divina racchiusa in sé stessa) a sua volta inestricabilmente unita ad una cosmogonia (che è dispiegamento dell’unità, differenziazione e separazione). Questi due processi sono quindi una sola cosa (due facce di una stessa medaglia), e quindi alla fine puntano unicamente al basso. La creazione insomma è appena il dispiegamento delle forze che operano e vivono in Dio. Dunque essa rappresenta appena il Dio Nulla riflesso nel mondo, che è quindi solo apparentemente manifestato nella separazione.
E questo è del resto inevitabile, dato che, come abbiamo detto, non vi è un Dio-Essere-Persona che resti in sé, separato dal proprio atto creativo e dal mondo, ma comunque agente.
Ecco perché non può esservi alcun teismo.
Il che ripropone di nuovo il paradigma fondamentale dell’immanentismo. Infatti questa unità di poli nell’apparente separazione non prevede alcuna differenza tra trascendente ed immanente. Dunque in tal modo viene negata la trascendenza come carattere essenziale di Dio. E questo lascia trasparire chiaramente lo Gnosticismo: − cioè il Dio creatore trascendente come cattivo Demiurgo [LMA Viola, La Gnosi cristica integrale, Victrix, Forlì 2008 , I, IVb p. 53-54; René Guénon, Il Demiurgo ed altri saggi, Adelphi, Milano 2007, III, III p. 202-211; Vangelo di Filippo, in: Marcello Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990, 6-8 p. 510, 34-36 p. 517, 112-113 p. 535; ; Vangelo dello Pseudo-Tommaso, ibd., p. 29-30; Vangelo di Filippo, ibd., 9-14 p. 510-512, 84-85 p. 526; Samuel D. Cioran, Vladimir Solov’ëv and the Knighthood of the Divine Sophia, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1977, I, 1 p. 19-27; Giulio Busi, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 349-351; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 43-45].
Peraltro di nuovo traspare qui il fantasma di una teoria della conoscenza (almeno in abbozzo). Infatti sulla base di tutto ciò (p. 41-42) Dio non è affatto un Soggetto (il paradigma dei soggetti coscienti-conoscenti), ma è invece al massimo un soggetto trasfuso nell’oggetto. In Dio insomma soggetto ed oggetto si sono separati, ma l’abisso tra di essi viene continuamente colmato unicamente dall’atto soggettuale.
Ebbene sulla base di tutte queste contraddizioni non potevano che insorgere le disperate teorie filosofico-teosofiche di Luria che aggravarono ancor più l’immagine di un Dio inteso come a Abisso e Nulla. Qui si aggiunge infatti la descrizione di fenomeni divino-cosmici – come lo “zimzum” (l’auto-generazione in sé stesso di un Vuoto da parte di Dio perché nasca l’essere, che è poi anche processo di auto-purificazione dal male che esiste in Lui stesso), la “rottura dei vasi” (che tenta di spiegare il fallimento della creazione divina a causa del fatto che Egli, contenendo anche il male, non poteva che generare il male nel mondo), il “tiqqum” (raggio di luce che parte dall’Adam Kadmon generando finalmente quel Volto divino rivolto verso il mondo che era fino a quel momento sempre mancante). A nostro avviso questi sforzi non sono altro che il frutto della cattiva coscienza per una concezione del tutto deviante di Dio che in particolare manca di considerarlo come Essere. Non a caso queste teorie parlano di un Dio sostanzialmente impotente (al quale è addirittura sfuggita di mano la creazione) che è totalmente coinvolto nella responsabilità per il male.
Siamo insomma così in pieno Gnosticismo.
E comunque la natura meramente umana di questo costrutto rende la Cabbala aliena da qualunque Rivelazione originaria universale. A nostro avviso anche da quella concepita dai moderni pensatori tradizionalisti come Guénon, che invece Meinvielle (secondo noi a torto) coinvolge pienamente nel pensiero cabbalistico-gnostico [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo…cit., I, XI p. 116-129].
Ma più avanti l’Autore ci offre ulteriori elementi per considerare impossibile un’ontologia entro la Cabbala [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., IV p. 64-68]. Egli si chiede infatti cos’è mai lo gnosticismo cristiano (p. 66-68). E ne conclude che esso ha delle caratteristiche del tutto sovrapponibili a quelle dello Gnosticismo ebraico, dal quale in effetti secondo lui deriva.
Ma queste caratteristiche riguardano propriamente l’ontologia. In sintesi infatti la metafisica cristiana è basata sulla distinzione (e discontinuità) ontologica tra Dio e mondo (riscattata però dall’Amore di Cristo), mentre quella gnostica è invece basata invece sulla continuità tra di essi.
Il primo schema è creativo ed il secondo è emanazionistico. Ed a ciò si aggiunge la dottrina della Realtà: − Dio viene considerati l’unica Realtà in assoluto ma comunque è un Nulla, e quindi essa è estesa al mondo come mera apparenza (ossia di fatto nulla). Dunque manca qui in primo luogo l’Essere ossia un’ontologia autentica, inclusa quella atea.
In particolare Meinvielle chiarisce che lo Gnosticismo è dualismo perché considera la materia il male – però solo perché lo stesso Principio contiene il male, dato che esso è realtà e non privazione (come nel Cristianesimo) − ma intanto è anche un monismo proprio in virtù della continuità tipica dell’emanazione. Quest’ultima infatti fa sì che la Realtà divina sia una Totalità ontologica che unisce la dimensione trascendente a quella immanente, anzi le fonde totalmente tra loro.
Vi è dunque una totale “continuità di sostanza” tra Dio e il mondo-uomo, in luogo della discontinuità esistente invece nel modello creativo, nel quale Dio è ontologicamente separato dal mondo ed è Causa prima. Per la precisione, entro lo schema aristotelico-tomistico, Dio è di certo la sostanza prima, e come tale rappresenta l’intero Essere. Ma ciò non toglie che la sostanza divina sia diversa dalla sostanza mondana in quanto la prima è infinita e la seconda finita.
Ecco comunque che proprio qui (a proposito di questa continuità di sostanza) si potrebbe pensare entro la Cabbala ad un’ontologia dinamica (quella emanazionistica) che generi comunque un essere, ossia la Totalità di sostanza costituita dal continuo flusso del divino che si cristallizza nel mondo. Ma il fatto è che Dio è unica e sola Realtà (ad ogni livello) solo in quanto è un Nulla. Quindi non è Essere ma Nulla ciò che sgorga dall’Abisso costituendo tale Realtà totalizzante.
E conseguentemente tale Realtà totalizzante è essa stessa un Nulla – è cioè appena apparenza, “māyā”. E ciò effettivamente, come dice l’Autore, richiama il platonismo, la teoria upanishadica dell’”advāita” e il Buddhismo.
Dunque dov’è qui l’ontologia? Il flusso potrebbe far pensare ad essa in forma però dinamica e non statica, ossia come onto-dinamismo. Ed in questo caso l’essere vi sarebbe ma sarebbe inafferrabile come l’acqua del fiume di Eraclito. Ma invece non vi è ontologia perché non vi è Essere. Vi è invece solo Nulla. E ciò che sembra essere (il mondo) è in realtà solo apparenza, ossia nuovamente nulla.
Ecco dunque il terzo indizio per un’impossibilità dell’ontologia nella Cabbala, ed ovviamente anche nello Gnosticismo.
Vale la pena quindi di ricordare quanto Meinvielle sottolinea a proposito della metafisica cristiana, e prendendo Tommaso come suo principale rappresentante [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, VI, 2 p. 83-84]. Egli dice che per essa l’Assoluto non è il mondo, ma è solo Dio. E il mondo non può in alcun modo essere un assoluto perché esso non sussiste prima dell’atto creativo divino. Il mondo insomma comincia a sussistere solo dal momento in cui il Dio-Essere infonde in esso l’Essere iniziando alla materia (anch’essa del tutto inesistente prima dell’atto creativo). Dunque tutto gira intorno alla «creazione dal nulla». E con ciò ci ritroviamo perfettamente dove ci trovavamo prima con Hartmann – l’Essere è “antico” per definizione, ossia è originario. Ma soprattutto vi è un chiaro stacco ontologico tra esso e il Nulla. Insomma anche la metafisica cristiana tiene presente il Nulla, ma non come una sorta di pseudo-essere che trasbordi Dio dall’Abisso al mondo, bensì come ciò che precede l’Essere ed inoltre lo contraddice realmente. E conseguentemente noi non saremo mai di fronte all’Essere se non quando esso si è differenziato completamente dal Nulla – sia a livello trascendente, nel supremo Ente divino, sia a livello immanente, nell’ente finito.
Ma siccome il carattere dinamico conferito all’essere fa di esso una sorta di nulla (qualcosa che sfugge tra le mani senza che mai potremo essere sicuri di aver davvero toccato un’entità), allora bisogna concluderne che la completa differenziazione dell’Essere dal Nulla avviene solo quando il primo si è fermato, ossia è divenuto solido, stabile e soprattutto tangibile. Dov’è Dio in questo momento? È là dov’è sempre stato nel mentre si compiva questo processo. E dunque, quando il mondo si cristallizza, Egli non è nel mondo (se non come sostanza puramente metafisica trascendente che possiamo solo immaginare). Vi sarà realmente soltanto quando, in virtù di un atto di infinito amore (che in qualche modo è rinuncia a sé stesso), il Padre si farà uomo nel Figlio e discenderà nel mondo. Ma senza mai (neanche in questo caso) assimilarsi a quest’ultimo.
Ecco che allora l’onto-metafisica cristiana può anche non essere l’ontologia per eccellenza, o addirittura l’unica possibile. Ma almeno essa corrisponde perfettamente ai caratteri oggettivi che un’ontologia deve avere per essere tale. E questi sono i caratteri enunciati da Hartmann.
Ma comunque, per avere un’ontologia, così come la continuità bisogna secondo Meinvielle evitare anche la dottrina del «tutto in tutto» che per lui è tipicamente cabbalistica ma intanto si è presentata nel bel mezzo della filosofia cristiana proprio perché quest’ultima è stata infiltrata profondamente dalla Cabbala, specie dal Rinascimento in poi [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., VII p. 96-101]. E questo perché questa formula richiama ovviamente l’intero schema di pensiero che abbiamo finora illustrato, e cioè quello che connette la trascendenza divina con l’immanenza mondana, generando non solo un Totalità di Realtà ma inoltre considerandola divina. In modo tale che il mondo divino esprime la presenza di Dio, che è il Tutto, in qualunque realtà e livello di realtà.
E qui egli chiama in causa i maggiori pensatori (filosofi e teosofi) che hanno operato dal XV al XVII secolo, come Cusano, Bruno, Böhme, Spinoza, Leibniz. E secondo lui un decisivo contributo al «tutto in tutto» è stato offerto dalla “coincidentia oppositorum” di Cusano (p. 96). Dio è così infatti infinito e finito, eternità e tempo, necessità e contingenza, ossia è tutti gli opposti. E quindi è insieme (senza alcuna contraddizione) trascendenza ed immanenza. Ecco dunque che manca proprio qui quel netto stacco tra essere e non-essere in assenza del quale l’Essere mai si delinea e si cristallizza. E questo trova una forma molto specifica nell’affermazione dell’indifferenza tra finito e infinito. Per Cusano infatti Dio è simultaneamente “massimo” e “minimo”.
In tale contesto insorge solo il sospetto che Meinvielle unifichi troppo il neoplatonismo con la Cabbala. Infatti molte delle caratteristiche di pensiero dei pensatori qui citate risalgono al neoplatonismo greco. Ma anche questo per l’Autore non è altro che una specie di Cabbala.
E questa ci sembra sinceramente una tesi troppo estremistica. Per il resto l’analisi unicamente polemica e negativa di una teosofia come quella di Böhme (assimilata totalmente alla Cabbala) sottovaluta il fatto che il Cristianesimo (così come qualunque religione locale) nasconde legittimamente delle profondità esoteriche che non contraddicono affatto il magistero ufficiale ma intanto permettono ad un gruppo ristretto di fedeli di comprendere in maniera meno semplicistica alcune verità. E l’ascendenza neoplatonica di molte delle riflessioni dei pensatori di questa epoca si presta proprio a questo. Quindi in fondo non vi è alcun bisogno di equiparare tali riflessioni all’eterodossia sicuramente rappresentata da una Cabbala che fu sostanzialmente deviata.
E questo riguarda tutte le assimilazioni cabbalistiche che, da questo momento in poi, vengono riconosciute da Meinvielle, e che giungono fino all’Idealismo tedesco. Quest’ultimo infatti è stato con tutta la ragione assimilato da Beierwaltes al neoplatonismo greco, ma ciò non significa affatto che sia anche totalmente assimilabile anche alla Cabbala.
Oltre a ciò la totale assimilazione alla Cabbala di visioni filosofiche come quelle di Böhme e Spinoza suggerisce che probabilmente – nel confrontare Cabbala e Neoplatonismo – dobbiamo tener presente che è estremamente difficile comprendere cosa viene prima e cosa viene dopo. Pertanto è estremamente probabile che non ci sia stata alcuna antecedenza, e che quindi entrambe le dottrine abbiano fatto parte di un’unica Sapienza di carattere fortemente esoterico.
Insomma da questo momento in poi le tesi del nostro Autore diventano troppo settarie, di parte, estremistiche, polemiche e ideologiche per poter venire considerate credibili. In altre parole la filosofia occidentale moderna non può venire considerata appena una manifestazione della Cabbala.
Ma comunque alcune intuizioni di Meinvielle restano valide. Innanzitutto l’Autore sembra nel giusto quando afferma che l’Idealismo tedesco non ha fatto altro che sostenere la separazione definitiva tra Dio e uomo affermando la totale divinità dell’uomo [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., X p. 107-115]. E ciò si basa su quella totale immanentizzazione di Dio che abolisce totalmente il Dio trascendente (il che per l’Autore è tipicamente cabbalistico). Ma, come abbiamo già visto, la trascendenza divina comporta il Dio-Essere (e donatore dell’Essere) e il Dio-Personale.
Quella dell’Idealismo tedesco è quindi una via breve per affermare la totale impossibilità dell’ontologia in un pensiero cabbalistico o anche simil-cabbalistico. In particolare l’Idealismo tedesco ha fatto sì che il mondo apparisse come null’altro che il versante negativo di Dio e quindi la sua esistenza si presenta unicamente in negativo. Laddove poi ovviamente il concetto di essere non si addice affatto ad un Dio che, anche in questo ordine di idee, è essenzialmente il Nulla stesso.
Ma in tale contesto emerge un estremamente forte concetto riguardante la tendenza anti-ontologica del pensiero di Cartesio, che poi sicuramente, insieme a Spinoza, fu un precursore dell’Idealismo tedesco (p. 108-109). Meinvielle si rifà qui alle tesi di Cornelio Fabro, secondo il quale il «cogito» cartesiano reitera il concetto di immanenza nella forma di affermazione della presenza della realtà nella coscienza. Si tratta di fatto dell’affermazione dell’idea di Dio “in mente” e quindi dell’antico «argomento ontologico» che contrappose Tommaso ad Anselmo. Ma ovviamente si tratta anche dell’affermazione della generazione della realtà da parte della coscienza umana. Che è stato per secoli il caposaldo dell’idealismo fino all’Idealismo tedesco ed anche oltre fino alla Fenomenologia husserliana.
Ebbene qui ci troviamo di fronte ad un ben probabile ulteriore indizio per l’impossibilità dell’ontologia entro la Cabbala. Infatti l’Autore contrappone a tutto ciò la visione di Tommaso per il quale la realtà trascende la coscienza in quanto l’essere trascende totalmente la conoscenza.
E con ciò ci troviamo nel pieno della tesi ontologica di Hartmann, secondo la quale appunto l’essere non solo trascende la coscienza ma inoltre la contiene e risolve in sé.
Questa così forte affermazione dell’immanenza fa di Cartesio, secondo Mainvielle, il primo pensatore che abbia separato la metafisica dalla religione, con un conseguente inevitabile ateismo specie filosofico. E questo ci riconduce non solo alla tendenza anti-metafisica dell’attuale teologia basata sulla ricerca religioso-scientifica, ma anche ala coincidenza tra tendenza anti-ontologica ed anti-metafisica, che poi esamineremo sulla base di Vassallo.
In ogni caso quello ciò che viene dopo nel libro di Meinvielle [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., , XI p. 116-129] è un autentico fuoco di artificio di attribuzioni della Cabbala ad una quantità enorme di pensatori e dottrine moderne – dai pensatori tradizionalisti come Guénon, ai pensatori induisti, ed a pensatori occidentali come Nietzsche, Heidegger. E questo indica che l’accusa di cabalismo è in fondo in questo libro estremamente ampia ed imprecisa, e come tale viene usata a piacimento in modo ideologico e settario per soddisfare simpatie ed antipatie politiche. Per tale motivo da questo momento in poi abbiamo rinunciato a seguire le tesi di Meinvielle.
Forse però egli ha una certa ragione rispetto a Nietzsche e Heidegger. Il primo infatti ha affermato un nichilismo che converge totalmente con le tendenze della Cabbala. Ed il secondo ha affermato un onto-dinamismo basato sulla temporalità dell’essere che spiazza totalmente la staticità dell’Essere stesso. E così ha contribuito non poco (ad onta delle sue stesse aspirazioni) all’abolizione dell’ontologia.

3- Anti-ontologismo e rinuncia alla metafisica.
Come Meinvielle, Vassallo si riferisce in particolare agli studi critici di Cornelio Fabro rispetto alla modernità, con il conseguente appello a riprendere in considerazione la tradizionale onto-metafisica. Vassallo descrive sostanzialmente uno scenario di moderna crisi culturale e sociale che è stato ed è dominato dal fenomeno conoscitivo della rinuncia totale alla metafisica [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., Introduzione p. 5-10]. Questa rinuncia sarebbe stata voluta da Kant, e a suo avviso senza alcuna ragione perché al soggetto non competono assolutamente (quale sede provilegiata) i giudizi sintetici a priori e quindi l’universale, in quanto principi e forme a priori della conoscenza. Invece l’universale non può che stare nell’oggetto e quindi non può che esser oggettivo (Balbino Giuliano). Ed eccoci quindi ad un significativo risvolto inevitabilmente anti-ontologico della rinuncia a quella metafisica che fu sostanzialmente idealistica – la collocazione dell’universale nel soggetto e non nell’oggetto.
Come antidoto a questo anche Vassallo, come Meinvielle, propone il ritorno alla filosofia di Tommaso [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., I p. 15-29]. Ma quella autentica e non a quella neo-tomistica di Maritain e Gilson, che egli ritiene del tutto spuria perché ha occultato la vera ripresa degli studi tomistici iniziata già nel XIX secolo [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., Introduzione p. 10-15]. Altro pensiero onto-metafisico spurio viene da lui considerato quello di Suarez, il quale fu secondo lui sedotto dal mentalismo (con i relativi essenzialismo e nominalismo) non meno dei suoi contemporanei, con l’affermazione della secondarietà della realtà alla “ratio” ed al pensiero, e quindi secondarietà dell’essere alla conoscenza. In concordanza con questo vi sono i suoi costanti riferimenti polemici a Leibniz e Malebranche [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., II p. 32-37] in quanto sostanziali razionalisti moderni (in perfetta sintonia Cartesio e Spinoza). Quindi la loro apparente onto-metafisica religiosa (mero paravento religioso del moderno razionalismo idealistico) spicca per il fatto di stare dall’altro lato della barricata verso il vero pensiero cristiano, ossia quello tomista. E rientrano in questo anche i residui di idealismo platonico anti-realista che si ritrovano in essi. Ma Vassallo stesso si fa sostenitore di un razionalismo che trova secondo lui la sua piena espressione in Tommaso e quindi non è affatto in contraddizione con l’onto-metafisica [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., II p. 30-41]. Per Tommaso infatti la Ragione non può in alcun modo essere discordante dalla Fede e quindi non può contraddire l’ontologia in quanto mondo creato da Dio sulla base della pretesa mentalizzazione dei suoi presupposti.
Il razionalismo da lui condannato è dunque decisamente solo quello moderno e non quello antico (tomista-aristotelico). E per lui senz’altro Hegel ne viene considerato il protagonista insieme ad ogni idealismo [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., III p. 41-51,]. Proprio su questa base egli valorizza il pensiero di Kirkegaard (anti-hegeliano per definizione) in quanto di fatto affermatore dell’atto di esistere nella sua concezione tomistica. Ed inoltre valorizza il pensiero di Rosmini in quanto ri-attualizzatore della Scolastica e quindi dall’assoluta non illusorietà della realtà [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., IV p. 51-63]. E qui il suo discorso concorda fortemente con quello di Meinvielle in quanto Rosmini (da profondo conoscitore della metafisica orientale che fu) si oppose energicamente all’idea di un “Dio pneumatico” e quindi non più “Ipsum esse”, ovvero Dio-Essere. Inoltre, sul piano teoretico-conoscitivo, si oppose energicamente all’idea che l’oggetto esista solo in quanto conosciuto. E qui ci troviamo di nuovo in perfetta concordanza con i caratteri di un’ontologia basica (indipendentemente dalla sua religiosità) che sono stati esposti da Hartmann.
Estremamente significativo per i nostri scopi è comunque il capitolo da lui dedicato all’onto-metafisica religioso-cristiana di Edith Stein [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., VIII p. 107-123]. In particolare egli non fa mistero del suo stupore per la fedeltà di Stein al pensiero del suo maestro Husserl, protagonista di un pensiero decisamente a-religioso ed inoltre in perfetta linea con tutte le istanze anti-ontologistiche del pensiero idealistico moderno (ossia Cartesio e Kant). In particolare egli sottolinea a ragione un’affermazione decisamente anti-ontologistica e idealistica di Husserl: − “cancelliamo la coscienza, cancelliamo il mondo”. Ma Husserl fu allievo dello scolastico Brentano, e quindi per Vassallo, egli non è stato altro che un mezzo per il passaggio dall’onto-metafisica di quest’ultimo a quella di Stein.
Il richiamo di Vassallo alla reintroduzione dell’onto-metafisica cristiana coincide quindi per molti versi con la condanna della Cabbala da parte di Meinvielle.

4- Critica all’onto-dinamismo.
Come abbiamo già detto, noi stessi abbiamo sostenuto nel passato la possibilità di un onto-dinamismo che trova il suo fondamento effettivo proprio nella Cabbala [Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: Ivan Pozzoni, Mauro Murzi, in: Moderni orizzonti della scienza e della tecnica, vol. V, 2017, Limina Mentis]. E questo è senz’altro vero – la Cabbala è certamente una delle più decise dottrine dell’onto-dinamismo.
Ma ora il problema che si presenta è il seguente: − può tale onto-dinamismo venire considerato una vera ontologia?
Cercheremo di comprenderlo attraverso la critica al nostro stesso articolo. Che poi si basava su un’ampia disamina dei contenuti della dottrina cabbalistica, e quindi getta una luce piuttosto diretta su quest’ultima.
Ebbene la risposta a questa domanda può essere immediatamente negativa. E questo per due motivi: − 1) l’emanazione produce entità sprovviste di qualunque onticità, e quindi sostanzialmente “forze e poteri”, “ko’aḥ” (entità unicamente energetico-spirituali); essa dunque non è per davvero un’emanazione di essere ma è solo l’esternazione della Potenza divina che intanto resta assolutamente immutata e quindi non procede affatto verso l’atto; allo stesso modo le entità emanate non sono altro che potenze; 2) nel contesto di questo paradigma fluente non vi è assolutamente alcuna scansione e quindi alcun prima e dopo tra loro connessi, e quindi esso non può mettere capo ad alcun determinato finale in quanto Essere finalmente stabile; in altre parole il flusso non è affatto una sequenza di entità.
Insomma le Sephiroth emanate del Principio non sono altro che radice virtuale di ogni cambiamento. E quindi stanno al massimo alla radice dell’essere dinamico, ma non costituiscono affatto l’essere statico. L’emanazione viene quindi simboleggiata perfettamente da metafore come quelle della luce solare e del flusso d’acqua. Ecco quindi una differenza davvero rilevante verso un’autentica ontologia
La base per affermare questo è comunque l’esposizione della Cabbala che ci ha offerto Scholem stesso [Gershom Scholem, La Cabala, Mediterranee, Roma 1982, I, 3 p. 102-121].
Già da questi tratti generali risulta evidente che l’onto-dinamismo emanazionistico non può in alcun modo configurare alcuna vera ontologia.
Ma entriamo più nel dettaglio della complessiva questione.
Il paradigma che emerge è sostanzialmente quello della produzione di essere, che è sensibilmente diverso da quello della creazione. Ed esso si ritrovava anche nel neoplatonismo, ma senza assumere affatto la stessa identica forma che ha nella Cabbala. Infatti, se l’onto-dinamismo cabbalistico esprime una continuità davvero ininterrotta tra Principio e manifestato, Proco ad esempio affermava la manenza totale degli effetti nel principio causale, e quindi non intendeva affatto l’emanazione come una continuità davvero ininterrotta [Proclo, Elementos de teologia, Aguilar Buenos Aires 1975, B, p. 23-28, C, p.36-48, I, p.87-95]. Quindi non intendeva nemmeno i prodotti della Causa come entità energetiche del tutto prive di onticità. Pertanto in qualche modo postulava una sequenza che anticipava chiaramente il concetto di creazione – il Principio quale Causa dava insomma forma realmente al mondo, e non invece appena alle sue premesse energetico-potenziali. Il che viene affermato nuovamente proprio da Scholem [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 3 p. 102-108]. E questo ci conferma nel ritenere esagerata la totale assimilazione tra Cabbala e Neoplatonismo che viene affermata da Meinvielle. Semmai tra di essi vi fu una prossimità storica e dottrinaria; che sicuramente vide la Scuola di Alessandria come momento fondamentale, ma non vi fu mai una completa assimilazione tra le due dottrine. E questo lo afferma lo stesso Scholem insieme a diversi altri studiosi [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 2 p. 16-17, I, 2 p. 30-37, I, 3 p. 93 – 94; LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, VIa p. 99-102, I, Vb p. 105-106, I, VIc p. 127-128, I, VId p. 139-140; Paul Carus, “Gnosticism in its relation to Christianity”, The Monist, 8 (4), 1898, 502-546; Norman Bentwich, “From Philo to Plotinus”, The Jewish Quarterly Review, 4 (1) 1913, 1-21; W. R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The American J. of Theology, 4 (2) 1900, 329-344; Pierre Hadot, La fine del Paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina, Milano, 2011, pp. 119-150].
Come abbiamo già visto, però, preoccupazione costante della Cabbala fu quella di preservare l’unità divina (espressa nel permanere dell’”Emanatore” in sé stesso). Ciò non avveniva però nel concepire un Dio immune dal dinamismo creativo e quindi dal divenire, bensì, al contrario, nel concepire un’unità continuamente ricostituita a partire alla divisione immanente. Cosa che avveniva per il perenne rifluire a ritroso delle entità molteplici emanate dal divino. E questo comporta il panteismo perché riconferma di fatto la continuità nel dinamismo (che evidentemente avviene progressivamente e regressivamente). Non a caso Scholem sostiene che la Cabbala non può sussistere senza panteismo [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 3 p. 146-155]. Ma ciò conferma anche nuovamente la totale non-onticità della sequenza ipostatica, e quindi l’assenza totale di ontologia. Nulla infatti potrebbe tornare al Principio se si fosse già cristallizzato nel determinato; se non attraverso la sua dissoluzione ontica.
Tutto questo può però avvenire solo a partire da un Nulla di essere principiale, che in Scholem è l’”Ayin” (composto dei supremi principi “alef”, “yod” e “nun”), dal quale procedono poi le prime tre Sephirot. Una pienezza di essere invece non potrebbe fare altro che produrre l’Essere. Ed a tale proposito viene chiarito che quello emanazionistico è invece appena di un atto di auto-rispecchiamento dell’”Io” nel “Tu” entrambi divini. Il che corrisponde appunto ad un atto intra-divino che in verità non ha alcun corrispettivo esteriore. Anche questo è insomma emanazione invece di creazione. Manca insomma l’inizio letterale della produzione di Essere, il suo innesco concreto.
Quanto al Neoplatonismo, nel nostro articolo ponemmo in evidenza la differenza (sottile ma significativa) che esiste tra esso e l’onto-dinamismo cabbalistico, specie in Proclo [Proclo, Elementos… cit., A, 1-13 p. 23-36; Pauliina Remes, Neoplatonism, University of California Press, Berkeley Los Angeles 2008, 1 p. 7-10, 2 p. 36-42, 2 p. 51-75, 3 p. 77-98, 4 p. 99-133]. Presso questo pensatore infatti la Causa produttiva dell’emanazione è troppo forte (nella sua presenza e nella sua azione) per dissolversi totalmente nell’effetto (per quanto l’effetto sia già presente in essa). E quindi la continuità onto-dinamica sussiste senz’altro, ma sicuramente non mette capo ad un’immanenza divina, ossia ad una perfetta identità tra produttore e prodotto. L’Uno insomma mantiene pienamente la propria identità. E proprio in relazione a questo l’onto-dinamismo rientra nel classico schema circolare manenza-produzione-ritorno.
Il Neoplatonismo arabo-ebraico poi, impersonato da Maimonide, si lasciò invece assimilare a tutte le caratteristiche dell’emanazionismo cabbalistico [Joseph A. Buijs, “A Maimonidean critique to thomistic Analogy”, J. of History of Philosophy, 41 (4) 2003, 449-470; Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, UTET, Torino 2009, I, LXVIII, 112.15-114.20 p. 238-242, II, XII, 195.1-195.25 p. 356-357]. Sebbene egli si stato tra coloro che accentuarono maggiormente la trascendenza divina.
Infine, entro il neoplatonismo cristiano, Meister Echart senz’altro sostiene un emanazionismo di stampo fortemente cabbalistico in quanto pone l’insieme inscindibile di trascendenza ed immanenza, ed inoltre ci mostra un Dio presente in tutte le cose [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, V, 23 p. 223-234; Elisabeth Brient, “Transition to a modern cosmology: Meister Eckhart and Nicholas of Cusa on the intensive Infinite”, J. of History of Philosophy, 37 (4) 1999, 575-600; Meister Eckhart, Predica 5 (Q 22), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 67; Meister Eckhart, Predica 9 (S 101), ibd. p. 147; Meister Eckhart, Prediche 43 (Q 54a) – 44 (Q 54b), ibd. p. 629; Meister Eckhart, Predica 47 (Q 47), ibd. p. 664-669; Meister Eckhart, Predica 55 (Q 80), ibd. p. 761-769]. Ma in questo la sua intenzione fu più che altro quella di sottolineare la generosa sovrabbondanza divina come infinita ricchezza di possibilità. Ed inoltre egli pose alla base di tutto ciò la dinamica trinitaria.
Possiamo quindi dire in conclusione che l’emanazionismo greco fu molto più diverso da quello cabbalistico rispetto a quello cristiano di Eckhart.
Ma comunque anche alla fine di questa revisione critica del nostro articolo può venire confermato che l’onto-dinamismo emanazionista non corrisponde affatto ad un’ontologia.

Conclusioni.
Sulla base di tutto quanto abbiamo posto in evidenza crediamo di poter senz’altro confermare l’ipotesi iniziale di questo articolo – sulla base della Cabbala non è assolutamente possibile fondare un’ontologia. E peraltro, se ciò è vero per la prima Cabbala scritta succeduta all’iniziale tradizione orale di origine mosaica (“Cabbala buona”) – e sostanzialmente zoharica −, è ancora più vero per le sue evoluzioni successive, fino a giungere alla fantasiosa Cabbala rinascimentale (sostanzialmente lurianica). Infatti in quest’ultima si accentuò ancora di più il carattere negativo del Principio divino, e quindi svanì completamente l’idea di Dio come Causa agente, come Essere e come Persona. Quindi si consolidò totalmente uno schema dottrinario che prevedeva il trapassare completo di Dio (per mezzo della continuità emanazionistica) dalla trascendenza all’immanenza, con la completa cancellazione della differenza sussistente tra di esse. E così si affermò un totale panteismo. Inoltre si accentuarono ulteriormente i paradossi etici comportati da questo schema dottrinario con la postulazione non solo di una corresponsabilità di Dio nel male ma anche una sua vera e propria impotenza rispetto alla presenza del male nel mondo.
Ebbene questo è senz’altro il versante più metafisico-religioso dell’impossibilità dell’ontologia entro l’onto-dinamismo. Ma nel corso del suo esame abbiamo visto anche aspetti che investono l’impossibilità a-religiosa dell’ontologia.
In primo luogo la continuità emanazionistica, a differenza della creazione, cancella un Essere originario dal quale tutto parta, e quindi nega quell’”antichità” del mondo che abbiamo vista affermata anche dall’ontologia a-religiosa. Soprattutto perché Dio non è né un «qualcosa» né è all’origine di un «qualcosa».
In secondo luogo, dato che il principio di ogni cosa viene considerato il Nulla, nel concepire il processo che reca al «qualcosa» il concetto di Essere diviene del tutto secondario. Infatti non vi è alcuna potenzialità originaria che rechi in sé i caratteri dell’Essere, e quindi proprio per questo rechi dall’Essere infinito a quello finito o determinato. Ne consegue che il determinato si dissolve nell’indeterminato, anche se mondano, che coincide poi con la mera apparenza delle cose. Inoltre svanisce anche lo stesso concetto di «oggetto» per venire sostituito da quello di forze agenti.
Ma la ricaduta della dimensione metafisico-religiosa su quella a-religiosa e naturale risiede forse soprattutto nella netta distinzione (creazionistica)che vi è tra la distinzione ontologica esistente tra Dio e il mondo ed invece l’assenza (emanazionistica) di tale distinzione, ossia la continuità che unisce Dio al mondo. Abbiamo visto che quest’ultima configura una Totalità di Realtà (peraltro fortemente unitaria) e quindi sembra apparentemente adombrare un Essere. Ma quest’ultimo svanisce poi immadiatamente perché questa Totalità di Realtà – proprio in forza dell’ininterrotta continuità – nasce dal Nulla principiale e quindi è essa stessa Nulla.
Qui insomma viene contraddetto il concetto di Essere stesso, ossia quello affermato da Aristotele.
Ma questo ha delle conseguenze inevitabili anche per la possibilità di un’ontologia a-religiosa ed a-metafisica. Infatti non è assolutamente possibile concepire un Essente (per quanto mondano e concreto) se non sulla base del concetto di Essere – ossia il sussistere di un «qualcosa».
In questo modo quindi l’impossibilità cabbalistica dell’ontologia raggiunge il proprio nucleo, il centro e cuore stesso dell’ontologia. E l’espressione di ciò è l’idea secondo la quale la Realtà stessa non sarebbe altro che un Nulla. Ecco insomma la premessa di ogni nichilismo.
A questo proposito però gioca un ruolo decisivo la contraria dottrina che Meinvielle rintraccia nel Cristianesimo nel sottolineare l’importanza della «creazione dal nulla» da parte di Dio. Solo quest’ultima, infatti, garantisce quello stacco netto tra Nulla ed Essere in assenza del quale è impossibile concepire l’Essere stesso nella sua pienezza. Che corrisponde poi alla completa differenziazione del non-essere dall’essere, ossia corrisponde in tal modo al «qualcosa determinato». Inoltre Meinvielle sottolinea l’anti-ontologicità della dottrina del «tutto in tutto», la quale, attraverso la mancata postulazione della differenza tra trascendente ed immanente, contribuisce anch’essa a cancellare lo stacco esistente tra nulla ed essere.
L’ultimo indizio per l’anti-ontologicità dell’onto-dinamismo cabbalistico emerge laddove l’Autore sottolinea la deteriorità dell’immanentismo introdotto dall’Idealismo fino dai propri inizi, e cioè con Cartesio. Si tratta insomma della postulazione del sussistere di una vera realtà entro la coscienza. Che poi in termini religiosi corrisponde alla presenza dell’idea di Dio “in mente”, ossia al famoso «argomento ontologico». Questa presa di posizione ha annullato l’Essere proprio secondo quanto sostiene l’ontologia a-religiosa di Hartmann, cioè ha ritenuto che esso sia strettamente condizionato alla conoscenza. E come abbiamo visto commentando il suo pensiero, in questo modo si dissolve il vero oggetto e si delinea unicamente un oggetto di conoscenza.
Abbiamo poi visto sulla base di Vassallo che laddove svanisce la metafisica svanisce anche l’ontologia. E ciò è avvenuto partendo da Kant, il quale ha avocato al soggetto conoscente i principi che rendono possibile l’esistenza di oggetti reali (principi che, come dice Hartmann, vengono considerati anche di essere e non solo di conoscenza).
Infine abbiamo visto che proprio laddove si attribuisce un grande valore all’onto-dinamismo (come accadde nel nostro antecedente articolo) l’ontologia si dissolve invece del tutto dato che le cose si trasformano in forze energetiche che non sono altro che potenze. Dunque nel contesto di questo paradigma fluente non vi è assolutamente alcuna scansione e quindi alcun prima e dopo tra loro connessi, e quindi esso non può mettere capo ad alcun determinato finale in quanto Essere finalmente stabile; in altre parole il flusso non è affatto una vera sequenza di entità. È invece molto più somigliante al Nulla.
E tutto ciò sta poi in relazione (come abbiamo visto) con il fenomeno della produzione di essere contrapposto a quello della creazione.
Detto dunque tutto questo, riteniamo che la nostra tesi sia stata sufficientemente dimostrata.
Tuttavia crediamo comunque che valga la pena di spendere qualche parola sulle conseguenze dell’impossibilità di concepire un’ontologia. Esse infatti non sono solo religiose, filosofiche e scientifiche, ma sono anche soprattutto etiche. E su questo Meinvielle insiste molto.
Il fatto è, cioè, che all’impossibilità di concepire l’Essere consegue inevitabilmente il nichilismo.
E quest’ultima è una forza erosiva e distruttiva per tutto ciò che è umano-mondano. Con esso infatti noi smettiamo di credere non solo del mondo in cui viviamo ma anche della Cultura che abbiamo eretto su di esso. Di conseguenza tutta l’etica finisce per diventare indifferente ed alla fine (come è accaduto in Nietzsche) svanisce completamente.
Quindi ci ritroviamo in un mondo la cui esistenza non solo non ha alcun senso ma non comporta nemmeno precise regole comportamentali nell’esistere e nel relazionarsi con gli altri.
E la conseguenza di ciò non è altro che quanto posto in evidenza da Dostoevskij nei Karamàzov, ossia il principio del “tutto è possibile”. E non c’è bisogno nemmeno di dire cosa questo comporti.
In altre parole, proprio come sostiene Meinveille, la dottrina onto-dinamistica (che vede nella Cabbala forse il suo maggiore sostenitore, più ancora che Eraclito), rappresenta per l’uomo e per la società un’autentica calamità. Il ritorno all’ontologia, dunque, ha giustificazioni non solo filosofiche ma anche etiche.

(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Lo studio dell’ontologia di Hartmann al quale ci siamo recentemente dedicati è estremamente ricco di spunti. E ci riferiamo con ciò in particolare alle sue tre opere che abbiamo letto e meditato ultimamente: − “Neue Wege der Ontologie” (NWO), “Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO) e “Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941; Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982]. ZGO è certamente la sua opera più vasta, sistematica e dettagliata, per cui i materiali delle altre due opere sono in gran parte riconducibili ad essa. Infatti i loro contenuti vengono molto più ampiamente trattati in ZGO però in maniera a volte meno specifica. Ecco perché ELO pone l’accento su un tema assolutamente centrale nel pensiero di Hartman, ossia la relazione esistente tra conoscenza ed essere (e viceversa); e quindi lo tratta in maniera estremamente specifica ed esauriente. Per tale motivo ci sembra che esso meriti un’analisi a parte. Quanto agli altri testi essi ci sono stati da noi già utilizzati per una serie di altre specifiche ricerche che abbiamo esposto in alcuni precedenti articoli [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann”, in: < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>; Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia delle Leggi di Platone e la moderna ontologia filosofico-scientifica”, in:
< https://cieloeterra.wordpress.come/2013/11/04/vincenzo-nuzzo-lontologia-delle-leggi-di–Platone-e-la-moderna-ontologia-filosofico-scientifica/ >]. Questi articoli sono stati da noi pubblicati integralmente sia nel blog menzionato sia anche in Academia Edu e quindi sono pienamente accessibili al lettore eventualmente interessato. In ogni caso anch’essi riguardavano molto da vicino la conoscenza, ma senza una trattazione specifica del tema. Che però ci sembra estremamente utile e fruttuosa.
ELO è comunque il testo di una conferenza tenuta da Hartmann presso la Münchener Kantgesellschaft nel 1949 e deriva da un altro testo dedicato alla metafisica della conoscenza dal titolo “Grundzüge einer Metaphtsik der Erkenntnis” del 1921; testo che è ovviamente ben più ampio [Joseph Stallmach, Einführung, in: Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss …cit, p. IX-XLIV]. Laddove, secondo Stallmach, con la “metafisica della conoscenza” Hartmann intendeva una teoria della conoscenza basata sull’ontologia e che anzi è praticabile solo sulla base di quest’ultima. È dunque questo lo spirito del testo che andiamo ad esaminare, e pertanto è chiaro che con esso il pensatore intendeva comunque esporre ed avallare una teoria della conoscenza invece di abolirla del tutto. Però, anche se ciò è senz’altro vero, nel testo traspare in maniera molto spesso estremamente chiara come Hartmann intendesse l’essere in relazione alla conoscenza, e cioè anche nella forma di una radicale contrapposizione.
E questo ci lascia comprendere la sua ontologia spesso ancora meglio di quanto sia possibile leggendo NWO e ZGO. Soprattutto laddove egli dimostra l’assoluta indifferenza dell’Essente (quale primario esistente) alla prassi dell’atto trascendente di conoscenza (e quindi alla sua tendenza oggettivante), ed inoltre ci mostra quanto l’usuale teoria filosofica della conoscenza abbia distorto il concetto di essere (specie pretendendo di generarlo) ed ancor più abbia occultato l’essere stesso e soprattutto la sua primarietà in un mondo che è costituito unicamente di reali esistenti (o meglio detto, “Essenti”). Tali sono infatti sia il soggetto conoscente, sia la coscienza, sia l’oggetto.
Altro momento forte della sua riflessione è inoltre l’affermazione della totale irrilevanza della complessiva teoria della conoscenza nella concezione e postulazione di un autentico oggetto, o “Gegenstand”, ossia l’Essente vero e proprio. E ciò si lascia comprendere chiaramente allorquando risulta evidente che la teoria della conoscenza dà vita unicamente ad un “oggetto di conoscenza”, il quale ha pochissimo a che fare con l’autentico oggetto – per la cui sussistenza è assolutamente indifferente se esso venga o meno conosciuto. E bisogna riconoscere che (se in gran parte Hartmann non mette mai in discussione le basi poste da Kant) queste sue prese di posizione spazzano via due tra le principali prese di posizione filosofiche del XX secolo, e cioè il neo-kantismo e la Fenomenologia di Husserl (non a caso entrambe più o meno incentrate nell’usuale teoria della conoscenza).
Insomma a suo avviso la dimensione dell’essere resiste ostinatamente a qualunque investimento di esso da parte della dimensione della conoscenza. E quindi si rivela a noi come l’unico autentico aspetto del mondo con il quale abbiamo a che fare costantemente – tanto nell’esistere che nel conoscere.
Detto questo, se la nuova ontologia di Hartmann senz’altro spiazza la rilevanza (soprattutto concettuale) dell’essere così com’era stata affermata nell’antica ontologia, comunque ha il grande merito di portare di nuovo alla ribalta questa realtà in filosofia, riscattandola così da una lunga dimenticanza. Nello stesso tempo comunque dimostra anche come questa dimenticanza sia stata il frutto di rilevanti distorsioni operate dal pensiero, se non veri e propri errori. Ed in questo senso egli per davvero riapre la strada a quello che era sempre stato il campo di pensiero nel quale si era da sempre mossa la filosofia. Anzi egli riapre letteralmente la strada alla filosofia stessa, e soprattutto, come lui dice in ZGO, in quanto “filosofia prima” ed inoltre in quanto conoscenza basata su un atto trascendente che coglie incondizionatamente ed in modo diretto l’effettivo ed autentico oggetto [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 18 p. 31-33, III, I, 22c p. 159-160]. Il che poi corrisponde alla liberazione del pensiero dal dominio oppressivo dei moderni relativismo e scetticismo.
Ebbene questo relativizza non poco l’aspetto (pur senz’altro vero) rappresentato dal suo intento di trattare di una teoria della conoscenza ontologicamente fondata. Infatti sposta la nostra attenzione sul suo sforzo di reintrodurre in filosofia quella trattazione dell’essere che era stata del tutto ingiustamente oscurata dalla filosofia moderna specie per mezzo della teoria della conoscenza.

1- Analisi testuale
Non essendovi elementi specifici da trattare (se non quello primario e centrale già delineato) ci limiteremo qui appena a seguire il testo di Hartmann nel suo procedere. Per cui, se si vuole, questo articolo può venire considerato anche un commento sintetico al testo e/o una sua recensione oppure compendio.
Nel Capitolo I (del quale abbiamo trattato negli altri articoli) egli ci mostra che il risorgere dell’ontologia va necessariamente di pari passo con una rimessa al centro dell’oggetto reale del tutto indipendente dalla coscienza, e quindi assolutamente incondizionato. Esso deve quindi costituire un reale che è destinato a venire trovato, e pertanto non può in alcun modo venire presupposto senza smarrire la sua natura. Che è quella di Essente e di “in sé”. Poco importa, quindi (come abbiamo già visto), se esso in tal modo finisce per essere in larga parte sconosciuto. Questo suo ultimo ambito di esistenza corrisponde infatti a quella dimensione metafisica (costituita per lui da oggetti sconosciuti e questioni insolute che hanno il pieno diritto di venire postulati dato che sono del tutto fisiologici) che egli non ha alcuna intenzione di abolire, anche se la sua ontologia coincide unicamente con il mondo reale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 1-2 p. 1-5, 5-8 p. 6-12, 10-11 p. 14-19, 13 p. 21-23, 17 p. 29-31, I, I, 1a p. 39-40, I, I 3bc p. 47-49, II, II, 5a p. 57-59, II, II, 7b p. 68, II, III, 8a p. 72-73, II, I, 12bc p. 95-97, III, I, 22d p. 154-156]. Dunque è forse anche in questo senso che egli parla di una metafisica della conoscenza. Egli ci vuole dire cioè che la prassi di una teoria della conoscenza non può in alcun modo eliminare l’alone metafisico che circonda la conoscenza del reale.
Ma comunque fondamentale è nel testo l’affermazione della differenza sostanziale che c’è tra conoscenza e pensiero: − essi sono infatti due cose radicalmente diverse tra loro [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., II p. 7-15]. E ciò comporta, a differenza di Husserl, la presa in considerazione di un’intenzione che, pur restando interna (sguardo rivolto verso sé stesso, verso i vissuti), è comunque trascendente la coscienza (così come anche la conoscenza degli oggetti) e quindi non resta entro in alcun modo entro la coscienza. Altrimenti essa cessa di essere conoscenza, ossia, per la precisione, “relazione di conoscenza” con l’essere; che poi costituisce un atto conoscitivo che trascende sempre e comunque la coscienza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 11 p. 16-19, I, I, 4d p. 55-57, II, III, 9a p. 77-83, II, III, 10c p. 83-84, III, I, 22b p. 152-153, III, I, 23a p. 156-157, IV, III, 47d p. 297-298].
Su questa base egli postula allora una “doppia intenzionalità”, che è però solo della conoscenza e non del puro pensiero. Si tratta cioè di un’intenzione rivolta verso l’oggetto reale nel mentre però questo sta davanti alla coscienza nella sua indipendenza. E ciò rivoluziona totalmente la teoria della conoscenza fenomenologico-husserliana. L’intenzione di coscienza infatti non mette capo ad un oggetto se non vi è, ben oltre la sua collocazione (ai margini della coscienza), un oggetto reale-mondano del tutto indipendente. Altrimenti (come vedremo poi) si delinea appena un “oggetto di conoscenza”, ossia un oggetto reale che viene completamente trasformato dalle operazioni mentali della conoscenza.
Ecco allora che si delinea in modo chiaro la primarietà assoluta del mondo degli oggetti reali rispetto ai contenuti oggettuali presenti nel soggetto. Esso infatti è onticamente molto più ”antico” del soggetto, e quindi lo precede in maniera radicale nel tempo ed anche nello spazio. E questo, a nostro avviso, lascia almeno intravvedere le implicazioni per un realismo religioso (incentrato nel concetto di creazione del mondo) che esistono (sebbene in modo nascosto e certamente non voluto) nell’ontologia di Hartmann.
Su questa base, comunque, il pensatore fa una precisazione che esautora decisamente buona parte dell’antica onto-metafisica. Egli dice infatti che il concetto di verità dell’essere è del tutto inadeguato perché tra verità ed essere vi è una differenza radicale ed inconciliabile (p. 12). Per cui
o noi prendiamo in considerazione la verità di una cosa oppure il suo essere. E con ciò svanisce anche ogni relatività dell’essere, dato che essa riguarda unicamente la verità.
A tale riguardo egli fa un’osservazione critica che ha una grande importanza rispetto al dominio della conoscenza che oggi la scienza empirica si auto-attribuisce. Sebbene il pensatore intenda questo più come la presa d’atto di una problematicità gnoseologica della scienza che non come una sua costituzionale insufficienza. Quanto appena detto, infatti, getta un’ombra non poco inquietante sul cambiamento delle verità che si è sempre verificato nella scienza, come ad esempio nella cosmologia fin dai suoi primordii. Non a caso non vi è più alcuna traccia delle una volta rivoluzionarie ed illuminanti teorie cosmologiche di Newton e Keplero. Dunque potrebbe ben essere che il mondo non corrisponda né all’antica né alla nuova verità.
Ecco perché egli afferma che bisognerebbe pensare ad una “verità in sé” del mondo, che è quindi del tutto indipendente da qualunque opinione o sapere attuale. Questa infatti, come egli sottolinea, fu l’idea sviluppata da Bolzano. Tale affermazione sembra voler quindi reintrodurre la possibilità e soprattutto la necessità di una verità oggettiva e dunque stabile; che trascenda pertanto qualunque stato attuale delle conoscenze. Al contrario invece la moderna scienza sperimentale dà per scontato che sia «verità» una conoscenza basata appena sull’attuale stato della prassi sperimentale. È evidente, insomma, che (nonostante le apparenze) questo genere di conoscenza non rispecchia affatto la realtà effettiva del mondo.
Ma questo è un nostro personale corso di pensieri e non quello di Hartmann. Egli trae infatti da tutto ciò un’estremamente pragmatica conseguenza teoretico-conoscitiva (p. 13), e cioè quella secondo la quale sarebbe necessario considerare il sapere circa la verità (il “ritenere per vero”) come completamente diverso dall’effettiva verità o non verità o falsità delle cose. Il che esautora una delle principali prese di posizione dell’usuale teoria della conoscenza. E questa presa di posizione è esattamente quella che incoraggia il relativismo della conoscenza, e dunque il tendenziale scetticismo.
Ma proprio qui viene in nostro soccorso l’ontologia (p. 13-15). Essa postula infatti una del tutto
alternativa teoria della conoscenza che non solo pone in evidenza l’insufficienza della definizione corrente di conoscenza (non basata sulla relazione di conoscenza ma invece sul solo presunto potere conoscitivo della rappresentazione), non solo pone in evidenza l’assenza fisiologica di un criterio di verità assoluto, ma pone in evidenza anche la necessaria storicità della conoscenza e quindi la sua necessaria approssimazione alla verità invece della sua conquista definitiva. Che in effetti non avviene mai, né mai potrebbe avvenire.
In altre parole, invece di indulgere al relativismo (depotenziando così l’atto conoscitivo nella sua capacità effettiva di intercettare l’oggetto reale, se non quando esso sia stato completamente conosciuto) bisognerebbe accettare che la conoscenza non è mai compiuta, e quindi non ha alcun potere di esaurire l’essere. Tutto ciò ci salva secondo Hartmann da quel relativismo della conoscenza che invece ambisce ad essere assoluto, e quindi esita in un vero e proprio scetticismo.
E per questo, secondo il nostro pensatore, non è nemmeno necessario ricorrere all’antica teoria ontologica degli universali, che intanto è stata comunque definitivamente modificata dal dominio della teoria della conoscenza [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., III p. 15-24]. Né è per lui una soluzione il ricorso all’ingenuo realismo naturale, dato che esso è sbagliato per il fatto di cancellare totalmente il problema trascendentale, e quindi sposta la conoscenza unicamente sul piano dell’esperienza del tutto incondizionata dagli a priori mentali (p. 16).
Su questa base Hartmann ritiene di poter pervenire ad una definizione di una teoria della conoscenza davvero ontologicamente fondata. E così espone quella che è per lui la teoria della conoscenza più plausibile, in quanto davvero fedele alla sua vera natura mondana (p. 16-17).
Per fare questo bisogna però prima sottrarla totalmente alla sua definizione come relazione tra soggetto e mondo oggettuale. Egli ci mostra quindi che la conoscenza è in verità un atto ed anche un pezzo del mondo tra i tanti, ossia appartiene al mondo come contesto, e quindi è essa stessa oggettiva invece di essere assurdamente onto-generante. Nello stesso tempo, allora, la natura del mondo non è affatto determinata dal soggetto: − infatti il mondo nella sua sostanza non è affatto oggettuale ma è invece appena un contesto di atti. Dei quali l’atto di conoscenza è solo uno tra i tanti atti, che includono l’azione, l’aspettativa, le emozioni etc. E pertanto è semmai il mondo a generare la conoscenza e non viceversa. E quindi essa trova posto (“luogo ontologico”) entro gli strati di essere del mondo, e precisamente in quello spirituale. Non è di certo lo spirito stesso (come riteneva Hegel) ma è comunque allocata entro lo spirito; che a sua volta in sé (in via di principio) non appartiene al mondo ma nei fatti appartiene ad esso quale uno dei suoi strati.
Una volta posto questo si può comprendere come e perché lo spirito diviene oggetto della conoscenza in quanto teoria della conoscenza e scienza dello spirito (p. 18).
Abbiamo quindi in tal modo un’analisi della teoria della conoscenza che si svolge dal punto di vista puramente ontologico (p. 19-20). Ed è in tale contesto che Hartmann prende in considerazione la gradazione esistente tra la dimensione spirituale della conoscenza e gli altri strati dell’essere, riconoscendo così in essa la diversa implicazione (a seconda dello strato) dell’”intentio recta” (atteggiamento naturale) e dell’”intentio obliqua” (riflessione). Laddove questi concetti erano stati precisati in ZGO, nello sforzo di differenziare la conoscenza riflessiva (ritorta su sé stessa, e quindi mediata e anche distorta dalle operazioni mentali) da quella diretta (includente anche quella naturale o ingenua), che è semplicemente diretta verso l’oggetto interiore e quindi è capace di intercettarlo realmente.
Tuttavia Hartmann ritiene che nemmeno a tale proposito di debba essere unilaterali.
Bisogna infatti per lui riconoscere che la teoria della conoscenza ha insieme un versante riflessivo ed un versante naturalistico, invece di avere solo il primo. E quindi non può venire davvero compresa senza lo schema ontologico del mondo reale diviso in strati in quanto autentico scenario degli eventi (che rende così del tutto secondario il soggetto ed ogni idealismo, affermando in tal modo il solo realismo). La conoscenza, insomma, assume una forma più aprioristica (tendenzialmente riflessiva) agli strati alti (spirito), mentre assume una forma più fattuale agli strati bassi (fisico-materiale).
Tuttavia (p. 20-21), nell’illustrare la diversa accessibilità del mondo oggettuale esteriore e di quello interiore (e quindi la diversa rilevanza dell’intentio recta e di quella obliqua entro la teoria della conoscenza), Hartmann sottolinea la primarietà del mondo esteriore cosale per l’orientamento umano nel mondo, e quindi pone la dimensione antropologica (corrispondente per così dire alla primarietà della dimensione dell’«in-mondo») come completamento indispensabile della teoria della conoscenza. Una teoria della conoscenza pura, dunque, non può esistere. E ciò sottolinea appunto l’importanza decisiva e necessità dell’ontologia.
Naturalmente ciò implica necessariamente (p. 22) la negazione del «cogito» cartesiano come luogo di certezza, dato che in questo caso la conoscenza è appena rivolta verso i processi psichici e nemmeno per davvero verso il flusso dei vissuti. Questo discorso coinvolge quindi criticamente anche Husserl − specie con il suo concetto di sguardo rivolto ai vissuti, che invece sono solo processi psichici e quindi rappresentano un’oggettualità del tutto diversa da quella reale.
Ma la definizione più chiara, sintetica e completa di conoscenza ci viene fornita nel capitolo IV [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., IV p. 24-33]. Essa consiste infatti per Hartmann semplicemente nella coincidenza tra oggetto di conoscenza ed oggetto ordinario (p. 25). Di conseguenza le categorie che il soggetto impiega nella costruzione della rappresentazione sono di fatto le stesse che intervengono nella costruzione dell’oggetto. E quindi non esiste alcuna discrepanza tra le due operazioni conoscitive e tra le due dimensioni dell’essere.
Proprio per questo, egli dice, Kant considerò equivalenti le categorie del giudizio a priori con quelle dell’esperienza. La conclusione è che entro ogni oggetto vi è un limite di conoscibilità che dipende dal limite esistente entro l’identità tra categorie della conoscenza e categorie dell’essere.
Tale identità infatti si spinge solo fino ad un certo punto, ossia solo fin laddove l’oggetto viene effettivamente conosciuto. E poi si dissolve.
E quindi esattamente qui il pensatore evidenzia la realtà inoppugnabile dell’inconoscibile che in ZGO (come abbiamo già visto) corrisponde alla metafisica con i suoi misteri insoluti.
Da ciò emerge pertanto, a suo avviso, che la prassi dell’analisi categoriale è difficile per definizione dato che le categorie sono sempre in parte di conoscenza ed in parte di essere. In altre parole non è per nulla facile riconoscere nell’oggetto qual’è la parte conosciuta e qual’è la parte reale. Proprio perché, come abbiamo appena visto, il limite tra queste due parti è assolutamente fluido e imprevedibile.
E questo ancora una volta esautora l’aspettativa dell’usuale teoria della conoscenza secondo la quale l’oggetto autentico sarebbe solo quello completamente conosciuto, e quindi ricondotto all’unità che i sensi invece non ci trasmettono. È evidente che il bersaglio critico è qui (ancora una volta) anche la pretesa husserliana di ritrovare la cosa nella sua pienezza mediante quell’intuizione essenziale che ci fornirebbe secondo lui la sua pienezza unitaria e la sua verità. Ed infatti Hartmann obietta a questo punto (p. 26) proprio ad Husserl che il vissuto non è affatto il vero oggetto e cioè l’oggetto di coscienza, dato che i processi reali della Natura si svolgono molto lontano dal mondo della coscienza e quindi non ne vengono affatto rappresentati. Dunque l’oggetto di coscienza non rispecchia, non rappresenta né sostituisce quello reale.
Ebbene tutto questo è di importanza davvero fondamentale, perché introduce una grande correzione nelle prospettive gnoseologiche che hanno completamente snaturato la conoscenza oggettuale fin quasi a renderla impossibile o almeno piena di incertezze.
E tuttavia a nostro avviso (almeno a questo riguardo) non ne esce molto bene nemmeno l’ontologia di Hartmann. Infatti, da quanto detto, emerge chiaramente la grande limitazione conoscitiva introdotta dalla nuova ontologia (p. 26). Infatti tale moderna ontologia è soprattutto un campo di grandi insicurezze per la confusione inestricabile che vi è tra oggetto conosciuto ed oggetto reale. Hartmann infatti salva la conoscenza dell’oggetto reale dalle incertezze gettate su di essa dalla moderna teoria della conoscenza, ma non può evitare la fatale domanda: − l’oggetto conosciuto e l’oggetto reale sono davvero la stessa cosa? L’incertezza quindi esiste tanto al polo puramente gnoseologico quanto anche al polo puramente ontologico. Tanto che lo stesso pensatore adombra a tale proposito la possibile insufficienza della nuova ontologia rispetto a quella antica. La quale (almeno con Aristotele) considerava per davvero simultaneamente l’oggetto conosciuto e l’oggetto reale entro la realtà della sostanza prima. Sebbene per questo fosse costretta a ricorrere al soccorso di universali (essenza) totalmente astratti dall’esistenza. Cosa che giustamente Hartmann pone invece severamente in discussione.
Posto tutto questo il pensatore ritorna ad un discorso che aveva sviluppato soprattutto in NWO, e cioè la natura assolutamente realistica delle categorie (p. 38). Le quali (una volta largamente sintetizzate) non sono altro che i quattro principali livelli della realtà mondana: − fisico-materiale, organico-vitale, animico-mentale e spirituale-intellettuale. Ed afferma poi che la curva della conoscenza (oscillante nella sua capacità di avere effettivamente un oggetto, e quindi di essere davvero efficiente) raggiunge uno dei punti più bassi in corrispondenza della realtà organico-vitale ed animica. Dimensioni che egli intanto ha svincolato totalmente dall’antica onto-metafisica, la quale proprio all’anima attribuiva invece il più alto grado di realtà – come abbiamo visto nell’articolo dedicato alle “Leggi” di Platone, il quale identificava l’anima con l’ontologia stessa nella sua pienezza e totalità. E naturalmente organico-vitale ed animico stavano allora per sostanza e causalità (Causa prima), che sono concetti anch’essi ormai totalmente svaniti dall’ontologia.
Ecco che allora – per ammissione dello stesso Hartmann (p. 29) − il sistematico fallimento conoscitivo odierno rispetto all’organico-vitale (con conseguenti larghe aree di inconoscibilità) esprime la limitazione della nuova ontologia rispetto all’antica. In quest’ultima infatti le nozioni metafisiche di sostanza e causalità erano invece in grado invece di spiegare totalmente l’essere mondano (sia pure su un piano affatto coincidente con l’effettivo reale). Ed un aspetto centrale di questo è peraltro la rinuncia al finalismo dei processi organici in ontologia.
Eccoci dunque ad un momento dell’ontologia di Hartmann nel quale non vi è più alcuna traccia di metafisica. E quindi la sua aspirazione ad una “metafisica della conoscenza” ha tutto un altro significato rispetto a quello che si potrebbe immaginare a prima vista.
Ma oltre a ciò l’anima ha avuto nel passato una valenza non solo ontologica ma anche conoscitiva.
Ed anche questa viene messa radicalmente in discussione dal nostro pensatore, specie sulla base di evidenze empiriche che gli provengono dalla psicologia (p. 30). Egli afferma infatti (qui ed anche altrove nel testo) l’assoluta impossibilità dell’auto-conoscenza in quanto conoscenza del proprio interiore animico; che è poi simile alla fallimentarietà della conoscenza dell’organico. Ed il motivo di ciò è il per lui l’assurdo conoscere sé stesso per mezzo di sé stesso. Cosa che costituirebbe un ostacolo insormontabile rappresentato appunto dall’intermediazione di sé stessi. Dunque la Psicologia fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il suo primario obiettivo. E peraltro tutto ciò rende per lui la conoscenza aprioristica radicalmente diversa da un vero atto conoscitivo (che può essere realmente trascendente solo quando ha davanti un oggetto pienamente reale).
Tuttavia quello che non riesce a fare la Psicologia sembra che non riesca a farlo nemmeno quella Fenomenologia che ha tentato di sostituirsi ad essa. Ed il problema è qui proprio quello appena sottolineato dell’insufficienza di una conoscenza solo aprioristica. Di nuovo infatti Hartmann (p. 31) coglie l’occasione per fare piazza pulita dell’aspirazione fenomenologico-husserliana alla famosa «zur Sache selbst» («verso la cosa stessa»), mostrando che essa (con tutta la teoria del costante oggetto intenzionale) riguarda unicamente il campo degli oggetti spirituali e quindi è solo una conoscenza aprioristica, che quindi non tocca assolutamente il reale. Essa insomma non tocca assolutamente il vero oggetto (come invece pretende di fare) in quanto non si serve affatto di un atto trascendente di conoscenza, restando esso infatti totalmente racchiuso nello spazio della coscienza.
E tuttavia non è per tutto questo che l’ontologia di Hartmann va considerata fallimentare. Essa non lo sembra affatto se teniamo conto del culmine della presa di posizione ontologica che viene raggiunto nel testo per mezzo dell’affermazione della totale indifferenza dell’Essente al venire conosciuto ossia al divenire “Gegenstand” (oggettivazione) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., V p. 34-39].
Infatti, egli dice, l’Essente né si difende dalla conoscenza né la richiede. Insomma non va incontro ad essa e nemmeno vi si sottrae. E ciò conferma la recettività e non attività della conoscenza, eliminando così ogni artificiosa teoria della costituzione. Dunque tutte le operazioni mentali del soggetto generano appena un oggetto di conoscenza, senza generare (né influenzare) alcun oggetto nella realtà. E quindi nel concepire una conoscenza davvero autentica non resta che tornare (almeno in parte) a quella fisiologia empiristica e sensistica (mai abbandonata dalla Medicina) che presuppone la presa d’atto dell’oggetto reale per mezzo degli organi sensoriali.

Conclusioni.
Il nostro excursus estremamente sintetico sull’opera di Hartmann è consistito essenzialmente nell’estrarre da essa i concetti portanti, rinunciando così a seguire le sue argomentazioni come sempre estremamente fitte, profonde, complesse ed anche non poco difficili da comprendere.
E quindi questo articolo può essere utile a chi volesse conoscere i concetti fondamentali della sua ontologia senza dover affrontare la lettura diretta dei suoi testi. In questo senso il nostro lavoro può pertanto essere (almeno in una certa misura) venire considerato come una sorta di compendio e di recensione di ELO.
Tuttavia non è certo questa la nostra intenzione primaria. Questo nostro articolo vuole infatti essere soprattutto una ricerca che va ad aggiungersi a quelle che abbiamo già svolto sulla visione di Hartmann e che mira sostanzialmente a cogliere il valore che ha la sua ontologia nel pensiero moderno. Ed abbiamo già detto che gli aspetti principali di quest’ultima ci sembrano essere la reintroduzione della trattazione dell’essere ed inoltre una revisione estremamente critica della teoria della conoscenza nel senso di una sua possibile riconciliazione con l’ontologia. E nei precedenti articoli abbiamo visto che ciò ha la valenza di una vera e propria ricostruzione della conoscenza.
Ebbene tutto questo è emerso in modo chiaro nella nostra discussione del testo. Sono inoltre emersi anche i limiti di questa nuova ontologia rispetto a quella antica. Ma nemmeno questo è l’obiettivo primario della nostra ricerca. Oltre a ciò sono comunque emersi alcuni importanti aspetti che vale la pena di sottolineare ancora una volta.

Abbiamo visto con sorpresa emergere la possibilità di una sorta di inavvertito realismo religioso incentrato in un mondo di cose che è infinitamente più antico dell’uomo. Ovviamente è possibile che Hartmann parli dell’evoluzione e non della creazione. Tuttavia sta di fatto che entro il realismo religioso (sicuramente per certi versi ingenuo, ma intanto con il pieno diritto di esserlo) l’essere mondano si presenta sempre con i chiari caratteri del «già stato» ed anche per questo esso trascende infinitamente l’uomo in quanto originaria produzione divina. Ciò significa allora che reintrodurre un’ontologia radicale come quella di Hartmann rende possibile attualizzare anche nuovamente il realismo religioso.
Qualcosa di simile vale anche per l’invito del nostro pensatore a reintrodurre una “verità in sé” e quindi la verità stabile ed oggettiva. Anch’essa si pone quindi con i caratteri della radicale antecedenza trascendente rispetto all’uomo storico ed inoltre evoluzionistico. E nulla vieta quindi di ricavare da questo il concetto di verità divina. E tutto ciò coincide poi perfettamente con l’affermazione da parte di Hartmann della storicità della conoscenza nel senso della sua inevitabile e cronica incompiutezza. La conoscenza umana infatti mai potrà raggiungere e possedere la Verità divina.
Questi erano una serie di aspetti positivi estraibili dalla visione di Hartmann. Sebbene si tratti appena di extrapolazioni. E questo significa allora che è sufficiente reintrodurre in filosofia il concetto di essere per veder riapparire con esso anche una serie di concetti religioso-metafisici che credevamo ormai morti e sepolti da tempo, ossia svalutati ed archiviati per sempre.
Tuttavia ci si stiamo trovati anche di fronte ad un aspetto negativo emergente dall’ontologia di Hartmann, e cioè l’impossibilità della metafisica una volta che le categorie tradizionali siano state trasformate in quelle del solo mondo reale (i suoi strati di essere). A questo punto infatti viene meno uno dei presupposti fondamentali per la metafisica, ossia quel concetto di anima che evidentemente Platone non a caso aveva posto alla base dell’ontologia senza nemmeno dover porre il concetto di spirito. Questo è insomma il problema della nuova ontologia. Essa si copre di infiniti meriti reintroducendo il concetto di essere. Eppure può arrivare solo fino ad un certo punto dato che è pur sempre un’ontologia iper-realistica e quindi per nulla contemplativa.

Pertanto, volendo addivenire ad un bilancio finale dell’analisi di quest’opera, ci sentiamo di poter dire che il nucleo di valore dell’intera ontologia di Hartmann sta forse nelle ultime battute della nostra trattazione (ossia nel capitolo V del libro), e cioè nella sua affermazione dell’assoluta indifferenza dell’Essente rispetto alla conoscenza. Tale affermazione non abolisce di certo la teoria della conoscenza da lui presentata. Dato che questa mette capo esattamente all’Essente, svincolandosi così da qualunque condizionamento aprioristico, soggettivistico e dogmaticamente teoretico-conoscitivo, ossia da quella dimensione che Hartmann stesso ha riassunto nelle sue opere con la presa di posizione costituita dalla “riflessione”. La conoscenza da lui concepita punta infatti direttamente all’Essente. E lo fa ancora più coerentemente perfino quando fallisce nel conoscerlo esaurientemente. Infatti essa non cade mai nella trappola (e vicolo cieco) teoretico-conoscitivo di scambiare l’Essente per l’oggetto di conoscenza.
Proprio in questo consiste infatti la forza della sua ontologia, la quale pone un mondo costituito unicamente da Essenti (ossia le vere oggettualità reali) che esiste non solo incondizionatamente ma soprattutto intangibilmente (rispetto alla coscienza).
L’Essere cioè, secondo lui, è lì davanti a noi ed esiste perfino indipendentemente dal condizionamento dell’«è» (essenza), così come anche dal condizionamento dell’«esserci» (esistenza). Esso non coincide dunque nemmeno con l’esistente. È invece qualcosa di inafferrabile eppure è più che reale. È insomma qualcosa di cui non possiamo assolutamente dubitare e che ci avvolge pertanto realmente da ogni parte, costituendo così non l’esistenza o l’esistente (puri concetti astratti) ma invece il mondo in cui viviamo e nel quale vivono perfino le dimensioni più trascendenti che costituiscono la conoscenza (a priori).
Tutto ciò sacrifica senz’altro la sontuosità metafisica dell’antica ontologia, e forse (come abbiamo visto) perfino una certa sua superiore capacità esplicativa. E tuttavia, dopo secoli di eccessi teoretico-conoscitivi, rappresenta una dottrina che ci offre finalmente di nuovo un’immagine salda della realtà in cui viviamo, e quindi nella quale agiamo, patiamo e conosciamo.
E questo non è per nulla poco in un’epoca in cui filosofia e scienza sembrano essersi coalizzate per farci perdere quelle vitali certezze in assenza delle quali non possiamo che cadere nella disperazione perdendo con ciò completamente il senso del nostro vivere.
Diremmo pertanto che l’ontologia di Hartmann è un antidoto non solo contro le incertezze circa la realtà che sono state insinuate dalla filosofia centrata nella teoria della conoscenza, ma è un antidoto anche contro la disperazione senza rimedio che è stata causata dalla filosofia centrata nell’esistenzialismo.

E riteniamo che con ciò possiamo considerare conclusa la nostra complessiva ricerca sul pensiero di Hartmann, dato che probabilmente è venuto fuori quello che è il suo principale valore e ruolo entro il mondo moderno.

(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona.

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Introduzione
In via di principio (ossia attenendosi a schemi interpretativi piuttosto rigidi) attribuire a Platone un’ontologia non è cosa affatto facile. Eppure vi sono nei suoi testi ed anche in letteratura numerosissime testimonianze del fatto che egli l’abbia concepita fin dall’inizio [Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 159d p. 81, 177e p. 133, 181cd -186e p. 145-157, 189a-190a p. 167-171, 193d p. 185, 202a p. 207, 206e-207c p. 223; Platone, Cratilo, Laterza, Roma Bari 2008 , 385c-386d p. 7-11; Platone, Lettere, Rizzoli, Milano 2008, 324-352 p. 133-224; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Paperback Edition. New York 1960; Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme, in: Platone Teeteto…cit., 8 p. 266-267; Davide Spanio, Il mondo come teogonia, Aracne, Roma 2012, Introd., 1-2 p. 13-24; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008, VIII p. 169-173; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI, III p. 172-176; Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014, II, III, 4 p. 315-333; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. Egli era stato in effetti un pensatore dell’essere in maniera piuttosto inapparente, sia perché pensava soprattutto alla stabilità in quanto verità dell’essere stesso, e quindi alla sua immunità del divenire, sia perché in fondo l’essere consisteva per lui nella stratificazione dell’anima, e quindi in una realtà intellettule-spirituale e non certo invece cosale.
Quindi già prevaleva nel suo pensiero un elemento ontologico che in conclusione vedremo riconfermato nelle Leggi, ossia appunto l’anima. Tuttavia ai posteri è sempre sembrato che egli non avesse formulato alcuna ontologia proprio perché quest’ultima veniva pensata in termini unicamente aristotelici e cioè dinamici, immanentisti e realisti, ossia come il processo stesso di formazione delle cose. Eppure pare che proprio quest’ultimo concetto di essere abbia cominciato a delinearsi anche verso la fine della vita ed opera ed opera di Platone, e cioè entro i dialoghi “Timeo” e “Leggi” [Platone, Timeo, Rizzoli, Milano 2003; Platone, Leggi (a cura di Patrizio Sanasi), in: C:/Users/admin/OneDrive/Desktop/Libro%20Platone%20Leggi%20.pdf]. Infatti Luciano Montoneri legge in questa parte del suo pensiero addirittura un realismo filosofico ed inoltre l’esposizione di una vera e propria Fisica [Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Forlì, Victrix 2014, VIII, p. 339-349]. Una Fisica che però costateremo essere tutt’altro che materialistica in quanto costituita in effetti unicamente dalla realtà animica. Le cose infatti vengono solo dopo quest’ultima.
Il Timeo, lo ricordiamo, contiene una descrizione estremamente dettagliata addirittura della struttura e dinamica del corpo umano in relazione ad alcune strutture e dinamiche fondamentali dell’essere [Platone, Timeo… cit., 73-90 p. 361-421]. Inoltre contiene una dottrina delle grandi rotazioni cosmico-trascendenti che sono causa dell’essere, ed infine ci offre una visione d’insieme dell’Essere originario e totale nello ”sferoide” [Platone, Timeo…cit., 33b-36c, pag. 197-205, 44d-48a p. 241-253].
Il discorso condotto nelle “Leggi” è invece abbastanza diverso già solo per il suo titolo, dato che il dialogo concerne in quasi tutta la sua estensione la struttura legislativa dello Stato, ovvero della città. In via di principio, dunque, nulla è più lontano di questo da un discorso sull’Essere. Discorso che invece Aristotele avrebbe sviluppato in maniera estremamente diretta, formulando così anche una definizione dell’Essere che sarebbe restata per lungo tempo paradigmatica per ogni ontologia.
E tuttavia nel capitolo X dell’opera di Platone sopravviene effettivamente una descrizione dell’Essere che nello stesso tempo fonda l’intera etica ed anche la stessa realtà legislativa.
Il discorso riprende qui la realtà più volte descritta dell’anima, ma la pone questa volta alla radice dell’Essere stesso, ossia dà ad essa una veste decisamente cosmico-ontologica oltre che onto-generativa; e quindi se vogliamo perfino realistica (come dice Montoneri). L’anima insomma finisce per apparirci come l’equivalente dei grandi circoli cosmici che muovono sé stessi, e quindi è la massima espressione di quel «causa sui» che giustifica ogni cosa (essere) ed ogni divenire, ossia ogni movimento che noi possiamo riscontrare nell’essere.
Ora a prima vista è difficile dire quale sia il motivo di un approccio così singolare all’ontologia come scelta di Platone. Ma essa intanto è reale. Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che, come dicono Friedländer e perfino Romano Guardini [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2004, I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 260-279] Platone fu sempre (e lungo tutto il suo pensiero) prima un teorico dell’etica politica e solo dopo un filosofo. L’altra spiegazione è poi la straordinaria genialità, originalità e profondità di pensiero di quello che è stato senz’altro il maggiore filosofo della storia. In ogni caso la ragione di questa assimilazione tra leggi ed essere ci risulterà man mano più chiara ed inoltre anche di importanza assolutamente centrale.
Bene, prima di addentrarci in maggiori particolari di questa dottrina, dobbiamo prendere atto del fatto che (prescindendo dall’ontologia aristotelica) alcune ontologie moderne hanno chiamato in causa in vari modi proprio Platone. E ci riferiamo per questo all’espressa ontologia di Nicolai Hartmann [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941] ed inoltre al discorso su filosofia e scienza svolto da Whitehead [Alfred North Whithead, Scienza e filosofia, Castelvecchi, Roma 2014].
A questi due autori aggiungeremmo anche quell’altra espressa ontologia che fu di Christian Wolff, e che rientra in un razionalismo metafisico che senz’altro riconosce tra i suoi padri (sebbene molto alla lontana) anche Platone stesso [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006]. In ogni caso il pensatore tedesco non parlò mai in quest’opera del filosofo ateniese. E quindi esso vi ricorre solo come suggestione e richiamo alla lontana nel contesto di quel razionalismo filosofico che aveva avuto intanto una lunghissima storia, e quindi in qualche modo (sebbene con le dovute cautele) si può ritenere sia iniziato proprio con Platone.
Hartmann, comunque (in modo simile a molti filosofi moderni), tratta di Platone in una maniera decisamente negativa – egli infatti non solo annovera il suo pensiero in quelle dottrine unilaterali e moniste (ossessionate dall’unità dell’essere) che pretendevano di ridurre tutto ad un solo principio (nel caso specifico l’Idea), ma inoltre lo ritiene essere uno dei principali responsabili del dualismo che spesso era scaturito da queste visioni, ossia la tendenza a separare nettamente l’essere ideale da quello reale. Whitehead è stato invece decisamente molto meno severo verso Platone, anzi non ha nascosto una notevole ammirazione verso il suo pensiero. E tuttavia nemmeno così ha reso giustizia alla vera natura del suo pensiero. Lo ha infatti ritenuto il protagonista di una serie di idee (sostanzialmente intuitive e fortemente contemplative, se non mistiche) che in qualche modo hanno offerto alla scienza basi preziose per potersi sviluppare. Anzi in qualche modo lo ha ritenuto (diversamente da Aristotele, che invece era egli stesso uno scienziato) il prototipo del filosofo che serve la scienza pur senza né concepirla né praticarla; ossia intuendola al confine del proprio filosofare. Quanto poi a Wolff abbiamo già detto in che modo il suo pensiero può comunque richiamare Platone per alcuni aspetti.
Ora, entrambe le prime due letture di Platone appaiono abbastanza riduttive e per molti versi anche ingiuste se non erronee. Innanzitutto chi ha approfondito davvero il pensiero di Platone sa bene che il dualismo da lui sostenuto fu solo apparente – e questo viene affermato non solo da suoi studiosi ma anche da filosofi antichi che si ispirarono al suo pensiero [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I-II p. 959-1151; Gregorio di Nissa, Dell’anima e della resurrezione, ibd. I, 7, 44-48 p. 381-387, III, 72-77 p. 417-423, V, 5, 121-128 p. 473-481]. Egli infatti volle semmai offrirci un’immagine totalizzante e continua dell’Essere (sebbene pensata mediante progressivi livelli ipostatici procedenti dal trascendente verso il reale), entro la quale la distinzione tra essere ideale ed essere reale serviva solo a dimostrare che la vera cosa è in realtà l’Idea. Ed essa lo è non in quanto isolata in un mondo trascendente (l’essere ideale), ma invece in quanto posta in continuità ininterrotta con la cosa reale. Di quest’ultima infatti l’Idea è paradigma e modello. Tuttavia nell’esserlo è dotata di un’effettiva onticità, per quanto affatto equiparabile a quella corporea e materiale. Di questo decisivo aspetto abbiamo comunque trattato intensivamente nel nostro saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. Ma esso viene confermato anche dalla magistrale analisi del concetto di Idea platonica che è stata fatta dal Prof. Reale [Giovanni Reale, Per una nuova… cit., II, VI, p. 158-213]; oltre che anche da altri studiosi [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 241; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154].
Quanto poi alla lettura di Platone che viene fatta da Whitehead, non crediamo affatto che il pensatore ateniese vada preso in considerazione unicamente per i servigi da lui prestati alla scienza empirica ed al suo sviluppo. Questo intendimento risente infatti fortemente della del tutto fuorviante e distorta ri-lettura di Platone che iniziò con Schleiermacher nel XIV secolo, attraversò poi molti sistemi filosofici del XX secolo (tra i quali la Fenomenologia husserliana, con l’appendice di Lotze, e la Filosofia matematica di Frege) per culminare infine in Natorp e nel neo-kantismo.
E bisogna ricordare a questo punto che proprio Hartmann ha ritenuto la vera ontologia del tutto incompatibile con una simile presa di posizione [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I, 4d p. 55-57]. In tale contesto interpretativo, comunque, Platone è stato di fatto ridotto al pensatore della Ragione per eccellenza. Laddove come tale egli avrebbe semmai potuto venire scelto come modello da un Wolff e dai suoi simili. Mentre invece, entro il sistema filosofico platonico, la Ragione occupa un posto appena come facoltà dell’anima e più ancora come emanazione dell’Intelletto divino. E non a caso esattamente in questa sua forma noi la ritroviamo nelle Leggi.
Whitehead mette comunque in luce una forte tendenza di Platone ad affermare il valore dell’”armonia” dell’Essere, quale “proporzione” e “misura”, e ciò per mezzo dell’accento da lui posto sulla scienza matematica [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. E questo aspetto è realmente presente nel dialogo, sebbene (come vedremo) con un significato abbastanza diverso da quello sottolineato dal filosofo inglese. Inoltre tale elemento ci porta nuovamente molto vicino a quella visione ontologica di Wolff, anche entro la quale l’appello alla matematica ha un senso molto diverso da quello platonico – essa rientra infatti in una sapienza filosofica che non solo punta all’esattezza assoluta dei supremi Principi logici (dai quali ogni cosa viene dedotta) ma inoltre resta in intima connessione con gli aspetti unicamente quantitativi della realtà ossia ai cosiddetti “fatti” dell’esperienza [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006, I, 12-19 p. 75-82, I, 27 p. 87-88, II, 34-36 p. 92-94, III, 139 p. 175-178].
Ma vedremo che nelle Leggi di Platone le cose stanno in modo molto diverso per quanto riguarda il valore attribuito alla matematica.
Tuttavia Whitehead sostiene inoltre che l’accento posto da Platone sulla matematica in particolare anticipava una scienza che voleva avere la precisione logica che è appunto propria della matematica stessa [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4-5 p. 22-39]. Questo sarebbe stato infatti per lui l’insegnamento svolto nell’Accademia. Ma – a parte il fatto che l’insegnamento svolto da Platone nell’Accademia fu sostanzialmente ed interamente mistico ed esoterico, e quindi metafisico-religioso e non logico [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 80-88, II, IA, 1 p. 419-429; Giovanni Reale, Per una nuova …cit., I, III, p. 75-111; Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 11-36; Alexandre Koyré, Discovering… cit., p. 1-7; Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10, Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136, II, V p. 167; Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3 p. 45-52, 5 p. 63-67, 6 p. 77-84] −, quello che dice Whitehead ancora una volta è verosimile semmai per un pensatore come Wolff, ma non per Platone. Spicca a tale proposito infatti il senso evidente di quanto Platone affermò nella sua VII lettera a proposito dell’insegnamento unicamente orale che egli svolse nell’Accademia (cioè del tutto al di fuori della materia scritta dei Dialoghi) [Platone, Lettere…cit., VII, 341cd p. 193]: – “Non esiste nessun mio scritto sull’argomento; né mai esisterà. Non si tratta assolutamente di una disciplina che sia lecito insegnare come le altre; solo dopo lunga frequentazione e convivenza col suo contenuto essa si manifesta nell’anima, come la luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco…”. E la scintilla è appunto, secondo Friedländer, il simbolo che più pienamente incarna la natura esoterica dell’insegnamento di Platone – si tratta infatti di una conoscenza misterica e profondissima che di colpo erompe, invadendo e pervadendo l’anima dopo una lunghissima e faticosissima preparazione. Pertanto semmai lo studio della matematica fu in Platone funzionale a questo ed affatto invece fine a sé stesso.
Una volta premesso tutto ciò, quindi, tenteremo una rilettura sintetica delle Leggi che metta in luce l’ontologia in essa esposta allo scopo di verificare se possa o meno venire ridotta ad una scienza dell’essere puramente razionalistica come quella sostenuta soprattutto da Wolff e da Whitehead; oppure possa tradursi in un realismo «in-mondanistico» ed immanentistico come quello di Hartmann, del quale la metafisica costituisce appena gli sfumati e remotissimi margini. E peraltro anche quest’ultimo pensatore ritenne che una siffatta ontologia debba stare in stretta sintonia con la scienza [Nikolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1949, II p. 11-20, IV p. 27-35, VII p. 51-59; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 19 p. 33-35, 21 p. 37-38, I, I, 4ac p. 51-55, II, I, 13a p. 101-102, II, III, 20c p. 144-146, IV, II, 42ad p. 267-273, IV, III, 47ad p. 293-298]. Naturalmente non crediamo affatto che tali assimilazioni siano possibili.
Ma quello che dice Whitehead potrebbe fare pensare che sia così. In ogni caso solo l’analisi testuale delle Leggi lo potrà dimostrare.
Per l’ontologia di Hartmann bisogna però fare un discorso a parte. È vero che di certo nemmeno lui svaluta la Ragione. Però è troppo avverso a tutte le forme di ontologia condizionate dal razionalismo e mentalismo per poter venire considerato un sostenitore del culto della Ragione entro la scienza dell’Essere. Anzi egli sostiene espressamente che la presa di posizione razionalistica (incentrata nell’atteggiamento “riflessivo” e quindi sulla riduzione dell’Essente mondano alla rappresentazione ed al pensiero, è quello che più ha nuociuto all’ontologia quale equilibrato e sobrio realismo filosofico [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I 3c p. 48-49, I, I, 4d p. 55-57, II, III, 10a p. 83-84, II, I, 13ab p. 101-104, III, I, 22dc p. 153-156, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157, IV, II, 42c p. 270-271]. Pertanto è possibile che tutto sommato i suoi giudizi radicalmente negativi su Platone possano venire moderati tenendo conto di un’ipotetica somiglianza (sebbene molto alla lontana, e solo da questo punto di vista) tra la sua ontologia e quella del pensatore ateniese. Del resto egli punta lo sguardo sull’Essente in quanto irriducibile. E più o meno lo stesso fa Platone nel Teeteto.
A questo scopo esamineremo pertanto sinteticamente il contenuto delle Leggi allo scopo di dare un’immagine chiara dell’ontologia da essa contenuta, nel mentre contemporaneamente faremo riferimento ai pensatori menzionati laddove ciò si rivelerà utile (oltre i richiami ad essi che abbiamo già fatto).

1- L’ontologia di Platone nelle Leggi.
Il dialogo inizia [Platone, Leggi…cit., I p. 4-16] con un discorso molto generico nel quale emerge comunque già il fatto che la legge promuove “beni” (ossia “virtù”), che sono sostanzialmente più divini che non umani. Ed in generale si tratta del distacco dal piacere ed inoltre della disponibilità a sottomettersi a pratiche che favoriscano la capacità di sacrificio (gli esercizi faticosi). Ed il tutto tende quindi allo sviluppo di un atteggiamento anti-egoistico, anti-edonistico ed anti-solipsistico. Si tratta insomma di fatto della capacità di auto-dominio, ossia il controllo delle passioni.
E bisogna ammettere che questa così sublime ed integra morale pagana avrebbe dovuto essere oggetto di ammirazione (e non di disprezzo) da parte dei cristiani.
Ma già laddove Platone vede nell’educazione dei fanciulli la base stessa della legge [Platone, Leggi…cit., II p. 17-27], emerge il valore di quelle armonia e proporzione numerica che abbiamo vista sottolineato da Whitehead. In altre parole la virtù e la connessa legge hanno anche un versante numerico in quanto connesse al comportamento armonico che scaturisce dall’abitudine all’auto-dominio. Platone sottolinea però il fatto che questa tendenza proviene agli uomini dagli dèi, come si può del resto constatare entro le narrazioni mitiche.
In ogni caso emerge nel dialogo da subito [Platone, Leggi…cit.III p. 28-40] che gli elementi fondanti della legge (in quanto costituzione) sono l’anima e la conoscenza che la contraddistingue, opposta com’è all’ignoranza e quindi in concordanza con l’azione della Ragione. Si tratta dell’antica idea di Platone (giunta a maturazione dopo l’influsso orfico-pitagorico ed espressa soprattutto nel Fedone) secondo la quale l’anima è un’entità insieme etica e gnoseologico [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2005; Raphael, Iniziazione… cit., p. 31-44; Paolo Scarpi, Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007, III, F4 p. 425; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates….cit., p. 145-285; Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I p. 35-39, I, I, I p. 41-46; Luciano Montoneri, Il problema… cit., IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155]. Ma essa assume ora un aspetto anche ontologico. Ecco infatti emergere il nucleo stesso dell’ontologia platonica nelle Leggi, ossia l’anima stessa, ed appunto nella sua dimensione non solo etica ma anche gnoseologica. E ciò ci riporta certamente in una certa misura a Wolff, con la sua ontologia fondata su principi razionali assolutamente certi che sono però anche principi dell’essere [Christian Wolff, Discours…cit., II, 30 p. 90, II, 33 p. 91-92, II, 36 p. 93-94, III, 69 p. 117 III, 73 p. 121-122, III, 93-94 p. 133-135, III, 111-112 p. 146-147], III, 117–18 p. 154, III, 125 p. 161-162, III, 128 p. 165-166]. Sebbene abbiamo già constatato il significato molto diverso che ciò ha rispetto al razionalismo della visione filosofica e dell’ontologia platonica.
E infatti tutto quello che Whitehead dice rispetto a questo è radicalmente diverso da quanto sostiene invece Platone. Il filosofo inglese sottolinea cioè a questo proposito che si tratta di principi astratti opposti ai meri fatti ossia all’immediata esperienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 1 p. 7-12]. In particolare si tratta di una generalizzazione induttiva prendente le mosse dai fatti che troviamo sostenuta anche in Wolff [Th. Arnaud, W. Feuerhahn, J.-F. Goubet et J.-M. Rohrbasser, “Christian Wolff le «maître des allemands»”, in: Christian Wolff, Discours…cit., p. 22-25]. Ed essa poi reca all’elaborazione di generali ed estremamente ampie leggi di natura [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Whitehead sottolinea che in questo la filosofia e la scienza concordano fortemente, sebbene la prima preceda di molto (nel tempo e nell’agire) la seconda con le sue intuizioni. Dato che, quanto era stato un tempo intuito astrattamente, poi con la scienza empirica finisce per diventare oggetto di una precisa misurazione quantitativa.
Ma a questo punto questo universo di pensiero appare essere lontanissimo da Platone, dato che per lui la conoscenza razionale non solo è connessa con una sostanza oggi considerata totalmente irrazionale, come l’anima, e tuttavia inoltre è connessa con fatti reali di tipo etico e non meramente cosale, come l’organizzazione legislativa dello Stato e della società. Ed ecco quindi che il razionalismo attribuito da Whitehead a Platone si rivela essere (almeno nel contesto delle Leggi) del tutto erroneo. E conseguentemente lo è anche l’attribuzione a Platone di un interesse specifico per la scienza (come poi vedremo nella seconda sezione). In particolare (in riferimento a quello che abbiamo posto in luce nell’Introduzione) tutto questo non significa affatto che Platone avesse intenzione di comprendere il mondo (cioè l’essere) per mezzo della matematica. Tanto è vero che, come vedremo, egli pone alla radice dell’essere una realtà radicalmente metafisico-etico-gnoseologica come l’anima. Semmai egli ritenne invece la matematica uno strumento per dare una forma concreta alla tendenza dell’essere (in quanto dominato dall’anima) ad assumere l’assetto dell’armonia, della proporzione e della misura. E ciò, ancora una volta, riguarda molto più l’etica che non invece la matematica in sé. Ancora una volta insomma l’insegnamento della matematica si rivela essere nel suo pensiero un mero strumento per assurgere ai livelli più eccelsi della conoscenza metafisico-religiosa ed esoterica.
Non a caso, proprio in questa parte del dialogo (dopo aver discusso delle narrazioni religioso-mitiche del diluvio, ossia le grandi catastrofi che ciclicamente distruggono le Civiltà), Platone ci mostra come il venire a mancare dell’armonia sul piano politico (che a sua volta è connesso all’uso di un Intelletto di origine divina e spinge quindi verso la solidarietà) è la causa effettiva del fallimento e del tracollo di grandi potenze (come quella di Sparta). E il male è qui per lui quell’ignoranza che poi altro non è se non il mancato ricorso all’anima da parte dell’uomo.
Infatti l’essere diretti dall’anima equivale per lui all’essere diretti dalla Ragione, e ciò spinge naturalmente verso l’armonia. Il problema delle leggi (così come dell’essere) è dunque in effetti il problema del difetto dell’orientamento dei desideri dell’anima all’Intelletto (che è poi sostanzialmente divino).
Ecco quindi che inizia con ciò a divenire chiaro il perché della sua ontologia inserita entro una trattazione delle leggi. Le leggi infatti riflettono l’ideale assetto etico dell’essere che è orientato appunto all’armonia, alla proporzione ed alla misura. L’essenza di ogni legislatività è dunque questa – che essa si manifesti nelle cose della Natura o invece nella società.
Ma nella sezione successiva Platone afferma anche che ciò non avviene senza l’intervento del divino, che non a caso genera le leggi proprio secondo questi principi [Platone, Leggi…cit. IV p. 41-49].
Non a caso, in assenza di tale intervento, le leggi meramente umane non riescono ad avere alcuna stabilità, venendo così continuamente soverchiate dall’urto delle casuali circostanze mondane ed esistenziali, e quindi rischiando continuamente di deragliare in tal modo dai principi che devono strutturarle e regolarle. Ecco perché, in questa parte stessa del dialogo, egli ricorre di nuovo al mito religioso menzionando il Regno di Crono come il modello assoluto dell’assetto legislativo (e conseguentemente dello stesso essere) in quanto retto direttamente dall’Intelletto divino. Esso è dunque anche il modello sia della stabilità delle leggi sia della felice stabilità dell’essere.
E di nuovo emerge qui allora uno dei contenuti del Timeo unitamente alla riaffermazione di quella perfetta misura dell’essere che senz’altro per lui va ritrovata nelle proporzioni matematiche.
L’Intelletto divino è infatti caratterizzato dal fatto di essere principio e fine di tutto nel compiere in maniera impeccabile e perfetta il suo percorso rigorosamente circolare. Il conformarsi al dio rende quindi capaci gli uomini di imitare questa perfetta armonia. Il che si lascia poi riassumere nel seguente principio di governo e legge: − “Il simile ama il suo simile, quando è moderato, mentre le cose che non hanno misura non si amano fra di loro e non sono amate da ciò che contiene la misura. Il dio è per noi misura di tutte le cose”.
Ecco dunque che, a contraddizione decisa della lettura di Whitehead, appare chiaro che il riferimento alla matematica di Platone è sostanzialmente etico-religioso ed affatto invece scientifico. Scientifico lo è semmai solo molto secondariamente.
Del resto, laddove egli parla di una cura dell’anima da parte del singolo (che sta in perfetta sintonia con i principi affermati dalla legge), ci dimostra che il fine stesso della legge è sostanzialmente etico ed anche tendenzialmente religioso, dato che esso consiste nel porre l’uomo in una condizione che sia all’altezza del valore ontologico dell’anima ed anche del suo possesso [Platone, Leggi…cit., V p. 50-58].
Il discorso del dialogo si sposta comunque poi direttamente sull’anima a partire dal capitolo IX [Platone, Leggi…cit. IX p- 100-102], nel quale viene fatto un accenno ad un aspetto di quella tripartizione dell’anima stessa, che è attestato essere una produzione intellettuale di Platone sulla base della dottrina orfico-pitagorica. L’anima infatti si rivela qui essere il punto di riferimento principale della tendenza al delitto a causa delle sue tendenze tra le quali l’ira (anima irascibile come opposta a quella razionale).
E veniamo con ciò al capitolo nel quale emerge finalmente un’ontologia incentrata esattamente nell’anima in quanto essere primario ed anche principio di essere [Platone, Leggi…cit. X p. 113-125].
Qui il discorso inizia da quello che tutti e tre i partecipanti (l’Ateniese, cioè Platone stesso, il cretese Clinia ed lo Spartano Megillo) considerano il peggiore delitto tra tutti, e cioè quello di empietà, che di fatto consiste nell’ateismo, e quindi nel rifiuto di accettare l’esistenza degli dèi.
Platone allude al proposito (senza dirlo) ai pensatori pre-socratici (in quanto sostanzialmente materialisti ed estremisticamente naturalisti), dato che essi considerano gli elementi (enti inanimati e cieche forze elementari) come l’unica causa di tutte le cose − per il fatto di mescolarsi (a caso, ciecamente e disordinatamente) tra loro, dando così origine a tutte le forme di essere: − dalle cose, agli astri e fino agli esseri inanimati). E così viene espressamente negato recisamente l’esistere ed agire di un’Intelligenza creatrice.
Ecco allora che, nel ricercare il vero elemento che può essere considerato l’origine e causa di tutto, ossia l’anima (a sua volta espressione dell’Intelletto divino), Platone espone di fatto una vera e propria ontologia dinamica che contempla anche il divenire. Non vi è dubbio che si tratti di una radicale novità entro il suo pensiero; che (come abbiamo già visto) fino a quel momento si era fermato a considerare l’essere in maniera statica in quanto costituito da livelli sovrapposti dei quali quello delle Idee era il più alto ed anche paradigmatico. Al di sopra di esso c’era poi quell’Uno divino che fissava e riuniva ogni cosa in un’ancora più assoluta stabilità [Giovanni Reale, Per una nuova …cit., II, VI, III p. 172-176, I, VII, I-IV p. 214-227, III, XII, I-V p. 362-388, IV, XVI-XVII p. 536-582].
Comunque anche già il Timeo aveva cominciato a contraddire questo schema nel considerare l’Uno come il supremo circolo e centro (in perenne movimento) dal quale emanava l’intero Essere. Ebbene qui l’anima è quindi l’origine non solo delle cose e dei corpi ma anche dei processi di generazione e corruzione che avvengono nella Natura in maniera apparentemente autonoma.
Essa insomma viene “prima” e non “dopo” gli elementi basilari ed inanimati dell’essere. Essa è pertanto l’unica e vera causa di ogni cosa, ed è pertanto all’origine di tutto. Inoltre non è affatto soltanto all’origine delle cose, ma anche degli stessi processi di generazione e corruzione. Il che avviene semplicemente perché essa è divina (e quindi le spetta il primato assoluto entro l’essere) mentre è unicamente “mortale” (ossia temporale) tanto la realtà degli elementi inanimati quanto tutto l’essere che si presume consegua ad essi. Questa, egli dice, è la vera “essenza dell’anima”, e cioè il suo esistere molto prima dei corpi e di qualunque cosa sia corporea. E così gli elementi (solo apparente causa di tutte le cose) sono in effetto appena il prodotto dell’anima.
Possiamo pertanto constatare che qui si delinea chiaramente un’ontologia ormai dinamica, dato che l’anima è all’origine anche dei processi immanenti di formazione. Inoltre viene sottolineato anche un aspetto che ci lascia nuovamente comprendere il senso etico-religioso (e non scientifico) del razionalismo di Platone. Egli afferma infatti che chi non comprende queste cose (come accade ad atei e pre-socratici) professa semplicemente una “stolta opinione”, che a sua volta deriva da un cattivo uso della Ragione.
Oltre a ciò egli corregge il confuso e contraddittorio concetto di Natura affermato dai presocratici affermando così che la “natura vera e propria” viene in effetti prodotta anch’essa dall’anima. E quindi ciò che avviene «in natura» o «naturalmente» non implica affatto l’agire di elementi e forze cieche (non divine, e quindi non intelligenti ed agenti per caso), ma avviene invece anch’esso sotto la direzione dell’anima e quindi in maniera intelligente e razionale. Sembra insomma di vedere qui affermata una teleologia simile a quella di Aristotele. Ma Platone non ne parla espressamente ed inoltre egli non dimentica mai l’ascendenza divino-trascendente di ciò che nel mondo si muove verso un fine. Pertanto (diversamente da Aristotele) egli sostiene una causalità efficiente e non finale.
In ogni caso, come abbiamo visto, l’anima ci viene presentata come origine e causa sia dell’essere che del divenire. In particolare l’anima è l’essere stesso ed anche l’origine dell’essere.
Tuttavia l’elemento fondamentale della dottrina è la spiegazione metafisica ultima di queste capacità dell’anima in base ad un’originaria assoluta stabilità dinamica (ancora una volta circolare ed inoltre assolutamente centrale, ossia in fondo quella del Timeo), e cioè la capacità dell’anima stessa di muovere sé stessa (secondo il modello metafisico del «causa sui»). Infatti, esattamente come il supremo circolo raffigurato nel Timeo, l’anima è ciò che, restando al suo posto, ossia muovendosi circolarmente e dunque «sul posto» , e quindi trascendendo così lo spazio ed il tempo, muove alla fine tutte le cose. Essa è insomma ciò che stando ferma fa sì che le cose si muovano. E questa differenza ontologica è esattamente quella che differenza il “causante” dal “causato”. Eccoci dunque di fronte alla natura radicalmente metafisica di un’ontologia che è sì dinamica ma per nulla immanentista. Essa infatti non è per nulla indotta dall’osservazione dei fenomeni naturali mondani (come avviene invece in Aristotele) entro la quale domina una causalità temporalmente consecutiva e quindi meccanicistica. Ci troviamo infatti davanti a ciò che, solo perché “muove sé stesso”, è in grado di causare un “mutamento” che a sua volta può venire determinato solo “dal movimento che muove se stesso”. Pertanto quello dell’anima è “il movimento che causa tutti i movimenti”, e quindi è “il movimento più vecchio e potente”.
Sta qui insomma la formula di un’ontologia dinamica che può sussistere in Platone solo perché è radicalmente metafisica.
Ecco insomma la totale inversione della dottrina materialistica e meccanicistica dell’azione causante, secondo la quale gli effetti vengono prodotti da ciò che si muove. Ed in questo sarebbe poi consistita l’ontologia dinamica di Aristotele. A differenza di quest’ultima, quindi, l’ontologia di Platone è veramente una dottrina integralmente onto-metafisica. Essa trascende infatti totalmente le aspettative dell’esperienza e dell’intelligenza umana, introducendo così idee del tutto iper-razionali. Quindi vediamo bene che quello di Platone non può in alcun modo venire considerato un razionalismo. Sebbene egli veda proprio in questo la vera Ragione, ossia quella divina e non umana.
E così l’anima in generale viene posta prima di tutto ciò che è corpo.
Ma in generale emergono in tale contesto tre elementi concettuali fondamentali: − 1) la coordinazione ontica strettissima esistente tra anima ed Intelletto divino (senza la quale l’anima non potrebbe mai esercitare la funzione onto-generativa che esercita); 2) in forza di questo le facoltà animiche (opinione, ragionamenti, memoria, costumi) precedono anch’esse tutto ciò che è corporeo; 3) la natura dell’azione dell’anima è etica, oltre che ontologica, così che è solo da essa che deriva tutto ciò che è anche legislativamente rilevante, ossia il buono, il bello, il giusto ed i loro contrari (brutto, cattivo o male, ingiusto). In altre parole dall’anima deriva non solo il nudo essere ed il suo movimento, ma anche le forme più altamente spirituali-oggettive che ne scaturiscono, ovvero la struttura della Civiltà e la Storia – come affermerebbe l’ontologia di Hartmann indicandoci lo strato più alto dell’essere (umano-personale ed impersonale) [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit.]. Ed una delle conseguenze di ciò è che il contenuto etico della legge (virtù e promozione della virtù) è senz’altro di origine animica e pertanto divina.
In tal modo è stata quindi trovata l’essenza della legge, la quale evidentemente risiede nelle profondità etico-religiose dell’essere stesso. Che Platone riusciva a scrutare con una potenza di penetrazione intellettuale della quale nessun altro filosofo sarebbe in seguito stato capace [Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77-87]. Per tale motivo, dunque, secondo lui è impossibile immaginare un mondo privo di leggi, ovvero un essere che non sia divino-legislativamente normato.
Ed ecco che in questo modo possiamo definitivamente comprendere il perché della trattazione dell’ontologia nel contesto del discorso sulle leggi. L’idea di Platone è insomma che tanto l’essere che la struttura della società (in sostanza umano-spirituale) sono ispirate alla più perfetta armonia e quindi obbediscono in qualche modo ad una precisa legislatività divina il cui fine ultimo è soprattutto il Bene.

2- L’ontologia animico-etico-metafisica delle Leggi e l’ontologia razionalista-scientista di Wolff, Hartmann e Whitehead.
Abbiamo già toccato il pensiero di questi filosofi nelle nostre precedenti osservazioni. Ma ora va completato il discorso sulle loro ontologie in relazione a quella di Platone. In ogni caso abbiamo già constatato quanto le visioni di Wolff, Hartmann e Whitehead siano divergenti da quella di Platone nonostante le apparenti somiglianze che le accomunano (accomunandole peraltro anche tra loro stesse). Ma comunque il punto di partenza di queste nostre riflessioni sono in primo luogo le esplicite menzioni di Platone da parte di Whitehead nel contesto di un’ontologia la quale non è altro che quella oggi esistente in comune tra filosofia e scienza (cioè la conoscenza empiristica del mondo reale). E quindi da esse dobbiamo iniziare.
Del resto, pur essendo molto più sbilanciata verso la filosofia, anche l’ontologia di Hartmann ha tale carattere intenzionale. Quanto poi a Wolff c’era nel suo pensiero (come in quello di tutti i metafisici razionalisti del suo tempo) l’auspicio di qualcosa si abbastanza simile (almeno apparentemente). Sebbene per loro una filosofia in sintonia con la scienza empirica si basava su grandi induzioni a partire dall’essere mondano e reale (esperienziale) che puntavano verso quei Principi razionali perfetti ed universali in assenza dei quali la conoscenza è impossibile o del tutto non veridica. Ne risultava così proprio quella ontologia che Hartmann avrebbe poi rigettato, ossia quella in cui essere e mondo venivano completamente concettualizzati e quindi di fatto non corrispondevano più alla realtà tangibile.
Ma prima di tutto va qui completato il discorso di Whitehead a proposito di Platone.
Il filosofo inglese è fermamente convinto che Platone (insieme con Aristotele) sia stato ( perfino intenzionalmente) un antesignano della scienza moderna − prima per mezzo dell’elaborazione della Filosofia della Natura pre-socratica e poi aprendo la strada alla Scuola di Alessandria, secondo lui culla della scienza moderna [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Ma proprio nelle Leggi abbiamo visto come, nel momento in cui Platone si decide a dare corpo ad un’ontologia, fa l’esatto contrario del riferirsi ai pre-socratici. Anzi li sconfessa decisamente.
Evidentemente Whitehead non è mai stato profondo lettore e cultore di Platone e quindi lo conosceva solo piuttosto superficialmente, o meglio forse per preconcetti. In ogni caso egli è almeno ben consapevole del fatto che il filosofo ateniese non aveva la minima intenzione di mettere su una scienza del genere di quella aristotelica, ossia basata sull’osservazione dettagliata e sulla classificazione del reale concreto, ossia sulla tassonomia [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31].
E addirittura azzarda l’ipotesi che nella famosa VII lettera Platone si sia espressamente rifiutato di consegnare alla scienza le proprie intuizioni pre- e pro-scientifiche. Ipotesi certamente erronea dato che (come abbiamo già visto) in questo scritto Platone non volle dire altro che la famosa sua “seconda navigazione” metafisica [Giovanni Reale, Per una nuova…cit., II, IV-VI, I p.147-213], ossia quella davvero decisiva in quanto radicalmente metafisico-religiosa, era destinata ad essere oggetto di un insegnamento esoterico unicamente orale, e quindi riservato a pochissimi eletti (tra i quali non c’era certamente Aristotele). E questo insegnamento non aveva assolutamente nulla a che fare con la scienza empirica. Lo dimostra chiaramente, secondo noi, il dialogo sulle Leggi, che è uno degli ultimi scritti di Platone prima del suo ritirarsi proprio nell’intimità isolata dell’insegnamento esoterico orale. Esso contiene infatti un’ontologia che è l’esatto contrario di un’ontologia filosofico-scientifica, e quindi differisce nettamente tanto da quella di Wolff tanto da quella di Hartmann.
Ma comunque in questa sezione Whitehead dimostra di aver ben colto la specifica natura di filosofo che caratterizza Platone: − egli era infatti l’esatto contrario di un professore. Ed in effetti per il filosofo inglese la filosofia inizia a diventare scienza solo dal momento in cui essa inizia ad essere professorale (con la fatale conseguenza, da lui tutt’altro che deplorata, di allontanarsi dalla vita e dal percorso di crescita spirituale) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Va a tale proposito però fatto notare che Hadot vede le cose in modo diametralmente opposto – per lui infatti la filosofia professorale fu l’inizio della morte di una disciplina che (proprio con Socrate e Platone) aveva dimostrato di potere e volere essere una prassi esterna alle scuole e quindi dedicata esclusivamente alla crescita spirituale dell’uomo comune e del cittadino [Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Rinaudi, Torino 2010, VIII, p. 143-166]. E siamo certi, quindi, che Platone sarebbe stato d’accordo con quest’ultimo, e non invece con Whitehead.
Per il resto il filosofo inglese ha una vaga, ma non poco fedele, intuizione di ciò che per Platone è la “Natura”, ossia ciò che abbiamo constatato proprio entro l’ontologia esposta nelle Leggi [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,4 p. 22-31]. Essa è infatti per lui l’”hypodoxé” cioè il “ricettacolo”, ossia “la nutrice di ogni divenire” in quanto priva totalmente di forma, e quindi non è affatto il comune spazio geometrico. Per Whitehead si tratta della materia così come venne poi concepita anche da Galileo e Newton. Ma il filosofo inglese sconta in questo sia i suoi preconcetti scientistici sia la scarsa conoscenza del pensiero di Platone e del suo vero spirito. Perché, stando invece all’ontologia esposta nelle Leggi, questo ricettacolo (quale luogo del divenire) non è altro che l’anima. Dunque qualcosa di profondamente diverso dalla materia (in quanto molto sottilmente metafisico), per quanto comunque esistente e reale. Ciò che però è comunque vero è che, come dice Whitehead, tale entità e realtà non ha assolutamente a che fare con lo spazio-tempo (entro il quale non avviene affatto ciò che è davvero rilevante), e quindi corrisponde secondo lui a quanto va scoprendo oggi la Fisica quantica. Ciò è vero, ma fino ad un certo punto. E questo è quanto abbiamo cercato di comprendere nelle nostre ultime ricerche, specie quelle relazionate all’ontologia invocata dal fisico quantico e filosofo Wolfgang Smith [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann” < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”.
< https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>]. Nel corso di queste ricerche è infatti emerso che molto probabilmente l’ambito di essere scoperto dalla Fisica quantica rischia fortemente di essere appena un inconsistente e vuoto artificio strumentale, che è dunque del tutto irreale e non esistente. Ed in questo caso esso non ha assolutamente nulla a che fare con il “ricettacolo” che Whitehead ritrova nell’ontologia di Platone.
La comprensione dell’intenzionale non-scientificità del pensiero di Platone viene comunque debitamente constatata da Whitehead anche più avanti [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 5 p. 31-39].
Egli afferma infatti che il filosofo ateniese (molto diversamente da Aristotele) perseguì una conoscenza in verità unicamente filosofica e non scientifica. E l’aspetto più rilevante di ciò è il suo disinteresse per il fatto, sia pur nel contesto di una conoscenza matematica dell’essere. E questo ci riporta decisamente a Wolff per il quale (come abbiamo già visto) invece il fatto esperienziale era fondamentale – solo da esso scaturiva infatti l’induzione che infine recava ai Principi certi della conoscenza e dell’essere (e quindi il fatto era per lui, come per Kant, assolutamente vincolante). Eppure, nonostante questo, Whitehead non rinuncia a pensare che la filosofia con le sue profonde intuizioni (quella di Platone ed anche di altri) sia comunque una guida per la scienza. È in qualche modo ciò è anche vero. Ma intanto – dimostrando ancora una volta di non aver compreso lo spirito del platonismo – il filosofo inglese deplora il misticismo nel quale secondo lui scivolò il pensiero di Platone presso coloro che ne furono i successori, ossia (aggiungiamo) nel medio-platonismo e nel neo-platonismo. La verità è insomma che la filosofia può essere considerata guida per la scienza empirica, ma non senza mantenere una sua visione dell’essere che, nella sua autenticità, è ineluttabilmente metafisica e quindi iper-razionale. Esattamente così è infatti l’ontologia incentrata nell’anima, esposta da Platone nelle Leggi.
In ogni caso Whitehead alla fine del suo libro spezza decisamente una lancia a favore di Platone [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 8 p. 48-50]. Egli afferma cioè che il “fatto” va effettivamente concepito in modo completo. E per questo sono indispensabili le nozioni fondamentali che solo la filosofia formula e possiede. In questo consistono le sette principali idee intuitive secondo lui sviluppate da Platone (idee, elementi fisici, psiche, eros, armonia, relazioni matematiche, ricettacolo) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Sta di fatto però che oggi secondo lui la scienza si vede costretta a fare la stessa cosa. E per questo le teorie si aggiungono continuamente alle teorie senza mai arrivare ad una fine. Il loro sviluppo si basa infatti proprio su quell’intuizione che fu il centro stesso del filosofare di Platone.
Ecco quanto era possibile desumere da Whitehead, associando al suo pensiero alcuni elementi dedotti da Wolff. Ma vediamo ora cosa di può dire di Hartmann, il richiamo al quale pure si presenta nell’esposizione di Whitehead.
Il filosofo inglese contraddice frontalmente Hartmann (pur senza nominarlo) affermando che l’omni-comprensività dei sistemi filosofici è tutt’altro che inutile per la scienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,3 p. 16-21]. Insomma i sistemi filosofici (e dunque le visioni omni-comprensive dell’essere) servono per lui effettivamente per il progresso della conoscenza. Quello che li rende deleteri è solo un loro aspetto puramente qualitativo negativo, ossia l’”errore dogmatico”, e cioè la pretesa di descrivere la complessità del mondo mediante nozioni estremamente definite, e quindi isolate nella loro specificità unilaterale. Si tratta insomma di quelle idee matematiche che invece per Wolff (e per l’intera metafisica razionalista) erano da considerare decisive per la comprensione del mondo. Ma questa critica all’antecedente filosofia è una di quelle cose che Hartmann aveva posto alla base della necessità di una nuova ontologia incentrata sul mondo reale e non sulle visioni del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung….cit., Einleitung 18 p. 31-33, I, I, 4c p. 54-55, II, II, 5a p. 57-59, II, III, 10a p. 83-84, IV, III, 46a p. 287-288]. Posto questo, per il resto Whitehead sembra concordare con Hartmann nel considerare altrettanto inefficaci sia la pura conoscenza matematica (centro dell’ontologia di Wolff) – in quanto essa non può in alcun modo esaurire la complessità del mondo – sia anche una metafisica perfetta e trionfante (alla quale tende senz’altro il pensiero di Wolff e di tutto il suo tempo) in quanto presuntivo esaurimento di tutta la possibile conoscenza. Ne deriva per Whitehead un aspetto assolutamente necessario della conoscenza scientifica moderna e cioè la sua capacità di generare appena “sistemi parziali di generalità limitata”, a loro volta incentrati su nozioni limitate. Questo è quanto è stato compreso nel XX secolo con il collasso di qualunque dogmatismo. E dogmatismo era senz’altro anche quello di Wolff. Ecco allora che, secondo Whitehead, si è stabilita tra filosofia e scienza una sorta di azione e reazione, cioè una reciprocità inscindibile. La filosofia delucida il fatto concreto (sul cui sfondo c’è l’essere esistente, cioè l’Essente) dal quale poi la scienza deve astrarre. La scienza poi trova i propri principi nei fatti ormai compresi che il sistema filosofico presenta.
Ma c’è da considerare anche un altro aspetto, e cioè quello della tendenza all’unità che caratterizza così spesso l’approccio filosofico all’essere [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Platone per Whitehead tende fortemente a questo proprio per mezzo della matematica che prefigura l’interconnessione di tutte le cose. Ma Hartmann considera invece proprio questo la contraddizione in termini di una vera ontologia. Per Whitehead non sembra invece essere così, dato che la “Physis” per lui è, come per Platone, ciò che garantisce l’interconnessione in quanto “ricettacolo”.
Connesso con ciò vi è poi in Whitehead un ulteriore aspetto, che chiama in causa sia Hartmann che Wolff [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 6 p. 39-43]. Egli afferma infatti che la scienza prevede sempre due ordini tra loro coordinati, e cioè quello “osservazionale” (fatti) e quello “concettuale”. Ebbene Wolff concepisce una perfetta coordinazione tra il primo e il secondo per mezzo dell’induzione. Hartmann invece intende espressamente spazzare via il secondo in quanto pregiudizievole per un’autentica ontologia. Quanto poi a Whitehead, egli ritiene il primo debole per definizione, dato che i fatti sono troppo spesso vittima dell’apparenza (con conseguenze paradossali del tipo dell’immagine pre-scientifica di una terra piatta). Ne deriva che la speculazione (sostanzialmente filosofica) è chiamata ad andare oltre i fatti, e ne deriva inoltre che non serve a nulla indurre la verità da fatti che sono in sé così incerti (come invece pretende Wolff considerandoli certi per definizione).
Ebbene diremmo che tutta questa multiforme riflessione viene spiazzata in un solo colpo da un’ontologia come quella platonica. La quale aveva preso le sue decisioni prima di sottomettersi a qualunque necessità così concepita. Essa aveva infatti deciso per una visione etico-religioso-gnoseologica dell’essere, e per questo aveva posto l’anima alla radice di tutto. Dunque la si può senz’altro considerare arbitraria e falsificante quanto si vuole (ed è quello che senz’altro farebbero, di concerto, pensatori dell’essere come Whitehead, Hartmann e Wolff). E tuttavia la prova del nove della sua consistenza sta nella sua perfetta applicabilità alle leggi che regolano la convivenza sociale, ossia ad una delle realtà più rilevanti per l’esistenza umana. E questo spiega ancora una volta perché Platone abbia trattato i due problemi insieme.
Il problema insomma è che il vero filosofo deve in realtà essere un genio visionario, ossia deve essere capace di osservare le cose in profondità e ad immensa distanza dal proprio punto di osservazione, e non invece solo superficialmente e confusamente. Platone ne fu capace. Non ne furono invece assolutamente capaci pensatori come Whitehead, Hartmann e Wolff, nonostante la loro intelligenza, la potenza del loro pensiero e la pregevole preparazione filosofico-scientifica che li caratterizzò come filosofi.

Conclusioni.
Abbiamo affrontato il testo delle Leggi sostanzialmente sulla base delle sollecitazioni espresse da Whitehead nel senso di un determinato intendimento del valore della filosofia di Platone.
Abbiamo scoperto in questo testo quell’ontologia che già sapevamo di potervi e dovervi ritrovare. Ed abbiamo compreso non solo il contenuto di tale ontologia ma anche la pur paradossale relazione che Platone aveva stabilito tra essa e le leggi.
Poi, ritornando indietro ai giudizi espressi da Whitehead sul valore, senso e contenuto del pensiero di Platone, abbiamo ritrovato la possibilità di giudicare la sua ontologia sulla base dei contenuti di alcune fra le ontologie moderne. Che, nel corso della lettura di Whitehead, si presentano come riferimenti quasi inevitabili.
Ebbene quali possono essere le conclusioni di questa indagine?
A nostro avviso essa conferma che Platone ha saputo vedere le cose in maniera ben più profonda e sottile di quanto sarebbe poi avvenuto dopo di lui fino ai giorni nostri. Per tale motivo la sua ontologia può davvero fare scuola e presentarsi quindi come paradigma assoluto (ben più di quella di Aristotele). Non a caso essa sfugge all’eccessivo realismo di Hartmann, al trascendentismo razionalista di Wolff ed all’idea di Whitehead (in gran parte forzata) secondo la quale filosofia e scienza per davvero siano una sola cosa.
Platone ci dimostra invece che non è affatto così.
Un’ontologia incentrata sull’anima (e quindi sulla virtù e sul culto degli dèi) è pertanto qualcosa di assolutamente unico ed irripetibile in filosofia. E quindi ci permette di non perderci negli eccessi tanto della filosofia che della scienza. In tal modo, al suo confronto, l’ontologia di Whitehead si rivela essere null’altro che la banale presa d’atto della conoscenza scientifica del mondo, quella di Hartmann si rivela essere appena la presa d’atto del mondo così com’è, e quella di Wolff (massimamente artificiosa) si rivela essere null’altro che il frutto di una induzione del tutto fantasiosa del mondo ideale a partire dal mondo reale.
Dunque, come sempre, non ci resta che affermare che chi vuole davvero conoscere la filosofia (inclusa anche la scienza dell’essere) non deve rivolgersi a nessun altro pensatore che non sia Platone. Egli è davvero infatti il filosofo per eccellenza ed insuperato – come del resto hanno affermato alcuni tra i suoi più sensibili interpreti – [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 260-279]. E come tale è davvero l’unico vero padre della filosofia che sia mai esistito. E lo è anche allorquando non si limita a trattare del mondo ideale ma anche del mondo reale.

(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
L’ontologia di Nicolai Hartmann non è stata cero l’unica forgiata nel XX secolo. Tra le tante altre vanno infatti certamente ricordate anche quelle della neo-scolastica tomista (tra le quali spicca quella di Maritain), quella di alcuni seguaci della Fenomenologia di Husserl, come Edith Stein ed Hedwig Conrad Martius ed infine quella del pensatore russo Nikolai Berdjaev; oltre ovviamente a quella di Heidegger, che però esce troppo fuori dagli schemi per restare nei limiti di un’autentica ontologia. Vanno poi ricordare anche le puntate in campo ontologico di pensatori esistenzialisti come Sartre, Merleau-Ponty e Gabriel Marcel. Tuttavia in questo modo abbiamo dato al lettore appena un’immagine molto approssimativa di uno scenario di pensiero estremamente composito, ricco e complesso.
Intanto, comunque, l’ontologia di Hartmann ha qualcosa di così tanto originale, da distinguersi molto nettamente da tutte le altre scienze simili concepite nel periodo in cui egli operò.
In primo luogo perché egli sottolinea con forza la radicale novità della sua concezione dell’essere, specie nei confronti della sua forma antica. E questo lo approssima senz’altro in qualche modo ad Heidegger. Ma non si tratta solo di questo perché il nostro pensatore dà alla sua ontologia un’impronta fortemente realista − che però sfugge decisamente al classico realismo filosofico (specie in quanto visione unilaterale diametralmente opposta all’idealismo) – esteriorista ed immanentista. E quest’ultima impronta si caratterizza per una quasi totale equiparazione dell’essere (colto dal pensatore in quanto “Essente come Essente”, o “Essente come tale”, “Seiende als solche”) con il mondo reale, e quindi con la realtà tanto esperibile quanto indubitabile.
Questa equiparazione si spinge fino al punto di considerare la filosofia dell’essere come una disciplina che si trova in perfetta sintonia con la scienza naturale, ossia si occupa di fatto degli stessi suoi oggetti e fenomeni. Tuttavia Hartmann non identifica affatto totalmente la filosofia dell’essere con la scienza naturale, dato che egli è intanto costantemente alla ricerca dei fondamenti ontologici ultimi delle cose e dei fenomeni (ossia le categorie dell’essere) sulla base dei quali si sviluppa la conoscenza scientifica senza però nemmeno avere consapevolezza di essi.
In ogni caso, però, il nostro rientra tra i pensatori del XX secolo secondo i quali la filosofia deve rinunciare definitivamente all’ambizione di sviluppare una conoscenza in contrasto con i risultati della ricerca scientifica che si sono andati accumulando a partire dalla Filosofia della Natura rinascimentale, passando poi per l’Illuminismo ed il Positivismo. Non a caso egli non si sogna nemmeno di porre in discussione teorie scientifico-naturalistiche come ad esempio l’evoluzione darwiniana. Tale approccio si lascia avvertire soprattutto in una delle due sue opere che abbiamo analizzato, e cioè “Neue Wege der Ontologie” (NWO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968]. In particolare in questa ricerca il pensatore di dedica al chiarimento di quelle che sono le autentiche e davvero reali categorie dell’essere, abolendo in tal modo la gran parte dei fantasiosi e astratti relativi concetti ontologici che si ritrovano nell’antica ontologia. E proprio in questo modo egli ci mostra che le categorie dell’essere corrispondono puntualmente agli oggetti studiati dalla scienza empirica, sebbene debbano venire filtrati da una riflessione filosofica che non perde mai di vista i concetti di Essere e di Essente. In ogni caso l’intera indagine ci mostra quale sia la struttura del mondo nei suoi vari strati, a partire da quello meramente fisico-materiale (inanimato) fino a quello animico-psichico e spirituale-mentale. Ed in particolare nessuno di essi manca del carattere di realtà che anche per la scienza empirica è assolutamente imprescindibile.
Ne risulta quindi che in tal modo l’ontologia viene purificata da tutti i concetti dell’antica metafisica che forgiavano entità assolutamente irreali. E già qui, pertanto, si ritrova l’affermazione secondo la quale l’ontologia abbraccia senza alcuna contraddizione tanto l’essere reale (esistenza) quanto l’essere ideale (essenza). Entrambe le sfere dell’essere corrispondono infatti ad entità dotate di un’effettiva onticità, e quindi corrispondenti a realtà oggettuali esperibili e conoscibili tanto in modo filosofico quanto in modo scientifico. In particolare, comunque, la definizione dell’Essere che qui viene fornita si differenzia radicalmente da quella tradizionale per la rinuncia a qualunque forma di unità ottenuta per assimilazione di ogni cosa ad una sola ed esclusiva sfera o principio di essere (quella reale o quella ideale). Caratteristica portante dell’Essere è dunque un’unità che risulta unicamente dalla molteplicità. La sua struttura è dunque a strati. E questo contraddice in modo davvero radicale qualunque forma di ontologia che sia stata concepita nell’antichità (con l’inclusione della Scolastica cristiana), continuando poi a manifestarsi nel tempo anche molto oltre fino alle soglie della modernità, ossia almeno fino all’Illuminismo. E ciò coinvolge ovviamente anche ontologie moderne costruite su quella antica come quella di Maritain, Stein e Conrad-Martius. Inevitabilmente ciò induce Hartmann a riferirsi continuamente alla rivoluzione kantiana del pensiero filosofico, e quindi alla sua de-metafisicizzazione. Questo non significa però che il nostro pensatore sia un neo-kantiano, dato che in più sedi egli si esprime in maniera molto critica verso questa scuola filosofica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941, Einleitung, 1 p. 1-2, 3 p. 3-5, 10-11 p. 14-19, III, I, 25b p. 169-170, IV, II, 42a p. 267-268]. Tutto ciò è quanto si può dire sinteticamente di questa ricerca di Hartmann, della quale nel presente articolo parleremo però solo marginalmente. Di essa abbiamo però parlato più diffusamente in un altro articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e l’ontologia realista di Nicolai Hartmann”, in: http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-l’ontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann ] dedicato alla critica della riforma ontologica della scienza empirica che è stata recentemente tentata da Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Ma Smith aveva tentato di ricostruire la conoscenza anche in un’altra sua precedente opera dedicata alle novità gnoseologiche secondo lui apportate dalla nuova Fisica sub-particellare e quantistica [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001].
Nell’altra opera di Hartmann appena menzionata, invece – “Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO) −, si può toccare con mano il nucleo più profondo del suo progetto di riforma dell’ontologia, che ancora una volta ripropone in grandi linee l’unità nella molteplicità dell’Essere attraverso l’evidenziazione della pari onticità dell’essere reale e dell’essere ideale. Quest’opera però contiene un’analisi estremamente dettagliata, sistematica, vasta, ricca e complessa di tutte le strutture dell’Essere; fino al punto da poter venire considerata quasi enciclopedica. E proprio per questo essa è estremamente interessante per qualunque cultore di filosofia, allo scopo di potersi rendere conto di quale sia la forma assunta modernamente dall’ontologia. In questo senso si tratta di un’analisi ancora oggi molto attuale e soprattutto istruttiva. In ogni caso questo libro rappresenta una vera e propria rivoluzionaria rivelazione per tutti i filosofi, ma soprattutto per chi (come noi) si è sempre occupato intensamente dell’antica ontologia. Una rivelazione della quale però ci sembra imprescindibile prendere atto, dato che (piaccia o meno) oggi la scienza dell’essere ha assunto una forma molto diversa da quella che ha avuto nel passato. Dunque oggi l’ontologia è questa e non più quella antica.
Comunque, a causa dell’estrema ricchezza e complessità di quest’opera, sebbene nella nostra ricerca ci riferiremo soprattutto ad essa – e quindi andremo anche esponendo man mano i suoi concetti portanti −, ci sembra impossibile farne una sorta di completa recensione. E quindi ci occuperemo soprattutto di uno degli aspetti specifici che in essa emerge, e cioè quanto nel titolo abbiamo definito come “ricostruzione della conoscenza”. Tale aspetto costituisce però anche uno di quelli più centrali dell’intera visione del pensatore, dato che esso sta in intima correlazione con l’accento da lui posto sul concetto di ”Essente” (“Seiende”) quale punto di riferimento assolutamente obbligatorio di quella sua revisione dell’ontologia che porta con sé inevitabilmente anche una radicale riforma della concezione della conoscenza. L’idea portante rispetto a questo è duplice: − 1) l’Essente è la Totalità che abbraccia in sé tutte le sfere dell’Essere ed oggettualità delle quali si deve prendere atto in ontologia (esso corrisponde infatti alla piena onticità tanto dell’essere reale che dell’essere ideale); 2) la conoscenza è in primo luogo “relazione di essere” tra soggetto cosciente ed oggetto, e quindi sussiste per davvero solo quando il primo (uscendo totalmente da sé stesso) intercetta realmente un effettivo Essente. E questo esautora decisamente l’intera teoria della conoscenza che è stata poi il nucleo della filosofia moderna a partire dall’Idealismo del XIX secolo (con le sue premesse già nel dualismo cartesiano separante nettamente “res cogitans” e “res extensa”) spingendosi poi fino alla Fenomenologia ed al neo-kantismo. Infatti, sulla base di quanto sostiene Hartmann, non è data conoscenza che non sia una schietta presa d’atto dell’oggetto del mondo reale (da intendere quale Essente) e che quindi non comporti da parte del soggetto il “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggettualità mondana, esteriore e indipendente nella sua totalità. Inevitabilmente questa concezione della conoscenza mette completamente fuori gioco tutte le varie forme della paradossale ritorsione dell’atto conoscitivo su sé stesso mediante uno sguardo rivolto verso l’interno (verso l’oggetto di coscienza) invece che verso l’esterno. E ciò è quanto Hartmann critica aspramente come “riflessività” della conoscenza. Ma proprio l’accento posto su quest’ultima ha fatto sì che la moderna teoria filosofica della conoscenza finisse per sconfinare in un vero e proprio scetticismo che è stato concepito come «problematicità della conoscenza», e quindi sua sostanziale e naturale incertezza ed inefficienza. Il che è avvenuto sulla base dell’idea secondo la quale sarebbe un autentico mistero il rapporto che in essa si viene a stabilire tra l’interiore soggettuale e l’esteriore oggettuale, ossia due sfere dell’essere che la filosofia moderna ha considerato da Cartesio in poi totalmente ed inconciliabilmente separate tra loro. E a questo punto l’auto-riflessivi accurato esame puramente interiore restava l’unico modo per garantire una conoscenza veridica
Con l’abolizione di tutti questi artificiosi apparati teoretico-conoscitivi si compie quindi in Hartmann una vera e propria ricostruzione della conoscenza in quanto pienamente possibile ed efficace già nella sua forma naturale ed ingenua. Ma questo è stato anche quanto è stato sostenuto da Smith. E quindi questo nostro articolo sta in relazione con quello precedente dedicato alle riflessioni di da questo pensatore.
In ogni caso ci sembra comunque che proprio in questo modo Hartmann abbia assunto, con la sua ontologia, una posizione davvero unica nello scenario della moderna filosofia. Egli ha infatti spazzato via quei dogmi non poco astrusi (in particolare quello della “riflessività”) che avevano portato la filosofia a deragliare da quel suo usuale percorso entro il quale sempre la scienza dell’essere era rimasta al suo centro. E questo fu del resto quanto sostiene anche Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, V p. 172-185; Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 2 p. 39-48, II, 1 p. 66-70]. Non a caso entrambi i filosofi si sono dedicati ad una critica di quell’atto di ”oggettivazione” (da parte della coscienza) per mezzo del quale la gran parte del pensiero moderno ha spostato l’attenzione dall’esistenza dell’oggetto alla sua sola conoscenza. Insomma, nel contesto di questo scenario filosofico a dir poco paradossale, si sentiva fortemente la necessità di un ritorno a quell’ontologia che ormai da molto tempo (già da Cartesio in poi) era letteralmente svanita dal pensiero. E certamente la ricostruzione moderna di questa scienza offre vantaggi estremamente rilevanti rispetto alla semplice ripresa dell’ontologia antica. Infatti, se vogliamo restare entro i limiti di una filosofia ortodossa (e quindi di una storia della filosofia praticamente condivisa da tutti i pensatori moderni senza eccezioni), bisogna tener conto del fatto che la riforma kantiana aveva per sempre sbarrato la strada a qualunque visione che in qualche modo assomigliasse all’ontologia antica. Pertanto la ripresa di quest’ultima offre fatalmente il fianco alla critica distruttiva da parte dell’intera filosofia moderna avendo quindi pochissime speranze di sopravvivere. Non per nulla i progetti filosofici di pensatori come Maritain, Stein e Conrad-Martius sono tramontati per sempre con la scomparsa dei loro protagonisti. E questo proprio perché la loro ontologia, riesumata dal passato, non aveva affatto forze sufficienti per controbattere la più diffusa e condivisa presa di posizione filosofica moderna. Non così appare essere invece per la moderna e rivoluzionaria ontologia di Hartmann. La quale non solo si distingue per una geniale originalità, ma inoltre mostra anche di avere forze sufficienti non solo per resistere alla critica bensì anche per esercitare una solida contro-critica, e precisamente una contro-critica talmente intensa da giungere ad essere demolitoria. Alla luce del suo pensiero infatti quei concetti dogmatici della filosofia moderna, che all’uomo comune (ed anche al filosofo poco disposto al conformismo) appaiono giustamente astrusi, assurdi e perfino ridicoli, si sono rivelati finalmente estremamente poco consistenti, ingiustificati e soprattutto per nulla oggettivi e necessariamente condivisibili.

Al proposito di questo tema della conoscenza, da noi estratto dal contesto di ZGO, bisogna comunque aggiungere che esso fu talmente importante per il pensatore che egli dedicò ad esso una brevissima opera specifica dal titolo “Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7]. Qui Hartmann sostiene soprattutto che è stato Kant a porre per primo in evidenza l’intima ed ineluttabile relazione esistente tra le categorie della conoscenza e le categorie dell’essere. Ed in questo consisté in fondo soprattutto la sua riduzione trascendentale. Poi però sono stati sottolineati solo altri aspetti della sua “Critica alla Ragion pura”, e così il suo pensiero è stato completamente distorto per poi venire addirittura dimenticato. Come conseguenza quindi l’oggetto è stato completamente eroso e dissolto dal primato attribuito alla rappresentazione (“Vostellung”), con la totale soppressione dell’evidenza secondo la quale l’oggetto sussiste in maniera totalmente indipendente dalla coscienza, e precisamente non solo come spaziale-materiale ma anche come animico e spirituale (ossia come Totalità). E così la teoria critica della conoscenza ha fatto sì che risultasse impossibile all’uomo conoscente anche solo approssimarsi ai veri oggetti, ossia all’Essente. Pertanto nel complesso gli errori della moderna filosofia teoretico-conoscitiva sono stati due: − 1) il ritenere come conoscenza veridica unicamente quella mentale; 2) la totale perdita di vista dell’oggetto reale in quanto indipendente dalla coscienza, ossia l’autentico oggetto reale. Dunque, con questa premessa, filosofia e scienza hanno poi seguito strade completamente erronee.

Esporremo nelle conclusioni che comunque proviamo, in quanto pensatore tradizionalista, contro questa del tutto nuova ontologia. E tuttavia va intanto ammessa che la ricerca di Hartmann si presenta non solo come genialmente originale ma anche come estremamente meritoria. Essa ha infatti tentato di riportare la filosofia sulla retta via. Non a caso nell’introduzione a ZGO [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 2 è. 23-] egli denuncia lo stato di stanchezza della filosofia moderna che ha causato l’abbandono della trattazione delle grandi questioni (la principale delle quali è ovviamente quella dell’essere) ed inoltre ha causato il consolidarsi di un relativismo secondo il quale non esiste alcuna verità oggettiva. Inoltre denuncia anche che la filosofia ha smesso di riconoscere il mistero nel quale sconfinano molte realtà dell’essere (e quindi del mondo) dando così vita a problemi del tutto naturalmente insolubili per qualunque forma di conoscenza.
Questo concetto viene comunque da lui sottolineato più volte anche in NWO [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IV p. 27-35]. Dunque non a caso, sebbene anche la visione di Hartmann sia tramontata sotto l’urto del pensiero sviluppatosi dal dopoguerra in poi, comunque se ne avvertono ancora oggi gli echi (di sapore appunto ontologico) in alcune forme di realismo filosofico (come quelle di Sellars) [Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2013, I, 2-6 p. 53-147, I, II, 2 p. 164-185, II, III, 1 p. 266-283, II, III, 2-3 p. 283-309, II, III, 4 p. 315-333; Diego Marconi e Gianni Vattimo, Nota introduttiva, ibd., p. V-XXXIV Miguel Pérez de Laborda, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, p. 137-152] che sono succedute recentemente alla grande ubriacatura razionalista costituita dalla Filosofia analitica unita a quella logico-matematica, della mente e del linguaggio.
Detto questo passeremo all’analisi di alcune parti di ZGO nelle quali è possibile prendere atto più direttamente della riforma della conoscenza in quanto uno dei prodotti principali dell’ontologia di Hartmann.

1. I tratti fondamentali del concetto di Essente. Il “realismo naturale” di Hartmann.
La migliore, più chiara, più semplice, più completa e sintetica definizione dell’Essente ci viene offerta da Hartmann laddove egli ci indica in esso null’alto che «ciò che è» [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 5a p. 57-59]. Ma ciò significa due altre cose fondamentali: − 1) esso non è altro che il mondo reale così com’è, ovvero tutto quanto «c’è» nel mondo e come tale può venire esperito e conosciuto esattamente com’è al di fuori di ogni dubbio ed incertezza; 2) esso è molto più della mera cosa, ossia l’oggettualità esteriore indipendente dalla coscienza e dalla conoscenza; semmai è ciò che sta al fondo di queste realtà. Proprio per questo esso è un “ultimo” e pertanto è una realtà ontica sicuramente di natura metafisica (tale è per la precisione l’”Essente come Essente”); infatti in definitiva esso è concettualmente inafferrabile sebbene possa venire indubitabilmente conosciuto, e precisamente in tutta la sua esteriorità mondana e assolutamente reale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3ab p. 46-48]. Pertanto, nel conoscerlo, non dobbiamo fare altro che constatare dove esse “è dato”, e quindi constatare la realtà mondana nella sua assoluta immediatezza e nel suo assoluto essere incondizionata. In qualche modo esso è dunque la “datità” per eccellenza, sebbene (come poi vedremo) questo concetto sia stato fortemente condizionato dalla filosofia riflessiva.
Per tutti questi motivi, esso, in quanto “Essente come essente”, è la Totalità stessa dell’Essere in quanto composta da parti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 7d p. 69-71].; e quindi è caratterizzato da quella unità nella molteplicità (corrispondente ad una struttura a strati) della quale abbiamo già parlato sulla base di NWO. Inoltre è il reale stesso in quanto opposto del possibile, e quindi (nonostante la sua così metafisica ultimità) coincide con il mondo reale stesso [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 8ab p. 72-74]. Ciononostante − come da Hartman dimostrato nel successivo corso del libro, entro un’analisi estremamente minuziosa di tutto ciò che è “essenza”, ossia “l’essere così” (“Sosein” connesso al “esser-ci” o “Dasein”), l’essere ideale, e le “essenzità” (“Wesenheiten”), cioè le essenze dotate di onticità – per lui anche la possibilità è comunque dotata di realtà, in quanto è inscindibilmente connessa a quest’ultima quale “natura” (“Beschaffenheit”) o qualità delle oggettualità. La possibilità pertanto rientra pienamente nel regno di «ciò che è» (realmente), invece di rappresentarne la premessa trascendente ed astratta. Per questo egli critica la definizione di realtà come “Wirklichkeit” in quanto per lui essa tende ad escludere il possibile dal reale, negando così ad esso ogni onticità.
Per tutti questi motivi per Hartmann l’ontologia è scienza dell’“Essente come essente” e non invece scienza della mera ed immediata oggettualità cosale, ossia la cosiddetta “cosalità”, “Dinglichkheit” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 4ab p. 51-54]. In questo senso essa è scientifica. Ma nello stesso tempo corrisponde anche ad una conoscenza naturale e del tutto ovvia delle realtà, che è quella dell’uomo comune in quanto immerso nel mondo. La sua natura scientifica si esprime comunque soprattutto nella rigorosissima ricerca delle molteplici categorie che costituiscono l’essere e precisamente l’essere reale del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3a p. 46-47].
Ma comunque è qui più che mai evidente la distanza enorme che vi è tra la nuova ontologia di Hartmann e quella antica. Non vi è qui infatti alcuna traccia dell’intendimento dell’Essere come concetto, ossia dell’«Essere in quanto tale» di Aristotele. Questo perché, in questo suo intendimento, l’Essere diviene quanto mai inafferrabile e pertanto non si presta in alcun modo a rappresentare la realtà mondana, anzi è qualcosa di unicamente astratto e puramente speculativo. Al contrario Hartmann ha l’ambizione di lasciarlo delineare solo e soltanto attraverso la definizione delle molteplici categorie che lo compongono [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1b p. 40-41].
Ma queste categorie stesse devono essere assolutamente reali, e quindi non devono corrispondere ad alcun oggetto che sia frutto di una speculazione astratta. Ed ecco quindi che questa nuova ontologia viene espunta di tutti i concetti astratti (e senz’altro metafisici) dell’antica ontologia, come – indipendenza, unità, determinato, indeterminato, sostanza, forma etc. [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 5bd p. 59-63]. In conclusione Hartmann si rifiuta decisamente di accettare un’ontologia (come quella antica) che sia incentrata nella posizione dell’essere come concetto.
Una volta posto tutto questo appare evidente che il realismo di Hartmann non corrisponde affatto a quello tradizionale, che si identifica totalmente con l’affermazione della primarietà di un mondo esteriore meramente oggettuale-cosale concepito nella sua immediata indipendenza dalla coscienza, ossia con il mondo delle cose (che si è sempre teso ad intendere come «mondo fuori di noi»). Abbiamo visto infatti che l’Essente è per il nostro pensatore molto più che una mera cosa. Semmai è invece (entro certi limiti) una datità, che rappresenta qualcosa di metafisicamente molto più complesso e profondo della mera cosa. Del resto egli stesso afferma che la sua visione supera non solo la presa di posizione idealistica ma anche quella realistica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54]. Entrambe le prese di posizione sono infatti appena visioni filosofiche del mondo, e come tali unilaterali, ossia tendenti a riportare l’essere da un unico e solo principio (ideale o reale). Invece il “realismo naturale” al quale egli punta aspira ad un coglimento affatto unilaterale della realtà immediata del mondo (certamente comunque colta nella sua totale esteriorità alla coscienza) che accomuna la conoscenza scientifica con quella naturale ed ingenua dell’uomo comune. Questa conoscenza considera comunque del tutto ovvia la constatazione della realtà del mondo, e pertanto, almeno in questo senso, si pone (almeno in parte) al di fuori della filosofia.
In ogni caso con essa viene spazzata via qualunque problematicità della conoscenza.
A tutto ciò va aggiunto che, come poi vedremo, uno dei caratteri essenziali dell’Essente è quello di costituire un «in sè», ossia un’”essente in sé” (“Ansichseiende”), ma ciononostante (diversamente da quanto statuito da Kant) resta comunque conoscibile.

2. L’atto conoscitivo e l’Essente. La critica demolitoria ad ogni teoria della conoscenza.
La ricostruzione della pienezza ed efficacia dell’atto conoscitivo si basa in Hartmann soprattutto sulla critica ad una delle principali prese di posizione filosofiche che hanno fatto della filosofia stessa unicamente una teoria della conoscenza, e cioè la “riflessività” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 9e p. 77-83]. In particolare egli obietta a questa presa di posizione che: − 1) essa confonde i limiti della conoscenza (conoscibilità) con i limiti dell’essere (per cui l’Essente per lui sussiste ben oltre i limiti del conoscibile); 2) essa ignora che l’Essente include anche il soggetto stesso e la relazione di conoscenza che esso mantiene con l’oggetto. Naturalmente questa critica va di pari passo con la severa critica al concetto di “intenzione” quale nucleo di un atto conoscitivo ritorto su sé stesso, e cioè non diretto verso l’esteriore (come entro la conoscenza intesa quale “relazione di essere”) ma invece verso l’interiore, ossia verso i contenuti di coscienza; i quali poi non sono altro che puri atti mentali (rappresentazione, pensiero, fantasia) totalmente disconnessi dalla realtà [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 10a p. 83-84]. Ne consegue che l’oggetto intenzionale non ha assolutamente nulla a che fare con l’oggetto reale; invece di esserne la purificazione ed unificazione entro la coscienza. L’appello ad esso, quindi, non mette affatto al sicuro la conoscenza, ma semmai la demolisce; come del resto testimoniato dall’intendimento dell’oggettualità come “Gegenstand”, ossia ciò che esiste solo perché sta «davanti» alla coscienza conoscente [[Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 11 p. 16-19, I, I, 4b p. 52-54, II, III, 9 p. 77-83, II, III, 10b p. 84-85, II, I, 12c p. 96-97, II, III, 20c p. 144-146, II, I, 12c p. 96-97, III, I, 22ab p. 151-153, IV, II, 42d p. 271-273]. In questo consiste quindi anche la critica di Hartmann all’”oggettivazione” quale tentativo di rendere intelligibile la realtà mediante la mera esteriorizzazione di un contenuto concettuale della coscienza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 18c p. 130-133, III, I, 22a p. 151-152, III, I, 22c p. 159-160, III, I, 25b p. 167-170, IV, III, 47a p. 293-294]. Un’operazione questa che mai potrebbe essere capace di cogliere la realtà del vero Essente, che appartiene invece totalmente al mondo e nulla ha a che fare con i prodotti della coscienza, ossia i meri contenuti mentali.
In ogni caso per approssimarci alla definizione di conoscenza proposta dal nostro pensatore dobbiamo di nuovo riprendere alcuni aspetti della sua analisi dell’Essente (e quindi indirettamente anche dell’Essere).
Prima di tutto appare evidente che la sua critica alla teoria della conoscenza è ben più ontologica che non gnoseologica. E qui ci troviamo di fronte ad una delle principali tesi ontologiche di Hartmann (alla quale abbiamo già accennato) – l’essere ideale possiede esattamente la stessa onticità dell’essere reale. Pertanto le “essenzità” (“Wesenheiten”) non sono affatto prive di realtà, ed inoltre l’essenza (meglio intesa come “Sosein”) non è affatto separata dall’esistenza (meglio intesa come “Dasein”) [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 11c p. 91-92, II, I p. 94-101]. Pertanto nel complesso questo intero essere ideale fa pienamente parte della realtà. Il pensatore accusa Platone di avere per primo sottratto l’onticità alle “Wesenheiten”. Ma su questo non siamo affatto d’accorso dato che il Prof. Reale ha mostrato chiaramente che, per il pensatore ateniese, uno dei caratteri dell’idea fu un Platone proprio la sua paradigmatica ed assoluta realtà, sebbene di natura radicalmente trascendente [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano , II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. E noi abbiamo sottolineato questo concetto nel nostro saggio su Platone, entro il quale abbiamo sostenuto che per lui l’idea non era null’altro che la più reale delle cose [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. In ogni caso Hartmann attribuisce a pensatori come Kant e Scheler la radicale divisione istituita tra “Sosein” e “Dasein”, con la conseguenza di scindere in questo modo uno dei caratteri fondamentali dell’essere reale, ossia l’unità omnicomprensiva dell’Essente (del quale i due menzionati elementi non sono parti separate ma invece appena aspetti diversi). E qui possiamo riconoscere nuovamente la natura del suo realismo, che non coincide affatto con il solo “Dasein” in quanto solo ed autentico «atto di esistere» e quindi costituente quello che il realismo tradizionale concepisce come «mondo fuori di noi». Così questo intendimento del realismo non può in alcun modo essere appropriato, dato che esso è unilaterale, cioè esclude totalmente l’essere ideale (“Sosein”), il quale invece per Hartmann è intimamente unito all’essere reale (“Dasein”) entro la Totalità rappresentata dall’Essente. Un autentico realismo quindi si deve incentrare nell’Essente e non nel solo “Dasein”. Ed è ovvio pertanto che in questo l’ontologia di Hartmann differisce radicalmente da quella di Heidegger.
Ma soprattutto questa presa di posizione distingue l’ontologia del nostro pensatore da quella antica, entro la quale veniva secondo lui concepita l’alternativa ineluttabile (entro l’essere) tra il possibile ed il reale, in modo tale che una cosa debba essere necessariamente o l’uno o l’altro [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15-16 p. 110-118]. E ciò corrisponde per lui all’”argomento modale” di Aristotele, secondo il quale vi sono solo modalità opposte dell’essere, in luogo della loro contemporanea presenza entro l’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 16b p. 116-117]. Invece per Hartmann i “modi dell’essere” esistono senz’altro (come essere ideale, o “Sosein”, ed essere reale, o “Dasein”), ma intanto si ritrovano nella realtà mondana sempre intimamente uniti tra loro. E questo porta pensatore ad assumere (almeno qui) una posizione nettamente avversa alla tradizionale metafisica, dato che per lui non esistono affatto due sfere dell’essere separate tra loro, ossia quella trascendente (ideale e sprovvista di onticità ossia di realtà) e quella immanente (reale e quindi provvista di onticità ossia di realtà). Il mondo invece (e quindi anche l’essere) è nella sua totalità unicamente reale. Questa sua presa di posizione fa dunque sì che la sua ontologia diverga questa volta in modo inaccettabile (almeno agli occhi del pensatore tradizionalistae) da quella antica, nel senso che essa di fatto sacrifica totalmente la trascendenza dell’essere alla sua realtà unicamente immanente. E pertanto almeno in questo il suo realismo appare inaccettabile per il pensatore tradizionalista.
In ogni caso un aspetto estremamente specifico della sua riflessione al proposito è quella circa la definibilità dell’Esssente, che poi è un caposaldo della moderna teoria della conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 13c p. 104-105]. Egli nega infatti che l’Essente possa e debba essere completamente definibile (per mezzo del “Sosein”), tenuto conto che la definizione di qualcosa riguarda in verità unicamente il “Sosein” stesso, lasciando così fuori il “Dasein”. E questo è un altro argomento contro la teoria della conoscenza, dato che essa è incentrata sulla necessità di definizione dell’oggetto in modo che esso possa venire sottratto (in obbedienza ai dettami kantiani) all’inconoscibilità ed illusorietà del puro e nudo “Dasein”, ossia di fatto l’”in sé”.
Grazie invece alla perfetta convergenza (entro l’essere reale) di “Sosein” e “Dasein”, l’«è» ontologico (esistenza) diviene totalmente sovrapponibile all’«è» gnoseologico, ossia quello predicativo (rappresentato dal “Sosein”). Tra essi insomma non vi è né distanza né contraddizione, ma semmai invece sovrapponibilità. E così di fatto «ciò che è» (ossia l’Essente) risulta conoscibile senza alcuna difficoltà nonostante il fatto che esso sia sostanzialmente un “in sé”, ossia qualcosa che da solo non è conoscibile ma lo è solo grazie al concorso del “Sosein”.
Oltre a ciò egli sottolinea che l’insieme inestricabile dei “modi dell’essere” (“Sosein” e “Dasein”) abbraccia l’intero essere iin quanto fatto di essere ideale ed essere reale, e quindi ci restituiscono la totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15a p. 110-112].
In relazione a tutto ciò egli sente il bisogno di sottomettere ad una radicale critica l’aspirazione della Fenomenologia a ricavare l’essere reale per mezzo del metodo della «messa tra parentesi» o epoché [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 17f p. 126-128]. Questa aspirazione (della quale senz’alto Husserl è stato protagonista) è secondo lui vittima di una fatale illusione, e cioè quella per cui la messa tra parentesi riguardi per davvero la cosa reale e non invece appena il “fenomeno”. Ne risulta allora che la Fenomenologia crede addirittura di ricostruire in tal modo l’ontologia, ma in verità resta invece lontanissima da essa. Successivamente poi – sulla base di una riflessione estremamente complessa (occupante l’intero capitolo 18), entro la quale Hartmann rigetta la natura meramente inerente del “Sosein” (secondo Aristotele), e quindi differenzia tale elemento dal “Dasein” solo per il fatto che quest’ultimo è “a portata di mano”, o “vorhanden” (ma senza che l’unità ed assimilabilità dei due elementi venga intanto negata) – Hartmann giunge ad una delle più chiare definizioni della sua ontologia incentrata nell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 19a p. 133-134]. Egli sostiene infatti che ogni “Sosein” di qualcosa (“etwas”) “è” sempre anche “Dasein” di qualcosa, e viceversa (il “Dasein” è sempre anche “Sosein”). Solo che questo qualcosa non è “uno e lo stesso “ (“ein und das selbe”). E così l’insieme di “Sosein” e “Dasein” si approssima alla Totalità del mondo in quanto identità. Questa è dunque la costituzione effettiva dell’Essente che supera la concezione scolastica secondo la quale l’esistenza è anche essenza mentre l’essenza è anche essenza (perché in questo caso ciascuno dei due termini veniva di fatto isolato nella propria sfera dell’essere).
Da tutto ciò scaturisce comunque una riflessione che ci fa ben comprendere come vada intesa la nuova ontologia [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 20bc p. 141-144]. Essa è caratterizzata soprattutto dal fatto che la determinazione è reale per definizione (è esistenza o “Dasein”) e quindi non è affatto deducibile da un mondo trascendente di “Wesenheiten” puramente ideali. Inoltre essa non può risolversi nel concetto di sostanza, corrispondente ad una realtà del tutto inconsistente rispetto a quella fatta di “natura” (“Beschaffenheit”) delle cose, e quindi anche dal loro mutamento e dalle relazioni che esistono tra esse. Infine non può più venire sostenuto il sussistere di un intreccio tra mondo dell’essenza e mondo dell’esistenza se essi restano intanto sovrapposti l’uno rispetto all’altro (in quanto l’uno trascendente e l’altro immanente). L’aspetto principale della nuova ontologia appare quindi essere nuovamente la totale non separazione tra “Sosein” e “Dasein”, i quali non rappresentano più affatto un essere differente nella loro rispettiva essenza (“Wesenverschiedenheit”), cioè essere ideale ed essere reale. Essi invece sono sempre presenti insieme in ogni cosa del mondo, così che non vi sono affatto mondi (o sfere) dell’essere separati tra loro. Mentre essi sono intanto appena concepibili come “modi dell’essere” (“Seinsweisen”) diversi tra loro in maniera solo relativa (l’uno inerente al “Dasein”, ovvero il “Sosein”, e l’altro rappresentato dal “Dasein” stesso). Essi sono dunque null’altro che membri dell’essere legati tra loro entro un unico Essente. Che è poi null’altro che la cosa reale nella sua pienezza ontica e anche metafisica.
Una volta chiarito tutto questo possiamo approssimarci maggiormente alla definizione della conoscenza secondo Hartmann. E qui, entro la sua esposizione, non a caso inizia a delinearsi chiaramente la natura di “in sé” dell’Essente (“essere in sé”, o “Ansichsein”). In questo discorso si parte dal suo ribadire che l’Essente è sostanzialmente “ciò che è” e nient’altro, e quindi costituisce un’oggettualità ontologica, ed affatto invece gnoseologica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 22 p. 151-156]. Ma in filosofia è possibile riconoscere questo solo dopo aver spazzato via la necessità di un atto riflessivo per potere cogliere l’oggetto in quanto “Gegenstand”, e cioè di fatto appena un concetto obiettivato. Quest’ultimo è infatti unicamente un oggetto di conoscenza e rende quindi tale anche qualunque Essente si concepisca.
Il vero oggetto ontologico è dunque quello che sussiste “in sé” e non invece “per noi” (come accade per il “Gegenstand”). E proprio per questo esso coincide unicamente con l’Essente in quanto “ciò che è”. Ecco allora che nuovamente l’ontologia ci appare non appena come campo dei meri oggetti reali indipendenti posti fuori della coscienza (il «mondo fuori di noi» del realismo tradizionale), ma è invece ciò abbraccia tutto l’essere esteriore e l’essere interiore in quanto consiste in tutto ciò che “è”.
A tale proposito tuttavia il concetto di “datità” si rivela costituire un problema, in quanto esso è strettamente connesso con l’intendimento dell’oggetto come gnoseologico e non ontologico, e quindi come oggetto di conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23 p. 156-162]. L’Essente infatti in verità è per Hartmann appena «tutto ciò che è», e quindi è qualcosa di totalmente indipendentemente dalla coscienza. Mentre l’oggetto quale datità dipende in una certa misura da quest’ultima. Quindi, secondo lui, l’Essente non è né cosa, nè fenomeno, né “Gegenstand”, nè apparenza (o apparizione). E pertanto non coincide né con la sola esteriorità mondana (indipendente dalla coscienza) né dalle forme di oggettualità che la coscienza genera. Pertanto l’ontologia è quanto trascende tanto l’esteriorità mondana (concepita quale unica realtà dal tradizionale realismo) quanto l’interiorità.
Naturalmente tutto ciò comporta nuovamente la severa critica di Hartmann al concetto husserliano di “intenzione” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23d p. 160-162] in quanto questo atto è appunto produttivo dell’essere e quindi onto-generativo. Ed ecco che allora, proprio con tale opposizione, si delinea finalmente l’atto di conoscenza. Essa infatti costituisce per il nostro pensatore un atto trascendente e quindi è capace di cogliere davvero l’«è» cioè l’Essente in quanto con esso il soggetto supera i limiti della coscienza. Pertanto, diversamente da quanto avviene nell’intenzione, l’atto non resta entro i limiti dei puri atti mentali senza mai poter intercettare l’essere. L’atto di conoscenza così inteso è pertanto un vero “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggetto in quanto Essente, ed infatti non è attivo-produttivo ma è invece ricettivo (quindi è connesso alla percezione ossia alla passività del soggetto). In tal modo la conoscenza resta sì un atto di coscienza ma in un modo radicalmente diverso, ossia tende ad uscire dai suoi limiti per incontrare un essere alieno che esiste del tutto indipendentemente da essa. Ebbene questa è la conoscenza com’è stata sempre intesa in tutta la sua ovvietà prima di venire completamente sovvertita dalle astruse teorie filosofiche moderne. E quindi è la conoscenza come può e deve venire intesa da tutti noi – dal filosofo, dallo scienziato e dall’uomo comune. Essa è dunque una piena conoscenza naturale. E come tale non può essere considerata altro che indubitabilmente efficace. Insomma nessuna teoria scettica può toccarne l’integrità.
Tuttavia Hartmann sottolinea anche la primarietà della conoscenza naturale rispetto a quella scientifica, e ciò in forza della sua dimensione vitale ed esistenziale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II, 42 p. 267-273]. Infatti innanzitutto la conoscenza naturale della realtà è un pieno coglimento dell’Essente in quanto non è condizionato dalla rappresentazione. In essa quindi l’oggetto reale prende il sopravvento sul relativo concetto. Pertanto essa è per definizione ingenua. Ma lo è ancor più perché sullo sfondo di questo sopravvento vi è il fenomeno emozionale dell’”essere colpiti” (“Betroffensein”) dalla realtà incondizionata nel contesto della vita quotidiana. E ciò è radicalmente diverso da quanto accade nella scienza. Con ciò si pone dunque l’”impositività” (“Aufdringlichkheit”) che caratterizza l’Essente, ossia quella sua forza e peso che rendono impossibile non coglierlo conoscitivamente. Ma ciò avviene solo in virtù della sua natura solidamente ontica.
Nell’esposizione successiva Hartmann si dedica soprattutto a dimostrare la sua tesi secondo la quale l’essere ideale non è impositivo come l’essere reale e quindi viene conosciuto con difficoltà molto maggiore sebbene non sia affatto privo di onticità ed inoltre rientri comune nella totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II-III, p. 267-322]. Peraltro egli sottolinea nuovamente che l’essere ideale (“Sosein”) si presenta sempre associato all’essere reale (“Dasein”) nell’esperienza e nella realtà, per cui la conoscenza dell’uno implica la conoscenza dell’altro. Ebbene questa è l’estrema sintesi di una riflessione che è estremamente analitica, dettagliata, profonda, vasta e complessa, e quindi su di essa non possiamo soffermarci. L’unico aspetto di essa che va sottolineato è comunque quello che riguarda più da vicino l’atto di conoscenza, e cioè la parte in cui Hartmann critica il concetto di “visione essenziale” (proprio della Fenomenologia husserliana) ritenendolo affatto scevro da errori e quindi per nulla capace di cogliere infallibilmente la verità; e peraltro senza con questa difettività nulla cambi nell’esistenza dell’essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, III, 47d p. 297-298]. Si riconferma quindi che la conoscenza è autentica solo quando essa intercetta un oggetto reale che ha inevitabilmente le caratteristiche dell’”in sé”, e quindi è del tutto indipendente da qualunque forma di conoscenza e/o atto e contenuto di coscienza (inclusa quella apparentemente posta al sicuro da Husserl mediante l’estrazione dell’oggetto per mezzo della messa tra parentesi).
L’oggetto di questa riflessione può questo quindi venire considerato il suggello finale dell’ontologia di Hartmann, la quale senza ombra di dubbio va di pari passo con l’eradicazione dalla filosofia di qualunque problematicità della conoscenza. Alla quale evidentemente la Fenomenologia non aveva posto alcun vero rimedio.

Conclusioni.
Dopo aver constatato tutto ciò possiamo ritenere confermato il fatto che Hartmann ha compiuto un’operazione estremamente lodevole nel sottrarre l’ontologia all’astrattezza e ad una serie infinita di visioni pregiudiziali ed arbitrarie che avevano caratterizzato l’antica ontologia, ma che poi sono persistite entro quella filosofia moderna che intanto aveva spazzato via ogni ontologia. L’accento posto sulla riflessione (con tutte le sue conseguenze teoretico-conoscitive, specie l’affermazione della problematicità della conoscenza) rientra infatti pienamente in queste visioni unilaterali.
Su questa base, dunque, il nostro pensatore ci obbliga a considerare con un certo disincanto ciò che è l’Essere in quanto prima di tutto reale, ossia quello mondano. E ciò scava senz’altro un profondo fossato tra la sua ontologia e la tradizionale onto-metafisica.
Ebbene è proprio questo, secondo noi, l’aspetto che rende non poco criticabile la stessa ontologia di Hartmann. Almeno da un determinato punto di vista. E quindi, aldilà di tutto il positivo che abbiamo constatato in essa, bisogna anche mettere in luce ciò che è invece negativo. Almeno dal punto di vista del pensatore tradizionalista, per il quale è molto difficile (se non impossibile) accettare che l’antica ontologia (che poi era in primo luogo metafisica) sia stata davvero superata, e fino ad aver bisogno di una radicale riforma.
È evidente infatti che, checché se ne possa dire, tale appello al disincanto a fronte dell’Essere deve essere considerato il frutto di un’operazione decisamente anti-metafisica. Tuttavia, oltre a ciò, possiamo davvero considerare “ontologia” una disciplina che di fatto identifica l’Essere unicamente con tutto ciò che è contenuto nel mondo dell’esperienza, ed è quindi reale in quanto noi possiamo tangibilmente prendere contatto con esso (in maniera più o meno sensibile)? Eppure, come abbiamo visto, Hartmann stesso afferma che l’essere è in sé qualcosa di inafferrabile ed incomprensibile. Ma poi mitiga questa affermazione sostenendo che le sue specificazioni (“Besonderheiten”) mondane non lo sono affatto. Anzi sarebbero l’esatto contrario. Tuttavia l’ontologia non è scaturita forse nel cuore della filosofia di tutti i tempi proprio perché si sentiva il bisogno di cogliere l’Essere al di fuori delle sue specificazioni tangibili, ossia l’«essere come tale»? E questo non è forse accaduto proprio perché l’uomo avverte con forza straordinaria la decisività del concetto di «essere» rispetto a qualunque aspetto della sua esistenza ed esperienza – in perfetta obbedienza al concetto lebniziano del “perché qualcosa e non nulla?”? [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. L’uomo insomma ha sempre sentito forte l’esigenza di comprendere cosa mai fosse questo qualcosa di inafferrabile e misteriodo, entro il quale però esso vive la propria esistenza e del quale, inoltre, sono fatte tutte le cose con le quali l’uomo stesso viene in contatto nel corso della propria esistenza. Ma quale modo vi era per cogliere questo mistero se non un’indagine che, con non poco sforzo, gettasse lo sguardo dietro e aldilà di quelle evidenze e specificazioni reali che, a fronte del mistero, possono benissimo essere appena delle mere apparenze e quindi solo illusioni. Ora, è vero che l’antica ontologia, ha compiuto questo lavoro in gran parte in base a prese di posizione pregiudiziali (visioni del mondo) che potevano ben essere non meno illusorie delle apparenze sotto le quali essa intanto scavava. Ed è vero anche che questo può avere recato a concetti astratti le cui contraddizioni vengono giustamente messe impietosamente in luce da Hartmann. Tuttavia ciò non è forse accaduto perché la filosofia (con pochissime eccezioni, come quelle di Pitagora e Platone) aveva deciso già ai suoi primordii di distaccarsi da quel «mito» il quale era tutt’altro che una favola, trattandosi invece dell’originaria Rivelazione circa l’Essere che era stata offerta all’uomo da Dio stesso per mezzo della Scienza Sacra originaria? Il mito era infatti in verità la stessa Sapienza e Scienza che da tempo immemorabile era stata custodita nel Tempio, e non certo invece nelle Accademie filosofiche. Non a caso Platone (indubbiamente il padre dell’intera filosofia) aveva fatto un deciso salto di qualità nella profondità del suo pensiero dopo aver soggiornato nel tempio di Heliopolis [Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 26-36] oltre che nella Magna Grecia dove prese contatto con la Sapienza filosofico-religiosa orfico-pitagorica [Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974, XII, 1 nota 32 p. 663-671]. Ed inoltre anche Schelling ha affermato che la filosofia ha avuto un tempo una totale consonanza con la Sapienza custodita nel Tempio [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam, Conn. : Spring Publication, 2010, p. 7-10].
Qui ci troviamo dunque di fronte ad una serie di contenuti che sono sempre stati il frutto di una riflessione di tipo contemplativo (e non razionale), quindi profondissimamente intuitiva ed iper-razionale. Motivo per cui essa non è mai stata astratta e meno che mai pregiudiziale ed arbitraria (dietro di essa vi era infatti la Verità divina stessa e quindi anche la stessa Sapienza divina). Pertanto essa è stata sempre lontanissima dai principi logici (contraddizione etc.) ai quali invece si è rifatta acriticamente l’antica ontologia criticata da Hartmann (e qui del tutto giustamente) almeno a partire da Aristotele e poi entro la Scolastica ed in tutte le sue successive evoluzioni.
Dunque, se non vi fosse stato il fatale distacco da tale Sapienza, probabilmente l’antica ontologia non si sarebbe mai abbandonata a costrutti unilaterali ed arbitrari. E di conseguenza non ci sarebbe mai stato bisogno che nascesse una nuova ontologia. La quale si caratterizza per il fatto che di tutto questo lavoro di scavo nell’Essere non vuole sapere assolutamente nulla dato che esige di rifarsi appena alle evidenze mondane. Se così fosse stato, allora, non vi sarebbe stata mai la necessità di una distinzione tra antica e nuova ontologia. Una distinzione che è essa stessa non poco artificiosa e pochissimo credibile. Infatti, almeno in una certa misura, rinnovandosi così radicalmente l’ontologia rischia di perdere la propria natura.
Detto questo però va riconfermato che (come abbiamo già accennato), senza l’ontologia di Hartmann, l’antica ontologia riesumata nel XX secolo non avrebbe mai avuto la forza sufficiente per ricostruire la pienezza della conoscenza. E questo avrebbe lasciato la filosofia nel pantano costituito da una serie di visioni avevano reso la conoscenza impossibile, consegnandola in tal modo di fatto nelle mani di un nuovo distruttivo scetticismo. Certamente anche la filosofia di Hartmann non ha retto all’urto delle recenti forme immanentistiche di pensiero che hanno di nuovo reso impossibile l’ontologia (insieme alla metafisica). E tuttavia essa resta come un punto di riferimento dal valore inestimabile in uno scenario filosofico che già allora stava per incamminarsi in questa così deleteria direzione.
Questo conferma quindi l’importanza del suo ruolo e del suo valore, e pertanto la necessità di studiarla e non dimenticarla quando si pensa alla filosofia del XX secolo. Il nostro articolo, dunque, vuole essere sostanzialmente un richiamo a questa necessità.

(*) Dottore in filosofia presso la FLUL di Lisbona.

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INTRODUZIONE.
Quando si parla di ontologia ci sembra evidente che non si possa prescindere dal prendere in considerazione e definire il concetto di «essere». E ciò implica necessariamente (che piaccia o meno) doversi riferire alla definizione che ne ha dato Aristotele nel suo quinto Libro della Metafisica come «essere come tale» o anche «essere in quanto essere» [Aristotele, Metafisica, Mondadori, Milano 2008, V, 1, 1003a, 20-30 p. 741].
Si tratta evidentemente dell’essere concepito nella maniera più astratta possibile, ossia come concetto; che poi appare costituire il modo più pienamente metafisico di concepire tale realtà. Ma è comprensibile che questo possa suscitare un forte disagio presso i realisti di tutti i tempi (specie quelli moderni), i quali non a caso hanno cercato sempre di porre il concetto di «Essente» al posto di quello di «essere». Il che corrisponde poi al sottrarre tale realtà alla dimensione astratto-concettuale riportandola interamente sul piano dell’esistenza reale. È evidente che uno dei maggiori protagonisti di questa operazione è stato Heidegger. Ma intanto la lettura di un libro come quello di Nicolai Hartmann Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968 scritto nel 1949 – unitamente alla lettura della sua precedente e più estesa opera Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941 – pone davanti a questa operazione in una maniera molto più obiettiva e sobria, in quanto esente dai vertiginosi funambolismi (da giocoliere del pensiero e del linguaggio) ed inoltre astrusità che caratterizzano il pensiero di Heidegger. Per questo l’analisi di queste opere ci sembra particolarmente appropriata per esaminare criticamente l’appello all’ontologia fatto dal fisico quantistico e filosofo Wolfgang Smith nelle sue opere.
In questo articolo ci riferiremo comunque soprattutto alla prima opera menzionata di Hartmann (NWO), in quanto essa è ben più agile e breve della seconda, ed ha inoltre il merito di porre la necessità di una nuova ontologia (incentrata unicamente nell’Essente) in relazione con prospettive filosofiche e scientifiche piuttosto ampie, estremamente attuali ed infine trattate in maniera estremamente pragmatica. E tuttavia in ogni caso ci riferiremo anche alla seconda opera (sebbene in maniera molto ridotta data la sua molte) laddove ciò si rivelasse necessario.
Ma, collateralmente al nostro scopo primario, ci interessa anche chiarire se la nuova ontologia abbia per davvero il diritto di prendere il posto di quella antica, presentandosi così a noi come la disciplina con la quale oggi bisognerebbe confrontarsi allorquando si sente l’esigenza di chiamarla in causa. Del resto a ciò va aggiunto che la trattazione di una nuova ontologia rappresenta comunque un’operazione filosofica che è impossibile trascurare, dato che (aldilà dei tentativi di diversi pensatori del XIX e XX secolo di riesumare quella antica) essa è provocatoria e assertiva per definizione, e quindi non si lascia ignorare tanto facilmente. Infatti il parlare di una nuova ontologia in uno scenario filosofico nel quale si era ritenuto che tale disciplina fosse ormai morta e sepolta per sempre, implica la necessità di constatare che questo seppellimento forse non è mai stato del tutto giustificato. Sta di fatto però che la nuova ontologia di Hartmann non è più nemmeno lontanamente somigliante a quella antica. Essa infatti pretende di essere totalmente realistica (avendo liquidato per sempre il concetto di una realtà trascendente) ed inoltre definisce sé stessa come una vera e propria scienza. Inoltre in ZGO Hartmann chiarisce a più riprese che essa non coincide affatto con la metafisica, e quindi non costituisce affatto (come quella antica) un’«onto-metafisica», sebbene comunque della metafisica sia rimasta in ontologia la dimensione della misteriosità e insolubilità di alcune questioni [Nicolai Hartmann. Zur Grundlegung…cit., Einleitung 1-8 p. 1-12, 10-11 p. 14-19, 13 p. 21-23, 16-17 p. 27-31, I, I, 1a p. 39-40, I, I 2b p. 44-46, I, I 3bc p. 47-49, II, II, 5a p. 57-59, II, II, 7b p. 68, II, III, 8a p. 72-73, II, I, 12bc p. 95-97, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157]. In ogni caso, se mettiamo insieme l’intera esposizione di Hartmann in ZGO, possiamo constatare che per lui la metafisica è in fondo ancora giustificata, purché si rassegni a costituire appena lo sfondo inconoscibile dell’essere. Pertanto per lui l’ontologia ha semmai l’ambizione di costituire uno sguardo filosofico-scientifico estremamente sobrio gettato sul mondo così com’è. Ed in questo è senz’altro molto diversa dall’antica conoscenza onto-metafisica. E quindi, nello studiarla, si è costretti a prendere atto di prospettive e concetti completamente nuovi rispetto a quelli dell’antica ontologia. In altre parole, chi oggi ritenesse necessario chiamare nuovamente in causa l’ontologia, è costretto a verificare prima se intende riferirsi a quella antica o a quella nuova. E poi (almeno in via di principio) si vede di fatto costretto a riferirsi sola alla prima.
Non sembra proprio però che Smith si sia sentito obbligato a questo atto di scelta. Egli infatti, in veste di
filosofo e fisico quantistico (e quindi di esponente della scienza empirica), sembra aver ritenuto di poter riferirsi unicamente all’antica ontologia, ossia all’onto-metafisica. È dunque in questo modo che egli si è dedicato all’opera di applicare l’ontologia alla scienza, senza preoccuparsi minimamente di ciò di cui invece Hartmann si preoccupa molto, e cioè della necessaria sintonia che oggi l’ontologia (una volta chiamata in causa) dovrebbe avere con la scienza empirica. Laddove egli presuppone che quest’ultima non si occupi di entità para-metafisiche ma invece di entità assolutamente reali (che esse siano fisiche, animiche o spirituali).
Ebbene il nostro scopo primario in questo articolo è quello di capire se questo riferimento all’onto-metafisica antica è davvero giustificato in un ambito eminentemente scientifico com’è quello che Smith indaga. Dobbiamo però a questo punto precisare che noi personalmente non condividiamo affatto il nuovo assetto (iper-realista e scientifico) che Hartmann ha dato all’ontologia. Dato che riteniamo che quest’ultima abbia ricevuto la sua forma definitiva nel suo assetto antico e tradizionale, e quindi corrisponda anche perfettamente alla conoscenza metafisica. Il che fa poi sentire molto la mancanza della trattazione del concetto di «essere» una volta nella sua dimensione astratto-concettuale. E per di più riteniamo che questo concetto abbia ricevuto la sua definizione ben prima che nel pensiero di Aristotele, e cioè nel contesto di quella cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale che secondo noi rappresenta la vera fonte di ogni filosofia. E questa è quella della quale (riducendo di molto la ricchezza delle fonti) ci hanno parlato pensatori tradizionalisti come Guénon e Schuon specie in alcune loro opere più prossime all’ontologia
[René Guénon. Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi Milano 2006; Frihtjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988]. E per questo riteniamo imprescindibile in particolare la riflessione di Guénon, secondo il quale la vera natura dell’essere è effettivamente astratto-concettuale in quanto è radicalmente trascendente, dato che coincide in verità unicamente con il concetto di «essenza» ideale e sovra-essenziale, che poi corrisponde largamente alla visione platonica dell’Idea come la più reale delle cose [René Guénon, Il Regno…cit., 57 p. 300-304; 69-75 p. 355-396]. Ma più o meno delle stesse cose parla anche Schuon [Frithjof Schuon, Sulle tracce… cit., 2 p. 19-29; Frithjof Schuon, Logica… cit., 9 p. 139-144].
Tuttavia è evidente che né Aristotele, né Hartmann né Smith fanno riferimento a questo genere di ontologia, sebbene (come vedremo) l’ultimo pensatore incentri la sua ontologia proprio su questa visione platonica. Anzi uno dei principali bersagli critici di Hartmann, oltre che Aristotele, è proprio Platone con la sua dottrina dell’essere ideale trascendente.
Detto questo, l’appello di Smith dovrebbe sembrarci incondizionatamente giustificato. Eppure non è così. Sia per la scarsa chiarezza del suo concetto di “ontologia” sia anche per il fatto che egli intende applicare quest’ultima ai dilemmi della più avanzata tra le scienze empiriche, e cioè la Fisica quantistica. E questo appare a noi contraddittorio e sospetto per definizione, dato che nulla può essere più lontano dal concetto tradizionale di «essere» quanto lo è la più estremamente moderna delle scienze empiriche. E di questo sembra del resto consapevole lo stesso Smith, dato che egli denuncia la cattiva piega presa dalla scienza empirica a partire dall’Illuminismo e poi ancor più dal Positivismo. Secondo lui infatti le linee lungo le quali si è mossa la Fisica quantistica trovano la loro radice proprio in queste erronee premesse.
A causa di tutto questo, quindi, bisogna secondo noi essere molto prudenti nell’accettare che la correzione di tale tendenza possa avvenire servendosi dell’antica onto-metafisica. Quest’ultima infatti non si presta secondo noi ad alcuna forma di commistione con la moderna scienza empirica (mentre invece vi si presta in qualche modo la nuova ontologia di Hartmann). E questo perché la sua vera natura (anche andando oltre il suo apparente padre, Aristotele) trova la sua espressione solo nella metafisica tradizionalista. Bisogna quindi supporre che, se Smith avesse voluto essere davvero coerente, avrebbe dovuto semmai fare riferimento alla nuova ontologia, ossia una disciplina naturalmente in sintonia con la scienza. Tuttavia non sappiamo se il pensatore abbia mai avuto conoscenza di questa disciplina. E quindi è probabile che egli si sia servito di quello che effettivamente aveva a disposizione.
Vedremo comunque che alla fine Smith, nel suo argomentare, non si trova in linea né con l’antica né con la nuova ontologia. E questo per un fatto sostanzialmente negativo, ossia perché il suo intendimento del termine (e della relativa disciplina) è distorto da una sua interpretazione non solo estremamente personale e arbitraria ma anche evidentemente compromessa dalla carenza di letture in questo ambito, ossia dalla carenza o superficialità delle sue conoscenze in campo ontologico. Ma oltre a ciò è possibile anche che il pensatore abbia comunque intuito che l’ontologia da chiamare in causa non poteva essere compromessa né con le sue forme antiche né con le sue forme moderne. E questo sarebbe estremamente lodevole.
In ogni caso vedremo poco a poco – nel corso dell’esposizione sintetica delle idee da lui esposte nel libro “Phisics: a science in quest of a ontology” (PSQO) [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023] − che il riferimento di Smith all’ontologia (nonostante le sue imprecisioni, carenze e contraddizioni) non solo diviene sempre più chiaro ma anche più plausibile, e ci permette così di attribuire (almeno parzialmente) la disciplina di cui egli parla in parte tanto all’antica quanto alla nuova ontologia.

1- Smith e l’ontologia.
A tutto quanto diremo va premesso che, molto in generale, non è assolutamente chiaro, lungo tutto lo scritto, cosa Smith intenda con i termini “ontologia” ed “ontologico”. Ma in diversi punti dell’esposizione è possibile avanzare su questo almeno delle ipotesi. In ogni caso, a moderazione di questa critica, vi è da constatare che in un passo del suo libro Smith parla di “ontologia della fisica”. È ipotizzabile quindi che egli si riferisca ad un’ipotetica ontologia che è ciò che è in quanto è espressamente destinata a venire applicata alla Fisica quantistica. E questo quindi impone al suo appello le restrizioni delle quali abbiamo appena parlato. Quale sia però la fonte filosofica di questa ontologia non è dato saperlo. Quanto poi ai suoi contenuti, essi sarebbero quelli esposti da Smith stesso, così che è estremamente probabile che si tratti non dell’ontologia in assoluto ma invece della sua personale ontologia. In ogni caso, una volta ammesso questo, bisogna concluderne che (almeno nelle sue linee generali, a parte alcune eccezioni) quanto il pensatore definisce come “ontologia” è qualcosa che è stato sempre sconosciuto ai filosofi.
Innanzitutto, diversamente da quanto ci mostra Hartmann in NWO e soprattutto in ZGO, Smith sembra considerare l’ontologia equivalente alla metafisica. Ma sembra inoltre anche considerare quest’ultima come una forma di conoscenza compiuta, e quindi non solo in grado di trattare in maniera esauriente i problemi che affronta ma anche di concorrere pari a pari con la conoscenza scientifico-empirica. Hartmann ci lascia intendere che invece l’ontologia è (almeno in gran parte) diversa dalla metafisica in quanto è sostanzialmente scientifica e non filosofica. Inoltre per lui la metafisica non è affatto in grado di conoscere a fondo gli stessi oggetti della scienza empirica, ma invece si limita a trattare questioni che restano sullo sfondo tanto della ricerca filosofica che di quella scientifica, e ciò per il fatto che tali questioni sono e restano di fatto insolubili. Secondo lui quindi la metafisica non ha alcuna possibilità di costituire una conoscenza compiuta. E quindi si presta molto poco a risolvere i dilemmi della scienza, come invece Smith ritiene che sia pienamente possibile.
A tale proposito abbiamo immediatamente l’immagine della contraddizione alla quale soggiace l’operazione smithiana quando egli invoca in concetto di “totalità irriducibile” (da lui attribuito tanto all’intero essere quanto al cosmo quanto all’individuo), considerandolo peraltro come un concetto squisitamente metafisico. Orbene nulla è più lontano (come poi vedremo) dall’assetto che Hartmann ha dato all’ontologia, dato che essa aborre qualunque tentativo (certamente tipicamente antico-metafisico) di ridurre ad una totale unità l’essere, il mondo e l’uomo. Questo significa infatti per lui tradire la realtà sulla base di visioni pregiudiziali e soprattutto unilaterali, che hanno sempre vanamente tentato di ridurre l’essere ad uno solo dei suoi diversi aspetti; che per lui sono tutti realmente esistenti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 19 p. 33-35, II, II, 6c p. 65-66, II, II, 7a p. 66-68, II, III, 18c p. 129-133, IV, II, 42a p. 267-268]. Mentre invece per Smith (in pieno accordo con le aspirazioni dell’antica metafisica) l’unificazione implica il chiarimento ultimo della realtà. Per Hartmann infatti l’essere è per definizione molteplice (e proprio per questo fatto a strati) per cui non è riconducibile ad alcuna totalità, specie se definita come “irriducibile”. Peraltro Smith afferma che la Fisica quantistica pretende essa stessa di configurare un’unità ed un ordine che fanno di essa (almeno tendenzialmente) un’immagine decisamente “ontologica” del mondo. Ma questo per Hartmann non è altro che uno dei tanti monismi metafisici, e quindi non ha alcun reale valore scientifico. Tuttavia comunque vedremo più avanti quanti dubbi vengono sollevati da una definizione del mondo fisico sub-particellare (il più basso che esista) che pretenda di fare di esso quello che più contraddice quello che Hartmann definisce lo strato più inferiore dell’essere; cioè appena uno degli strati dell’essere ed affatto invece l’essere nella sua totalità ultima. Su questo comunque Smith appare essere assolutamente d’accordo con Smith dato che per lui il mondo sub-particellare quantistico equivale tutt’altro che all’essere. Esso infatti non ha semplicemente i caratteri oggettuali e realistici dell’Essente.
Dall’ontologia Smith si aspetta comunque la soluzione dei misteri che sono derivati allorquando (da Heisenberg a Schrödinger) in poi è crollato per sempre il dogma della Fisica classica, e cioè quello secondo il quale la realtà fisico-materiale (in obbedienza a Cartesio con la sua famosa “biforcazione” dell’essere tra res extensa e res cogitans) non sarebbe stato altro che res extensa, ossia ricadente pienamente nel campo della categoria della spazialità e dell’estensione. Da quel momento in poi è iniziata ad emergere l’evidenza secondo la quale la sub-particella (quella che secondo loro è davvero il fondamento del mondo fisico e quindi della materia) non sarebbe altro che una “funzione d’onda”, e quindi una realtà puramente probabilistica. La sua esistenza è insomma per nulla oggettiva ma invece puramente relativa alla misura.
E ciò ha generato quel mistero della misura che Smith ritiene di poter risolvere nel concepirlo in una maniera “ontologica”. Affermazione con la quale egli intende una serie di evidenze metafisiche che vedremo più avanti, tra le quali si ritrova anche quella della totalità irriducibile. In questo egli trova comunque giustificata l’affermazione di Feynmann secondo la quale la Fisica quantistica sarebbe sostanzialmente incomprensibile. E questo perché anche secondo lui questa serie di rivoluzioni concettuali in Fisica ha stravolto completamente l’evidenza più immediata e razionale.
Ma il senso dell’appello smithiano all’ontologia diviene molto più chiaro allorquando egli – ricollegandosi all’altra sua opera “The Quantum enigma” (QE) [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001] – ci suggerisce che il biforcazionismo cartesiano ha fatto si che considerassimo irreale il mondo esteriore e conoscibile nel quale siamo immersi. Dunque, secondo lui, l’enigma della misura deve essere risolvibile per via “ontologica” proprio per il fatto che le apparenti stranezze irrazionali della Fisica quantistica (del tutto incompatibili con l’antecedente assetto della Fisica) in realtà nascondono una serie di fenomeni che avvalorano pienamente l’esistenza di un mondo esteriore (res extensa) diverso dal soggetto conoscente (res cogitans). Esse insomma porterebbero alla luce un’autentica ed irriducibile oggettualità oggettiva sulla quale il soggetto non ha alcun influsso. Ed infatti egli ci informa del fatto che il solo apparente mistero della misura fu risolto solo allorquando la premessa cartesiana venne finalmente rigettata dagli stessi fisici quantistici. L’ipotesi guida da lui impiegata in questo (sulla base di esperimenti condotti sulla percezione visuale da Gibson) è che la nostra percezione del mondo esteriore non si verifica per mezzo di elementi derivanti dalla scomposizione atomistica dell’oggetto (che impressionano poi la retina venendo in essa di nuovo riunificati) ma invece avviene invece in blocco, ossia come una vera e propria totalità irriducibile. In termini onto-metafisici ciò corrisponde per lui alla forma dell’antica metafisica. Ma vedremo poi con Hartmann che la nuova ontologia svaluta totalmente la teoria della forma in quanto essa otterrebbe l’unità del mondo per mezzo del sacrificio della molteplicità che invece caratterizza l’essere. Per lui invece la Totalità conoscibile non è altro che l’Essente nella sua piena realtà in quanto “ciò che è”. E per questo rimandiamo il lettore all’analisi più accurata di ZGO che abbiamo fatto in un altro nostro articolo [Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: http//:cieloeterra.wordpress.com/2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza].
Ed eccoci dunque di fronte all’impiego da parte di Smith di un concetto antico che l’ontologia moderna ha destituito totalmente di fondamento. Questo impiego dell’ontologia induce comunque il pensatore a considerare il “corporale” come la totalità irriducibile che noi cogliamo nel mondo esteriore, senza che il soggetto (res cogitans) giochi alcun ruolo in questo processo. Il che coincide poi con l’oggettivo-oggettuale nella sua indipendenza che rappresenta il mondo reale esteriore. E questo si ricollega per lui alla riflessione sulla relazione che esisterebbe tra l’oggetto corporale effettivo (X) e l’oggetto fisico (SX) che cogliamo unicamente per mezzo della misurazione entro la Fisica quantistica.
Insomma abbiamo immediatamente qui davanti a noi il senso che egli attribuisce all’aggettivo “ontologico” (e quindi anche all’ontologia) – esso corrisponde a quanto è ordinariamente percepibile nel contesto dell’esperienza mondana, ossia il mondo corporale stesso. Ma è assolutamente evidente che questo lo pone fin dall’inizio in radicale dissidio con l’onto-metafisica antica, la quale invece definiva sé stessa come una scienza dell’essere che per definizione trascendeva il sensibile. Ebbene bisogna dire che questo dissidio resta in tutta l’opera di Smith, costituendo così il suo principale limite concettuale (in quanto lampante contraddizione), e dunque mostrandoci chiaramente che (almeno per certi versi) egli ha profondamente frainteso il concetto di ontologia. Egli ha cioè identificato l’«ontos» con la sola dimensione corporale.
E questo non viene affermato nemmeno da Hartmann, pur con tutto il suo realismo. Dato che per lui l’«ontos» non è altro che la totalità dell’Essente, ossia qualunque aspetto e livello reale del mondo (dal corporale allo spirituale).
Comunque, nel momento in cui Smith affronta il problema della misura quantica, inizia a divenire ancora più chiaro cosa egli intenda come “ontologia”. Egli presuppone infatti una “differenza ontologica” tra l’oggetto fisico (l’oggetto SX, non unitario in quanto rappresentato appena da particelle e quindi privo delle qualità che sono solo dell’oggetto unitario e pertanto non percepibile sensorialmente) e l’oggetto corporeo (l’oggetto X, unitario, provvisto di qualità e percepibile, ma del quale non percepiamo le particelle componenti). Dunque il problema della misura (in Fisica quantistica) è per Smith irrisolvibile perché, essendo lo strumento di misurazione esso stesso corporeo, non permette di percepire ciò che non giunge ad essere corporeo, ossia quell’oggetto fisico che è esclusivamente particellare, anzi radicalmente sub-particellare. Esso è insomma solo «parte» e non «corpo», ossia non è un Tutto.
Ancora una volta sembra quindi che egli si riferisca al dominio ontologico come quello che è caratterizzato dalla categoria della corporeità in quanto percepibile e quindi sensibile. Quanto poi alla fisicità essa sarebbe per lui esclusa dal dominio ontologico in quanto non percepibile.
Insomma il ragionamento scientifico-metafisico è qui alquanto confuso per vari motivi: − attribuzione all’ontologia della sola categoria della corporeità, esclusione della categoria della fisicità dall’ontologia, identificazione totale della sola corporeità con la percepibilità, ipotesi che esista una sorta di secondo mondo «non-ontologico» (caratterizzato da oggetti fisici che di fatto sono dei non-oggetti) e che sarebbe stato aggiunto all’essere da parte della Fisica quantistica. Sembra insomma che vi siano qui diverse illazioni del tutto infondate. Soprattutto ci si chiede a quale ontologia Smith abbia attinto per riconoscere in essa la possibilità di ricavarne questi contenuti e queste affermazioni. Per quanto ne sappiamo non è mai esistita un’ontologia che abbia sostenuto tutto questo, meno che mai quella antica e nemmeno quella moderna di Hartmann. Di conseguenza diviene del tutto arbitrario anche l’aggettivo “ontologico” entro l’uso che Smith ne fa. Certo è che la nuova ontologia di Hartmann menziona chiaramente la dimensione fisica tra le categorie più basse dell’essere; ma senza che la categoria della corporeità sia affatto in concorrenza con essa né la abolisca. Oltre a ciò Smith sembra voler escludere dall’ontologia tutti gli oggetti dei quali si occupa la scienza empirica più avanzata – come se essi non appartenessero affatto all’essere. Ne dobbiamo concludere che in definitiva per lui ontologia è tutto ciò che non è scienza nell’osservazione dell’essere, e quindi che l’ontologia sarebbe una disciplina che si occupa dell’essere in modo solo parziale – e precisamente entro i limiti di un determinato frasario, includente determinati termini (come forma, sostanza etc.) per designare le stesse cose che la scienza designa invece con un altro frasario. La questione insomma sarebbe solo meramente linguistico-concettuale. Ma questa è solo una nostra extrapolazione. L’ipotesi più probabile, invece, è che Smith parli di quella che è appena la «sua» personale ontologia, ossia ciò che egli personalmente (e arbitrariamente) intende con questo termine.
Tuttavia il discorso del nostro pensatore diviene ancora più astruso e arbitrario allorquando – ritenendo di aver finalmente risolto il problema della misura grazie al teorema di Dembski – non solo aggiunge alla causalità orizzontale (essa stessa ben nota categoria dell’essere entro la nuova ontologia di Hartmann) anche una curiosa ed oscura causalità “verticale”, ma ritiene quest’ultima stessa una tipica realtà ontologica. Cosa sia questa causalità verticale non è immediatamente chiaro, anche se il suo riferimento all’”intelligent design” sembra ricollegarla alla classica teleologia dell’antica metafisica. Tuttavia ciò diverrà comunque chiaro più avanti entro un discorso radicalmente metafisico che si rifà a Platone. In ogni caso Dembki ci mostrerebbe come causalità orizzontale (caratterizzata da un rigido determinismo dominato dalla concatenazione causale tra elementi isolati tra loro) non è in grado di spiegare alcuna “l’informazione specificata complessa”, ossia alcuna complessità di essere, e quindi alcun genere di individuo personale o di struttura ad esso somigliante. L’unico modo per spiegare quest’ultimo sarebbe invece una causalità svincolata dal cieco determinismo orizzontale, e quindi anche dalla mera concatenazione, e che quindi deve essere necessariamente verticale. Il che, in termini ontologici, significa per Smith che la causalità verticale deve emanare dal centro dell’essere per puntare direttamente ed incondizionatamente verso quell’unico e solo individuo, ossia verso un fine ben preciso ed assolutamente non preceduto da alcuno sviluppo orizzontale. E qui di nuovo l’ontologia smithiana collide frontalmente con quella di Hatmann, il quale ritiene che nell’essere non possa venire supposta alcuna teleologia [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., I p. 5-11, III-IV p. 20-35, VI, p. 44-51]. Infatti per lui la teleologia non è altro che il frutto dell’antica (e prevalentemente aristotelica) divisione dell’Essente in virtù della postulazione di due sfere completamente diverse e separate dell’essere, ossia la forma e la materia.
Oltre a ciò Smith chiarisce che la causazione verticale è ciò che permette il trapasso dal fisico al corporale, mettendoci così nella condizione necessaria per percepire e misurare. Essa sarebbe comunque per lui “ontologica” perché sfugge all’ambito nel quale operano le sole equazioni matematiche, che Smith dichiara incapaci per definizione di arrivare a comprendere alcuni rilevanti aspetti dell’essere. Ecco allora che per lui l’ambito dell’ontologia (almeno nel contesto dei problemi sollevati dalla Fisica quantistica) è interamente rappresentato dalla distinzione tra corporale e fisico ed inoltre dalla distinzione tra causazione orizzontale e verticale. In questo insomma si riassume la sua ontologia.
A ciò si aggiunge poi l’affermazione davvero incomprensibile secondo la quale il mondo degli oggetti fisici (tutti non percepibili ossia nascosti sotto l’oggetto corporale: particelle, frequenze…) apparterrebbe alla sfera delle res extensae, mentre invece il mondo degli oggetti corporali non vi apparterrebbe. Questo significa dunque due cose: − la corporalità non corrisponde all’estensione spaziale ed inoltre l’ontologia non include la categoria dell’estensione. E ciò sta nuovamente in grave conflitto con l’ontologia di Hartmann, oltre che con qualunque altra ontologia, inclusa quella antica.
Quelle appena menzionate (corporeo VS fisico, causalità orizzontale VS verticale) sarebbero comunque per Smith le prime due “concezioni ontologiche”. La terza concezione ontologica corrisponderebbe poi alla cosiddetta “totalità irriducibile”, che Smith dichiara essere strettamente intrecciata alla causazione verticale.
Si tratterebbe insomma di due facce della stessa medaglia che ancora una volta riguarda direttamente l’oggetto corporeo, dichiarato dal pensatore perfettamente equivalente ad una totalità irriducibile.
Questo perché esso non è in alcun modo una somma di parti, e precisamente di parti costituite dagli elementi tra loro separati di una concatenazione spazio-temporale. Ed ancora una volta l’ontologia collide qui con la Fisica, dato che quest’ultima non conoscerebbe veri oggetti proprio perché conosce solo elementi concatenati lungo una linea spazio-temporale. Ne consegue quindi che anche la spazio-temporalità andrebbe considerata (di nuovo in forte contraddizione con Hartmann) una categoria che non fa parte dell’essere; e questo perché la sua consecuzione non può in alcun modo generale una totalità, ossia un oggetto corporeo. Il che fa emergere poi un’istantaneità (propria dell’oggetto corporale) che diverge totalmente dalla causalità operante nel tempo, appunto la causalità orizzontale. Ecco dunque perché la causalità verticale è per lui l’unica che riguardi l’oggetto corporeo. E per porre tutto questo sul piano metafisico, Smith si riferisce alla stratificazione dell’essere concepita da Platone, entro la quale ha caratteristiche di oggetto soltanto ciò che non è soggetto al divenire. Ne dobbiamo dedurre che il nostro pensatore identifica il nucleo ontico della corporalità con l’idea-essenza di Platone, ossia quella entità ideale (quindi assolutamente non materiale) che ha la valenza di cosa trascendente e paradigmatica. Egli precisa che questo nucleo non è altro che l’eterno (“evi-eterno”), che è poi come un circolo centrato nell’idea-essenza-cosa trascendente, del quale la dimensione corporea rappresenterebbe invece la circonferenza esterna. Egli (richiamando Dante e la Divina Commedia) definisce questo luogo come il “perno” assolutamente centrale intorno al quale gira tutto il cosmo, ossia tutto l’essere percepibile.
Ora, Smith non sembra voler negare che l’oggetto corporale sia immerso anch’esso nel divenire (ossia nella consecuzione spazio-temporale). Ma per lui comunque, prima ancora che ciò avvenga, esso esisterebbe in forza dell’ascendenza al proprio nucleo trascendente. Il quale farebbe di esso una presenza eterna che proprio per questo è saldamente unitaria; almeno tanto quanto esso è insorto istantaneamente in forza dell’emanazione della causalità verticale dal centro assoluto dell’essere. E questa ascendenza è dunque proprio la stessa causalità verticale – laddove il verticale implica l’istantaneità della causazione onto-genetica ed anche della stessa esistenza attuale.
In altre parole l’oggetto corporeo sussisterebbe in virtù di una generazione verticale dal centro − assolutamente sottratta allo spazio-tempo (e quindi eterna), ed anche alla composizione come sommazione di parti nel tempo − che ne sorreggerebbe perennemente la presenza. Insomma essa è “una totalità irriducibile immediata”, come dice Smith.
Bisogna dire comunque che questo è forse uno dei pochi punti del libro nel quale è chiaro cosa Smith intenda con il termine “ontologia”. Egli sta infatti richiamando un’ontologia antica ben nota, ossia quella platonica; e peraltro con non pochi addentellati nel pensiero dell’idealismo vedantico [Ananda K. Coomaraswamy, Il Vedānta e la tradizione occidentale, p. 27-47, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 1 p. 27-47; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd. 21 p. 371-418] che però Smith non menziona. E dobbiamo dire che personalmente condividiamo pienamente queste concezioni in quanto esse rientrano in una metafisica religiosa fortemente contemplativa. Sta di fatto però che ciò ha poco a che fare con l’onto-metafisica antica alla quale Smith si riferisce, che non a caso non ha mai visto come protagonista né Platone né l’idealismo vedantico. In effetti invece, come abbiamo visto all’inizio, l’ontologia antica si è basata sempre prevalentemente su quella aristotelica. La quale del resto affronta direttamente il problema della definizione dell’essere. Cosa che invece Platone non fa.
In ogni caso Smith non esclude la totalità irriducibile dal dominio della quantità. E quindi il sussistere di questa categoria fondamentale dell’essere viene da lui rispettata.
Smith parla inoltre di “assiomi ontologici” per descrivere due altri fenomeni oltre quello della causalità verticale che genera l’oggetto corporeo, e cioè la causalità verticale emanante dallo stesso oggetto corporeo e la totalità irriducibile che è il prodotto di questo atto. E di nuovo qui viene un riferimento effettivo e credibile all’antica metafisica, dato che egli afferma chiaramente che la sua definizione di entità corporale corrisponde alla sostanza e precisamente a quella che egli chiama “forma sostanziale”. Si nuovo non è ben chiaro cosa egli intenda con quest’ultima entità, ma è opinabile che si tratti della forma agente sulla materia per produrre la sostanza prima, ossia l’oggetto metafisico trascendente che sta alla radice dell’oggetto corporale. Si tratterebbe insomma di quanto l’antica onto-metafisica aristotelica considerava l’universale sebbene nella sua collocazione immanente. Più avanti, facendo chiaro e coerente riferimento all’antica onto-metafisica (scolastica) Smith dirà poi che si tratta dell’”ens” quale “unum” e quindi della “quiddità”, designante ciò che un oggetto è inequivocabilmente. Ed infatti per la Scolastica l’”unum” rientrava negli Universali o Trascendentali. Ed infatti Smith dirà più avanti anche che la forma sostanziale è ciò che produce la totalità irriducibile, dato che essa si trova sul piano principiale corrispondente al centro dell’essere, ossia il livello più trascendente dell’essere stesso.
In ogni caso il carattere fondamentale di “sostanza” fa si, secondo lui, che l’oggetto corporeo sia un’unità da cima a fondo (un’assoluta unicità), e quindi non sia in alcun modo un composto di parti, né lo è stato mai nel corso della sua insorgenza. Esso è infatti insorto esattamente così com’è nel momento in cui lo osserviamo, ossia come assoluta unità ed inoltre come perfetta identità con sé stesso. È evidente che con ciò Smith (sebbene non lo dica) si riferisce a quella speciale onto-genesi oggettuale che è la Creazione divina.
E questo sarebbe quindi per Smith l’oggetto corporale nella sua effettiva realtà. Ciò significa allora che l’oggetto corporeo non è in alcun modo un “insieme” (come invece è l’oggetto SX della fisica), ossia non è composto di particelle e sub-particelle. Ora, tutto questo è plausibile onto-metafisicamente, eppure sembra che Smith si dimentichi (o forse ignori) del fatto che la sostanza per l’antica ontologia (prevalentemente aristotelica) è sì assolutamente unitaria ma intanto non corrisponde assolutamente all’oggetto corporale. Basta infatti dare anche solo una scorsa alle “Categorie” di Aristotele per comprendere che l’oggetto reale è una sostanza prima solo nella misura in cui contiene in sé altre sostanze (seconde) ad essa strettamente inerenti – e queste ultime non sono veri oggetti corporali in quanto non sono altro che le qualità (in Platone le idee) che confluiscono nell’unità dell’oggetto reale. Quanto poi alla sostanza prima essa non è altro che l’invisibile premessa metafisica dell’oggetto reale, ma non coincide affatto con esso.
Ebbene di tutto questo Smith non parla affatto, così che il suo discorso appare largamente lacunoso in termini onto-metafisici. Egli invece si limita ad insistere unicamente sull’insostenibilità dell’idea secondo la qiale la Totalità sia somma delle parti. Ma questo non è mai stato un oggetto di riflessione di alcuna ontologia (né antica né moderna), bensì appena della recentissima riflessione sulla dimensione «sistemica» dell’essere, ossia sulla natura organismica che caratterizza gli enti. Questa però è un’ontologia solo di riflesso.
Ma comunque Smith ritiene di muoversi sul piano ontologico anche nell’affermare che alla fine la stessa parte, ossia l’oggetto SX, è in fondo una totalità irriducibile ossia un’unità. Ed è proprio in virtù di questa stranezza che secondo lui la fisica quantistica resta incomprensibile. Tuttavia la totalità irriducibile proviene per lui all’oggetto SX unicamente dall’oggetto X, ossia dal vero oggetto corporale, e quindi di fatto l’oggetto SX non la possiede affatto (costituendo in tal mondo un’entità meramente “psichica”, ossia relativa unicamente all’osservazione strumentale). Ne deriva quindi che la scomposizione in parti dell’oggetto corporale comporta la perdita sia delle qualità (che sono solo unitarie) ma anche della stessa totalità irriducibile, e quindi in definitiva dell’oggettualità. E così egli ne conclude che senza totalità irriducibile non vi è essere. Il suo severo rimprovero alla Fisica quantistica è qui chiaro: − scomponendo i veri oggetti per via puramente strumentale, essa non ha ottenuto altro che uno sguardo gettato sul Nulla, ossia su ciò che non è essere (se vogliamo la Materia prima dell’antica metafisica). Ed in tal modo quindi la Fisica quantistica ha finito per non conoscere un bel nulla. Ma comunque, aldilà di questo, possiamo qui comprendere che Smith intende per “ontologia” non la disciplina nota ai filosofi ma semplicemente l’effettiva presenza dell’essere nella sua integralità. La quale però coincide per lui con una ed una sola categoria ossia la corporalità sensibile. L’essere sarebbe quindi mono-categoriale. E questo cozza decisamente sia con l’antica onto-metafisica sia anche con la nuova ontologia di Hartmann.
Ma comunque Smith aggiunge a questo punto all’ontologia una nuova dimensione (corrispondente pienamente all’oggetto SX) e cioè quella “transcorporale”. Naturalmente non vi alcuna traccia di entità come queste nell’ontologia (antica o nuova che sia), per cui appare qui più chiaro che mai che il riferimento del pensatore a questa disciplina è del tutto abusivo e arbitrario, basandosi unicamente su sue personali elucubrazioni e definizioni che non trovano alcun riscontro nelle dottrine note alla filosofia. Eppure egli insiste su questa invocazione dichiarando che il fenomeno paradossale della multilocalizzazione delle particelle si spiega con il fatto che le entità transcorporali sarebbero delle “potentiae”. Ecco ancora una volta il riferimento ad un concetto realmente ontologico (e precisamente di nuovo alla Materia prima).
E però intanto cos’abbia a che fare tutto questo con il concetto di potenza nella sua completezza è davvero difficile comprenderlo.
Dopo aver affermato tutto questo, a Smith non resta che definire l’ontologia come il campo dell’essere oggettivo ed effettivamente oggettuale (percepibile) rispetto al quale la dimensione transcorporale (coincidente con il mondo apparentemente scoperto dalla meccanica quantica) non sarebbe altro che un apparente essere, ossia un vero e proprio non-essere, che sussiste solo in virtù dell’assolutamente nuovo fenomeno (reso possibile da strumenti mai prima esistiti) dell’interazione dell’uomo con la Natura. L’uomo non è più, dunque, spettatore della Natura, ma invece assume rispetto ad essa una posizione «partecipativa» e quindi interattiva. Dunque la Fisica quantistica non sarebbe altro che questo, ossia una specie di artefatto dell’osservazione umana per mezzo dello strumento, e cioè una mera e del tutto vana e vuota creatura del progresso tecnologico. Ma intanto, nonostante questo, per Smith non cesserebbe mai il movimento centrifugo per mezzo del quale, a partire dal nucleo centrale dell’essere (perno del cosmo) l’essere stesso si irradia (per mezzo della causalità verticale) trasferendosi fino alla pur del tutto inconsistente dimensione transcorporale. Ora, è del tutto chiaro che questa non è altro che un’interpretazione molto riduttiva di ciò che è ontologia – un’interpretazione che può venire sostenuta soltanto perché le stranezze della Fisica quantistica costringono a riprendere in considerazione cos’è davvero «essere». Sta di fatto però che qui non si parla affatto dell’essere come vero tema di conoscenza.
Si parla invece soltanto dell’essere che traspare tra le maglie delle astrusità matematiche della Fisica quantistica; e quindi un essere che è stato inutilmente coartato da una ricerca della quale avremmo (almeno filosoficamente) potuto fare benissimo a meno. Quello che è certo è comunque che quest’ultima, come Smith dice a chiare lettere, non ha alcun diritto di ritenere di avere scoperto la realtà prima, ossia la radice dell’essere. Ed a proposito di tale osservazione critica va notato (come abbiamo fatto notare all’inizio) che l’appello del pensatore all’ontologia (per quanto confuso e contraddittorio) diviene almeno in questo del tutto legittimo – cioè almeno dal punto di vista di una giustificata critica filosofico-metafisica alla scienza empirica moderna. Egli ci fa notare infatti che l’ossessiva “caccia all’inosservabile”, iniziata con il Positivismo e raggiungente poi il suo culmine in Einstein, ha portato alla fine alla catastrofica scomparsa del concetto di sostanza, e conseguentemente al dissolversi del concetto di oggettualità. Ciononostante, molto opportunamente, il pensatore ci fa osservare che il mondo transcorporale (e quindi il mondo della Fisica quantistica) non sussisterebbe affatto se esso fosse restato in continuità con la reale fonte dell’essere (il perno del cosmo). E l’intermediario di questa continuità resta quell’oggetto corporeo che noi ancora ordinariamente conosciamo nonostante le astrusità (tutto sommato inutili) della meccanica quantica.
Ebbene di questo, secondo Smith, bisogna rendere grazie alle osservazioni auto-critiche di Heisenberg.
Posto tutto questo possiamo avere un altro varco di accesso all’intendimento di ontologia da parte di Smith. Egli dice infatti che il mondo della Fisica quantistica rappresenta null’altro che un «micro-mondo» del tutto secondario rispetto al «macro-mondo» costituito dagli oggetti corporali. Ne risulta che “ontologico” è per lui ciò che è davvero primario nella struttura del mondo e conseguentemente anche nella concezione del mondo e nella sua conoscenza. Ed in questo diremmo che (nonostante la mono-categorialità da lui affermata) la sua ontologia coincide abbastanza con quella realistica di Hartmann.
Del resto tutto ciò è estremamente illuminante, servendo anche a riconciliare il filosofo con l’ontologia di Smith. Egli afferma infatti che lo “statuto ontologico” delle sub-particelle quantiche è caratterizzato dal fatto che esse ricevono dal mondo corporeo tutto ciò che sono. Ne risulta (come ancora una volta sospettato da Heisenberg) che esse in sé non sono altro che non-essere, ossia molto probabilmente (come dicevamo) Materia prima, e cioè la pura potenza dell’antica onto-metafisica. Il che ci porta a dover correggere l’affermazione critica che avevamo fatto prima – Smith non aggiunge all’essere alcuna categoria (l’ultracorporeo) ma si limita invece a parlare semplicemente del non-essere, ossia di qualcosa che è stato aggiunto pleonasticamente all’essere da parte della Fisica quantistica. Ma del resto naturalmente l’antica metafisica ha sempre tenuto ben presente la realtà del non-essere. Anzi Parmenide costruì il proprio concetto di essere proprio dalla rigorosa sua differenziazione dal non-essere.
Da tutto ciò risulta, secondo Smith (e qui con tutta la ragione), che non è nemmeno pensabile che le sub-particelle possano essere considerate le parti che vanno a costituire l’oggetto corporeo. Egli afferma infatti a chiare lettere che esse non sono affatto “particelle reali”. E questo significa che le sub-particelle non hanno alcuna possibilità (in quanto parti) di andare a costituire l’oggetto corporeo, dato che non sono altro che “potentiae”. Detto questo appare per lui chiaro che le entità della Fisica classica non ricevono affatto il loro essere dalle sub-particelle classiche, ma invece solo dal dominio corporeo, ossia dal dominio del percepibile o sensibile. E proprio per questo tale disciplina può essere ciò che è nella sua essenza, ossia «scienza della misura». Il che significa che la Fisica può esistere solo come dominio del quantitativo, al di fuori del quale essa non può affermare assolutamente nulla. Ma intanto proprio questo è per Smith “ontologia”, e quindi essa designa semplicemente il reale e del tutto evidente «è» delle cose. In questo senso quindi il nostro pensatore converge nuovamente con l’ontologia assolutamente realista di Hartmann. In ogni caso Smith chiarisce che l’unico modo perché una sub-particella irreale diventi reale (e quindi parte di un corpo) dipende dall’irradiazione della totalità irriducibile da parte di un’entità corporea, il che equivale all’incorporazione della sub-particella da parte dell’oggetto corporeo, che soltanto in tal modo cessa quindi di costituire il non-essere. Questo quindi è il modo in cui l’entità corporea prosegue la primaria ed originaria emanazione di totalità irriducibile dal centro dell’essere. Solo in questo modo è possibile il passaggio della sub-particella dalla potenza all’atto, che non è quindi mai un atto della particella stessa.
Non prenderemo in considerazione la gran parte delle considerazioni di Smith nella seconda parte del suo libro, dato che abbiamo già elementi a sufficienza per chiarire la questione che ci interessa ed anche perché il pensatore si diffonde qui in argomentazioni secondarie. Nel complesso diremo soltanto che in questa seconda parte della sua opera egli dà voce in modo chiaro all’aspirazione che evidentemente sorregge il suo intero progetto scientifico-metafisico, e cioè quella che afferma l’assoluta impossibilità di concepire l’essere come qualcosa che insorga “dal basso”. Il che ci mostra come effettivamente la moderna Fisica quantistica – ben lungi dall’essere una straordinaria rivelazione della vera natura dell’essere (come molti oggi sono disposti a credere) – non è altro che l’estremo frutto scientifico del riduzionismo illuminista e positivista. Non a caso in questo essa converge totalmente con l’evoluzionismo che il nostro pensatore non manca di criticare serratamente in questa parte della sua opera.
E su tutto questo non possiamo che essere totalmente d’accordo con Smith.

2- L’ontologia realista di Hartmann.
Una volta giunti a questa conclusione positiva, dobbiamo però dire che l’analisi degli scritti di Hartmann – entro i quali viene dato un volto a quella che egli definisce nuova ontologia e precisamente un’ontologia realistica, scientifica ed in gran parte non metafisica (se non nelle sue sfumature) – ci permette di osservare che il complessivo progetto di Smith finisce per divenire pericoloso e controproducente proprio per una visione metafisica dell’uomo e del mondo. Infatti, se in esso si introduce l’antica onto-metafisica, la riflessione diviene molto spesso proprio per questo lacunosa, poco autentica e fuorviante (specie a causa della scarsa precisione dei concetti in essa esposta). Mentre, se in esso viene introdotta l’ontologia (sostanzialmente non metafisica) che è emersa nel pensiero più avanzato del XX secolo (come quello di Hartmann), la riflessione diviene addirittura contraddittoria rispetto ai propri scopi. Questa ontologia infatti non ha la benché minima intenzione di correggere la scienza nella sua descrizione della realtà e nei principi che essa ne deduce.
Su questo ci diffonderemo nelle conclusioni, però abbiamo già visto che tutto sommato in Smith non accade né l’una né l’altra cosa; dato che la sua ontologia converge molto spesso sia con quella antica che con quella moderna.
E tuttavia restano nella sua esposizione molte carenze, contraddizioni ed oscurità. Dunque, per questo motivo, anche se non condividiamo affatto l’ontologia scientifica ed iper-realistica di Hartmann, ci sembra necessaria discuterla a margine del progetto di Smith in modo che non insorgano equivoci nell’invocazione da parte di quest’ultimo proprio dell’ontologia come strumento dottrinario per completare una riflessione (quella dei fisici) che a lui appare carente e troppo piena di difficoltà non risolte. Del resto l’onto-metafisica antica alla quale Smith si rifà di fatto non esiste più, mentre invece, nel corso del XX secolo, si sono accumulate troppe revisioni di questa disciplina per permettersi di ignorarle completamente.
Ebbene la nuova ontologia di Hartmann vuole essere una scienza empirica (molto diversa dalla filosofia metafisica e quindi dalla tradizionale onto-metafisica), e precisamente nel porre come primaria l’effettiva conoscenza di un super-oggetto (Essente), i cui principi (categoria) sono molto lontani dai principi della conoscenza critica (teoria della conoscenza). Essi vanno ricercati infatti su un piano che è lo stesso della scienza.
E quindi le aspirazioni di Smith rispetto alla gnoseologia della nuova Fisica si dovrebbero in verità concentrare sull’accento posto sulla conoscenza effettiva di un oggetto, ed in null’altro. Smith afferma del resto proprio questo in QE, ma poi in PQO va alla ricerca di un’ontologia che riempia le lacune della Fisica per mezzo di concetti che in parte derivano dall’antica ontologia ed in parte vengono forgiati da lui stesso in modo autonomo ed arbitrario. Intanto comunque l’antica ontologia viene severamente condannata da Hartmann come del tutto inadeguata a comprendere l’essere. E quindi – posto che Smith è uno scienziato e le sue osservazioni critiche sono dedicate alla correzione della scienza empirica – almeno in via di principio se egli vuole fare ricorso all’ontologia, dovrebbe rivolgersi a quella nuova e non a quella antica. Ma sta di fatto che, se si invoca al suo modo la prima e non la seconda, allora alcuni concetti (come quello di sostanza) appaiono totalmente destituiti di fondamento fin dall’inizio e quindi non si prestano affatto allo scopo perseguito da Smith. Infatti abbiamo constatato che la sua intera ontologia si incentra su questo molto poco chiaro concetto.
Ne deriva che (per quanto il suo complessivo progetto possa venire considerato lodevole) il nostro pensatore rischia fortemente di finire per seguire una strada anacronistica, che (almeno in relazione all’assetto della nuova ontologia) è destinata al fallimento per definizione. Infatti due sono le possibilità: −
1) o si impiega l’antica ontologia, che però non ha nulla a che spartire con la scienza moderna (inclusa la Fisica) e soprattutto non si presta in alcun modo al suo reale chiarimento; 2) oppure si impiega la nuova ontologia che però non aggiunge nulla di nuovo alla moderna scienza e quindi non ambisce nemmeno a risolvere i dilemmi in cui essa si dibatte (essa infatti ricerca i principi dell’essere sullo stesso piano sul quale si muove la scienza moderna). E questo Hartmann lo afferma in modo chiarissimo in ZGO; e rimandiamo il lettore all’altro nostro articolo per prenderne atto.
Una volta chiarito tutto questo, emerge una serie di questioni entro le quali Smith pretende di ricondurre la Fisica a concetti onto-metafisici antichi, specialmente ad una visione metafisica ed animico-spirituale del mondo che intende essere espressamente unilaterale, ossia vuole ridurre l’intero essere ad un solo principio. Sta di fatto però che Hartmann non solo smantella questi concetti eliminandoli totalmente dall’ontologia ma soprattutto spazza via dall’ontologia ogni unilateralismo. E lo fa specialmente mostrandoci le deviazioni alle quali è andata soggetta l’antica metafisica fino all’Idealismo e perfino fino a parti della riflessione del XX secolo (Husserl). E così – almeno sul piano dell’obiettività conoscitiva − la ricerca di Smith minaccia di sprofondare in un vuoto filosofico (almeno nel contesto del pensiero moderno). Essa cioè – anche aldilà delle sue stesse contraddizioni interne – rischia di prestare il fianco ad una moderna critica che è in grado di demolirla completamente. E questo non è affatto desiderabile, dato che nel complesso il progetto del pensatore merita un grande rispetto ed anche un valore non indifferente Per questo motivo questa seconda sezione può sembrare una critica severa a Smith ma è invece un tentativo di difesa della sua visione.
Ma vediamo ora quali sono gli aspetti, messi in luce da Hartmann, che si prestano di più allo scopo di restituire (sia pure per mezzo della critica) un’appropriatezza ed obiettività filosofica che le permettano di stare in piedi. Nel fare questo, però, faremo come se lo strato di essere posto in evidenza dalla Fisica quantistica non corrisponda al non-essere (come suppone Smith) ma costituisca invece probabilmente l’ultimissimo strato dell’essere, e cioè quello fisico nella sua massima espressione. Inoltre (sebbene con un certo grado di imprecisione) assumeremo che quello che Smith considera lo strato più alto dell’essere (ossia il centro verticale dal quale tutto nasce) corrisponda al supremo strato spirituale supposto da Hartmann, ossia lo strato più immateriale che ci sia.
Va però fatto notare che quest’ultimo pensatore – nel fornirci un’immagine complessiva dell’essere – non considera in alcun modo il mondo delle sub-particelle (se non per rari accenni ad esso). E quindi assumeremo che quest’ultimo corrisponda al più basso strato dell’essere da lui considerato, e cioè quello dell’estensione spaziale. Sebbene evidentemente, seguendo lo schema dell’essere presentato da Smith, bisogna pensare che il mondo sub-particellare non sia altro che il substrato invisibile e profondo dello strato della spazialità e dell’estensione.
Ebbene tutto ciò è valido soprattutto in quanto Smith pretende di mostrarci nel mondo sub-particellare una realtà vagamente spirituale (nel senso primario di immateriale e imprevedibile) del tutto svincolata dalla spazialità e dalla temporalità. Laddove invece questo implica invece per Hartmann la dissoluzione dell’ontologia, che è per lui un tutto compatto (stratificato) nel quale lo spirito non è affatto sconnesso dai caratteri degli strati inferiori e solidamente fisici dell’essere.
Innanzitutto, secondo Hartmann, non è assolutamente possibile introdurre in Fisica un’ontologia che preveda concetti in linea con un essere statico e connotato dal tipico carattere dell’eternità atemporale; per cui i processi dinamici sub-particellari, appunto atemporali, non sono affatto riducibili ad una siffatta ontologia senza venire radicalmente contraddetti nel loro esistere [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, III p. 20-27].
Inoltre non è possibile correggere l’a-finalismo irrazionale e nulliforme del mondo sub-particellare per mezzo della sua riduzione al senso dell’agire ed ancor più ad un fine (teleologia); come per Smith avviene nel mondo corporeo una volta che abbia riassorbito in sé le sub-particelle [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IV p. 27-35].
Ancora una volta ciò significa per Hartmann tradire le caratteristiche ontologiche dell’estremo stato fisico dell’essere (corrispondente all’inanimato nella sua massima espressione), che ha le sue leggi irriducibili a quelle dello spirito. Ed inoltre lo spirito dipende da esse così come dipende dal mondo organico. In altre parole, in termini ontologici moderni, non è possibile in alcun modo razionalizzare e soprattutto spiritualizzare l’irrazionalismo che appare caratterizzare il comportamento delle particelle sub-fisiche. In ogni caso il reciproco compenetrarsi di modi diversi di determinazione rende impossibile ridurre la realtà sub-particellare ad alcuna realtà di ordine superiore, e quindi esautora completamente le aspettative che Smith ha verso un’onto-metafisica in grado di farci comprendere i misteri della Fisica quantistica. Ancora più inadeguato è l’uso dell’ontologia per introdurre la comprensibilità in quel mondo dell’Essente che Hartmann decreta essere e restare in larga parte inesauribile nella sua misteriosità.
A fronte di tutto ciò (ossia l’ontologia descritta nella sua struttura più realistica, ed in questo senso molto poco metafisica) va osservato che, se Smith cerca un’ontologia (come risorsa per la soluzione delle irrazionalità quantiche e quindi cornice di senso), al massimo potrebbe riconoscere nella Fisica un settore dell’essere con le sue proprie categorie [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, V p. 35-44]. Che però non si estende affatto all’intero essere, tanto nella sua forma corporea che nella sua forma sub-corporea. Infatti i processi fisico-energetici non equivalgono per Hartmann affatto all’intero essere, e quindi non ne sono nemmeno il sottofondo nascosto. Meno che mai essi hanno qualcosa a che fare con l’organico (caratterizzato da un continuo rinnovamento) che evidentemente costituisce un settore completamente separato dell’essere.
E quindi bisogna assumere che il mondo corporeo (considerato da Smith l’essere stesso nella sua totalità) diverge drammaticamente dallo strato di essere al quale esso appare più affine, ossia quello organico-vitale.

Per inciso va a tale proposito osservato che, nel libriccino “Die Erkennitns im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7] Hartmann ci mostra (in maniera del resto simile a quanto fa anche Smith) che la Fisica sub-particellare è finita in un vicolo cieco proprio per colpa delle distorsioni introdotte dalla filosofia come teoria della conoscenza. E questa colpa consiste in primo luogo nell’aver perso di vista l’Essente come autentico ed unico oggetto di conoscenza, del tutto indipendente dalla coscienza, e molteplice (ossia Totalità di tutto ciò che «è»: fisico, animico e spirituale)), e quindi conoscibile solo mediante un lungo e faticoso cammino di approssimazione, che non conosce né certezze né campi privilegiati di conoscenza (come quello dell’elementare sub-particellare). Però Hartmann osserva il fenomeno in maniera ben più profonda di Smith. Per cui secondo lui l’errore della Fisica non sta affatto negli arzigogoli (di stampo vagamente ontologistico) escogitati da Smith, ma invece nel semplice fatto che essa non riconosce che solo il vero Essente è il reale stesso nella sua complessa Totalità. E quindi non si rende conto del fatto che esso non è stato ancora conosciuto (nè non potrà mai esserlo) per il semplice fatto che si ci è fermati alla scomposizione elementare dell’oggetto. La quale non è dovuta affatto (come dice Smith al solo intervento dello strumento), ma invece avviene già (da sempre e del tutto naturalmente) per l’azione dei sensi su di esso.
Ne consegue che la Fisica quantistica ha lavorato su un campo del totale irreale (quello delle particelle elementari) che è ancora più intenso di quello sul quale aveva sempre lavorato l’empirismo, senza comprendere che questo è invece appena il luogo di passaggio verso il pieno e vero riconoscimento dell’Essente. In altre parole la Fisica quantistica (influenzata dal Positivismo, come dice anche Smith) si è solo illusa di trovarsi davanti ad un vero campo conoscitivo. Tuttavia il fenomeno, secondo Hartmann, non riguarda affatto solo la scienza empirica bensì anche la stessa esperienza quotidiana dell’uomo comune. Anche quest’ultimo soggiace infatti alla confusione tra l’oggetto e le sue molteplici apparizioni. E quindi anch’esso è coinvolto in un cammino conoscitivo fallimentare perché non si rende conto che qualunque genere di conoscenza (filosofica, scientifica e naturale-ingenua) raramente procede fino alla fine, ossia fino al coglimento dell’Essente, con la conseguenza che lungo questo cammino restano molto misteri, che rappresentano poi le inevitabili questioni insolute ed insolubili della conoscenza umana. In tal modo la Fisica quantistica si è solo illusa di avere scoperto il vero fondamento dell’essere. In verità essa si è invece persa nelle paludi dell’elementare. E restando in questo ambito non si va assolutamente da nessuna parte. Questo è quindi il vero errore della Fisica quantistica, e non quello escogitato da Smith per mezzo della sua comparazione con la presunta pienezza della conoscenza ontologica così come da lui concepita.

Intanto va osservato che Smith vorrebbe sottomettere la Fisica (dotata di una sua propria categoria di essere) proprio a categorie generali dalle quale tutto dedurre, ossia la corporeità. E tuttavia la nuova ontologia ha completamente abolito qualunque categoria generale, e quindi ogni possibile monismo, per definizione sempre fatalmente unilateralistico [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit VI, p. 44-51]. Da un punto di vista ontologico-moderno, quindi, nemmeno la corporeità sensibile si presta a rappresentare l’intero essere.
Hartmann afferma che la determinazione del mondo animico-spirituale è e resta del tutto sconosciuta e al massimo può venire definita come spontaneità [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit. VII p. 51-59]. Ora è possibile che nel mondo sub-particellare venga supposto il dominio di un simile meccanismo di determinazione, che quindi è destinato a restare sconosciuto ed incomprensibile (assimilando così il mondo quantico a quello spirituale-immateriale). Certamente però alcun concetto della vecchia metafisica potrà portare chiarezza in esso.
In ogni caso va detto che qui l’imputato non è Smith ma semmai quei fisici quantistici che hanno voluto assimilare (con ragionamenti recentemente in gran parte esoterici) il mondo sub-particellare a quello spirituale-immateriale nella sua estrema libertà e creatività.
Dunque, sulla base di quanto afferma Hartmann (severamente critico verso i concetti dell’antica onto-metafisica), Smith sbaglia se intende applicare la dottrina materia-forma al mondo sub-particellare, dato che questa non sarebbe stata altro che un’inconsistente e fantasiosa illazione dell’antica metafisica che non trova alcun riscontro nel mondo reale [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., VIII p. 59-67]. Allo stesso modo è impossibile ricorrere all’antica idea metafisica del mondo come costituito da spirito e materia tra loro separati [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IX p. 67-79]. Ed abbiamo visto che Smith in fondo avvalora proprio questa struttura, delineando un mondo ideale-cosale trascendente (il centro dell’essere) a partire dal quale, per causalità verticale, insorge l’oggetto corporeo quale totalità irriducibile.
Il tentativo di vitalizzare, finalizzare e dare consistenza ontica (per mezzo dell’ontologia) alle forze irrazionali ed afinalistiche agenti nel mondo sub-particellare – sia pure mediante la sua riduzione al mondo corporeo −non ha dunque alcun senso [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IX p. 67-79]. Esso infatti rappresenta appena ciò che nudamente è, ossia lo strato fisico nella sua presenza ed anche azione che è del tutto indifferente alla vita ed a qualunque scopo. Le particelle e sub-particelle, dunque, non sono altro che il fondamento fisico ultimo del mondo, e vanno quindi prese appena per quello che sono, senza che l’applicazione ad esse di qualunque visione superiore, possa rendere intelligibile il loro esistere in quel modo specifico. Pertanto la Fisica quantistica non può essere altro che incomprensibile (senza alcuna possibilità di riscatto, cioè di chiarimento ontologico), e quindi può venire appena descritta senza che da ciò si possano trarre conclusioni di sorta. Quindi l’ontologia (anche se autentica) applicata ad essa non risolve alcun dilemma.
Peraltro secondo Hartmann, dato che il mondo sub-particellare costituisce certamente uno strato di essere fisico estremamente inferiore, appare essere impossibile che esso possa venire svincolato dalla rigida legislatività che caratterizza naturalmente l’inanimato [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XII p. 98-106]. Per cui appare molto improbabile che la sua irrazionalità (sicuramente a-finalistica) possa venire ricondotta ad un determinismo non causalistico e finalistico come quello organico ed evoluzionistico. Pertanto la tentazione dei fisici di considerare le sub-particelle come una sorta di enti viventi (totalmente liberi ed auto-determinati, e quindi spirituali nella loro immaterialità) – simili alle monadi di Leibniz − sembra destinata a fallire. Evidentemente tutto ciò è il frutto dello sforzo illegittimo di trasformare il mondo quantico in un mondo fisico che sfugga alle leggi della Natura. Ma del resto è destinato a fallire anche il tentativo smithiano di considerare il mondo corporeo come il luogo dell’essere che (ricomprendendo in sé il mondo sub-particellare e dando così ad esso consistenza ontica) possa rappresentare pienamente tanto il mondo della vita quanto quello spirituale. Del per Hartmann appare inspiegabile perfino la non soggezione del mondo vitale-organico alle leggi fisiche, e quindi forse ci troviamo qui di fronte ad uno di quei dilemmi che il pensatore considera insolubili tanto per la scienza quanto per l’ontologia. E quindi probabilmente alcuna operazione di razionalizzazione appare giustificata. Inclusa quella di Smith.
Del tutto suggestivamente (ma anche paradossalmente) Hartmann afferma comunque che l’ontologia potrebbe aiutare molto nel risolvere le questioni sollevate dalla nuova Fisica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Ma egli non lo afferma allo stesso modo di Smith. Lo afferma invece solo perché, come abbiamo visto in ELO, secondo lui la Fisica quantistica è stata vittima di quel devastante deragliamento conoscitivo di tipo filosofico (teoria della conoscenza) che ha svincolato le categorie della conoscenza dalle categorie dell’essere (e che secondo lui invece Kant aveva cercato di correggere senza poi venire seguito da nessuno) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis…cit. I p. 1-7]. Tale deragliamento ha fatto sì che il pensiero di fatto dissolvesse la pienezza dell’oggetto, costringendo così la stessa scienza empirica a cercare l’oggetto per vie del tutto devianti. E così è del tutto chiaro perché la nuova ontologia potrebbe collocare nel posto che ad esso compete quel mondo delle sub-particelle che, dopo tante riflessione ed illazioni (specie di non filosofi), ha finito per assumere caratteri categoriali che probabilmente non gli competono affatto. Anzi è estremamente probabile che si tratti appena di una categoria della conoscenza (generata artificiosamente dagli strumenti) e non dell’essere.
E come abbiamo visto la riflessione di Smith converge abbastanza (almeno in parte) con questa conclusione.
Ebbene, questi erano i dettagli di un’analisi dell’ontologia di Hartmann in relazione ad aspetti significativi di quella di Smith. C’è poi un ulteriore aspetto di carattere generale che è di grande importanza, ed al quale abbiamo comunque già accennato. Smith fa riferimento ad un’onto-metafisica (di fatto l’antica metafisica specialmente aristotelica), mentre invece per Hartmann ontologia e metafisica sono due discipline completamente diverse (che convergono unicamente laddove la conoscenza si dissolve in mistero ed in questioni insolute ed insolvibili). La prima infatti è sostanzialmente scientifica, mentre la seconda è sostanzialmente filosofica nel riferirsi ai misteri di fondo che restano sullo sfondo della ricerca sia ontologica che empirico-scientifica. Ma Smith sente intanto l’esigenza di un’ontologia, ossia di una solida e produttiva conoscenza metafisica dell’essere. E quindi (tenendo conto delle rigorose distinzioni fatte da Hartmann), egli in verità fa appello alla metafisica e non all’ontologia. Non si tratta però di una metafisica che illustra appena il mistero (ossia l’inconoscibile oppure il non ancora conosciuto), ma invece si tratta di una metafisica che ha l’ambizione di descrivere l’essere in maniera non meno legittima della scienza empirica. E questa rischia di essere appena una penosa illusione, a meno che (come avviene presso i pensatori tradizionalisti) si ammetta pienamente una conoscenza contemplativa ed irrazionale che non ha alcuna ambizione di essere né rigorosamente filosofica né rigorosamente scientifica, ossia una vera e propria conoscenza dell’inconoscibile (la cui base è la Rivelazione di verità universali contenuta nella Scienza Sacra),
Inoltre, in base alle considerazioni di Hartmann [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, VII p. 51-59], c’è da considerare che in fondo il mondo quantico appartiene già ad un’ontologia, entro la quale domina il principio materia-forma (secondo il paradigma della composizione verticale a partire dal basso), per cui l’atomo è materia della molecola che è la sua forma. Per tale motivo le sub-particelle possono anche venire considerate forse la materia ultima delle forme superiori. Ed infatti abbiamo visto che esse corrispondono molto probabilmente a ciò che l’antica onto-metafisica definiva come Materia prima, ossia un non-essere che costantemente è in procinto di trapassare nell’essere. Questa considerazione esautora ovviamente tutte le affermazioni di Smith circa la totale inconsistenza ontica di questo solo presumibile strato dell’essere. E tuttavia potrebbe costituire un modo meno critico e più positivo per approcciare la questione. Ed in questo caso il merito di tale approccio andrebbe totalmente alla nuova e pragmatica ontologia di Hartmann. Tale merito consisterebbe nel fatto nell’evitare qualunque interpretazione troppo ampia circa questo mondo, limitandosi così semplicemente alla presa d’atto del suo esistere.
In ogni caso la riflessione di Hartmann circa la conoscenza e la verità sembra mostrare che questo è forse l’unico aspetto nel quale Smith ha davvero intercettato correttamente l’ontologia nel contesto dell’analisi critica della Fisica quantistica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Entrambi i pensatori infatti mettono in luce la presenza di un’oggettività esteriore indipendente (per Hartmann l’Essente, ovvero l’essere stesso) al quale la conoscenza deve necessariamente mettere capo per poter sussistere. E questo istituisce comunque una certa convergenza, tra i due pensatori, circa la centralità assoluta del mondo corporeo.
Ma bisogna anche dire che in questo non vi era alcun bisogno della nuova ontologia, dato che il concetto antico-metafisico di verità dell’essere si muoveva esattamente in questi paraggi.

Conclusioni.
Crediamo che questo articolo abbia mostrato soprattutto che oggi il rinnovato ricorso all’ontologia in filosofia è estremamente problematico per diversi motivi, sebbene sia comunque estremamente giustificato in quanto chiarificante e de-complessizzante a fronte degli eccessi di epistemologismo della moderna filosofia (con il netto e schiacciante prevalere della teoria della conoscenza su qualunque pensiero riguardante l’essere). In altre parole il richiamo all’ontologia ristabilisce un equilibrio (tra le due questioni dell’essere e della conoscenza) che da troppo tempo era stato infranto, e per motivi affatto necessariamente condivisibili. In ogni caso tutti i moderni richiami all’ontologia ci mostrano che la totale epistemologizzazione della filosofia non ha risposto affatto ad una necessità oggettiva, dato che è ancora oggi pienamente giustificato il fatto che tale disciplina si occupi dell’essere. Si è quindi trattato appena di una del tutto inaccettabile unilateralizzazione della filosofia.
L’aspetto fondamentale della problematicità dell’appello all’ontologia consiste comunque nel fatto che l’antica onto-metafisica è davvero storicamente tramontata nel mondo della filosofia, mentre nel mondo della scienza empirica essa non è mai stato nemmeno presa in considerazione (a parte nei suoi primordii nel contesto della filosofia della Natura del XVII e XVIII secolo). Ebbene, tenuto contro di questo incontrovertibile dato di fatto storico-filosofico, nel contesto di questa nostra ricerca abbiamo assistito a due operazioni molto diverse: − 1) quella di Smith, che invoca un’ontologia dai caratteri molto confusi, oscuri e contraddittori, nel tentativo (pur pienamente giustificato) di criticare l’aspirazione della Fisica quantistica (quale forma estrema della scienza empirica) ad offrirci una visione totalizzante dell’essere movente dal basso più estremo (quello rappresentato dal mondo sub-particellare); 2) quella di Hartmann, che invece si è dedicato a smantellare totalmente le aspettative totalizzanti dell’antica metafisica delineando su questa base una del tutto nuova ontologia realistica e pragmatica, che è poi infine destinata a convergere con la scienza. In qualche modo il primo è un progetto decisamente anti-scientifico mentre il secondo è un progetto decisamente pro-scientifico.
Ma aldilà di tutto questo, uno dei problemi principali del ricorso all’ontologia si è rivelato essere la definizione di ciò che si intende come “ontologia”. Il modo estremamente bizzarro e problematico in cui Smith tratta questo tema è ciò che pone la questione. Per cui da una parte abbiamo il tentativo di Hartmann di rendere l’ontologia una scienza fra le altre (e quindi priva di qualunque aspirazione ad imporsi sulla scienza) per mezzo di una sua revisione (rispetto al suo assetto antico) che è filosoficamente molto solida e ottimamente documentata; e quindi delinea una disciplina capace davvero di presentarsi come una realistica e rispettabile alternativa all’antica ontologia. Dall’altro lato invece assistiamo in Smith ad un richiamo a quella che vorrebbe essere l’antica ontologia, il quale ambisce intanto all’esatto contrario, e cioè a colmare gravi lacune emerse nella scienza ed anche a correggerne alcune conoscenze. E tuttavia ciò avviene per mezzo di affermazioni che (a parte alcune eccezioni) propongono come “ontologia” una visione bizzarra, arbitraria (in quanto puro prodotto della personale interpretazione del pensatore), estremamente limitata (dato che considera come essere unicamente la dimensione corporale) e quindi in larga parte irriconoscibile per il filosofo. Dunque in essa è estremamente difficile riconoscere per davvero l’antica ontologia. Ma oltre a ciò essa è assolutamente inconciliabile con la nuova ontologia proposta da Hartmann.
Per questa serie di motivi una valutazione dell’ontologia smithiana dovrebbe suggerire solo considerazioni negative. Ed inoltre un suo confronto con l’ontologia di Hartmann dovrebbe mostrarci solo che il progetto di Smith è in effetti filosoficamente di retroguardia (oltre che poco fondato filosoficamente), e quindi non ha alcun valore nello scenario del pensiero attuale.
Abbiamo detto però che noi partiamo da convinzioni tradizionaliste che non ci fanno sentire affatto obbligati ad accettare come praticabili solo le vie di pensiero che oggi vengono ordinariamente percorse.
E quindi l’assoluta attualità dell’ontologia di Hartmann non rappresenta per noi un criterio vincolante di riferimento. Tuttavia il riferirsi ad esso appare essere comunque utile dato che Hartmann come Smith si muove nel mondo della scienza empirica oltre che in quello della filosofia. E quindi la presa in considerazione dell’ontologia del primo può servire a due scopi: − 1) a valutare quanto giustificato e fondato sia l’impiego della sola antica ontologia da parte di Smith; 2) a valutare quanto appropriato sia l’impiego di concetti anti-metafisici allorquando ci si muove in un campo che riguarda la scienza empirica molto da vicino, e quindi tiene strettamente presenti i caratteri del mondo reale.
E nella nostra ricerca sono emersi alcuni interessanti elementi rispetto a questo.
Il riferimento all’ontologia di Hartmann è servito dunque a mettere in luce le molte insufficienze dell’ontologia di Smith; specie una volta che lo strato di essere sub-particellare viene considerato alla stregua del livello più basso dell’essere descritto da Hartmann ed inoltre una volta che si sia preso atto che in relazione a quest’ultimo è ingiustificato e falsificante ogni monismo in ontologia (ossia ogni tentativo di ridurre l’essere all’unità ricorrendo così ad una sola categoria). Riguardo al primo aspetto abbiamo visto che in alcune occasioni la responsabilità dell’errore non va attribuita a Smith ma invece agli stessi fisici quantici. Essi infatti abbastanza spesso – nel contesto di elucubrazioni filosofico-metafisiche costruite sulla natura e senso dello strato sub-particellare – finiscono per attribuire ad esso una confusa valenza spirituale-immateriale (a volte razionale e finalistica) credendo di esorcizzare così l’irrazionalità del comportamento delle sub-particelle. Ed in questo modo contraddicono apertamente la natura delle categorie che secondo Hartman caratterizzano lo strato più basso dell’essere.
Inoltre i fisici quantistici promettono anche addirittura (nelle versioni più esoteriche di queste elucubrazioni) – una volta considerato il mondo sub-particellare come l’essere per eccellenza (cosa comunque severamente condannata da Smith) – di assimilare questo infimo strato di essere a quello spirituale-immateriale che secondo Hartmann è caratterizzato dall’assoluta libertà e quindi dalla totale spontaneità con tendenziali inclinazioni creative. Lo stesso Smith comunque – sulla base di una visione onto-metafisica risalente a Platone – ritiene che le sub-particelle possano entrare nella costituzione delle entità corporali perdendo così tutta la loro irrazionalità ed assumendo così i caratteri di un oggetto che rappresenta l’intero essere, da quello supremamente spirituale a quello infimamente fisico. Inoltre colpisce negativamente anche la bizzarra distinzione istituita da Smith tra corporale e fisico (corrispondente a sua volta al mondo sup-particellare), laddove invece per Hartmann il fisico rientra insieme al corporale entro uno strato inferiore dell’essere che è unitario in quanto caratterizzato dalla concreta categoria della spazialità. Infine colpisce negativamente la davvero incomprensibile assimilazione smithiana del mondo sub-particellare all’estensione spaziale, laddove invece la corporalità sfuggirebbe ad essa. Cosa che risulta assolutamente inconcepibile entro l’ontologia di Hartmann, oltre che essere assolutamente illogica.
A controbilanciare queste osservazioni critiche negative viene però la saggia costatazione di Smith, secondo la quale l’intero campo della Fisica quantica non sarebbe altro che un costrutto ideologico per nulla autentico e perfino poco scientifico. Esso infatti appare essere il puro frutto della costruzione di strumenti che hanno realizzato la “caccia all’inosservabile” inaugurata dall’Illuminismo e dal Positivismo, e che poi trovò realizzazione nelle teorie di Einstein (che il nostro non esita a criticare apertamente). Da questo deriva che il mondo delle sub-particelle non è altro che l’artificio prodotto dall’osservazione da parte del soggetto umano, e quindi non ha alcuna oggettività così come alcuna consistenza ontologica. È insomma un puro mondo della fantasia. Ma questo dovrebbe significare che esso non ha nulla a che fare con il fisico che Smith stesso riconosce come reale in contrapposizione con il corporale (corrispondente comunque per lui all’autentico reale). Ed abbiamo visto che alcune specifiche affermazioni di Hartmann convergono con questo giudizio negativo sulla qualità della conoscenza dell’essere che viene perseguita dai fisici quantistici.
Oltre a ciò l’ontologia di Smith finisce per convergere addirittura con quella di Hartman nel considerare la corporalità come il puro e semplice «è» delle cose esistenti (da sempre riconosciuto dall’antica onto-metafisica) e quindi come il dominio del quantitativo. E peraltro con ciò si riaggancia la dottrina gnoseologica da lui esposta in QE, secondo la quale la conoscenza mette sempre capo ad un’oggettualità reale esteriore che è del tutto indipendente dalla coscienza [Wolfgang Smith, The quantum… cit., I p. 21-28, II p. 33-45]. E questa dottrina poi trova un riscontro ben preciso nelle estreme conclusioni di Hartman a NWO, laddove egli parla di una “conoscenza di essere” che vede la coscienza del soggetto unicamente attiva nel relazionarsi al mondo reale (invece di contenere essa stessa gli oggetti [Nicolai Harmann, Neue Wege… cit., XIII p. 98-106]. Rispetto a questo, quindi, le due ontologie si rivelano essere entrambe estremamente realiste. E questo ha un grande valore filosofico, tenuto conto dello squilibrio affermatosi in filosofia con l’eccessivo ontologismo.
Che conclusioni estreme è possibile dunque trarre da tutto questo?
L’ontologia invocata da Smith è senz’altro in gran parte arbitraria, sia perché essa semplifica ed a volte distorce complessi e profondi concetti dell’antica onto-metafisica (che forse il pensatore non conosce a fondo), sia perché considera come “ontologia” unicamente il mondo corporeo (affermando così un monismo che l’ontologia di Hartmann condanna severamente e con tutta la ragione), sia perché essa introduce una notevole confusione negli aspetti categoriali che invece Hartmann descrive con molto rigore e precisione. E questo dimostra che il confronto della sua personale ontologia con la nuova ontologia di Hartmann serve non poco allo scopo di lasciar emergere distorsioni concettuali estremamente rilevanti, che molto probabilmente inficiano quella di Smith in molte sue parti. Il confronto con la nuova ontologia serve inoltre anche a rendere estremamente problematica l’aspirazione si Smith a riempire le lacune della scienza empirica nel riferirsi ad un’antica ontologia che non solo è ormai tramontata nel mondo filosofico, ma che egli impiega anche in maniera spesso non solo distorta ma anche estremamente carente di profondità e complessità, e quindi in una maniera troppo semplificata. Cosa che inficia in partenza il suo progetto di riforma della conoscenza scientifico-empirica.
Ciononostante, però, egli conferma alcuni aspetti molto rilevanti della nuova ontologia realistica di Hartmann (specie la concezione dell’oggettualità e la teoria della conoscenza applicata ad essa) ed inoltre ha il grande merito di mettere in luce la totale insufficienza del nuovo tentativo di monismo unificante l’essere (peraltro radicalmente “dal basso”) che si è affermato nella Fisica quantistica nel contesto di un nuovo sforzo della scienza empirica di monopolizzare la conoscenza dell’essere. E questa condanna è ancora più giustificata tenendo conto del fatto che, come egli dice, l’intero edificio della Fisica quantistica risulta in definitiva un costrutto del tutto artificioso che è dovuto all’intervento intrusivo dell’uomo nell’essere per mezzo degli strumenti.
Pertanto ci sembra che – a causa di tutti questo motivi − sia ampiamente positivo il bilancio di questa ricerca, che non solo valuta criticamente in assoluto l’intendimento di ontologia impiegato da Smith, ma inoltre si sforza anche di valutarlo relativamente alla nuova ontologia oggi disponibile in filosofia.
Dunque, dal punto di vista che ci sta più a cuore (quello tradizionalista) possiamo concluderne che (anche aldilà dei presumibili obblighi imposti dalle rigorose precisazioni della nuova ontologia) l’impiego dell’antica ontologia, per contrastare le aspirazioni egemoniche della moderna scienza empirica, è assolutamente giustificato. A patto solo che si rinunci ad interpretazioni personali ed arbitrarie della disciplina e la si impieghi quindi nel pieno rispetto della sua effettiva profondità e complessità. Perché se non si fa questo si rischia di vedere dissolversi nell’insufficienza concettuale il proprio intero progetto.
Detto questo ribadiamo che comunque anche il valore dell’antica ontologia va considerato con prudenza, dato che essa (in maniera molto simile alla nuova ontologia) si è distaccata dalla propria fonte originaria (quella costituita dalla Scienza Sacra originaria e primordiale) facendo così risaltare un concetto di essere che pretende di ignorare la primarietà dell’essenza trascendente. E questa distorsione trova peraltro il suo estremo esito nell’equiparazione totale di Essere ed Essente che viene affermata dalla nuova ontologia di Hartmann.

(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Definire cosa sia una «filosofia religiosa» (FR) è in sé estremamente difficile. E, conseguentemente, lo è ancora di più definire se e quando essa sia davvero autentica. Inoltre, a queste difficoltà, si aggiunge il fatto che oggi si tende ad intendere la FR non solo nei modi più diversi ma anche intuitivamente molto inappropriati. Vedremo ad esempio che in genere si tende ad intendere come FR quella che è appena una filosofia della religione (FdR), cioè lo studio scientifico (in via di principio imparziale e quindi privo di fede) del fenomeno religioso.
A fronte di questo si può dire che FR (ed anche estremamente autentica) dovrebbe essere di fatto solo la teologia, e precisamente una teologia che, per perseguire i suoi fini specifici, si serva così tanto degli strumenti della filosofia da scegliere di essere di fatto «filosofica», ossia di basarsi sul filosofare stesso nella sua pienezza e appropriatezza. Questo però solleva una miriade di difficoltà che rendono in problema quasi impossibile da risolvere.
Diciamo subito però che in Bonaventura c’è la possibilità di trovare la soluzione quasi ideale a tutte queste difficoltà, dato che nessuno come lui sembra essersi posto il problema dell’assoluta necessità di una filosofia che fosse integralmente religiosa invece si essere semplicemente «pura». Vedremo però (specie nelle conclusioni) che questa nostra affermazione ha dei limiti ed inoltre che la costruzione di questa piena FR risente dei caratteri di un ambiente di pensiero che è stato unicamente quello medievale. E questo relativizza alquanto quella definizione bonaventuriana di FR che a prima vista sembra assoluta e paradigmatica. Il che pone poi il problema del se, dopo Bonaventura, ci siano state forme di FR davvero piene ed autentiche, e se esse siano costruibili ancora oggi. Vedremo tra poco che questo problema rinvia all’annosa (e mai risolta) questione della relazione tra Ragione e Fede.
Quali sono, comunque, le difficoltà sollevate dal porsi della teologia filosofica come autentica FR?
Il filosofare del teologo implica innanzitutto (per definizione ed in via di principio) l’abolizione totale dell’oggettiva differenza tra Ragione e Fede che invece lo stesso Bonaventura (riletto ed analizzato da Gilson in maniera estremamente approfondita sapiente) ammette ed accetta, sebbene tentando nello stesso tempo di risolverla nel senso della conciliazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura, Jaca Book, Milano 2017II p. 105-112]. E dobbiamo ricordare a questo punto che la riflessione filosofico-metafisica tradizionalista, basando il proprio filosofare sulle Verità assolute ed eterne contenute nella Rivelazione universale (detta “Scienza sacra” originaria, e considerata in realtà sovrumana ossia divina), ha affermato in effetti quella che è la vera definizione paradigmatica di FR. In essa infatti Ragione e Fede sono assolutamente una sola ed unica cosa [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72, 7, p. 101-131, 10, p. 145-156]. Anzi la Fede viene addirittura riassorbita interamente nella Ragione (meglio definita come Intelletto), dato che la relazione con Dio è vista come unicamente intellettuale e conoscitiva. Tale posizione potrebbe apparire a prima vista come equivalente a quella secolarista di Habermas, nella quale la Fede viene completamente ridotta a Ragione. Ma non è così perché in quest’ultimo caso la Ragione, riassorbendo la Fede, non si impregna di essa (ossia non diviene un conoscere religioso) ma invece la annienta. Nella visione dei pensatori tradizionalisti invece la Ragione cessa di essere a-religiosa ed immanente, e così, impregnandosi di Fede, diviene religiosa e trascendente. Cioè finisce per assimilarsi all’Intelletto divino.
In ogni caso si configura così una sorta di «intelligenza di fede»; che ha sempre una valenza tanto filosofica che religiosa, e quindi configura senz’altro un’autentica e salda FR – in essa in particolare tutte le verità sono insieme intellettuali e religiose. Del resto il riassorbimento totale della Fede nella Ragione esclude recisamente l’ammissibilità di una Fede presa in considerazione da sola, ossia un cieco ed unilaterale fideismo.
In ogni caso questa definizione tradizionalista di FR si rende non poco sospetta dato che essa prevede unicamente l’autonoma ascesa dell’Io umano al divino (nel corso una «teoresi filosofica» concepita soprattutto al modo del Neoplatonismo pagano) senza alcun intervento da parte di quest’ultimo, e soprattutto senza l’amoroso offrirsi discensivo di Dio alla conoscenza per mezzo della Grazia. In altre parole questa definizione di FR si pone largamente al di fuori della tradizione cristiana main stream, comparendo invece solo in forme di Cristianesimo eterodosso (se non eretico, come quello gnostico o simile), oppure ponendosi apertamente come neo-pagana. Menzioneremo diverse volte (attraverso i suoi esponenti) questo polo di pensiero e richiameremo la definizione con la quale spesso lo abbiamo designato: − «onto-intellettualismo». Con esso intendiamo un Essere divino-trascendente che equivale totalmente alla sostanza intellettuale. E quest’ultimo è stato teorizzato in campo cristiano in primo luogo da Eckhart [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, I, 6-10 p. 111-115]; però con la contemporanea teorizzazione di un auto-annientamento dell’Io umano perché Dio possa effettuare la sua discesa verso l’immanente (Amore, Grazia) rendendosi così conoscibile. Il che secondo lui è assolutamente impossibile in assenza dell’auto-annientamento dell’Io.
Ma prendendo in considerazione Habermas, vediamo una teologia realmente filosofica chiamata a sottomettersi per definizione al concetto filosofico moderno di «ragione», cessando così di fatto di essere una teologia vera e propria per trasformarsi davvero totalmente in una sorta di «teologia filosofica». La quale, a sua volta, ambisce ad essere molto più una filosofia (specie nel senso moderno del termine) che non invece una teologia. E così si dissolve per sempre la possibilità di una FR.
Da tutto ciò dobbiamo dedurre che – sebbene lo stesso Bonaventura si sia allineato prudentemente all’intero pensiero medievale nell’ammettere la distinzione da mantenere tra Ragione e Fede (sostanzialmente nel timore che la seconda svanisca nell’unirsi alla Ragione) – di fatto un’autentica FR non insorge mai se questi due elementi non si fondono completamente fra loro; come abbiamo visto avvenire solo nel pensiero tradizionalista. Questo, invece, non è di fatto mai avvenuto davvero integralmente nel pensiero cristiano, incluso quello di stampo platonico. Infatti una teologia filosofica come quella teorizzata da Habermas ha i caratteri della sola Ragione, e non quelli della Fede. E quindi non è per nulla una FR.
Eppure l’intero pensiero cristiano ha finito sempre per concepire una simile teologia – lui stesso lo sottolinea [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, Feltrinelli, Milano 2022, Prefazione p. 1-8] −, vedendosi così non poche volte costretto a considerare l’ambito della Fede come completamente separato da quello della Ragione, e quindi vedendosi costretto a smantellare tanto la teologia filosofica quanto la possibilità di una FR. Pertanto il titanismo dell’Io (nella conoscenza di Dio) è uno svantaggio del pensiero tradizionalista che però viene controbilanciato decisamente dalla sua capacità di porre le condizioni davvero ideali per una FR.
Vi è poi la presa di posizione dell’intero razionalismo metafisico (che Malebranche rappresenta in pieno), secondo il quale la FR più autentica non sarebbe altro che una metafisica totalmente assimilata alla più pura filosofia, e secondo la quale Dio non sarebbe altro che l’estrema istanza della conoscenza, ossia il luogo dei cosiddetti “principi primi”. Laddove invece Bonaventura (per bocca di Gilson) ci dimostra che questa non è per nulla una vera metafisica religiosa ma è invece nient’altro che una filosofia pura rivestita di una veste metafisica [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128, IV p. 139-140]. In essa infatti Dio non è altro che il supremo luogo della Ragione intesa in senso unicamente umano e quindi naturale.
Ebbene, se si resta intrappolati entro questa serie di difficoltà non si riuscirà mai a districare la complessa matassa, e quindi non si riuscirà mai a definire cos’è una FR e quando essa sussiste realmente ed è davvero autentica. Eppure Bonaventura (almeno secondo Gilson ed almeno parzialmente, ossia formalmente) sembra essere stato capace di riuscire in questo intento.
E quindi la sua riflessione ci servirà come guida per poter definire una FR – sebbene tutti i limiti (prima menzionati) che essa comunque avrà. È vero infatti che anche per lui quest’ultima non è altro che una teologia filosofica (entro la quale Ragione e Fede sono insieme unite e distinte). Ma nello stesso tempo non lo è affatto nel senso che oggi (per esempio in Habermas ed inoltre nell’estremamente ricca attuale riflessione «scientifico-teologica») viene dato al termine. Essa è infatti un filosofare che prende le mosse dalla più alta Verità oggettiva (Rivelazione cristiana) per poi ritornare ad essa (dopo aver compiuto pienamente il suo usuale percorso) dando così compimento alla la più alta aspirazione della filosofia, e cioè giungere al possesso pieno della Verità. E, come poi vedremo, qui la via per giungere a questo risultato non è altro che il Cristo stesso offerentesi come la più piena Verità.
Su questa base condurremo la nostra riflessione, che si baserà quindi sostanzialmente su cinque testi: − Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura (LFB) [Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura…cit.], Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911], Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999], Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991], Jürgen Habermas, una storia della filosofia (USF) [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit.].
Per poter utilizzare il contenuto dei testi di Malebranche e Habermas cercheremo in un primo paragrafo di specificare più dettagliatamente il concetto di FR che può venire derivato dalle loro riflessioni.

Tuttavia, in base a quanto abbiamo accennato più su riguardo al pensiero tradizionalista, altro nostro scopo in questo articolo (oltre quello di rintracciare la definizione di FR) è quello di riprendere una problematica metafisico-conoscitivo che abbiamo già trattato in altri scritti e che riguarda sostanzialmente la potenza straordinaria della conoscenza intellettuale. Ebbene Bonaventura stesso concepisce qualcosa di simile nel considerare pienamente possibile la conoscenza di Dio. Tuttavia egli assegna precisi limiti a questa conoscenza, e quindi pare differenziarsi non poco dai moderni pensatori tradizionalisti, i quali hanno visto nella conoscenza intellettuale di Dio (CIAD) una forma di conoscenza che non ha alcun limite e che (come abbiamo già visto) costituisce anche il corpo stesso di una FR senz’altro ideale e paradigmatica.
Con ciò appare dunque chiaro che le due problematiche – FR e conoscenza di Dio – sono strettamente intrecciate tra loro. Non sembra essere dunque un caso il fatto che Bonaventura (differenziandosi da moltissimi pensatori della sua epoca), nel mentre concepì la pienezza della FR, fu anche uno dei pochi che ritiene pienamente possibile la conoscenza di Dio da parte dell’uomo.
Le uniche eccezioni appaiono essere qui gli averroisti. I quali, nel concepire un Intelletto divino-trascendente impersonale che supera ogni altro intelletto (situato a livello ontologico più basso), di fatto abbraccia totalmente in sé questi ultimi, e quindi rende in tal modo possibile la conoscenza di Dio in una maniera però solo passiva e indiretta.
In ogni caso – anche se in alcun modo si potrebbe dire che Bonaventura è assimilabile al moderno pensiero tradizionalista – si può dire che la sua riflessione sulla FR e sulla conoscenza di Dio tende ad appaiarsi in modo estremamente suggestivo a questa sfera di pensiero, che intanto però non può in alcun modo venire inclusa nella tradizione cristiana. Paradossalmente però essa ci offre una definizione di FR che appare essere la più impeccabile, completa ed autentica.

1- La FR secondo la moderna FdR e secondo la metafisica razionalista del XVIII secolo.
Menzionando queste due possibili istanze di giudizio sulla religiosità della filosofia, abbiamo in realtà preso in considerazione un orizzonte estremamente ampio ed estremamente eterogeneo di riflessione filosofica.
La moderna FdR è infatti un fenomeno dominato (più o meno, a seconda dei vari pensatori e delle varie aree) da laicismo, scetticismo e perfino ateismo, ossia è una filosofia a-religiosa o anche addirittura apertamente anti-religiosa. Ed è paradossale che questo atteggiamento venga oggi condiviso perfino da molti teologi nel concepire una sorta di moderna «religiosità senza religione» i cui caratteri principali vogliono essere quelli dell’immanenza secolare, della pura storicità ed umanità (con l’abolizione definitiva di ogni pretesa di trascendenza e sovrannaturalità della relativa istituzione). Caratteristico in questo senso è lo sforzo di moltissimi moderni teologi cristiano-cattolici rivolto a superare il teismo nel concepire una del tutto nuova religione «post-teista» − menzioneremo a tale proposito una ricchissima letteratura che però non è altro che un campione di una messe davvero sterminata di articoli che intanto cresce sempre più nel tempo [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417; Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-89; Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191; Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571; Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338; Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in: Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194]. E tutto questo ha come conseguenza che la stessa dimensione specificamente confessionale ed istituzionale delle varie dottrine religiose perde autenticità, valore ed anche credibilità.
In tal modo, peraltro con la premessa del massimo valore attribuito alla dimensione ecumenica (ritenuta a sua volta perfettamente parallela ad un globalismo accettato come dato di fatto incontrovertibile), si tende ormai a concepire la religione come un mero atteggiamento (appena naturale e fisiologico) dello spirito umano (o meglio della mente umana), che si traduce a sua volta in strutture istituzionali per definizione assolutamente secondarie e deboli (in quanto a ruolo e valore) dal punto di vista religioso, dato che esse sarebbero state erette nel tempo su basi assolutamente inautentiche e quindi inconsistenti.
Va notato inoltre che tale ridefinizione decostruttiva della religione non può essere altro che l’opera di osservatori del tutto esterni al fenomeno religioso. Essi sono insomma dei pensatori che si pongono nella posizione di «filosofi della religione», e quindi nella posizione di studiosi imparziali che in via di principio non professano alcuna fede né sono in alcun modo coinvolti nelle strutture e nella vita che caratterizzano la fede stessa. Ebbene, in questo modo non può configurarsi in alcun modo una «filosofia religiosa» (FR), ma invece solo una «filosofia della religione» (FdR), ossia una scienza della religione che (almeno in via di principio) è assolutamente priva di fede. Alla FdR si affiancano poi altre pure scienze empiriche (imparziali e scettico-atee) del fenomeno religioso (caratterizzate dallo stesso atteggiamento): − psicologia, sociologia etc. Ed in tal modo potremmo dire che ancora una volta Ragione e Fede vengono fuse tra loro. Non però al modo dei pensatori tradizionalisti (i quali riassorbono la seconda nella prima), ma invece con la totale abolizione della Fede a favore del prevalere assoluto della Ragione. In altre parole il definitivo e completo trapasso della FR in FdR coincide storicamente con la scomparsa di fatto della religione (ossia della Fede). Cosa che poi va di pari passo con il progressivo sgretolarsi e dissolvere di quasi tutte le istituzioni e strutture religiose.
Intanto è veramente paradossale (se non scandaloso) che questo atteggiamento verso la religione venga condiviso anche dagli stessi teologi confessionali. Non a caso essi hanno dato vita ad una ormai rigogliosissima ricerca «scientifico-religiosa» nel contesto della quale la riflessione teologico-filosofica non prende più a proprio riferimento normativo il contenuto delle Scritture (Rivelazione con relative Verità di fede) ma invece unicamente i risultati della scienza sperimentale empirica (specie quella cognitiva). Secondo la quale la dimensione religiosa non è altro che un aspetto naturale della funzione mentale senza alcun relativo oggetto reale connesso, ossia senza l’esistenza di alcun Dio. A proposito del post-teismo abbiamo citato molte voci della vastissima letteratura nata ad opera di questi teologi uniti ai filosofi.
Inoltre abbiamo già commentato i caratteri di questo scenario di riflessione attraverso diversi nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e una filosofia integralmente religiosa”, Dialeghestai, Dic 2023; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. Ebbene Habermas ci offre indubbiamente un nuovo angolo visivo dal quale osservare questo complessivo fenomeno. È certo però che anch’egli non fa altro che descrivere il moderno fenomeno della FdR.
La sua presa di posizione parte però sostanzialmente da una ri-definizione della filosofia stessa, alla quale vengono attribuiti i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 9-27]. Specialmente questo ultimo carattere di fatto spazza via definitivamente qualunque possibilità che la filosofia sia religiosa, e (come abbiamo visto) anche qualunque possibilità che esista una religione. Nello stesso tempo, indirettamente, Habermas sostiene con tutto ciò che, entro tale contesto, la religione deve definitivamente rassegnarsi a rientrare nei limiti di quella “vita razionale”; limiti entro i quali rientra anche la filosofia insieme a qualunque altra disciplina. Questo significa che, esattamente come la filosofia, la religione stessa può sussistere oggi solo e soltanto se ha i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità. Che poi di fatto non sono altro che i caratteri di una sua totale assenza. È evidente che ciò impedisce alla religione di coltivare studi metafisici e di associarsi a scienze metafisiche. E questo implica che la dimensione del Sovrannaturale deve svanire totalmente dal suo ambito.
Questa è la sola forma di religione che ormai venga ammessa dagli intellettuali e quindi dalla Cultura stessa. E quindi ciò rafforza l’ipotesi che avevamo avanzato prima: − non vi è oggi alcuno spazio per il sussistere di una FR.
Tale fenomeno rientra poi nella comune totale soggezione della filosofia e della religione alla scienza sperimentale ed empirica, che Habermas ritiene un fenomeno talmente normale da non aver bisogno di venire assolutamente discusso. In altre parole la filosofia è inevitabilmente scientifica, ed in qualche modo lo deve essere anche la stessa religione. Dobbiamo far notare che nel corso del XX secolo pensatori come Berdjaev e Jaspers si erano opposti decisamente a questa concezione della filosofia, ed inoltre avevano anche sostenuto la piena legittimità dell’esistere di una metafisica [Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Wel der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I,1 p. 11-38; Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956, IIC, I-II p. 160-188]. Sebbene per Jaspers la dimensione metafisica è pienamente immanente, corrispondendo a quell’”Omnicomprendente” (Allumafassende) che ci circonda da ogni parte come un Tutto, e nel quale siamo completamente immersi in modo che esso di fatto ci trascende come enti finiti, e precisamente al modo di un vero e proprio «oltre» che ci rinvia costantemente oltre le apparenze sensibili.
Tuttavia nemmeno una metafisica così poco ambiziosa ha più diritto di cittadinanza in filosofia e religione. E quindi, evidentemente, l’opposizione critica di pensatori come questi non ha cambiato affatto il corso delle cose. Il mondo ha infatti continuato la sua inarrestabile marcia, molto genericamente «razionalista» e scettica, verso la distruzione della religione e della metafisica.
Eppure Habermas insiste continuamente sul fatto che è sempre esistita (e continua ancora oggi ad esistere) una profonda affinità tra filosofia e religione [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., Prefazione p. 1-8, I, 2, 2-p. 60-92, I, 3, 1-2 p. 95-116, II, 1, 1-4 p. 168-277, 1 p. 421-424]. Anzi in realtà questa è una sua tesi centrale, dato che il suo discorso al proposito si prolunga in tutto il saggio esaminando la religione dai più diversi punti di vista e nei più diversi contesti (incluso quello della FdR). Per cui è impossibile riportarlo per intero nello spazio di questo articolo. In generale però egli vede nella religione un fenomeno sostanzialmente inautentico, in quanto esso sarebbe apparso insieme alle grandi immagini del mondo (tutte falsificanti per quanto possenti) che sono insorte nell’”età assiale”, ossia alla radice delle grandi Civiltà planetarie nel contesto delle quali è nata di fatto anche la filosofia. E per questo il discorso religioso si è presentato fin dall’inizio come pensiero connesso intimamente al pensiero filosofico. Tuttavia egli ritiene anche che il possibile valore attuale della religione (proprio nel tenere conto delle sue profonde consonanze con la filosofia) si riassuma nell’ipotesi che essa sia sempre stato sempre nient’altro che uno dei tanti fenomeni dello “spirito oggettivo”, e quindi abbia sempre avuto una valenza sostanzialmente sociale e culturale (molto più che gnoseologica ed anche autenticamente religiosa). È evidente quindi che egli attribuisce al fenomeno religioso un valore solo nella misura in cui esso viene inteso in modo riduzionistico e demistificante – il che significa innanzitutto che nel suo contesto non si manifesta affatto l’evidenza di Dio. Anche se esso appare essere ancora oggi associato intimamente alla filosofia. E ciò ovviamente non implica assolutamente l’insorgere di una FR, ma al massimo invece di una FdR per definizione atea, scettica e critica.
Comunque proprio su questa base egli sostiene che le due discipline alla fine condividono i tre fondamentali ed obbligatori caratteri (modernità, secolarità e post-metafisicità) che una moderna razionalità deve necessariamente avere. Tale razionalità non è più infatti nemmeno quella kantiana, che intanto aveva impregnato di sé la “filosofia del soggetto” (nel corso del XIX secolo e parte del XX) [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 17-26, I, 1 p. 27-59, I, 4, 3 p. 145-152, 3 p. 429-435]. Non è cioè la Ragione umana trasformata in istanza trascendente, assoluta ed universale. È invece una razionalità profondamente intrecciata alla più immanente e relativa dimensione antropologica e storica, e quindi reca impressi in sé i caratteri della società e della cultura locali. In altre parole essa si presenta in una veste decisamente relativa, che quindi trascina nel relativismo tutto ciò che le si sottomette, specie filosofia e religione.
La razionalità è insomma per Habermas un fenomeno sostanzialmente umano in quanto sociale, storico e culturale. In questo senso la dimensione gnoseologica diviene decisamente secondaria rispetto a questi due ultimi aspetti.
Abbiamo in tal modo ricostruito sinteticamente i caratteri dello sguardo che oggi l’intera filosofia post-moderna (unita alla stessa teologia di punta) getta sulla FR. Ed abbiamo mostrato che si può ben dire che si tratta appena del punto di vista di una generale FdR – sebbene focalizzata sulla dimensione sociale-culturale (e dunque ermeneutica e comunicativa) del pensiero umano.
Questo è il primo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo ed è evidente che per esso non esiste né può esistere alcuna vera FR, ma invece appena qualcosa che pretende illegittimamente di esserlo. Infatti la filosofia secolare non può assolutamente ospitare in sé contenuti autenticamente religiosi (come dottrine metafisiche, fede nel Sovrannaturale e nell’Invisibile etc.), dato che essi contraddicono frontalmente la razionalità. E nello stesso tempo la religione (inclusa la teologia) non può in alcun modo essere «filosofica» senza doversi intanto sottomettere alle norme logico-filosofiche che le rendono assolutamente impossibile essere un’autentica FR. E così essa non può essere altro che una FdR. Ma abbiamo visto che quest’ultima cessa perfino di essere una religione.
Tuttavia veniamo ora al secondo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo, ossia la complessiva presa di posizione di quella metafisica razionalista del XVII secolo che trovò uno dei suoi vertici in Malebranche. A prima vista questo punto di vista non ha assolutamente nulla a che fare con quello di Habermas e della complessiva FdR. Non fosse altro che perché essa è e vuole essere espressamente una metafisica, e precisamente una metafisica religiosa. Ma non si deve dimenticare che questa riflessione volle fondare una metafisica appunto «razionalistica», e quindi una scienza secondo la quale il supremo Trascendente e Sovrannaturale (Dio) non era altro che la Ragione umana una volta universalizzata ed assolutizzata. In essa Dio non è dunque altro che il luogo supremo dei “principi primi” razionali che regolano la conoscenza dell’essere [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit., I, 163-168, p. 47-53; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, III, p. 44-67].
Per questo tale metafisica fu sostanzialmente una gnoseologia (dalla vaga veste religioso-cristiana), mentre non fu in alcun modo una sorta di onto-metafisica, ossia una metafisica dell’essere (com’era stata esemplarmente quella di Aristotele). In altre parole essa costituì una sorta di divinizzazione della mente umana razionale nel suo rinchiudersi in sé stessa ed osservare il mondo esteriore unicamente attraverso il filtro dei principi razionali essi stessi divinizzati. Lo scopo di questa osservazione «da dentro» fu poi principalmente quello di purificare razionalmente i selvaggi e caotici oggetti esteriori (gli oggetti della Natura) per trasformarli in perfetti intelligibili, cioè in idee di cose. Solo in questo modo si pensava infatti che il mondo potesse venire davvero compreso. Ed infatti l’attività conoscitiva che fu qui all’opera fu una sorta di scienza della Natura resa infallibile e perfetta (in particolare la Fisica matematica) dall’applicazione ad essa di una filosofia rigorosamente razionalistica. Il cui aspetto religioso è comunque assolutamente secondario.
In questo senso – per quanto ciò possa sembrare strano − tale visione filosofica ha anticipato piuttosto suggestivamente i caratteri che secondo Habermas competono oggi obbligatoriamente alla filosofia ed alla religione, e cioè modernità, secolarità e post-metafisica. Infatti la stessa dimensione secolare viene fortemente rappresentata in questo tipo di riflessione filosofica dal fatto che in essa la metafisica è fortemente vincolata agli oggetti reali, e più precisamente quelli estremamente puri e indubitabili che vengono concepiti dalla scienza fisico-matematica [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, IV, 393-395, p. 39-40, I, 263, p. 70, III, 420-421, 425-426, p. 99-102; [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., 2, p. 22-43, 3 p. 44-67; Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Questa presa di posizione trova una fortissima affermazione in Malebranche (il quale fu in definitiva un filosofo della Natura) ma del resto anche in altri pensatori metafisici dell’epoca come Suarez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011], e naturalmente lo stesso Leibniz (sebbene nel contesto di una visione molto più complessa e completa dal punto di vista religioso). È evidente comunque che Malebranche concepisce unicamente una religione rigorosamente razionale. Ed essa quindi anticipa fortemente i caratteri che per Habermas dovrebbe avere la religione moderna e secolare. Non a caso in Malebranche sembra solo apparentemente che vi sia una metafisica, ma di essa non vi è invece alcuna traccia.
Ora, una volta detto tutto questo, è evidente che, anche partendo da questo punto di vista, non può in alcun modo sussistere una FR. Non può sussistere per diversi motivi: − 1) perché la metafisica religiosa concepisce Dio quasi allo stesso modo della Ragione umana universalizzata ed assolutizzata (ossia unicamente come un’istanza gnoseologica sebbene trascendente e divina); 2) perché la metafisica nel suo complesso è fortemente vincolata agli oggetti sensibili, sebbene trasformati in puri intelligibili (tra i quali quelli colti dalle scienze fisico-matematiche); 3) perché queste due prese di posizione escludono decisamente che tale metafisica prenda in considerazione in divino come ente sovrannaturale e come vero Spirito, cioè in sintonia con quanto è contenuto nella Rivelazione; 4) perché questo genere di metafisica non solo è essa stessa una scienza empirico-naturale ma sta anche in profonda sintonia con quest’ultima.
L’unico aspetto che manca qui è quello di una esplicita presa di posizione filosofico-teologica che ponga sé stessa come scienza imparziale della religione, ossia la FdR. La metafisica razionalista ebbe infatti per davvero l’ambizione di rappresentare (e anche difendere apologeticamente) la religione stessa, e precisamente quella cristiano-cattolica, e pertanto volle essere una vera e propria FR. Ed in effetti, se davvero bastassero le sue riflessioni e proposizioni per configurare una FR, in tale pensiero quest’ultima potrebbe e dovrebbe venire rintracciata. Ed invece le cose non stanno affatto così. Nel complesso infatti l’esistere di una FR viene decisamente escluso dalla rigorosa razionalità (peraltro immanentista e scientista) che questa visione filosofica pretende che la religione debba avere.
A questo punto dovremmo però dire più esplicitamente quali sono i caratteri specifici di un’autentica FR. Essi sono in parte già emersi (sebbene quasi solo in negativo) nel corso dell’analisi che avviamo fatto. Ma il nucleo di questi caratteri emerge in maniera chiarissima e forte (e peraltro in positivo) proprio nella riflessione di Bonaventura – un’autentica FR è in primo luogo quella che, nel suo filosofare, parte dai contenuti della Rivelazione, ossia le Scritture (supreme Verità oggettive), e ad essa poi ritorna nel trovare così compimento alla propria opera; ossia nel fare ciò che a cui ambisce ogni filosofia, ovvero trovare la verità. In assenza di questo primario carattere non sussiste alcuna FR – sebbene abbiamo visto che essa può sussistere in una maniera molto forte (pensatori tradizionalisti) oppure meno forte (Bonaventura).
Vedremo che questo comporta poi tutta una serie di ulteriori caratteri tipici di una FR. Ma, invece di metterci noi stessi ad argomentare su questo piano, lasceremo il campo per questo all’esposizione del pensiero di Bonaventura che è stata fatta da Gilson.

2- La definizione di FR emergente dal pensiero di Bonaventura.
La posizione estremisticamente religioso-filosofica assunta da Bonaventura (configurante una FR non solo autentica e piena ma anche esemplare) è piuttosto intuitiva per chi aspira a questo genere di disciplina.
Pertanto non solo è prevedibile nei suoi aspetti ma è anche necessariamente affatto unica. Abbiamo infatti in più sedi sostenuto che essa si ritrova in tutti i pensatori di quella che abbiamo definito come «linea platonica» dei pensatori cristiani (con vertice in Origene, Agostino, Dionigi l’Areopagita, Scoto Eriugena, Meister Eckhart e Cusano). E del resto anche Gilson identifica proprio questa linea nella sua storia del pensiero cristiano [Etiénne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, IV-V p. 265-363]. Lo fa però nel focalizzarsi specificamente sull’epoca decorrente tra XI e XII secolo, e menzionando soprattutto i pensatori della Scuola di Chartres (tra i quali in particolare Giovanni di Salisbury), oltre che una serie di pensatori fortemente speculativi (come Bernardo di Clairvaux, Guglielmo di San Teodorico, Ugo da San Vittore etc). Inoltre egli specifica che l’opera di questi pensatori fu quella di opporsi al riduzionismo logico dei dialettici (come Gerardo di Czanad e Pier Damiani). E dietro questi ultimi vi è senz’altro l’intero movimento aristotelico di pensiero (con al vertice Tommaso d’Aquino e Alberto Magno), che Gilson critica apertamente nel parlare di Bonaventura. Certamente la stagione di questi ultimi pensatori fu successiva (XIII secolo) a quella menzionata da Gilson, ma comunque raccolse molti frutti del pensiero dei secoli antecedenti.
Vedremo però che l’appartenenza di Bonaventura alla corrente platonica dei pensatori cristiani solleva non poche difficoltà dopo che si è compreso a fondo il suo pensiero, oltre la che la sua definizione di FR. Discuteremo queste difficoltà nelle conclusioni. Vedremo però soprattutto che senz’altro Bonaventura può venire considerato parte della linea di pensatori cristiani che abbiamo appena menzionato, sebbene quasi mai in linea con un davvero pieno ed integrale platonismo.
In ogni caso, una volta specificato questo, il paradigma estremamente generale di un’autentica FR appare essere quello da noi già menzionato – un filosofare che trova nella Rivelazione gli oggetti da indagare (le possibili verità) e sempre in essa poi li ritrova (una volta elaborati completamente) anche alla fine del suo percorso. In altre parole questa filosofia parte dalle supreme Verità religiose per poi pervenire infine a Dio stesso quale suprema e unitaria Verità.
In qualche modo fanno qualcosa di simile anche pensatori come Agostino (considerando la Trinità come il modello stesso della realtà e soprattutto della mente ed anima umana), Scoto Eriugena (riflessione sulle quattro divisioni dell’Essere a partire dal livello creante e increate ossia dal mondo divino), Dionigi l’Areopagita (nel considerare compiuta la conoscenza di Dio ben oltre il livello sensibile e simbolico, e quindi nel pieno di supreme Verità che non conoscono alcuna contraddizione logica), e Meister Eckhart (considerando il mondo delle Verità ultra-logiche, mondo della Grazia, come in continuità ininterrotta con il mondo sensibile, ossia il mondo della Natura). Tuttavia – stando almeno a quanto dice Gilson – una chiara ed esplicita formulazione della FR si ritrova in primo luogo in Bonaventura.
Cercheremo quindi di evidenziare gli aspetti principali di questa visione, ponendoli volta per volta in correlazione con la negazione della FR che abbiamo riscontrato in Habermas, nella FdR e in metafisici razionalistici come Malebranche.
Tuttavia la ricchezza estrema degli aspetti del pensiero bonaventuriano che vengono evidenziati da Gilson ci rende impossibile trattarli tutti. Per cui questo articolo non può certo sostituire la lettura del libro.
Il nostro scopo è appena quello di isolare e discutere alcune delle questioni che il pensiero di Bonaventura solleva.

2.1 La definizione di filosofia e di FR.
La definizione bonaventuriana della filosofia si colloca entro l’aspirazione della Chiesa cristiana (maturata appunto nel XIII dopo la definitiva ammissione dell’aristotelismo come modello unico di pensiero e l’esclusione di ogni platonismo) a costruire un’unica filosofia, strettamente unita alla teologia, con l’ambizione di raccogliere l’intera conoscenza delle cose (e quindi ontologica in senso enticista, cosmologico, naturalista ed immanentista) escludendo intanto la validità di qualunque altra filosofia (che essa fosse pagana o cristiana) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XXV]. ll paradigma di questa filosofia venne poco a poco considerato quello scolastico, con vertice in Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno.
E questa fu poi la presa di posizione ri-attualizzata dall’enciclica “Amore Patris”, di Leone XI, che diede successivamente vita al movimento neo-scolastico e neo-tomista verso la fine del XIX secolo. Ma con questa presa di posizione era ed è connessa anche la dogmatica e inflessibile separazione tra filosofia (Ragione) e teologia (Fede), la cui affermazione venne e viene attribuita unicamente a Tommaso, tanto che la visione di Bonaventura è stata considerata da alcuni una teologia e non una filosofia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XLII]. Insomma è come dire che, qualora il pensiero abbia un contenuto intensamente religioso e soprattutto si rifaccia alla Rivelazione (quale oggetto della propria riflessione), esso non può affatto venire considerato una filosofia, ma invece appena una teologia. Diversamente invece – ossia se il pensiero impiegato dalla teologia si muova esattamente come l’usuale filosofia (e quindi in forza della Ragione naturale) – esso costituisce una teologia filosofica.
Ed a quest’ultima aspirò esattamente Tommaso. Non più che a questo. Ma non Bonaventura! Egli aspirava − e peraltro con coriacea convinzione ed estrema forza – ad una vera e propria filosofia che contenesse oggetti religiosi e partisse dalla Rivelazione per poi ritornare ad essa come Verità assoluta divina; ma intanto non per questo mancasse di costituire una vera e propria filosofia senza essere invece appena una semplice teologia.
E ciò per lui avviene semplicemente perché questa forma di pensiero non si serve affatto della Ragione naturale, la quale appena è capace di conoscere le cose sensibili esteriori ed anche le cose interiori [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135]. Essa si serve invece di quell’Intelletto umano (che ontologicamente è intelligibile tanto quanto quello divino, sebbene su scala decisamente minore), che ha come propri oggetti solo quelli sovrannaturali, ed in maniera massima, Dio stesso. Qui l’intelletto umano appare dotato di una capacità di penetrazione nella realtà divina che deve essere senz’altro profondamente intuitiva.
E questo è esattamente quanto sostenuto da pensatori tradizionalisti come Frithjof Schuon nel contesto di una descrizione della conoscenza di Dio che non è affatto solo cristiana ma anche pagana [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza… cit., 2-3, p. 23-52, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72]. Il che avviene poi a causa di una capacità funzionale tipica dell’Intelletto (ma non della Ragione) che è quella di constatare sempre ed immediatamente l’esistenza oggettiva di oggetti. In maniera abbastanza simile si è espresso George Vallin, sebbene sottolineando molto più di Schuon la necessità che la CIAD fosse puramente intellettuale (“via di gnosi”) e per nulla fideistica (“via d’amore”) [Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012]. Il che significa che per lui l’atto dell’unione mistica a Dio (dominato com’è dalla fede e dall’amore) non rappresenta affatto una CIAD. Approfondiremo poi più avanti questo tema.
A prima vista insomma le due prese di posizione sembrano sovrapponibili. Soprattutto si è indotti a pensare che entrambe considerino l’Intelletto una facoltà che è capace di penetrare interamente la realtà divina.
Vedremo però poco a poco che non fu affatto così in Bonaventura. Né fu così per gli altri pensatori cristiani prima menzionati, con la sola eccezione (forse) di Dionigi, Eckhart e probabilmente anche Cusano.
Del resto non a caso Schuon parla dell’Intelletto come di una sorta di straordinaria forza di penetrazione nelle tenebre della realtà divina. Bonaventura ne parla invece appena come istanza di “promozione” dell’anima quale realtà intelligibile nella quale Dio da sempre soggiorna come idea. E questo poi lascia delineare (per contrasto) un altro notissimo aspetto della visione scolastica e tomista, ossia la distinzione tra l’ambito della teologia razionale e naturale (oltre che della filosofia) dall’ambito della teologia mistica. La prima infatti si limiterebbe a conoscere gli effetti della creazione divina, ossia le creature sensibili, mentre soltanto la seconda conoscerebbe Dio. Lo conosce però in maniera così oscura e confusa da non poter costituire su questo né una filosofia né una teologia razionale. Questo è infatti appena l’ambito della fede e soprattutto dell’esperienza mistica, ed esso venne considerato travalicate decisamente la sfera di azione della Ragione. Ma va intanto notato che Dionigi l’Areopagita è stato un pensatore cristiano che (specie nella sua riflessione sul Nome divino e nel contesto della sua “teologia mistica”) ha considerato possibile pienamente la conoscenza di Dio proprio in questo ambito tenebroso a causa del fatto che in esso non esiste logica e quindi non esiste alcuna definizione positiva di Dio per mezzo di attributi [Beate Beckmann, Einführung, in: Edith, Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, Herder, Freiburg Basel Wien 2003, 6 p. 15-19; Dionysius Areopagita, Von den göttlichen Namen (Übersetzt von Edith Stein), ibd. p. 85-157; Dionysius Areopagita. Mystische Theologie (Übersetzt von Edith Stein), ibd, p. 245-250; Dionigi L’Areopagita. Von dem Namen zum Unnenbaren. Johannes Freiburg 2002]. Insomma è il classico ambito, questo, della cosiddetta teologia negativa o apofatica. Che però non è l’ambito dell’indebolimento della conoscenza di Dio bensì semmai quello del suo straordinario rafforzamento. E recentemente questa è stata la presa di posizione anche dello studioso Bruno Bérard, il quale addirittura afferma che non vi è vera conoscenza di Dio senza penetrare nei misteri anti-logici che ne costituiscono la natura [Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021]. Possibilità che invece, come vedremo, Bonaventura nega recisamente, dato che per lui la conoscenza di Dio è chiara e non oscura. Ed in questo egli resta in linea con la maggior parte della riflessione teologico-metafisica cristiana, che davvero poche volte (con pensatori come Dionigi e Bérard) ha osato concepire una conoscenza di Dio oltre i limiti della teologia razionale. Con l’eccezione dei mistici, i quali però hanno sempre rinunciato per definizione a qualunque forma di indagine filosofica, limitandosi invece a mettere per iscritto in maniera meditativa le loro esperienze di relazione con Dio (vedi Teresa d’Avila e Juan de la Cruz).
Ciò non toglie che comunque il concetto bonaventuriano di conoscenza di Dio sia almeno prossimo a questa complessiva sfera di pensiero. Essa non prevede certo una conoscenza di Dio che consista nel coglimento dei misteri che ne costituiscono la “natura”, ovvero l’essenza. Egli ha sottolineato invece semmai la certezza assoluta (in quanto indubitabile) della conoscenza di Dio come oggetto, e quindi la sua assoluta chiarezza. Il che implica la conoscenza certa di alcuni suoi aspetti specifici: − l’esistenza, l’idea di Dio presente nella mente umana (intuita in modo da tutti in modo immediato ed incondizionato), l’essere Causa prima degli enti causati, o creature [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 120-123]. Tutti questi aspetti rappresentano per il pensatore un’”evidenza” assoluta di Dio come oggetto, che (pur essendo Egli altissimamente intellettuale in quanto ente intelligibile) sfiora quasi la conoscenza sensibile (quanto a chiara e piana indubitabilità). Ed inoltre le dottrine coinvolte in questi aspetti della conoscenza di Dio costituiscono per lui quella che è anche l’unica “vera” metafisica che ci sia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 139-140]. Non lo è invece per lui assolutamente quella che cerca di penetrare i misteri divini, i quali sono a suo avviso (in quanto “natura” di Dio) davvero non alla portata della nostra conoscenza. In questo, come abbiamo visto, egli cozza decisamente con pensatori come Dionigi, Schuon e Bérard. Ma intanto – dall’altro versante filosofico-religioso e metafisico – la sua visione si differenza ancora più nettamente dall’idea tomista della conoscenza di Dio, che viene intellettualisticamente costruita per inferenza (per mezzo degli strumenti logici della filosofia aristotelica) a partire dalle creature sensibili, e quindi sussiste solo in quanto “analogia”, e pertanto di fatto solo metaforicamente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128]. Conseguentemente Tommaso deve considerare la conoscenza di Dio come qualcosa di irreale di fatto. Riprenderemo poi alcuni di questi aspetti più avanti.
Tutto ciò fa sì che (secondo Gilson) la filosofia tenda per Bonaventura invariabilmente verso una “contemplazione” che è sempre “ritorno a Dio” e quindi costituisce insieme un’esperienza di conoscenza ed anche di fede; senza alcuna contraddizione tra i due termini [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III p, 68-71]. Ma oltre a ciò essa procura anche la “pace” e precisamente quella indecifrabile pace che Gesù aveva sempre promesso, identificandola con sé stesso, senza però mai spiegare cosa esattamente fosse.
Essa è evidentemente la contemplazione di Dio stesso (e quindi del mondo perfetto) in ogni cosa ed in ogni evento mondano; con la conseguenza che nulla può più può turbare l’uomo.
Ebbene Bonaventura (secondo Gilson) comprese che tutto ciò costituiva l’”illuminazione divina”, e quindi un qualcosa che è comunque gnoseologico anche se resta unito intimamente all’esperienza di fede più intensa possibile. È, diremmo, non un oggetto di pensiero qualunque, ma invece Gesù stesso come Essere, Origine di ogni cosa (Parola o Logos) e Amore. Dunque è la contemplazione della vera Realtà dominata dalla Bellezza divina, ossia il mondo in quanto Bene divino. E questo è senz’altro ciò di cui si godrà nell’aldilà pienamente. Ma intanto (nell’aldiquà e nell’oggi) di questo mondo si può avere (grazie a Gesù) una potente intuizione, accompagnata ad un’almeno parziale esperienza di esso. Ma tutto questo rappresenta una contemplazione molto più che azione (opere etc.), ossia è filosofia e pensiero. Parliamo insomma qui di una filosofia che è anche mistica. Anche questo serve a definire cos’è la FR. Essa è anche profonda esperienza di fede, ossia profonda esperienza religiosa che riesce ad arrivare in prossimità dell’unione con Dio.
E questo pare (stando a Gison) che sia stato desunto da Bonaventura da quanto San Francesco aveva praticato ed anche insegnato, e cioè il tentativo di restare sempre in presenza di Dio. Ma, diversamente da Francesco (dedito all’estasi quasi continuamente). l’attività della quale qui si parla è di caratura decisamente inferiore, cioè è appena quella di quegli “speculativi”, uomini che non possono rinunciare a pensare nemmeno nella più intensa fede [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III, p. 84]. E quindi distano sempre fatalmente dalla pienezza dell’estasi. Anzi la loro “ascesi” finisce per essere la “scienza” stessa.
Pertanto è anche in questo complessivo modo che ci può descrivere l’autentica FR – un’attività di pensiero che non è né quella della filosofia ordinaria (pura Ragione) né quella della piena ascesi mistica (pura Fede).
È insomma un’attività in cui il pensiero assomiglia moltissimo alla meditazione ed alla preghiera. E quindi quasi le vicaria.
Ma − ancora più semplicemente e sinteticamente – l’effetto di tutto ciò è che Dio diviene comunque “l’oggetto stesso di ogni vera filosofia” [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94]. Può dunque sembrare anche eccessivo, però, almeno da questo punto di vista, non solo la FR è pienamente giustificata, ma è anche l’unica vera forma di filosofia che esista e che possa venire praticata. Essa infatti tocca quasi ordinariamente l’oggetto intelligibile più alto che si possa mai concepire.
Ovviamente parliamo qui della filosofia così com’è stata concepita prima che venisse travolta dal moderno secolarismo post-metafisico al quale la inchiodano pensatori come Habermas. In questa forma, infatti, essa non tende ad alcun alto oggetto intelligibile, anzi fa esattamente il contrario.
Tutto ciò comporta per Gilson anche una serie di questioni che poi tratteremo più approfonditamente discutendo del tema della relazione tra Ragione e Fede. La filosofia di Bonaventura non manca infatti di concepire la differenza che deve venire ammessa tra le due. Tuttavia nello stesso tempo ci fa notare che la prima, quando è pura (ossia naturale ed unilaterale), comporta una “certezza” della verità che non solo riguarda appena la conoscenza delle cose ma inoltre non è affatto attaccata al proprio oggetto come accade quando si colgono le verità credute, ossia le verità di fede. Perché in questo caso alla conoscenza si aggiunge anche l’amore. E questo ha una serie di conseguenze che discuteremo poi più avanti.
Il che senz’altro riduce di molto la distanza tra Ragione e Fede, sebbene non l’annulli del tutto.
Ma il punto davvero decisivo è, secondo Gilson, che una “metafisica della mistica” sarebbe del tutto impossibile se Ragione e Fede differissero per davvero ed in un modo estremo (e dunque inconciliabile) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 105-112]. E questo è esattamente ciò che viene concepito dal tomismo nel differenziare rigorosamente una teologia razionale-naturale quale unico modo (ma solo riduttivo e indiretto) di conoscere Dio. È ciò che avviene per la via dell’ineccepibile dimostrazione logica.
La quale però, come ci mostra Bonaventura, non implica affatto che per mezzo di essa noi veniamo a conoscere per davvero Dio. Certamente non ne veniamo a conoscere la natura, ma soprattutto non ne veniamo a conoscere nemmeno per davvero l’esistenza – la quale invece già splende in noi come Idea, in tutta la propria indubitabilità senza bisogno di alcuna dimostrazione logica e senza nemmeno il bisogno di passare per il livello delle creature sensibili. Dunque – grazie all’apporto di Bonaventura – comprendiamo che è del tutto inutile l’opera della Ragione tenuta lontano dalla presunta contaminazione della Fede.
Resta infatti anche così l’impossibilità di conoscere la natura di Dio, e quindi i misteri che la caratterizzano (che abbiamo visto invece ammessa da altri autori). Di Dio invece noi conosciamo indubitabilmente l’esistenza per il semplice motivo che Egli stesso si è inseminato nella nostra mente come idea innata, ovvero la conosciamo solo interiormente. E più di questo di Lui non sappiamo né possiamo sapere. Il che ci mostra di nuovo – sebbene dall’altro versante rispetto a quello di Tommaso e del tomismo − la grande distanza che vi è tra la dottrina bonaventuriana della conoscenza di Dio e quella dei pensatori tradizionalisti. In altre parole Bonaventura ci dice che Dio può e non può venire conosciuto.
Tutto questo implica che, secondo lui, la filosofia non solo può coesistere con la fede ma addirittura deve. Infatti, se non ne accetta la “luce”, essa si perde nell’”orgoglio”, nell’”amore di sé” e nella “volontà di bastare a sé stessi”, ovvero in una vera e propria perdizione e follia. E cosa, se non questo, cioè la follia aberrante ed il protagonismo titanistico, caratterizza la filosofia moderna?
Oltre a ciò però emerge in tal modo un altro carattere fondamentale dell’autentica FR, ovvero il suo essere appena momento di un cammino che è destinato a procedere incessantemente oltre. E che quindi, se si arresta entro i limiti della filosofia in sé (o pura), finisce per condannare il pensatore ai peggiori errori possibili (appunto le aberrazioni del pensiero). La più autentica FR è dunque anche un filosofare che abbia saputo andare oltre i limiti della filosofia ordinaria. La FR è pertanto l’unica che sia capace di non funzionare “come a vuoto”, ossia di essere un pensare che non ha una vera presa sulla realtà − nonostante tutte le arie che si dà e l’importanza che attribuisce a sé stessa. Ecco che l’espressione qui usata da Gilson definisce in uno solo colpo ciò che è un’autentica FR – essa consiste nel “partire dalla fede per attraversare la luce della ragione e pervenire alla soavità della contemplazione”. Del resto questa espressione descrive perfettamente quello che abbiamo visto essere l’atto e carattere fondamentale della FR, e cioè il suo partire sempre dalla Rivelazione ed operare poi sui contenuti si quest’ultima.
Per questo essa è indubbiamente anche una teologia; ma affatto solo questo! Tuttavia questa così intima prossimità della filosofia alla teologia non ha affatto il senso di istituire una sorta di «teologia filosofica», la quale non è altro se non una teologia obbediente al rigore di pensiero della filosofia ordinaria. Questo è il senso e ruolo che è stato attribuito dalla scolastica alla cosiddetta teologia razionale, ma in fondo è anche quello che è stato attribuito da Habermas ad una riflessione filosofico-religiosa che costantemente rende omaggio alla scienza empirica e si sottomette totalmente ad essa. Il senso di essa deve invece essere tutt’altro. E precisamente, come sostiene Bonaventura, è quello di scegliere tra le questioni filosofiche che devono essere chiamate in causa affinché il teologo possa svolgere la sua attività di pensiero Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., p. 139]. Tuttavia la chiamata in causa di questioni filosofiche non implica affatto la necessità di occuparsi filosoficamente del reale di tipo sensibile, ossia occuparsi di quella conoscenza delle cose che giustamente la teologia ha teso a definire come “vana curiosità”. E Gilson fa benissimo a ricordarci che la filosofia cristiana è stata definita ufficialmente così proprio perché essa aveva ambito a questo risultato per mezzo della scolastica tomista, ossia ad una “sistematizzazione totale del sapere umano”.
La scelta di questioni filosofiche da parte della filosofia dovrebbe quindi, secondo Bonaventura, implicare unicamente questioni metafisiche, e precisamente solo tre tra le tante: − creazione, esemplarismo e ritorno a Dio.
Dell’esemplarismo parleremo a proposito della dottrina delle idee.
Altri argomenti per definire un’autentica FR emergeranno comunque più avanti anche nel trattare di altri aspetti del pensiero bonaventuriano.

2.2 Ragione e Fede.
Abbiamo appena toccato questo tema, ma esso trova (da parte di Gilson) una trattazione ben più approfondita. E quindi dobbiamo dedicare ad essa un paragrafo specifico.
Abbiamo visto che il tema sta in relazione a quello (di importanza filosofica straordinaria) della certezza di verità [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94, II p. 101-114]. E qui emerge nuovamente l’aspetto assolutamente centrale della differenza esistente tra la conoscenza filosofica e quella teologica. La prima infatti è costantemente riferita all’esteriore, ossia ad entità mondane che devono letteralmente afferire allo spirito umano per poter venire conosciute. Laddove, invece, in assenza di tale azione esse resterebbero totalmente sconosciute. E l’intero campo di questa conoscenza corrisponde non solo all’estensione della scienza empirica ma anche a quello della filosofia stessa. In entrambi i casi è infatti all’opera la Ragione naturale; con la conseguenza (almeno in campo filosofico) dell’importanza fondamentale della dimostrazione logico-razionale, e quindi anche della riflessione. In altre parole anche qui (come nella teologia razionale) la certezza di verità viene appena costruita, e dunque è sempre un punto di arrivo.
Ben diversamente accade invece per la teologia (non razionale) concepita da Bonaventura. Essa infatti fa riferimento unicamente alla Scrittura e quindi alle cose credute in quanto verità per definizione; delle quali pertanto si è certi in partenza. In altre parole quindi la certezza di verità qui non viene affatto costruita ma sussiste invece in partenza, ossia viene trovata già pronta. Naturalmente qui dimostrazione e riflessione non giocano alcun ruolo.
Per quanto possa sembrare strano, però, a rigor di logica in questo ambito non vi è alcuna vera traccia della FR. Assistiamo invece appena alla differenza oggettiva esistente tra teologia e filosofia: − la teologia inizia dalla Verità (rivelata), ossia dove la filosofia finisce. Inoltre, mentre la filosofia parte unicamente dalla Ragione (quale potenziale facoltà produttivo-costruttiva) per arrivare a Dio, la teologia parte da Dio per arrivare agli effetti. Naturalmente però qui si intende senz’altro una filosofia che abbia quella valenza teologica che abbiamo descritto prima. E quindi, una volta accoppiate queste due azioni della conoscenza, non saremo più davanti alla semplice differenziazione tra filosofia e teologia, ma vedremo iniziare a delinearsi la FR. Almeno nell’intendimento di Bonaventura. Infatti il partire dalla verità già pronta non resta sterile e passivo (fondando così unicamente la Fede), ma invece diviene immediatamente attivo e produttivo – esso offre infatti al filosofare il materiale (l’oggetto) del quale esso ha bisogno per esplicarsi. E questo materiale non è altro che la Verità divina stessa.
È evidente comunque che la certezza filosofica (razionale) non ha nulla a che fare con la certezza di fede.
E qui Gilson ipotizza una sorta di “filosofia ideale” (quella ordinaria o anche pura) che in via di principio avrebbe il diritto di contenere solo il primo tipo di certezza, e che coincide pienamente con la Ragione naturale. Sta di fatto però che in tal modo si conoscono soltanto le cose naturali esteriori. E quindi, inevitabilmente, il campo della Ragione resta radicalmente separato da quello della Fede. Tuttavia Bonaventura sostiene che, se ciò avviene, è solo perché Dio ci ha dotato di una Ragione che è capace di conoscere le cose naturali.
Ebbene deve essere stato proprio questo ciò che è potuto anche bastare ad alcuni filosofi. Sia in generale sia anche nel concepire una FR. Ad esempio pensatori come Malebranche e Leibniz hanno potuto ritenere la filosofia ordinaria basata su questa Ragione naturale come una vera e propria FR – o meglio una filosofia il cui ambito di azione si estende dalle cose sensibili fino a Dio. Bonaventura ci fa notare però che, anche se questa Ragione ci è stata fornita da Dio, essa non manca comunque di essere fallace, e quindi di produrre fatalmente errori (ossia una fatale incertezza che non si confà per nulla alla conoscenza degli intelligibili).
E quindi essa non è per nulla adatta a conoscere Dio, nel caso del quale noi abbiamo una conoscenza indubitabile proprio perché essa non prevede né può prevedere alcun errore. Ecco allora che la Ragione naturale non basta in ogni caso ed ancor più nel caso della conoscenza di Dio. Dato che in questo caso essa ha bisogno dell’illuminazione divina e quindi di Cristo in persona. Da questa illuminazione scaturisce poi la fede. Ed ecco allora che quest’ultima è semmai una conoscenza più alta e non invece più bassa. Infatti solo con il suo apporto la Ragione raggiunge le verità più alte ed ambite dalla filosofia.
A nostro avviso tutto ciò significa che, per conoscere Dio, è necessaria una Ragione superiore e sovrannaturale. E questa crediamo che sia null’altro che l’Intelletto.
Ecco che allora, quando avevamo visto profilarsi la FR dalla congiunzione tra filosofia e teologia (con la nascita di una teologia filosofica), era accaduto che la Ragione, insufficiente da sola, si era unita alla Fede.
Ed è probabile che proprio questa unione dia luogo alla facoltà dell’Intelletto, che abbiamo visto capace di profonde e possenti constatazioni intuitive, assolutamente certe ed oggettive, di oggettualità avvertite come indubitabili, e senza intanto doversi affatto esporre ad un incerto cammino di riflessione (quello della Ragione) che è invece continuamente esposto al dubbio e da esso minato. Anzi l’Intelletto non compie alcun cammino, bensì invece è un raggio conoscitivo che viene scoccato dalla mente come una freccia, ed in men che non si dica raggiunge il proprio obiettivo. In altre parole esso possiede quella capacità di certezza assoluta e originaria che è soltanto della Fede e non della Ragione – infatti la Ragione al massimo «diviene» certa, mente la Fede «è» certa in partenza.
Bonaventura però almeno formalmente continua a ribadire che la Ragione resta distinta dalla Fede.
Nel senso, però, che con la Ragione non si può credere. Il che però – sulla base di tutto ciò che abbiamo visto finora − non significa affatto che essa possa raggiungere la verità indipendentemente dalla fede.
In questo senso, pertanto, la filosofia si rivela tutt’altro che autonoma, ossia “autosufficiente”. E quindi, ancora una volta, la FR non solo appare essere pienamente giustificata, ma appare anche essere la filosofia per eccellenza. Non vi è infatti una verità più salda e certa se non quella che viene colta grazie alla fede.
E questa, per Bonaventura, non è poi altro che Cristo stesso in quanto ultima Verità dell’Essere.
Il problema non appare essere quindi quello della separazione tra Ragione e Fede (che in via di principio può venire ammessa, ed in una certa misura lo deve anche, almeno formalmente), ma appare essere quello della possibilità reale di una filosofia completamente separata dalla teologia (e quindi priva di qualunque contenuto religioso) proprio in quanto basata su una Ragione che viene ritenuta potere tutto. In questo senso Gilson non esita a dire che Bonaventura “volge le spalle alla filosofia separata” e quindi a quella dei “tempi moderni”. E quindi il pensatore esautora quella che da molto tempo viene considerata in Occidente la definizione stessa di filosofia, e che abbiamo visto riaffermata in pieno da Habermas come assetto definitivo della disciplina. E questo è ciò che Gilson ci mostra essere nient’altro che la realizzazione dell’ideale, nato con in Rinascimento (da Bacone, a Cartesio, Leibniz ed infine Comte), di realizzare un sistema di conoscenze umane completamente unificato, il quale aveva quindi bisogno di essere privo di qualunque contraddizione interna (come quella tra Ragione e Fede) e pertanto aveva bisogno di essere rigorosamente «razionale» in quanto retto unicamente dalla Ragione. E questo era stato del resto lo stesso scopo della filosofia greca specie in quanto “filosofia prima” ossia filosofia scientifico-naturalistica ed insieme metafisica di Aristotele. In fondo, dice Gilson, la stessa teologia razionale (tomistico-scolastica) aveva ambito a questo stesso ideale. Ma intanto aveva compreso perfettamente che la “conoscenza razionale” non è affatto possibile solo dal punto di vista della Ragione. Ed allora non resta che dover supporre che la filosofia retta unicamente dalla Ragione (a sua volta separata rigorosamente dalla Fede) è appena sufficiente per la conoscenza delle cose, mentre invece la teologia (nella sua autenticità e pienezza) tende a cogliere il significato che ogni conoscenza ha nel rapporto che unisce a Dio cose e uomini.
Ed eccoci di nuovo di fronte alla definizione di FR.

2.3 La conoscenza di Dio e le prove della sua esistenza.
Come abbiamo già visto, Bonaventura sostiene che la conoscenza di Dio è perfettamente possibile semplicemente perché la sua esistenza è immediatamente evidente. E se tale conoscenza appare impossibile, ciò accade secondo lui solo perché gli intelletti “troppo carnali” dei filosofi tendono a fermarsi ai dati sensibili senza mai pervenire alla naturale e necessaria conclusione del ragionamento [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 117-129]. Vi è dunque anche per Bonaventura una possibilità reale di conoscenza intellettuale di Dio (CIAD).
Prudentemente egli distingue però tra la conoscenza della natura di Dio − che ci è preclusa perché essa implica la “comprensione” di qualcosa alla quale dovremmo necessariamente essere ontologicamente eguali (come accade per le cose sensibili) – ed “apprensione” di qualcosa nel senso che la sua verità ci diviene immediatamente manifesta. E questo è esattamente ciò che accade per l’esistenza di Dio.
Rispetto a questa possibilità (apparsa sempre inammissibile) sono state sempre sollevate molte obiezioni.
Ma esse sono per Bonaventura facilmente superabili.
Innanzitutto l’esistenza di Dio ci appare manifesta sebbene, in quanto oggetto, ecceda incommensurabilmente i limiti del nostro intelletto. Per di più in essa vi è addirittura un vantaggio rispetto alla conoscenza delle cose, dato che tra il conoscente ed esse vi è sempre una naturale distanza, mentre quest’ultima non c’è affatto tra Dio e l’anima umana, entrambi sostanze intelligibili e quindi profondamente comuni (sebbene su una scala diversa). Inoltre la conoscenza di Dio non è affatto impossibile perché in essa il finito si troverebbe di fronte all’infinito. E ciò perché quest’ultimo non è “di massa”, ossia concernente la grandezza, ma invece è ciò che è a causa della sua assoluta “semplicità” che lo rende “assoluto”. E proprio per questo Dio è presente ovunque (e precisamente “nella sua interezza”) nonostante noi sensibilmente non lo percepiamo. Esso insomma (sebbene Gilson qui non lo dica) non è altro che l’Essere nel quale noi siamo immersi avvertendone immediatamente la presenza ma senza poterlo percepire. Oppure, come dice Guardini [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana: Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89] noi non vediamo né tocchiamo Dio semplicemente perché siamo immersi dentro di Lui essendone così circondati da ogni parte.
È a causa di tutto questo, dice Gilson (cioè molto semplicemente), che il nostro intelletto è capace di conoscere Dio sebbene Egli “ecceda il pensiero da tutte le parti”.
Su questa base il pensatore distingue due forme di conoscenza di Dio: − innata e secondo il principio di causalità (ossia attraverso le creature). Gilson parla anche di una terza forma ma poi è difficile nel testo comprendere in cosa essa consiste.
La conoscenza innata consiste nel fatto che Dio è una verità innata per ogni anima razionale. Il che però non significa che per questa via sia possibile coglierne la natura. Gilson sembra stato perfettamente consapevole dell’argomento bio-evoluzionistico che oggi la FdR (specie quella retta dalla filosofia della mente o cognitivismo) ha fatto completamente suo, sostenendo che l’idea di Dio rientra naturalmente e fisiologicamente nel pensiero umano senza che questo corrisponda per davvero ad un essere divino.
Ma questo per Bonaventura non è affatto conoscenza dell’esistenza di Dio, bensì semmai inganno su di essa, e quindi “idolatria”. Comunque il nucleo di questa conoscenza è la profonda comunanza dell’anima e Dio in quanto entrambi enti intelligibili. Cosa per cui Dio non può che essere presente conoscitivamente nell’anima dato che è presente in essa mentre l’anima è intelligibile a sé stessa. E questo è un po’ il senso semplificato dell’argomento agostiniano. L’espressione «Dio è in noi» (oppure «Dio non ci abbandona mai») significa che noi lo ospitiamo dentro in fondo senza nemmeno saperlo. Anzi spesso dubitando fortemente che sia così. Eppure è sufficiente che prendiamo profondamente contatto con noi stessi in quanto anima per rendere Dio immediatamente presente per mezzo di noi stessi. La nostra stessa anima, insomma, è la presenza di Dio in noi.
E tutti questi sono (come sottolinea Gilson) elementi di una metafisica bonaventuriana profondamente ispirata appunto ad Agostino. Il che significa che secondo lui la conoscenza di Dio coincide sostanzialmente con l’auto-conoscenza. Laddove recentemente noi stessi abbiamo mostrato che quest’ultima è il nucleo di un’autentica Psicologia sacra, ossia una psicologia basata più sulla crescita spirituale che non sulla conoscenza naturalistica della mente [Vincenzo Nuzzo, La psicologia sacra, Victrix, Forlì 2023]. Ancora una volta comunque ciò elimina il problema della sproporzione in grandezza tra l’intelletto umano e Dio (in quanto oggetto), dato che ciò che è all’opera non è una conoscenza in senso ordinario (richiedente la similitudine all’oggetto conosciuto) bensì una conoscenza che è relazione tra due entità; anzi si tratta della relazione tra due persone. E ciò comporta esattamente la conoscenza di Dio per mezzo della Sua esistenza – esistenza ovviamente prevalentemente interiore e come tale certissima (idea innata di Dio).
La seconda via della conoscenza di Dio è per Bonaventura la costatazione del fatto che Dio è Causa di tutte le cose, e quindi questa via passa per le creature sensibili. Nessuna via è però più lontana dalla conoscenza di Dio come oggetto (natura di Dio) dato che Egli è immensamente più che una cosa, ossia è “pura spiritualità”. E quindi questa prova di esistenza è una delle più dimesse e insufficienti quanto a qualità, ed inoltre è non poco riduttiva. Essa è infatti estremamente umile, pochissimo ambiziosa e del tutto anti-intellettualistica. Specie a paragone con la pesante argomentazione logica che invece Tommaso pone proprio a questo punto, cioè nel partire dalle creature sensibili.
D’altro canto però proprio l’umiltà semplice di questa prova rappresenta la convinzione profondamente francescana di Bonaventura secondo la quale “la natura intera proclama l’esistenza di Dio come una verità indubitabile”, e quindi pone nel modo più forte ed esplicito possibile la “presenza di Dio nella natura” stessa. Dato però che né la percezione sensibile né l’argomentazione logica servono a fare questa costatazione, è più che mai evidente che essa stessa deriva in verità dalla presenza dell’idea innata di Dio nella nostra anima. Quindi la specie di evidenza sensibile che deriva dalle creature non è altro, secondo Gilson, che il ritrovamento di questa idea, ovvero di fatto la sua reminiscenza. In altri termini noi soltanto ci illudiamo di vedere Dio nelle cose, anche se è del tutto vero che Egli è presente dappertutto.
In accordo con Anselmo (argomento ontologico) Bonaventura è comunque consapevole di quella “necessità dell’essere divino” che si comunica immediatamente al pensiero. Insomma egli ammette che Dio può venire concepito come evidente in quanto essere del quale nulla è più grande. Ma intanto c’è una via molto più semplice a nostra disposizione ossia quella del semplice pensare Dio, ossia l’idea di Dio – essa lo rende immediatamente esistente allo stesso modo dell’argomentazione antecedente. Ma qui l’interiorità della conoscenza appare essere ancora una volta una risorsa straordinaria, dato che Dio è in primo luogo in un oggetto interiore. Ed in questo, come dice Gilson, letteralmente “l’intelligibile divino aiuta il nostro intelletto a conoscerlo”. Perché se Egli fosse un oggetto esteriore sarebbe così eccedente il nostro intelletto da essere assolutamente inconoscibile. Intanto comunque – è lecito arguire da questa complessiva dottrina – se Dio non fosse presente in modo innato ed effettivo come idea nella nostra mente, noi, in quanto esseri naturali, non potremmo nemmeno lontanamente immaginarcelo. Infatti, comunque si voglia intendere la genetica delle idee, è certo che in Natura non vi è alcun oggetto reale e sensibile che si possa trasformare in noi nell’idea di Dio (passando per i sensi). Non vi è insomma alcuna esperienza mondana che sia capace di contenere un oggetto così infinito e soprattutto incomprensibile ed ineffabile. E quindi da ciò si può dedurre che quella che a prima vista sembra essere una pura fantasia generata dalla nostra mente, invece è esattamente il contrario, e cioè è una reale presenza che si manifesta a noi come qualunque oggetto interiore, ossia come idea, e che, proprio come tale, noi non avremmo mai potuto fabbricare. Insomma Dio è un oggetto nel senso della radicale alterità, e cioè è a noi totalmente esteriore. E proprio come tale ci invade e ci sorprende inimmaginabilmente con la Sua presenza in noi stessi (sebbene non si possa dire in alcun modo «da dove» Egli ci provenga). Di conseguenza possiamo dire che Dio «è costantemente con noi» proprio perché ci è stata da Lui stesso concessa la possibilità di pensarlo – infatti ogni volta che Lo pensiamo, Egli si rende realmente presente a noi. Sebbene intanto nel mondo sensibile circostante non cambia assolutamente nulla. Anzi molto spesso le cose divengono addirittura molto peggiori di quanto erano prima.
Ma, partendo da tutto questo, Gilson deduce il sussistere di due teorie della conoscenza di Dio completamente diverse tra Tommaso e Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135137].
Il primo vede infatti l’intelletto posto in relazione al sensibile (come un fascio di luce che illumini) – concependo così la relazione tra interiore ed esteriore che da sempre è stata usuale in filosofia −, mentre in secondo vede una fenomenologia tutta interiore che corrisponde alla produzione dell’anima (in quanto intelligibile simile a Dio) da parte dell’intelletto. E questo significa che non è nemmeno necessario (come fa Tommaso) porsi la questione del se l’esistenza di Dio sia o meno una “res nota”. Perché, se è tale, lo può essere solo attraverso un’inferenza dai sensi, che segue poi inevitabilmente la via (pochissimo autentica) di una “costruzione analogica” operata dal nostro intelletto. L’esistenza di Dio è evidente invece in un modo del tutto indipendente dall’azione del nostro intelletto a partire dal sensibile, ossia come idea che è già presente nella nostra mente, e quindi non è in alcun modo provenuta dal mondo oggettuale sensibile.
In tal modo Bonaventura contraddice frontalmente la genesi delle idee a partire dal mondo sensibile che venne concepita soprattutto da Locke [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022], sebbene poi vedremo che in parte la ammette. E qui diviene utile il confronto con la teoria delle idee di Malebranche, la cui visione almeno in questo è estremamente simile a quella del nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35, IV, 393-395, p. 39-40, I, 8-9, p. 40-41, III, 413-415, p. 58-60, (III, 420-421, 425-426, p. 99-102; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., III, p. 44-67].
Per Bonaventura, insomma, Dio non si costruisce ma si semplicemente si trova. E si trova perché Egli stesso si lascia trovare essendo a noi infinitamente più vicino di quanto possiamo mai immaginare.
Insomma Dio non è un’idea che venga dalle cose (e nemmeno dall’azione della nostra stessa mente) ma si rende presente in maniera del tutto originaria nella nostra anima, ossia senza alcuna provenienza riconoscibile. Il che sottolinea poi la sua assoluta libertà e volontà nel compiere questo atto. Il quale è infatti un atto di puro amore.

2.4. La dottrina delle Idee applicata da Bonaventura al Cristianesimo (esemplarismo). Aristotele e Platone.
L’intera dottrina delle idee alla quale si riferisce Bonaventura si concentra nel suo nucleo metafisico-religioso, e cioè nel concetto di Dio come Causa prima di ogni cosa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 140-141]. Come tale esso è la “sostanza universale increata” che è il “il punto di partenza di tutte le cose”, ovvero (in termini causalistici) è la causa efficiente. Da un altro punto di vista Egli è il principio, il mezzo e il fine di tutte le cose. Questo significa però che Egli è causa in quanto modello e precisamente la “causa esemplare” di tutte le cose, ossia l’idea intesa quale modello. Dio insomma è l’Idea stessa (quale modello).
Il Prof. Reale, nell’analizzare la teoria delle idee di Platone, aveva visto proprio in questo una tra le particolari valenze attribuite all’idea dal pensatore ateniese [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. Che però ne ha anche altre. E rimandiamo per questo ad una serie di nostri scritti su Platone e sul platonismo [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018, p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, p. 41-68; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016]. Pertanto è evidente che almeno in questo il pensiero di Bonaventura intercetta uno dei momenti più alti e geniali del pensiero di Platone. E tuttavia Bonaventura non sta pensando alla dottrina delle idee di Platone, bensì in primo luogo a Dio come Causa di tutte le cose. La visione di Platone è dunque per lui appena un mezzo per esprimere idee sostanzialmente cristiana. Non è invece per lui una dottrina alla quale egli dichiari l’appartenenza.
In ogni caso è evidente che (esattamente secondo la visione di Platone) la valenza di modello delle cose fa dell’idea ciò in cui assenza la cosa non avrebbe mai avuto né forma né esistenza né individualità. Non solo, ma Gilson sottolinea qui anche la portata teoretico-conoscitiva del concetto di idea-modello – perché in forza di esso noi non conosciamo mai “cose” ma invece solo idee. E questo ci riporta di nuovo decisamente alla dottrina delle idee impiegata da Malebranche.
E quindi è chiaro che con ciò stiamo parlando di un Principio assolutamente primo. E questo Principio è assolutamente trascendente, affermando così, con il suo esistere ed agire, che il mondo immanente dipende strettamente da quello trascendente. E questa è ancora una volta un’affermazione non solo cristiana ma anche integralmente e fortemente platonica. Il pensatore ateniese riteneva infatti che soltanto il mondo delle cose ideali (trascendente), cioè il mondo delle idee, era davvero dotato di realtà. Cosa che possiamo dedurre direttamente dal Fedone [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2000, I, XLIX p. 127] ed inoltre è stata constatata in modo chiarissimo da molti suoi antichi successori (Proclo) ed interpreti moderni (tra i qiali alcuni cristiani come Guardini) [Giovanni Reale, Il «Platone» di Friedländer: la sua importanza e la sua portata storico-ermeneutica, in: Paul Friedländer, Platone… cit., 2 p. XI-XII; Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, IV, 6-8, 22.10-27.5 p. 483-487; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 255-256: Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 5 p. 149-150; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. E questa realtà coincideva totalmente con la verità. Checché ne dicano i critici tale visione lega quindi molto fortemente Bonaventura al pensiero di Platone (e ciò perfino oltre le intenzioni del pensatore). Ovviamente però in quest’ultima mancava sia la concezione di un Dio personale sia la sua collocazione al di sopra del mondo delle idee. Tuttavia evidentemente – aldilà di queste differenze teologico-confessionali − non vi è poi molta differenza tra l’affermare che l’idea è modello perché è la vera Realtà ed è modello in quanto è Dio come Causa di ogni cosa. Non a caso entrambe queste idee ci riportano alla dottrina del Logos come origina remota di tutte le cose. Pertanto possiamo dire che Bonaventura è stato di fatto un platonico anche senza volerlo esplicitamente.
Tuttavia, sebbene tutto questo leghi decisamente Bonaventura a Platone – distanziandolo invece decisamente da Aristotele (cosa che qui Gilson sottolinea fortemente specie a proposito del ruolo e valore del mondo trascendente verso quello immanente) −, almeno per il commentatore non configura un «platonismo» (aperto ed esplicito) del pensatore, ma invece delinea molto più una delle forme della metafisica cristiana, e cioè il cosiddetto “esemplarismo”. Dottrina che pare Bonaventura considerasse non solo la più autentica e pregevole metafisica cristiana (in quanto più fedele alla Rivelazione specie per mezzo della Creazione) ma anche la più autentica e pregevole metafisica in assoluto. Oltre a ciò Gilson sottolinea la distanza che vi è tra Bonaventura e Platone a causa del fatto che il primo sostiene il concetto dell’idea come modello rifacendosi unicamente alla dottrina rivelazionale del Verbo incarnato (idea passibile di trasformazione in cosa), dottrina della quale Platone non avrebbe mai potuto sapere nulla dato che la sua visione filosofica si basava unicamente sulla Ragione naturale. Questo è però ciò che dice Gilson. Se invece si legge Friedländer si potrà constatare che le idee di Platone erano molto più profondissime e fulminanti visioni contemplative ed intuitive che non invece costrutti razionali-naturali. Un esempio per questo è la sua dottrina dell’”Arrheton”, ossia il profondissimo (centrale) ed altissimo (verticale) Indicibile che per lui fondava l’intera realtà [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 77-88, II, IA, 1 p. 419-429]. E del resto abbiamo appena visto che – sebbene in modo solo implicito – la dottrina delle idee-modello di Platone riconduce direttamente alla dottrina del Logos cristico.
Tra l’altro Gilson sottolinea anche che per Bonaventura la realtà di Dio come Causa-Idea era il culmine stesso della metafisica, oltre il quale si entrava nel campo della conoscenza della sua natura o essenza (Trinità), e quindi rappresentava un limite assoluto della conoscenza di Dio. Di nuovo quindi viene contraddetto da Bonaventura quanto sostiene Bérard della conoscenza dei misteri cristiani. Tuttavia è davvero difficile comprendere chi dei due abbia ragione.
Ma il concetto di Dio-Idea comporta anche quello della relazione esistente tra Dio e la molteplicità delle idee corrispondenti alle cose (altro aspetto fondamentale della dottrina platonica delle idee). E così procediamo oltre nella comprensione dell’impiego bonaventuriano di questa dottrina. Qui è infatti implicato il problema della conoscenza di sé stesso da parte di Dio, atto fulmineo e totalizzante nel contesto del quale egli viene a conoscere tutte le idee che si trovano in Lui [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 142-143]. Si tratta insomma di un’altra forma di descrizione di Dio come «Atto puro», ossia unità immediata di potenza ed atto. E di nuovo così siamo di fronte al fenomeno dell’auto-conoscenza o conoscenza interiore, entro la quale il soggetto equivale all’oggetto, e quindi in esso insorge necessariamente quella che Gilson chiama “somiglianza”. Laddove quest’ultimo concetto ci riporta di nuovo molto direttamente alla valenza di modello dell’idea.
Con tutto ciò si delinea quindi una conoscenza completamente diversa da quella esteriore. Nella quale l’oggetto esteriore è qualcosa che viene ad aggiungersi al campo conoscitivo eccedendo così la presenza del soggetto ed inoltre rappresentando necessariamente qualcosa di diverso (alieno) rispetto ad esso.
Nella conoscenza interiore non vi è invece nulla di tutto questo, dato che Dio è un oggetto interiore, e quindi in questa sede non vi è nulla di diverso tra soggetto ed oggetto. Ora, posto tutto questo e ritornando allo schema della produzione della cosa da parte dell’idea, ne risulta che, nel corso di quell’atto creativo divino che è anche atto auto-conoscitivo, si verifica un fenomeno di “espressione” del Dio-Idea (Verbo in quanto contenente la molteplicità delle cose ossia tutti i “possibili”) che costituisce necessariamente anche un fenomeno di “somiglianza”. E quest’ultimo fenomeno riproduce poi immediatamente la relazione esistente tra idea e cosa che sussiste nell’idea come modello. Ne risulta che, con la creazione, l’intera Natura si sforza di somigliare al suo Creatore che contiene a sua volta tutte le idee corrispondenti alle cose esistenti (che esse siano state già create o debbano ancora esserlo). Quindi esprime ciò che Dio è: − Verbo.
Con questa dottrina ci troviamo quindi al cospetto della più generale dottrina della «presenza di idee creative nella mente divina», modello che è stato costantemente presente nella metafisica cristiana ed è stato impiegato in modi diversi dai più diversi pensatori. E tra questi vi fu peraltro anche lo stesso Tommaso, che, almeno in questo, fu non anche platonico [Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, III, p. 103-107].
Vedremo però che Bonaventura solo adombrò questa dottrina ma si rifiutò di accettarla nella sua integralità. Però è certo che, se lo avesse fatto, sarebbe dovuto venire definito come effettivamente platonico.
Ebbene con tutto ciò perveniamo secondo Bonaventura ad un altro culmine della metafisica – la somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di idea-modello che caratterizza Dio) è l’espressione del Padre per mezzo del Figlio, il Verbo. Ma con ciò abbiamo anche un punto di appiglio molto forte all’ontologia di nuovo per mezzo del fenomeno dell’espressione – l’essere (il mondo) non è altro che l’auto-rappresentazione di sé stesso da parte di Dio in quanto infinita possibilità di cose. Sta qui dunque il vero principio dell’Essere – le cose “possono essere” (e saranno, cioè esisteranno) in forza delle possibilità (ideali) contenute nell’”essere infinito” che è Dio. Il quale non ha che da pensarsi in un sol colpo perché l’Essere sussista in un sol colpo.
Successivamente Gilson si addentra in un chiarimento dell’espressione del Verbo per mezzo del tema rivelazionale della “Parola”. Ma per questo rimandiamo il lettore al libro.
Ciò che è importante sottolineare è invece che Bonaventura fu perfettamente consapevole che non si può parlare di un’effettiva presenza di idee entro l’Essere di Dio (dato che Egli è assoluta e inscindibile unità), ossia nella Sua essenza, ma solo invece a livello immanente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 148-151]. E questa precisazione fa di lui un pensatore che sfugge decisamente alla visione platonica più integrale; specie perché egli si rifiuta di ammettere l’identità ontica tra il «mondo delle idee» e la realtà di Dio.
La molteplicità delle idee dunque non significa altro che l’espressione divina (a partire dalle idee) si pone in relazione alle cose e non invece a Dio stesso (nella sua essenza). La molteplicità delle idee sussiste insomma unicamente in relazione alla pluralità delle cose. Ne consegue che la molteplicità delle idee può aumentare all’infinito in ragione della molteplicità del reale che essa deve esprimere. Pertanto l’espressione viene richiamata dal basso (nel mentre invece è convergente in direzione dell’alto e del vertice, cioè verso l’Unità divina). Cosa che avviene (come in Aristotele) lungo la linea di sviluppo di individui-specie-generi.
E questo significa che allora la dottrina della presenza di idee creative in Dio non è in fondo altro che una metafora per rendere comprensibile l’ineffabile.
Questo è vero però solo apparentemente. Infatti, dall’altro lato, è anche vero che per Bonaventura l’Unità divina costituisce la Verità delle cose. E quindi in questo senso per davvero esistono idee nella mente divina che l’atto divino di auto-conoscenza coglie in un sol colpo. Ecco allora che è del tutto secondaria la molteplicità di idee colta appena in rapporto alle cose, mentre invece è assolutamente primaria la molteplicità di idee (sebbene solo metaforica, in quanto esprimente le infinite possibilità del tutto ideali delle cose) primaria nella mente divina.
Gilson ricollega comunque questa problematica alla concezione della “scienza divina” in Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 152-156]. Laddove quest’ultimo (differenziandosi così decisamente da Malebranche) si rifiutò categoricamente di ritenere che questa scienza dipenda dalle cose esistenti. Invece le idee corrispondono integralmente all’Essere divino stesso. E quindi Dio, nel Suo conoscere, non fa altro che conoscere sé stesso. Ed ecco che di nuovo si delinea il fenomeno della somiglianza – perché la conoscenza di Dio da parte dell’uomo (e di sé stesso da parte di Dio) assomiglia alle cose non perché le imiti ma solo perché le esprime. Il che significa che la valenza di cose che le idee hanno è in verità unicamente trascendente e non immanente. Cosa che di nuovo si concilia perfettamente con la dottrina di Platone, secondo la quale le idee quali cose rappresentano quella vera Realtà che è solo trascendente.
Ne risulta che per Bonaventura non può esistere nulla di simile all’«analogia entis» tomistica (la quale, aristotelicamente, inverte la somiglianza tra idee e cose, facendola partire dall’immanente invece che dal trascendente). Inoltre a causa di tutto ciò la scienza divina condiziona l’essere delle cose in quanto radicalmente anteriore ad esse, e quindi può modificarle senza prendere in alcun modo parte al loro continuo cambiamento. È evidente anche che l’atto conoscitivo divino avviene totalmente nell’eternità e non invece nel tempo.
Da tutto ciò appare evidente che l’impiego della dottrina delle idee fa solo apparentemente di Bonaventura un platonico (sebbene abbiamo visto che ci sono anche momenti forti di tale prossimità di pensiero). Senz’altro essa lo distanzia infinitamente da Aristotele − del quale non a caso egli condannò decisamente la critica alla dottrina platonica delle idee (e proprio per questo vide nell’aristotelismo un luogo di “fitte tenebre” dottrinarie) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 141] − ), ma intanto lo approssima unicamente alla portata platonica che ha la Rivelazione cristiana in alcuni suoi aspetti come la dottrina del Verbo. Quindi semmai possiamo dire che il pensatore rappresenta uno dei momenti più alti di un platonismo profondamente riveduto e corretto dal Cristianesimo – la cui metafisica non coincide affatto integralmente con quella del pensatore ateniese, sebbene abbia con essa molte tangibili affinità.
Ma del resto Bonaventura si distanza tanto da Aristotele che da Platone nella sua dottrina della creazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VI p. 175-190]. In essa infatti egli considera un vero e proprio sproposito metafisico concepire (come avviene in Platone) l’esistere di una materia senza forma eterna che poi prenda forma ad opera delle idee.
In ogni caso (come avviene anche in Malebranche) Bonaventura deve venire considerato platonico (che egli lo abbia voluto o no) dal punto di vista teoretico-conoscitivo – la conoscenza ha infatti come proprio oggetto le idee e non le cose, e conseguentemente le idee non provengono affatto dalle cose.
Vedremo però più avanti che questa dottrina bonaventuriana è abbastanza più diversificata di quanto possa sembrare in base a quanto abbiamo appena detto.

L’esposizione di questa intera dottrina va completata però con la discussione di una dottrina dell’analogia che potremmo considerare opposta a quella di Tommaso, e che forse rappresenta anche il contesto più ampio in cui vanno collocate la dottrina delle idee e quelle della somiglianza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 191-195]. Peraltro Gilson la definisce immaginifica e simbolica, e quindi una dottrina che sembra essere più poetica che non rigorosamente filosofica.
In generale si tratta del fatto che (in perfetta coerenza con la dottrina dell’idea-modello e con quella della somiglianza) il mondo creato viene considerato come qualcosa che mostra chiaramente impresse in sé le tracce della presenza e dell’azione divina. Dal punto di vista metafisico la questione si interseca con la discussione sull’Essere divino, a sua volta legata alla dottrina della creazione dal nulla – con al centro la questione del se l’Essere divino crei il nuovo, aggiungendo così ulteriore essere al proprio (e dimostrando così l’insufficienza di quest’ultimo), o se invece l’Essere divino produca la creatura a partire dal proprio stesso essere (esponendosi così alla divisione ed allo svuotamento). Ma tutte queste discussioni (sostanzialmente critiche) sfuggono, dice Gilson, alla riflessione medievale nella quale si pone pienamente quella di Bonaventura. Ed ancora una volta il paradigma platonico di pensiero appare qui decisivo, dato che, una volta posta la difettività ontologica del mondo delle cose (immanenza) rispetto a quello delle idee (trascendenza), allora appare evidente che le appena citate discussioni sull’Essere divino riguardano in verità solo quello mondano (il solo passibile di diminuzione ed aumento etc.). Ma proprio questo atto filosofico ci rivela che in verità noi guardiamo all’universo sulla base di un’analogia, a causa della quale ciò che è immanente assomiglia a ciò che è trascendente. L’analogia è quindi un movimento dall’alto al basso (secondo il fenomeno della somiglianza) e non dal basso all’alto (lungo la linea dell’inferenza pensante).
Per la precisione, però, non si tratta di un’analogia “equivoca” (entro la quale l’essere trascendente venga concepito sul modello dell’essere immanente o “universo dato”, come del resto in qualche modo avviene entro l’«analogia entis»), bensì si tratta di un’analogia “univoca”. E quest’ultima giunge fin quasi alla perfetta “identità” esistente tra l’essere immanente e quello trascendente, senza che però il secondo si riduca mai al primo. Proprio per questo l’identità è in verità impossibile a causa della radicale diversità dell’essenza mondana da quella divina, in forza della quale poi il mondo non deriva per davvero da Dio (come nel paradigma emanazionista) ma appena gli assomiglia. Questo è insomma il senso profondo della creazione. La creazione si compie quindi secondo il paradigma della somiglianza. Cosa che genera una profonda discontinuità tra l’Essere divino ed il mondo.
Ecco allora che il concetto di somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di modello dell’idea rispetto alla cosa) finisce per appaiarsi a quello di “analogia universale”.
Ma questo complessivo assetto genera comunque per Bonaventura una realtà dominata dai “rapporti” esistenti costantemente tra trascendente ed immanente. Il che ci riporta molto suggestivamente ad Eckhart, ossia alla continuità ineffabile che egli intravvede tra trascendente divino ed immanente umano-mondano e che si riassume poi nei concetti di “nascita divina”, di creazione continua e di profonda identità ontico-dinamica tra Dio e uomo [Meister Eckhart, in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, Predica 1 (S 87) p. 5.13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79, ibd. Predica 13 (S 102), p. 186-203, ibd. Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München 2014, Einl, p. 17, I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, III, 13-14 p. 123-131 IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174].
E proprio in forza di ciò si spiega per Bonaventura la natura e struttura della creatura, ossia del prodotto divino di ciò che è immanente e mondano [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 198-206]. Ecco allora che egli (adombrando fortemente Proclo) distingue tre livelli creaturali a secondo della loro decrescente grado di lontananza dalla Causa divina: − “ombra”, “vestigio”, “immagine”. L’immagine è quella meno lontana dalla Causa divina e rappresenta per la precisione l’anima. In ogni caso egli distingue l’immagine in qualitativa e quantitativa, laddove questa seconda esprime molto meno l’essenza o idee, limitandosi a riprodurre (ma molto alla lontana) appena la struttura della realtà trascendente. Quindi l’immagine qualitativa si presta molto meglio ad esprimere l’idea trascendente divina che si manifesta nel mondo. L’anima è quindi la più alta e nobile espressione creativa di Dio. Non a caso Egli soggiorna in noi proprio in quanto ha infuso in noi (in via di principio enti unicamente naturali) la sostanza spirituale costituita dall’anima.
Anche questa complessiva dottrina dell’analogia ci mostra pertanto nel pensiero di Bonaventura qualcosa che è fortemente influenzato dal platonismo, ma non senza una serie di limiti e correttivi (spesso addirittura contraddicenti Platone) che derivano dal suo scrupoloso riferirsi alla sola Rivelazione cristiana.
E questo conferma sicuramente la natura di autentica FR che questo pensiero costituisce, dato che esso non lo sarebbe se si rifacesse invece semplicemente ad un pensatore mondano come Platone.

2.5 Assetto e ruolo della metafisica in Bonaventura.
Riguardo a ciò ci sono prima di tutto da ricordare alcuni aspetti dei quali abbiamo già trattato.
Innanzitutto appare chiaro che per Bonaventura non vi è FR senza una profonda riflessione metafisica.
Ed in essa vengono decisamente superati i limiti della Ragione naturale ai quali invece si attiene scrupolosamente la filosofia non religiosa. Questo superamento dei limiti della Ragione naturale non implica però per lui la possibilità di una conoscenza di Dio che si addentri nei misteri della sua natura.
Infatti la sua metafisica impone a sé stessa dei precisi limiti in questo senso. Da tutto ciò risulta che, quando la FR perseguita da Bonaventura si rifà alla Rivelazione (come suo punto di partenza e suo oggetto di riflessione), intende con questa anche una materia sublimemente metafisica, ma comunque non oltre certi limiti. Abbiamo già visto però che Bérard ci indica una prospettiva completamente diversa. Egli infatti intende la metafisica come quella forma di conoscenza che per definizione penetra profondamente nei misteri divini. E proprio per questo essa contraddice ogni principio logico (specie quello di contraddizione) dato che pensa delle realtà (come quella trinitaria) entro le quali la contraddizione logica è la regola.
Abbiamo anche visto che Bonaventura impiega nella sua metafisica un concetto di analogia universale che differenzia questa dottrina dal suo versante enticista di stampo scolastico-tomista, ricollegandosi quindi molto più al ruolo e valore assegnato da lui all’idea trascendente come autentica dimensione divina posta alla radice di qualunque cosa del mondo.
A ciò si aggiunge però infine il versante in gran parte teoretico-conoscitivo della sua metafisica, e cioè quello riguardante anima ed intelletto. E qui usciamo decisamente da una metafisica che concerna anche lontanamente i misteri divini per entrare in un campo in cui ciò che si compie è una conoscenza metafisica dei fenomeni e degli enti della Natura. Si tratta insomma di una conoscenza metafisica della fisiologia della Natura, e quindi si tratta in fondo una scienza empirica illuminata dalla metafisica (molto simile a quella di Suárz). Ci troviamo insomma nel campo in cui il pensiero bonaventuriano venne probabilmente influenzato di più dalla metafisica scientifico-naturalistica e pragmatica di Aristotele.
Non crediamo che valga la pena di soffermarsi molto sul concetto bonaventuriano di anima qui discusso da Gilson; che appare venire da lui mutuato in gran parte da Agostino, e quindi (per via piuttosto indiretta) anche da Platone. Non a caso la sua dottrina entra in conflitto in molti punti con quella tomista, mutuata invece da Aristotele.
Gilson conduce comunque un discorso metafisico piuttosto complesso su come Bonaventura intenda le facoltà o funzioni dell’anima, del quale però riteniamo utile riportare soltanto alcuni aspetti più rilevanti.
Proprio la distanza esistente dalla dottrina dell’anima tomista (enticista e naturalista sul modello di Aristotele) fa si che Bonaventura sottolinei l’insuperabile differenza ontica (differenza di essere) che vi è tra Dio e l’anima umana, nonostante Egli l’abbia creata e le abbia anche concesso il privilegio straordinario della conoscenza e dell’intelligenza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII p. 293-300]. Dio in quanto Essere ha quindi per lui una relazione con l’anima solo in quanto è Causa esemplare (e non invece di continuità ontologica). Il che implica qui inevitabilmente la dottrina della creazione dal nulla – dato che, se Dio non trae l’anima dal proprio stesso Essere, deve necessariamente prenderla da fuori di sé, e dunque da quel Nulla che egli poco a poco trasforma in Essere. E naturalmente questo esclude la possibilità che in Bonaventura si possa trovare qualunque trattazione dell’anima (spesso emergente invece in Tommaso) come una sorta di sostanza universale immanente che impregni di sé tutti gli esseri viventi dato che manifesterebbe direttamente la presenza divina nella Natura – ossia come una sorta di animicità diffusa delle cose − cosa che poi giustifica la supposizione di una sorta di intelligenza intrinseca (“intelligent design”) presente immanentemente nella Natura (in quanto infusa in essa da Dio) e quindi operante in modo autonomo [Marie George “What Would Thomas Aquinas Say about Intelligent Design?”, Blackfriars, 94 (1054) 2013, 676-700].
In ogni caso anche lui vede nell’anima una sostanza vivificante e movente; solo che la Vita non si identifica in essa con la propria sostanza, e quindi l’anima non la possiede affatto ma essa invece le proviene da fuori cioè da Dio («ab alio»).
Per il resto egli concepisce l’anima in una maniera piuttosto usuale per la metafisica antica (sia cristiana che pagana), e cioè come una sostanza provvista di materia e forma; e, come tale, caratterizzata da un certo grado di stabilità a sua volta in relazione alla sua capacità di sussistere da sola («subsistenza») ed inoltre di subire solo a livello materiale la mutevolezza dell’essere. Questa è quella che in qualche modo costituisce la tendenziale spiritualità dell’anima e quest’ultima sta poi fortemente in relazione con la sua individualità (che non dipende invece affatto dalla materia, o corporeità, anche se la presuppone). Naturalmente questi caratteri stanno in relazione con il carattere tipico dell’immortalità dell’anima. E l’intero insieme, come giustamente sottolinea Gilson, fa di quella bonaventuriana una visione ben degna di comparire nel contesto del tipico personalismo cristiano.
Abbastanza significativa è comunque è la differenza tra Bonaventura e Tommaso nel concepire l’anima come «forma corporis». Questo perché per il primo essa è già insieme di forma e materia, mentre per il secondo è unicamente una forma che trova la propria materia (da formare) unicamente nel corpo. Ne consegue che, almeno secondo Gilson, l’anima è una sostanza (e dunque è qualcosa di onticamente superiore) solo per Bonaventura, ma non lo sarebbe per Tommaso. Questa però ci sembra una conclusione abbastanza discutibile, dato che (notoriamente) per Tommaso l’anima è comunque la sostanza che impregna di sé l’intera Natura, ossia è il fondamento insieme metafisico e vitale di quest’ultima.
Altro rilevante aspetto della metafisica bonaventuriana è per Gilson quello legato all’intelletto, nel contesto del quale si ritrovano poi (ancor più che a proposito dell’anima) tutti gli elementi della teoria della conoscenza: − sensi, immaginazione, ragione etc. Eccoci dunque chiaramente di fronte ad una trattazione metafisica della Natura dal punto di vista teoretico-conoscitivo. Gilson ritiene comunque la teoria dell’intelletto uno degli aspetti più tipici e rilevanti della metafisica cristiana (insieme all’esemplarismo) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 317-318]. E tuttavia va detto che questa metafisica è stata sempre commista ad elementi che oggi rientrano nella fisiologia del sistemo nervoso e della mente, e che invece allora rientrava nello studio delle facoltà dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 318-326].
Il più elementare di questi elementi è quello dei sensi, a quel tempo posti a loro volta in rapporto con relative facoltà o funzioni dell’anima. Qui il discorso di Gilson si fa abbastanza complesso perché tocca la domanda circa l’identità o meno di tali facoltà con la sostanza animica. E a tale riguardo le opinioni furono troppe per poter venire ri-discusse in questa sede. Ciò che conta è però che Bonaventura ritenne (secondo la tradizione agostiniana) che le facoltà animiche fossero appena degli accidenti, che quindi andrebbero sempre ridotti alla vera sostanza ad essi sottostante, che è solo l’anima. Tali facoltà o funzioni sono principalmente memoria, intelligenza (o intelletto) e volontà. Si tratta insomma delle facoltà dell’anima razionale (legate propriamente al conoscere). Quelle invece dell’anima vegetativa e sensitiva (vegetare, muovere, sentire) sono di ordine decisamente secondario ed inferiore (in quanto legate alla funzione basica del sentire), e quindi per Bonaventura devono interessarci meno. Sono esse infatti quelle che restano legate strettamente ad un organo corporeo (quello che oggi conosciamo come organo di senso), mentre le funzioni superiori non lo sono affatto. In ogni caso questi due livelli funzionali (conoscere, legato al pensiero) e sentire (legato al corpo) sono entrambi in grado di cogliere le famose “specie sensibili” che esistono nella materia degli oggetti.
A causa di questo (ossia in relazione al livello ontologico delle specie sensibili che possono cogliere) i sensi vanno per Bonaventura ordinati gerarchicamente secondo un valore decrescente: − vista, tatto, gusto, udito, olfatto.
Ma per lui non raggiungiamo il livello più rilevante delle funzioni animiche se non ci soffermiamo sull’intelletto. Qui Gilson sviluppa una discussione sulla relazione tra intelletto agente ed intelletto possibile che ancora una volta vede opinioni molto diverse che non possono venire qui riportate [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II, p. 336-343]. E ricordiamo al proposito che Dietrich von Freiberg (ispiratore ed amico di Eckhart) fu uno dei protagonistici di questa dottrina [Dietrich von Freiberg, Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980]. Va detto quindi soltanto che Bonaventura prese in considerazione questi due aspetti dell’intelletto non tanto come diversi e gerarchicamente ordinati, quanto piuttosto come coordinati tra loro in modo tale che l’intelletto agente di fatto fornisce all’intelletto possibile il potere di agire e non solo invece di patire. Dal punto di vista metafisico il tema è comunque rilevante perché implica la determinazione del luogo in cui l’essere umano riceve l’”illuminazione intellettuale” da parte di Dio; in modo tale da poterlo poi conoscere ed inoltre anche conoscere le ordinarie verità. E comunque Bonaventura esclude qualunque illuminazione diretta dell’anima da parte di Dio, dato che essa porrebbe in continuità i due termini. Cosa per lui inammissibile. Il che ancora una volta ci permette di cogliere la grande distanza che lo divide della dottrina onto-intellettualista (pensatori tradizionalisti) della conoscenza di Dio – entro la quale tale conoscenza è pienamente possibile fino alle sue estreme conseguenze, dato che Dio ed uomo sono essenzialmente entrambi sostanze intellettuali. Oltre a ciò egli (mantenendosi nella scia della tradizione agostiniana) ritiene l’anima attiva quanto lo è lo stesso intelletto possibile una volta che abbia ricevuto potere dall’intelletto agente.
È su questo registro che continua la discussione da parte di Gilson delle varie prese di posizione dei filosofi del tempo (sulla quale però non ci soffermeremo). Interessante è comunque la dottrina di Bonaventura riguardo all’azione dell’intelletto rispetto agli oggetti. In tale contesto alcuni filosofi del tempo (risalendo quasi direttamente a Platone) ritengono la conoscenza “innata”, e non “acquisita”, perché essa ha come proprio oggetto le idee degli oggetti (a quel tempo menzionati come “principi primi” o anche “universali”) e invece non gli oggetti sensibili e reali in carne ed ossa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II p. 342-351].
E qui ci troviamo di nuovo direttamente al cospetto di Malebranche. Ma il Bonaventura pienamente aristotelico (e quindi pragmatico scienziato della Natura e studioso di fisiologia) non è affatto di questa opinione allorquando la conoscenza riguarda effettivamente il mondo esteriore. In questo caso infatti gli sembra assolutamente ridicola una conoscenza puramente ideale degli oggetti, e ritiene quindi strettamente necessario l’intervento dei sensi (sia pure rappresentanti l’intelletto possibile) che estraggono le specie sensibili dagli oggetti esistenti. Solo che questa è per lui una conoscenza solo confusa e generica del mondo di cose, e non certo invece la conoscenza della loro essenza – con la quale sconfiniamo invece decisamente nel mondo dell’’intelligibile. Egli ammette però che senz’altro innato è lo strumento necessario per questa complessiva conoscenza, ossia l’intelletto. Naturalmente, di converso, per lui non è assolutamente per la via sensibile che è possibile conoscere gli intelligibili, ossia i principi primi. Per essi egli invoca pertanto una conoscenza per nulla sensibile e tutta invece meditante e pensante (dunque esclusivamente interiore), ossia una conoscenza che si avvale per essa unicamente delle idee. E qui egli converge nuovamente con Malebranche ed in gran parte anche con Platone. Tale conoscenza è quindi per lui giocoforza innata. In altre parole noi possediamo già fin dalla nascita dentro di noi le idee delle cose, ed esse quindi non ci provengono (come pensarono pensatori come Tommaso e Locke) affatto dai sensi e quindi dagli oggetti. Tuttavia esse agiscono comunque nel contesto della conoscenza sensibile. Infatti, laddove si conosce sensibilmente un oggetto corporeo, esso (per mezzo dell’intervento della relativa idea innata) viene sollevato dall’opacità che affetta sempre la conoscenza sensibile ed acquista così la chiarezza luminosa dell’intelligibile. Il che avviene per mezzo di un’”immagine” dell’oggetto da noi costruita interiormente sulla base della sollecitazione sensibile. Questa immagine richiede però l’idea per poter insorgere. In tal modo veniamo a conoscere l’essenza della cosa, sia pure in modo mediato. Diversamente stanno le cose invece per gli enti incorporei che vengono colti da noi immediatamente come intelligibili (quindi in assenza di qualunque immagine).
E tra questi Bonaventura menziona soprattutto l’anima e Dio. È esattamente per questa via che riemerge quindi il tema cruciale della conoscenza di Dio in quanto idea presente nella nostra mente in maniera giocoforza innata (dato che non ci proviene dal mondo sensibile). E (come abbiamo già visto) in questa sede Bonaventura sviluppa la conoscenza di Dio lungo la falsariga della dottrina agostiniana, ossia in relazione alle facoltà conoscitivo-animiche (intellettuali) superiori di memoria, volontà ed amore. E naturalmente è implicata qui di nuovo l’autoconoscenza – l’uomo ama Dio al quale è simile (nella stessa struttura della propria mente, che è trinitaria), in quanto, ricordandosi di sé stesso e volendo naturalmente amarsi, finisce per amare anche il Dio che soggiorna in lui in quanto idea innata.
Il discorso di Gilson sulla dottrina teoretico-conoscitiva di Bonaventura continua poi nuovamente toccando aspetti fisiologici della funzione gnoseologica dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, III p. 352-361]. Anche da questo discorso estrarremo solo ciò che più direttamente ci interessa. Qui si delinea infatti una “ragione superiore” che coglie sempre oggetti superiori anche quando è rivolta ad oggetti inferiori, e quindi di fatto in tutto riconosce Dio. La “ragione inferiore” resta invece legata si soli oggetti inferiori. Ed in relazione a questo tutte le facoltà dell’anima possono quindi venire distinte considerando una conoscenza degli oggetti indiretta ed imperfetta in quanto totalmente riflessa (“per speculum”) oppure diretta (“in speculum”) in quanto riconosce nello specchio gli oggetti così come sono nella loro integralità. Ecco di nuovo la conoscenza degli oggetti intelligibili. Su questa base poi Bonaventura finisce per differenziare due sovrapposti livelli intellettuali superiori al livello dei sensi: − lo spirito (“spiritus”) e la mente (“mens”).
Il primo (spirito) sarà ragione (“ratio”) se conosce “per speculum”, e invece intelletto (“intellectus”) se conosce “in speculum”. Il secondo (mente) sarà intelligenza (“intelligentia”) se conosce “per speculum”, e invece “apex mentis” o “synderesis” se conosce “in speculum”.
Ecco insomma qui descritta di fatto la differenza esistente tra la Ragione e l’Intelletto. Laddove entrambe le facoltà rientrano nello Spirito, ma l’Intelletto sicuramente ne rappresenta di più le straordinarie capacità conoscitive. Inoltre, nel contesto della mente (superiore di per sé allo spirito), si lascia riconoscere una sorta di apice conoscitivo che appare essere anche più potente dell’intelletto ed inoltre è anche il momento più alto della conoscenza. Esso certamente è il livello conoscitivo che si associa all’unione mistica. E si potrebbe pensare che esso rappresenta l’intelletto nella sua capacità di penetrare i misteri divini. Gilson però non commenta affatto questa realtà della mente.
Altro interessante spunto è rappresentato dallo studio della relazione tra “essenza” e “verità”; tema che è di tipo puramente teoretico-conoscitivo, e quindi per nulla religioso. Secondo Gilson, Bonaventura aveva postulato che la conoscenza di una verità presuppone sempre la verità di un essere. Ma intanto un essere che venga posto entro un puro atto di pensiero costituisce per davvero un’essenza (e quindi pone anche un’esistenza). Mentre ciò non avviene quando l’essere appena si presenta ad un pensiero già formatosi e sussistente.
In questo ultimo caso il pensiero, nel cogliere l’essenza dell’essere, si limita a cogliere solo la verità. E quindi l’atto di riconoscimento di un’essenza prelude al coglimento di una verità, la quale a sua volta non sussiste senza un relativo essere. Del resto però se noi concepiamo appena una pura essenza, non vi sarà alcun contenuto da conoscere, e quindi è come se non avessimo pensato alcunché. E questo caso estremo ci mostra come sia sempre necessaria un’”adequazione” dell’intelletto al proprio oggetto. Cosa che nel pensiero di allora veniva indicato come la verità stessa.
I due momenti gnoseologici sono quindi profondamente coordinati tra loro. La verità esige l’essere e la sua “concezione” in un pensiero davvero puro. Ovvero, altrimenti detto, essa esige l’immutabilità dell’oggetto conosciuto e l’infallibilità della conoscenza. Le eventuali deficienze di questi aspetti generano comunque le condizioni stesse per l’incertezza, che affliggono ordinariamente qualunque tipo di ragionamento, tanto filosofico che scientifico.
Ed ecco dunque che in Bonaventura la dimensione teoretico-conoscitiva viene integrata da quella conoscitivo-religiosa (ossia di fatto la FR). Infatti inizia a delinearsi l’assoluta necessità della conoscenza delle “ragioni eterne”, che nell’uomo può avvenire solo e soltanto con il soccorso di Dio. Con questo atto divino soltanto inizia a delinearsi presso l’uomo la possibilità della “certezza”, della quale in assenza di Dio non è nemmeno il caso di parlare. E tuttavia qui le cose si fanno abbastanza difficili. Perché, come dice Gilson, la principale certezza che l’uomo vorrebbe è quella di Dio – del quale però non ci è negata solo la visione, ma anche l’integrale conoscenza. E si badi bene che Dio è anche il “principio primo” e quindi il massimo della certezza conoscitiva ordinaria. Tuttavia le ragioni eterne divine intervengono unicamente nell’offrirci quella certezza della verità che altrimenti non potremmo mai avere. E questo genera quella “scienza perfetta” che, come dice Gilson, “si compirà solo in Dio”. Ed ecco anche descritto il fenomeno dell’illuminazione intellettuale dell’uomo da parte di Dio.
Ebbene tutto questo diviene in Bonaventura attuale e perfino ordinario in un’autentica e piena FR, e precisamente nel senso che “l’uomo non può conoscere alcuna verità senza Dio” anche se non potrà mai vederlo. La FR ha allora anche un versante pragmaticamente teoretico-conoscitivo – essa è infatti quella filosofia che, a causa nel suo mancato sottrarsi all’illuminazione divina (che le viene dalle Scritture, a loro volta sede di supreme verità, oltre a venirle anche ordinariamente per pura ed amorosa verità divina), si rende capace di una certezza della quale è perfino ridicolo parlare nella restante filosofia ed ancor più nella scienza. Questa può essere quindi considerata l’idea bonaventuriana della stessa filosofia pura. Come possiamo però facilmente constatare il fenomeno dell’illuminazione divina, sebbene colpisca esattamente l’intelletto, non conferisce all’uomo alcuna capacità conoscitiva straordinaria, e quindi non lo mette affatto nelle condizioni per conoscere Dio penetrandone completamente la natura. Questo fenomeno non genera quindi affatto quella CIAD che abbiamo visto presupposta dai moderni pensatori tradizionalisti. Esso invece riguarda appena l’ordinaria conoscenza delle verità filosofiche, e quindi ha una portata unicamente teoretico-conoscitiva. Se dunque l’illuminazione divina viene accettata solo dall’autentica FR (e non invece dall’ordinaria filosofia laica e secolare di cui ci parla Habermas), essa non pone però affatto le condizioni basilari per quest’ultima. Ma semmai rende quest’ultima appena capace di ammettere umilmente che la pura e ordinaria filosofia da sola, priva com’è del soccorso divino, non è in grado di conoscere nemmeno le più ordinarie verità.
E di tutto questo bisogna tenere strettamente conto. Perché la definizione bonaventuriana di FR che ne scaturisce è decisamente riduttiva.

Conclusioni.
In questo articolo abbiamo esaminato in particolare il pensiero di Bonaventura sulla base dell’esposizione e discussione che ne fa Gilson. Abbiamo invece parlato solo marginalmente di Habermas e di Malebranche.
Ed abbiamo visto emergere nel pensatore medievale non solo i tratti della più autentica FR ma anche altri aspetti del suo pensiero che sono o meno collegati con quest’ultima: − la relazione tra Ragione e Fede, la conoscenza di Dio e precisamente della sua esistenza, la dottrina delle idee da lui applicata alla conoscenza di Dio, la sua metafisica, ed infine (nel contesto di quest’ultima) la sua concezione di anima ed intelletto, oltre ad una serie di importanti correlati teoretico-conoscitivi connessi con questi ultimi due aspetti.
Ebbene cosa tutto questo può avere a che fare con Habermas e Malebranche – i quali di trovano su una lunghezza d’onda filosofica completamente differente?
Rispetto al primo la risposta è semplice ed è stata da noi anche già data – Bonaventura contraddice frontalmente l’idea che la filosofia, per essere tale, non possa e non debba essere religiosa. Anzi egli sostiene l’esatto contrario (perfino in base agli ultimi aspetti puramente teoretico-conoscitivi che abbiamo esaminato) – per lui di fatto non vi è alcuna filosofia in assenza della dimensione religiosa del pensiero, ossia senza chiamare in causa Dio (e la sua Rivelazione) addirittura nella conoscenza delle ordinarie verità filosofiche e scientifiche. Per il resto Habermas sostiene inoltre una dottrina della relazione di Ragione e Fede che non fa altro che pretendere di confondere tra di loro questi due atti, facendo così sparire tra di essi qualunque differenza. Bonaventura invece afferma che la Ragione al massimo grado è la Fede stessa, e quindi comporta la piena accettazione dell’esistenza di Dio e l’accoglimento della sua illuminazione. Quanto alla metafisica (specie se religiosa), per Habermas di essa non si dovrebbe più nemmeno parlare (così come di concetti come quello di anima).
Ma veniamo ora a Malebranche. Abbiamo visto più volte che il pensatore francese ambì a costruire anche lui una sorta di non poco ambiziosa FR. Essa infatti ambiva a spaziare senza alcun limite tra la conoscenza degli oggetti sensibili e quella dei massimi oggetti intelligibili, tra i quali ovviamente Dio. Tuttavia egli non si sognò nemmeno di considerare come supreme verità quelle contemplate nella Rivelazione, e quindi non ritenne assolutamente possibile considerare il filosofare come un atto di pensiero che parta da esse per poi ritornarvi in forma di verità ormai illuminate direttamente da Dio e così rese assolutamente certe.

Per lui, infatti, le verità della religione non erano altro che le stesse della filosofia pura, e quindi erano subordinate a quest’ultima senza avere alcuna relazione con la Rivelazione. Conseguentemente gli oggetti del suo filosofare volevano essere gli oggetti sensibili stessi, sebbene una volta elevati dal pensiero ad intelligibili. E la presenza ed azione di Dio in questo vennero da lui viste come l’intervento di null’altro che della stessa Ragione umana, ma elevata al suo massimo grado, cioè ricondotta alla sua natura divina. Laddove invece Malebranche si appaia almeno parzialmente al pensiero di Bonaventura è nel porre il valore primario di un intelligibile pieno come l’idea di Dio. Essa fu però per lui il più alto paradigma di una conoscenza che ignorava completamente le cose sensibili (e non ne riceveva assolutamente l’influsso) per conoscere unicamente attraverso le relative idee, ossia unicamente entro la dimensione interiore del pensiero. Abbiamo visto invece che Bonaventura ammette pienamente l’azione delle cose esteriori sull’anima conoscente (ossia sulla mente) − per mezzo dei sensi ed anche perfino il loro trasformarsi in idee. Soltanto che considera la conoscenza di queste ultime (ossia degli intelligibili) come quella di grado più alto – e come tale includente anche la conoscenza di Dio.
In altre parole il confronto con Bonaventura offre la possibilità di riconoscere nella metafisica razionalista del XVII secolo qualcosa che davvero con grande sforzo può venire definita come una FR. E peraltro non senza rischiare di sbagliare.
Ma infine cosa si può dire del complessivo modo in cui Bonaventura concepì quest’ultima, e soprattutto quale ne fu secondo lui la portata? E qui non troveremo alcun corrispettivo né in Habermas né in Malebranche, bensì semmai nei pensatori tradizionalisti che abbiamo più volte finora citato, definendoli come esponenti di un «onto-intellettualismo» che sta in relazione estremamente diretta con il pensiero di Platone e con il successivo platonismo e neoplatonismo.
Abbiamo visto che il nostro pensatore considerò pienamente possibile la conoscenza di Dio, sebbene unicamente come esistenza e non come essenza. Egli giunse anche a toccare l’idea di un intelletto che possiede la massima potenza conoscitiva. Quindi, anche in Bonaventura, si sarebbe potuto vedere in esso il protagonista assoluto e possente di questa conoscenza. Eppure egli non si occupa del ruolo dell’intelletto nella conoscenza di Dio, come hanno fatto invece pensatori come Schuon, Bérard e Vallin.
Infatti anche quando parla dell’illuminazione divina, egli la intende come qualcosa che l’uomo sempre riceve, e mai invece come qualcosa che esso costruisce e raggiunge per mezzo del proprio intelletto. Quest’ultimo anzi è per Bonaventura impotente almeno quanto lo è anche la Ragione stessa. Ne risulta dunque che la definizione bonaventuriana di FR non include l’uso dell’intelletto per un’integrale conoscenza di Dio, o anche conoscenza intellettuale di Dio (CIAD). Inoltre nelle ultime battute della sezione dedicata al suo pensiero abbiamo anche visto che egli ci fornisce una definizione decisamente riduttiva di FR – un’attività conoscitiva che accoglie l’illuminazione divina unicamente per l’ordinaria conoscenza filosofica.
Ma questo significa anche che la superiorità da lui riconosciuta all’Intelletto rispetto alla Ragione non lo induce nemmeno a ritenere il primo come il protagonista di una conoscenza capace di penetrare le profondità dell’essere come invece la Ragione non può né sa fare. E con ciò ci riferiamo alle recenti ricerche e riflessioni di un pensatore come Wolfgang Smith, che peraltro trovano un certo loro corrispettivo anche in Schuon (capacità infallibilmente constatativa dell’Intelletto).
Bonaventura non rientra quindi in questo complessivo universo di pensiero, che del resto risente di condizioni e problematiche sostanzialmente moderne – come soprattutto la necessità di profonda critica (in nome della filosofia metafisica e specificamente della FR) all’egemonia sulla conoscenza che negli ultimi secoli è stata conquistata dalla scienza e che viene esercitata senza ormai alcuna opposizione. Non per nulla il nostro pensatore si occupa dell’Intelletto nel contesto di una pura teoria della conoscenza (interessata principalmente alla fisiologia di quest’ultima ancorché localizzata nell’anima) che peraltro risente unicamente di temi medievali (come ad esempio quello della relazione tra intelletto agente ed intelletto passivo).
Ora, a fronte di tutto ciò, possiamo ancora dire che Bonaventura rappresenta l’esponente di una corrente platonica del pensiero cristiano? Abbiamo già fornito diversi argomenti per la soluzione di tale questione, ma è evidente, intanto, che la risposta a questa domanda dipende dalla maniera in cui viene definita questa corrente di pensiero, insieme ai suoi modi ed ai suoi contenuti. Laddove in questo modo si potrebbe anche individuare in via di principio una definizione tipica di FR.
Sicuramente Bonaventura platonico lo è stato (come dice lo stesso Gilson) nell’attribuire (anche se indirettamente) il più grande valore alla dottrina delle idee di Platone, ed entrando per questo anche in polemica con Aristotele e Tommaso. E lo è stato anche (come abbiamo visto) per lo spontaneo collimare di alcune sue convinzioni con aspetti davvero centrali della visione del pensatore ateniese. Ma lo è stato solo per questo, dato che egli per altri versi contraddisse vivacemente Platone in molti aspetti della sua metafisica che collidevano con la dottrina cristiana.
In ogni caso non si può dire che Bonaventura sia stato un esponente della corrente platonica del pensiero cristiano se si intende quest’ultima come coincidente con la presa di posizione che abbiamo definito come «onto-intellettualismo». E per la precisione (come abbiamo già visto) questa include un’estremistica concezione della conoscenza di Dio (CIAD) ed anche un ruolo conoscitivo straordinario da attribuire in generale all’intelletto. Ebbene anche da questo punto di vista questa corrente platonica è stata solo moderna e non antica. Sebbene essa si rifaccia moto direttamente a molti aspetti dell’antico platonismo e neoplatonismo
Abbiamo visto poco fa perché questo è accaduto. Ma comunque è evidente che l’aspirazione a fondare un’autentica e piena FR non è stata l’intento primario di questo movimento di idee. Mentre lo è stata senz’altro per Bonaventura. Presso i pensatori moderni da noi considerati, la FR compare infatti solo di riflesso in una serie di prese di posizione che hanno soprattutto sostenuto la necessità di riattualizare pienamente la metafisica (dopo la sua letterale cacciata dall’ambito della conoscenza dopo Kant) ed inoltre di controbattere un razionalismo che era divenuto dominante dall’Illuminismo in poi.
Cosa della quale abbiamo poi il preciso riscontro anche in Habermas.
Ebbene questa serie di aspirazioni si è mantenuta nei limiti di un pensiero unicamente interessato ad essere tradizionalista in opposizione a qualunque modernismo (e quindi secolarismo); affermando così che la conoscenza degli oggetti intelligibili (specie dalla valenza metafisico-religiosa) era da considerare di nuovo degno e legittimo, e proprio in tale contesto prendendo ad attribuire all’Intelletto un valore alternativo rispetto a quello della Ragione. Un altro versante di questa serie di prese di posizioni inoltre ha ambito non solo a riammettere la metafisica nell’ambito della conoscenza ma anche ad impiegarla per cercare un nuovo paradigma scientifico-conoscitivo da applicare alla nuova Fisica (specie quantistica) come avanguardia della conoscenza di oggetti incorporei. Questo è stato il lavoro di pensatori di come Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023], ma anche di fisici veri e propri, come Heisemberg, nelle riflessioni filosofiche condotte a margine della scienza.
Evidentemente tutto questo non ha molto a che fare con la ricerca di una FR autentica, che ha però senz’altro fatto sentire il suo effetto non solo in Bonaventura, ma anche nei pensatori antichi che abbiamo menzionato nell’Introduzione come esponenti della corrente platonica del pensiero cristiano. E con ciò crediamo di avere risposto alla questione che avevamo posto nell’Introduzione: − molto probabilmente, dopo la paradigmatica definizione bonaventuriana di FR, non ce ne sono state più altre; e probabilmente non ci sono più nemmeno le condizioni per farla rinascere ancora.
Ecco allora che – grazie all’attribuzione a Bonaventura di quello che gli appartiene e quello che non gli appartiene – abbiamo isolato un campo di riflessione e di ricerca esclusivamente moderno che si è sempre mosso ai margini di un’autentica FR (ormai però divenuta una pura possibilità e non più una realtà) piuttosto che farne parte integrante. Naturalmente bisogna qui fare un’eccezione per pensatori apertamente religiosi (e la cui riflessioni riprese peraltro molti dei temi medievali trattati da Bonaventura) che hanno operato nel corso del XX secolo – Maritain, Edith Stein ed in generali tutti quelli che rientrarono nel fenomeno del grande revival religioso insorto in filosofia nel XX secolo (con grande partecipazione di pensatori spiritualisti e personalisti) [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/; Vincenzo Nuzzo, Moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione)]. La loro FR non era però più affatto diretta autentica come quella di Bonaventura; e questo sia per essersi appiattita su temi neo-tomisti (Maritain) sia per non aver mai rinunciato al razionalismo filosofico moderno (Stein) sia infine per il suo obbedire a criteri filosofico-metafisici molto specifici.

Nel complesso quindi possiamo concludere che Bonaventura non è certo stato estremista nella sua definizione della FR. Ma intanto ha ben isolato il tema entro la tradizione cristiana ed anche entro la filosofia in generale. E quindi ci ha fornito di essa una definizione paradigmatica ed anche estremamente forte, che forse non trova un corrispettivo neanche presso i pensatori antichi che rientrano nella stessa corrente di pensiero alla quale egli appartenne. Di certo, una volta posta a confronto con definizioni di FR ben più estremistiche (segnatamente quelle che hanno concepito una CIAD davvero integrale), quella di Bonaventura finisce per sbiadire e perfino divenire riduttiva. Sta di fatto però che, nel contesto della storia della filosofia, essa continua anche così a presentarsi a noi come paradigmatica e quindi ad avere un grande valore ed una grande originalità. Va ammesso però che tale valore può venire riconosciuto solo da coloro che intendono il filosofare come un’attività che non è affatto disgiunta dall’esperienza religiosa e quindi dalla più intensa fede.

Ma dobbiamo anche dire che guardandoci intorno non vediamo molti pensatori che siano interessati a questo genere di filosofia. Quest’ultima appare del resto piuttosto svincolata dalla dimensione accademica (o comunque scolastica) entro la quale la disciplina viene ordinariamente praticata. Ed appare piuttosto svincolata anche dall’ordinaria attività editoriale di quest’ultima. Infatti professare l’intendimento di filosofia come esperienza religiosa (specie se cristiana) non tende ad attirare molto interesse né nel mondo filosofico accademico né nel mondo editoriale. E nemmeno presso gli usuali lettori di filosofia.
Per tutti questi motivi chi oggi intendesse la filosofia come religiosa al modo di Bonaventura tenderebbe senz’altro a restare oscuro e privo della gratificazione di qualunque interesse e riconoscimento.
Ne risulta che questo genere di filosofia sembra fatto molto più per una «vita filosofica» vera e propria, ossia collimante con un filosofare che sappia e voglia essere in primo luogo esperienza individuale di vita e di crescita spirituale. Del resto noi stessi ci siamo poco a poco adattati ad intenderla proprio in tal modo.
E quindi con questo articolo noi non abbiamo affatto l’intenzione di partecipare ad un dibattito filosofico che misconosce totalmente l’intendimento della disciplina che può venire fatto risalire anche fino a Bonaventura. E per questa presa di posizione le idee di Habermas rappresentano un preciso e puntuale punto di riferimento; oltre naturalmente a quella presa di posizione (da noi definita come ricerca «scientifico-religiosa» che riflette su tutti i possibili concetti religiosi tranne che su quelli che compaiono nella Rivelazione.
Intendiamo invece soltanto sostenere – con l’appoggio di uno dei più grandi pensatori antichi che vi siano mai stati – che la FR è una forma di filosofia perfettamente possibile, praticabile ed anche legittima.

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Introduzione.
Nicolas Malebranche appare essere un caso davvero singolare della filosofia. Ed infatti non solo la storia della filosofia ha guardato al suo pensiero con i più diversi atteggiamenti, ma inoltre, quando lo si legge, si viene colti da sentimenti molto contrastanti. Specie se lo si legge come esponente di una poderosa metafisica religiosa, che (iniziata con Cartesio) ha visto la presenza di autentici giganti del pensiero come Leibniz e Spinoza. Infatti, una volta approfondita, la sua dottrina filosofico-metafisica (ed inoltre dai fortissimi risvolti teologici), oltre ad affascinare notevolmente, suscita anche notevoli perplessità. E non solo etico-religiose ma anche epistemologiche (sebbene queste siano senz’altro minori).
Innanzitutto non sembra essere affatto un caso che egli sia rimasto nel dimenticatoio della filosofia per molto tempo [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Nella sua dottrina erano state infatti evidenziate notevoli insufficienze se non aporie (Watson). Ed infatti l’analisi testuale alla quale ci dedicheremo in questa recensione ne metteremo noi stessi in evidenza molte. Watson (citato qui da Walton) afferma che addirittura molti abbiano negato a Malebranche lo status di filosofo.
Tuttavia nello stesso tempo (Rodis-Lewis) pare che (a causa del suo sforzo di dissolvere pregiudizi tentando di dare un contributo alla ricerca della verità in filosofia) egli abbia rappresentato qualcosa di estremamente valido e nuovo nel contesto del pensiero occidentale, e precisamente qualcosa di anche molto promettente [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Questa sua novità consisteva in particolare nello sforzo di cercare una fondazione comune per fede e ragione, ma infine anche perfino per l’osservazione sperimentale (consistente specialmente nella fisica). Intanto però molti critici hanno sottolineato che il prezzo di questa operazione (in particolare un’ontologia consonante con la fisica) fu il ricadere del suo pensiero nel misticismo e nell’irrazionalità. Ed in effetti costateremo più volte che (specie nel tentare di dare un fondamento filosofico alla teologia cristiana) la sua logica è spesso traballante e caratterizzata da salti iperbolici che mancano di un’argomentazione davvero fondata.
Altro aspetto rilevante è quello che consiste nel fatto che il suo pensiero pare sia stato paradigmatico per una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
E questo sarebbe vero soprattutto a causa del suo grande sforzo di riconciliare una metafisica davvero profonda con le pur recalcitranti evidenze fattuali e mondane. Si tratta insomma con ciò del nucleo della visione di Malebranche, e cioè di quella teodicea che − nel porre Dio come Essere assolutamente perfetto e Causa di ogni minimo evento, essere ed azione – vuole giustificare la creazione di un mondo perfetto ad onta perfino della schiacciante evidenza del male. Non a caso per Black questa teodicea è stata definita “vendicativa” (“vindicative”) a favore della divina Provvidenza, e quindi non solo forte ma anche provocatoria ed aggressiva, se non crudele.
Non è un caso che il moderno pensiero religioso (basato ormai sulla scienza cognitiva) non perda una sola occasione per considerare qualunque teodicea come ormai superata dall’evidenza del male esplosa recentemente nella storia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”. < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. E bisogna dire che vi sono non poche ragioni per ritenere questo di fronte a teodicee così disinvolte come quella di Malebranche.
Possiamo dire quindi che Malebranche – nel suo progetto di fondare e giustificare filosoficamente il Cristianesimo – si è limitato, molto disinvoltamente, a fare semplicemente da solo, ossia senza tenere nel minimo conto i più rilevanti contenuti della Rivelazione. Non è un caso quindi che egli abbia incentrato il suo progetto filosofico-religioso su un totale disprezzo dell’uomo e anche del mondo stesso. Anzi si può ben dire che la sua rientra tra le concezioni più pessimistiche dell’uomo e del mondo che si siano ma viste in filosofia (probabilmente non molto lontana da quella manichea). Il che poi si fa risentire in una dottrina totalmente deterministica della libertà umana; che solo finge di prendere in considerazione quest’ultima per poi negarla nei suoi principali fondamenti. Egli infatti credo troppo poco nell’uomo per poter pensare per davvero Dio gli abbia affidato il compito di scegliere tra bene e male. E così perviene alla conclusione che l’uomo viene costantemente condotto da Dio verso il bene. Cosa che ovviamente abolisce in partenza la libertà.
E tutto questo è davvero eclatante se si considera che uno dei maggiori esponenti del Personalismo cristiano (peraltro anche non poco riformatore), cioè Nikolaj Berdjaev, abbia incentrato la sua rilettura del Cristianesimo proprio sul valore fondamentale che andrebbe attribuito all’uomo proprio a causa della libertà che lo contraddistingue in quanto ente metafisico [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, Prefazione, p. VII-IX, II p. 110-113, V p. 172-185, XIII p. 358-361; Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, ibd., 1 p. 3-8; Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 1 p. 28-38, II, 1 p. 54-59, IV, 3 p. 191-194, V, 4 p. 260-261; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002I, p. 8-25, I p. 32-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-84, V p. 85-93, V p. 97-100, VI p. 101-109, VIII p. 160-166; Vincenzo Nuzzo, Il moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA 2023 (in via di pubblicazione)].
Ed a questo si aggiunge peraltro che, nel leggere Malebranche, ci si rende ben presto conto del fatto che il suo progetto di difesa della fede cristiana è e vuole essere puramente filosofico, e quindi incentrato unicamente sulla più pura e rigorosa Ragione. Non a caso egli non solo contesta qualunque autorità in campo religioso e culturale (specie l’erudizione), ma inoltre sembra non intendere affidare un ruolo molto importante perfino ad alcune importanti affermazioni della Rivelazione cristiana. Inutile dire che il risultato netto di tutto ciò, per l’uomo di fede, è estremamente deludente. Il che significa che, con il suo complessivo progetto (ormai comunque sicuramente molto datato sia teologicamente che filosoficamente) egli scontenta sia il non-credente che il credente. Ma, oltre a ciò la sua metafisica unilateralmente razionalista scontenta anche colui che vede in questa disciplina ancora una scienza che (aldilà di tutte le svariate forme che ha assunto nella storia del pensiero) è autentica solo quando si basa unicamente sulla Rivelazione. Non a caso nell’ultima sezione vedremo che la sua visione si attirò gli strali di un pensatore protestante (quasi pro-ateo) come Bayle (che aveva duellato anche con Leibniz) e di due credenti come Arnaud e Bossuet. Bayle in particolare rigettava radicalmente l’identificazione del Cristianesimo con la morale, e quindi meno che mai con un razionalismo morale.
Insomma possiamo ben dire in anticipo che il Malebranche religioso si è prodotto in concetti ed affermazioni che risultano molto spesso non solo inaccettabili ed aberranti, ma perfino scandalosi. E pertanto, almeno da questo punto di vista, la sua filosofia manca di qualunque valore. Meno che mai di un valore cristiano.
Ma, dopo aver precisato questo, bisogna anche dire che dalla lettura dei suoi testi si deduce un elemento filosofico-metafisico davvero originale ed anche molto interessante. Ed esso è dottrinariamente anche fondamentale. La sua dottrina si basa infatti principalmente su una sorta metafisica dalla valenza fortemente epistemologica (ma anche religiosa), secondo la quale il mondo intelligibile (il mondo delle idee) è più vero di quello sensibile, e quindi rappresenta l’unico modo di conoscere quest’ultimo. E questa dottrina richiama chiaramente Platone quale autorità incontestabile. Il che (almeno da questo punto di vista) elimina in partenza qualunque possibile svalutazione della metafisica di Malebranche.
Oltre a ciò appare evidente che il suo concetto di Essere sfugge a qualunque previa determinazione formale ed ad ogni staticità, ed quindi è solo dinamico in quanto sostanziale sistema di relazioni [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. In questo senso esso è solo Ordine o anche Giustizia. Non è dunque assolutamente statico Fondamento trascendente (ma immanentizzato) che giustifichi l’esistenza degli enti. Dunque non si tratta affatto del concetto di Essere che la metafisica aveva fino ad allora sempre preso in considerazione a partire dalla sua concezione aristotelica. L’ontologia di Malebranche si basa quindi su concetti metafisici estremamente nuovo ed originali che divergono sia da quelli di Cartesio sia da quelli della classica onto-metafisica della Scolastica. La sua è infatti una metafisica che intende primariamente fondare in maniera ineccepibilmente razionale e Leggi che regolano il divenire mondano e naturale, ossia il funzionamento dell’universo. Ciò che egli vuole è che da questo divenire svanisca qualunque caso. E proprio per questo egli identifica con Dio la Ragione universale.
Ma di questo parleremo più diffusamente nel corso della recensione

In questa recensione non ci baseremo purtroppo sul libro più importante di Malebranche, e cioè “La recherche de la verité” (LRV). E tuttavia gli articoli che abbiamo consultato ne espongono ampiamente il contenuto, che poi non è molto diverso da quello delle opere che abbiamo letto (in particolare “Pensieri metafisici”) – specialmente l’articolo di Walton [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Le opere che abbiamo consultato sono invece tre, e cioè le seguenti: − “Pensieri metafisici” (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911]; “Conversazioni cristiane” (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999]; “Trattato della Natura e della Grazia” (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991]. Vorremmo solo avvertire il lettore che il materiale esposto in queste opere è comunque rappresentato da un’argomentazione estremamente ricca, complessa ed articolata, della quale quindi noi potremo riportare solo alcuni passaggi. Per cui per una completa comprensione del pensiero di Malebranche non basterà affatto la lettura di questa recensione ma bisognerà dedicarsi anche alla lettura delle opere originali.

Andando con ordine affronteremo in sequenza i principali temi trattati da Malebranche, e cioè i seguenti: − 1) Definizione di Dio; 2) Teodicea; 3) Concetto di metafisica; 4) Teoria della conoscenza e della percezione; 5) Concetto di mondo e di Natura (il panteismo); 7) Chi fu Malebranche?.

La definizione di Dio e il progetto filosofico-religioso in generale. Il Cristianesimo razionalista di Malebranche (sezione 1).
Non vi è dubbio che per Malebranche Dio è l’Essere perfettissimo del quale un tempo parlava anche il Catechismo cattolico [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181 p. 53-55, I, 179-188 p. 60-67, I, 263 p. 70]. Ma lo è in una maniera molto specificamente caratterizzata in termini filosofici, ossia come Ragione suprema ed universale [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23 p. 33-35, I, 163-168 p. 47-53, I, 177-181p. 53-55] e come Causa altrettanto suprema e prima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31 II, 49-51 p. 41-42, IV, 328-329 p. 44-45, I, 163-168 p. 47-53, I, 130 p. 67-68]. Egli è cioè in primo luogo ciò da cui tutto dipende nell’esistere, agire e perfino sentire delle creature, della Natura e di qualunque corpo fisico cosmico. Da ciò deriva che i suoi attributi sono anch’essi altrettanto specifici: − Perfezione, Giustizia, Ordine, Potenza, Gloria, Infinità, Immensità, Eternità, Ragione, Governo, Signoria. Senz’altro essi si potrebbero sintetizzare nell’attributo costituito dalla Maestà.
Dio insomma è per Malebranche un vero e proprio Monarca assoluto in quanto Ragione e Causa di tutto.
È evidente quindi che questo è un Dio dei filosofi e degli scienziati. Non dei teologi né degli uomini di fede in generale. Egli è insomma in primo luogo ciò in virtù di cui il mondo esiste e funziona in ogni momento della sua esistenza, quindi ben al di là del complesso contesto teologico-rivelazionale della creazione.
Insomma è un mondo che non marcia come deve senza la continua e inflessibile conduzione divina.
È evidente che ciò rende molto ben caratterizzato il progetto di Malebranche di giustificare il Cristianesimo su base filosofica. Egli non lo fa infatti con l’obiettivo primario (apologetico) di difendere filosoficamente il Cristianesimo stesso dalle accuse ad esso rivolte (come i titoli dei suoi libri fanno immediatamente pensare), ma lo fa invece con l’unico obiettivo di filosofizzare il Cristianesimo e peraltro in una maniera molto estremisticamenre razionalista (e conseguentemente anche la Religione in generale). Va quindi inteso in questo modo il fatto (rilevato da Black) che il suo pensiero costituirebbe il paradigma stesso di un “teologia filosofica”. Lo è infatti allo stesso identico modo in cui la teologia oggi si presenta dopo aver fatto suo totalmente il pensare ed il linguaggio filosofici in seguito all’opera di alcuni decisivi pensatori moderni (specie Husserl e Heidegger) mediante la quale essi hanno di fatto rifondato il filosofare stesso. Insomma questa “teologia filosofica” non è altro che una filosofia. E lo è nel modo più estremistico che si possa pensare, cioè in obbedienza a concetti ed approcci che spesso con la vera teologia non ha nulla a che fare; come ad esempio la più rigorosa logica oppure un esistenzialismo sconfinante addirittura nel nichilismo
E questo è stato da noi commentato in diversi scritti (vedi articoli precedentemente citati).
Evidentemente Malebranche (come del resto anche Leibniz e Spinoza) anticipava l’insorgere successivo di questa tendenza della teologia. Con il suo pensiero, quindi, non si tratta tanto di risolvere in maniera soddisfacente l’eterno conflitto Ragione/Fede, ma semmai si tratta solo di ridurre totalmente il secondo termine al primo. In altre parole sembra che per il nostro la Religione debba rientrare totalmente nell’ambito conoscitivo della Filosofia. Cosa resti a questo punto della fede è difficile dirlo, sebbene il pensatore francese si soffermi molto su contenuti di fede ed anzi alle volte li ponga addirittura alla base della sua argomentazione filosofica (specie in relazione alla figura di Gesù Cristo). Ma cosa ne resta intanto della fede vissuta, ossia (per così dire) della franca «pietas», ossia del vivere in una maniera quanto più possibile religiosa? Che ovviamente con la filosofia può anche non aver assolutamente nulla a che fare.
Evidentemente assolutamente nulla.
Dunque purtroppo Malebranche sbarra decisamente questa strada. E questo è esattamente il motivo per il quale il fedele e credente, dopo essere stato abbagliato dai titoli dei suoi libri (ed anche da alcune sue affermazioni molto contemplative e pie), resti decisamente deluso (se non nauseato) dal discorso filosofico-religioso di questo pensatore. Ed in particolare, come poi vedremo, soprattutto dalla sua teodicea.
Dunque diremmo proprio che egli non va considerato affatto tra gli esponenti di un’autentica filosofia-religiosa e specialmente cristiana (se non in maniera puramente formale). E questo è del resto il tratto comune di quella metafisica razionalista che (prendendo le mosse non a caso da Cartesio) vide come suoi protagonisti anche Leibniz e Spinoza. Insomma di questo genere di metafisica l’autentico homo religiosus non può farsene assolutamente nulla. E lo capiremo ancora meglio approfondendo ulteriormente la definizione di Dio propostaci da Malebranche
Innanzitutto, molto curiosamente, da questa immagine di Dio sono svaniti alcuni significativi attributi che la metafisica (sia pagana che cristiana) Gli aveva sempre riconosciuti – come Unità, Bontà e Bellezza. Anche questi attributi avevano in verità una fortissima caratterizzazione filosofico-razionalistica (fondando non a caso un molto decisa gnoseologia), ma comunque mantenevano un costante rapporto non solo con la Teologia bensì anche con la Rivelazione stessa. In virtù di esse, infatti, Dio restava Colui che aveva creato il mondo sostanzialmente per amore, e si presentava quindi come un Padre ripiegato amorosamente sulle sue creature. E si badi bene che anche Tommaso d’Aquino sostenne, in maniera abbastanza simile a Malebranche (e quindi configurando una sorta di Filosofia della Natura su basi metafisiche), una sorta di “intelligent design” divino che si basava su un’intelligenza infusa nella Natura fin dall’inizio e moventesi autonomamente [Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; Andrea Sangiacomo, “Aristotele, Heerebord and the polemical target of the Spinoza’s final causes”, J. of the Hist of Phil., 54 (3) 2016, 395-420; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358]. Anche l’Aquinate sostenne insomma che Dio era la sostanza suprema dalla quale la Natura desumeva la sua capacità di procedere razionalmente verso il bene. Ma comunque non senza un franco e coerente Amore.
Bene dov’è in Malebranche l’Amore di Dio per le creature e per il mondo? La risposta è semplicissima e netta: − non c’è affatto. Perché l’infinita perfezione di Dio si risolve nel fatto che Egli ama unicamente sé stesso e quindi fa tutto ciò che fa unicamente per la propria Gloria [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III, p. 44-67, Dialogo V-VI, p. 87-126; [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXIV p. 84-85, III, I, I p. 150-151]. Un concetto questo che sembra approssimare molto il pensiero di Malebranche a quello del neoplatonismo pagano nel quale non c’è affatto un amoroso Dio personale ma solo un maestoso e regale Uno divino. E su questo faremo ulteriori considerazioni più avanti. Ebbene, non abbiamo trovato traccia di una letteratura che provasse questo aspetto, ma comunque il nucleo stesso del pensiero di Malebranche è ispirato in modo chiarissimo e diretto alla dottrina delle idee di Platone. E questo può avere il suo significato. Sebbene egli sia fortemente ostile verso qualunque autorità dei filosofi antichi, così come spesso anche contro la stessa autorità della Rivelazione cristiana [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 238, 241 p. 76-78; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 22]. Insomma il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore ripiegato sull’uomo e sul mondo né provvidenzialmente è tanto meno kenoticamente. Anzi Egli disprezza decisamente la creatura umana finita, in quanto a Lui infinitamente inferiore, fino a venire considerata da Lui un integrale “nulla”; e quindi ha creato il mondo unicamente ai fini dell’avvento di Gesù Cristo (il suo Figlio prediletto) ed inoltre per la sua Chiesa; considerazioni che ritroviamo soprattutto in TNG cioè nella sua trattazione della teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31, Dialogo VI p. 109-112; Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, II–IV p. 73, I, I, VI p. 75, III, 238, 241 p. 76-78, I, II, XXIV p. 84-85, I, II, XXVI p. 85, I, II, XXVIII p. 86-87, I, II, XXXVI p. 90-91, II, I, II p. 108-109, II, I, IX p. 112].
Più precisamente Dio (in quanto luogo delle idee conoscibili) è la Ragione universale nella quale la nostra anima abita in quanto “sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. E questa è la base della sua teoria della conoscenza e della percezione (che poi esamineremo in dettaglio) in quanto noi conosciamo le cose reali del mondo solo e soltanto attraverso le idee delle cose stesse che contempliamo unicamente “in Dio” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, I, IX p. 112, II, I, II p. 108-109, I, II, XXXVI p. 90-91, I, 20-23, p. 33-35, I, 179-187, p. 60-66; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 47-48] per l’intermediazione della nostra anima, o meglio ancora del nostro “spirito” (dato che il pensatore francese, diversamente da Platone ed anche da Agostino) non attribuisce all’anima alcuna funzione conoscente.
Dunque Dio viene rappresentato da lui come il padrone della nostra mente, e quindi come
l’origine vera della nostra vita psichica [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 8-9, p. 40-41]. Infatti in effetti noi non siamo affatto causa delle nostre idee, dato che non sappiamo nemmeno cosa esse siano e quindi non abbiamo alcun reale potere su di esse. L’unica cosa, egli dice, è “che tu vuoi pensare ad un quadrato, e l’idea di questo quadrato si presenta in te”. Ma di questo è responsabile solo Dio, e dunque è Lui il padrone della nostra mente, l’origine del nostro psichismo. Non a caso è stato sottolineato che Malebranche non ha un chiaro concetto di mente come quello di Cartesio, dato che non ammette affatto la migliore conoscenza della mente rispetto a quella del corpo [Lawrence Nolan, John Whipple, “Self-Knowledge in Descartes and Malebranche”, Journal of the History of Philosophy, 43 (1) 2005, 55-81]. Per cui di conseguenza egli non concepisce l’auto-conoscenza. Questo però solo sul piano puramente gnoseologico. Perché invece, sul piano della metafisica teologica, egli (in pieno accordo con Agostino), parla del Cristo come “verità interiore” che continuamente ci istruisce e perfino risponde alle nostre domande [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 3-21].
Ecco allora che, invece di essere Amore, Dio è invece in primo luogo Causa primaria di tutto ciò che avviene nel mondo e nella Natura, quindi è alla radice di qualunque legge fisica specie sulla base delle primarie leggi semplicissime e razionalissime mediante le quali Dio agisce (le Leggi della comunicazione del movimento). Quindi Malebranche presuppone una causalità del tutto trascendente in una Natura che in ogni suo aspetto esprime l’azione di Dio – fino nei minimi dettagli, ossia fin dentro gli atomi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 59, p. 43, II, 65-66, p. 43-44]. Ecco quindi l’intelligenza intrinseca inseminata da Dio nella Natura ed agente in maniera in maniera assolutamente autonoma una volta messa in modo. Il risultato di ciò è una Natura dominata totalmente dalla volontà e dalle leggi del Dio-Causa, quindi una natura razionale in quanto divina ed insieme divina in quanto razionale.
Su questa base egli nega anche che l’anima (e non Dio) sia l’origine della vita, e quindi sgombra il campo da tutte quelle dottrine metafisiche che considerano l’animicità come equivalente alla vitalità degli esseri.
E ciò non è sorprendente per un razionalista, dato che l’anima esprima una dimensione irrazionale, istintuale e sentimentale, quindi l’esatto contrario della Ragione.
In campo fisico poi la sua visione al riguardo è estremamente radicale, dato che egli arriva a negare ogni meccanicismo (come quello cartesiano) nel sostenere che la causa del movimento del corpo non è affatto il movimento di un altro corpo (per mezzo dell’urto), ma è invece solo la Causalità divina assolutamente primaria. Anzi proprio su questo si basa famoso “occasionalismo” (detto anche “volontarismo”) da lui sostenuto – secondo il quale le “cause occasionali” (le effettive leggi immanenti della Natura) non producono alcun effetto se dietro di esse non spinge la Causa divina primaria. Per cui secondo lui è solo Dio a fare assolutamente tutto mediante la sua azione “sempre uniforme e costante”, e ciò a causa della sua “volontà immutabile” e delle sue “leggi inviolabili”. Per cui ciò elimina la rilevanza di ogni causalità naturale; dato che essa è totalmente subordinata alla Causa suprema. Ma Malebranche si spinge anche oltre passando dalla dimensione esteriore a quella interiore, e quindi sostiene che è inefficace da sola anche la nostra stessa volontà come causa, e che quindi l’anima imprima al corpo il movimento e vita.
Questi sono per lui tutti falsi principi che noi abbiamo desunto dai filosofi pagani (considerati come «autorità» incontestabile), ma che non hanno alcuna validità. Ed è chiaro che qui egli sta accusando Aristotele, ma in qualche modo ed in parte anche Platone, altro grande protagonista della dottrina dell’anima come principio di movimento e di vita. Però più in generale sta accusando il ben più vasto concetto pagano di «mondo divino» (mondo pregno di presenze divine), che trovò la sua espressione tanto in religione che nella metafisica filosofica. E ciò fino a sconfinare nella parte più teurgica del Neoplatonismo (Giamblico, Porfirio etc.) [Giuseppe Muscolino, Magia, stregoneria, teosofia e teurgia. La trasformazione del neoplatonismo, in: Giuseppe Girgenti, Giuseppe Muscolino (a cura di), Porfirio. Filosofia rivelata dagli oracoli, Bompiani, Milano 2011, p. CXVII-CCCXIX; Giuseppe Muscolino, “The Eastern Contaminations on the Porphyrian Thought in the Philosophy from Oracles: Magic, Demonology, Theurgy”, Medieval Sophia, 13 (2013) 126-139; “Giuseppe Muscolino, “Porphyry and Black Magic”, The International Journal of the Platonic Tradition, 9 (2015) 146-158].
Ecco allora che la definizione di Dio si raccorda in Malebranche alla sua estremamente specifica interpretazione del razionalismo metafisico. Che egli applica alla Natura nel sostenere che Dio è Causa e Ragione prima di essere qualunque altra cosa [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. In particolare egli sostiene che nel mondo non vi è in realtà alcun potere, nemmeno quello della volontà, per cui esso è in sé assolutamente immobile. E da questo scaturiscono conseguenze che riguardano anche la conoscenza del mondo stesso (che poi esamineremo più in dettagli). Questo perché per lui il corpo è in sé morto nonostante l’unione anima-corpo, a meno che Dio non voglia accordare il suo volere con il nostro. Ecco che ancora una volta il principio di movimento non è affatto l’anima, ma invece è di gran lunga antecedente ad essa, cioè è Dio. Pertanto “le creature non sono unite altro che a Dio, e non dipendono essenzialmente e direttamente da lui”, dato che esse sono per natura impotenti soprattutto perché non dipendono affatto le une dalle altre. Si tratta insomma di una modificazione del principio di “analogia entis” sostenuto da Tommaso, ed in virtù del quale veniva postulata la stessa dipendenza totale delle creature dal Creatore. Simile a Tommaso è anche il concetto di Provvidenza divina che da ciò scaturisce. Solo che esso è vincolato esclusivamente al principio di causalità. Infatti per Malebranche le creature sono dipendenti dal Creatore unicamente in forza delle leggi divine “per le quali egli regola il corso ordinario della provvidenza”. Per questo la Sua volontà spiega tutto prima. Ed esattamente per questo da ciò scaturiscono anche conseguenze conoscitive. Dio infatti è Colui che ha addirittura voluto che io avessi certe sensazioni ed emozioni nel mentre nel mio cervello si verificano simultaneamente certi movimenti. Ed ha voluto anche che le “modalità” dell’anima (termine che sta per «facoltà») fossero reciproche. E solo su questa base che si può secondo lui concepire l’unione anima-corpo − ossia solo come “reciprocità” delle parti di cui siamo composti, e pertanto in modo funzionale e non invece fisico e sostanziale. Però tutto ciò è solo il frutto dei “decreti” divini. Sono essi infatti che (in quanto costituenti totalmente l’anima) mi uniscono al mio corpo.
In tal modo si delinea quella mirabile “connessione” che Dio ha dato da sé stesso a tutte le sue opere, invece di aver prodotto delle “entità connettenti” (com’è l’anima rispetto al corpo).
E non pensarla così è per lui solo il frutto del nostro orgoglio, dovuto a sua volta all’impressione che l’azione dei corpi ha avuto su di noi. È insomma questo il prodotto del Peccato e della Caduta, le quali hanno nascosto “l’azione visibile del creatore” ed inoltre la “sapienza infinita della sua provvidenza ordinaria”.
Quindi egli dice che semmai l’anima è unita a Dio, dato che i decreti divini sono “i vincoli indissolubili di tutte le parti dell’universo e la connessione meravigliosa della subordinazione di tutte le cause”. E diremmo che qui traspare piuttosto chiaramente (non sappiamo però se solo indirettamente ed involontariamente) la dottrina plotiniana della «non discesa» dell’anima rispetto all’Uno divino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16, p. 1655-1661].
Ne consegue allora che assolutamente nulla è oggetto immediato della nostra conoscenza, ma solo tramite la Conoscenza e Ragione divina. Ecco che noi vediamo il mondo esteriore per mezzo dell’anima non direttamente, ma solo perché essa “contempla le bellezze del mondo archetipico e intelligibile che è nella ragione”. E qui si lascia chiaramente riconoscere la doppia dottrina del mondo delle idee come radice di ogni conoscenza (Platone) e quella dell’innatismo delle idee che era del resto già stata sostenuta da alcuni pensatori cristiani di osservanza platonica, come ad esempio Bonaventura.
Possiamo chiaramente vedere in tale contesto come il razionalismo metafisico della Natura di Malebranche si esprime proprio nel Dio-Causa. Ed in particolare possiamo scorgere nella mirabile “connessione” il perfetto meccanismo razionale che per lui è rappresentato dall’universo dominato da Dio in ogni suo minimo aspetto. Naturalmente il pensatore si sforza di dare anche una veste teologica a questa dottrina, interpretando la omni-valente e dominante Causalità divina come Provvidenza. Questo sforzo produce però un risultato molto poco convincente, perché l’immagine di Dio da lui presentataci resta quella di un Dio puramente metafisico, che è più un Principio razionale dell’Essere che non una Persona.
Non è un caso quindi che la sua dottrina finisca per raccordarsi al razionalismo divino più impersonale e gelido possibile. Infatti il suo razionalismo metafisico finisce per configurare un panteismo molto simile a quello di Spinoza [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Egli sostiene infatti che la sostanza divina è dappertutto e quindi è in definitiva immanente; e “non solo nell’universo ma infinitamente più in là”.
Tuttavia nessun panteismo può raccordarsi con la fede nell’esistenza di un Dio supremo che è Ragione e Causa. E quindi è evidente che egli può intendere il panteismo solo come contenimento del mondo in Dio.
Infatti egli dice che Dio non è affatto compreso nell’opera sua (ossia l’universo o mondo visibile), ma essa è invece compresa solo e soltanto in Lui, e quindi essa “sussiste nella sostanza che lo conserva con la sua efficacia e onnipotenza”. Quindi noi siamo totalmente immersi in Lui, ed è in lui soltanto che abbiamo vita e moto. Come dice l’apostolo (Paolo): “In ipso enim vivimus movemus e sumus”. Ecco dunque l’immagine di un Dio che (proprio essendo Causa primaria e dominante) è Vita per eccellenza. Egli è la Vita stessa della quale partecipiamo come viventi e nella quale esistiamo. Ed infatti Malebranche stesso sottolinea che si tratta anche di un panteismo che è anche (e forse soprattutto) “panenteismo”. Infatti, egli dice, dire “Dio è dappertutto” equivale perfettamente al dire che “tutto è in Dio” invece che «Dio è in tutto». Questo perché Egli eccede incommensurabilmente in grandezza il mondo, e quindi non potrebbe mai essere contenuto nel mondo stesso – come avviene nel più classico e semplicistico panteismo. Egli è infatti l’infinito stesso.
Dio, egli dice, non è né nel nostro giardino né nel cielo, ma è “tutto intero ovunque egli è”. Pertanto il concetto di «tutto in Dio» (che richiama alla lontana quello di «Dio è in tutto») significa in primo luogo che Egli è «sempre-tutto-intero» dovunque sia, in qualunque luogo limitato si trovi.
Di nuovo si affaccia qui quindi una suggestione teologica e perfino mistica. Si delinea infatti quel concetto di «in Dio» del quale fu protagonista Paolo, ma che trova un suo lontano riscontro perfino nel Vedantismo indù [Ananda K Coomaraswamy., La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017; Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007]. Ma le premesse filosofico-razionalistiche e gnoseologiche lo neutralizzano comunque totalmente. Specie perché il concetto di «in Dio» (nella sua piena autenticità) allude per definizione ad un riassorbimento totale dell’uomo in Dio che non ha alcun senso al di fuori del presupposto rappresentato dall’incommensurabile Amore in virtù del quale Dio ci vuole tutti per sé nonostante la nostra deplorevole finitezza. E questo è l’esatto contrario di un Dio che invece ama solo sé stesso e ci disprezza come creature indegne della Sua infinità. Questo però è il Dio del quale parla Malebranche.
In ogni caso va sottolineato che quella del possibile panteismo di Malebranche non è solo una vaga suggestione, bensi invece (secondo la studiosa Rome) sembra essere un tratto fondamentale del suo pensiero, tanto che esso è strettamente legato all’occasionalismo [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review),Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Infatti per la studiosa l’occasionalismo (basato appunto su Dio come Essere presente a tutti i livelli: trascendente e immanente) si basa su due principi: − 1) la nozione di creazione; 2) una causa occasionale non può agire in virtù di una relativa essenza e quindi essa semplicemente non agisce (anche se così ci sembra). Per cui in Malebranche la giustificazione degli esistenti non è affatto puramente idealistico-gnoseologica come in Cartesio (per relazione interiore tra idee), ma sussiste solo sulla base di una creazione spontanea che a sua volta deriva dall’auto-amore di Dio. Quindi la relazione tra Essere ed esseri non è per lui affatto logicamente necessaria. E quindi essa va conosciuta empiricamente e non deduttivamente. Pertanto il potere creativo di Dio va conosciuto solo a posteriori. Ne consegue che l’occasionalismo è “una giustificazione metafisica degli esseri” entro la quale tutto comincia non dall’Essere o dagli esseri, ma solo da entrambi. Ne deriva che l’ontologia di Malebranche sfugge completamente qualunque dicotomia tra ragione e sensi. In ogni caso, una volta così interpretato, l’occasionalismo del nostro pensatore non è affatto una dottrina che ponga la pura necessità intelligibile degli esseri creati (necessità puramente ideale indipendente dall’esistenza), ma invece prende pienamente atto della giustificazione della loro esistenza unicamente in base all’atto arbitrario della creazione. Solo che ritiene quest’ultimo l’atto di un Dio che non si limita solo a creare l’esistente, ma inoltre ne regola l’esistenza come infallibile Ragione e Causa.
In ogni caso ciò resta comunque in forte contrasto con un Dio d’amore, e quindi rappresenta un «in Dio» che non ha alcun autentico significato religioso. Infatti non si tratta affatto solo di questa scarsa autenticità teologica dell’«in-teismo». Perché con ciò finiamo per toccare l’estremamente controversa concezione del male secondo Malebranche, e quindi quella fortissima teodicea “vendicativa” che arriva ad essere addirittura cinica, gelida e violenta (e che Arnaud giustissimamente contestò). Da tutto quello che abbiamo detto, infatti, scaturisce che, qualora esistessero solo leggi naturali, in assenza dell’agire costante della perfetta e buona Causa divina che le governa con pugno di ferro, allora nel mondo esisterebbe indubbiamente solo il male. Il Bene sta dunque unicamente nel governo razionale che Dio esercita nel mondo. Non certo nell’Amore divino. Ma anche questo governo è inflessibile, dato che esso si disinteressa totalmente dal male circostanziale del mondo (catastrofi naturali, malformazioni umane, mostri etc.) in vista dei fini incontestabilmente positivi che comunque ci sono ma solo Lui vede [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 245-246, p. 69-70]. Infatti, le generali leggi semplicissime da Dio prescritte, si manifestano comunque (al fondo di tutto nella Natura) producendo così la stessa bellezza, ricchezza e fertilità del mondo: − crescita e produttività degli alberi, fertilità vegetale e animale, ed infine anche il certissimo riprendersi della Natura dopo la devastazione delle catastrofi. Insomma ovunque domina in definitiva più il Bene (che noi però non vediamo) che non il Male. Ed allora (dice Teodoro, il protagonista dei dialoghi di Malebranche): − “Nulla è più bello, più magnifico dell’universo che questa profusione di animali e di piante quale noi l’abbiamo riconosciuta. Ma credetemi nulla è più divino del mondo con il quale Dio ne riempie il mondo, nulla più divino dell’uso che Dio sa fare di una legge così semplice che sembrerebbe non essere buona a nulla”.
Eppure paradossalmente – sia pure con tutta la prudenza necessaria e nonostante l’evidente crudeltà della sua teodicea – si può dire che il fortissimo accento posto da Malebranche sull’Onnipotenza divina (quale sua quasi unica manifestazione nel mondo) faccia della sua dottrina religiosa una delle poche che si presti a concepire la piena legittimità del concetto di «aiuto divino», ossia l’intervento diretto di Dio nel mondo e nell’esistenza umana in chiara violazione delle leggi della Natura [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 104, p. 71, I, 178, p. 71]. E questo è del resto perfettamente plausibile in base a due presupposti filosofico-metafisici ed in parte perfino scientifico-naturali: − 1) Dio non è affatto separato dal mondo e dalla Natura; 2) il suo saldissimo ed esclusivo governo del mondo e della Natura non ammette deroghe, per cui la sua volontà è immediatamente connessa all’effetto. Insomma non c’è (crediamo) alcun filosofo che abbia osato sostenere che, se Dio proprio lo vuole, assolutamente nulla si può frapporre all’aiuto da Lui concretamente portato all’uomo nel suo dolore e/o nella sua sventura. Non a caso il pensatore francese concepisce il miracolo come uno dei pochi casi in cui la perfetta Causa prima si fonde così tanto nella sua azione con le cause occasionali da dare ad esse la precedenza. Infatti, egli dice, “quando Dio fa un miracolo e non agisce in conseguenza delle leggi generali che ci sono conosciute, io pretendo o che egli opera in conseguenza di altre leggi che ci sono sconosciute, o che ciò che egli allora fa è atto cui è determinato da certe circostanze che ha avute i vista da tutta l’eternità formando questo atto semplice, eterno, immutabile che inchiude le leggi generali della sua provvidenza ordinaria, e ancora le eccezioni di queste medesime leggi”. Ma del resto lui stesso è imbarazzato davanti a questo come filosofo, pur essendo costretto ad ammetterlo in forza dei principi da lui stesso affermati. Infatti fa dire a Teodoro che l’agire divino per “volontà particolari” sembra “così indegno di un essere immutabile e di una intelligenza che non ha confini” che c’è da essere sorpresi che i miracoli siano così comuni. E così sospetta comunque che il tutto possa essere solo effetto di superstizione.
Tuttavia ciò resta fortemente relativizzato dalla costatazione che il Dio di Malebranche è amoroso solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo) e sommamente perfetto nella sua razionalità. Insomma l’affermazione categorica del fatto che Egli ama sé stesso è una delle più forti affermazioni della dottrina di Dio come «causa sui»; che pure era stata già presente nella metafisica religiosa sia pagana che cristiana. Ed è del tutto plausibile quindi che questo venga oggi fortemente contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale. Non vi è dubbio che essi abbiano perfettamente ragione in questo. E questo viene fortemente evidenziato da uno dei passaggi delle CC [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31]. Qui infatti Teodoro afferma che noi tendiamo erroneamente ad applicare la nostra fallace logica alla volontà divina. Eppure essa è immutabile esattamente come la sua legge, dato che esse sono identiche alla sua “sostanza”. Dato che “Dio agisce sempre secondo la sua sostanza senza smentirsi mai”. Inoltre “si compiace di essere com’è” (ossia ama solo sé stesso), [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit.,]. e per questo la sua creazione è destinata unicamente a mostrare sempre Lui e solo Lui. Essa è insomma totalmente indifferente alla creatura umana. L’uomo invece non può agire secondo la sua natura perché essa è corrotta e soggetta ad errori. Ecco allora che il Dio di Malebranche è amoroso solo molto relativamente, ossia solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo e sommamente perfetto nella sua razionalità. Questo viene contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale.
Lo stesso discorso si applica al tema della relazione tra Dio come infinito e quella creatura che, essendo finita, è (secondo Erasto) un “nulla” esattamente quanto lo può essere un granello di sabbia rispetto all’immensità del globo terrestre [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 32-33].
Teodoro gli fa eco affermando che Dio agisce solo attraverso la sua volontà, per cui ogni sua azione è ispirata all’amore che porta solo ai propri attributi, specie l’infinità (suo attributo tra i più essenziali). Per questo Egli non poteva prevenire il peccato di Adamo, ma bastava invece appena dotarlo di “qualità eccellenti” come la libertà di amare. Però solo al fine di poter poi meritare la giusta ricompensa; e quindi non per il valore da attribuire all’amore ma solo per il valore da attribuire alla giustizia distributiva. Ecco insomma delinearsi un aspetto fondamentale della Preveggenza o Provvidenza divina. E questo è accaduto perché la Sua perfezione infinita (il compiacimento di sé) non rendeva necessario interessarsi del finito se non per mettere in evidenza la perfezione della sua preveggenza (che è attribuzione all’uomo dell’amore per il bene nonostante il suo così squalificante Peccato). Dio infatti non era certo interessato al culto di una creatura finita che è nulla. Si conferma insomma qui che l’uomo per Dio è solo un nulla, mentre l’unica cosa che Egli ama è solo sé stesso. Per cui Egli non considera affatto importante la sua creatura rispetto a sé stesso. Ecco allora diventare chiaro che, nella sua creazione del Primo uomo, Egli stava già pensando al secondo Uomo e secondo Adamo (Cristo) ed inoltre alla sua Chiesa. Insomma “…il suo fine non riguarda l’uomo terrestre, l’uomo profano allo stato di natura”. Egli si compiace solo invece dell’uomo-dio, e precisamente di quello davvero integrale (in quanto esclude totalmente l’uomo), cioè Cristo. Ecco perché, allora, Dio non si è mai pentito di aver fatto l’uomo (dato che Egli guardava molto più lontano). Cosa del resto impossibile a causa della sua immutabilità. Allo stesso modo Egli non si è pentito di aver fatto la Legge ebraica. Ecco perché non aveva bisogno di prevenire il peccato di Adamo avendogli donato “in anticipo tutte le grazie e qualità convenienti alla natura umana”. Lasciando peccare Adamo, Egli insomma guardava già al Figlio. Insomma si può ancora una volta dire che Dio è amoroso solo unicamente dall’alto e nella più assoluta perfezione razionale − in quanto ama la sua perfezione ed infinità in virtù della quale prevede tutto infallibilmente. Il suo amore per l’uomo è pertanto in realtà amore per sé stesso, unito al disinteresse per una creatura che per Lui è nulla.
A ciò va inoltre aggiunto che anche, nel contesto di questo discorso, Dio viene presentato da Malebranche come la causa di tutto ciò che avviene nella più ordinaria fisica, ossia nel pieno contesto delle leggi naturali. Anch’esse pensate solo come manifestazione della sua perfezione e non certo a favore dell’uomo. Ed ecco quindi che emerge di nuovo la gelida spietatezza della sua teodicea, entro la quale è perfettamente contemplata la ferocia delle leggi naturali.
Insomma, in estrema sintesi, tutto ciò significa che il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore. Eppure qui ci troviamo nel contesto di quelle che egli chiama “conversazioni cristiane”.
Il che appare essere davvero mostruoso.
Ma del resto ciò si spiega molto bene con il fatto che, così come il nostro pensatore in metafisica rifiuta sdegnosamente l’autorità degli antichi (e perfino quella di moderni come Cartesio), in religione rifiuta l’autorità della Rivelazione e talvolta perfino dei Padri della Chiesa. E questi lo porta ad affermazioni teologiche estremamente radicali che spesso sfiorano molto da vicina l’astrusità e l’assurdità.
Non a caso [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit. Dialogo V p. 89-90I] egli afferma che, a causa della caduta dell’intera umanità nel disordine (a causa del Peccato trasmesso da Adamo per via addirittura generativo-genetica a tutte le generazioni umane successive), “tra Dio è l’uomo esiste un’inimicizia”. E questo per un fatto più ontologico che non morale, ossia per qualcosa che risiede nella sostanza dell’uomo senza che egli ne sia nemmeno responsabile fino in fondo, cioè perché in sé i corpi non sono sottomessi allo spirito. È per questo che l’uomo, del tutto incapace di auto-controllo, è anche del tutto capace di un peccato che poi consiste soprattutto nelle passioni carnali ossia nella tendenza al piacere. E non è in alcun modo capace di tenersi lontano da questo peccato. E così, egli dice, legge dello spirito e legge del corpo sono radicalmente in conflitto tra loro. E lo stesso accade tra l’uomo interiore e all’uomo esteriore. Ma quando ci si chiede come sia possibile ristabilire l’ordine, egli risponde che non ci può affidare né alle dottrine dei filosofi pagani né nemmeno a quelle di cosiddetti “deisti”, ossia coloro che si basano solo sul valore della Rivelazione e non invece su quello della Ragione. Quello di Malebranche è insomma una specie di anti-teismo ante litteram e quindi appare essere ancora una volta (in forte anticipo) in sintonia con le prese di posizioni dei moderni ricercatori cristiani che in Teologia si affidano non solo alla più laica filosofia (specie gnoseologica) ma anche alla scienza sperimentale stessa. Tuttavia ciò viene fortemente relativizzato da quello che il pensatore dice dopo. Dato che egli dice che questi “deisti” (con i quali forse egli intende i monoteisti non cristiani, ossia Ebrei ed Islamici, oppure forse anche i cristiani più legati all’idea di un Dio unicamente Trascendente e quasi biblico, come ad esempio i più radicali tra i protestanti) non ammettono un Mediatore che riconcili gli uomini a Dio. E questo Mediatore è Gesù Cristo.
Tuttavia ciò avviene attraverso “l’eccellenza del suo sacrificio”, unito al suo Sacerdozio (in virtù del quale può intercedere presso Dio invocando la Sua Misericordia ed il anche il Suo aiuto agli uomini) ed infine unito al Suo potere di inviare su di noi lo Spirito Santo. E fin qui tutto bene. Ma questo accade secondo lui per un motivo più profondo, e cioè per una dignità di persona che Malebranche non accorda affatto all’uomo, che è poi l’unica cosa che lo ha reso degno del supremo sacrificio, ossia la Croce. Egli dice infatti che “è necessario che una vittima più degna di tutte le creature della grandezza e saggezza di Dio subisca il colpo che doveva renderli eternamente infelici” – rendere gli uomini felici. Ed è solo per questo che Cristo “è il vero figlio di Dio che può farci accettare come suoi figli adottivi”. Infatti il Creatore ha fatto tutto per suo Figlio ed attraverso di Lui. Ha creato uomo e mondo solo per questo scopo. Che poi altro non è se non la sua Gloria. Non a caso manca qui totalmente l’accento posto sulla principale motivazione del sacrificio di Cristo (che è poi il Padre stesso, cioè Dio, grazie alla relazione uni-trinitaria), e cioè un incommensurabile amore. Quell’amore per il prossimo che Gesù aveva insegnato nel Vangelo come la più alta delle virtù dell’uomo convertito al Regno dei Cieli. È l’amore in nome del quale Dio (in Cristo) si spoglia totalmente della sua perfezione e della sua trascendenza, trasformandosi non solo nell’ultimo degli uomini, ma accettando anche le umiliazioni ed i tormenti più inconcepibili. Un Dio che è suprema Ragione non avrebbe mai agito così. Intanto però è chiaro che, grazie all’unità trinitaria, il Padre non comanda solo al Figlio. ma è anche identico a Lui. Quindi chi scende sulla terra per subire alla fine l’onta della Croce è Dio-Padre stesso.
Quanto poi agli uomini essi (almeno in via di principio) meritano solo per il Dio di Malebranche solo la punizione. E quest’ultima (nel contesto della crudeltà della sua teodicea) va peraltro da loro pienamente accettata proprio perché punta a fini decisamente buoni. In altre parole, se fosse stato solo per l’uomo, Dio non avrebbe nemmeno richiesto il sacrificio riparatore del Suo Figlio. E quindi, se dagli eventi congiunti di Incarnazione-Croce-Resurrezione è scaturita l’umano-divinità, questo non è avvenuto affatto perché Dio ha amato talmente l’uomo da volerlo simile a sé. È accaduto invece solo perché Egli ama unicamente sé stesso. Mentre invece non ama in alcun modo l’uomo.
Questo disprezzo divino per l’uomo ha poi anche precisi risvolti gnoseologici negativi degli altrettanto negativi aspetti ontologici [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 107-110]. Tipica dell’uomo, secondo Malebranche, è infatti la pretesa di perseguire la verità mediante prove astratte e ragionamenti basati su una ragione completamente svincolata da quella divina, e così si allontana da Dio e dalla fede. Il che sottolinea peraltro che a fede per Malebranche è un’esperienza unicamente filosofica e astratta entro la quale l’amore non ha quasi alcun posto. Ma, pur restando in questo contesto gnoseologico ed astratto, egli si spinge ancora più oltre nel negare addirittura che Dio voglia la relazione dell’uomo con Lui. Ed in termini più specificamente filosofico-religiosi ciò si giustifica perché Dio è Spirito per eccellenza e quindi soltanto “vuole essere adorato in spirito e verità”. La relazione con Dio deve essere quindi sostanzialmente di adorazione per un Essere che si considera irraggiungibilmente superiore a sé stessi in quanto uomini. E per questa adorazione non serve affatto il corpo ma serve invece una “disposizione totale” dello spirito nei Suoi confronti. Non bastano quindi affatto i semplici movimenti dell’anima (cioè i sentimenti) o anche i giudizi degni da essa espressi. È vero però che lo spirito umano è capace di conoscere e volere. Ma è assolutamente necessario che esso lo faccia allo stesso modo in cui Dio conosce ed esprime le sue volontà. Pertanto, egli aggiunge, prima noi dobbiamo esaminare il giudizio che Dio esprime rispetto a sé stesso e poi dobbiamo considerare ciò che siamo rispetto a lui, cioè delle creature finite che non valgono un soldo bucato. E tali siamo anche per Dio stesso. Insomma ognuno dei due sa molto bene cos’è. Infatti Egli sa di essere infinito mentre noi sappiamo molto bene di essere finiti. E pertanto Egli sa che ciò che è limitato in quanto individuo equivale al nulla. E così deve essere considerato. Ecco che Dio ci giudica del tutto inadatti a qualunque relazione con lui. Ma intanto, dice Malebranche, può aver creato universo ed intelligenze solo desiderando che si uniscano a Lui nel constatare la sua Gloria. E quindi ha previsto il culto degli uomini per compiacerlo. Il che nuovamente equivale all’esprimere lo stesso giudizio che Egli emette su sé stesso. Il culto di Dio (ossia la vita liturgica stessa della Chiesa) non è altro che puro rispetto.
Intanto l’adorazione di Dio è possibile (per le ragioni prima discusse) solo attraverso il Mediatore. Ed in questo consiste il Cristianesimo. Ma a ciò egli aggiunge che è allora del tutto logico il fatto che solo fuori del Cristianesimo l’uomo attribuisce a sé stesso un valore.
A questo punto emerge in modo lampante che non solo in Malebranche (come rigoroso filosofo) manca totalmente il rispetto verso la Rivelazione cristiana (la quale non afferma affatto ciò che afferma lui) ma manca totalmente anche il rispetto verso quella Rivelazione che è ben più ampia e profonda di quella cristiana, ossia la cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale (SSOP), ossia la Scienza divina stessa – la cui esistenza e definizione è stata sottolineata da vari Autori, dei quali qui citiamo solo alcuni [René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 15-59; Swami Sri Yukteswar, La scienza sacra, Astrolabio, Roma 1993, p. 31-57; 107-117; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988; George Vallin, La prospettiva…cit.; Marsilio Ficino, Disputa contro il giudizio degli astrologi, in: Ornella Pompeo Faracovi (a cura di), Marsilio Ficino. Scritti sull’astrologia, Fabbri, Milano 1999, p. 63]. Entro tale Rivelazione, infatti (che corrisponde peraltro a molte forme di Sapienza pre-cristiana, include anche la stessa Cabbala ebraica e giunge perfino nel pieno del pensiero dei Padri greci della Chiesa), non solo la dignità umana viene ritenuta indiscutibile ma inoltre viene chiaramente concepito il valore dell’uomo come paradigma dell’Essere stesso, ossia come Uomo prototipico. Ecco dunque davanti a noi il Pananthropos, il Macroanthropos e l’Adam Kadmon [Giovanni Reale, Roberto Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in: Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011, V, II p. LXXXIX-XCIV, V, VII p. CII-CV, VI, p. CXII-CXXIV; Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibd. XXI-XXII, 64-68 p. 37-39, XLIII-LII, 128-150 p. 65-75; Filone, Le allegorie delle leggi, ibd. III, LVI-LXXII, 162-178 p. 253-259; Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, 1, 48-56, p. 389-397; Ilaria Ramelli, La dottrina dell’apocastasi eredità origeniana nel pensiero escatologico del Nisseno, ibd., I, 4 p. 751-803; Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre & Frederick Tristan (a a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 79-172; Jean Libis, L’Androgino e il Notturno, ibd., p. 11-32; Elemire Zolla, L’Androgino alchemico, ibd., p. 173-200; Giulio Busi ( a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 32-36, p. 64-79, p. 113-114, p. 119-125; Libro dei consigli di Zarathustra, in : Alessandro Bausani (a cura di), Testi religiosi zoroastriani, Edizioni Paoline, Roma 1964, p. 30; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 133-148; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-41].
Ma basterebbe solo una delle affermazioni sull’uomo a parte “Corpus Hermeticum” per provare questo fatto senza ombra di dubbio: − Perciò, o Asclepio, l’essere umano è un grande miracolo, un vivente degno di rispetto e di onore. Esso infatti passa alla natura di un dio, come se egli stesso fosse un Dio; conosce il genere dei demoni, in quanto sa di essere sorto insieme a loro, dalla stessa origine; disprezza in sé stesso, la parte dotata di sola natura umana, poiché ha riposto la propria fiducia nella divinità dell’altra parte. Di che felice mescolanza è composta la natura umana! È unita agli dèi poiché, grazie al suo carattere divino, è ad essi imparentata, mentre disprezza quella parte di sé che la rende terrena […] È situato, dunque, in una posizione intermedia tanto felice da amare gli esseri inferiori ed essere amato a sua volta da quelli superiori. Coltiva la terra, si mescola agli elementi grazie alla velocità del suo pensiero, discende nelle profondità del mare con l’acutezza della sua mente. Tutto gli è lecito: nemmeno il cielo gli sembra troppo alto, poiché lo misura da vicino, per così dire, grazie alla sagacia della sua mente. Nessuna nebbia dell’aria offusca l’attento sguardo del suo animo; la densità della terra non riesce a impedire la sua opera; la profondità abissale delle acque non smussa il suo sguardo, che in essa penetra. Esso è tutte le cose e dovunque al contempo” [Asclepio. Questo Asclepio per me è come il sole. Di Ermete Trismegisto. Libro Sacro dedicato ad Asclepio, in: Ilaria Ramelli, Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2016, 4-8 p. 521-527]. Del resto entro il pensiero di Meister Eckhart il valore dell’uomo era stato affermato con una forza straordinaria proprio come nucleo profondo dell’umano-divinità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 14-17 p. 71-74, Prol., 10-14 p. 87-91; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 5-13; ibd. Predica 2 (Q 24), p. 17-27]
Insomma, di fronte a tradizioni e pensieri così poderosi, il concetto di disprezzo di Dio per l’uomo secondo Malebranche diviene assolutamente insostenibile.
Tutto ciò si significa allora che l’epistemologia davvero estrema di Malebranche è giustificata senz’altro dal fatto di avvenire dentro la stessa Ragione divina, ma anche dal fatto che il potere intellettuale umano è davvero di grande portata. E questo egli pretende di dimenticarlo completamente.
Pertanto con queste idee aberranti Malebranche è decisamente fuori squadra non solo rispetto alla Rivelazione ed al pensiero cristiano ma ancor più nei termini di un’autentica filosofia religiosa. E del resto questo fu il rischio corso dall’intera metafisica razionalista post-cartesiana.
Non a caso poco più avanti le sue argomentazioni filosofiche a sostegno del Cristianesimo finiscono per diventare addirittura teologicamente del tutto sconclusionate proprio per quella logica lacunosa, astrusa e contraddittoria della quale abbiamo già parlato nell’Introduzione [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 110-126]. Infatti, dice Teodoro, per adorare Dio “in spirito e verità” non è necessario soltanto pensare come Lui (Ragione), ma anche volere come Lui (Fede-Opere). E qui viene richiamata la polemica tra Paolo e Giacomo (Chiesa cristiana di ispirazione giudaica ed in parte gnostica) rispetto al valore che ha la carità (opere) rispetto alla pura fede in linea a sua volta con la Legge. Ovviamente si conclude per il pari valore di questi due diversi atti della vita cristiana. Ma Malebranche non si accontenta affatto di questo e si chiede quindi se la morale cristiana ci insegni proprio questo. E così afferma nuovamente che Dio si compiace solo di sé stesso, e quindi si compiace delle creature soltanto “nella misura in cui partecipano del suo essere”.
E sottolinea così con forza straordinaria solo il primo dei Comandamenti: − «Amerai il Dio tuo più di te stesso». Ecco quindi da parte dell’uomo un amore che non è certo infinito, ma che comunque non conosce limiti perché preferisce Dio alle cose, considerando esse come un nulla. Ecco perché, dunque, dato che gli altri uomini sono “della loro stessa natura”, li si può amare come sé stessi (amore del prossimo). Ed ecco quindi la carità. Ma questo per Malebranche non è affatto il punto. Il punto consiste invece nel pensare e volere come Dio fa e vuole. E quindi ancora una volta l’amore agapico (ossia il nucleo più intimo del Cristianesimo) diviene del tutto secondario a fronte di un Dio che in primo luogo è assolutamente perfetta Ragione universale.
Sullo stesso tenore si muove poi il tentativo di Malebranche (per bocca di Teodoro) di spiegare gli apparenti «scandala» delle Scritture ed in particolare del Vecchio Testamento. Si tratta in particolare della spiegazione del fenomeno del tutto non naturale della pioggia di manna che accompagnò l’esodo del popolo ebraico. Che gli scettici ritengono naturalmente una mera favola. Ebbene, la conclusione del pensatore al riguardo è che invece solo appellandosi a Dio come Ragione universale si possano comprendere, spiegare ed accettare fenomeni come questi. Infatti egli afferma che Dio ha compiuto questi miracoli proprio affinché noi lo conoscessimo esclusivamente per la via della ragione. Il che significa che per lui nella Rivelazione cristiana non vi è la benché minima traccia di misteri.
Abbiamo già parlato di come egli veda la figura di Gesù Cristo in CC, ma vale la pena si soffermarsi di più su questo tema, dato che abbiamo già detto che (grazie all’unità uni-trinitaria) Cristo è Dio stesso.
Quindi parlando della sua definizione da parte di Malebranche stiamo ancora parlando della definizione di Dio.
Ebbene per Lui Cristo è il Maestro (ossia la verità interiore che incessantemente ci istruisce) solo in quanto, esattamente come Dio, è ancora una volta la Ragione universale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I-II p. 3-43]. Cristo è insomma la stessa Sapienza divina che genera in noi le idee che ci permettono di conoscere il mondo sensibile. Solo in questo senso Egli è il Maestro. Non un Maestro di verità etiche ma invece un Maestro di verità gnoseologiche. Ossia è solo in questo senso la “verità interiore”. Egli è insomma (come Dio) la Ragione che ci permette di conoscere veridicamente le cose. Dunque è un’entità gnoseologica.
Altre idee circa Cristo (e ovviamente circa Dio) si ritrovano poi in TNG, libro che serve sostanzialmente l’idea di teodicea che Malebranche sviluppò e non caso fu scritto in risposta alle obiezioni di Arnaud e più in generale al Giansenismo [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
Arnaud aveva sostenuto infatti che non è un vero provvidente un Dio che di fatto si disinteressa del male come avviene chiaramente in Malebranche. E Black dice che questa polemica toccava comunque l’occasionalismo (o volontarismo di Bas van Fraassen) in quanto idea secondo la quale, essendo Dio l’unica Causa di tutto, le cause occasionali agiscono solo se in concordanza con questa Causa suprema.
Dunque gli argomenti circa Cristo e Dio che ritroveremo in questo libro stanno in stretta connessione con la spietata teodicea di Malebranche. Quindi si può dire già in partenza che sono idee religiosamente, teologicamente ed eticamente negative.

È del tutto ovvio quindi che ritroviamo qui una visione che corrompe l’idea di Cristo in quanto unico fine della Gloria divina (in stretta concorrenza con l’uomo), e quindi rende la creazione un atto divino narcisistico invece che di donazione kenotica di sé [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXVI p. 85-91].
Per Malebranche, infatti, la ragione sottolinea l’assenza totale di relazione che vi è tra l’imperfezione delle creature e il più che perfetto progetto (ossia l’infallibile piano divino previsto dalla teodicea) per mezzo del quale esse vengono prodotte. E ciò a causa del loro limite ontico. Assolutamente insuperabile. Quindi la ragione ci dice che è impossibile che Dio abbia fatto l’uomo per esserne onorato, cosa che è palesemente inficiata dal grandissimo numero di coloro che lo disonorano. Pertanto la concezione della creazione come perfetta (in quanto avente come fine l’uomo) viene a mancare totalmente se non si suppone che essa puntava invece solo al Figlio.
Tuttavia poco dopo Malebranche afferma che l’opera di misericordia di Dio si incentra nel Peccato umano perché solo così gli uomini avrebbero potuto sperimentare la Sua esistenza. Ma ciò è contraddittorio perché il pensatore ci ha spiegato finora a sufficienza che Dio aveva invece previsto il Peccato e lo aveva anche salutato come possibilità per far emergere il vero scopo della sua creazione, e cioè Gesù Cristo come Redentore. Questa idea sembra dunque stare in forte contrasto con l’idea che Cristo sarebbe stato creato solo per la Gloria ed onore di Dio. E ciò è a nostro avviso solo uno dei molti esempi delle contraddizioni logiche che affliggono la dottrina di Malebranche. In ogni caso immediatamente dopo il pensatore afferma che, se non fosse vero tutto questo, Dio avrebbe lasciato Adamo nella perfezione, caratterizzata dall’assenza di concupiscenza. La sua Caduta si giustifica quindi solo nel fatto che voleva risollevarlo in Gesù Cristo. Questa idea, dunque, non solo aggrava le contraddizioni rilevate prima, ma inoltre razionalizza il Peccato e la Caduta così annacquando e banalizzando il mistero che esse invece rappresentano.
Ci ritroviamo quindi di fronte ad un nuovo attentato di Malebranche ai misteri cristiani in nome della balzana idea che Dio sarebbe in primo luogo la Ragione universale.
E a questo si aggiunge peraltro un’ulteriore argomentazione che basa l’esistenza di Gesù Cristo sul ribrezzo invincibile che Dio proverebbe per l’uomo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, II-VII p. 109-112].
Tale argomentazione giunge alla fine di una lunga argomentazione per mezzo della quale il pensatore cerca di saldare la riflessione sull’Ordine della Grazia con quella sull’occasionalismo.
Egli dice infatti che, siccome gli uomini sono avvolti nel peccato, e per giunta sono anche creature largamente inferiori a Dio, solo per Gesù Cristo (unica Persona caratterizzata da dignità e santità) e soprattutto per il suo sacrificio, noi possiamo riconciliarci con Dio ed avere così accesso alla Grazia. Grazia che quindi sarebbe condizionata, e non invece del tutto incondizionata, come invece il puro sacrificio d’amore di Cristo lascerebbe pensare. Eccoci insomma di nuovo davanti ad una inaccettabile negazione dell’Amore quale attributo primario della Persona di Dio. Quindi per lui Gesù Cristo è causa della Grazia in quanto è Causa generale al pari di un Dio assolutamente perfetto e razionale. Malebranche dichiara però di cercare ciò che “regola e determina l’efficacia della causa generale” ossia “causa seconda, particolare, occasionale”.
Ebbene, la causa seconda o occasionale determina per lui l’efficacia delle leggi a loro volta poste costantemente in relazione con la Causa generale. Così come l’urto dei corpi determina l’efficacia delle leggi del movimento. Altrimenti non resterebbe altro che l’intervento di Dio con volontà particolari. cosa che egli ritiene però inammissibile. È per questo, dunque che le leggi dell’unione anima-corpo sono rese efficaci dai mutamenti che hanno luogo nell’una e nell’altro. Ma essi (nascostamente e alla lontana) vengono comunque causati direttamente da Dio e non dalla Natura. E di questo si occupano quindi le leggi della Natura senza (apparentemente) l’intervento della volontà particolare di Dio. Pertanto anche nell’Ordine della Grazia vi deve essere qualche causa occasionale che esprima le leggi al fine dell’efficacia.
E questa causa per lui va scoperta.
L’argomentazione che serve a questo scopo è la seguente. Sia nell’ordine sensibile che in quello intelligibile le cause occasionali sono in rapporto con il fine per il quale Dio istituisce le leggi stesse che regolano ogni cosa. E questo determina la presenza o assenza di relazioni necessarie tra eventi dell’universo sempre solo secondo l’Ordine stabilito da Dio (esempio: il corso dei pianeti in relazione ad un mal di denti oppure ad un banale movimento del braccio) Ciò significa che per lui ciò che è ragionevolmente reale è del tutto verosimile nella Natura.
Intanto il fine di Dio è comunque quello unire anima e corpo e quindi di determinare sentimenti nell’anima solo quando nel corpo si verificano alcuni mutamenti. Quindi secondo lui è nel corpo e nell’anima che bisogna cercare le cause occasionali.
Questo però non basta. Perché intanto la primaria volontà di Dio era quella di formare la sua Chiesa mediante Gesù Cristo, e quindi Egli ha potuto cercare solo in Lui le cause occasionali. Pertanto le ha cercate nelle creature unite a Lui quali membra del Corpo alle quali lo “Spirito di Gesù Cristo” trasmette la sua vita e santità. In tal modo la “pioggia della Grazia” non cade su di noi nel contesto dell’Ordine cosmico retto dalle leggi naturali, dove dominano effettivamente solo i corpi; laddove poi i corpi suscitano nell’anima solo “sentimenti puramente naturali”. La pioggia della Grazia cade invece su di noi unicamente secondo lo stesso Ordine della Grazia e soltanto entro il suo ambito.
Intanto però neppure i nostri desideri sono cause occasionali della Grazia. Essa infatti non ci viene concessa quando vogliamo e a volte viene addirittura concessa proprio a chi non la vuole. Ed in effetti i desideri rientrano in cause che hanno certamente il loro effetto. “Le leggi generali che diffondono la grazia nei nostri cuori non trovano dunque nelle nostre volontà nulla che determini la loro efficacia” come invece accade infallibilmente nell’Ordine naturale retto dalle leggi della Natura.
Ecco allora che per lui l’Ordine della Grazia è radicalmente opposto all’Ordine della causalità naturale
E quindi, sulla base di tutto questo, solo Gesù Cristo può procurarci e soprattutto “meritarci” la Grazia.
Dato che la causa dell’efficacia delle leggi naturali (nella loro subordinazione alle Leggi generali divine) non risiede affatto in noi.
Eccoci insomma nel complesso di fronte ad un’ulteriore razionalizzazione naturalistica di una verità altamente teologica e di un sublime mistero divino. La concessione della Grazia starebbe infatti per il pensatore in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo (leggi che in primo luogo reggono la dimensione fisica del cosmo, cioè il movimento in generale). Inoltre l’intera argomentazione appena esposta (come forse il lettore avrà giù notato) contiene notevoli e veri e propri salti logici (specie dalla Filosofia della Natura alla Teologia) ed ai quali Malebranche pone rimedio del tutto arbitrariamente, così che esse restano pochissimo convincenti.
Infine dalla definizione di Cristo passeremo nuovamente alla definizione di Dio come si ritrova in TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., XXII p. 82-83]. E qui di nuovo la definizione di Dio si rinsalda con la sua teodicea. Egli sostiene infatti che, molto in generale, l’aver predisposto un mondo che marcia praticamente da solo secondo le semplicissime ed universali leggi della comunicazione del movimento (e senza l’intervento di volontà particolari, se non in casi rarissimi), indica che Dio “desidera che tutte le sue creature siano perfette”. Per cui non vuole gli effetti indesiderati e il male (bambini che muoiono o nascondo deformi, mostri, catastrofi etc.). Insomma Egli non ha affatto creato il mondo perché questo accada. Ma intanto se intervenisse con volontà particolari – dato che, per evitare questi effetti, non c’è altro modo che far deviare il progetto avviato originariamente da Dio (e che conteneva anche questo) − ciò contraddirebbe la Sapienza originaria del suo progetto, ossia il famoso infallibile piano divino. Ed ecco dunque un altro debolissimo, ed anche non poco cinico (se non ipocrita), artificio argomentativo per giustificare il male, ma sempre in nome della perfezione del proposito (Sapienza), cioè in nome della Perfezione di Dio quale aspetto essenziale primario della sua essenza. Il che esclude di nuovo totalmente l’Amore quale primario attributo divino.
Eccoci insomma di nuovo tremendamente delusi come fedeli e credenti. Quelle considerazioni sulla Grazia che avrebbero dovuto dare forza e fondamento all’intendimento di Dio come Amore fanno invece l’esatto contrario, e cioè non fanno altro che rinsaldarsi agli aspetti filosofico-religiosi ed etico-religiosi peggiori del pensiero di Malebranche, ossia l’intendimento di Dio come una gelida e indifferente Ragione universale (peraltro narcisisticamente innamorata solo di sé stessa) e la postulazione di una teodicea che è in fin dei conti totalmente indifferente al male mondano ed umano in nome della sola perfezione indiscutibile del progetto di questo Dio unicamente metafisico-razionale.
E la cosa peggiore è che in questa visione viene coinvolta anche la Persona di Cristo, ossia quella dovrebbe essere la più chiara manifestazione di un Dio che è unicamente Amore.

La teodicea di Malebranche (sezione 2).
Era inevitabile che questo aspetto venisse già trattato (nelle sezioni precedenti) nel tentare di dare al lettore un’idea della definizione di Dio e di Cristo che Malebranche ci offre. Per cui non dovremo qui soffermarci su aspetti che abbiamo già trattato. Ma seguiamo comunque l’ordine espositivo che abbiamo già seguito nell’esaminare una dopo l’altra le tre opere PM, CC e TNG.
La postulazione più diretta della teodicea sta in PM nell’intendimento di Dio come protagonista del governo inflessibile oltre che sapiente (cioè impeccabilmente giusta) del mondo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 130, p. 67-68]. Malebranche sottolinea infatti l’impeccabile giustizia con la quale Dio governa il mondo nonostante la schiacciante evidenza del male. E questo si spiega perché Egli è immutabile, nonostante gli eventi catastrofici (ma sempre solo occasionali) che sembrano contraddirlo. Essi infatti denotano solo il deplorevole divenire, e quindi non indicano per davvero il cambiamento nella causa che li produce.
Dato che il divenire non è altro che una mera apparenza dell’essere. Quindi bisogna prendere atto del fatto è che “Dio segue inviolabilmente le medesime leggi”, ed inoltre che “la sua condotta non ha alcuna relazione con la nostra”, sottomessa come essa è fatalmente e tragicamente alla dimensione del divenire che caratterizza il mondo. Quindi se c’è male nel mondo ciò è dovuto in primo luogo al divenire dell’essere terreno ed in secondo luogo alla libertà dell’azione umana, la quale a sua volta si lascia passivamente sottomettere al divenire. Intanto però nella Causa suprema delle universali e perfette Leggi dell’essere non c’è alcuna contraddizione.
Ora, come abbiamo già accennato, noi non sappiamo (per nostra ignoranza) se il pensiero di Malebranche si rifaccia in tutto questo a certa metafisica teologica pagana di stampo fortemente platonico e soprattutto neoplatonico. Ma da quanto abbiamo appena detto sembrerebbe senz’altro di si. Infatti questo concetto di impeccabile governo del mondo, nonostante il male, richiama molto da vicino i concetti pagani del Fato come indifferente ma sapiente «giustizia distributiva» − manifestato dalle varie entità divine ritenute responsabili di questo, e cioè “Adrastea”, “Dikè”, “Heimarmené”, “Themis”, “Anánke” e perfino la raccapricciante e violentissima “Nemesis”, della quale Proclo ha diffusamente parlato [Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, VI, 23, 100-109 p. 991-1005]. Del resto l’etimologia stessa del termine «teo-dicea» si rifà espressamente a “Dikè” cioè l’implacabile Giustizia divina in forma di legge governante gli enti cosmici. E peraltro anche la dottrina stessa di relazione tra causa ed effetto richiama in Malebranche la dottrina di Proclo [Proclo, Elementos de teologia, Buenos Aires:Aguilar 1975, 7-39 p. 28-60, ibd. 56-65 p. 70-79,75-86 p. 87-95].
Insomma il concetto di teodicea è di per sé molto sospetto. E forse proprio perché tende a razionalizzare fortemente un profondo ed insondabile mistero divino.
Ma comunque ci chiediamo cosa mai questo abbia a che fare con il Cristianesimo. Ma siccome la teodicea ha avuto come protagonista anche un altro grande esponente della metafisica razionalistica cristiana, ossia Leibniz, questa perplessità va estesa anche a lui. E l’unica spiegazione di questo sta secondo noi nella soggezione passiva di questi pensatori cristiani a quella rigorosissima e gelida esattezza matematica che Cartesio aveva introdotto non solo nella filosofia ma perfino nella metafisica cristiana.
Insomma si è portato a chiedersi se Malebranche (nonostante la sua manifesta avversione per il pensiero antico) non abbia in qualche modo subito influssi metafisico-religiosi di stampo pagano.
In ogni caso a ciò vanno aggiunte le ulteriori, ed ancora più ciniche ed inquietanti, considerazioni de nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 225-226, p. 68-69]. Dio, egli dice, potrebbe bene eradicare il male dal mondo ma così dovrebbe mutare le leggi semplici che segue per seguire invece le “leggi naturali” che lui stesso ha stabilito; ma non certo per gli effetti mostruosi che dovevano produrre, bensì invece per gli “effetti più degni della sua sapienza e bontà”. Dunque egli “permette” il male ma non lo vuole né lo fa, dato che esso è una conseguenza naturale della sua legge.
Insomma ne dobbiamo dedurre che ciò che nelle leggi divine (trascendenti) è perfetto, invece nelle leggi naturali (altrettanto divine) divine è fatalmente imperfetto. Ma questo sarebbe non solo normale bensì anche supremamente razionale. Perché intanto la Causa prima e suprema resta dominante e perfetta nelle sue intenzioni, solo che gli effetti si allontanano da essa (di nuovo esattamente come pensava anche Proclo).
In altre parole ci troviamo di fronte ad una dottrina così piena di contraddizioni, e così cinica ed ipocrita, che essa deve necessariamente prestare il fianco a non poche obiezioni.
Anche in CC troviamo degli elementi di teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 30].
La questione scaturisce da un passaggio del dialogo tra Erasto e Teodoro. Il primo dice che esiste una difficoltà consistente nel fatto che Dio ha previsto dall’eternità le conseguenze delle cose, prevedendo così perfino il Peccato originale. E quindi perché mai ha creato l’uomo e peraltro lo ha creato libero? Perché mai insomma ha stabilito un ordine che poi doveva essere capovolto in quanto corrotto? Non sarebbe stato meglio creare una Natura incorruttibile o prevenire la Caduta di Adamo?
Ebbene Teodoro gli risponde provocatoriamente che semplicemente non lo sa, e accennando quindi al fatto che si tratta di un mistero. Ma Malebranche non sembra affetto volersi accontentare dell’esistenza di quest’ultimo. E così fa aggiungere a Teodoro di aver già dimostrato che Dio è Causa. Per cui egli ritiene che le obiezioni a questa così schiacciante evidenza possono venire solo “dalle tenebre dello spirito”, ossia (per dirla alla platonica) dall’ignoranza. Quindi aggiunge che quando una verità si mostra con evidenza non bisogna smettere di credere in essa in nome delle obiezioni. Ebbene su questa base egli comunque cerca di rispondere all’obiezione: − Dio ha concepito l’uomo libero in quanto creatura fatta per amare il bene. Laddove il bene è ovviamente Dio stesso in persona. E ciò perché il bene deve venire necessariamente scelto, e non deve invece imporsi all’uomo come avverrebbe entro qualunque impulso generato dall’influsso sensibile. La scelta del bene è quindi una sorta di suprema prestazione etica-cognitiva dell’uomo (come direbbe Scheler). Ma intanto l’uomo ama solo ciò che vede, oltre ad essere soggetto anche ad errore. Perciò, se Dio non l’avesse creato libero (mentre però intanto lo conduce continuamente verso ciò che è bene) si dovrebbe ammettere che Dio stesso è laa causa del peccato a causa dei movimenti sregolati della volontà. Di nuovo insomma viene in primo piano il governo divino del mondo come elemento ineliminabile dell’etica stessa. Insomma è cose se si volesse dire che Dio continua a guidare Lui stesso l’automobile cosmica per evitare che il fresco patentato combini dei guai che comprometterebbero in modo imbarazzante il suo insegnante.
È una soluzione questa. Ma è davvero onesta e credibile se teniamo conto del concetto del concetto di libertà colto davvero nella sua integrale autenticità?
E quindi è molto utile confrontare qui la teodicea di Malebranche con quella di Dostoevskij che è stata magistralmente illustrata da Berdjaev (come abbiamo già visto citando questo pensatore a proposito del valore dell’uomo e della sua libertà). In Dostoevskij infatti Ivan Karamàzov rifiuta qualunque teodicea (in quanto causa certa di male, e soprattutto del male che colpisce i bambini) a costo di mettere in discussione lo stesso bene della libertà che Dio ha concesso all’uomo. E questo perché la libertà umana causa tanto il bene quanto il male. Per Malebranche invece essa causa sempre il bene solo perché Dio intanto guida costantemente l’uomo evitando che la sua volontà devii dal giusto percorso (a causa della sua tendenza agli errori, ed a causa della sua soggezione alle apparenze (dato che esso crede solo a ciò che vede). Non solo, ma per Malebranche la conduzione continua di Dio è assolutamente indispensabile per evitare che Egli stesso resti coinvolto nelle deviazioni umane verso il peccato, e quindi divenga complice del male. Comunque la libertà umana (diversamente da quanto afferma Dostoevskij con estrema onestà) è per lui finalizzata al solo bene e solo per questo è giustificata. Malebranche considera comunque il libero arbitrio addirittura come una vergogna per l’uomo perché lo obbliga ad accettare la conduzione divina.
Ora non vi è alcun dubbio che ci troviamo qui di fronte a due molto diverse soluzioni al problema del male in stretta relazione all’autenticità dell’ispirazione che le guida – quella di Dostoevskij si sottomette all’obbligo dell’autenticità fino allo strazio subito a causa della lampante contraddizione, mentre quella di Malebranche si serve senza il minimo scrupolo di artifici pochissimo autentici proprio perché razionalistici per evitare i disagi dell’autenticità. Quella di Dostoevskij si espone coraggiosamente all’abisso dell’irrazionalità imposta dall’evidenza del male in relazione alla libertà umana, e quella di Malebranche invece codardamente ed ipocritamente ne rifugge.
E quindi, una volta servitisi di questa comparazione, non resta davvero molto più da dire circa la qualità etica delle riflessioni di Malebranche. Essa è completamente dominata dalla cinica ipocrisia farisaica che è tipica della razionalità una volta applicata all’etica. Lo stesso sarebbe accaduto a Kant non molto tempo dopo.
E peraltro questo giudizio di valore viene ulteriormente aggravato dalle considerazioni che il pensatore francese aggiunge, e che secondo le quali il fine della libertà non sarebbe affatto la scelta tra il bene e il male, laddove in quest’ultimo rientra il piacere. La libertà concerne invece solo e soltanto la scelta tra amare o non amare Dio, all’unico fine, ovviamente, di renderGli Gloria. Ma Dio sapeva che il libero arbitrio concesso all’uomo non è altro che una “vergogna”, perché con certezza assoluta, in assenza della conduzione divina, lo inclina sempre verso il male (il piacere) e mai verso il bene. La Sua infinita Sapienza ha quindi concesso questa dotazione (totalmente negativa) all’uomo solo perché, prevedendo che l’uomo certamente avrebbe cessato di amarlo, avrebbe dunque peccato. E quindi avrebbe avuto bisogno del Suo aiuto per mezzo della Redenzione di Cristo. E questo dunque avrebbe indotto gli uomini ad amarlo. Dunque il risultato finale di tutti questi eventi – infallibilmente previsti dalla Preveggenza divina – sarebbe stato invariabilmente la Sua Gloria. Ma niente altro!
Ebbene, se la teodicea di Malebranche, posta di fronte a quella di Dostoevskij, naufraga in una codarda ipocrisia al cospetto del mistero estremamente complesso e profondo della libertà umana, qui essa ricade nel ridicolo di una teoria pretenziosa, paradossale e grondante di assurdità. E qui davvero (come hanno detto alcuni) c’è da chiedersi se egli sia stato davvero un filosofo. Non a caso uno dei suoi interpreti, Rodis Lewis, ha definito del tutto assurda la sua dottrina della scelta [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263[.
Ma veniamo ora a TGN, che fu poi un libro dedicato proprio alla teodicea in risposta agli argomenti di Arnaud e dei giansenisti. Vale la pena quindi di gettare su di esso uno sguardo di insieme prima di entrare nell’analisi delle singole argomentazioni.
In generale in questo libro vengono sostanzialmente esposti tutti gli argomenti contro l’idea che Dio possa venir ritenuto responsabile a qualunque titolo del male. Ma soprattutto Malebranche tende a difendersi dall’accusa di aver sostenuto che Dio sia indifferente al male del mondo e dell’uomo. Difesa però impossibile, dato che abbiamo già più volte visto che egli afferma proprio questo, sebbene (con un’argomentazione che molte volte ricade nell’assurdo) faccia sforzi immensi per dimostrare che non è così. Il risultato di questi sforzi è però assolutamente fallimentare.
Pertanto non c’è da meravigliarsi di questo visto che il pensatore impiega appena artifici debolissimi, ed anche non poco cinici, incentrati tutti sulla Perfezione divina originaria (col il conseguente Piano infallibilmente sapiente) quale sua essenza e quindi come indiscutibile nella qualità dei suoi propositi: − Dio può volere solo il Bene. Ma questo viene presupposto più che dimostrato. E peraltro, come abbiamo già visto più volte, senza alcuna menzione dell’Amore. Per Malebranche, infatti, lo stesso Ordine della Grazia non è altro che l’infallibile Ragione divina. Inoltre esso non è altro che il desiderio di Dio di procurare a sé stesso una Gloria infinita perché Egli, come ormai sappiamo, ama solo sé stesso. Ecco insomma che l’essenza dell’Ordine della Gloria si risolve nell’assolutamente inaccettabile (oltre che ridicola) postulazione di un vero e proprio narcisismo divino.
E quindi, in questo inquietante e scoraggiante scenario, l’unica cosa che prevale è l’attribuzione a Dio della sola assoluta Maestà di un Monarca assoluto.
Pertanto – come abbiamo già accennato −, se estendiamo un po’ il nostro sguardo sullo scenario filosofico del tempo, e quindi sull’intero progetto della metafisica razionalista (Malebranche, Leibniz e perfino Spinoza), esso assume i caratteri di un tentativo di fusione tra il razionalismo cartesiano (in forte sintonia, a sua volta, con la Filosofia e Scienza della Natura) e, dall’altra parte, gli antichi contenuti della Religione ebraica (incentrata nella Legge) uniti a diversi aspetti della metafisica religiosa pagana (Plotino, Proclo). Indubbiamente quindi quella qui all’opera è una metafisica corrotta in partenza dal suo razionalismo. Razionalismo che in ogni caso vuole essere tanto sovrannaturale e trascendentista che naturale ed immanentista; cioè vuole tenere d’occhio tanto il più alto e sublime intelligibile quanto il più ordinario e rozzo sensibile. Come del resto appare evidente in un altro progetto metafisico di quell’epoca, e cioè quello di Suárez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011] –, sebbene con toni molto più equilibrati di quelli di Malebranche. Sta di fatto però che, se una metafisica vuole essere autentica, essa deve fare una scelta coraggiosa e radicale: − o si occupa del Sovrannaturale e del Trascendente (attribuendo ad essi un valore ed un ruolo primari), oppure si occupa dell’immanenza e del naturale. Tuttavia è ovvio che quest’ultima disciplina non sarà più una metafisica ma sarà invece solo una scienza naturale. E quindi, qualora pretenda comunque di essere ancora una metafisica, si potrà solo coprire di ridicolo. Non è un caso quindi che il progetto della complessiva metafisica razionalista abbia conosciuto un fallimento storico-filosofico definitivo. Infatti non c’è stato un solo filosofo ad essa successiva che abbia rinunciato a criticarla.
Questa insufficienza assume però forme ancora più eclatanti in Malebranche.
Perché in lui la metafisica razionalista è travestita di forme cristiane incentrate soprattutto nella Maestà divina. Quindi questa è una metafisica mentitrice e corruttrice in quanto è solo falsamente religiosa, perché essa si basa solo sulla filosofia e non sulla Rivelazione, e meno ancora sulla Scienza Sacra. E ciò nel contesto di una visione creazionista-fisico-razionalista. Del resto era stato così già in Cartesio – al cui pensiero Alexandre Koyré tentò di attribuire lo status di un’autentica metafisica cristiana [Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005]. Questa metafisica è dunque in verità unicamente figlia della Filosofia e Scienza della Natura (specie fisico-mateatica), ed inoltre del razionalismo idealista cartesiano (anch’esso fortemente scientista). Non ha a che fare quindi né con la Rivelazione né con i misteri divini, che essa infatti sottopone ad una totale riduzione e ad uno svelamento profano per mezzo della Ragione, togliendo così ad essi la loro natura nella presunzione che Dio sia null’altro che somma Ragione universale. Emblematica per questo è la deformazione dell’idea della creazione come un evento che punterebbe unicamente al Cristo (in concorrenza dell’uomo); e peraltro nemmeno per il valore in sé dell’Incarnazione (quale donazione kenotica di sé da parte di Dio), ma invece unicamente per la sola Gloria divina. Tutto questo si può constatare in varie sedi del pensiero di Malebranche dove il razionalismo applicato alla Rivelazione annacqua e banalizza i misteri rendendoli così del tutto razionali.
Questo è lo scenario generale nel quale si muove la teodicea sostenuta in TGN,
Qui in generale Malebranche sostiene la necessità ed inevitabilità del Peccato secondo la Ragione divina.
E su questo si basano moltissime argomentazioni non solo aberranti ma che logicamente fanno anche acqua da tutte le parti; soprattutto perché pretendono di essere razionalistico-scientiste ed insieme teologico-metafisiche. E così esse saltano a piè pari la Rivelazione o la stravolgono razionalisticamente.
Si può dire quindi che Malebranche e Leibniz anticipino la teologia filosofica non meno aberrante e pretenziosa di Hegel, e, dopo di lui, la logica aberrante ed astrusa all’estremo della più recente filosofia.
E questo si associa peraltro ad un radicale pessimismo verso l’uomo e la sua volontà e libertà, per questo ritenuto indegno per definizione dell’amore di Dio. Infatti il Peccato non sarebbe mai stato perdonato bensì sarebbe stato solo previsto da Dio ed unicamente per la Sua Gloria; cioè sarebbe stato perpetrato da un ente del tutto inconsistente e solo maligno (forse già da prima del Peccato).
Quindi quello di Malebranche è anche una specie di gnosticismo alla rovescia – che presuppone la malignità demoniaca dell’uomo creato di fronte a un Dio che è perfetto in tutti i sensi.

Ma veniamo ora all’analisi delle singole argomentazioni per mezzo delle quali si dipana il complessivo progetto portato avanti in TNG.
Anche Malebranche, come Leibniz, sviluppa la teoria di una molteplicità di mondi ipotetici dei quali solo uno è il migliore («migliore dei mondi possibili»), e quindi quello che ha il diritto di esistere. Che è poi quello in cui viviamo. Questa sarebbe stata insomma l’idea sviluppata da Dio nella scelta delle proprietà del mondo che si apprestava a creare. In particolare il nostro pensatore afferma che Dio avrebbe potuto fare anche un mondo più perfetto di quello in cui viviamo (senza alcuna carenza, come, ad esempio, nella differente quantità di pioggia che cade in vari luoghi), ma per questo avrebbe dovuto mutare la semplicità delle sue vie e pertanto moltiplicare notevolmente le leggi grazie alle quali il mondo sussiste [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Ma la conseguenza di questo (per il razionalismo di Malebranche paradossale) sarebbe stata che il mondo sarebbe stato complesso e perfetto quanto Dio, con la conseguenza ancora peggiore che gli uomini avrebbero poi adorato un mondo altrettanto complesso e perfetto. E non Dio. Ecco dunque la ragione ultima dell’assolutamente necessaria imperfezione del mondo – cioè la necessaria sproporzione in perfezione tra Dio e mondo. È per questo quindi che l’imperfezione del mondo attuale non elimina l’estrema semplicità delle leggi naturali, la quale (anche per mezzo dell’imperfezione stessa) rende il mondo degno della sapienza del suo Autore. In altre parole l’uomo deve venerare Dio per la sapienza della sua creazione (consistente in leggi semplici) sentendosi così a Lui inferiore in sapienza; e questo a costo di dover subire l’imperfezione del mondo, e quindi il male e dolore. Dunque l’idea principale del migliore dei mondi possibili resta sempre quella della semplicità e sufficienza (poche e non molte) delle leggi della comunicazione dei movimenti (che vige ad esempio pienamente in Fisica). La quale stabilisce poi la giusta (o sapiente) proporzione tra la qualità dell’azione di Dio e quella della Sua opera, ed inoltre stabilisce la giusta (o sapiente) proporzione esistente tra le indifferenti leggi naturali e il mondo in cui esiste l’uomo. Quest’ultima implica inevitabilmente il male, dato che (in forza delle antecedenti e perfette leggi semplicissime dell’intero Essere) deve necessariamente trascendere gli interessi di quella creatura umana che non è nulla e non conta nulla. Ma intanto rivela un Dio perfetto nella sua Sapienza ed inoltre rende il mondo degno di quest’ultima. Cosa che mai sarebbe avvenuta se invece il mondo fosse stato invece perfetto (e per questo anche complesso nelle sue leggi). Il criterio della perfezione è dunque per Malebranche la semplicità stessa delle leggi (in cui consiste la sapienza dell’autore), dato che essa sarebbe mancata in un mondo necessariamente complesso in quanto perfetto. Ma il prezzo da pagare per questo è l’assoluta indifferenza al male di queste leggi ed anche della Sapienza che le sorregge. Insomma, al di là dell’astrusità prepotente dell’argomentazione (tipica dei razionalisti convinti), siamo ad uno dei più cinici artifici per evitare l’affronto del tremendo tema del male. Inoltre Malebranche presuppone (malignamente) una certa cinica furbizia di Dio nel creare un mondo imperfetto quanto basta per poter venire adorato. E quindi il principio dominante nella creazione del mondo da parte di Dio sarebbe solo quello di venire adorato per la sua Sapienza.
Tutto questo significa dunque che (diversamente da Dostoevskij) Malebranche non affronta affatto coraggiosamente il tema del male, ma si limita a schivarlo barcamenandosi in esso nel modo meno autentico possibile. E peraltro lo fa ricorrendo al più rivoltante cinismo. Il che conferma poi in pieno l’accusa di Arnauld.
Malebranche sostiene comunque che il discorso è molto diverso se passiamo dalla Causa generale (sapienza infinita) e le cause particolari (intelligenze limitate) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XVIII-XX p. 80-82]. Queste ultime sono quelle leggi naturali “costanti ed immutabili”, oltre che universali – in virtù delle quali nel mondo tutto accade sempre allo stesso modo, e quindi sussiste un Ordine caratterizzato anche dalle sue carenze e disuguaglianze, cioè da una certa quota di difettività e male – che sono assolutamente inesorabili, e i cui effetti sono stati previsti infallibilmente da Dio. Ma, a causa della dominante reggenza delle superiori e semplicissime Leggi ancora più generali, le pur infime leggi naturali fanno marciare il mondo (almeno apparentemente) da solo e quindi senza alcun bisogno dell’intervento di Dio con volontà particolari. Proprio per questo gli effetti dell’azione delle leggi naturali (benefici o meno che siano) sono assolutamente prevedibili. Ne consegue che (secondo uno degli assiomi della metafisica razionalistica) il mondo è un meccanismo esatto che Dio mette in modo una volta per tutte perché produca tutti i suoi effetti. E secondo Malebranche per questo le leggi naturali servono a produrre tutto il bello che vediamo ed inoltre anche a porre rimedio ai sempre possibili mali.
Ancora una volta però prevalgono qui il cinismo e l’ipocrisia. Perché entro questo pur perfetto meccanismo c’è pienamente posto per il male in forza di un’indifferente (in quanto rigorosamente razionale) sorta giustizia distributiva della Natura. Si tratta dell’emergere in questo contesto di quell’antica e pagana idea del Fato che abbiamo già illustrato. Questo però a Malebranche non interessa affatto, dato che per lui l’elemento primario e di maggior valore è la perfezione razionale del Piano divino.
E questo viene puntualmente confermato più avanti laddove egli constata (con la più sconcertante disinvoltura) che Dio si disinteresserebbe totalmente dei mali circostanziali (ossia i meri effetti intermedi del Piano) per il bene finale al quale punta il suo progetto. Il valore primario e fondamentale è infatti per lui l’immutabilità dei propositi, che quindi non può deflettere di fronte all’insorgere di solo temporanee imperfezioni, le quali non inficiano affatto la bontà dei fini (come la distruzione di una vigna appena fatta crescere ad opera della grandine, e ciò in perfetta concordanza con le leggi della Natura).
Del resto tutto diviene chiaro se si tiene conto di quello che Malebranche dice subito dopo: − “La regola essenziale della volontà di Dio è l’ordine”. Il quale precede la Bontà e la Giustizia. Ciò che ha portato il male è stato infatti il disordine del Peccato, in forza del quale le leggi naturali (in sé buone) hanno reso l’uomo infelice e quindi pienamente passibile di punizione. In particolare la legge dell’ordine “vuole che il giusto non soffra nulla senza meritarlo” ed essa rientra nell’essenza di Dio. Emerge quindi da qui idea sostanzialmente giuridica che Malebranche ha di Dio e del mondo ideale sovrannaturale (Prima creazione) in quanto buono, cioè un mondo nel quale non esiste il male. In esso si vive felici solo finché non si trasgredisce, altrimenti ci si merita pienamente la punizione. Orbene infinite letture cristiane di questa realtà (e non solo cristiane) mostrano che non era affatto questo il senso della Prima creazione, e quindi della creazione di Adamo in quanto Uomo prototipico. Egli aveva infatti un immenso valore proprio in quanto paradigma ideale di tutto l’Essere, rivelando così un ruolo che era quello dell’Uomo prototipico ancora più originario, ossia il Logos cristico. Il quale era esso stesso null’altro che Uomo nell’accezione più metafisicamente integrale della parola. Ma oltre a ciò Malebranche ignora ancora una volta la Rivelazione cristiana dimenticando la fondamentale ed emblematica figura di Giobbe, ossia il giusto che soffre comunque il male. Il disordine causato dal peccato non si risolve quindi affatto nel suo aver generato un uomo cattivo per natura che deve quindi (almeno in via di principio) necessariamente venire punito. Il vero Dio infatti non guarda affatto all’uomo in questo modo. Altrimenti perfino nel Vecchio Testamento non avrebbe raffigurato la figura di un Giobbe. Dio certamente permette il male in forma di prova, ma con il proposito di venire prima o poi in soccorso dell’uomo dopo aver messo alla prova la sua fede. E questa sembra una prospettiva del tutto sconosciuta a Malebranche.
Pertanto la visione razionalistica di Malebranche ancora una volta semplifica e nasconde i misteri divini. E lo fa trasformando in senso meramente e piattamente giuridico la realtà del Peccato originale in relazione al mondo perfetto della Prima creazione. E questo ancora una volta mistifica ed occulta il tema del male, che invece è estremamente più complesso di quanto il razionalismo di Malebranche (ed altri) intenda farci credere.
Più o meno lo stesso accade in altre sedi di TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, XXXVI, p. 91]. E di questo abbiamo già parlato illustrando l’idea secondo la quale il Peccato di Adamo sarebbe stato previsto da Dio unicamente per la sua Gloria. Anche questa idea, insomma, razionalizza il Peccato e la Caduta annacquando e banalizzando il grandissimo mistero che essi rappresentano. Abbiamo anche già parlato dell’idea secondo la quale il fine della creazione divina (nell’impeccabile previsione del Peccato stesso) sarebbe stata unicamente l’insorgenza di Gesù Cristo e della Chiesa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, VII p. 111-112]. Ed anche questa non è altro che una razionalizzazione naturalistica di una verità teologica e cioè di un mistero divino. Infatti qui la concessione della Grazia divina starebbe appena in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo. Ed inoltre, ancora una volta, l’intera argomentazione di Malebranche a tale riguardo contiene lacune logiche riempite da lui del tutto arbitrariamente.
A tutto questo si aggiungono poi in TNG alcune altre considerazioni del pensatore sulla libertà, che vanno ad integrale quelle già da noi esposte commentando CC.
In generale egli svaluta la libertà umana affermando che noi uomini amiamo Dio unicamente in forza di una coercizione da Lui esercitata. E questo spiazza decisamente ogni nostro moto volontario, o scelta.
Malebranche dice infatti che il movimento dell’anima verso il bene è “invincibile” (in virtù della coercizione divina esercitata su di essa) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, II p. 151]. Essa dunque non dipende affatto da noi, specie non dalla nostra volontà di essere felici terrenamente. Dunque
è solo Dio come Causa dominante che ci fa vedere con chiarezza la necessità di amare il vero bene. Quindi, anche quando interviene “la libera scelta della volontà” umana, data la coercizione di fondo, gli uomini possono amare solo Dio. Insomma Malebranche svuota totalmente di contenuto e valore il libero arbitrio e non pensa affatto che l’uomo, attraverso la libertà naturale (della quale è stato dotato da Dio stesso), possa davvero scegliere il bene. Ecco emergere insomma di nuovo una concezione del tutto pessimistica dell’uomo. Il risultato stesso della libertà umana è dunque totalmente predestinato da Dio. Quindi, diversamente dalla teodicea di Dostoevskij, la libertà umana non prevede affatto la tragica ma anche grandiosa scelta tra male e bene. E questo, si dica quel che si dica, non è altro che negazione della libertà.
Il che è confermato da ulteriori affermazioni del pensatore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, IX p. 157-158]. Egli sostiene infatti che l’Adamo non ancora decaduto era pienamente libero in quanto riconosceva in Dio l’unico bene ed anche la vera causa del suo piacere. Insomma egli era pienamente libero perché si conformava alla Ragione divina nella sua perfezione. Ne risulta che Dio è addirittura l’unico piacere al quale siamo attratti davvero invincibibilmente, e precisamente senza nemmeno l’esercizio della volontà. Il che rende quindi del tutto non interessante qualunque altro piacere. Malebranche ne conclude che “…la libertà più completa è quella degli spiriti che in qualsiasi momento possono vincere i piaceri più grandi, è quella degli spiriti nei confronti dei quali nessun movimento verso i beni particolari è invincibile”. E questa è solo la libertà antecedente al peccato. Invece “la libertà più imperfetta è quella di uno spirito rispetto al quale ogni movimento verso un bene particolare, per quanto piccolo esso appaia, risulti invincibile in qualsiasi sorta di circostanze”. Insomma anche qui viene totalmente mortificato il libero arbitrio come autentica e piena scelta, dato che la perfetta libertà è per Malebranche solo quella sostenuta da un determinismo coercitivo. E questa è un’idea francamente del tutto aberrante. Questa idea puramente coercitiva (del tutto assurda) della libertà si ritrova peraltro anche più avanti [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XVIII p. 166-167].
Laddove egli sostiene che la libertà è totalmente assente nell’uomo, per venire sostituita dalla coercizione verso Dio come Bene, ci si rende conto del fatto che la Luce del Riparatore (Cristo) agisce in noi stessi a differenza dei piaceri sensibili che invece esercitano una continua pressione su di noi dall’esterno. Quindi questa luce non tocca affatto la nostra anima (cioè i nostri sensi), nella quale l’istinto al piacere viene inseminato fatalmente dalla pressione esteriore.
Ne risulta una sorta di nostro agire autonomo (in quanto agenti in forza della sola sollecitazione interiore), che pertanto equivale all’agire guidati dalla sola Ragione, e consiste nel consentire all’impulso esercitato su di noi da Dio verso il Bene. Questa, egli dice, è una sorta di azione messa in atto senza sentimento e unicamente in nome del dovere. E Malebranche stesso dice che essa è pienamente libera solo perché, in quanto è astratta e intelligibile, è del tutto priva di gusto. Il che denuncia la totale assenza della pressione dell’istinto in questo moto dell’anima. È del tutto evidente che una siffatta libertà puramente asettica (in quanto razionale, astratta, intelligibile e perfino deterministica) non può essere affatto quella vera libertà che invece viene minacciata continuamente dall’oscuro (del tutto sensibile ed anche sporco) abisso del male ma intanto in questo abisso si libra e vola senza alcuna costrizione.
Inoltre ulteriori argomentazioni di Malebranche dimostrano che egli considera sì il libero arbitrio ma solo in quanto fortemente relativo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, XI p. 159]. E comunque questo relativismo è ancora una volta vincolato al grado di ragione con il quale si opera la scelta. Infatti egli dice che è altrettanto lecito pensare che “secondo l’ordine originario della natura” tutti gli uomini siano egualmente liberi. Ma con ciò non si considera la corruzione esercitata dalla concupiscenza causata dal peccato. Anch’essa è infatti presente in tutti gli uomini, e quindi rende del tutto relativa la pienezza della libertà. Ecco insomma emergere di nuovo la visione totalmente pessimistica della natura umana.
Eppure Malebranche, nonostante tutto questo, non rinuncia a tentare di presentarci una libertà che rappresenta una scelta [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXIII-XXVI p. 169-172].
Egli sostiene infatti che, allo stesso modo in cui la concupiscenza non ha distrutto la libertà umana, anche la Grazia non è in verità per nulla invincibile per quanto efficace essa sia. Dunque “essa non occupa l’anima in modo tale da trascinarla verso il bene senza scelta…”, e quindi del tutto senza libertà e consenso. Proprio per questo meritiamo particolarmente quando le cediamo. Ecco che qui inizia a venire dato valore alla libertà come scelta. Ma comunque la Ragione e la conoscenza occupano ancora un ruolo critico in questo atto. Esse insomma continuano ad essere dominanti.
Susseguentemente viene infatti presupposto che l’amore davvero puro per Dio è retto dalla sola Ragione e non dalla benché minima traccia di piacere, il che significa, per Malebranche, che ciò avviene in piena libertà ossia appunto per scelta. Ma comunque per lui non c’è alcuna libertà senza il perfetto conformarsi alla Ragione. E quindi nuovamente – anche se viene postulato l’atto della scelta come sua radice – la libertà appare essere solo relativa all’esercizio della pura Ragione. Il culmine di questa dottrina della scelta si ha quando Malebranche vede in Cristo il suo paradigma. Il massimo di questa capacità, egli dice infatti, si ha in Gesù Cristo (in quanto essere “impeccabile”). E ciò perché Egli “amava il Padre suo non per istinto del piacere ma per scelta e ragione, l’amava perché vedeva con la sua superiore intuizione quanto era degno d’amore”. Infatti ”la libertà più perfetta è quella di uno spirito che ha tutta la luce possibile e che non è determinato da nessun piacere, perché ogni piacere preveniente o di altra natura produce naturalmente qualche amore e, se non si resiste al piacere, quest’amore determina efficacemente il movimento naturale dell’anima verso l’oggetto che ci è gradito”.
Dunque la piena libertà per Malebranche non espone affatto alla scelta straziante tra bene e male (come soggezione alla necessità, inclusa quella del piacere), ma è invece una piena e purissima razionalità che procede verso il Dio-bene senza alcun condizionamento (nemmeno quello della costrizione esercitata dall’istinto stesso che reca a Dio). È una sorta di facoltà conoscitivo-razionale sovrannaturale ossia puramente spirituale. Non a caso essa non avviene sulla terra ma solo nel cielo (infatti è solo di Adamo e di Gesù Cristo). Essa insomma ignora totalmente il male. Quindi è scelta solo nella misura in cui è applicazione del determinismo della Ragione: − è scelta solo in quanto ragione. Non vi è alcun dubbio circa il fatto che qui la scelta viene di certo presupposta, ma senza alcuna convinzione e senza alcun rispetto per la sua effettiva realtà. Realtà che come dice Dostoevskij (Berdjaev) è inevitabilmente tragica, e perfino dionisiaca. Altro che puramente razionale dunque. Infatti di questa scelta non si può in alcun modo prevedere il risultato. Che quindi può essere anche il male più devastante.
E questo viene confermato dall’idea che per Malebranche la scelta del male non è affatto positiva, ma invece solo negativa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXXI p. 176]. Infatti, dice il nostro pensatore, quando due oggetti si presentano in un uomo ed egli sceglie (ossia “si determina rispetto ad essi”), non manca mai di farlo dal lato in cui trova più ragione e piacere ed in cui si trova più bene. Infatti l’anima vuole ed ama unicamente per amore del bene, e quindi la sua volontà è solo movimento verso di esso. Ma la scelta viene a mancare quando a prevalere è il piacere sensibile che turba lo spirito. Qui infatti semplicemente si sospende il proprio giudizio, rinunciando così all’esercizio della ragione.
Ed in questo modo non ci si determina, cioè non si sceglie verso i falsi beni. Perché l’anima non può non conoscere i falsi beni, e quindi l’andare verso di essi è solo sospensione di conoscenza.
Ecco allora che l’eventuale scelta del male (quale bene sensibile) – che intanto una corretta dottrina della scelta non può affatto escludere − non è affatto positiva (com’è l’esercizio della volontà in un determinato senso) ma è invece solo negativa, cioè è di fatto sospensione di conoscenza. Laddove invece la pienezza di conoscenza condiziona sempre la scelta, altrimenti essa da sola non sarà mai capace di esercitare la sua funzione.
Insomma nulla come questa argomentazione poteva confermare che la dottrina della scelta di Malebranche (sebbene espressamente invocata) è in verità totalmente deficitaria e fallimentare. E ciò conferma che egli non ha in effetti alcuna intenzione di affermare un concetto di libertà colto davvero nella sua pienezza.

Il concetto di metafisica di Malebranche (sezione 3).
Ancora una volta esamineremo a questo scopo le tre opere PM, CC e TNG.
Tuttavia non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, dato che finora è divenuto più volte chiarissimo cosa Malebranche intenda per metafisica. Almeno secondo il nostro giudizio, essa è chiaramente una solo falsa metafisica proprio perché è integralmente razionalista e non è nemmeno affatto religiosa (anzi addirittura cristiana) come pretende di essere. E per quanto ci riguarda una metafisica non è tale se non concepisce come sommo Principio l’entità trascendente che più radicalmente sta oltre il sensibile – che esso sia un Dio personale o anche un puro Uno dalla valenza divina. Proprio in questo senso fu religiosa la metafisica più trascendentista che vi sia mai stata, cioè quella di Platone, ed inoltre la metafisica più immanentista che vi sia mai stata, cioè quella di Aristotele.
Ma quella di Malebranche è semmai (un po’ come anche quella di Suárez e di Leibniz) una metafisica in primo luogo gnoseologista, dato che pone come sommo principio la perfettissima Ragione universale quale radice di tutte le Leggi dell’essere e del conoscere. Il suo Dio quindi è al massimo una entità supremamente logico-matematica. E quindi non è né il Dio del Vecchio Testamento né quello del Nuovo, né nemmeno lo stesso Allah o qualunque divinità personale. È insomma lo stesso identico Dio di Cartesio, ossia il sommo garante di tutte le certezze conoscitive.
Certo non vi è dubbio che l’occasionalismo di Malebranche è stato ed è considerato una teoria metafisica del Governo del mondo e della Natura [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Ma intanto, commentando le varie sue opere abbiamo visto che anche che ciò ha molto più di scientifico che non di religioso. Essa insomma concerne molto meno la “giustificazione degli esseri” (Rome) e molto invece più le Leggi che regolano il funzionamento ordinario dell’universo. E quindi anche per questo quella di Malebranche non è una vera metafisica – dato che essa non è una vera ontologia. Non a caso le teorie della creazione che essa espone sono più le teorie di un Fisico che non di un metafisico. Ma abbiamo anche visto che la dottrina metafisica di Malebranche dovrebbe essere anche come paradigma di una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)]. Se non fosse che abbiamo constatato che essa di Teologia non contiene davvero nulla, se non appena degli astrusi surrogati di questa disciplina. L’unico interprete critico che sembra avvicinarsi alla corretta interpretazione della natura della disciplina coltivata da Malebranche è Walton, il quale dice appunto che si tratta di null’altro se non di un’epistemologia metafisica [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161].
In ogni caso i libri di Malebranche contengono idee di tipo metafisico e quindi vale la pena di esaminarle.
Sono presenti infatti i concetti di sostanza, di spirito, di anima, di corpo, di causa etc.
Ora di concetti di anima e corpo parleremo a proposito della teoria della conoscenza e percezione. Del concetto di causa invece abbiamo parlato finora abbondantemente. E quindi non ci resta che parlare degli altri concetti.
Iniziamo quindi da quello di sostanza. Che forse è il solo concetto nel quale Malebranche pensa in maniera davvero autenticamente metafisica. Sostanza è per lui senz’altro Dio stesso [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Ne abbiamo del resto già parlato a proposito della definizione di idea di Dio come la realtà in cui noi come creature sussistiamo. Con ciò emerge la sua ubiquità e quindi la sua natura davvero primaria di “estensione” infinita. Ed entrambe vengono spiegate a causa della non-corporeità di Dio che lo rende un’entità assolutamente a-locale.
Pertanto la sostanza (in quanto incorporea ed a-locale) resta intera nonostante sia tendenzialmente divisa per il fatto di trovarsi dappertutto, ossia essere ubiquitaria. Ma proprio per questo essa è ciò in cui tutto si trova ed esiste – come avviene appunato «in Dio». Ma proprio questo costituisce quell’estensione infinita (ossia l’immensità divina) che sta all’estensione spaziale ordinaria (locale e finita) come il tempo sta all’eternità. Ne consegue, secondo Malebranche, che i corpi sono estesi solo nella misura in cui lo sono entro l’immensità di Dio. Esattamente così come tutti i tempi si succedono solo nella misura in cui lo fanno nell’eternità di Dio. E proprio per questo, così come Dio è immensamente esteso, esso non conosce scansioni del tempo (passato, presente e futuro) e quindi “non è stato, non sarà”. Ma invece semplicemente “è”. È comunque a causa dell’infinita capacità di contenimento di tale immensità divina che “il mondo è in Lui” nel mentre Egli è dappertutto. Va però anche detto che Malebranche si oppone radicalmente all’onto- metafisica tradizionale nel criticare severamente il concetto di sostanza aristotelico, il quale assomiglia molto più ad una oggettualità sensibile che non invece ad un’entità radicalmente intelligibile [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 420-421, 425-426, p. 99-102, IV, 29-31 p. 102-103 IV, 313 p. 103, III, 318-319 p. 103-104]. E questo, nel mentre lo approssima all’onto-metafisica platonica, nuovamente sottolinea che la sua metafisica tende molto più a raffigurare un supremo Principio regolativo di tipo razionale-matematico che non un vero e proprio Dio.
Tale carattere è infatti perfino quello dell’ubiquitaria sostanza divina. Peraltro deve essere proprio a causa di questa sua fondamentale aspirazione scientista (in principio molto poco autenticamente metafisica) che egli attribuisce ai libri di Aristotele errori ed oscurità a josa, negando così alle sue dottrina qualunque autorità. E la responsabilità di questi errori (concernenti per lui molto direttamente il concetto di sostanza) sarebbero dovuti all’uso scorretto della logica puramente astratta come mezzo per rendere reali delle entità invece assolutamente immaginarie, e quindi del tutto assenti nella Fisica. Si presenta insomma in questo la quota di empirismo che poi avrebbe retto il pensiero di Kant e che portò proprio ad un’abolizione definitiva della metafisica. Pertanto è plausibile che il pensiero razionalista del XVII secolo (Malebranche, Leibniz, Spinoza) abbia definito sé stesso come «metafisica» ma non lo sia mai stato e probabilmente nemmeno aveva voluto mai esserlo. Si ha insomma l’impressione che in quel periodo si sia usato il termine «metafisica» senza assolutamente voler intendere con esso davvero una metafisica ,ma semmai una scienza naturalistica che ancora usava un linguaggio matematico.
In ogni caso il difetto fondamentale della sostanza aristotelica sarebbe il suo voler essere non estensione infinita ma invece semmai “essenza”. Il che per Malebranche non è altro che il frutto di un’operazione di pensiero entro la quale si tolgono alla materia tutti i suoi reali attributi per lasciare in piedi solo il più irreale di tutti, e cioè appunto l’essenza. Ne scaturisce così un “qualche cosa” (aggiunto artificiosamente all’estensione) che non possiede più alcun attributo e pertanto non è affatto conoscibile. E quindi non ha alcun diritto di costituire l’intelligibilità della cosa nella sua massima formulazione. Insomma, egli dice, in tal modo svanisce ogni “idea intelligibile” della cosa.
In altre parole nuovamente qui si affaccia in anticipo il criticismo di Kant, dato che non stiamo parlando di altro se non dell’«in sè» in quanto assolutamente inconoscibile. Ma, oltre a ciò, nuovamente in questa sede (nonostante la chiara invocazione di Platone nell’intelligibilità della cosa in quanto idea) sta parlando molto più il fisico che non il metafisico. La sostanza di cui egli parla è infatti estensione e non essenza, ovvero è la dimensione reale del mondo, sebbene colto per mezzo di un pensiero e linguaggio metafisico. Non è invece affatto la forma astratta che precede questa realtà e la trascende. E quindi si sta parlando di qualcosa di realmente esperibile, sebbene soltanto entro le speculazioni di fisici e matematici, che astraggono dal mondo della mera esperienza sensibile per indurre da essi un mondo di oggetti intelligibili. Vedremo poi che la teoria della conoscenza di Malebranche si incentra proprio su questa dottrina.
Prova di ciò è del resto la sua assimilazione totale di metafisica, matematiche pure e tutte le scienze universali in quanto riflessioni su oggetti che sembrano chimerici ma sono reali proprio in quanto puramente intelligibili [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181, p. 53-55]. Per la precisione esse sono il frutto dell’
attaccarsi dello spirito umano ad un Dio che è il più puro e perfetto possibile tra gli enti. E questa non è altro la visione del mondo intelligibile, tuttavia colto nella sua concretezza scientifica. Peraltro egli precisa che proprio così si delinea la differenza esistente tra “fede”o Evangelo, e “filosofia”. Laddove della prima sono capaci gli uomini “più grossolani” (i quali vedono in Dio solo il creatore) mentre gli altri lo conoscono nella conoscenza delle verità pure. Insomma la ragione non lo considera affatto per le sue opere bensì invece per la sua essenza, cioè “in sé stesso ossia per questa grande e vasta idea di essere infinitamente perfetto che egli racchiude”. In altre parole constatiamo di nuovo qui che la sua para-metafisica, che è anche pretenziosamente religiosa, non è in verità altro che la suprema scienza dell’intelligibile, e quindi molto più fisica matematica che non autentica metafisica. Del resto qui la fede viene decisamente disprezzata al cospetto della ragione, ossia la filosofia come scienza fisico-matematica.
Pertanto appare evidentissimo che tra i suoi intenti non vi fu affatto quello di riconciliare Fede e Ragione, ma semmai quello di affermare il riassorbimento totale della prima nella seconda.
Ma veniamo ora alle possibili definizioni di metafisica presenti nelle altre due sue opere, CC e TNG. In CC vi è davvero poco rispetto a questo, se non la costatazione che in quest’opera Malebranche intende fondare una fisica totalmente retta dalla Ragione e Volontà divina. Questa è probabilmente la risposta intenzionalmente metafisici-religiosa alla puramente empiristica scienza della Natura di stampo galileiano e baconiano. L’elemento decisivo è qui in particolare quello di una Causa unica e suprema che sarebbe divina. Quindi il ragionamento condotto dal pensatore appare davvero bizzarro. Eppure – almeno per quello che lui dice − non lo è se si tengono presenti i dubbi che le cause relative causano nella fisica classica.
Più di questo dal libro non è deducibile se non alcune osservazioni nelle quali Malebranche rivendica la conoscenza dei fini (o cause finali) alla religione e non alla fisica [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., DIALOGO III, p. 44-67]. E con ciò egli intende il conformarsi alla volontà divina per mezzo dei “precetti” da Lui per sempre statuiti. Tuttavia ventila che questi fatti puramente etico-religioso potrebbe comunque collimare con i principi della stessa fisica, e precisamente nella forma della postulazione dei supremi principi della comunicazione del movimento. Principi che certamente la fisica considera indubitabili secondo l’esperienza, ma che comunque nulla vieta che restino vigenti solo finché non interverrà la Resurrezione.
In altre parole Malebranche qui esprime lui stesso un certo dubbio circa il fatto che la sua metafisica religiosa abbia davvero anche una valenza pienamente scientifica, e cioè fisica.
In TNG non abbiamo comunque trovato alcun riferimento alla definizione di metafisica da parte di Malebranche.

La teoria della percezione e della conoscenza. L’idealismo relativo di Malebranche (sezione 4).
Qui partiremo prima dalla teoria della percezione (che è più basilare) per poi passare solo dopo alla trattazione della teoria della conoscenza. Tuttavia i due temi sono spesso strettamente intrecciati per cui molto spesso sarà impossibile separarli.
Questo è comunque uno degli elementi dei quali gli interpreti critici moderni si sono maggiormente occupati nello studiare il pensatore. Non a caso se ne occupa molto direttamente Steven Nadler il cui libro viene presentato in recensione da Jolley [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. In questo libro però si trova poco più di quanto si possa rilevare leggendo le opere di Malebranche che abbiamo studiato. Si viene a sapere che le idee di Malebranche sono rappresentazioni e concetti logici e non invece immagini degli oggetti. Si constata che la teoria della percezione del pensatore è completamente diversa da quella ordinaria della psicologia (e quindi anche da quella dell’empirismo) in quanto per lui le idee sono costitutive della percezione senza però essere esse stesse oggetto di percezione.
E pertanto in alcun modo esse vanno considerate (come pensano invece gli empiristi) il prodotto della percezione stessa. Infine per Nadler andrebbe considerato che per il pensatore il termine “percezione” viene inteso in modo equivoco in quanto si tratta tanto di percezione di idee quanto di percezione di oggetti o corpi materiali (ossia la classica e ordinaria percezione). Ma intanto egli intende la percezione delle idee in termini puramente intellettuali (ossia come puramente interiore conoscenza delle cose), con la conseguenza che la percezione dei corpi materiali sarebbe in tal modo solo inferenziale
Tutto questo però, come abbiamo già detto, può venire dedotto anche dalla lettura dirette delle opere di Malebranche che abbiamo menzionato, sebbene tra esse manchi la fondamentale opera “La recherche de la verité”. Quello che però sembra sfuggire a Nadler è che la teoria della percezione di Malebranche (conoscenza delle cose per mezzo delle solo interiori idee delle cose) è e vuole essere sostanzialmente (almeno in un certo senso ed in una certa misura) metafisica, ossia vuole affermare che il vero mondo è quello intelligibile. E quest’ultimo è per lui null’altro se non il mondo della cui conoscenza noi siamo capaci solo contemplando le idee di cose che sono presenti in Dio come Ragione universale.
Dunque, almeno in questo senso, Malebranche esprime un’intenzione autenticamente metafisica ed anche metafisico-religiosa. Ma aspetti come questi non interessano agli studiosi moderni, i quali cercano nella filosofia solo teorie puramente epistemologiche. E così accade anche per il nostro pensatore.

Ma vediamo cosa si può scoprire dalla lettura delle sue opere e cominciamo da PM.
Bisogna premettere però che i contenuti dedicati dal pensatore a questo tema sono troppo abbondanti per poter venire riportati integralmente in questa recensione. Perciò ci limiteremo ad illustrarne gli elementi più rilevanti rinviando il lettore al libro per gli eventuali approfondimenti; oltre che alle opere critiche scritte su Malebranche, come quelle che abbiamo menzionato nell’introduzione e ricordato poc’anzi.
In questo libro emerge immediatamente il legame che il pensatore stabilisce tra la percezione e l’anima, e quindi si delineano da subito i due temi congiunti della relazione anima-corpo e del possibile ruolo conoscente dell’anima. Che però vedremo negato a più riprese da Malebranche. Come vedremo dopo, infatti, l’anima è per lui l’organo stesso della percezione.
Innanzitutto il nucleo della sua teoria della percezione consiste nella convinzione che la conoscenza è unicamente interiore (per mezzo delle idee delle cose) dato che il mondo fuori di noi è appena un’illusione
[Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 57-58, p. 25-26, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35]. Ciò significa che noi in verità percepiamo i corpi esteriori unicamente nella nostra interiorità, e che quindi alcuno stimolo esteriore agisce sugli organi percettivi affinché si formi in noi l’immagine di un corpo. Ciò che conta è insomma unicamente l’oggetto mentale o ideale.
In termini fenomenologici si tratta dell’«oggetto di coscienza». E quindi in qualche modo la teoria conoscitiva di Malebranche sembra anticipare le idee di Husserl. Cosa della quale però parleremo solo più avanti.
Insomma il concetto principale del pensatore è che è solo entro lo spirito (rappresentato funzionalmente dall’anima) che avviene la percezione (e quindi poi anche la conoscenza). Non invece nel mondo esteriore.
Infatti egli sostiene che gli oggetti esteriori sono del tutto invisibili allo spirito (data la differenza invalicabile di sostanza che li divide) e quindi non hanno alcuna reale possibilità di agire dall’esterno su di esso – come invece si crede che accada (per mezzo degli organi percettivi) entro l’ordinaria teoria della percezione.
Ne risulta che noi percepiamo gli oggetti unicamente “in mente” (nel contemplare le relative idee) nel mentre però ci illudiamo di vederli esteriormente. Dunque il mondo esteriore non è quello che vediamo davvero, ma appena quello che crediamo di vedere. Ecco che allora, secondo Malebranche, per “idea” va inteso “l’oggetto immediato, o il più prossimo dello spirito quando esso percepisce qualche oggetto”. In altre parole l’idea di cosa è la cosa stessa.
Ma per essere più precisi si tratta della cosa della quale noi cogliamo (interiormente) per davvero tutti gli aspetti ossia la reale unità; cosa che Malebranche intende più come “bellezza” che non come verità – il mondo intelligibile è pertanto un modo di bellezze. Quello che esiste fuori di noi è invece pura e caotica materia informe, quindi soltanto bruttezza. Quindi non vi è esteriormente alcun oggetto nella sua unità.
I veri e pieni oggetti sono quindi solo “in mente”. Ecco che il circolo che noi cogliamo esteriormente (ossia quello meramente fisico) non sarà mai così perfetto come quello che noi cogliamo interiormente (ossia quello intelligibile). Ed è evidente che qui Malebranche si riferisce alla conoscenza dei puri oggetti matematici come quella davvero paradigmatica.
Tutto questo però comporta una completa disconnessione tra l’anima (nella quale avviene la percezione) ed il corpo a sua volta contiguo al mondo esteriore. In termini percettivi ciò significa che l’anima non prende contatto né con l’uno né con l’altro. E quindi è solo un’illusione quella di andare a passeggio (grazie all’anima) per il mondo esteriore cogliendo gli oggetti di cui esso è disseminato. Malebranche esprime questo con la seguente affermazione: − “Non vi è relazione necessaria tra le due sostanze di cui siamo composti”. E questa è chiaramente un’affermazione cartesiana.
E con ciò egli afferma, proprio come Cartesio, che non vi è alcuna unità anima-corpo, né alcun effetto dell’uno sull’altro. Egli ammette solo la simultaneità (voluta da Dio) della presenza di alcuni sentimenti nell’anima con alcuni movimenti verificantisi nel cervello; ma ciò solo in virtù dell’azione di quella Causa suprema divina che vuole esattamente questo. Va però notato che, se per Cartesio, è l’anima a non agire sul corpo, per Malebranche è il corpo a non agire né sull’anima né sullo spirito. Laddove invece lo spirito agisce sempre sia sul corpo che sull’anima. Quindi la sua dottrina sembra paradigmatica di quella della formazione spirituale del corpo e del mondo.
Il pensatore però ammette che vi siano comunque dei presupposti corporei per la percezione, dato che il vedere le cose dipende al verificarsi di movimenti del cervello, ed a questi movimenti le idee sono congiunte. Tuttavia anche qui interviene l’illusione che si tratti di percezione sensoriale ossia esteriore. In altre parole la conoscenza intelligibile abolisce totalmente la percezione.
La realtà più generale di questa teoria resta comunque quella più metafisica. E cioè che la conoscenza avviene nella Ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”.
Questo è da considerare il nucleo della teoria della percezione di Malebranche. Il discorso continua poi investendo altri aspetti di esso ma potremo limitarci a trattarne solo di una parte.
Veramente decisivo appare essere il concetto di “rivelazione” che il pensatore impiega quando passa dai fondamenti della teoria della percezione a quello della certezza circa l’esistenza dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. E questo rinsalda la teoria della percezione a quella della primaria ed assoluta Causalità divina che agisce in ogni circostanza ed in ogni fenomeno. Malebranche sostiene infatti che è del tutto ovvio che noi sentiamo il nostro corpo, e quindi siamo certi della sua esistenza. Il che costituisce poi una certa imbarazzante prova dell’esistenza del mondo esteriore. Ma quest’ultima viene inficiata dal fatto che noi abbiamo bisogno costantemente di un’esperienza interiore del nostro corpo e cioè di quella “rivelazione” di esso che otteniamo quando avvertiamo ad esempio il dolore per una puntura. Cosa per mezzo della quale abbiamo anche una rivelazione dell’esistenza del mondo esteriore.
Tuttavia è qui che interviene infallibilmente la suprema Causalità divina. Perché la catena di eventi non è affatto autonoma e casuale come sembra. E questo sempre a causa della disconnessione tra mondo-corpo ed anima della quale Malebranche è convinto. La verità è infatti secondo lui che è solo Dio a provocare nell’anima i sentimenti (non è invece affatto la percezione come evento esteriore passante per il corpo) in relazione ai mutamenti del corpo. I quali avvengono poi in forza dell’unione del corpo all’anima che sussiste non su base meramente naturale ma invece solo in obbedienza alle superiori Leggi generali dell’Essere.
Il dolore, dunque, non ci perviene per la via del buco che l’agente pungente causa nel corpo, né l’anima produce da sola questo sentimento. È invece Dio a farlo per mezzo del “sentimento con cui egli ci colpisce”, che è poi il modo in cui egli ci rivela cosa accade fuori di noi (ossia fuori della nostra anima), e cioè nel nostro corpo e nei corpi che ci circondano, ovvero gli oggetti esteriori.
E tutto ciò sta in relazione con la sua idea negativa della volontà umana, dato che essa è direttamente condotta da quella espressa dalla suprema Ragione divina. Egli sostiene infatti che il volere umano al massimo riesce a far insorgere idee nella mente, cioè nell’anima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 328-329, p. 44-45]. Essa è invece incapace di muovere qualunque corpo, e quindi perfino di muovere un braccio e perfino un dito. Quanto poi agli eventi esterni, essi non sono altro che l’occasione (“causa occasionale”) perché perfino in questo si manifesti l’azione della Causa universale. È dunque solo Dio a muovere tutto
Intanto Malebranche nega molto direttamente l’unione anima-corpo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 148-148, p. 45-47]. Egli dice infatti che questa idea è solo ingenua dato che la parola “unione” a proposito dei corpi non significa assolutamente nulla (non significa in particolare che vi sia una vera unione tra parti). Quindi si può parlare semmai di azioni reciproche esistenti tra i corpi, ma non di un’unione tra loro come accade alle parti. E lo stesso accade per il corpo e l’anima in quanto sostanza radicalmente diverse.
Ne consegue che in qualche modo Malebranche ammette una qualche unione anima-corpo
Egli postula l’unione anima-corpo (sebbene la neghi in termini strettamente argomentativi) ma nel senso che il corpo agisca sull’anima. Quindi, come abbiamo detto, dissocia la loro esistenza in un dualismo simile a quello cartesiano. Ma la sua dissociazione dell’anima dal corpo non ha un senso negativo (nel senso materialista di negazione del corpo animato o di negazione dell’anima) bensì invece positivo. Perché egli non solo afferma l’esistenza dell’anima (e perfino le attribuisce funzioni di mente) ma inoltre annovera l’anima a Dio, cioè allo spirito. Ed ecco dunque un chiaro concetto di anima spirituale, che nel XX secolo è stato espresso in filosofia ad esempio da Edith Stein, e solo parzialmente in linea con la Fenomenologia husserliana (dato che ella tese a ridurre l’anima allo Spirito inteso specificamente come “Pneuma”) [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9, 8 p. 385-387; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima”, Prospettiva Persona, 95-96 (2016). 92-95]. La Fenomenologia steiniana ci ha offerto un concetto simile ma nel concepire un’unione molto stretta tra anima e corpo ed anche nel postulare l’azione decisa della prima sul secondo. In ogni caso, comunque, Malebranche, ponendo chiaramente il dualismo anima-corpo, e considerando l’anima non estensione (“res cogitans”), la rende lontana dal conoscibile che è solo ciò di cui possediamo l’archetipo, ossia tutto ciò che è esteso (sensibilmente ed intelligibilmente).
Qui di fatto considera impossibile qualunque l’auto-conoscenza. Dunque per lui il Sé non è affatto un oggetto di conoscenza. Infatti, come egli dice, intuisco al massimo “chi sono” (“sum”) ma non “ciò che sono”. Pertanto, essendo unito intimamente a me stesso (al mio interiore), io non posso essere oggetto per me stesso. Inizia dunque forse proprio con Malebranche la tradizione della negazione filosofica dell’auto-conoscenza. E questo è senz’altro un aspetto molto importante della sua epistemologia.
In ogni caso il punto cruciale di tutto è un culto della Ragione di tale entità che è capace di portare addirittura all’estasi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. Infatti è proprio ad un’estasi che perviene Aristo dopo essersi convinto delle argomentazioni di Teodoro e Teotimo. Le quali riguardavano l’azione ubiquitaria e dominante della Causalità divino-razionale suprema – essendo la sola a causare perfino l’unione di anima e corpo, in obbedienza alle sole Leggi della comunicazione del movimento ed in concorrenza con la mera causalità naturale −, e far sì, quindi, che l’anima umana sia unita unicamente alla Ragione universale, così da essere capace di conoscere esclusivamente nel contemplare interiormente una varietà di bellezze intelligibili.
La nostra anima, dice infatti Teotimo, non è unita al corpo “secondo idee volgari” ma è unita “immediatamente e direttamente a Dio solo”. È solo per questo che siamo presenti (cioè siamo tutti esistenti), convinti della stessa verità e “di uno spirito medesimo”. Dio ci congiunge per mezzo del corpo “in conseguenza delle leggi dell’unione dell’anima e del corpo”. Leggi che sono supremamente trascendenti ed universali. Ma, egli aggiunge, siamo ancora più congiunti per mezzo dell’anima.
È in essa infatti che si verifica la conoscenza del mondo attraverso l’intelligibile mondo delle idee.
L’anima è dunque la mente immanente e particolare che è intimamente unita in ogni momento alla Mente universale. Infatti è in essa che Dio trasforma i suoni in parole in modo che poi (per mezzo delle idee) ne cogliamo anche il senso. È che siamo uniti alla Ragione universale che illumina le intelligenze, aggiunge Aristo. Infatti anche lui si è ormai convinto del fatto che non c’è nulla di visibile che possa agire sull’anima “se non la sostanza efficace e intelligibile della ragione”.
In questo si riassumono i tratti fondamentali della teoria della percezione ed anche della teoria della conoscenza; entro un’impostazione radicalmente razionalista sia della conoscenza stessa che della realtà mondana. Tutto risale alla sola Ragione universale e tutto è soltanto da essa causato e giustificato – tanto quanto avviene interiormente, quanto avviene esteriormente, quanto infine avviene entro la relazione tra interiore ed esteriore (ossia nell’atto stesso di percezione e conoscenza del mondo). Non c’è dubbio però che (pur con tutte le sue insufficienze e contraddizioni) questa sia una teoria razionalistico-mistica della conoscenza stessa.

Ma veniamo ora a porre l’accento più decisamente sulla teoria della conoscenza per mezzo dell’affronto del classico tema della relazione esistente tra interiore (o mente o soggetto), e mondo esistente fuori di noi nel quale si presume che esistano oggetti, che quindi dovrebbe essere l’oggetto della conoscenza. E si presume anche che questi oggetti esistano del tutto indipendentemente dalla nostra esistenza oltre al fatto di esercitare sugli organi sensori gli stimoli che permettono prima di percepirli e poi di conoscerli.
Questa è per così dire la teoria più intuitiva della conoscenza (come rapporto tra soggetto ed oggetto) ed essa è decisamente realista, sebbene un po’ in tutta la filosofia è stata considerata come «ingenua» e cioè non filosofica. I segni di questa accusa si avvertono anche in Malebranche, sebbene egli non usi mai il termine «ingenuità». E quindi la sua complessiva visione filosofica può ben venire considerata idealista.
Sebbene Nadler, uno dei suoi interpreti la definisca come realista, aggiungendo che anche tutti i cartesiani lo sarebbero [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. Egli ammette però che probabilmente Malebranche non può realmente venire coinvolto nella disputa idealismo / realismo. E tra poco vedremo che ciò ha le sue ragioni nel sostenere questo. Più avanti però chiariremo definitivamente tale questione.
In ogni caso sembra decisamente idealista una dottrina entro la quale si postula che tutto ciò che sembra avvenire nel mondo avviene invece solo nello Spirito.
Abbiamo già visto come il pensatore affronti il tema della certezza che possiamo avere dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. Ed abbiamo visto che egli la risolve ponendo una sorta di “rivelazione” dei corpi esteriori che si manifestano a noi grazie alla Causalità divina. In ogni caso nel dialogo i diversi interlocutori stessi ammettono che comunque resta il dubbio circa l’esistenza dei corpi esteriori. E Teodoro è costretto, per risolverla, a ricorrere addirittura alla credenza religiosa, affermando che la è Rivelazione a rassicurarci su questa esistenza parlando di un mondo creato. E quindi essa va considerata assolutamente ovvia. Tuttavia ciò avviene al di fuori di qualunque teoria della conoscenza. Perché, allorquando ci spostiamo sul piano di quest’ultima, dobbiamo riaffermare che però i corpi che “non sono visibili per sé stessi” né possono agire sul nostro spirito. Quindi il nostro spirito può conoscerli solo nelle idee “che li rappresentano” oppure per mezzo dei sentimenti dovuti all’unione dell’anima al corpo.
Ci troviamo quindi nuovamente nel contesto di una teoria chiaramente idealistica. Sebbene in essa manchi completamente qualunque effettiva relazione tra soggetto ed oggetto. La conoscenza avviene infatti unicamente in sede interiore, e cioè di fatto servendosi unicamente delle idee delle cose. Si tratta quindi di un idealismo solo relativo. Proprio per questo si può dire che Malebranche concepisce la conoscenza come ascesa teoretica verso l’intelligibile, nella misura in cui essa si distacca dall’illusione della percezione e del mondo fuori di noi. Questa sorta di ascesa teoretica può venire concepita sulla base delle riflessioni che seguono [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. Malebranche parte dalla costatazione che Dio vede in sé stesso l’estensione intelligibile, ossia “l’archetipo della materia di cui il mondo è formato e dove abitano i nostri corpi”. Intanto le nostre anime abitano in questa ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”. Ed (su un livello più basso, ossia mentale-funzionale) accade che la nostra mente è connessa con questa ragione a causa delle leggi dell’unione dell’anima con il corpo. In virtù di tutto ciò l’oggetto matematico lo percepiamo in tre modi: lo concepiamo, lo immaginiamo, lo sentiamo e lo vediamo.
Al livello massimo della conoscenza, però, si delineano oggetti puramente spirituali come l’“estensione intelligibile”, la quale si applica al nostro spirito allo spirito con confini indeterminati ma comunque distanti da un punto determinato e tutti in un medesimo piano. È questo che determina la nostra concezione del circolo come intelligibile. Che poi per Malebranche è il circolo più reale. Quando invece noi lo immaginiamo, questa immutata estensione (distante da un punto) “tocca leggermente” il nostro spirito. Quanto lo sentiamo e lo vediamo esso tocca poi la nostra anima.
Eccoci dunque di fronte alla funzione conoscente dell’anima che per Malebranche è indubbiamente tra le più basse forme di conoscenza. Ed essa non a caso è luogo di percezione. Dunque la percezione è la forma più bassa della conoscenza, che è invece massima nella conoscenza spirituale.
Intanto c’è da constatare che (per mezzo della conoscenza intelligibile) Dio ci può permettere di “rappresentarci tutti gli esseri materiali” semplicemente a causa della relazione tra estensione e spirito; che è del tutto indipendentemente dalla percezione.
Ecco dunque la contemplazione delle bellezze intelligibili. Ed ecco dunque anche il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, che in verità si verifica solo in alto e non in basso. Quindi essa è del tutto disconnessa dalla percezione. Il che conferma che egli non considera affatto la conoscenza come relazione reale tra soggetto ed oggetto.
Ma comunque il pur relativo idealismo di Malebranche non si basa sulla negazione dell’esistere di una realtà visibile, bensì invece si basa sul supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. In questo quindi, come abbiamo già anticipato, egli anticipa l’oggetto di coscienza di Husserl e forse anche la riduzione trascendentale (basata sulla messa tra parentesi dell’ingenuo mondo fuori di noi: vedere oggetti esteriori). Possiamo comprendere questo ancora meglio attraverso le riflessioni di Malebranche [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 393-395, p. 39-40]. Il pensatore dice infatti che può anche darsi che l’essenza della materia non sia affatto l’estensione. Quello che importa è che però (interiormente) “il mondo che immaginiamo formato di estensione, paia somigliante a quello che noi vediamo”, sebbene esso invece esso non sia affatto materiale. Del resto “Non è assolutamente necessario di esaminare se fuori effettivamente vi sono degli esseri che fanno riscontro alle idee, perché noi non ragioniamo su tali esseri ma sulle loro idee”.
E con ciò in un solo colpo il pensatore sgombra il campo dal valore e ruolo attribuibile alla coscienza (come luogo terminale della percezione), dato che la sua anche solo probabile esistenza non ha alcun senso. Pertanto per lui il criterio che davvero conta è il nostro pensare (a proposito delle proprietà delle cose) se le sensazioni (puramente interiori) che noi ne abbiamo si accordino davvero con l’esperienza. Del resto, egli aggiunge, ciò si cui ragioniamo nella fisica sono cose di cui “nessuno dubita”. E quindi in effetti la natura non è affatto nascosta. In altre parole, nonostante il radicale idealismo della sua concezione della conoscenza, la sua occupazione di fisico gli rende possibile ammettere comunque una certa esteriorità (sia pure solo metaforica) dell’esistenza di un mondo fuori di noi fatto di oggetti. E questo nuovamente lo approssima almeno parzialmente a Kant.
Questa è insomma la teoria della percezione e quella della conoscenza secondo Malebranche, che nei PM emerge in una maniera sufficientemente chiara.

Vediamo ora se si possono trovare ulteriori elementi in CC e TNG.
Innanzitutto va detto che le obiezioni di Aristarco presentano una posizione molto simile a quella che poi sarebbe stata dell’empirismo [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 17]. Con diversi argomenti l’interlocutore di Teodoro sostiene infatti che le sensazioni (a loro volta provenienti dal mondo esteriore) causano qualunque effetto e modificazione nell’anima. A ciò Teodoro risponde che invece la Causa superiore è superiore proprio “perché agisce in noi”. Mentre per lui tale superiorità non è affatto alla portata della capacità di azione degli oggetti esteriori né delle forze nude della Natura. Pertanto qualunque modificazione interiore (ossia la percezione stessa che equivale ontologicamente all’anima) si spiega solo interiormente, ossia laddove non vi è alcuna distanza tra la causa e l’effetto. È evidente la svalutazione qui di qualunque genere di causalità ordinaria di tipo meccanicistico (dominata dalla legge dell’urto) come quella posta invece da Cartesio. Essa non gioca alcun ruolo nella percezione. Ed abbiamo visto che infatti Aristarco rappresenta la posizione di Cartesio. Cartesio quindi, anche se pone la dissociazione tra sostanza animica e sostanza corporea, concepisce di fatto al modo ordinario degli empiristi.
Quindi anche in CC Malebranche [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 27-28] critica l’ordinaria fisiologia della percezione (ossia quella dell’empirismo), mostrandoci che essa sembra un’evidenza ovvia solo nella misura in cui è effetto del disordine causato dall’ordine della Caduta: E quindi in realtà essa è straordinaria e non ordinaria, perché non riflette affatto la relazione tra spirito e corpo esistente nella Prima Creazione
Nella quale non vi era alcuna relazione centripeta tra ambiente esterno (corpi) e spirito (soggetto), ossia non vi era alcuna relazione (afferente o efferente) tra soggetto e oggetto. E questo ci spiega perché abbiamo constatato che egli non concepisce affatto la teoria della conoscenza nei termini usuali, ossia appunto come relazione tra soggetto e oggetto.
Egli sostiene infatti che, nell’istituire la Natura, Dio ha creato nell’uomo spirito e corpo. Ed inoltre, per garantire la conservazione della sua creatura, ha stabilito che quando nel corpo vi siano movimenti nell’anima si determinino diversi sentimenti. Movimenti che avvengono in una parte del cervello, che però Malebranche non ammette essere la ghiandola pineale (come fa invece Cartesio). In tal modo egli sta insomma giustificando anche l’istinto di sopravvivenza, ossia la pulsione umano-animale all’auto-conservazione. Questo però comporta comunque un certo influsso esteriore, che però non esisteva assolutamente prima del Peccato originale – condizione nella quale lo spirito era integralmente disconnesso dalla dimensione corporale. Dato che esso rappresentava l’unica forma di Essere esistente.
Con la conseguenza di una conoscenza purissima nella sua pienezza, dato che la corporalità non interferiva. Questa condizione ontica però esiste ancora perfino dopo il Peccato. Ma, a causa di tale interferenza, essa non avviene senza sforzo. E comunque, dopo il Peccato, l’influsso dei corpi esteriori si traduce anche nell’effetto soverchiante dei piaceri sensibili sullo spirito umano. Ecco delinearsi quindi in modo generale il potere causale degli oggetti. Ii quali si spingono fino al cervello lasciando tracce profonde, e così nell’anima si producono movimenti che la indirizzano l’uomo “forzatamente” verso gli oggetti sensibili. Questo significa allora che Malebranche in qualche modo ammette anche (in quanto ovvia e ragionevole) la teoria ordinaria e centripeta della percezione, ma la ritiene assolutamente straordinaria e non invece ordinaria. Essa sussiste infatti unicamente nell’Ordine degenere della Caduta. E per questo motivo essa è solo teorica, dato nel mondo (in forza della misericordiosa Grazia divina) domina nei fatti la suprema Causa divina. Quindi non si verifica. Infatti il perfetto ordine naturale stabilito da questa Causa non potrebbe tollerare la mutabilità della volontà umana, la quale, nel caso del vigere dell’ordinaria percezione, risponderebbe sempre autonomamente alle sollecitazioni esteriori.
Ecco allora che la decisione di Dio a mantenere le leggi naturali persistenti anche dopo il Peccato originale esprime quindi quell’Ordine della Grazia, che, fondendosi perfettamente all’Ordine della Natura, persegue lo scopo di porre il rimedio al disordine del peccato per mezzo del prevalere di circostanze decisamente non ordinarie. E quindi questo giunge fino a revocare la fisiologia psico-corporea.
Altro aspetto di questo tema (trattato in CC) è quello della relazione tra percezioni e idee [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Dialogo III, p. 55-58]. Infatti per Malebranche non sono affatto le percezioni a fondare le idee, ma sono invece le idee (eterne e divine) a fondare le percezioni. Perché essa stabiliscono cos’è esattamente la cosa percepita. Ne risulta che occorre un’oggettualità ideale stabile perché la cosa possa venire percepita così com’è. In particolare, egli dice, non è affatto vero che ciò che possiamo percepire di una cosa “è compreso nel concetto, cioè nella percezione che la rappresenta”. Perché così sia le percezioni umane dovrebbero infatti essere le stesse di quelle divine. Per questo motivo noi conosciamo le cose solo attraverso le idee eterne che ci colpiscono; e intanto esse sono comuni allo spirito e a Dio. Pertanto è senz’altro vero che l’anima è capace di percepire, ma solo quando la ”sostanza efficace della divinità” (sostanza divina) la colpisce direttamente. Questa insomma sembra essere l’unica dottrina dell’anima conoscente che Malebranche possa sostenere. Del resto egli afferma esplicitamente altrove che l’anima è “una sostanza che pensa, che sente, che vuole, che ragiona” [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogio VI, 117].
Ma sembra pensarla diversamente, invece, laddove sostiene che, in via di principio l’anima (pur essendo incontestabilmente luogo di percezione) non ha affatto conoscenza di ciò che accade nel mentre si sta verificando un evento che causa sensazioni. Infatti il nostro corpo prova dolore o piacere prima ancora che l’anima se ne sia accorta [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 14]. E questo fenomeno diviene assolutamente eclatante presso bambini piccoli e idioti, ossia in caso di oggettive limitazioni cognitive. Questo significa quindi che (sebbene con molte incertezze ed in una maniera molto debole) Malebranche attribuisce comunque all’anima il ruolo di sostanza conoscente. Ma del resto ciò risulta comunque molto problematico, dato che egli concepisce l’anima come equivalente di fatto ai sensi.
Del resto, secondo lui, nel postulareo l’ordinaria fisiologia della percezione (basata sulle idee di cose come modificazioni dello spirito causate dagli oggetti percepiti), si afferma che il processo è del tutto casuale (e quindi banalmente tautologico: noi percepiamo il percepibile e basta), non essendovi in verità alcun modello (essenza-idea) per la cosa che percepiamo. Quindi noi sappiamo che percepiamo qualcosa ma non sappiamo cosa. Pertanto non si è certi affatto del fatto che ciò che percepiamo sia distinto dalla percezione che ne otteniamo. Si parla insomma di una percezione fisiologica in quanto immediata, ossia non condizionata dalle idee. Si tratta insomma di una teoria solo apparentemente ovvia ma in realtà basata sulla rinuncia a qualunque tentativo di vera fondazione, e quindi spiegazione.
E qui bisogna dire che, almeno in questo campo, Malebranche si è prodotto in una riflessione filosofica davvero fondata.
Lo possiamo comprendere ancora meglio se seguiamo l’argomentazione del pensatore.
Infatti Teodoro (in risposta alle obiezioni tendenzialmente empiriste di Aristarco) afferma che – qualora seguiamo l’ordinaria teoria della percezione – dobbiamo dire che l’oggettualità esteriore costituita dalla sfera non è né un’idea di cosa presente nello Spirito divino né una sfera ideale completamente distinta dalle modalità dello spirito (cioè dalla percezione). Essa è invece una modalità dello spirito in quanto noi ne abbiamo la rappresentazione. E così l’unica cosa che di essa si può dire è quello che è racchiuso nella sua rappresentazione presente nella nostra anima. Ma anche se questo può sembrare ovvio e ragionevole, esso invece non è altro che una banale tautologia, secondo la quale noi possiamo percepire quello che possiamo percepire. E quindi da ciò non si evince nemmeno che ciò che percepiamo (il «cosa» o «cio che è» «è» ) sia esattamente come lo percepiamo. Perché in tal modo le idee non sarebbero distinte dalle percezioni.
Ecco che allora, secondo Malebrance, invece della rozza fisiologia della percezione (puramente tautologica e senza spiegazione) vige semmai la dottrina del modello ideale delle cose, in forza della quale le cose percepite sono un «cos’è» ben definito che viene percepito esattamente così com’è (anche se il suo aspetto non è così perfetto come quello delle idee). Per questo motivo non può sussistere alcun dubbio circa il fatto che: − 1) quando percepiamo noi percepiamo sempre «qualcosa»; 2) quando percepiamo noi percepiamo esattamente la cosa esistente così com’è (in quanto frutto della creazione secondo idee). Pertanto, anche se in tal modo non è postulabile alcun realismo − affermante l’assolutezza esistente della cosa esteriore ed il suo effetto sulla percezione (quale unica forma di inizio della conoscenza) −, invece è sostenibile un sano idealismo della conoscenza. Ma intanto (nonostante tutte queste precisazioni limitanti), la percezione è un fenomeno di certo non soggetto ad alcun dubbio
E nell’ambito di tale discorso Malebranche afferma che proprio questo è in verità il fondamento stesso della certezza della scienza. Secondo il quale è vero “non solo tutto ciò che lo spirito percepisce immediatamente e direttamente esiste davvero” ma è vero anche “che è sempre come lo si percepisce”.
In effetti, egli precisa, le idee di cose presenti in Dio sono impartecipabili; quindi ciò che si percepisce per mezzo di esse è oggettivamente imperfetto. La conseguenza è che mai “gli oggetti sensibili non si percepiscono in sé stessi”. Ed ecco affacciarsi di nuovo una prefigurazione della teoria kantiana della conoscenza, secondo la quale l’«in sè» resta inevitabilmente inconoscibile. Ma intanto gli oggetti sono esattamente come vengono percepiti, anche se in circostanze immanenti, e quindi di tendenziale imperfezione. Si percepisce infatti perfettamente che, ad esempio, i corpi sono divisibili e in movimento.
E questo perché il concetto di estensione che abbiamo è lo stesso del quale Dio si è servito per crearli. Quindi “le creature sono conformi all’idea del Creatore, al modello eterno sul quale le ha plasmate”, e proprio per questo sono conoscibili come idee-essenze.
Malebranche però non intende schivare il problema rappresentato da quegli oggetti ideali che rischiano fortemente di essere totalmente inesistenti nell’esperienza. Il problema inizia nel dialogo con l’affermazione provocatoria di Aristarco, secondo la quale è preferibile comunque credere alla “visione immediata e diretta degli oggetti in sé stesso”. Ma Teodoro oppone a questo errore proprio l’evidenza di quegli oggetti che noi vediamo in sogno durante un delirio febbrile in virtù di una vibrazione del tutto simile all’oggetto esteriore, e che insorge solo nello spirito senza alcun corrispettivo esteriore (quindi per davvero senza alcuna stimolazione sensoriale). Quindi realmente è possibile vedere anche ciò che non esiste. Ma questo riconferma per lui che noi non vediamo mai “direttamente i corpi come sono in sé stessi”, bensì ne vediamo solo le idee che li rappresentano. Del resto (nel nostro spirito) noi non siamo in grado di concepire uno spazio infinito, ossia spazi ulteriori che superino i limiti celesti. Quindi la nostra stessa idea di estensione non è infinita.
Insomma questo significa che la teoria percettiva di Malebranche si sposa fortemente con il suo idealismo della conoscenza. Ed esso richiama Kant in quanto, in luogo delle condizioni a priori per la conoscenza esperienziale, egli pone la Ragione universale quale fonte delle idee di cose per mezzo delle quali soltanto noi possiamo cogliere le cose del mondo esteriore.
In ogni caso si arriva ad un superamento definitivo dell’ordinaria teoria empirista della percezione mediante ulteriori considerazioni del pensatore. Teodoro constata infatti che lo spirito umano è limitato mentre invece le idee che esso ospita possono essere illimitate come lo è effettivamente quella di estensione. È evidente quindi che, allorquando noi concepiamo questa idea, si verifica una modificazione del nostro spirito. Ma essa non può insorgere assolutamente né in virtù delle capacità intrinseca dello spirito umano né in virtù di una comunicazione di esso con i corpi esteriori. Infatti entrambi sono fatalmente limitati. Ecco che noi nello spirito concepiamo per definizione una cosa limitata, e quindi la «cosa pensata» effettivamente è infinitamente molto più piccola dell’oggettività infinita che esso può comunque ospitare, e che è comunque reale anche se puramente intelligibile. Ne consegue che lo spirito umano (non essendo affatto in grado di “comprendere tutta la realtà intelligibile dell’idea”) non può affatto percepire l’intero mondo esteriore, essendo esso ben più complesso ed ampio del nostro mondo interiore ed inoltre dotato di una vera onticità – dato che esso include oggetti finiti ed infiniti, ma comunque entrambi coglibili solo in quanto intelligibili. Infatti, precisa Teodoro, le idee sono infinite mentre le percezioni “sono modificazioni transitorie e limitate”. Per questo esse non possono venire quindi essere non causate “dall’azione dei corpi che ci circondano”, bensì invece solo dalla stessa “realtà intelligibile” (il mondo delle idee) ed anche “efficace” della “Ragione sovrana che ci penetra”.
Ecco che con queste riflessioni viene definitivamente superato ed invalidato il mero fisiologismo naturale della percezione, in quanto non solo transitorio ma anche limitato. Esso infatti non rispecchia affatto la vera onticità ideale delle cose che è in realtà immensa. Ma nello stesso tempo viene in tal modo assunta una posizione anti-idealista. Che consiste in questo − il mondo interiore è insufficiente (spazialmente e quanto a capacità di coglimento) per rappresentare l’intero mondo esteriore.
A questo punto possiamo giungere a delle conclusioni anche rispetto all’appartenenza del pensiero di Malebranche all’idealismo o al realismo. Ed in tal modo possiamo anche comprendere perché alcuni interpreti ritengano il suo pensiero realista. Ma lo possiamo fare solo in modo condizionato, come vedremo tra poco.
Il pensatore non nega affatto l’esistere di un mondo di oggettualità esteriori, anzi lo afferma al massimo grado nel concepirlo come il luogo di oggettualità che solo apparentemente sembrano meramente corporali ma in verità sono unicamente intelligibili. Esso include infatti tanto oggettualità finite quanto oggettualità infinite. È insomma una realtà caratterizzata dall’immensità. E proprio questo è il mondo con il quale si confronta la Fisica, essendo costretta a ragionare sui puri oggetti matematici che fondano le realtà corporee e le loro relazioni. È quindi un errore fare equivalere l’oggettualità di questo mondo alla mera e volgare esteriorità di esso rispetto all’interiorità conoscente entro la quale non ci percepisce altro che realtà intelligibili – ossia un’esteriorità esistente in quanto del tutto indipendente dall’esteriorità. Pertanto il vero contenuto di questo immenso mondo esteriore (che poi è quello creato da Dio e nel quale noi confusamente sentiamo di esistere) è rappresentato dalle idee delle cose e non invece dalle cose corporee.
Ecco allora che noi prendiamo atto proprio di questo allorquando siamo consapevoli di conoscere il mondo esteriore solo per mezzo della contemplazione delle realtà intelligibili.
E dunque è vero che Malebranche può venire in qualche modo considerato idealista perché afferma il primato della conoscenza interiore. Ma. dall’altro lato, non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che può esistere un mondo esteriore «senza coscienza». Inoltre è vero altrettanto che Malebranche può venire in qualche modo considerato realista perché ammette l’esistere di un immenso mondo «esteriore» che trascende infinitamente la finitezza dell’interiorità spirituale umana. Ma intanto non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che possa esistere una coscienza «senza mondo».
Ne consegue quindi che molto probabilmente egli non può venire considerato né idealista né realista.
Ma comunque tale questione ci riporta ad una suggestione che ci ha colpito più volte nel corso della lettura dei testi, e cioè quella che lascia pensare ad una certa relazione del pensiero di Malebranche con quello fenomenologico di Husserl e Stein. E non ci sembra che in letteratura vi siano indicazioni per questo.
In ogni caso il pensatore francese pone come primaria un’oggettualità mentale di tipo ideale che, entro la conoscenza, occupa totalmente il luogo dell’oggettualità esteriore. Non solo ma sembra volerci fare anche capire che è solo ingenua una conoscenza che prenda in considerazione dogmaticamente il solo oggetto esteriore nel suo impositivo esistere. E questo lascia fortemente pensare all’«oggetto di coscienza» che Husserl ritenne quello indubitabilmente vero in virtù dell’”intuizione essenziale” [Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão (trad), Edmund Husserl, Investigaçõs Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, § 17, 67-68 p. 87-89]. Del resto egli stesso parla della conoscenza delle idee di cose come essenze, laddove invece per lui quella che sembra la conoscenza più autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza integralmente realistica di un mondo esteriore è dunque solo credenza cioè ingenuità.
Per quanto ne sappiamo non sembra che questa dottrina abbia influenzato in qualche modo la Fenomenologia husserliana, ma è comunque che per qualche via indiretta (magari per mezzo di Berkeley e dell’Idealismo tedesco) sia pervenuta ad essa. Oppure è anche possibile che essa si sia sviluppata nel XX secolo sulla base di premesse filosofiche insorte molto prima.
Esaminando infine TNG, sembra che l’unico luogo in cui Malebranche parla della conoscenza è quello in cui ritiene quest’ultima davvero “chiara” (invece di essere un confuso sentimento) solo quando accompagna il movimento della volontà il vero Bene, e cioè Dio [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, V p. 153].
Ma questa affermazione ci dimostra anche che le abbondanti considerazioni neutralmente gnoseologiche del pensatore ebbero sempre come sfondo uno scenario etico-religioso, sebbene anch’esso fortemente condizionato dalla gnoseologia. Il che significa che questo autore non andrebbe studiato solo per la sua teoria della conoscenza.
Nello stesso tempo, però, bisogna ammettere che quest’ultima trova in Malebranche una trattazione non solo molto ricca ma anche estremamente originale ed infine non poco convincente. E questo viene peraltro provato dalle ipotetiche connessioni tra essa ed una teoria della conoscenza che si sarebbe sviluppata solo allorquando la filosofia cessò di interessarsi completamente di metafisica ed anche di religione, cioè la Fenomenologia. In altre parole la teoria della conoscenza di Malebranche merita di venire studiata anche separatamente rispetto agli contenuti del suo pensiero. Ed inoltre bisogna anche dire che essa è forse l’unica parte della sua visione che non presenta le oscurità, astrusità ed assurdità che invece abbondano nelle altre sue parti.

Il concetto di mondo e di Natura ed il tendenziale il panteismo (sezione 5).
Abbiamo già preso atto abbondantemente di come Malebranche vedesse il mondo e la Natura. Ed alla fine della quarta sezione abbiamo constatato che questa visione ha anche dei risvolti vagamente realisti.
Nonostante questi ultimi però egli sembra considerare il mondo reale come largamente illusorio rispetto al mondo reale. E ciò ad onta di quella sua occupazione di fisico che (come ritiene Rome) lo pose in stretta relazione non solo con Cartesio ma anche con lo sperimentalismo di Bacone [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Insomma, nonostante il suo molto estremistico idealismo metafisico-religioso (di stampo senz’altro platonico), Malebranche fu senz’altro anche un filosofo e scienziato della Natura. E quindi non poteva non vedere il mondo anche al modo imposto da questo ruolo. Del resto l’accento da lui posto sulle più semplici, trascendenti e divine Leggi del mondo (quelle Leggi della comunicazione del movimento, che rivelavano per lui unicamente l’azione della suprema Causa divina) non gli impedì di prendere atto dell’esistere ed agire delle immanenti leggi della Natura; ed anche della loro inesorabilità. E queste ultime sussistono solo in un mondo considerato indubitabilmente esteriore.
In ogni caso la sua postulazione di una suprema Causa divino-universale, presiedente ad ogni inferiore causalità (la quale, come lui dice, agisce fin dentro la realtà degli atomi), non poteva non configurare, almeno in una certa misura, una visione panteista del mondo. Di questo abbiamo del resto già parlato ed abbiamo anche visto che (introducendo nel panteismo un forte condizionamento etico- e metafisico-religioso) egli intende il mondo molto più in modo panenteistico, ossia lo considera come esistente totalmente entro la realtà di Dio.

Ma vediamo ora quali elementi vi sono per questo nelle opere che abbiamo esaminato.
Gli elementi panteistici presenti in PM li abbiamo già esaminati. Ma comunque in quest’opera vi sono ulteriori elementi riguardanti la sua considerazione del mondo e della Natura.
Innanzitutto il mondo sensibile gli sembra addirittura disgustoso rispetto a quello intelligibile, a causa delle “bellezze” che solo in quest’ultimo possono venire contemplate [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21]. Quindi la sua occupazione di Fisico non gli impedisce di guardare molto pessimisticamente (come del resto avviene anche per l’uomo) a quel mondo sensibile che del resto, conoscitivamente, aspetta di venir riscattato per mezzo delle verità fisico-matematiche. Infatti egli ritiene che la parte migliore dell’Essere (ed anche dell’uomo), se ne sta nel mondo intelligibile e non in quello sensibile. Inoltre egli guarda negativamente al mondo anche perché, sul piano della conoscenza, esso è del tutto illusorio per il fatto che “noi non percepiamo per sé stessi gli oggetti fuori di noi” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 373, p. 25]. A ciò si aggiunge il fatto che egli è convinto che gli oggetti da noi percepiti nell’anima non si trovano di certo “nell’aria” come noi invece tendiamo ingenuamente a credere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 57-58, p. 25-26].
Ed a tale proposito egli precisa che quelle proprietà oggettive dei corpi (da lui chiamate “modalità”) non sono altro che “relazioni di distanza”. Un’idea questa che sarebbe poi stata ripresa da Bergson molto tempo dopo [Henri Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 2022]. Insomma egli sostiene che nessuna cosa è davvero nel mondo (nemmeno il dolore nel corpo) ma tutto è invece solo nell’anima; il che riguarda poi soprattutto le qualità dell’oggetto [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31]. E altrove aggiunge la percezione è sempre solo “mia” e non invece dell’oggetto al quale sembra appartenere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. – producendosi così di nuovo in un’affermazione che richiama molto da vicino la Fenomenologia husserliana.
In definitiva quindi la conoscenza del mondo è solo interiore, nel mentre però noi abbiamo l’illusione che le cose siano fuori di noi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 116-117, p. 31-33].
Insomma, nonostante il realismo al quale abbiamo accennato alla fine della quarta sezione, è evidente che Malebranche non presta alcun vero credito all’esistere di quel «mondo fuori di noi» (esteriorità totalmente indipendente dall’interiorità) che invece per i veri realisti è un dogma indiscutibile. Tale era esso infatti per la Scolastica nonostante il suo approccio metafisico agli enti. Ed infatti Malebranche contestò veementemente questa visione nel configurare un’onto-metafisica completamente diversa.
L’idealismo però è comunque tangibile presso il pensatore, sebbene per mezzo di una presa di posizione molto originale, e cioè quella secondo la quale non si tratta affatto di negare l’esistere di una realtà visibile, ma invece si tratta di supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. Possiamo comprenderlo bene laddove egli parla del sole come oggetto intelligibile (ossia quello davvero reale e quindi oggettivo), che noi non percepiamo mai se non nelle sue illusorie apparizioni dovute al moto di dell’astro (più o mano grande, più o meno altro, più o meno chiaro) [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 118-120, p. 38-39].
Ma passiamo ora a CC.
Attraverso le riflessioni condotte da Malebranche in quest’opera comprendiamo che il suo panteismo è in effetti soprattutto quello del mondo intelligibile interno a quello sensibile. E questo per il fatto che la Causa di ogni cosa, Dio, ossia la Ragione universale e Sapienza assoluta, si presenta come un intelligibile realmente oggettuale (idee di cose) che è dappertutto e vede ogni cosa a distanze incommensurabili [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I, p. 17-18]. Abbiamo già esaminato questo concetto discutendo l’ubiquità di Dio in quanto immensità. Ma questo panteismo è legato soprattutto all’omnipresenza della Causa suprema in ogni minimo evento e fenomeno. Il che è poi legato alla Sapienza omnisciente.
Infatti essa conosce il momento esatto in cui la spina (o il fuoco) colpisce il nostro corpo per causare “contemporaneamente” la sensazione nella nostra anima. E, sottolinea Malebranche, questo essa non lo sa certo da noi visto che noi non ne abbiamo ancora nemmeno consapevolezza. Né lo sa dalla spina che non è intelligibile (visto non esistono rapporti tra corpi e spiriti). Né infine lo sa dalla materia che è appena sostanza inerte. Potrebbe saperlo da un’altra intelligenza ma così avremmo un regresssum ad infinitum.
Ed allora bisogna presupporre un’Intelligenza suprema che sa di questo “in sé stessa e per sé”. E questa intelligenza “Non può essere che Dio, cioè un Essere la cui potenza è infinita e la cui volontà è la sola causa di tutte le cose”. Infatti solo in Dio le “volontà sono efficaci”, prescindendo così dalla vista cortissima delle cause e volontà naturali. Dunque tutto ciò accade perché Dio ha una visione perfetta di ogni cosa: − “vede in sé e per sé stesso l’essenza e il movimento dei corpi”. Si tratta quindi insieme di immanenza intelligibile e infallibile preveggenza.
Per cui (come dice Erasto) la causa del dolore non è affatto l’anima che lo sente né la spina, ma invece solo nella Potenza superiore che “prevede” (infallibilmente e nell’eternità) il momento esatto in cui la spina mi ferirà. Il che accade perchè i corpi non possono né istruire gli spiriti né avere su di essi qualunque efficacia. Pertanto la Potenza superiore può conoscere quest’attimo “soltanto da sé stessa”. Dunque ne risulta una prova davvero singolare dell’esistenza di Dio: − “se Dio non ci fosse” io non verrei punto dalla spina, non sentirei niente, né vedrei né conoscerei nulla. Pertanto Dio è pienamente presente nel mondo e nella Natura (immanenza panteistica) in quanto è Causa diretta degli eventi (senza la sua preveggenza nulla accade), del sentire, del vedere e del conoscere. Dio è panteisticamente immanente in quanto Vita che tutto muove, e che a sua volta dipende strettamente dalla Sapienza preveggente. Che poi è quella Ragione universale in virtù della quale tutto esiste ed accade. Si tratta insomma delle funzioni che in un panteismo molto più semplicistico (in quanto nemmeno minimamente razionalistico) venivano attribuite all’anima.
E proprio per questo nella metafisica pagana ed anche nella moderna Sofiologia di parlava di “Anima Mundi” [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, Vb p. 74-75; Samuel D. Cioran, Vladimir Solov’ëv and the Knighthood of the Divine Sophia, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1977]. La quale era poi un’entità semi-divina molto prossima alla Sapienza divina in forma di Sophia [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Non sappiamo se Malebranche abbia mai avuto conoscenza ci queste dottrine, ma di certo nel suo razionalismo metafisica se ne intravvedono molte tracce. In ogni caso lo stesso pensiero cristiano ha finito per assumere queste idee nel presupporre un infallibile Piano divino che non a caso è stato sempre considerato razionale. Così esso si presenta infatti nell’”intelligent design” tomista del quale abbiamo già parlato.
Abbiamo però anche visto che il razionalismo metafisico non è affatto sempre così impeccabile, dato che esso tende a cadere in non poche aporie ed anche vere e proprie assurdità.
Esso sfiora addirittura il ridicolo di fronte a misteri come quello della concezione del Figlio come Redentore del Peccato Originale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 36-37]. Malebranche infatti postula una relazione uomo-dio che sarebbe possibile non per mezzo del Figlio (cosa del resto teologicamente del tutto plausibile) ma per mezzo del fatto che Dio avrebbe creato il mondo non per l’uomo ma solo affinchè emergesse la presenza del Figlio. Cosa che, come abbiamo già visto, lo induce a pensare che Dio ha forse addirittura voluto (oltre che previsto) il Peccato umano solo perché il Figlio realizzasse l’opera di Redenzione. Ed inoltre secondo lui noi siamo divenuti figli di Dio solo per mezzo di quest’ultimo evento, mentre non lo siamo mai stati per un’originaria amorosa volontà divina.
E questo costituisce secondo noi solo pura retorica teologica, cioè la ricerca di spiegazione razionale per un fenomeno che invece è solo un insondabile mistero. Infatti il Peccato come giustificazione dell’esistenza Figlio-Redentore è un’idea che teologicamente sfiora davvero il ridicolo dato che rende l’amore di Cristo un fenomeno unicamente necessario e razionale
Ma una volta messe da parte queste insufficienze, è chiaro che Malebranche (come Leibniz) concepisce la razionalità dell’ordine divino soprattutto nella Natura, cioè in un cosmo perfettamente ordinato da leggi naturali (da Lui volute e non dal mondo) e nonostante il Peccato. Ecco di nuovo la teodicea. Infatti per lui le leggi attuali della Natura sono esattamente le stesse (e perfette) come quelle da Lui stabilite prima del Peccato. E questo è certamente un’idea molto attraente.
Ma anche in CC si presentano riflessioni sul mondo.
Proprio quello che abbiamo appena detto fa emerge di nuovo il profondo pessimismo di Malebranche verso un mondo in cui, a causa del disordine introdotto dal Peccato, noi uomini siamo schiavi della carne, e quindi lontani da quello spirito che pure è la nostra sostanza per volontà divina [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit.,Dialogo I p. 20]. E del resto proprio questa fatale difettività – al di là dell’ideologia filosofica razionalista – giustifica l’azione continua della Causa suprema divina nel mondo e nella Natura. In altre parole essa sembra solo gelida e indifferente ma per questo motivo è anche amorevole.
Altre considerazioni sul mondo convergono poi con quelle rilevate in PM mettendo in luce il fatto che quando io guardo il mondo sensibile in effetti non vedo altro che il mondo intelligibile [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 46-47, p. 52-53]. Inoltre, a causa dell’incorruttibilità della divina sostanza, le idee che Dio ospita nella sua mente sono altrettanto incorruttibili. Tale quella di estensione che riguarda così da vicino il mondo sensibile. E tuttavia l’estensione voluta da Dio nel creare il mondo è corruttibile in quanto soggetta a mutamento, corruzione e generazione. Per cui il mondo è quello che è, e Lui lo sa benissimo.
E così noi uomini possiamo rassegnarci a questo in quel “sentimento” (corrispondente alla percezione) che ci comunica la pura essenza dell’oggetto presente solo nella mente divina. Laddove questo sentimento è appena credenza, mentre solo la visione dell’essenza è conoscenza. Ma intanto, grazie alla partecipazione della Ragione divina (che trova poi sua espressione) possiamo vedere il vero oggetto nascosto dietro questo sentimento. E questo è davvero incorruttibile. Ed allora, grazie a questa partecipazione (concessaci per Grazia da Dio), noi possiamo vedere un mondo del tutto diverso da quello corruttibile che i nostri sensi ci impongono, ossia un mondo che nella sua vera realtà è intelligibile. Un mondo che è costituito da “tutte le idee e tutte le verità immutabili”.
Ed ecco che di nuovo ci possiamo riconnettere da ciò alla Fenomenologia husserliana, secondo la quale la vera conoscenza è solo quella delle essenze, mentre l’apparente conoscenza autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza realistica di un mondo esteriore è insomma appena credenza. cioè ingenuità.
Le altre riflessioni sul mondo presenti in CC le abbiamo già discusse nelle sezioni precedenti.
In TNG ci sono comunque ben poche considerazioni sul mondo.
In primo luogo è evidente che Malebranche è ben lungi da pensare che il mondo sia in mano a Satana, quale Signore delle leggi della Natura. Egli la pensa invece in modo del tutto contrario, nonostante il suo giudizio sostanzialmente negativo sul mondo stesso.
Secondo il nostro pensatore il mondo è stato tratto dal nulla da un Dio perfetto; atto per il quale l’uomo deve rendergli incondizionatamente onore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, III p. 73]. E questo viene da lui giustificato mediante il solito argomento secondo il quale, una volta tolto Gesù Cristo, questo Dio potrebbe produrre solo null’altro al di fuori di sé.
In ogni caso per lui il mondo è (ontologicamente) in primo luogo la continua manifestazione della potenza divina [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XII p. 77-78]. Infatti secondo Malebranche l’idea dell’Essere perfetto implica due attributi per la creazione: − Sapienza senza limiti e Potenza irresistibile. La Sapienza gli rivela infinite idee di opere e tutte le vie per realizzare i suoi progetti. La Potenza lo rende padrone e signore di tutte le cose, ed inoltre radicalmente autonomo, a tal punto che la sua volontà viene eseguita non appena egli vuole qualcosa. E per questo Egli non ha bisogno nemmeno di strumenti, dato che la sua volontà è efficace di per sé. Insomma la Sua Potenza non differisce minimamente dalla Sua Volontà.
Ebbene la via da Lui preferita a tutte le altre (entro tale contesto di attributi) è stata la creazione di in mondo visibile, “dal quale e nel quale egli forma quel mondo invisibile che è l’oggetto del suo amore”.
Amore che però resta rivolto solo a sé stesso.

Chi fu Malebranche come filosofo, metafisico, religioso e scienziato? (sezione 6).
Data l’originalità della sua filosofia è indispensabile comprendere la persona, la psicologia e la vita di Malebranche; specie quella filosofica. Ebbene chi fu Malebranche?
Ebbene veniamo a sapere che egli nacque a Parigi nel 1638, e fu un giovane introverso, malaticcio, pigro e meditativo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., Prefazione p. 5-14]. Ma fu anche intellettualmente molto inquieto, e proprio questo lo condusse a Cartesio, che costituì poi la radice di tutta la sua filosofia (nonostante le differenze tra di loro che comunque poi si delinearono). Pare inoltre che nel corso della sua vita di filosofo gli sia tata tributata una grande e vasta gloria. Tanto che pare egli abbia contribuito a far diventare la filosofia una disciplina di interesse per l’uomo comune. Il che suona abbastanza strano.
Veniamo anche a sapere che incrociò molto direttamente Berkeley, ma che poi entrarono in conflitto.
E questo appare del tutto ovvio data la somiglianza dei rispettivi idealismi. Secondo il prefattore (Mario Novaro) pare infine che la sua svalutazione delle cause occasionali equivalga fortemente alla critica di Hume alla causalità. Cosa però ben strana, dato che egli pose poi una Causa ancora più alta e possente di quella naturale. Del resto abbiamo visto che la sua teoria della percezione è ben anti-empirista. Il suo panteismo lo rende ovviamente affine a Spinoza, che però pose una sostanza divina mondana assolutamente statica.
La sua lotta contro l’antica metafisica (“la filosofia vana”) lo rende inoltre ovviamente simile a Hobbes, Bruno e Galileo.
Veniamo anche a sapere [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Introduzione, p. V-XXXVI] che egli con CC intese davvero fare apologia del Cristianesimo, sebbene opponendosi ai principi cartesiani (che pare nel dialogo venga rappresentato da Aristarco). E chissà se non sia dovuto proprio a questo il fatto che egli fece uscire anonima la prima stampa del libro. Dietro il libro ci sarebbero comunque gli argomenti sviluppati antecedentemente nella Recherche. Oppositore delle tesi di Malebranche sarebbe stato comunque non solo Arnaud, ma anche Bayle e Bossuet.
Alfonso Ingegno, nella sua Introduzione a TNG, non fa altro che riconfermate che anche dietro questa riflessione vi fu il materiale della Recherche [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Introduzione, p. 5-65].
Poi, come tutti i già discussi prefattori dei libri di Malebranche, egli si dedica ad un’analisi dei temi in esso trattati che ne conferma l’appropriatezza senza esprimersi in alcun giudizio sulla qualità delle tesi.
E questo è tipico tra i critici di filosofia. Si da infatti per scontato che qualunque pensatore abbia il pieno diritto di dire quello che vuole ed anche come lo vuola. E non si va mai oltre questo. La nostra idea di Filosofia è però diversa, e per questo abbiamo incentrato questa recensione in gran parte su una critica alla qualità delle tesi di Malebranche che spesso i è tradotta in un negativo giudizio di valore.
Questo è quello che si può venire a sapere circa la persona di Malebranche, sia nei suoi aspetti filosofici che umani.
A nostro avviso comunque c’è da dire qualcosa di più su di lui. La sua visione filosofica infatti (prescindendo dal grande valore oggettivo della sua epistemologia) tradisce infatti la psicologia di un uomo che non a caso ha voluto raffigurare la perfezione del mondo unicamente per la via di una Ragione divina tanto perfetta quanto del tutto indifferente al male. Male che, entro questa ottica, è sicuramente circostanziale e individuale, e quindi in questo senso forse perfino irrilevante rispetto alla perfezione del Piano di fondo.
Ma sta di fatto che esattamente questo è il male con il quale ha a che fare ognuno di noi nel corso della sua esistenza. Anche se si considera che esso è in fondo inevitabile in un mondo inevitabilmente imperfetto. Ma Malebranche ci lascia completamente soli proprio con questa così fondamentale esperienza del male.
E questo è del tutto incomprensibile per un uomo che, oltre che un filosofo, fu anche un chierico. Ma del resto sarebbe incomprensibile anche per un puro filosofo.
E quindi noi diremmo che Malebranche fu in definitiva un uomo molto oscuro (se non sinistro) nella globalità dei ruoli che esercitò e delle idee che sviluppò nel loro contesto. Ossia fu probabilmente un uomo talmente condizionato dall’ossessione della perfezione razionale da arrivare a dimenticarsi completamente dell’uomo e dei suoi bisogni. Ora, lasciando stare anche la dimensione filosofica di tale atteggiamento, diremmo che sul piano psicologico ed emozionale ciò denota una deplorevole chiusura in sé stesso, che senz’altro arriva a configurare anche un solipsismo gelido e indifferente, e che inoltra denota la chiusura dell’uomo in pensieri tanto profondi quanto oscuri e negativi. E questo è del resto un atteggiamento perfettamente prevedibile in chi fa dell’impeccabile razionalismo la sua religione.
Su questa base possiamo allora dire che, come uomo e filosofo, Malebranche abbia apportato alla consapevolezza umana qualcosa di davvero apprezzabile? Ebbene, la nostra risposta a tale domanda è senz’altro negativa.
Quindi, se proprio dobbiamo dire chi fu Malebranche come uomo, ci vediamo costretti a dire che forse fu uno che avrebbe fatto meglio a tenersi per sé le proprie idee.

Conclusioni.
I commentatori appena discussi non trovano alcuna pecca nel complessivo pensiero di Malebranche e quindi non hanno assolutamente nulla da dire sul suo valore. Già nell’introduzione ci eravamo però trovati di fronte ad una situazione diversa. Perché in essa abbiamo constato l’esistere di studioso che non gli hanno risparmiato critiche.
In ogni caso il pensiero di Malebranche è multiforme, complesso e profondo. E quindi sicuramente ha un grande valore oggettivo. Abbiamo visto peraltro che la sua epistemologia è estremamente ben pensata, ed offe così in anticipo notevoli argomenti per confutare le tesi che gli empiristi di lì a poco avrebbero sviluppato assimilando la teoria della percezione e della conoscenza a quella ordinaria della psicologia empirica.
Eppure abbiamo constatato che la visione di questo pensatore presenta molti elementi controversi. E quindi ora cercheremo di riassumerli.
Almeno dal nostro punto di vista essi consistono nel fatto che egli intende presentarsi come un metafisico cristiano, ma in un contesto di pensiero rigorosamente razionalista. E questo ha davvero pesanti conseguenze, specie di fede. Il Dio di Malebranche è infatti null’altro che la stessa Ragione universale. Niente altro. Ossia è l’istanza massima per l’affermazione di qualunque verità ed inoltre per la conoscenza del mondo. La dottrina idealistica del pensatore fa infatti in modo che noi concepiamo la conoscenza del mondo unicamente come impiego delle stesse idee di cose che sono presenti nel seno di Dio-Ragione.
Oltre a ciò Egli è Causa e Volontà suprema che esautora tutte le cause e volontà inferiori, e quindi giustifica dall’alto in maniera perfetta (in virtù della sua insuperabile razionalità) l’esistere, sentire, pensare ed agire di qualunque ente. E tutto questo genera un contesto di realtà davvero difficile da fare proprio e da applicare all’esistenza.
Abbiamo constatato però che Malebranche intanto ha un’idea decisamente pessimistica sia del mondo che per l’uomo. Per cui le buone intenzioni di questo progetto di perfezione del mondo (e dell’uomo in esso esistente) vanno riportate unicamente all’amore che Dio prova unicamente per sé.
Da qui una delle idee più assurde che in pensatore abbia sviluppato, e cioè quella secondo la quale la Sua creazione del mondo sarebbe stata giustificata solo dal desiderio si fare emergere la figura di Cristo, e non invece dal desiderio che esistesse l’uomo ed anche il mondo stesso. E da questa idea deriva poi quella ancora più assurda secondo la quale Dio avrebbe addirittura voluto espressamente il Peccato Originale perché poi Gesù Cristo lo potesse dirimere. A tutto questo è poi legata anche una dottrina assolutamente aberrante della libertà e della scelta.
Ebbene, se queste idee (come ritengono i suoi prefattori) sono state il frutto dello sforzo di difendere il Cristianesimo dalle accuse che intanto esso iniziava a ricevere, diremmo che il risultato di ciò non è stato affatto quello desiderato. Ne esce fuori infatti un Cristianesimo nel quale non solo viene totalmente deformata l’idea di Dio ma che addirittura rischia fortemente di scivolare nel cinismo indifferente, se non nella crudeltà. Questo infatti abbiamo visto che è esattamente ciò che accade nella teodicea di Malebranche. Non a caso il Cristianesimo da lui presentatoci manca totalmente l’idea dell’amore divino.
Tutto questo significa però che stiamo giudicando il pensatore su un piano etico-religioso e teologico.
Ma è proprio così che bisogna giudicarlo? Oppure bisogna trascurare questi aspetti per prendere in considerazione solo quelli filosofici?
Abbiamo già detto che Malebranche costruisce un’epistemologia di tutto rispetto. E questo è senz’altro u punto forte del suo pensiero dal punto di vista propriamente filosofico. In particolare si tratta di una visione idealistica che permette di superare il realismo ingenuo in maniera molto simile a quella della Fenomenologia husserliana. E tuttavia, anche nel suo contesto, risulta abbastanza paradossale una visione nella quale il mondo reale esteriore viene conosciuto solo interiormente, e cioè non per mezzo delle cose reali effettivamente percepite ma invece per mezze delle sole idee di cose.
Ma – bisogna ancora chiedersi −ci sono ulteriori aspetti filosofici rilevanti nel suo pensiero?
È davvero difficile dare una risposta positiva.
Il suo razionalismo è infatti così estremistico e dogmatico da pretendere di assumere addirittura una valenza teologica, ossia spiegare Dio e renderlo presente nella nostra esistenza. Il suo causalismo supremo si basa anch’esso su un’idea sostanzialmente teologica e quindi ha facile gioco nello sgominare la causalità naturale mostrandoci nel mondo una realtà in cui la Ragione divina penetra in ogni minima piega dell’essere. Ma questo intanto nella piena tolleranza e giustificazione del male. E questo se non è assurdo è almeno non poco cinico.
Quanto poi all’insufficienza della metafisica del pensatore abbiamo già detto.
Visto però che è stato detto (dal prefattore di PM, Mario Novaro) che Malebranche avrebbe reso la filosofia oggetto di interesse dell’uomo comune, allora probabilmente bisogna discutere soprattutto del suo valore per quest’ultimo soggetto. Ci chiediamo allora quale interesse possa mai avere una visione che guarda unicamente all’immenso e perfettissimo Progetto razionale di Dio, senza che Egli si preoccupi minimamente del fatto che le Leggi da Lui previste implicano necessariamente il male (come effetto temporaneo sì ma comunque per Dio assolutamente irrilevante); ed inoltre nel nutrire divino un profondo disprezzo per l’uomo e per il mondo stesso.
Può essere sostenibile per l’esistente un Progetto perfetto e dai fini ineccepibili che però ignora completamente il suo grido di dolore per la sventura e gli eventi avversi che lo colpiscono?
È credibile che ciò accada? A nostro avviso assolutamente no. Per cui la visione di Malebranche deve essere interessante (ed ancora oggi) solo per i filosofi (sostanzialmente per la sua epistemologia) ed anche per i metafisici che riescono ancora a condividere la sua interpretazione a nostro avviso assolutamente insufficiente (se non aberrante e deviante) di questa disciplina. Insomma, una volta posto questo, è chiaro che il progetto filosofico-metafisico di Malebranche non è mai assolutamente uscito dall’ambito dell’Accademia.
Al cospetto di tutto questo diremmo quindi che il pensiero di Malebranche è certamente troppo sostanzioso per non meritare di venire studiato. Ma intanto presenta troppi aspetti controversi per non essere considerato una visione per molti aspetti largamente paradossale ed assolutamente non condivisibile.
E con questo giudizio crediamo che la nostra recensione possa anche concludersi.

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Introduzione
Abbiamo già sostenuto in un precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “Il complessivo ed ultimo pensiero di Edith Stein nell’orizzonte della Fenomenologia ultra-husserliana di Karl Jaspers”, Revista Portuguesa de Philosophia, 78 (1-2) 2022, 170-224] che la dottrina steiniana dell’empatia ha una valenza unicamente gnoseologica e solo apparentemente emozionale, dato che essa è sostanzialmente allineata con l”entropatia” e soprattutto con il concetto di “inter-soggettività” del suo venerato maestro Husserl. La tesi che abbiamo sostenuto in quell’articolo è stata quindi che la dottrina steiniana dell’empatia non riguarda affatto le emozioni (e più in generale l’affettività), ma invece unicamente la dottrina della conoscenza. La riflessione condotta allora (e le relative successive letture), ci hanno indotto però a porci ulteriori problemi critici, e cioè soprattutto se è esistita davvero (entro il entro il panorama filosofico in cui operò Stein) una dottrina più appropriata di quella dell’empatia. E questo non poteva che condurci al cospetto di “Essenza e forme della Simpatia” (EFDS) di Max Scheler [Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, FrancoAngeli, Milano 2010]. Per cui ci siamo dedicati alla lettura ed analisi di questo libro. Per cui questo articolo intende innanzitutto analizzare i contenuti di questo libro paragonandolo con alcuni dei contenuti di “L’Empatia” (LE) [Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.] di Edith Stein.
Questo libro costituì in effetti una delle ricerche più precoci condotte dalla pensatrice nell’ambito della scuola husserliana, e quindi deve senz’altro avere tutti i caratteri (sempre tendenzialmente ingenui) delle opere precoci. E tra questi caratteri vi è secondo noi la forte spinta a concepire una realtà emozionale come l’empatia sotto l’influsso schiacciante del concetto unicamente gnoseologico di “inter-soggettività” sviluppato da Husserl. In parole ben più povere si è trattato, da parte di Stein, di un primo atto di deferente omaggio dell’allieva al venerato maestro. Ma, in termini filosofici, il risultato di questa operazione non poteva che essere deteriore, ossia un vero e proprio guazzabuglio di concetti, le cui caratteristiche non possono che essere la confusione e soprattutto la forte tendenza a mancare l’obiettivo (sebbene in sé lodevolisssimo) di descrivere la dimensione emozionale della conoscenza e del pensiero. Su questo però ci esprimeremo èiù chiaramente nelle conclusioni.
Ebbene tutto questo ci viene mostrato immediatamente dalla davvero magistrale riflessione di Scheler sulla tematica, il cui obiettivo principale (come dice Laura Boella nell’introduzione al libro) [Laura Boella, Introduzione – rileggere Sympatiebuch, Max Scheler, Essenza…cit., p, 7-28] fu proprio quello di postulare ed anche descrivere (con grande precisione) il valore delle emozioni rispetto -alla “vita analitico-concettuale” (1 p. 8). Laddove poi per lui l’emozione è pienamente valida (al pari della conoscenza) perché ha in primo luogo un senso etico, ossia è sostanzialmente coglimento di valori. Ebbene, a fronte di questo, è assolutamente chiaro che il pensiero di Scheler aveva in partenza possibilità molto maggiori (rispetto a quello di Stein) di cogliere l’obiettivo di mostrare la rilevanza della vita emozionale entro la complessiva vita psichica. Del resto Boella registra questo in modo che non lascia assolutamente equivoci – di fronte all’inconsistenza della dottrina dell’empatia steiniana, Scheler finì per disinteressarsi di essa per confrontarsi unicamente con il concetto husserliano di “inter-soggettività” (1 p. 10-11). Che poi era in verità l’unico nucleo del concetto steiniano di empatia. Scheler insomma comprese perfettamente che quello che Stein diceva era negativamente condizionato dal fatto che ella era “giovane” ed “allieva di Husserl” (nota 10, 1 p. 10). Del resto Boella prende atto di quello che la stessa Stein molto onestamente aveva affermato: − “L’impostazione del problema e il metodo del mio lavoro sono nati unicamente dagli stimoli ricevuti dal prof. Husserl, tanto che è davvero problematico dire quali cose, all’interno della presente esposizione, io possa definire ‘mia proprietà spirituale’”. E questo è riscontrabile effettivamente nel libro di Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., Premessa, p. 52]. Insomma la pensatrice sapeva esattamente quello che stava facendo (ossia parlare e pensare unicamente a nome e per bocca di Husserl), e quindi doveva anche conoscere il valore effettivo ed oggettivo della sua dottrina. Il che (come abbiamo detto senza mezzi termini nel nostro già citato articolo) rende molto poco fondati i tentativi dell’attuale psicologia e psichiatria fenomenologica di porre il concetto steiniano-husserliano di empatia alla base di una davvero fedele analisi della vita emozionale. Semmai questo fondamento dovrebbe venire trovato sull’opera di Scheler, il quale peraltro include nella sua riflessione la valutazione critica di un gran numero di teorie dell’empatia, tra le quali soprattutto quella di Lipps).
Resta solo il problema della ben poco chiara delimitazione del concetto steiniano di “empatia” da quello di “simpatia”, ed anche il problema del valore e significato che Scheler attribuiva al concetto di simpatia. Dal libro del pensatore questo non è facile da desumere, anche se a volte sembra che per lui il concetto di simpatia ricomprenda in sè quello di empatia. Dal commento critico di Boella si comprende però che egli affermò “l’insostenibilità teorica delle etiche della simpatia”, ma intanto (cosa sez’altro più importante), nel trattare del concetto, sgombrò decisamente il terreno dall’influsso esercitato su di esso dal concetto husserliano di inter-soggettività (1 p. 9).
Quello che non è assolutamente possibile capire da libro è se (nel contesto di una complessiva e molto variegata teoria della simpatia) Scheler concepisca o meno qualcosa di simile ad un’”empatia” (Einfülung), ossia di fatto la piena compenetrazione emozionale tra due diverse vite psichiche, cioè l’immedesimazione profonda ed emozionale tra due diversi Io. Boella (1 p. 11) ci fa capire che la sua riflessione sul tema è di fatto un “sentiero interrotto”; cosa dalla quale si può presumere che lui stesso non abbia voluto risolvere il problema, o non ci sia riuscito. Quello che è certo è che il significato dell’empatia viene da lui fortemente “circoscritto e discusso”. E vedremo che molte volte ciò corrisponde ad un suo vero e proprio esautoramento.
Qualcosa su questo ce lo dice però proprio Edith Stein [Edith Stein, L’empatia…cit. II, 3c p. 65-69] nel chiarire (facendo riferimento proprio a Scheler) che la simpatia è ben più dell’empatia, in quanto non solo è condividere ad esempio la gioia dell’altro ma è anche gioire per essa. E questo non è altro che il “con-gioire” del quale spesso Scheler stesso parla. Ma per lei è anche il vero e proprio “co-patire”, ossia un’esperienza di condivisione emozionale (esperienza vissuta) assolutamente non originaria, dato che la distanza tra i due individui viene pienamente mantenuta. E questo sottolinea un aspetto che poi vedremo essere assolutamente essenziale. Il che significa allora che ciò che contraddistingue l’empatia è l’essere invece un’esperienza vissuta originaria, ossia un’esperienza di condivisione nella quale la distanza viene a cadere completamente. Vedremo però che Scheler considera questo più un mito che non cosa realmente possibile. E tuttavia ciò trova compenso nel fatto che egli considera il co-patire come un fenomeno originario solo in senso metafisico, e quindi caratterizzante l’uomo nella sua essenza al di fuori di qualunque necessità di giustificazione tanto naturalistica quanto gnoseologica. Nel complesso potremmo quindi dire che forse l’empatia (ammesso anche che essa davvero esista) non è altro che un caso estremamente ristretto del co-sentire, e probabilmente corrisponde vagamente al “ri-sentire” e al “ri-vivere”.
In ogni caso constateremo che Scheler (quale pensatore che ebbe un senso della realtà pratica molto maggiore di Husserl e Stein, anche perché oltre che filosofo era medico), riesce più volte a presentarci la simpatia come un fenomeno tipico dello spirito umano, ma intanto assolutamente spontaneo (sebbene affatto riducibile naturalisticamente), e quindi molto più ampiamente condividibile di qualunque concetto di empatia.

  1. Il co-sentire, co-patire, ri-sentire e ri-vivere (ri-esperire), e il problema della partecipazione del vissuto dell’Io altrui.
    Quello che certamente è possibile capire dal libro di Scheler è che il co-sentire può essere considerato la forma più corretta e piena di empatia in quanto simpatia, cioè come partecipazione emozionale della vita psichica dell’altro
    Questo lo si può già capire già dalle premesse di Scheler al libro [Max Scheler, Premessa alla seconda edizione, in: Max Scheler, Essenza…cit., p. 34-38]. Infatti egli definisce il co-sentire come una funzione emozionale superiore (profondamente distinta dall’affettività, cioè dalle mere sensazioni affettive) che è di natura intenzionale e cognitivo-assiologica (corrispondente per la precisione alla “logica del cuore”) ed ha pertanto a che fare molto direttamente con i valori delle cose (non invece con le mere affezioni). Il co-sentire ha infatti la capacità di cogliere questi ultimi in una persona riconosciuta come valore in sé. E questo implica la percezione del vissuto di un altro in assenza di costrutti del genere della teoria dell’empatia (entro la quale si postula invece la nostra capacità di avvertire l’Io dell’altro per mezzo di vari tipi e modelli di prestazioni cognitive). Scheler sostituisce a tutto questo la ben più semplice capacità umana di cogliere l’altro come un valore in quanto persona e solo in quanto persona. Cosa che implica ovviamente un atto emozionale più che cognitivo. E più precisamente ciò comporta la percezione del vissuto di un altro Io. In questo senso il co-sentire (percezione e consapevolezza emozionale di un Io altrui e dei suoi vissuti) è una compartecipazione emozionale, e quindi è anche un co-patire. In termini più usuali è compassione.
    In ogni caso il co-sentire può venire considerato ciò che per Scheler rappresenta la forma più generale di compartecipazione della vita psichica altrui, ed anche il suo nucleo. Dunque è soltanto nel suo contesto che si sviluppa tutto ciò che può venire considerato come empatia e/o simpatia.
    Dunque il co-patire è in qualche modo il momento ulteriore del co-sentire nel senso dell’emozionalità [Max Scheler, Essenza…cit., A, I p. 41-43]. Ma il fatto fondamentale, per Scheler, è di tipo ontologico. Perché sia il co-sentire che il co-patire sono radicalmente originari, e quindi non sono riducibili a qualunque altra realtà (che essa sia concepita come elementarmente vitale o psicologico-funzionale). Quindi si tratta di caratteri onto-metafisici propri dell’uomo in quanto persona. In particolare si tratta della disposizione umana (metafisica) alla condivisione emozionale dei vissuti altrui, che viene prima di qualunque altra disposizione. In questo senso si tratta dell’amore. Ma più avanti chiariremo le caratteristiche specifiche di quest’ultima realtà.
    Vi sono però comunque per Scheler anche dei caratteri primitivi ed insufficienti del co-sentire, che lo rendono in qualche modo primario in quanto elementare. Infatti, in quanto disposizione, il co-sentire non ha nulla a che fare con l’etica, dato che quest’ultima è strettamente legata al comportamento, ossia alla manifestazione fattuale della disposizione. Sempre per questo esso è passivo e non attivo, dato che l’etica è attiva.
    In ogni caso il co-sentire è di natura specificamente emozionale. Vi è però qualcosa che comunque lo precede sul piano puramente cognitivo, e questo atto rientra nell’apprensione e comprensione, ossia costituisce il sapere dei vissuti altri [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 43-67]. E questo atto puramente cognitivo non ha assolutamente nulla di emozionale. Eppure esso è esattamente quanto (come precisa Scheler) viene definito come empatia, e precisamente “empatia proiettiva”. Ed ecco delinearsi quindi un altro sotto-aspetto (ma solo secondario) del co-sentire, e cioè il “ri-esperire”, o anche “ri-vivere” o “ri-sentire” il vissuto altrui. Si tratta insomma di un presupposto cognitivo della compassione (co-patire) che quindi, ovviamente, può presentarsi anche in totale assenza di quest’ultima. Siamo insomma nel puro campo del giudizio, mentre con il co-sentire ed il co-patire siamo invece nel piano della piena esperienza. Ebbene ci si può chiedere se non sia proprio questa l’empatia così come postulata e definita da Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., II, 1 p. 57-63]. È difficile dirlo ma è comunque possibile. Perché la pensatrice considera il co-patire alla stregua del mio vissuto di qualcosa di totalmente esteriore a me stesso, ossia il vissuto altrui che si manifesta attraverso l’espressione corporea (specie attraverso il viso) – ossia qualcosa che avviene nel “corpo vivo” (Leib) dell’altro esattamente come avviene nel mio. Ed in questo senso la considera un’autentica esperienza. Mentre invece abbiamo visto con Scheler che non lo è, non essendo altro che un “ri-esperire”. Ed infatti Stein stessa colloca tale atto tra i fenomeni psichici della “ripresentazione”, e per la precisazione come la ripresentazione di qualcosa di originario; sebbene il vissuto sia originario solo nell’Io altrui.
    E si badi bene che ella considera originario “qualcosa che ci è dato nella sua completezza essenziale”, e cioè l’effettivo riempimento di un’intenzione mediante un oggetto del tutto attuale di conoscenza ed attenzione. Ed il segnacolo di questa sorta di piena originarietà (trasferita in qualche modo dall’altro a me) sarebbe per lei la dimensione del “qui ed ora” (unito a quella dell’“in carne ed ossa”) con la quale io colgo il vissuto dell’Io altrui. Stein è certamente consapevole del fatto che si tratta di un’originarietà solo secondaria e non primaria, in quanto è vissuto non originario di un qualcosa che è vissuto davvero originariamente solo nell’Io altrui. Ma intanto afferma che questo vissuto non originario diviene un oggetto al pari del nostro proprio vissuto, ossia uno oggetto di conoscenza. E dunque, nonostante si tratti appena di una “ripresentazione” di qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo (e peraltro nemmeno interna a noi, ma occorrente tra noi ed un altro), ella ne parla come di una nostra effettiva esperienza, e peraltro come di un’esperienza pienamente emozionale. Ecco insomma davanti a noi i termini dell’effettiva condivisione di emozioni altri secondo la dottrina steiniana dell’empatia.
    Ora abbiamo visto che per Scheler solo il co-patire è un’esperienza, anche se essa avviene unicamente tra due Io diversi, e quindi senza la benché minima fusione. Tutto il resto invece è appena un “ri-vivere” o “ri-esperire”, o anche “ri-sentire”. E qui non solo non vi è alcuna emozione, ma addirittura si tratta di atti cognitivi solo preliminari all’emozione. Non si tratta insomma di alcun vero co-patire né di un vero co-sentire.
    Ne consegue che l’empatia (così come concepita da Stein) equipara al co-patire ed al co-sentire (esperienza primaria di condivisione emozionale) qualcosa che invece non solo è solo secondario ma è anche molto riduttivo e pochissimo autentico. E quindi non può essere un vero co-patire. Ecco dunque chiaramente davanti a noi la dimensione puramente cognitiva dell’empatia così come concepita viene da Stein. È evidente quindi che essa non può raffigurare (come invece pretende di fare) alcuna intima compartecipazioni emozionale di vissuti. Per la precisione una compartecipazione così intima da lasciarci fantasticare su un nostro letterale trasferirci nel mondo interiore altrui. E diremmo che proprio questa extrapolazione (del tutto fantastica e mitica) è ciò che ha generato presso psicologi, psichiatri ed uomini comuni (specie di fede) l’immenso fascino esercitato dalla teoria steiniana dell’empatia. Fascino che però purtroppo non ha alcuna giustificazione. Fatto sta che però essa è stata intesa come il modello stesso della compartecipazione emozionale.
    Ora se proseguiamo ora nell’esame del testo di Scheler, vedremo che la sua riflessione conferma in pieno quanto abbiamo appena detto. Egli dice infatti che il fatto che mi venga dato l’Io dell’altro (il suo vissuto) non significa affatto che stia avvenendo un fenomeno empatico, ossia qualcosa che abbia davvero una valenza emozionale (il co-patire o co-sentire). E questo perché l’altro ha una “vita intima” per me assolutamente inaccessibile, a meno che essa non venga espressa esteriormente. Questo lo constata anche Stein, ma Scheler precisa qui che (secondo la teoria dell’empatia) da tale espressione io risalgo all’esistere della vita psichica altrui (cogliendo così i suoi vissuti) solo per mezzo di un’inferenza. E questa inferenza viene spiegata entro la dottrina dell’empatia con il fatto che io e l’altro condividiamo il nostro proprio “corpo vivo” in maniera del tutto sovrapponibile. Altrimenti io non avrei colto altro che l’espressione di un vissuto senza su questo costruire alcuna esperienza empatica. In tal modo dunque la pensatrice cancella in un sol colpo quella differenza tra le vite interiori di diverse persone che invece per Scheler è assolutamente insuperabile, e che quindi non permette alcuna immediata comune esperienza.
    Un’esperienza comune (ma affatto immediata) è possibile invece solo in forza della reciproca volontà di andare l’uno verso l’altro riuscendo solo in tal modo a superare la naturale differenza. Di tale immediata comune esperienza empatica Stein parla invece a chiare lettere (sebbene ponendole comunque dei limiti). Ed abbiamo anche già accennato alla decisività del riferire l’espressione ad un “corpo vivo”. Ma in un’altra parte [Edith Stein, L’empatia…cit., III, 4-5 p. 103-167] della teoria dell’empatia (in LE) Stein afferma esplicitamente: − ”Questa dipendenza dell’esperienza vissuta dagli influssi del corpo vivente è una caratteristica essenziale dello psichico. Tutto ciò che è psichico, è coscienza legata al corpo vivente”.
    E questa affermazione viene alla fine di tutto un discorso nel quale viene postulato che il “corpo vivente” (Leib) – a differenza del “corpo fisico” (Körper), vero oggetto esterno al mio psichismo, e quindi a me del tutto estraneo – mi è dato solo come “mio” e quindi come inscindibilmente legato ad il mio Io (III, 4a p. 105). Ne consegue che, nell’espressione, esso è di fatto il portatore immediato dei miei più intimi vissuti. Sentimento ed espressione sono quindi di fatto simultanei, dato che tra di essi vi è, come dice Stein, “una connessione di essenza e di senso” (III, 4d p. 120).
    Da questa profonda unità tra Io e corpo proprio si passa poi alla postulazione un grado di estensione di questa esperienza all’individuo altrui che è tale da generare vere e proprie intimissime condivisioni di esperienze (“con-vedere”, “con-toccare”, “con-cogliere”) (III, 5 p. 124-167). E questo genera una vera e propria immedesimazione empatica, ossia l’intima condivisione dei vissuti altrui per l’intermediazione del “corpo vivo” che in entrambi gli individui è immediatamente legato all’Io. In altre parole quella che era all’inizio un’empatia puramente “sensoriale” diviene alla fine un’empatia del tutto psichica.
    Ma per Scheler ciò è più che mai impossibile, dato che la mera condivisione del corpo (per quanto similmente “vivo”) non può permettere di superare una diversità tra me e l’altro che è assolutamente insuperabile in quanto rappresenta un fatto ontologico assolutamente fondamentale, ossia radicalmente originario. E questo sostanzialmente perché ogni individuo umano è una persona assolutamente isolata per definizione e fin dal suo primo venire al mondo.
    Ecco allora che – ancora una volta − quanto da Stein (ed altri) viene considerato empatia si rivela essere niente altro che quel “ri-vivere” “ri-vivere” e del “ri-sentire” che rappresentano appena le prime componenti del co-sentire, ossia ne rappresentano appena i presupposti cognitivi senza alcuna componente emozionale.
    Per Scheler, presi in sé, questi fenomeni sono dunque connessi a forme del tutto insufficienti di co-patire (condividere per puro caso con un altro la stessa sofferenza nel corso della stessa esperienza negativa, contagio emotivo, unipatia). Ma il pensatore dice che dal “ri-sentire” si può comunque passare al vero co-patire solo quando ad esso si aggiunge l’espressa intenzione di condividere emozionalmente un vissuto altrui. Ciò è esattamente quanto abbiamo descritto prima (a proposito del superamento della differenza). Ed in questo caso siamo di fronte ad una compassione del tutto volontaria, ma per questo anche non poco artificiosa. L’unipatia (cioè la postulazione di un’unica vita psichica ai livelli psichici più vitali e profondi) è però per lui particolarmente importante perché si tratta di un’intenzione di tipo puramente vitale-affettiva, che come tale è collocata tra la coscienza ed il corpo. Ma è proprio in essa a delinearsi elementarmente quella connessione senza la quale non vi sarebbero né empatia né simpatia. In altre parole nell’unipatia non vi è differenza tra individui proprio perché ci troviamo ad un livello decisamente inferiore alla coscienza ed a qualunque dimensione cognitiva (intenzione).
    L’assoluta necessità della distanza tra persone (a livello cosciente) è comunque qualcosa che impedisce a Scheler [Max Scheler, Essenza…cit. A, III p. 67-68] di rigettare tutte le teorie della “trasmissione”, ossia tra trasmissione immediata del vissuto emozionale dall’uno all’altro. E questo è quanto il pensatore definisce come “teorie genetiche” (a anche “associazionistiche”) del co-sentire. Per lui infatti la via di questa ipotetica trasmissione è per definizione interrotta ontologicamente. E quindi non vi è alcuna possibilità che essa venga superata. E bisogna dire che la teoria steiniana dell’empatia (sebbene con tutte le limitazioni che esse pone) rientra in qualche modo in questa tipologia riduzionistica di co-patire.
    E questo lo dice lo stesso Scheler (sebbene indirettamente) riportando a questa tipologia le teorie dell’empatia di Lipps e Störring. Il problema è infatti per lui che la postulazione della trasmissione copre lo stesso fenomeno dell’espressione, in forza del quale (proprio come abbiamo visto entro l’originaria teoria steiniana), l’empatia non è altro che ripresentazione, ossia di fatto mero ricordo. E qui interviene il fenomeno della riproduzione, in virtù del quale è impossibile pensare ad un’effettiva compenetrazione tra il mio vissuto e quello altrui (ossia l’intendimento più nucleare dell’empatia).
    Di particolare importanza è comunque la menzione scheleriana della piena giustificazione della teoria metafisica della simpatia (sebbene vadano anche in essa riconosciuti molti errori) [Max Scheler, Essenza…cit. A, IV p. 78-101].
    Essa si basa sulla postulazione preliminare di una “l’unità del fondamento del mondo”, che a sua volta giustifica “l’unità dell’essere che sta a fondamento della pluralità degli io”. E ciò non è altro che unipatia, ossia la postulazione dell’unità della Vita – se vogliamo la forma più primitiva ed elementare sia di simpatia che di empatia. La giustificazione primaria di queste teorie metafisiche sta per lui nel fatto che esse pongono in evidenza più che mai l’originarietà del co-patire, ossia il fatto che esso è presente nell’essenza stessa dell’uomo, e quindi non richiede alcuna giustificazione (specie naturalistica). Per tale motivo il co-patire viene tradito da qualunque sua deduzione da altri fenomeni. E non vi è dubbio che anche la teoria steiniana dell’empatia rientri in questo ambito.
    In tale ambito metafisico egli include comunque le più diverse dottrine – da quelle antiche (vedantiche e buddhistiche) a quelle più moderne (di tipo biologistico-vitalistico). Si tratta di dottrine tutte monistiche, e che quindi indicano o una sola realtà nascosta oppure una sola via per la quale tutti i viventi devono passare. Ma ciò che più importa è che di nuovo qui il “ri-sentire” si rivela essere presupposto del pieno ed autentico del co-patire. Infatti la metafisica mette in luce sempre un conoscere prima oscuro e poi chiaro, alludendo così ad un percorso che reca poco a poco al riconoscimento della piena realtà, e quindi al superamento dell’illusione. Laddove quest’ultima non sarebbe altro che l’egocentrismo o solipsismo dell’uomo naturale − ossia l’illusione di essere il centro stesso del mondo. Questo conoscere, infatti, reca all’intendimento del co-patire come “originariamente intenzionale” (il sentire di qualcosa), e quindi come una realtà conoscitiva pre-logica. Più precisamente si tratta del coglimento del valore degli oggetti, il quale a sua volta fonda la loro conoscenza. Ma ciò non ha un significato unicamente gnoseologico, bensì etico. Infatti per mezzo di esso, come abbiamo appena visto, viene per Scheler superato l’“egocentrismo timetico”, cioè l’equiparazione dei propri valori del mondo-ambiente a quelli di chiunque altro. E ciò rende possibile una “conoscenza oggettiva del valore di un essente metafisicamente reale”, cioè affatto inesistente, che è poi questo essente in quanto “essere-così”. Insomma, in termini più semplici, impedisce il riconoscimento dell’«altro» in quanto esistente assoluto con lo stesso identico diritto che attribuiamo a noi stessi. Nella sua pienezza questo co-sentire è insomma matura e completa consapevolezza dell’esistenza degli altri. Ecco dunque il superamento dell’illusione (rappresentata dall’egocentrismo e dal solipsismo) che la metafisica permette, in modo che la vera realtà dell’esistere possa venire colta.
    È evidente che, a fronte di tutto ciò, qualunque teoria dell’empatia diviene artificiosamente intellettualistica e quindi del tutto inutile, proprio perché essa è in definitiva non etica ma solo gnoseologica. La realtà della simpatia è invece puramente etica e perfino etico-religiosa (dunque metafisica), dato che essa punta al superamento dell’egocentrismo. Infatti per questa via diviene possibile il superamento della coscienza “naturale” della propria realtà e quella della realtà altrui.
    Il che è superamento di un’”illusione metafisica” nel senso di un vero e proprio “cambiamento del cuore”. E quindi implica il riconoscimento (in sé come nell’altro) dell’esistere come “essere-così”, ovvero come persona e quindi come assoluto ontico. Da questo momento in poi l’uomo avvertirà sempre la presenza dell’altro come essenza o idea. Insomma questa è conoscenza dell’eguaglianza di valore dell’uomo “in quanto uomo”. E tutto questo sottolinea la dimensione personalistico-antropologica della dottrina scheleriana della simpatia, della quale parleremo poi più diffusamente dopo. Non solo, ma ciò ci lascia anche comprendere cosa si intenda con l’“originarietà” del co-patire o co-sentire. Infatti per Scheler il puro co-sentire appartiene all’”essenza dello spirito umano” e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”. Per la precisione corrisponde a sua volta alla costatazione del “valore dell’altro in generale”. Esso quindi non si verifica affatto nell’esperienza che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma semmai gli offrono solo oggetti da sviluppare. In questo senso, dunque, questa teoria scheleriana sorpassa di gran lunga qualunque intendimento filosofico o psicologico dell’empatia.
    Quanto poi al secondo intendimento del co-patire apportato dalla metafisica (quella di unica vita e via per tutti gli esseri umani), Scheler deve necessariamente contestarla in nome dell’accento posto sulla diversità che caratterizza le persone, e quindi in nome del suo personalismo. Ma di questo parleremo dopo.
    Infine c’è solo da ribadire che per il nostro pensatore l’unipatia pone i fenomeni del co-sentire (almeno nella loro dimensione più elementarmente vitale) decisamente al di sotto della coscienza e quindi molto lontano dalla noetica. Quindi anche in questo la sua dottrina si pone molto lontano da quella steiniana dell’empatia. Non a caso (A, VIII p. 143-147) egli sottolinea che – nonostante la valenza elementare e vitale dell’unipatia – essa in fondo rientra nei fenomeni dello spirito.
    E precisamente rappresenta una funzione originaria ed ultima dello spirito, che non deriva quindi da assolutamente nulla. In questo senso dunque la simpatia – e non invece l’empatia, che non è altro se non un costrutto filosofico molto poco autentico in quanto sostanzialmente intellettualistico – rappresenta una disposizione innata addirittura di tutti gli “esseri senzienti”.
    E ovvio quindi che il co-sentire finisce per venire frainteso se viene ridotto a qualunque dimensione puramente empirica, com’è senz’altro la psicologia evolutiva. Non a caso nel contesto di quest’ultima esso diviene appunto una mera funzione cognitiva colta nel suo progressivo maturare – ed alla quale è stata data la denominazione di capacità di “assunzione di prospettica altrui” [Petermann, M. Kusch, K. Niebank, Entwicklungpsychopathologie, Beltz, München 1998, 5, 2, 3 p. 118-122, 5, 7 p. 145-149].
    La quale corrisponde poi anch’essa alla mera comprensione dei vissuti altrui (e non invece all’intima compenetrazione emozionale tra due vite psichiche). È evidente che una simile interpretazione del co-patire non ha nulla di originariamente tipico dello spirito umano. Si tratta invece appena di un fenomeno naturale riscontrabile nell’uomo, senza che esso abbia alcun particolare senso e nemmeno una particolare intensità etico-emozionale.
  2. Simpatia ed amore. Accenni al Personalismo.
    Ma è il co-patire equivalente all’amore? Scheler dice che è così. Eppure anche questo non è affatto facile da capire nel contesto dell’indagine scheleriana; nella quale peraltro egli fa equivalere ontologicamente i fenomeni dell’amore e dell’odio (l’uno il contrario dell’altro, ma in definitiva riducibili ad un unico fenomeno) [Max Scheler, Essenza…cit., B, I-VI p. 154-166]. Certo è che per lui co-sentire ed amore-odio sono entrambi fenomeni originari, e quindi (per quanto affermi che non sono esattamente la stessa cosa), entrambi non sono affatto riducibili a fenomeni elementari e naturalistici.
    Altrettanto certo è che essi non rientrano affatto nella dimensione dell’empatia in quanto non sono in alcun modo fenomeni cognitivi. E non sono nemmeno atti del tendere, dato che nell’amore non vi è assolutamente nulla da realizzare. Per la precisione essi sono perfino indipendenti dall’elementare affettività. Infatti quando io amo qualcuno, non sarà certo il dolore che egli mi causa a diminuire il mio amore per esso. È quindi in questo senso che amore e odio sono così tanto originari e immediati, da essere assolutamente sfuggenti cioè ingiustificabili. Essi sono insomma più misteri che fenomeni. Ed in questo Scheler si rifà alla dottrina di Brentano, entro la quale amore-odio vengono considerati fenomeni assolutamente elementari ma comunque intensamente metafisici.
    In effetti amore-odio non sono cognitivi solo nella misura in cui essi comportano un’intenzione intensamente etica. Perché nell’amore l’intenzione è rivolta sempre solo verso un oggetto di valore (l’oggetto o persona amati) e non invece verso un valore astratto ed impersonale. Conseguentemente essi non sono affatto degli atti ciechi, anzi comportano l’agire di quegli “occhi dello spirito” che sono capaci di vedere nell’altro “qualcosa di diverso” dal solito. È, dice Scheler, qualcosa di diverso dall’evidenza della ragione.
    In ogni caso essi sarebbero totalmente diversi dal co-sentire soprattutto in quanto “atti”. Infatti con essi non si tratta per nulla di un atto sociale e di relazione (com’è invece senz’altro il co-sentire).
    Insomma essi non hanno affatto come riferimento l’”io” e l’”altro”. Perché sono diretti solo verso i valori di cui gli altri (“come in trasparenza”) appaiono come portatori – e precisamente una sola persona in particolare. Insomma non sono affatto atti “altruistici”. Così, ad esempio, il “dirigersi verso la comunità” non è affatto amore per l’altro. Sono però al massimo grado atti di attribuzione di valore ad una persona.
    Da tutto ciò consegue che, secondo Scheler, in generale amore e odio non sono affatto definibili, ma invece appena “intuibili”. Proprio per questo essi non sono affatto né un tendere né uno scegliere né tanto meno una reazione (passiva) a stimoli affettivi. Semmai sono invece un preferire.
    Ma, posto questo, l’amore è per Scheler soprattutto un movimento intenzionale nel quale emerge il “valore superiore” a partire da un determinato oggetto di per sé indifferente. In quest’ultimo, quindi, infine “scintilla il valore più alto”. E tutto questo si accorda pienamente per Scheler la teoria dell’eros (come movimento) di Platone. Più precisamente, nell’amore, ad un “valore già dato” (la persona di valore) si aggiunge il movimento, e questo si dirige verso valori ancora più superiori rispetto a quelli che sono giù qui. E quindi “predelinea” l’”immagine ‘ideale’ di valore della persona data”. Insomma esso intravvede un “oggetto dotato di valore”.
    Ma oltre a ciò esso ha per Scheler una caratteristica ancora più straordinaria, e cioè quella di prescindere totalmente dalla datità ordinaria. Nel senso che esso punta verso il valore superiore in assenza di datità già date (l’ipotetico oggetto oggettivamente amabile), in quanto già esistente o non ancora esistente. Esso dunque crea letteralmente la datità amabile verso la quale si muove – quindi è edificazione (fattuale) del valore ideale delle persone, cioè consiste nell’incontrare in una di esse (per partito preso) un valore superiore. E questo movimento viene risvegliato dal valore inferiore per mezzo di una percezione affettiva del valore, che desta l’amore. Il che può avvenire anche in forza della preferenza. Ma comunque (ontologicamente) l’amore è soprattutto il movimento stesso, e quindi nulla accade se esso non inizia. Esso insomma è basato su un atto di attribuzione di valore che è puramente intuitivo e quindi prescinde dall’oggettività ossia dall’effettiva amabilità di un ente. Ecco la sua originarietà. Ancora una volta è per questo che l’amore non è né ricerca né tendere. Insomma la persona amata si incontra senza nemmeno averla cercata o voluta.
    Posto questo Scheler smantella tutte le teorie nelle quali l’amore viene considerato come un atto ed una forza che si muova verso qualcosa di amabile in quanto già dato (per mezzo del tendere volere), o addirittura (pedagogia) si muova nel procurare ad un ente qualunque la dotazione necessaria per poter venire amato. Ancora una volta per questo esso è un chiarissimo e profondissimo vedere della natura amabile di una persona, in quanto intuita (senza alcuna ragione obiettiva) come portatrice di valore. E pertanto ciò avviene, per definizione, perché esso accetta l’oggetto amato esattamente “così come esso ‘è’”, prescindendo così dal presupposto di qualunque virtù o azione lodevole (ossia dover essere). È dunque in questo senso che esso coglie infallibilmente l’essenza inesauribile della persona in quanto “individuum ineffabile”.
    Su questa base Scheler contesta decisamente il neutrale e gelido (e spesso perfino crudele) amore per il Bene (così frequentemente postulato nell’antica metafisica pagana, specie in quella platonica). E ciò in quanto esso è irrimediabilmente farisaico. Esso infatti non ama il «buono» ma invece solo chi si conforma del tutto formalmente ad un Bene del tutto impersonale. Anche da ciò risulta allora che l’amore sussiste esattamente per la persona come valore incondizionato, ovvero per il “valore della persona” in sé, cioè per “la persona in quanto persona” senza se e senza ma. Quindi non per le virtù delle quali la persona è portatore, ma invece per la persona stessa in quanto valore. E questo è un amore “assoluto”. Forse, diremmo, l’unico e più autentico amore, superando esso anche lo stesso amore per Dio, che in fondo non è affatto amore per una persona, almeno quando Dio viene identificato con il Bene stesso. Si delinea quindi il fatto che esso è un “elemento ultimo” che è assolutamente semplice e per nulla composto. E infatti nell’amore per la persona rimane “un’eccedenza ingiustificabile”, cioè una totale sfuggenza. Ma questo avviene per il fatto che l’amore rinvia alla realtà ontica della persona. Perché l’uomo in quanto persona per definizione non è un oggetto, ossia non è oggettivabile.
    Ma tutto questo rende l’amore (quale atto) di importanza etico-personalistica fondamentale. Perché la pienezza della persona ci viene data proprio nell’atto d’amore. La persona mi viene data solo quando “co-eseguo” i suoi atti. E quindi il suo valore etico ci è dato nella co-esecuzione del suo atto d’amore. Essenziale quindi è il “co-amare”
    È del tutto ovvio come, con tutto ciò, si opponga a tutto questo l’interpretazione naturalistica dell’amore come pulsione erotica (“libido”) dall’ampia valenza, sia sociale sia psico-patologica, come essa è stata formulata entro la dottrina psicanalitica di Freud (B, V-VI p. 176-204). Ma non entreremo nel merito di questa discussione (rinviando quindi il lettore al libro). Va solo sottolineato che in questo contesto Scheler non include solo la dottrina psicanalitica dell’amore, ma anche altre dottrine riduzionistiche tra le quali quella dell’empatia come illusione.
    A ciò si aggiunge poi una terza parte del libro dal titolo molto interessante per il nostro tema (“L’Io altrui”, C, I-III p. 205-247). Tuttavia la trattazione di questa parte è molto confusa, poco chiara e sistematica, lacunosa e soprattutto inconclusiva. Tuttavia, anche in questo modo Scheler ci permette di trarre delle conclusioni davvero definitive circa la qualità della teoria dell’empatia in quanto teoria della relazione sociale, ossia la relazione tra “io” e “tu”. Cosa che, come vedremo, chiama in causa molto direttamente il personalismo di Guardini.
    Innanzitutto egli sottolinea che il tema della relazione tra diversi Io è effettivamente anche gnoseologico, e quindi riguarda realmente la teoria della conoscenza. Infatti si tratta sostanzialmente della conoscenza della connessione tra l’Io e la psiche degli uomini. È evidente, egli dice, che si tratta di un problema eminentemente sociologico (come del resto sottolineato anche da Lipps), ma esso riguarda anche la teoria della conoscenza. Insomma si tratta per lui del “principio di solidarietà” quale nucleo e aspetto centrale sia della filosofia che dell’intera etica sociale. Laddove è dunque evidente che la gnoseologia (teoria della conoscenza) non può essere concepita in modo puro, ma solo in connessione con l’etica e con la dimensione sociale ed emozionale. Insomma il problema fondamentale è quello dell’”uomo in quanto uomo”, perché si tratta del fatto di cosa l’uomo possa essere per un altro uomo. Il che corrisponde all’evidenza della “concatenazione ultima ontologica” tra gli uomini. Per questo però è essenziale affermare la primarietà dell’approccio fenomenologico su tutti gli altri. Dato che invece l’empirismo naturalistico (specie psicologico) non è in alcun modo capace di cogliere queste realtà.
    Proprio su questa base fenomenologica − nel porsi il problema dell’origine della coscienza altrui (Io) e della comunità −, bisogna poi chiedersi quale sia davvero il momento più originario nel quali tali fenomeni subentrano e con quali atti conoscitivi. E questo non è secondo lui possibile né sulla base di un supposto fondamentale “sapere” concernente gli altri Io (come avviene nella classica teoria dell’empatia) né sulla base della mera psicologia evolutiva. Quindi porsi il problema dell’origine comporta il prescindere sia i possibili oggetti contingenti del sapere sia anche dalle mere fasi dello sviluppo. E questo è più o meno anche quanto abbiamo sostenuto nel nostro già citato saggio sulla Psicologia Sacra.
    Rispetto poi al tema dello sviluppo psichico dell’uomo egli sostiene che la noetica sa in effetti molto più della psicologia empirica. Perché solo essa può concepire una “percezione intra-psichica” ed un “senso interno”, dato che con ciò si tratta di oggetti non identificabili ma intanto pre-conosciuti, e cioè intuiti. Si tratta insomma dell’essenza dello psichico e non invece dello psichico funzionale. Per ultimo egli afferma che l’intera serie delle questioni qui in causa è necessariamente anche metafisica dato che essa illustra un miracolo di fatto.
    Ma comunque, riguardo al tema specifico della conoscenza dell’altro Io, egli menziona l’esperimento detto di “Robinson” (uomo che dalla nascita non era mai venuto a contatto con altri uomini ma intanto ne intuiva l’esistenza). Tale esperimento dimostra quindi che vi è davvero un’“originaria certezza del tu” (Volkelt) e che essa una “certezza intuitiva” caratterizzata dal cogliere immediatamente qualcosa di non dato nell’esperienza.
    Nel complesso, comunque – egli dice −, l’intera problematica (dell’empatia) è nata sulla base della convinzione filosofica che a ciascuno sia dato “innanzitutto” solo il proprio Io e i relativi vissuti, e che solo (secondariamente) una parte di questo riguardi i vissuti di altri individui. Il problema è come queste due parti si distinguano e come l’altra parte procuri la conoscenza dell’esistenza degli altri. Ma ciò corrisponde a nient’altro che alle ipotesi sviluppate entro la teoria dell’empatia.
    Di certo a tale proposito, egli aggiunge, sono state smantellate diverse teorie erronee – come quella dell’analogia, nel contesto della quale si sosteneva che l’empatia si giustifica sulla semplicistica base della similitudine dell’altro a noi. Ma per lui anche la teoria dell’empatia come “credenza” (Lipps) è di fatto slegata da qualunque possibile e credibile deduzione cognitiva. Essa è infatti solo “cieca”. Perché in essa noi empatizziamo soltanto con dei corpi animati, e ciò è solo casualmente connesso con il riconoscimento di un altro io. Qui infatti noi semplicemente presupponiamo un essere animato ma intanto la verità è che non entriamo affatto in relazione psichica con esso nemmeno attraverso l’espressione. Insomma con ciò noi non siamo affatto al cospetto di un fenomeno “originario” bensì solo derivato. Infatti, qualora “la teoria dell’empatia fosse vera” essa dovrebbe giustificare per davvero l’incontro dell’altro attraverso il proprio Io unito ad un corpo vivo (sentimento vitale), e non invece in base alla presenza di un altro essere animato quale fatto psichico. Ed abbiamo già visto che questa giustificazione non esiste affatto, in quanto non è in alcun modo credibile. Pertanto l’empatia al massimo può essere concepita come credenza ”che il mio io si dia ancora una volta”; ossia essa constata al massimo la ripetibilità del mio Io. Noi insomma in tal modo non cogliamo in alcun modo l’essenza dell’altro Io.
    Eppure originariamente (ossia fuori delle teorie menzionate e solo derivate) è proprio quest’ultimo fenomeno quello che di verifica. Perché noi sappiamo infallibilmente (sebbene misteriosamente cioè originariamente) che c’è un altro Io oltre il nostro. E sappiamo perfino che esso è un altro individuo, o “io individuale”, senza nemmeno alcun bisogno della condivisione del corpo.
    Ne consegue che l’empatia e appena una credenza circa l’altro Io ma non è affatto una conoscenza o costatazione esperienziale. Laddove invece ciò che è in causa è proprio questo. Ma il nome di questo fenomeno non può essere certamente quello di «empatia».
  3. Simpatia e Personalismo.
    Gli accenni ad una teoria personalistica attraversano l’intera trattazione di Scheler, e peraltro proprio la parte C del libro le sottolinea di più (oltre a quella dedicata all’amore-odio).
    Intanto però vale la pena di essere più espliciti su questo, dato che evidentemente la dottrina della simpatia e quella dell’empatia si distinguono in primo luogo proprio in base al davvero esplicito Personalismo della prima. Che invece nella seconda manca quasi del tutto. Nel trattare del tema dell’empatia Stein non era infatti ancora approdata ad una decisa visione personalista.
    Quindi in questa sezione non dovremo fare altro che riprendere cose che abbiamo già detto, facendo a questo pochissime aggiunte. Ma molto in generale l’elemento basico della visione scheleriana è quello dell’insuperabile differenza ontologica esistente tre le persone. In altre parole la persona è in sé un individuo irrecuperabilmente separato dagli altri ed in via di principio non vi è nulla che possa abolire questa separazione. Per cui anche lo stesso co-sentire è in via di principio impossibile (almeno sulla base dell’empatia). Ma ciò che Scheler ci fa comprendere è che nonostante tutto esso è comunque dato – le persone umane hanno l’innata tendenza a riconoscere un “tu” oltre il proprio “io” ed a sentirsi in relazione con esso. Dunque l’elemento chiave dell’intera faccenda (ed anche forse un elemento addirittura banale nella sua ovvietà) è quello della relazione, ossia della socialità (che poi implica anche la volontà). Solo per questa via infatti due entità irrimediabilmente separate possono entrare in contatto tra loro. Pertanto il co-sentire (una volta ridotto all’osso) non è altro che una stupefacente «relazione nella differenza»; e precisamente tra due entità caratterizzate dal fatto ontologico fondamentale di essere delle «persone» (con tutte le conseguenze che ciò comporta). È altrettanto ovvio, inoltre, che il momento più alto ed intenso di questa relazione è l’amore. In ogni caso co-sentire e amore non sono altro che la relazione (assolutamente fondamentale ed originaria) che esiste tra un “io” ed un “tu”. Ma siccome questo è anche il nucleo più centrale e profondo del Personalismo, la questione del co-sentire si risolve di fatto nei termini di quest’ultimo. E qui invito il lettore a prendere in considerazione tutto quanto è stato scritto su questo tema (incluso il mio saggio) ed in particolare le riflessioni personaliste (di stampo più teologico che filosofico) di Guardini [Vincenzo Nuzzo, Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo. La rilevanza di Guardini, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione); Romano Guardini, Die Person. Der Aufbau des personalen Seins. Person und Individualität. Person im eigentlichen Sinn, in: Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988, V p. 121; Romano Guardini, Die Person. Der personale Bezug. Das Ich-Du-Verhältniss, ibd., I-II p. 132-136]. Egli vedeva infatti l’essenza della persona nella relazionalità stessa. Insomma è evidente che parlare del co-sentire implica necessariamente il parlare della persona ed inoltre della sua connaturata tendenza alla relazione. Solo nel suo contesto infatti l’atto del co-sentire assume una certa plausibilità.
    Ma intanto ciò non implica in alcun modo il postulare qualcosa di simile all’empatia. Questa dottrina infatti comporta lo sforzo di superare la differenza ontologica esistente tra individui-persone senza nemmeno prendere in considerazione relazionalità e socialità. E questo è assolutamente impossibile. Il tentativo viene invece condotto sulla base di una ipotetica (e piuttosto fantasiosa) disposizione dell’Io isolato ad avvertire l’esistenza dell’altro, con l’ulteriore conseguenza della capacità di questo Io isolato di gettare uno sguardo nei vissuti dell’altro Io e perfino partecipare emozionalmente di essi. Ma con Scheler abbiamo visto che questa teoria fallisce in molti punti, e quindi non è in grado in alcun modo di spiegare la realtà del co-sentire.
    Tuttavia questo è del resto del tutto plausibile perché l’obiettivo primario di questa teoria era quello di allargare (in maniera piuttosto maldestra) all’ambito emozionale quella che era la comunicazione conoscitiva inter-soggettiva, ossia l’universalità della conoscenza e perfino (secondo Husserl) della coscienza stessa. Non a caso al proposito Scheler [Max Scheler, Essenza…cit., IV, 5 p. 99-100] dimostra che in fondo il concetto hussserliano di “coscienza trascendentale” (Io puro) rientra in definitiva addirittura nella concezione metafisico-unipatica dello Spirito universale in quanto Vita, e quindi tutto prevede tranne le persone e la reale relazione tra di esse. E questo è da considerare senz’altro un suo attacco alla versione husserliana della teoria dell’empatia, ossia quella dell’”entropatia” [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, 1 p. 61-63, I, II, II p. 89-94, I, II, II p. 111-114, I, II, III p. 135-138, I, IV, I p. 334-337, I, IV, II p. 375-377, II, II, Introd. p. 528-533, II, III, II p. 670-680], che poi ancora una volta non è altro che la teoria dell’inter-soggettività. Abbiamo appena visto che Husserl sviluppò il concetto anche in Idee, ma Laura Boella menziona in particolare il manoscritto inedito dal titolo Zur Phänomenologie der Intersubjektivitä. Texte aus dem Nachlaß [Laura Boella, Introduzione…cit., in: Max Scheler, Essenza…cit., 1 p. 9]. Ed ella dimostra (in questa parte della sua introduzione) anche la storicità di questa polemica tra i due pensatori.
    E come si può vedere Husserl era interessato in primo luogo esattamente alla sola inter-soggettività. Certo è che, una volta constatato tutto questo, appare evidente che l’intera teoria dell’empatia (nella sua parte steiniana ed ancor più nella sua parte husserliana) fu ed è del tutto superflua nello sforzo di comprendere il co-patire, ossia di fatto quella simpatia che coincide ampiamente con la relazione inter-umana.
    Ebbene abbiamo visto che il momento filosofico-metafisico centrale di tale dottrina è rappresentato dalla persona. Ma allora cos’è esattamente la persona per Scheler? Abbiamo già visto più volta cosa sia, ma ora vale la pena di arrivare al dunque.
    La persona umana è in primo luogo un assolutamente originario “centro di atti”, e precisamente lo è in quanto capace per natura di riconoscere nelle cose del mondo esteriore un valore. Del resto a questa conclusione giunse anche Stein quando (in Der Aufbau der menschlichen Person) [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4, p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127] pervenne finalmente ad una visione personalista, sebbene su basi fenomenologiche non poco diverse da quelle scheleriane. Insomma, dal punto di vista umano, l’oggetto mondano non è affatto l’eticamente indifferente “cosa della fisica” ma è invece in primo luogo un valore, ossia un’entità etica che ha un’importanza capitale nell’agire personale. Intanto però in Scheler questa capacità di riconoscere valori non ha importanza solo nel generico agire ma invece ancor più entro la relazione umana.
    Ma comunque, proprio in quanto centro di atti, le persone sono e restano sempre diverse tra loro (anche perfino prescindendo dai corpi diversi e dalle diverse sfere di coscienza) a causa del loro “esserci” in quanto centri di atti. Esse sono autonome per definizione e quindi non possono in alcun modo venire portate a coincidenza. Insomma le persone non possono venire individuate nello spazio-tempo, come lo sono i corpi. Abbiamo anche visto che esse si presentano entro la relazione (co-sentire) specie nel contesto dell’amore, come entità che hanno valore del tutto incondizionatamente (“persona in quanto persona”), e non invece per accidentali virtù che esse possano possedere. La loro diversità sta quindi nel loro ”puro esser così sé stesse”, cioè per la loro essenza personale. Esse sono insomma irrimediabilmente diverse in quanto “individui assoluti”. Quindi il co-sentire può essere solo “rapporto reciproco”, ossia la vita stessa della comunità alla quale esse sono “destinate” quali persone; cosa che consiste nell’“essere destinati l’uno per l’altro” che è proprio degli esseri umani [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 91-92]. Eccoci insomma di fronte alla relazione io/tu del classico Personalismo. Ancora più precisamente, per Scheler, la loro relazione consiste nell’“armonica integrazione di valore”, ossia nella capacità di condividere i vissuti dei valori.
    Intanto però, ancora più originariamente, la persona sta in relazione solo con sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 63-67]. Essa è un individuo che, per sé stesso, mai permetterà l’estensione della propria realtà a quella degli altri. Infatti la relazione con il proprio corpo vivo è unicamente solipsistica e non comporta alcuna possibilità di estensione di tale esperienza a quella dell’altro. Ne consegue che non è certo nella persona − come avviene entro la teoria dell’empatia – che vi è la radice di qualunque genere e grado ci co-sentire.
    È esattamente per questo che Scheler ritiene l’unipatia [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 83-93] la radice (elementare, profonda e vitale) di qualunque relazione esistente tre le persone. Per la precisione il nostro pensatore rigetta l’unipatia come spiegazione integrale del co-patire. Infatti il co-sentire o co-patire non possono venire pensati mai come identità di essenza, ma solo nella differenza. Tuttavia egli accorda all’unipatia una notevole importanza di fondo, dato che essa pone un’unità di fondo della Vita solo entro la quale questa differenza può venire superata. Ed in particolare pone in primo piano la valenza metafisico-religiosa di questo complesso di dottrine. Perché secondo lui l’essere destinate l’una all’altra delle persone è teleologica, e quindi esige una Ragione infinita, cioè Dio. Che ha causato l’esistenza delle persone finite mentre le ha pensate (come idee): − “essere così di volta in volta in sé individuato”. Il che comporta quindi una metafisica teistica o al massimo panenteistica ma non panteistica e monistica (spirito super-personale).
    In ogni caso questa concezione del fondamento unipatico del rapporto tra le persone non va in Scheler oltre certi limiti. Ed abbiamo anche già visto perché – l’unipatia riguarda infatti un’unità che sta decisamente al di sotto della coscienza (nel pieno dell’elementare dimensione istintuale-vitale) e quindi fonda la relazione tra le persone ma non ne attinge affatto la realtà ontica.
    E ciò riguarda ancora una volta l’amore. L’amore della persona è infatti per lui del tutto “acosmico” proprio perché esso si svolge nel rapporto assolutamente esclusivo tra individui personali, ciascuna delle quali sta intanto nella sua pienezza ontologica, ossia ha valore unicamente per sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., VI, p. 116-119]. Quindi non tocca né l’universalità né l’unità della Vita (in qualunque modo essa venga concepita). E ciò accade in quanto la persona è amabile solo in quanto radicalmente originario assoluto ontologico, e cioè senza alcuna possibile spiegazione. Ciononostante l’unipatia resta presente qui almeno nella dimensione dell’”umanità” che viene sempre coinvolta nella relazione tra persone. Infatti, nel darsi ad un’altra persona come uguale al proprio Io, la persona si fonda in definitiva sull’uomo come persona (e viceversa) cioè sull’umanità (come avviene nella sempre unipatica filantropia). Insomma qui l’uomo stesso inizia a presentarsi come persona. Il che è provato dal fatto che, entro l’autentica filantropia, non si fa alcuna differenza tra uomo e uomo (né di razza e cultura né tra amico e nemico). Inoltre vi è l’aspetto fondamentale rappresentato dalla necessità del dischiudersi spontaneo (o meno) della persona (cioè la sua libertà) perché si sviluppi l’amore. Il che è tipico del concetto umanistico-cristiano di uomo in quanto persona e non invece dell’umanismo basato sul valore assoluto dell’uomo.
    Tutto il resto riguardante la persona viene detto da Scheler nei temi che abbiamo trattato nelle sezioni precedenti, per cui a tale riguardo non ci resta da dire più nulla. Quello che è certo è comunque che la sua visione del co-patire, essendo incentrata sullo status ontologico della persona, rientra in primo luogo nella visione personalista. Invece la dottrina steiniana dell’empatia rientra unicamente nella teoria della cognizione che venne fondata da Husserl per giustificare la gnoseologia in quanto inter-soggettività, ovvero sapere universale.

Conclusioni.
Il grande sintesi si può dire che, nella vita emozionale della persona, sono per Scheler da considerare alcuni grandi e primari fenomeni: − co-patire (unito al co-sentire), amore-odio e simpatia. Il co-patire (o anche co-sentire) è un fenomeno ontologicamente originario dell’uomo ed ha senza alcun dubbio una valenza etica ed insieme relazionale-sociale. Esso fonda insomma la vita sociale nei suoi aspetti più intensamente etici specie nella forma di una tendenza spontanea alla condivisione con gli altri di qualunque esperienza (e più particolarmente nella condivisione di valori). L’amore-odio sono (emozionalmente) ancora più radicalmente originari del co-patire e per questo sfuggono anche alla stessa dimensione relazionale-sociale. La simpatia infine non è altro che una specie empatia che è però possibile solo nel volontario andare l’uno verso l’altro da parte di persone che altrimenti sarebbero tra loro insuperabilmente separate.
Oltre a ciò tenteremo ora di mettere in evidenza i punti più salienti di tutto quanto abbiamo mostrato finora. Ma innanzitutto, nel cercare di trarre delle conclusioni da tutto quanto abbiamo appena detto circa l’amore, dobbiamo dire che la dottrina scheleriana del co-patire non trova il suo riferimento solo nel Personalismo ma anche in un certo «spiritualismo» nella concezione della persona. E ciò concorda con una delle costatazioni che abbiamo fatto nel nostro già citato saggio sul Personalismo, collocando così Scheler nella corrente più spiritualista del Personalismo stesso. Infatti la radicale originarietà onto-metafisica della persona si giustifica in Scheler considerando quest’ultima appunto in primo luogo come uno spirito. Ed alcune sue specifiche affermazioni esprimono questo con particolare forza, ma ci permettono anche di capire di che natura sia (in termini filosofici) la sua dottrina.
Egli dice infatti che “il puro co-sentire appartiene all’essenza dello spirito umano”, e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”, corrispondente poi a sua volta al “valore dell’altro in generale” [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 87-88]. Quindi esso non si verifica affatto nell’ordinaria esperienza sensibile che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma intanto gli offrono solo oggetti da sviluppare.
A partire da ciò è chiaro che la compartecipazione empatica non è per nulla un atto mentale fondamentale, ma è semmai soltanto la comune costatazione di un valore (al quale segue poi un comportamento pratico), che a sua volta avviene solo una volta che l’uomo venga considerato come spirito. Pertanto alla base di ciò non vi è alcuna operazione di coscienza (nel senso del sentire i propri vissuti come quelli dell’altro). Quindi il vero co-sentire non si basa nemmeno sull’auto-coscienza. Si tratta invece solo dell’esistere, presso l’uomo, di una incoercibile ed essenziale realtà etico-spirituale.
Ecco allora che la quella scheleriana può venire considerata come una dottrina intuitivo-metafisica del co-sentire, e pertanto direttamente affermativa, assoluta e primaria. Essa è quindi del tutto giustificata rispetto alle altre che sono invece tutte deduttive e secondarie. In particolare la dottrina scheleriana del co-patire descrive un fenomeno che parla unicamente l’uomo nella sua essenza di spirito al di fuori di qualunque altra giustificazione (naturalistica, psicologica o filosofico-metafisica che sia).
Abbiamo inoltre visto che la sua dottrina non ci mostra il co-patire nella sua sola dimensione etica ma anche in quella etico-religiosa (in quanto superamento dell’egocentrismo, e quindi via di formazione della persona fino al suo massimo compimento). E indubbiamente ciò rende ancora più superflua quella teoria steiniana dell’empatia che è così artificiosa nel suo intellettualismo.
Ma naturalmente quanto abbiamo osservato rende superflue molte altre teorie del co-patire, e precisamente quelle psicologiche (e soprattutto psico-evolutive) più ancora che quelle filosofiche. Inoltre è assolutamente sorprendente che (nel cogliere il fondamento unipatico del co-patire) Scheler riesca a cogliere perfino lo strato del fenomeno che più si discosta dalla coscienza e quindi dalla noetica, ossia lo strato più vitale-istintuale del co-patire.
Insomma il co-patire appare essere un fenomeno che si spiega soltanto in base a quattro elementi tra loro intimamente congiunti: − 1) la dimensione inevitabilmente etica dell’essere ed agire umani; 2) lo status ontologico specifico che caratterizza la persona umana (differenziandolo da tutti gli altri enti); 3) la natura radicalmente spirituale di quest’ultima; 4) il rientrare pieno dell’intero fenomeno in un’antropologia non solo irrinunciabile ma anche estremamente radicale.
E ci sembra che questo avvicini molto la riflessione scheleriana a quella (altrettanto personalistica) di Berdjaev [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951; Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], il quale vede nell’uomo addirittura l’essere stesso nella sua pienezza, e precisamente un essere perfettamente identico allo Spirito. Con la conseguenza che anche le due concezioni personaliste si lasciano approssimare molto da vicino.
Ma a causa di questo riteniamo che, a fronte di tutto ciò, la pur vaga parvenza psicologica che ha la dottrina steiniana dell’empatia (nonostante la sua forte forma filosofico-gnoseologica) si dissolva completamente, dimostrando in tal modo di non essere riuscita assolutamente a cogliere l’essenza del fenomeno. Del resto abbiamo visto che Scheler respinge nettamente qualunque spiegazione psicologistica del co-sentire, dato che essa è ancora più lontana dalla capacità di cogliere la vera essenza del fenomeno. Non a caso una delle principali obiezioni di Scheler all’empatia è che la sua forma più autentica, cioè il co-sentire, è un fenomeno etico- e metafisico-religioso (cioè il superamento dell’egoismo nel riconoscimento dell’altro quale ulteriore idea-essenza; il che costituisce poi un vero e proprio “cambiamento del cuore”), e non invece un fenomeno di coscienza [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 86]. Quindi esso non è affatto un fenomeno psico-fisiologico (anche se compreso in modo filosofico e peraltro fenomenologico) com’è l’empatia steiniana. Inoltre il pensatore rileva la totale inadeguatezza dell’atto di immedesimazione (in quanto mediazione) per la pienezza del co-sentire [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 1 p. 78-82]. Ma questo è esattamente il presupposto nell’empatia.
Insomma a causa di tutto ciò la nostra personale impressione è che Stein, nel postulare l’empatia (pur nel lodevole tentativo di estendere alla dimensione emozionale il concetto husserliano di inter-soggettività), abbia preso un sostanziale abbaglio. E questo sembra essere accaduto perché, invece di riflettere come Scheler sulla vera empatia, ella l’ha invece assimilata proprio all’inter-soggettività stessa, pretendendo però intanto che essa fosse un fenomeno emozionale ed affettivo. In altre parole la teoria steiniana dell’empatia sembra essere il puro effetto passivo delle elucubrazioni intellettualistico-gnoseologiche (inutilmente complesse) di Husserl, dalle quale Stein si è fatta contagiare giungendo così al travisamento di una materia che invece Scheler spiega perfettamente, chiaramente ed in maniera molto più convincente.
Ecco allora che il co-patire (che intanto può venire denominato in molti modi, tra i quali quello di simpatia e perfino di empatia) appare essere in primo luogo un fenomeno onto-metafisico ed etico riguardante l’uomo in quanto persona ed in quanto spirito. In esso quindi non abbiamo alcun di diritto di cercare l’equivalenza con mere funzioni psicologiche come l’”assunzione di prospettiva altrui”. Né abbiamo alcun diritto di cercare la supposta quanto mitica capacità dell’uomo di entrare misteriosamente in sintonia con i vissuti altrui (fino a trasporsi addirittura nell’intimità dell’altro). Infatti non si tratta di nulla di tutto questo. Si tratta invece di qualcosa di molto più semplice. Si tratta cioè soltanto del fatto che gli uomini sono destinati per natura ad entrare in relazione l’uno con l’altro, e lo sono in quanto persone (ossia enti radicalmente spirituali). Laddove questa disposizione trova la sua massima ed estremistica espressione nell’amore. Ecco allora che in definitiva la concezione scheleriana del co-patire riesce davvero a portare a chiarezza filosofica una concezione che da sempre ha trovato la sua espressione nella Rivelazione e nella dottrina cristiane, ossia nell’insegnamento di Gesù Cristo.
Su questa complessiva base – nonostante siamo appassionati studiosi del pensiero steiniano ed inoltre ne ammiriamo immensamente la figura di donna, pensatrice e religiosa − ci sentiamo di dire che, se davvero vogliamo comprendere cosa si debba intendere per «empatia», dobbiamo rivolgerci al pensiero di Scheler e non a quello di Stein. Del resto il suo libro dedicato all’empatia si inscrive in maniera molto passiva nel pensiero husserliano, e quindi rappresenta un momento della sua riflessione nel quale ancora non si era per nulla manifestata la grande potenza, originalità e profondità di essa. E proprio per questo motivo riteniamo che l’attuale (sedicente) «psichiatria fenomenologica» dovrebbe smettere di prender a modello LE (ed inoltre lo stesso concetto di «empatia») e dovrebbe invece dedicarsi allo studio delle opere di Scheler, e quindi alla sua definizione del co-patire e del co-sentire.

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Introduzione.
Vorremmo partire in questa nostra trattazione chiedendoci come mai Edith Stein, nella sua trattazione dell’uomo come spirito (in ”Potenza ed atto”) (PA) Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 26, i-j p. 380-386], abbia scelto i “Metaphysische Gespräche” (MG) di Hedwig Conrad-Martius [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018] e non invece il testo di Max Scheler che parla di fatto dello stesso argomento, e cioè “La posizione dell’uomo nel cosmo” (PSUC) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 2006]. Ma in verità la risposta a questa domanda può essere immediata e quindi non richiede alcuna investigazione – Stein partiva dall’onto-metafisica tomistico-aristotelica esattamente come la Conrad-Martius (e faceva sue anche le possibili extrapolazioni critiche contro la dottrina evoluzionistica), e quindi non poteva fare altro che definire l’«uomo-quale-spirito» in una maniera simile a quella di Scheler ma anche estremamente diversa. In particolare l’«uomo-quale-spirito veniva da Stein definito come un ente che è specchio immanente della divinità (in maniera in qualche modo simile a Scheler) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 119, p. 160-162, p. 186-191; Max Scheler, Sull’idea di uomo, ibd., 3 p. 72-79] – quindi come ente di fatto umano-divino − ma comunque sulla base di una somiglianza di natura teologica a Dio (filialità) che il pensatore rifiuta decisamente sia sulla base di una definizione molto diversa dello spirito sia anche sulla base di una concezione del tutto diversa della relazione tra uomo e Dio.
Non a caso il testo scheleriano rientra nella fase decisamente non teistica del suo pensiero (sebbene in essa un forte naturalismo si sposi con una forte religiosità ed anche con un non indifferente spiritualismo).
Inoltre Scheler concepì in modo molto diverso da Stein e da Conrad-Martius il rifiuto dell’idea evoluzionistica secondo la quale l’uomo discende dall’animale – sebbene concepisse una forte continuità biologica tra uomo ed animale sulla quale infine si eleva la spiritualità umana come un fenomeno del tutto imprevedibile e trascendente. In lui infatti non compare assolutamente la gerarchia verticale (concepita dalle due pensatrici) esistente tra i tre regni della Natura riguardanti gli esseri viventi (piante, animali e uomo), e che culmina nell’uomo come presunto scopo ultimo dell’intera evoluzione ed anche della creazione stessa (gerarchia di chiara derivazione tomistico-aristotelica). Va precisato che però Stein aveva già esposto tempo prima questa sua visione soprattutto in Der Aufbau der menschlichen Person (AMP).
Scheler non concepisce insomma affatto una linea evolutiva verticale che rechi all’uomo come ente più elevato, ma al contrario lo considera (in concordanza con Nietzsche) una sorta di finale e deviante ente “malato” e quindi difettivo, cioè qualcosa che si contrappone alla ben maggiore compiutezza e perfezione degli strati istintuali vitali (presenti nella pianta e nell’animale) che stanno sotto di esso [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., 2 p. 54-72]- In altre parole l’uomo è per lui da considerare uno spirito in un senso e per motivi molto diversi da quello della suprema elevatezza ontologica, e cioè in forza di una sorta di suo deragliamento dalla ben più plausibile condizione naturale. Sebbene poi alla fine i caratteri dell’«uomo-quale-spirito» da lui descritti siano in gran parte simili a quelli descritti da Stein.
Va precisato anche che la convergente critica all’evoluzionismo di Stein e Conrad-Martius emerge anche in un’altra opera di quest’ultima [Hedwig Conrad Martius, Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos, Otto Müller, Salzburg-Leipzig 1938]. Di tutto questo abbiamo comunque parlato in una serie di nostri scritti [Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < http://cieloeterra-wordpress.com/2022/27/10/vincenzo-nuzzo-levoluzione-nel-pensiero-di- hedwig-conrad-martius-e-edith-stein>; Vincenzo Nuzzo, La fenomenologia evoluzionistica come dinamica dell’essere e formazione vitale. Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius a confronto, Amazon, Kindle (in via di pubblicazione)].
Tutto questo ha un riflesso molto diretto sul Personalismo nel quale si inscrivono tanto il pensiero steiniano quanto quello scheleriano. Perché per Stein «uomo-quale-spirito» è una persona per due motivi filosofici abbastanza diversi (che lei fece convergere nel tentativo di conciliare Tommaso ed Husserl): − 1) in quanto è una sostanza metafisica quale anima ed anche spirito (e ciò in linea ancora una volta con l’onto-metafisica tradizionale); 2) in quanto è un Io spirituale auto-determinatosi nel contesto dell’auto-coscienza così come previsto dalla Fenomenologia husserliana e cioè sulla falsariga dell’atto di riduzione fenomenologica (ossia di fatto in quanto Io esistente trasformatosi in Io puro grazie a quel distacco teoretico la cui valenza era primariamente gnoseologica). Per Scheler invece – in base ad una teoria filosofica molto meno complessa di quella di Husserl, e che peraltro rifiutava recisamente la dottrina della riduzione fenomenologica [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 153-159] – «uomo-quale-spirito» è persona in quanto costituisce un centro di atti posto totalmente fuori del mondo sensibile, e quindi è radicalmente trascendente verso di questo nel contesto di un distacco che è “ascesi” e non invece distanza teoretica dalla valenza gnoseologica. Lo è insomma per motivi ontologici profondamente etici.
Quella appena fatta è però appena una premessa chiarificatoria, e non invece l’obbiettivo e il contenuto primario della nostra ricerca. Comunque è obiettivo secondario della nostra ricerca anche l’analisi di alcuni aspetti delle relazioni filosofiche tra Scheler e Stein. Per cui nelle conclusioni faremo delle precisazioni su questo aspetto. In ogni caso l’obiettivo ed il contenuto primario della nostra ricerca consistono nei risvolti specificamente psicologici che compaiono nella ricerca di Scheler sull’«uomo-quale-spirito». La sua intera concezione di tale entità si basa infatti non sull’onto-metafisica ma invece sua una serie di dati che egli desume dalla ricerca scientifico-empirica sia di tipo evoluzionistico che di tipo psicologico, ed inoltre sulla base di una conoscenza diretta e approfondita dell’anatomia del sistema nervoso e delle sue funzioni. Scheler infatti prima che filosofo fu medico, ossia si laureò in Medicina. Di certo, a partire da questa base, egli perviene in PSUC a conclusioni squisitamente metafisiche (che definiscono in modo ultimo l’«uomo-quale-spirito»), ma la base delle sue argomentazioni non è certamente metafisica.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi a quali conclusioni (circa l’«uomo-quale-spirito») Stein sarebbe pervenuta se si fosse basata sull’opera di Scheler e non invece su quella di Conrad-Martius (ed anche di Husserl). Ma questa questione perde ogni senso dato che il campo di ricerca da lei scelto (dopo la Fenomenologia) fu chiaramente quello dell’onto-metafisica medievale e cristiana.
In ogni caso, dato che abbiamo recentemente scritto un saggio sulla “Psicologia Sacra” (PS) [Vincenzo Nuzzo, Psicologia Sacra, Victrix 2023 (in via di pubblicazione)] vorremmo cercare di comprendere quali contributi (positivi o negativi che siano) la psicologia filosofica di Scheler potrebbe (o meno) offrire ad essa. Ma a questo punto va notato che, siccome la definizione scheleriana di «uomo-quale-spirito» si riassume nella persona umana, i risultati di questa ricerca potrebbero avere una ricaduta anche su quella concezione steiniana della persona che senz’altro si lascia inquadrare, molto più di quella scheleriana, proprio in una PS.
Peraltro in questa opera avevamo parlato espressamente di una psicologia filosofica (ed avevamo anche citato Scheler per molti aspetti di quest’ultima), e tuttavia avevamo trascurato il testo PSUC visto che ancora non conoscevamo. Eppure si può dire che questo testo va considerato come uno dei maggior contributi del XX secolo alla psicologia filosofica.
Questa investigazione ha quindi anche lo scopo di colmare questa lacuna.

  1. Cosa sono la psiche e lo psichismo secondo Scheler?
    In questa sezione intendiamo esaminare con quali specifici contenuti (almeno in PSUC) Scheler si presenta come psicologo filosofico. Infatti non è possibile essere tale senza una definizione della psiche e dello psichismo. Vedremo però anche che tale definizione è piuttosto difficile da rintracciare in Scheler. E ciò ha poi conseguenze che in seguito esamineremo.
    A questa domanda risponde comunque quasi immediatamente un articolo nel quale si sostiene che per Scheler il soggetto umano, non essendo affatto un “Io”, è invece in verità luogo di “atti” e non di funzioni [Sergio Sánchez Migallón, El sujeto humano como objeto de la Psicología: las funciones psíquicas en Max Scheler y en Carl Stumpf, Revista de Filosofia, 30 (2), 215-228]. Pertanto è chiaro che la più autentica natura dell’«uomo-quale-spirito» non è affatto quella di psiche o psichismo. E di questo potremo trovare molti riscontri in PSUC.
    Ma questo significa che esso non è nemmeno la realtà egoico-coscienziale descritta da Stein sulla base di Husserl. Il che significa che la teoria husserliana dell’Io spirituale è di natura molto più psicologica di quanto vuole far credere. E questa cattiva interpretazione viene senz’altro corretta da Scheler.
    In generale si può dire che in PSUC Scheler considera la psiche quasi unicamente come fenomeno profondo, elementare e basico, che è strettamente connesso agli impulsi vitali ed istinti, ossia a quella che egli chiama “affettività” (dimensione con la quale, però, come vedremo, non va inteso né l’emozione né il sentimento). Essa si trova quindi senz’altro al di sotto dello strato ontico corrispondente nell’uomo allo spirito. Che però (come vedremo tra poco) rappresenta uno psichismo compiuto e superiore in quanto luogo di «vissuti».
    Almeno in questo testo non è possibile però comprendere che posto e livello Scheler assegni alla mente nella compagine umana, se la identifichi o meno con la psiche e/o con lo psichismo, e quindi se egli la consideri più superficiale ed esteriore rispetto a questi ultimi. Extrapolando il suo pensiero si potrebbe dire che egli la identifica con gli aspetti più spirituali dell’essere ed agire umani. Ma vedremo che poi questa interpretazione viene alla fine a cadere.
    E più o meno lo stesso si può dire per l’anima, che egli nomina raramente (a parte alcuni accenni, tra i quali diversi dispregiativi) ed alla cui esistenza egli non sembra attribuire né valore né compito nè senso nel contesto della sua identificazione del centro umano come lo spirito.
    Al massimo quindi si potrebbe parlare della sua postulazione di un’«anima spirituale» − così come quella concepita anche da Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9-11 p. 360-396; Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio X, ESGA vol. 23, X, p. 259-262] −, ossia un’entità che ha un valore solo in quanto è totalmente riducibile allo spirito.
    Nel complesso, dunque – in relazione alle suddivisioni che abbiamo fatto in PS – si può dire che anche Scheler (come la maggior parte della psicologia ordinaria moderna) intende la psiche come profonda e la mente come solo superficiale. Tuttavia non solo questa divisione non ha in lui alcun correlato anatomico-fisiologico né metafisico (e quindi non indica affatto un’esteriorità); ma inoltre il termine «superficiale» andrebbe semmai sostituito da quello di «emergente», dato che lo spirito umano in qualche modo emerge dai fenomeni vitali ergendosi su di essi. Ma questa sua emergenza non equivale affatto né al superficiale né all’esteriore. In altre parole, insomma, la mente umana sarebbe qualcosa che si eleva sullo psichismo profondo, in qualche modo anche trascendendolo ma comunque restando con esso in intima connessione.
    Quello che è certo è che il suo punto di riferimento basico per una psicologia filosofica è stato soprattutto Bergson, del cui pensiero egli parla molto diffusamente, sebbene non risparmi anche critiche al pensatore francese [Max Scheler, Tentativi per una filosofia della vita, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 94-114].
    In questa trattazione egli si basa come sulle opere bergsoniane “Essai sur le donnée immédiates de la conscience” e “Matière e memoire”. In effetti (almeno per quanto dice Scheler) sulle prime è quasi impossibile dire cosa Bergson intenda per psiche e psichismo – dato che egli le condiziona ad un primario atto filosofico di relazione tra uomo e mondo. Egli insomma intende l’atto psichico in termini davvero primariamente filosofici, e quindi salta a piè pari qualunque anatomo-fisiologismo nella concezione della psiche (specie quello empiristico e proprio della psicologia ordinaria). In grande sintesi si tratta del fatto che per lui l’ordinaria percezione avviene soltanto nel contesto di un atto psichico che è sostanzialmente filosofico ed è costituito da un automatismo (assolutamente non pensante) esattamente equivalente all’intuizione delle cose come un “dato puro” che è poi antecedente a qualunque esperienza. Questo automatismo-intuizione precede quindi la percezione, la quale per Bergson rientra già nella sfera dell’analisi logica. Potremmo quindi considerare quello qui descritto come un atto psico-filosofico che senz’altro è pre-psicologico, nel senso che precede l’intera anatomo-fisiologia della percezione, e quindi anche la trascende.
    Per suo mezzo comunque sarebbe possibile, secondo il filosofo francese, per la via di una tensione spirituale che ricostruisce la totalità del mondo rompendo così tutti gli schemi divisori istituiti dalla psicologia nel fare appello alla mera fisiologia della percezione (e poi del giudizio). In altre parole, per mezzo di questo atto filosofico, il mondo non viene colto come frazionato in cose percepite (così come invece ha postulato l’empirismo del tutto di concerto con l’ordinaria psicologia). Ma in definitiva si tratta di ben più che del cogliere la totalità delle cose. Infatti, per mezzo di questo atto, Bergson pensa che la psiche è capace di cogliere la vita stessa (rescindendola dal mero fenomeno biologico) riuscendo in tal modo a cogliere addirittura l’essenza delle cose. La dimensione cognitiva comunque non manca. Essa infatti si presenta dopo con la memoria, entro la quale emerge la dimensione del tempo.
    Ebbene tutto questo corrisponde per Scheler ad uno dei principali postulati dell’intera Fenomenologia, ossia alla primarietà del coglimento della “datità dell’essere” come primaria rispetto a qualunque giudizio. Il che pone di nuovo in primo piano il coglimento dell’essenza delle cose, ossia l’intuizione eidetica. E questo pone in primo piano quello che è il dato fondamentale della vita psichica secondo Scheler ossia i vissuti, o meglio il «flusso dei vissuti». Ed è così che ci avviciniamo alla definizione di ciò che per lui è psiche e/o psichismo (almeno nella sua forma più elevata). Infatti in tal modo emerge quell’”uomo spirituale” – in quanto continuità indivisa e indivisibile (flusso dei vissuti) – che è dunque senza tempo in quanto consecuzione. In esso, cioè, nulla di attuale scaturisce dal passato (come avviene invece nella causalità meccanica alla quale la psicologia ordinaria si subordina mediante la fisiologia della percezione). E questo è in profonda contraddizione con le leggi della natura dato che tutto è solo creatività.
    Ed ecco dunque cos’è e cosa non è la psiche per Scheler. La psicologia ordinaria la considera infatti come “sostanza semplice” che starebbe sopra i propri vissuti, mentre invece essa «è» i suoi stessi vissuti, ossia è dinamismo instabile. E tutto questo ci riporta dunque (Bergson) all’intuizione come aspetto fondamentale (“compito fondamentale”) della vita psichica. Essa incarna infatti quell’unità dell’anima entro la quale i vissuti non sono affatto singoli, e quindi elementi oggettivi spaziali ricavabili per induzione, cioè “immagini e simboli spaziali applicati alla vita psichica”. Viene dunque esclusa qualunque costituzione della psiche dal basso. Ebbene questa creatività corrisponde alla coscienza individuale come luogo di vissuti dinamici, e come tale senza alcuna relazione con le leggi della natura – essa è qualcosa di sommamente autonomo rispetto a qualunque “immagine ontologica della psiche”. Tuttavia questa definizione della psiche collide fortemente con ciò che vedremo nella prossima sezione, e cioè il fenomeno della dipendenza di tutto questo da quegli strati profondi della psiche che contengono solo impulsi vitali ed istinti.
    Dunque, anche se questa è l’idea che Scheler ci da dello psichismo nella sua pienezza e compiutezza, esso corrisponde intanto interamente alla dimensione spirituale dell’uomo, e quindi è senz’altro qualcosa che va molto oltre qualunque concezione della psiche come anatomo-fisiologia e come energia, ossia come profondità. In qualche modo si potrebbe però dire che ciò corrisponde probabilmente a quanto il pensatore intende come mente. Ma anche quest’ultima viene intesa al di fuori degli schemi tanto della psicologia ordinaria che di quella filosofica. La dimensione dei vissuti appare infatti assolutamente primaria rispetto a tutti gli aspetti cognitivi che usualmente vengono collocati nella mente (giudizio etc).
    Tuttavia, come abbiamo appena detto, questa concezione compiuta della psiche viene considerata da Scheler in continuità con una dimensione molto più inferiore, che è caratterizzata dall’impulso vitale e dall’istinto. Quest’ultima però non può venire compresa se non entro il suo sforzo di definire cos’è lo spirito e dove esso di collochi entro la compagine umana. Per comprendere questa definizione dobbiamo quindi integrare l’intendimento scheleriano della psiche e/o dello psichismo con la sua concezione dello spirito.
    E questo va quindi trattato in una seconda sezione.
  2. Psiche e/o psichismo e spirito.
    Per questo scopo dobbiamo rivolgerci al nucleo della trattazione da lui fatta in PSUC e cioè alla parte del testo che da il titolo al libro [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 117-191]. Scheler dice subito che il problema principale è qui la “concezione essenziale dell’uomo”, ossia quell’idea di uomo che egli aveva trattato nella prima parte del suo libro nel tentativo di rifondare un’antropologia filosofica [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 51-79]. E ciò corrisponde ancora una volta esattamente allo stesso sforzo che fece Stein in AMP. Proprio qui comunque egli (in maniera fortemente divergente rispetto a Stein) aveva affermato che innanzitutto l’uomo non è affatto il culmine né dell’evoluzione né della creazione né è in alcun modo l’immediato corrispettivo di Dio nel mondo. Infatti, nel pensare questo, egli sottolinea che si dimenticano gli intensissimi legami che l’uomo intrattiene con gli strati più bassi dell’essere mondano, ossia con la Vita. E questi ultimi costituiscono quindi quegli impulsi vitali e istintuali che sono intimamente legati allo psichismo umano, e quindi fanno parte integrante di esso. Ecco allora che semmai l’uomo dovrebbe venire considerato come una sorta di forma di passaggio (o confine) sul cammino che divide Dio dalla Vita. Esso, dunque, è sì un intermedio cosmico tra Dio e mondo-vita, ma lo è in senso solo difettivo. Intanto comunque, in quanto evidente prodotto della biologia animale, esso va considerato tutt’altro che un vertice perfetto ma invece semmai un pessimo “surrogato” di quella perfezione che la Vita possiede soprattutto in termini di forza e potenza. Ecco dunque la definizione dell’uomo come “animale malato”. Intanto proprio su questa base si è preteso invano secondo lui di fondare l’unità dell’”homo naturalis” sulla sua dimensione animica (a sua volta quale diretta emanazione di Dio).
    Ma invece a suo avviso (in termini strettamente biologici e quindi sobri ed autentici) l’uomo era, è e resta solo animale. E quindi tutte quelle sue caratteristiche superiori (che sembrano di valore in quanto elevate, come ad esempio l’intelletto) non sono altro che il frutto di un fenomeno biologicamente negativo, ossia il suo mancato adattamento all’ambiente.
    Tuttavia il frutto di questo fenomeno negativo è stato comunque qualcosa di positivo, ossia la dimensione storica dell’uomo, e quindi la cultura e civiltà. Ed è pertanto solo qui che si può ritrovare un’unità dell’uomo (non certo invece sul piano dell’uomo naturale, a sua volta connesso all’anima). Inoltre è solo qui che si può rintracciare l’autentica relazione che esiste tra l’uomo e Dio, e cioè sul piano della sua somiglianza a Dio come “Persona infinita e perfetta”. L’unità dell’uomo è concepibile quindi solo come personalistica ed umano-divina; affatto invece come naturalistica. L’unità dell’uomo è dunque unicamente un fatto religioso; e quindi di natura storico-culturale e non naturale. Ecco emergere anche uno dei tratti fondamentali del Personalismo di Scheler, affatto fondato sulla concezione metafisica della sostanza animica. Ma di questo non parleremo in questa indagine.
    E proprio qui che possiamo intendere meglio il fatto che Scheler intende lo psichismo come profondo anche in senso impersonale, e cioè come quel “fenomeno psichico” che la Vita è di per sé; specie in quanto assolutamente fondamentale capacità autonoma di movimento, ossia, diremmo, «se-movenza». E questo è lo psichismo infra-umano − e quindi anche infra-personale o infra-individuale, ossia di fatto collettivo – che sta alla base degli aspetti dello psichismo umano più coincidenti con lo spirito (e quindi forse anche con la mente). Anzi essi ne rappresentano la dimensione energetica, la forza, la potenza, ossia ciò senza cui lo spirito sarebbe condannato ad una fatale impotenza. Si tratta insomma di quella dimensione psico-energetica (coincidente in qualche modo con le famose «potenze animiche», o anche facoltà mentali) che la metafisica (inclusa quella steiniana) attribuiva all’anima. Non solo, ma rispetto a quest’ultima concezione, tale dimensione è anche mono-dimensionale, ossia è caratterizzata dalla pura e prepotente “affettività”, la quale a sua volta costituisce un unico psichismo che verticalmente unisce piante, animali e uomo.
    È proprio su questa base che Scheler ritiene di potersi dedicare alla descrizione di una gerarchia ascendente di forme della vita psichica, che in qualche modo corrisponde (almeno in parte) a quella descritta anche da Stein in AMP, e che quindi ascende da pianta ed animale fino all’uomo. Tuttavia la gerarchia scheleriana differisce molto da quella steiniana. Innanzitutto perché i suoi vari strati non corrispondono affatto a quelli dell’anima secondo la sua classica tripartizione platonica – anima vegetativa (pianta), anima appetitiva (animale), anima razionale (uomo) −, e quindi anche a quelli che sono sempre stati considerati anche gli strati sovrapposti dell’anima umana stessa (e cioè in qualche modo anche della mente considerata come anima, come avveniva nell’antichità). Inoltre l’uomo (ed il tipo di anima che gli corrisponde) non rappresenta per Scheler affatto il fine e livello più alto di questo movimento verticale secondo un giudizio di valore.
    Infine la gerarchia stessa non segue la linea verticale nemmeno secondo una gradazione ascendente di valore e pienezza dello psichismo, dato che (come abbiamo già accennato) per Scheler i livelli più apprezzabili ed autentici dello psichismo sono quelli inferiori e non quelli superiori. Abbiamo visto infatti che (almeno biologicamente) l’uomo di eleva su di essi soltanto come un’”animale malato”. Di conseguenza, rispetto a quanto abbiamo detto nella sezione precedente, possiamo dire che anche la mente si distacca per Scheler nello stesso modo negativo dallo psichismo profondo. Essa, dunque, anche ammesso che è esista, non è altro che una degenerazione dello psichismo profondo.
    Dato che la descrizione scheleriana di questa gerarchia è estremamente dettagliata (e ricca anche di dati sperimentali scientifico empirici ed inoltre di localizzazioni anatomico-fisiologiche dei vari elementi), non crediamo che sia questa la sede per riportarla integralmente. Per questo quindi rimandiamo il lettore al libro. Ci limiteremo quindi ad evidenziare solo alcuni aspetti più rilevanti di queste forme ascendenti di psichismo ed alla fine ci soffermeremo soprattutto sul livello umano in quanto del tutto equivalente alla dimensione spirituale.
    In particolare, mentre in tutti gli animali vi è un “vita delle tendenze” (ossia azione), nella pianta c’è appena un indifferenziato impulso di crescita e riproduzione, che a sua volta rientra nell’affettività pura ed elementare. Abbiamo visto però che questa affettività si ritrova a tutti i livelli crescenti della vita psichica, e quindi ne rappresenta il suo aspetto davvero più profondo ed anche più generale. Scheler precisa che si tratta dell’“unità metafisica della vita” – realtà indifferenziata dalla quale possono nascere tutte le forme.
    Ed a questo corrisponde poi tutta una serie di difettività anatomo-fisiologiche dello psichismo vegetale: − totale passività, generalizzazione a tutto l’organismo dello stimolo ambientale (con assenza di qualunque centralizzazione ed autonomia delle funzioni parziali, e quindi assenza di un sistema nervoso), incapacità totale di adattamento all’ambiente, assenza di individuazione in quanto circoscrizione del proprio essere.
    Nel compensare tutte queste difettività (con caratteristiche del tutto opposte) l’animale si caratterizza sostanzialmente per l’istinto, che è quindi attività ed adattamento per definizione. Ed è ovvio che qui cominciano a comparire sia la centralizzazione della risposta allo stimolo (con la comparsa di un sistema nervoso) sia anche una forma iniziale di individuazione (sebbene sempre riassorbita nell’azione tipica della specie). Il discorso di Scheler sull’istinto è comunque molto complesso (ed anche molto illuminante specie rispetto alla dimensione del comportamento), per cui non lo riporteremo. Va solo sottolineato che, nel suo rapporto con l’ambiente (ed in maniera completamente diversa dall’essere umano), l’animale sperimenta in esso unicamente dei “centri di resistenza” alle sue tendenze, e quindi mai dei veri e propri oggetti. Per questo esso è un “centro biologico” ma in alcun modo un centro gnoseologico, ossia un ente capace di conoscenza.
    Tuttavia, restando sempre pienamente nel mondo animale, la primitività dell’istinto viene superata in un colpo dallo psichismo caratterizzato dall’associazione (“principio associativo”), ossia la capacità dell’animale di associare lo stimolo ad una determinata situazione (traendo così da questo conseguenze cruciali per l’adattamento all’ambiente). Con esso compaiono infatti prestazioni psichiche ben superiori – come emozione, sentimenti ed affetti.
    Segue poi il livello dello psichismo che è caratterizzato dall’”intelligenza pratica” e che è in comune tra uomini ed animali. Con esso l’associazione fa un deciso salto di qualità per l’intervento decisivo della memoria, e si trasforma quindi in capacità di scelta, e cioè in un comportamento differenziato secondo situazioni sempre nuove. E così lo psichismo fa un vertiginoso salto di qualità, dato che comincia a delinearsi “la comprensione di uno stato di cose” – atto psichico nel quale l’esperienza collabora ormai già con la rappresentazione. Insomma questa è davvero una prima forma di intelligenza, ed è presente anche negli animali vertebrati di livello più alto.
    Siamo ormai insomma molto prossimi allo psichismo umano, il quale si delinea, secondo Scheler, con la capacità di “ideazione”. E qui veniamo davvero al dunque perché la dimensione spirituale (e quindi forse quella mentale) è stata in tal modo già raggiunta. Scheler precisa però che non si tratta affatto di un incremento qualitativo dello psichismo precedente. Si tratta invece di un vero e proprio salto, con il quale il decorso ascensivo dello psichismo conosce un’interruzione. Perché ciò che ne nasce è un “centro di atti” che è radicalmente diverso da tutti i “centri di vita” che lo psichismo aveva configurato fino a questo momento. Si tratta quindi di una forma di psichismo che trascende tutte quelle antecedenti, nel senso che esso si colloca “fuori” dallo stesso decorso verticale ascendente delle forme di psichismo, ponendosi quindi in quel “fondamento ultimo” dell’essere nel quale poi rientra la stessa evoluzione. Con ciò si è ormai delineato lo spirito stesso, che assume poi la forma ontica della persona umana. Ed in termini specificamente psichici ciò corrisponde alla ragione (secondo la tradizione greca). Possiamo quindi dire che in qualche modo per Scheler la mente coincide con la ragione.
    Solo che per Scheler si tratta di molto più che ragione. Si tratta insomma propriamente di un insieme di intuizioni e rappresentazioni elevate ad oggetto (e proprio questo è la capacità di “ideazione”). Il che si basa sul fatto che – essendosi ormai completamente emancipato dall’”organico” – l’essere umano non è più sottomesso all’ambiente ma ha invece ormai un “suo mondo”, e così è capace di trasformare in “oggetti” quelli che per l’animale erano invece appena centri di resistenza. Esso è dunque capace ormai di conoscenza ed ancor più di comprensione. L’ideazione gli permette infatti di cogliere l’essenza stessa delle cose, ossia le “strutture eidetiche del mondo”. E con ciò quello psichismo che nell’animale era appena “segnalazione” interiore dei suoi contenuti sensoriali, si trasforma nell’uomo in riflessione. Che è poi ripiegamento” e “centralizzazione” della propria esistenza. Il che significa che l’essere umano non solo è capace di oggettivare i centri di resistenza ambientali in cose, ma è anche capace di oggettivare sé stesso come esistente. Insomma è capace di auto-conoscenza. Ecco quindi l’insorgere di un’”ipseità” che è radicalmente superiore a tutte quelle antecedenti (quella dei corpi inorganici, delle piante ed animali).
    Su questa base Scheler descrive poi tutta una serie di concetti connessi a questo superiore assetto psichico. Non ci soffermeremo però su di essi, limitandoci a ricordare solo la capacità di concepire il concetto di “sostanza” (che è quindi affatto così regressivo e difettivo come l’empirismo aveva voluto far credere) e soprattutto (in relazione all’assolutamente primaria dimensione della realtà spazio-temporale) il concetto di spazio in quanto “mondo” ed in quanto mondo esteriore ad esso.
    E quindi caratteristica tipica dell’uomo è quella di concepirsi come esistente immerso in quest’ultimo, e quindi anche come parte dell’universo. Si tratta insomma di quel «mondo fuori di noi» che anche Stein era giunta a concepire come indubitabile contro le aspettative di qualunque idealismo (cosa che la condusse poi ad una visione realista a sua volta in linea con la tradizionale onto-metafisica). E qui ci ritroviamo sempre nel contesto di quell’”Excursus sull’idealismo trascendentale” (luogo di svolta del suo pensiero dall’idealismo husserliano al realismo), in prossimità del quale ella (basandosi sui MG di Conrad-Martius) aveva definito l’uomo come spirito.
    Qui però bisogna considerare la riflessione che Scheler fa sulla moderna presa di posizione filosofica corrispondente a queste fondamentali intuizioni umane. Presa di posizione che aveva preso le sue mosse con Cartesio ed era culminata nella Fenomenogia husserliana. Si tratta insomma di quel “no” opposto al mondo puramente sensibile (cioè organico) che poi consiste nell’applicazione della sua «messa tra parentesi», ossia quella «epoché» che Husserl aveva posto come metodo (di purificazione della conoscenza) rifacendosi a Cartesio nelle sue “Meditazioni cartesiane”. Per Scheler si tratta però di qualcosa di molto più radicalmente ontologico che non invece superficialmente gnoseologico. Il “no” opposto al mondo, infatti, non è per lui affatto il frutto di un “ragionamento”, e quindi non è affatto una “sospensione di giudizio”. È invece un’“impressione interiore di una resistenza” che viene sperimentata anche già dal grado elementare della vita psichica, ossia dall’«impulso affettivo», e quindi dal centro di tendenze che esiste perfino nel sonno ossia nell’incoscienza. Ecco allora che questa impressione del mondo come intollerabile resistenza precede comunque ogni coscienza, rappresentazione e percezione. Ne risulta dunque che dietro la percezione non c’è affatto la coscienza, ma c’è invece il nostro impulso vitale.
    Questa posizione era stata espressa da Scheler anche nel suo saggio sulla questione idealismo/realismo [Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962], con la quale egli aveva sottratto la presa di posizione fenomenologica a qualunque ipoteca idealistica nel sostenere soprattutto che l’oggetto autentico è e resta quello reale ed esteriore e non invece l’«oggetto di coscienza»; ottenuto per mezzo del “no” («epoché») come messa fuori gioco di qualunque immersione ingenua nel mondo sensibile. L’oggetto insomma non è affatto un “Gegenstand” che emerga soltanto in relazione alla coscienza sveglia. È invece qualcosa che esiste del tutto indipendentemente da quest’ultima.
    Ma in tal modo siamo anche di fronte ad un elemento cruciale della concezione scheleriana dello psichismo. Infatti perfino il così sofisticato atto di trascendenza del mondo nell’ideazione si rivela stare in continuità con un’affettività fondamentale (costantemente presente a tutti i livelli della gerarchia della vita psichica) che costituisce quindi lo psichismo più fondamentale, ossia quello realmente profondo. In altre parole di esso l’uomo non si libera mai, nemmeno ai livelli così alti del suo psichismo mentale-spirituale. Esso, insomma, è lo psichismo reale ed autentico che accompagna perfino lo stato psichico proprio dell’«uomo-in-quanto-spirito».
    Infatti, nel negare la veridicità di tutte tradizionali concezioni dello spirito – quella negativa e moderno-filosofica appena discussa e quella antica e greca che attribuiva allo spirito la massima potenza creativa −, Scheler afferma che lo spirito umano è in verità un “insieme di intenzioni, per sua natura impotente”. Esso è insomma la debolezza in persona. E quindi non avrebbe mai alcuna potenza e forza se esse non venissero conferite ad esso dal quello psichismo profondo che è poi comune a tutti gli esseri viventi, e meno che mai all’«uomo-in-quanto-spirito», ossia all’uomo come mente.
    E uno dei maggiori responsabili della mancata comprensione di questo è per lui proprio quel Cartesio al quale si era riferito Husserl in maniera decisiva nel concepire lo spirito umano come negazione di qualunque forma di mondanità ed anche di psichismo inferiore (quel mondo “hyletico” che egli aveva deplorato come decisamente non all’altezza dell’uomo) [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, III, I, 85. p. 213-217]. Nel distinguere res cogitans e res extensa Cartesio aveva infatti istituito un dualismo nel contesto del quale era stato di fatto negato lo psichismo agli enti inferiori (piante ed animali). E quindi era stato negato lo psichismo stesso nella sua maggiore autenticità.
    E a tale proposito – riferendosi espressamente alle sue conoscenze mediche di anatomo-fisiologia del sistema nervoso – egli afferma che lo psichismo più autentico si ritrova ad un livello molto primitivo e profondo del cervello ossia nel tronco encefalico e nelle strutture della base cerebrale come il talamo (corrispondenti poi pienamente all’affettività). La coscienza, invece, corrispondente al livello corticale, rappresenta uno psichismo decisamente poco autentico e poco pieno, ossia del tutto marginale e secondario. Insomma non è affatto nella coscienza che consiste il vero psichismo.
    Ed ecco allora che possiamo supporre che perfino la mente rientri per lui in questo giudizio di inconsistenza ontica. Il che significa che probabilmente non è vero quanto avevamo supposto finora, e cioè che la dimensione spirituale corrisponde alla mente stessa. Essa è invece semmai qualcosa di radicalmente diverso dallo psichismo. L’autentico psichismo è per lui invece “fisiologico” e quindi corporeo. Per cui non esiste alcuna differenza tra mente e corpo.
    Su questa base egli si dedica poi alla finale descrizione di un’antropologia filosofica entro la quale compare come protagonista assoluto solo l’«uomo-in-quanto-spirito». Non crediamo necessario discutere questa riflessione se non per due aspetti fondamentali. In essa Scheler ci mostra infatti che l’«uomo-in-quanto-spirito» rappresenta una realtà postarsi decisamente fuori del mondo, e quindi è decisamente metafisica ed inoltre anche religiosa. Infatti qui egli esamina anche il rapporto che vi è tra uomo e Dio. Inoltre proprio per questo l’«uomo-in-quanto-spirito» coglie sé stesso come esistente ed affatto invece come “Io”.
    Questo significa quindi che la realtà dell’”Io” (così come quella di una coscienza che non è ancora auto-coscienza, come avviene solo nell’«uomo-in-quanto-spirito») rientra senz’altro nella dimensione psichica e si pone decisamente fuori di quella spirituale. Il che senz’altro esautora tutte le riflessioni di Husserl e Stein sulla natura egoico-cosciente del cosiddetto “Io spirituale” [Edmund Husserl, Idee…cit., I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541; Edith Stein, Potenza…cit., V-VI p. 147-386; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365].

Conclusioni.
Max Scheler dimostra senz’altro con questo libro di essere (insieme a Bergson) uno dei principali psicologi filosofici del nostro tempo. Ed a questo contribuisce senz’altro in modo decisivo l’abbondanza delle sue conoscenze nel campo della scienza empirico-sperimentale ed anche dell’anatomia e fisiologia della psiche. Il che è stato certamente decisivo per un approccio alla psiche che nelle sue basi non è assolutamente metafisico. Quindi per lui la psiche è tutto tranne che una sostanza metafisica. Ed abbiamo visto che essa non coincide nemmeno con l’anima, per cui diverge decisamente dall’approccio metafisico-tradizionale alla psiche stessa.
Non c’è dubbio, dunque, che questo genere di approccio psicologico-filosofico non potrebbe avere nulla a che fare con una PS.
Esso è però sicuramente invece metafisico ed anche religioso il suo approccio all’«uomo-in-quanto-spirito». E questo intendimento potrebbe coincidere con una PS. Ma intanto abbiamo visto che quest’ultimo si pone decisamente fuori di qualunque definizione della psiche.
Ora è intuitivo ritenere che questa realtà possa corrisponde alla mente, e per qualche suo tratto sembra anche esserlo. Ma l’ultimo capitolo del libro di Scheler [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 186-191] – dedicato alla definizione ultimativa dell’antropologia filosofica e quindi dell’«uomo-in-quanto-spirito» − non lascia alcun dubbio in tal senso. Infatti sembra che per lui la dimensione spirituale umana sia molto più che mente, e ciò in quanto essa si pone decisamente fuori dell’essere. Essa però (paradossalmente) resta in continuità con i livelli più profondi ed autentici dello psichismo (ossia quelli più vitali, corporei e biologici, che poi a loro volta corrispondono pienamente alla Vita nella sua prorompenza. Più precisamente si tratta dell’affettività come incoercibile tendenza degli esseri viventi a mantenere una relazione vitale con l’ambiente che li circonda, ossia ad investirla con la propria presenza.
Dunque di nuovo, a causa di questo, la psicologia di Scheler appare porsi del tutto fuori di una PS.
Ebbene questa crediamo che possa essere la chiave di volta dell’intera questione della psicologia filosofica di Scheler. Perciò, sulla sua base, vorremmo ora tentare di delineare una struttura generale dello psichismo così come essa emerge dalla sua riflessione. Ed in questo nuovamente ci riferiamo alle suddivisioni strutturali che abbiamo fatto in PS.
Scheler concepisce lo psichismo sostanzialmente come profondo e peraltro anche universale. Per cui la sua dottrina potrebbe ben venire considerata una sorta di panpsichismo [Joanna Leidenhag, “Unity between God and mind? A study in the relationship between panpsychism and pantheism”, Sophia 58 (4) 2019: 543-561], sebbene limitato alla realtà terrena e non esteso invece a tutto l’universo. Il tratto fondamentale ed essenziale di questo psichismo profondo è l’affettività. Ed esso si mantiene immutato nel corso dello sviluppo verticale delle varie forme di psichismo dalla pianta all’uomo – nonostante i caratteri specifici che lo psichismo assume nel corso di questo sviluppo. Se dunque volessimo dire in cosa consiste la psiche profonda per Scheler, dovremmo dire che essa consiste sostanzialmente nell’affettività, e cioè in impulsi vitali ed istinti. Ed in termini evoluzionistici ciò significa che, almeno sul piano biologico, l’uomo è sostanzialmente un animale; e nemmeno l’animale razionale della tradizione aristotelica, ossia è un animale in piena regola. Il questo senso quindi la sua definizione della psiche assomiglia molto a quella freudiana. Solo che egli contesta il concetto freudiano di “rimozione”, dato che esso concepisce per lui lo psichismo in termini unicamente negativi.
Ebbene cosa resta allora della psiche oltre questo? Resta davvero poco o nulla, dato che abbiamo visto che in effetti per lui la dimensione mentale (nel suo coincidere tendenziale con quella spirituale) si pone decisamente fuori di qualunque sviluppo dello psichismo dai suoi strati inferiori a quelli superiori. Peraltro anche la dimensione dell’”Io” è per lui molto più una realtà filosofica che non autenticamente psichica. E la coscienza poi costituisce una realtà puramente marginale corrispondente ai luoghi vitalmente meno onticamente rilevanti dell’anatomo-fisiologia umana, ossia la corteccia cerebrale. Quanto poi all’auto-coscienza essa rientra pienamente nella dimensione spirituale dell’uomo e quindi non ha nulla di psichico.
E quindi siamo obbligati a concluderne che per Scheler la psiche è unicamente profonda in quanto in primo luogo “fisiologica” e corporale; motivo per cui essa non solo va attribuita anche a piante ed animali ma va anche considerata come una mente affatto divisa dal corpo. Tutto ciò che resta (e che si colloca unicamente al livello supremo della ideale linea verticale dello sviluppo dello psichismo, ossia alla realtà dell’uomo) è dunque solo «spirito». Per cui dobbiamo concludere che per lui vi è un’opposizione ontica davvero radicale tra psiche e spirito. Motivo per cui, in base alla sua psicologia filosofica, non può venire concepito alcunché che sussista a livelli più superficiali e/o esteriori rispetto allo psichismo profondo. Lo psichismo insomma sussiste da solo senza la compresenza di alcuna mente.

Un’ultimissima serie di riflessioni conclusive va dedicata infine alle divergenze che abbiamo constatato tra Scheler e Stein (unitamente a Conrad-Martius) rispetto alla concezione dell’«uomo-in-quanto-spirito» ed all’approccio filosofico per poterlo concepire. Ed abbiamo già detto che questo era lo scopo secondario della nostra investigazione. Abbiamo visto che entrambi i pensatori concepiscono questa realtà in quanto radicalmente metafisica. Quanto poi a Stein, ella non parla nemmeno né di psiche né di mente. Ella suppone infatti del tutto implicitamente (secondo l’antica tradizione onto-metafisica) che l’anima rappresenti perfettamente entrambe le realtà. Ed inoltre ella si era opposta decisamente alla psicologia empirica già all’inizio della sua ricerca filosofica, e quindi non poteva affatto concepire la mente in questo modo, anche solo per puri motivi filosofici [Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996]. Tuttavia la pensatrice restò legata ad una dottrina dell’”Io” e della coscienza (in obbedienza alla Fenomenologia husserliana), la quale, sebbene concepita in termini filosofici ed assolutamente non psicologistici, configura comunque una sorta di «mentalità» superiore. Quanto poi al sussistere di uno psichismo profondo essa non si pone alcuna domanda rispetto al suo sussistere (se non nel negarne il valore nell’opera appena citata, in quanto in conflitto con una vera antropologia) – a meno che con non lo si voglia considerare come equivalente con l’anima vegetativa ossia quella della pianta. Per cui nel complesso diremmo che la riflessione steiniana sfugge decisamente ai termini della concezione dello psichismo che derivano invece chiaramente dalla riflessione scheleriana. Pertanto ella non può sicuramente rientrare nel novero dei moderni psicologi filosofici.
Pertanto in definitiva (a parte la tendenziale, ma anche dubbia, valenza «mentale» dell’”Io” e della coscienza), nemmeno in lei possiamo ritrovare una definizione dello psichismo che distingua tra una dimensione profonda (psiche) ed una dimensione superficiale (mente). E quindi non possiamo ritrovare in lei alcuna definizione della struttura dello psichismo.
Tuttavia la sua (sia pure solo implicita) identificazione dell’anima tanto con la psiche che con la mente colloca decisamente la sua dottrina nel contesto della PS. Specialmente se si considera che in definitiva per lei l’anima era per lei in definitiva una sostanza spirituale.
E quindi riteniamo che proprio questo elemento possa differenziare le due visioni quanto a definizione dello psichismo (almeno secondo i nostri criteri): − quella di Stein riesce almeno ancora a rientrare nei termini della PS, mentre quella di Scheler non vi riesce affatto, o comunque solo molto limitatamente.

ABSTRACT.
Ho appena ultimato un mio articolo dal titolo “La paralisi empirista della conoscenza, la metafisica di Suárez e la metafisica integrale”. L’articolo si basa sul confronto dei testi di tre pensatori, due empiristi (Locke e Hume) ed uno metafisico (Suárez) [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022; David Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2016; Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011].
E si badi bene che Suárez conta come forse il pensatore più grande della Scolastica dopo Tommaso d’Aquino.
Ora è ben noto che l’empirismo del XVIII secolo è stato caratterizzato anche da una buona dose di scetticismo, sebbene gli autori da noi trattati si rifiutino di venire considerati scettici. E quindi in qualche modo è ovvio che esso ha indebolito senz’altro la conoscenza. Ma intanto (paradossalmente) il loro intento filosofico era quello di fondare interamente la conoscenza sulla percezione proprio per renderla ragionevolmente certa ed affidabile. Con il loro pensiero si è affermato quindi un intendimento della conoscenza che la scienza empirica avrebbe fatto totalmente suo nel porre l’esperimento ripetibile (riprendendo così un pensiero galileiano) come atto indispensabile. E da allora in poi questa scienza ha concepito la conoscenza negli stessi termini sobriamente «fisiologistici» che abbiamo descritto nell’articolo a proposito di Locke ed Hume.
Il principio centrale di questo fisiologismo (proprio soprattutto di psicologi, medici e biologi) è che nessuna idea di cosa possa essere veridica se non è connessa ad una cosa realmente esistente per mezzo della percezione. Dunque la percezione viene considerata cruciale entro la conoscenza.
E questo argomento è divenuto poco a poco non solo un’ovvietà ma anche un dogma assolutamente indiscutibile. Tanto che qualunque fisiologo schernirebbe ferocemente chiunque osasse porlo in discussione. Eppure la metafisica da noi presentata, quella di Suárez, afferma l’esatto contrario di ciò, e cioè che la conoscenza è tanto più certa ed appropriata quanto più è lontana dai sensi. Per lui infatti la conoscenza veridica delle cose sensibili è possibile solo dopo che l’intelletto ha raggiunto il livello supremo sul quale giacciono i principi primi ed universali, e dunque le verità che sono certe in quanto indubitabilmente chiare ed evidenti. Essa dunque conosce le cose sensibile solo dopo un atto di deduzione.
Ebbene la paralisi empiristica della conoscenza si lascia riconoscere proprio entro il campo di tensione che si crea tra queste due opposte visioni. Entrambi i pensatori ritengono infatti che più la conoscenza si allontana dei sensi, penetrando così nelle profondità della mente, più essa viene minata dalla “immaginazione” e perfino dal “ragionamento” − nei quali le idee semplici (ancora immediatamente in relazione con la percezione) sono ormai divenute complesse −, e ciò fino al punto di generare molto probabilmente oggetti del tutto fantastici ed irreali. Oggetti, cioè, che non hanno alcun riscontro nel mondo reale, e che quindi non potranno mai venire percepiti per davvero. Ma tali oggetti sono per Locke ed Hume propriamente quelli che vengono concepiti dalla metafisica (ente, sostanza, identità, indivisibilità infinita dello spazio e tempo, etc.). Siamo insomma di fronte a quelli che Kant avrebbe dispregiativamente chiamato “chimere” e “paralogismi”, producendosi così una liquidazione della metafisica che è divenuta anch’essa un dogma indiscutibile per filosofi, scienziati e uomini comuni.
Ed eccoci allora di fronte all’elemento centrale della paralisi empirista della conoscenza, dato che Locke e Hume sono concordi nel ritenere che, a causa di queste distorsioni mentali, la conoscenza degli oggetti metafisici non debba in alcun modo venire perseguita.
Su questa base abbiamo condotto la nostra analisi testuale, confrontando così le idee espresse nei tre testi. Ma ci siamo immediatamente accorti che ciò che dovevamo esaminare non era l’efficienza della conoscenza (così come concepita e garantita dalle due visioni, quella empiristica e quella metafisica) bensì semmai il tipo di condizioni che ad essa vengono poste. Condizioni che sono diametralmente opposte tra le due visioni. Ebbene, una volta posto questo criterio di confronto, appare evidente che la metafisica di Suárez non proibisce (né ritiene fallimentare) la conoscenza di alcun campo dell’essere – da quello degli oggetti sensibili (che essa semmai auspica) fino a quello degli oggetti più astratti in quanto lontanissimi dalla realtà sensibile. Dunque ne abbiamo concluso che la metafisica del pensatore spagnolo non produce alcuna paralisi della conoscenza. E questo vale anche per la metafisica in generale. Nelle conclusioni però abbiamo sottolineato che quella di Suárez fu una metafisica molto moderata, dato che essa volle intendere sé stessa come una sorta di scienza naturale, sebbene “speculativa”. Per cui la sua inibizione della paralisi della conoscenza è ben più debole di quanto sarebbe dovuta essere. Ben più forte è stata invece tale inibizione nel contesto della metafisica sostenuta da autori tradizionalisti (come Guénon, Schuon, Bérard e Vallin) [René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975; René Guénon, Il Regno della Quantità ed i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano 2006; Frithjof Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediteranee, Roma 1998; Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007], laddove poi proprio Vallin ha dato a questa disciplina il nome di “metafisica integrale”. E con essa va intesa una metafisica esattamente equivalente a quella Scienza Sacra originaria e primordiale che è propriamente divina e che l’uomo è venuto a conoscere per mezzo delle varie Rivelazioni.
Al proposito va inoltre precisato che Suárez (nell’impostazione scientifico-naturale che egli aveva voluto dare alla sua metafisica) si era rifiutato in partenza di intenderla in questo modo, ossia come conoscenza delle entità sovrannaturali. Questo era infatti per lui un compito della sola teologia. Ma del resto l’intera metafisica occidentale (a partire già dalla Scolastica) si era rifiutata di (con maggiore o minore forza) di intendere sé stessa in questo modo. Tanto è vero che essa non aveva mai smesso di concepire il conflitto esistente tra Ragione (filosofia e metafisica) e Fede (teologia). Ebbene Proprio per questo motivo nelle conclusioni dell’indagine abbiamo preso in considerazione anche il pensiero di un attuale autore che è fisico nucleare ed anche filosofo, ossia Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Secondo la sua visione, infatti, la moderna scienza naturale (specie nella sua avanguardia rappresentata dalla fisica sub-particellare e quantistica) sta ormai preparando l’avvento di un nuovo paradigma, secondo il quale la scienza stessa si dichiara assolutamente bisognosa dell’apporto della metafisica.
Dunque la paralisi della conoscenza appare essere di certo un deplorevole fenomeno per il quale la cultura umana è dovuta passare (specie dal Rinascimento in poi, e con punte estreme nell’Illuminismo e nel Positivismo), ma non appare intanto affatto una necessità oggettiva alla quale la conoscenza stessa debba sottomettersi. Anzi sembra che le cose stiano in maniera del tutto opposta.

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SINTESI.
In questo saggio ci siamo sforzati di comprendere se l’esperienza religiosa (ER) sia per davvero quella che siamo abituati a vivere correntemente come cristiani (specialmente come cattolici). Il che è diventato un problema specie negli ultimi tempi, nei quali moltissimi teologi, predicatori, confessori e direttori spirituali negano ormai apertamente che Dio sia per davvero una Persona ed intervenga nel mondo oltre che nell’esistenza umana. Oltre al generale dilagare dell’agnosticismo scettico ed ateo (tra gli uomini comuni e tra scienziati e filosofi), si sta insomma verificando un fenomeno mai avvenuto finora, e cioè quello di teologi e sacerdoti i quali ritengono che sia ormai impossibile difendere l’esistenza reale di un Dio-Persona contro lo strapotente attacco della scienza naturale a questa idea. E per questo, nelle Facoltà di Teologia ed inoltre tra singoli studiosi, si va diffondendo la tesi del cosiddetto “post-teismo”, secondo la quale noi non avremmo a che fare con un vero Dio ma invece appena con una “deità”, ossia un dio totalmente impersonale. E così si inizia a pensare a Dio come una sorta di Forza senza volto che può anche venire considerata la Causa originaria dell’Universo (ossia il Creatore del mondo), ma comunque se ne sta ben lontano dal mondo nel quale intanto dominano totalmente incontrastate le sole leggi della Natura. Collateralmente a ciò si va diffondendo anche la tesi secondo la quale l’Incarnazione di Dio sarebbe stata nel tempo completamente fraintesa, e quindi avrebbe autorizzato la falsa idea di una completa equivalenza tra Cristo e Gesù. Che invece oggi inizia a venire fortemente messa in dubbio. E così si sta arrivando a considerare Gesù come appena una figura storica che sarebbe stata sempre slegata dalla persona del Cristo.
La conseguenza di tutta questa revisione della tradizionale dottrina cristiana ha fatto sì che si iniziasse a negare la realtà effettiva dei miracoli e delle guarigioni compiuti da Gesù nel corso della sua esistenza (così come viene narrata e descritta nei Vangeli). E quindi si tende ormai a negare recisamente anche che possa esistere un’ER che sia caratterizzata da una preghiera entro la quale l’uomo chiede aiuto a Dio quando si trova in circostanze esistenziali difficili. Questa è quella che viene chiamata «preghiera di richiesta».
Ed oggi ormai moltissimi teologi e sacerdoti la ritengono assolutamente irrealistica ed illecita, dato che essa del tutto invano chiede un aiuto divino che non può venire dato che è impossibile che Dio intervenga nel mondo interferendo con le leggi della Natura. Inoltre la «preghiera di richiesta» andrebbe considerata anche spregevole dato che sarebbe bassamente egocentrica ed utilitaristica. Bisognerebbe invece pregare Dio solo per pura lode e venerazione.
In sintesi insomma questa visione sostiene che l’ER cristiana non comporterebbe in alcun modo la tangibile «presenza divina». E questo in primo luogo perché Dio non esaudisce in alcun modo tangibilmente le invocazioni e richieste dell’uomo. Ne consegue che, nonostante la preghiera, Dio non fa mai sentire la sua presenza nella vita dell’uomo. Per cui al fedele cristiano non resta altro che vivere ritualmente (e quindi solo metaforicamente) la sua presenza in quella vita ecclesiale che si basa soprattutto sui Sacramenti.
Oltre a ciò viene vista molto male la vita religiosa vissuta singolarmente e non invece in maniera collettiva e comunitaria. Quindi l’ER non può basarsi in alcun modo in un rapporto personale del fedele con Dio.
Di fronte a questa visione abbiamo posto in evidenza due principali elementi: − 1) la Rivelazione cristiana (nel Vecchio ma soprattutto nel Nuovo Testamento) prevede espressamente l’«aiuto» offerto da Dio all’uomo proprio per mezzo dei miracoli e guarigioni compiuti da Gesù; 2) esistono nell’esistenza situazioni particolarmente estreme nelle quale l’uomo (abbandonato da tutti ed incapace di risolvere i problemi con le sue proprie forze) non può fare altro che invocare l’aiuto divino. E dall’altro lato è impossibile pensare che un Dio d’Amore – il Dio che ha donato il suo Figlio agli uomini decaduti perché venissero salvati venendo così resi suoi figli – si rifiuti di ascoltare ed esaudire per principio queste invocazioni.
Naturalmente fin dal primo momento ci siamo resi conto della estrema difficoltà della nostra investigazione. Tanto che l’abbiamo definita immediatamente come una sfida impossibile da affrontare vittoriosamente. E questo perché, dato che Dio è comunque un Ente sovrannaturale, è assolutamente impossibile intercettarlo sul piano sensibile, ossia nello spazio e nel tempo, cioè nella dimensione in cui noi uomini viviamo. Quindi è estremamente difficile definire cosa sia davvero la tangibilità della «presenza divina» nell’esistenza umana e nel mondo. Costantemente però l’unica risposta che siamo riusciti a trovare a questa domanda è stata proprio quella del reale esaudimento divino dell’umana «preghiera di richiesta».
Dunque ci è sembrato che la più autentica ER sia proprio quella che preveda la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta».
Per dimostrare questo siamo passati per diverse fasi e ci siamo serviti delle riflessioni di diversi autori – come Maritain, Guardini, Berdjaev, de Benoist, Bloy, Solov’ëv, Dostoevskij (indirettamente), Don Dolindo Ruotolo etc.
Innanzitutto abbiamo esaminato l’attuale (riduzionistica, scettica ed agnostica) interpretazione dell’ER attraverso i fenomeni di quella crisi moderna nella quale la separazione tra l’uomo e Dio è ormai arrivata la suo culmine, e che ormai si manifesta attraverso una vera e propria “desacralizzazione” del mondo.
Inoltre abbiamo sostenuto è che l’autentica ER corrisponde basicamente all’esperienza dionisiaca di «presenza divina» in quanto possessione del fedele da parte del dio. Qui infatti non appare di certo il dio in persona, ma esso comunque si manifesta almeno attraverso il corpo del fedele, ossia per mezzo delle modificazioni che esso subisce rispetto allo stato ordinario. E ci è sembrato che non via alcun’altra ER nella quale la «presenza divina» si manifesti in modo così tangibile. E quindi questo genere di ER ci è sembrato quello più universale in quanto basico ed elementare, ossia quello che qualunque homo religiosus (cristiano o pagano che sia) si immagine e desidera spontaneamente. Insomma esso ci è sembrato essere un vero e proprio eterno ed universale paradigma dell’autentica ER.
Abbiamo poi esaminato la condizione dell’uomo che secondo noi più indulge alla «preghiera di richiesta», e cioè quel tipo di uomo che fin dalla nascita soffre il dolore, è perseguitato dalla sventura, e vive in generale l’assenza di fortuna e felicità oltre che l’oscurità. Nello stesso tempo esso ci è sembrato il prototipo del «giusto», ossia colui che per tutta la sua vita segue vie di giustizia, innocenza ed amore, ma proprio per questo (paradossalmente paga col costante dolore). Egli insomma si rifiuta costantemente di accettare come valide le spietate leggi del mondo e della Natura, e quindi è colui che maggiormente crede nel Sovrannaturale. Abbiamo inoltre dimostrato che l’uomo vivente l’esperienza esattamente contraria (felicità, benessere, buona ventura e successo) di fatto è fortemente complice (e senza il minimo scrupolo) con le più spietate leggi del mondo. E questa sembra peraltro essere la radice stessa della sua fortuna nel contesto spesso di un vero e proprio «patto col diavoli». Proprio per questo esso tende a divenire il persecutore del primo tipo di uomo.
Il paradigma del primo tipo di uomo è chiaramente il personaggio biblico Giobbe.
Successivamente abbiamo esaminato a campione la vastissima letteratura entro la quale oggi viene affermata la visione agnostica e scettica dell’ER, ed abbiamo visto che essa consiste in una sorta di ricerca scientifico-religiosa, dato che la sua fonte principale è ormai unicamente la scienza empirica, specialmente la scienza ed anche filosofia cognitivista.
Su questa base abbiamo esaminato come si presenta l’ordinaria ER entro la vita ecclesiale, entro le pratiche pietistiche ed entro la mistica. Ed abbiamo constatato che qui domina incontrastata l’avversione contro l’ER in quanto «preghiera di richiesta». Successivamente abbiamo cercato di dare un volto il più possibile oggettivo all’ER probabilmente più autentica per mezzo dei contenuti delle Sacre Scritture ed inoltre per mezzo dell’esame di un testo di Don Dolindo Ruotolo. Di quest’ultimo abbiamo scoperto che egli fu fortemente favorevole alla «preghiera di richiesta» come invocazione di un tangibile «aiuto» divino.
Ma nello stesso tempo il suo discorso al proposito fu fortemente ambiguo.
Infine abbiamo tentato di descrivere autonomamente (sulla base delle nostre stesse esperienze personali) quelli che sono i caratteri oggettivi della più autentica ER. E ne abbiamo tratto la conclusione che essa è sostanzialmente individuale e singolare, ossia consiste in un dialogo diretto con Dio; in particolare con Gesù. Subito dopo abbiamo confrontato questo con i contenuti di diversi scritti che sostengono la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta» in quanto invocazione del tangibile «aiuto» divino.
E proprio qui ci ha colpito l’abbondanza di questi scritti, e quindi la costatazione che (aldilà della prevalente visione agnostico-scettica tra teologi e sacerdoti) vi sono ancora molti uomini di fede e religiosi (sia cattolici che non) che credono fermamente nella «preghiera di richiesta» così come noi la intendiamo. E tra costoro spicca il pastore evangelico tedesco George Müller (operante per tutta la sua via a Bristol), il quale è estremamente categorico nel sostenere proprio questo. Egli sostiene infatti che l’esaudimento divino della «preghiera di richiesta» è assolutamente certo. In ogni caso è emerso che coloro che oggi più sostengono questa visione (un tempo integralmente cattolica) sono proprio gli evangelici. Si oppone invece a tutto ciò la descrizione della preghiera da parte di Guardini, il quale (sebbene ammetta molto vagamente e debolmente la «preghiera di richiesta») ritiene che sostanzialmente la preghiera sia una presa di contatto con il puro “essere” divino. Entro di essa, quindi, non è ammissibile alcuna richiesta, ma invece è ammissibile solo la pura venerazione, oltre che la lode incondizionata.
Da tutto questo abbiamo tratto quindi la conclusione che – nonostante sia impossibile dimostrare che l’ER è caratterizzata da una tangibile «presenza divina» sul piano sensibile − la così diffusa convinzione che la «preghiera di richiesta» sia realistica e legittima (in quanto ci procura realmente l’esaudimento della nostra invocazione) rappresenta di fatto una prova indiretta della nostra tesi.
In ogni caso nel corso della nostra intera investigazione ci siamo costantemente scontrati con un secondo grande nemico dell’ER come «preghiera di richiesta», e cioè la tradizionale retorica (questa sì profondamente cattolica) che sostiene alternative del genere del cosiddetto «abbandono alla Volontà divina», della partecipazione alla croce ed alla Passione di Cristo, e della valorizzazione della prova esistenziale (ossia il dolore) come via verso il Cielo. Da questo punto di vista la «preghiera di richiesta» appare essere fortemente ingiustificata perché essa si oppone alla sofferenza che ci verrebbe inviata da Dio stesso allo scopo di diventare più forti e adulti nella fede. Ebbene questa retorica appare essere ormai datata entro la Chiesa, dato che è stata sostituita quasi completamente dalla visione agnostico-scettica dell’ER. Essa però si ritrova ancora in molti scritti (anche in quelli di Don Dolindo Ruotolo) ed assume comunque toni estremamente esasperati (se non francamente sadici) in coloro che parlano dal punto di vista della mistica monastica.

ATTENZIONE:
A chi volesse leggere il saggio nella sua interezza siamo pronti a fornire il file in pdf, con la preghiera però di considerarlo protetto dalle vigenti leggi del copyright, e quindi non passibile di venire riprodotto anche solo in parte senza menzionarne l’autore, ossia il sottoscritto.

In questo scritto vorremmo esaminare criticamente il valore oggettivo che ha l’attuale scienza della Religione (ed anche il ruolo che essa svolge) nella specifica forma che essa ha assunto negli ultimi decenni. Essa si è trasformata infatti in un intenso dibattito critico (svolto soprattutto per mezzo di articoli più che non di libri) che è del tutto simile a quello che da molti secoli ormai si svolge nel campo della scienza empirica, ossia la scienza della Natura. Anche in Religione è insorta quindi quella famosa «letteratura» (basata sul confronto critico tra autori per mezzo della produzione a ciclo continuo di articoli scientifici) dalla quale la Scienza si aspetta il continuo incremento delle conoscenze ed ancor più la verifica del loro valore per mezzo della costante verifica esercitata entro la cosiddetta «comunità scientifica».
Molto coerentemente, quindi, le questioni teologico-religiose vengono ormai dibattute unicamente su un piano scientifico-empirico e non più invece sul tradizionale piano filosofico e/o metafisico. In altre parole la Scienza ha assunto l’assoluto dominio in e sulla Teologia. Essa però si presenta in una forma ancora almeno apparentemente filosofica, e cioè quella della cosiddetta «filosofia analitica della religione», ossia una forma di Filosofia che intanto si è però ormai assimilata totalmente alla Scienza, tanto che anch’essa ne ha fatto totalmente propri i metodi. Infatti essa procede ormai per argomentazioni basate totalmente sulle evidenze scientifico-empiriche, che intanto vengono via via ottenute per via sperimentale. L’esperimento scientifico è dunque diventato di fatto la fonte stessa delle argomentazioni filosofiche, tanto che vengono considerate illegittime tutte le idee (e relative argomentazioni) che non hanno come base delle evidenze sperimentali. Non è difficile immaginarsi quale possa essere l’impatto devastante di tutto ciò sul piano della Teologia, dato che gli oggetti di conoscenza di quest’ultima sono per definizione privi di qualunque evidenza (non solo sperimentale, ma perfino sensibile). Eppure, ormai in preda ad un imbarazzo incoercibile di fronte alla potenza e dignità assunta dalla scienza empirica (simile a quello in quale da tempo è in preda anche la filosofia stessa), la Teologia ha accettato integralmente e senza remore questo approccio. E ciò avviene ormai appunto per mezzo di quella filosofia analitica della religione le cui evidenze provengono ormai quasi totalmente dalla scienza cognitiva, cioè la scienza sperimentale della mente (di fatto si tratta della neuro-fisiologia). Dunque la scienza cognitiva ha ormai preso totalmente il posto perfino di quella filosofia della mente (e relativa filosofia del linguaggio) che fino a non molto tempo fa era stata la base filosofico-scientifica della Teologia.
Ne consegue quindi che ormai la base critica della Teologia non sono più le argomentazioni filosofiche (ricadenti soprattutto nel campo della logica) ma invece sono appunto delle vere e proprie evidenze empirico-scientifiche. Sebbene bisogna dire che la logica occupi comunque ancora un posto in questo dibattito. Da tutto ciò è nata quella che indicheremo costantemente come «ricerca scientifico-religiosa».
E nella seconda sezione di questo scritto presenteremo diversi articoli che provengono dal suo ambito.
La questione che più ci interessa nel contesto del dibattito in corso in questa area non può che essere quella che è centrale nella Teologia e nella Religione stessa, e cioè la questione dell’esistenza di Dio.
Non a caso la filosofia analitica della religione è nata nel dopoguerra proprio sulla base delle sollecitazioni atee di un filosofo analitico, e cioè Bertrand Russell – il quale iniziò a negare molto violentemente l’esistenza di Dio ed anche la stessa idea di Dio. In tal modo si è sviluppata quindi una sorta di filosofia analitica religioso-cristiana che ha in qualche modo voluto combattere il moderno ateismo filosofico sul suo stesso piano. Alla fine però essa stessa è rimasta travolta da questo compito essendo costretta a rivedere totalmente (in senso scientifico e scientista) i suoi metodi di indagine conoscitiva. E non solo. Perché essa è rimasta travolta nel senso che è stata costretta ad accettare almeno in parte gli argomenti filosofo-scientifici contro l’esistenza di Dio, vedendosi così obbligata a rinunciare quasi completamente al proprio naturale teismo. Ecco che proprio sSu questa base sono insorte questioni che vertevano appunto intorno all’esistenza di Dio, ossia teismo, anti-teismo ed ateismo. Ed infine esse hanno trovato in ambito religioso-cristiano (ossia nel pieno della Teologia cristiana) una specie di sistematizzazione nel cosiddetto post-teismo. Il quale vuole essere una specie di risposta a questo complessivo dibattito nel senso dell’adattamento dell’idea di Dio (e delle affermazioni circa la Sua esistenza) al discorso scientifico. Non senza però un’estremamente significativa rinuncia ormai totale al teismo. Teismo che poi (lo diciamo qui solo come anticipazione) comporta il nucleo centrale della fede cristiana, ossia la fede nel Dio-Persona per eccellenza, ossia il Dio incarnato e Dio vivo, Gesù Cristo.
Naturalmente, comunque, il post-teimo è rimasto vincolato all’approccio conoscitivo prevalente nel dibattito che lo ha originato, ossia l’approccio scientifico-empirico. E quindi anche il post-teismo (che in fondo è la risposta religioso-cristiana alla messa in dubbio dell’esistenza di Dio per via scientifica, e quindi vorrebbe essere una specie di rimonta della Teologia su Filosofia e Scienza) si serve ormai di argomentazioni basate interamente sulle evidenze scientifico-empiriche, e quindi rientra pienamente nel campo della ricerca religioso-scientifica. Sebbene vedremo poi (specie con Gamberini) che essa conserva ancora una certa quota di molto sofisticate argomentazioni metafisiche ed in parte anche logico-filosofiche.
Diciamo quindi che in questo modo è insorta una sorta di estremamente nuova Teologia cristiana di tipo scientifico-empirico. Essa potrebbe in qualche modo venire considerata equivalente alle aspirazioni scientifico-naturalistiche che animarono la Scolastica medievale. Ma tale somiglianza è solo apparente dato che il post-teismo cristiano ha intanto accettato in pieno la distruzione totale della tradizionale metafisica cristiana, che già da molto tempo era iniziata in Filosofia, specie con pensatori come Nietzsche e Heidegger
Posto questo, ci è sembrato che la trattazione della questione relativa al valore e ruolo dell’attuale scienza della Religione potrebbe ben partire dalla critica di Berdjaev alla filosofia scientifica che poi a sua volta si associa anche ad una visione filosofico-religiosa molto intensa ed originale, che permette addirittura di rifondare l’esperienza religiosa. Abbiamo già parlato di questo in un nostro articolo [Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Insomma tanto la critica berdjaeviana alla filosofia scientifica quanto anche la sua idea specifica di Religione potrebbero essere utili ad un’analisi critica dell’attuale complessiva ricerca scientifico-religiosa. E questa analisi critica potrebbe in tal modo estendersi fino al post-teismo. Intanto ci sembra assolutamente fondamentale la critica berdjaeviana alla voluta scientificità della filosofia. Abbiamo infatti visto che quest’ultima è stata la radice stesa della trasformazione attuale della Teologia in una ricerca scientifico-religiosa. E quindi la critica alla scientificità della Filosofia deve necessariamente coinvolgere anche la stessa Teologia. Ed inoltre risiedono proprio in questo ambito le più profonde radici del post-teismo. E quindi la complessiva visione di Berdjaev si presta benissimo a fungere come base ad una critica a quest’ultimo.

Su queste basi il nostro scritto si muoverà attraverso una primaria esposizione delle tesi di Berdjaev (prima sezione), che sarà poi seguita dalla presentazione di diversi articoli provenienti dall’ambito della ricerca scientifico-religiosa (seconda sezione) – concernenti teismo, anti-teismo ed ateismo, e coinvolgenti anche il panenteismo − e culminerà infine nell’analisi del post-teismo (terza sezione) sostanzialmente per mezzo dell’analisi critica di un articolo di Paolo Gamberini. Naturalmente la riflessione di Berdjaev costituirà per noi il paradigma di un approccio filosofico-religioso che non intende cedere in alcun modo alla tentazione di trasfondersi in un approccio scientifico. Essa ci servirà quindi da fondamentale punto di riferimento e base per analizzare criticamente l’approccio scientifico alla Religione ed per pervenire infine a conclusioni definitive sulla complessiva tematica.

I- La filosofia religiosa anti-scientidica di Nikolaj Berdjaev
In questa sezione esamineremo le tesi esposte da Berdjaev in due dei suoi testi, e cioè in “Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO) ed “Il senso della creazione” (SC).
DIWO ci servirà come base per la trattazione svolta nella prima sotto-sezione (giustificazione della non-scientificità della Filosofia e sue conseguenze sul piano religioso), mentre SC ci servirà come base per la trattazione svolta nella seconda sotto-sezione (visione religiosa relativa ad una filosofia religiosa anti-scientifica)

I-1. La filosofia come scienza e il coglimento della realtà divina.
Berdjaev sostiene in particolare che la Filosofia è stata sempre intimamente unita alla Religione ed invece per nulla alla Scienza [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I p. 1-38]. E tuttavia sostiene questo nel contesto della costatazione della fondamentale solitudine del filosofo e quindi anche del conflitto esistente tra Filosofia e Religione da un lato e Filosofia e Scienza dall’altro lato. E quindi in sostanza egli sostiene che il filosofo dovrebbe essere indipendente sia dall’una che dall’altra disciplina per il semplice fatto che la Filosofia ha il pieno diritto di essere unicamente sé stessa; e quindi di essere totalmente autonoma non avendo alcun obbligo di sottomettersi ad istanze conoscitive diverse da quelle che le sono proprie.
Pertanto egli sottolinea fortemente che la Teologia ha sempre preteso che la Filosofia si sottomettesse ad essa in una maniera che appare molto simile all’attuale discorso svolto sul piano scientifico su questioni che una volta venivano trattate unicamente dalla metafisica. Il che è assolutamente paradossale perché il filosofo russo sottolinea che, se la collaborazione tra Filosofia e Teologia può comunque avere un ruolo e valore, ciò può avvenire proprio nel liberare la Teologia stessa da tutto quanto non riguarda la Rivelazione.
E questo è un compito che secondo lui spetta proprio alla Filosofia. In altre parole la collaborazione tra Filosofia e Teologia per lui ha di fatto il senso di liberare la Teologia dalla sua stessa aspirazione alla filosoficità. Attraverso il suo discorso si delinea quindi chiaramente quella che definiremo come «teologia filosofica», ossia un Teologia che di fatto rinuncia ad essere sé stessa per farsi unicamente Filosofia. E vedremo tra poco che Berdjaev non la ritiene affatto giustificata.
Egli precisa infatti che la Rivelazione non è affatto in sé pensante, ma diventa tale proprio per mezzo della Teologia. Intanto però la Teologia è unicamente conoscenza umana e quindi per definizione non dovrebbe avere alcuna relazione con quella Rivelazione che è in fondo soltanto puro pensiero divino (e proprio per questo non è affatto conoscenza, anche se lo sembra). Essa però, ciononostante, è Trascendenza che diviene immanente proprio nella Filosofia, e quindi ha un ruolo assolutamente naturale in essa. Cosa che invece per lui non dovrebbe affatto avvenire in Teologia; entro la quale bisognerebbe rinunciare in partenza ad una riflessione basata sulla Rivelazione che invece è compito della sola Filosofia (ma ovviamente solo di una filosofia religiosa). Ecco che la Teologia dovrebbe limitarsi ad esporre i contenuti della Rivelazione senza tentare in alcun modo di farlo in maniera pensante.
Il pensatore russo mette quindi molto acutamente in evidenza la tensione naturale ed inevitabile che vi è tra Filosofia e Teologia, e che implica anche una sorta di obbligata ed anche sana separazione tra di esse sia pure nella prossimità. Obbligo di separazione che viene violato tutte le volte che si configura una teologia filosofica – la quale è sempre e per definizione un’assimilazione totale tra le due discipline, laddove invece dovrebbe esserci solo una prossimità nella distanza. Questo è però ciò che è di fatto sempre accaduto nel Cristianesimo perfino allorquando la Religione si è prodotta nei suoi tipici (e non poco violenti) attacchi contro la Filosofia, la cui evidenza peraltro Berdjaev sottolinea con grande forza. Anzi il pensatore sottolinea che, per poter rispettare in pieno la Rivelazione, bisognerebbe eleminare dalla Religione proprio gli elementi filosofici che in essa si sono infiltrati per la via di una Teologia aspirante ad essere filosofica – come è avvenuto in tutta quella cosmologia, astronomica, geologica e biologica (evoluzione), che poi ha sempre teso ad organizzarsi in assurdi dogmi scientifici (oggi però divenuti oggettivamente insostenibili). Dall’altro lato egli deplora anche la forte tendenza di certa Filosofia a farsi integralmente Religione − com’è avvenuto nelle antiche teosofie (specie orientali), nel platonismo e nel neoplatonismo, e perfino più avanti nella filosofia moderna (Spinoza, Fichte, Hegel) ed infine nella Sofiologia russa (Solov’ëv). Ora, in tal modo la Filosofia invade decisamente il campo di una domanda che è in sé di fatto autenticamente religiosa, e quindi ricostituisce di fatto (dall’altro polo dello scenario) quella commistione (in principio illegittima) che sussiste nella teologia filosofica. Eppure in questo caso le cose stanno per lui in maniera molto meno grave ed innaturale, dato che in questo modo si delinea una filosofia religiosa che dal suo punto di vista è ben più giustificata di una filosofia a- o anti-religiosa. Ciò accade perché per davvero una parte della domanda religiosa (quella circa il senso dell’esistenza) riguarda così tanto la Filosofia da renderle impossibile essere ciò che essa è nel caso venga a mancare tutto questo. Infatti per Berdjaev la Filosofia non è tanto “amore della sapienza” ma è invece Sapienza stessa. Come del resto sostenne anche Schelling nel considerare luogo originario della Filosofia la stessa Sapienza custodita dai sacerdoti nei templi [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam Conn., Spring Publication, 2010, p. 7-10] e come ha sostenuto anche LMA Viola affermando che il vero pensatore non è affatto un “filo-sophos” ma invece un “sophos” − ossia uno che possiede già la Sapienza invece di cercarla incessantemente [LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 37-44]. Non solo, ma se la Filosofia rinuncia alla Sapienza, essa finisce per dover arrendersi totalmente alla Scienza; e ciò in quanto il proprio campo di conoscenza viene notevolmente distorto e ristretto.
Infatti il filosofo è chiamato a conoscere tutti gli aspetti dell’essenza umana e dell’esistere (e non solo alcuni di essi), ossia deve aspirare sempre alla Totalità dell’essere; inoltre deve tendere sempre verso l’oltre non accontentandosi mai del solo “aldiquà”. Ed infine il filosofo tende spontaneamente a toccare costantemente il “mistero dell’essere”. Soltanto in tal modo la Filosofia è davvero sé stessa, ed è chiaro che in questa forma essa è necessariamente metafisica. Quindi è essa è anche obbligatoriamente sempre anche filosofia religiosa. Sebbene ciò non può né deve implicare alcuna forma e grado di «teologia filosofica» − né sbilanciata verso una Teologia che pretenda di essere integralmente Filosofia né sbilanciata verso una Filosofia che pretende di essere integralmente Religione. Tuttavia, proprio una volta chiarito questo, risulta chiaro che in primo luogo la Filosofia non può essere in alcun modo scientifica; nemmeno alla lontana.
Essa infatti (ovviamente) né si occupa delle evidenze empiriche né costituisce una “filosofia sopra le essenze” − come ad esempio pretese di essere la Filosofia husserliana e steiniana in quanto ricerca sulle essenze mondane cosali [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, I, I, III, 10-11, p. 124-133 ; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, II, 1 p. 78-79, VII, I, 1 p. 93-96; Edith Stein, Potenza ed atto, Citta nuova, Roma 2003, II, 1-3 p. 72-90, III, 3-4 p. 123-132; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, IV, 2, 4-5 p. 123-126, ibd. IV, 3, 1-4 p. 139-157]. Essa invece è per Berdjaev semmai “una creativa autocoscienza (‘schöpferisches Sichbewußtsein’) dello Spirito sul senso della vista umana (‘des Geistes über den Sinn von menschlichen Lebens’)”. E questo suo status implica necessariamente una certa dose di religiosità della Filosofia. Ma comunque affatto nel senso di porsi come «teologia filosofica». In questo caso, infatti (come abbiamo detto), la riflessione sulla Rivelazione (che è legittima solo in Filosofia) si estende ad una disciplina (la Teologia) il cui compito è unicamente quello di esporre (e semmai anche chiarire nel loro significato profondo) i contenuti della Rivelazione. Compito che poi deve essere rivolto unicamente all’umile servizio svolto a favore dell’uomo comune in quanto credente. Per cui la Teologia tradisce sé stessa (ossia il suo compito naturale) tutte le volte in cui (per mezzo di sofisticate riflessioni metafisico-filosofiche) finisce per rendere la Rivelazione imperscrutabile per il credente. E questo accade esattamente laddove essa pretende di farsi Filosofia, o, peggio ancora, Scienza – come sta appunto accadendo nel campo dell’attuale ricerca scientifico-religiosa.
Dunque va preso atto del fatto che ciò che sta accadendo adesso non è in fondo affatto nuovo. Il problema resta infatti sempre quella tensione tra Filosofia e Rivelazione che da sempre tende a venire risolta nel trasformarsi della Filosofia in Teologia e della Teologia in Filosofia. Solo che quest’ultima tendenza è oggi divenuta davvero estrema. Oggi si verifica infatti un vero e proprio occultamento della Rivelazione (spesso per mezzo della sua radicale riforma e quindi della sua revisione) nel contesto di una Teologia ormai adeguatasi totalmente alla scienza analitico-cognitiva della Religione. Qui insomma la riflessione forgia letteralmente concetti religiosi totalmente nuovi, mettendoli esattamente nello stesso luogo nel quale prima si trovavano le argomentazioni puramente metafisiche che poi la Teologia usualmente dibatteva anche filosoficamente (ma sempre nel pieno rispetto dei contenuti oggettivi della Rivelazione). Argomentazioni metafisiche che ovviamente si basavano interamente sui materiali di riflessione (ossia le idee e relative entità) che intanto venivano messi a disposizione dalla Rivelazione; e quindi per definizione non erano alcun modo prodotti della Ragione umana. La conseguenza di ciò è che il campo delle argomentazioni analitico-cognitive si è totalmente sovrapposto a quello delle tradizionali argomentazioni metafisico-teologiche, anche se di fatto le questioni dibattute sono di fatto esattamente le stesse.
Ciò che è accaduto è insomma che ormai sembra proprio che vi sia un campo di riflessione del tutto nuovo (quello della scienza della Religione analitico-cognitiva) laddove invece in verità resta tuttora appena il vecchio. Ed è proprio per questa strada che nella stessa teologia cristiana si è ormai giunti alla fine addirittura a mettere in dubbio (o almeno a problematizzare e complicare insensatamente sul piano logico-filosofico) l’esistenza di fondamentali concetti ed anche entità religiose (come la stessa idea di Dio connessa alla Sua esistenza) sulla base del fatto che essi sarebbero sempre stati epistemicamente inappropriati.
In altre parole l’attuale scienza della Religione si è prodotta in un’opera davvero titanica di correzione in senso neo-logico dell’intera metafisica teologica, ed inoltre degli stessi contenuti scritturali oggettivi della Rivelazione. E quindi di fatto, secondo questa nuova scienza, la tradizionale metafisica teologica avrebbe sempre di fatto girato a vuoto muovendosi sul campo di concetti trattati senza alcun vero rigore logico.
Cosa che invece era assolutamente necessaria, dato che tale metafisica teologica rispettava pienamente la natura sovrannaturale (e quindi ultra-logica) delle entità delle quali essa trattava; e quindi non si sognava nemmeno lontanamente di sottometterle alla prova di realtà proveniente dalle evidenze scientifiche, e cioè meramente sensibili.
Non a caso la logica analitica moderna si è totalmente sostituita a quella antica come se fosse ormai l’unica legittima. Ma è significativo notare che in tal modo, in luogo dei misteri metafisico-religiosi esposti nelle Scritture, dominano orami le teorie di questo e di quell’autore (con il relativo protagonismo professorale di questi accademici), unitamente al delinearsi di una miriade di infinti di «-ismi» (che proliferano peraltro illimitatamente) i quali hanno preso totalmente il posto delle antiche dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Impressionante è al proposito il fatto che ogni autore propone la sua personale “soluzione” (“my solution”) alle infinite questioni logico-critiche per mezzo delle quali l’intera metafisica tradizionale viene intanto sezionata (ed anche straziata e profanata) come un misero cadavere gettato sul tavolo anatomico.
Emblematici per questo sono i moderni articoli che vengono sfornati a ciclo continuo su questi argomenti. Prima ancora di entrare nella sezione dedicata ad essi, ne citeremo solo due da noi appena letti: − l’articolo di Robinson contro quel cosiddetto “Debunking argument”, secondo il quale l’idea di Dio non sarebbe altro che un indesiderato ed inappropriato effetto collaterale della normale funzione cognitiva [Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-9] e l’articolo di Paolini Paoletti sulla Trinità riletta e rivista totalmente attraverso la moderna riflessione analitica sull’”ontologia delle relazioni” [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191]. Insomma è come se si affermasse che il porsi immediatamente di fronte alle verità metafisiche di fede (da parte del pensatore ed anche del credente) è ormai decisamente proibito, dato che solo la Ragione umana ha il diritto di riconoscere in esse qualcosa di davvero valido. In altre parole si è ormai affermato lo spirito erudito e protestante che da Erasmo in poi pretendeva che la “lettera” delle Scritture (in sé solo falsificante) deve venire totalmente presa in mano dalla Ragione umana perché essa assuma una forma degna dello “spirito”. Il che significa poi pretendere di sostituirsi totalmente al pensiero divino. Per la verità sull’analisi di articoli come questi bisognerebbe fare una ricerca a parte con la certezza di ritrovare in un sufficiente numero di essi esempi in abbondanza del distorto modo con il quale oggi si presenta quella ricerca filosofico-teologica di tipo sostanzialmente scientifico (analitico e cognitivista) che sta riformulando, umanizzando ed immanentizzando totalmente l’intero insieme delle verità rivelazionali. E proprio questo in effetti tenteremo di fare nella seconda sezione, ma limitandoci ad una indagine a campione e su scala estremamente ridotta, cioè senza alcuna pretesa di riportare l’estensione immensa di articoli (e relative questioni) che oggi vengono prodotti in questo campo.
Ma, intanto, va detto che, se Berdjaev trova in qualche modo accettabile la collaborazione tra Filosofia e Religione o Teologia (pur senza sacrificare l’autonomia della prima), egli non accetta assolutamente la collaborazione tra Filosofia e Scienza. Anzi egli ha disegnato in maniera davvero magistrale il percorso della collaborazione tra Filosofia e Scienza che è seguito alla ribellione della Filosofia alla Religione. La Scienza infatti ha inizialmente dato man forte alla Filosofia contro la Religione, per poi però non tardare a sottometterla ed asservirla completamente dopo averle concesso appena un brevissimo periodo di libertà. Ma la schiavitù che ne è seguita è stata ben peggiore di quella della Filosofia alla Teologia. Infatti essa è stata caratterizzata non più da una tensione dialettica (con tutte le sue fasi alterne ed anche le stesse contraddizioni) ma invece dall’annientamento totale della Filosofia stessa,; dovuto soprattutto al fatto che la Scienza ha iniziato ad avere essa stessa “pretese filosofiche”. Che sono andate avanti fino a fondare uno scientismo, in nome del quale addirittura il filosofo non ha più il diritto di parlare di filosofia ma invece è obbligato a parlare solo di scienza. E questo fatto – accettato ormai supinamente ed in pieno dalle Facoltà di Filosofia (soprattutto a causa del terrore folle di non contare più nulla in campo accademico) – è diventato ormai del tutto ordinario e perfino canonico. Tanto che nessun filosofo accademico oserebbe nemmeno lontanamente metterlo in discussione. Oltre a ciò è avvenuto che la Scienza con la pretesa di essere la Filosofia stessa ha iniziato a sfornare a ciclo continuo teorie globali addirittura sull’essere stesso.
E questo è assolutamente paradossale perché per definizione la scienza si occupa di fatti isolati e non invece di totalità.
In ogni caso va detto che Berdjaev deplora (sulla base soprattutto di Scheler) la totale inappropriatezza dell’attacco portato continuamente dalla Religione alla Filosofia; dato che invece questo ha proprio impedito che la Filosofia potesse dominare sulla Scienza.
Ma comunque la totale e naturale divergenza tra Filosofia e Scienza dipende per il pensatore russo dal fatto che la prima usa ormai disinvoltamente (e senza alcuna vergogna) il metodo scientifico. Eppure alla fine la divergenza è assolutamente necessaria perché Filosofia e Scienza hanno due oggetti totalmente diversi – la prima si occupa dell’essere (e precisamente del suo senso) e la seconda si occupa invece delle mere cose (e precisamente della loro struttura), ossia si occupa appena degli oggetti dell’esperienza sensibile. Tuttavia vi è anche un altro aspetto (messo in luce da Berdjaev, e di nuovo per mezzo di Scheler); cioè la questione dell’oggettività della conoscenza. La Scienza pretende infatti che la Filosofia non possa essere soggettiva proprio per poter conoscere in modo rigorosamente oggettivo. Infatti per essa tutto è “oggetto” perfino il soggetto stesso, incluso lo stesso soggetto filosofante. E quindi la Filosofia scientifica di fatto impedisce alla Filosofia di esistere in quanto sopprime l’esistenza del filosofante. Ecco insorgere quindi quell’”obiettivazione” che Berdjaev condanna dappertutto nel suo pensiero come ciò che distorce totalmente la conoscenza (specie per la sua pretesa di sottomissione totale a quell’universale che viene considerato come garanzia massima di oggettività) [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 2 p. 221-231]. Tuttavia, a causa di questo, avviene infine una restrizione dell’ambito di conoscenza in generale, che è così penalizzante da obbligare il conoscente a ad andare oltre i limiti della Scienza nel campo delle famose teorie scientifiche.
E qui, nonostante le pretese avanzate in tal senso, la Scienza cessa decisamente di esistere per lasciare il posto alla Filosofia. sebbene essa di guardi bene dall’ammetterlo. Ma intanto ciò non può avvenire realmente per davvero sia perché la Scienza omette il dovere di non superare questo limite, sia perché la Filosofia non rivendica affatto il diritto di occupare questo campo del tutto da sola.
Orbene, abbiamo visto finora una serie di problematicità, delle quali le principali sembrano essere la totale trasformazione della Teologia in Filosofia («teologia filosofica») e la totale trasformazione in Scienza da parte della Filosofia. Berdjaev ci mostra chiaramente che si tratta di due forme gravi di asservimento e coartazione della Filosofia.
Ma successivamente (I p. 28-38) viene da parte sua l’indicazione delle soluzioni a tutta questa abnorme situazione. Le soluzioni sono sostanzialmente tre: − il riconoscimento che la Filosofia si basa su quell’”intuizione” che include anche l’emozione oltre che la Ragione, la centralità dell’uomo nell’esercizio della Filosofia (in quanto sostanziale vissuto esistente), la natura unicamente interiore dell’essere indagato dalla Filosofia in obbedienza al fatto che essa coincide totalmente con l’uomo.
Essendo “intuizione” (e precisamente “originaria”) la Filosofia coglie infatti in maniera assolutamente unica l’”ampiezza dell’esperienza vissuta”, e così anche la sua “pienezza”. Cosa possibile solo se la Ragione poggia interamente su quell’”ontologia” (onticità) del filosofo che è poi il suo stesso intenso e diretto vissuto, e quindi include strettamente le sue emozioni (amore, odio, sensibilità per i valori). Su questa base, quindi, è evidente che il campo della conoscenza umana (Ragione umana) diverge radicalmente dal campo della conoscenza divina (o Ragione divina) che è poi il campo della Rivelazione. E ciò conferma senz’altro la distanza che vi deve essere tra la conoscenza filosofica e quella teologica. Ma intanto proprio per questo la Rivelazione si impone sull’uomo che non può assolutamente impersonarla né possederla, e quindi ne viene sempre scosso e trasformato interiormente. Ecco dunque il timido germogliare del seme di una Filosofia religiosa, che consiste nell’avere la Rivelazione come contenuto “mistico” del proprio pensare. Si tratta in altre parole di quell’assumere la Rivelazione come materiale fondamentale per la riflessione filosofica.
E ciò è peraltro esattamente quanto è sempre avvenuto nella filosofia cristiana più prossima al platonismo e quindi più incline ad essere una filosofia religiosa entro la quale la Filosofia non si fonde affatto alla Teologia in una «teologia filosofica» che è solo filosofare logico-razionale [Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73]. Qui insomma lo sfondo del filosofare resta sempre «contro-razionale» o «iper-razionale», con la conseguenza che l’umana logica razionale non assume mai il predominio divenendo così assolutamente dirimente. Eppure questa valenza dirimente dell’umana logica razionale (con la svalutazione brutale della natura «contro-razionale» ed «iper-razionale» delle Verità rivelazionali) è esattamente ciò che è stato affermato nell’estrema evoluzione della «teologia filosofica» nell’attuale scienza analitico-cognitivista della Religione.
Resta comunque per Berdjaev assolutamente indispensabile la dimensione umana della conoscenza, la quale comporta perfino anche un’”umanizzazione” della conoscenza di Dio. Ma nello stesso tempo si verifica per lui una stupefacente continua “commensurabilità” tra conoscere umano e conoscere divino sulla base della intima somiglianza tra uomo e Dio – ossia umanità di Dio e divinità dell’uomo. E per questo alla fine la così decisivamente umana Filosofia diviene perfino piena conoscenza di Dio, ossia autentica filosofia religiosa. In tale contesto l’umanizzazione è dunque qualcosa di estremamente felice. E come vedremo questo entra in frontale conflitto con il discredito gettato dal post-teismo sull’antroporfizzazione del Dio manifestato nella Rivelazione.
Anzi Berdjaev afferma che, entro la conoscenza in generale, ci sono addirittura tre gradi di “umanizzazione” della conoscenza – massima nella Religione, media nella Filosofia e minima (se non inesistente) nella Scienza. Non a caso quest’ultima si allontana anni luce dal vero scopo della conoscenza e dalla sua dimensione, dato che si sposta nel campo della profondità degli enti. Insomma l’umanizzazione è massima proprio nella Religione, ossia nel vissuto (pratico e conoscitivo) dei contenuti della Rivelazione.
In altre parole l’umanizzazione della conoscenza di Dio è una risorsa e non un impedimento; e ciò per il semplicissimo fatto che la stessa Rivelazione cristiana la esige, dato che il suo nucleo è quell’umano-divinità che consegue ineluttabilmente all’Incarnazione.
In ogni caso sono secondo Berdjaev da riconoscere tre livelli e gradi (ed anche principi e dimensioni) della conoscenza: − uomo (Cultura), Dio (Grazia) e Natura (Necessità). E quindi sulla base di questo sono riconoscibili anche due estremizzazioni che pongono illegittimamente fuori gioco l’uomo: − unilaterale conoscenza di Dio e unilaterale conoscenza della Natura. È evidente quindi che l’autentica filosofia religiosa (dato che la Filosofia si incentra unicamente sull’uomo) non può essere assolutamente estremistica. Essa insomma non può affatto pretendere di rappresentare una conoscenza di Dio che bypassa totalmente l’uomo. Cosa che di nuovo riabilita totalmente l’antropomorfismo di Dio. Il che è peraltro anche estremamente plausibile, perché in questo caso vi è solo il pensiero divino (Rivelazione) e per nulla invece la ricezione della Rivelazione da parte del filosofare umano. E questo del resto contraddice in modo evidente lo scopo stesso della Rivelazione, che altro non è se non il desiderio divino di comunicarsi all’uomo proprio sul piano della conoscenza.
In altre parole la filosofia religiosa non può in alcun modo essere estremistica in quanto essa deve sempre passare per la conoscenza propria dell’uomo. Il che significa anche che l’uomo può conoscere Dio e la Natura solo attraverso sé stesso.
E deve anche essere pronto a riconoscerlo ed ammetterlo. Al di fuori di questo non vi può quindi essere altro che una filosofia religiosa fatalmente illegittima (in quanto pretesa assurda della dissociazione tra divino ed umano). E forse essa è proprio quella che Berdjaev riconosceva nella tradizione teosofica, platonica e neoplatonica. Ma, al cospetto di ciò, si delinea una dimensione estremamente complessa che alla fine ci riposta alla rigorosa distinzione istituita da Scheler tra Religione e metafisica [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018]. Infatti, dice il filosofo russo, a fronte (ad anche all’opposto) di una filosofia religiosa estremistica vi è la “naturalizzazione delle verità religiose”, e cioè di fatto quella cosmologia ingenua (oltre che in parte anche razionalistica) – che pretende poi dogmaticamente di essere fondata in una lettura letterale della Rivelazione – che secondo lui la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare integralmente. Ma non solo la Filosofia ha questo diritto. Forse invece lo ha ancora più la Religione. Dato che il Dio da essa venerato e pregato è il Dio Vivente (quello di Abramo, Isacco e Giacobbe), e non invece il puro Assoluto divino (che è solo puramente metafisico). Eppure esso pretende di essere tale proprio entro la cosmologia ingenua – la quale in definitiva, come sostenne Hessen, non è altro che un intellettualismo razionalistico assolutamente anti-realiste e quindi non descrivente affatto l’esistenza reale [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, I, I, 1 p. 15-19, II, VII p. 224-234]. E proprio per questo la Filosofia deve rigettare il cosmologismo ingenuo – ma non solo in nome di sé stessa bensì forse ancor più in nome della Religione. In questo senso, per Berdjaev, la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare la fede ingenua. Ebbene, del tutto paradossalmente, proprio entro la più rigorosamente filosofica scienza della Religione analitico-cognitivistica, noi ritroviamo affermazioni che di fatto si allineano perfettamente a questa così illegittima naturalizzazione delle verità religiose che porta infine a negare quel Dio Vivente che è tutt’altro che un puro Assoluto metafisico. Paolini Paoletti cita infatti moderne teorie della Trinità entro le quali viene negata espressamente proprio la realtà del Dio-Persona [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, p. 173]. E vedremo che lo stesso accade entro il post-teismo, dato che in esso il Dio-Persona viene negato (con il pretesto dell’antropomorfismo) proprio in nome invece di un Dio apofatico che null’altro è se non il puro Assoluto metafisico.
Il che è davvero paradossale, oltre che ridicolo. Ciò significa insomma che forse vi è un rischio ancora maggiore di quello dell’estremizzazione della filosofia religiosa (quella in generale platonica), e cioè quello rappresentato da una riflessione apparentemente rigorosissima (dal punto di vista logico-razionalistico) ma di fatto invece meramente naturalistica. In essa insomma si commette il fatale (ed anche banalissimo) errore di voler trattare di Dio alla stregua dell’esperienza naturale. Ma intanto proprio per questa via lo si trasforma nuovamente in un puro Assoluto metafisico, dato che intanto le evidenze naturali contraddicono il Dio antropomorfico che viene effettivamente presentato dalla Rivelazione. E così senz’altro non si va da nessuna parte.
Ma Berdjaev ci offre un contesto estremamente suggestivo ed illuminante di questo paradosso; che poi costituisce per lui un altro aspetto della solitudine tragica che tocca inevitabilmente al filosofo. Si tratta della dimensione in verità meramente sociale ed affatto autenticamente conoscitiva di questo genere di conoscenze. Il che avviene in Filosofia, in Religione ed anche in Scienza. Accade quindi che vengono affermati dottrine e metodi conoscitivi che hanno una mera valenza sociale pur pretendendo di presentarsi invece come oggettivi e cogenti dal puro punto di vista conoscitivo. E così, su questa base, viene violentemente attaccato il filosofo (ma anche il teologo o perfino il semplice credente) che osi contraddire le cogenze sociali così affermate. Accade pertanto che il filosofo religioso che si fa scrupolo di guardare in faccia a Dio (senza alcuna intermediazione canonico-sociale) resta non solo totalmente inascoltato e non riconosciuto nel proprio ruolo, ma viene anche violentemente aggredito. Ed ecco allora il fatale delinearsi di pensatori originali (davvero indipendenti e rinnovatori) così come anche di autentici santi e mistici che vengono sempre o trascurati o screditati e combattuti. Nel nostro Paese uno di questi è stato senz’altro quel Don Dolindo Ruotolo [Grazia Ruotolo, Luciano Regolo, Gesù, pensaci tu, Ares, Milano 2020] che ebbe il coraggio di affermare chiaramente che l’aiuto divino esiste realmente e che quindi Dio null’altro è se non Persona, ossia Gesù stesso ancora presente nel mondo come Spirito e peraltro concretamente agente.
Ed ecco che, come dice Berdjaev, nel campo della conoscenza l’uomo può prendere solo due posizioni radicalmente alternative tra loro (nel senso di un vero e proprio aut aut): − 1) o egli si pone incondizionatamente di fronte al mistero dell’essere, ed allora ne nasce la vera Filosofia, con la sua conseguente intuizione e partecipazione della Rivelazione; che rende l’uomo senz’altro indifeso ma anche lo arricchisce infinitamente; 2) oppure egli si pone di fronte agli altri, o società, con la sottomissione ad essa della conoscenza filosofica. E tutto questo significa per il filosofo russo che la Filosofia può essere solo intensamente personale e soggettiva in quanto richiedente la presenza vivente del filosofo [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Cosa che può benissimo venire estesa anche al semplice uomo comuno quale credente.
A causa di questo l’intera storia della filosofia è per lui storia delle visioni personali dei singoli pensatori, ed inoltre solo in esse (grazie ad un’intuizione che può essere solo soggettiva) si coglie per davvero la verità. Essa infatti viene colta solo interiormente e proprio come tale non è mai verità oggettiva ma invece solo trascendente; ossia luce proveniente dall’Origine della quale un riflesso viene colto dallo spirito individuale. Il che implica poi anche un limite ben preciso nel senso della ristrettezza – in tal modo infatti il filosofo non può cogliere mai l’intera verità ma appena alcuni dei suoi raggi che penetrano nel suo intimo. Il che comporta nuovamente l’importanza decisiva della dimensione umana in Filosofia, dato che essa conosce solo “nell’uomo e per mezzo dell’uomo”. Ne consegue che non vi può essere alcuna Filosofia in quanto disciplina autonoma nel senso dell’oggettività (specie se rigorosamente razionale e quindi scientifica).
Essa invece può essere solo vitale (oltre che pratica ed azionistica), ed affatto teoretica. Su questa base per Berdjaev non è giustificata né legittima alcuna Filosofia “accademica” e “di scuola” (“akademische Schulphilosophie”). Ne consegue inevitabilmente che per lui è una figura del tutto ridicola il metafisico ripiegato sui libri dietro la propria scrivania. Invece il mistero dell’essere può venire dischiuso solo nel corso di una vera e propria immersione del filosofo nel destino umano in quanto incondizionato esistere.
Ecco che c’è qui allora da chiedersi quanto dell’attuale riflessione scientifico-religiosa − così accademica, così professorale, così dipendente dagli unici dibattiti ammessi nelle Accademiche, così irrigidita nelle forme espressive che le Accademie ritengono valide, così marchiata dall’ossessione protagonistica (delle varie “la mia soluzione alla questione…”), così asetticamente sterilizzata da ogni forma di presunta “ingenuità” – possa davvero recare i tratti di questo pensare il cui protagonista è pienamente uomo e come tale è immerso nel pieno dell’esistenza e perfino nel proprio destino. E la domanda è ancora più legittima se si tiene conto del fatto che essa tratta verità di fede. Dunque dov’è qui l’esperienza di fede più viva? Dov’è qui l’esperienza religiosa più autentica, ossia quella che presume di stare ad immediato contatto con Dio?
Questo problema diviene però ancora più drammatico se teniamo conto della relazione tra soggetto e mondo che Berdjaev indaga susseguentemente [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 51-59]. Qui in generale il pensatore sostiene che lo spostamento avvenuto modernamente in Filosofia dall’oggetto all’oggetto aveva fatto sì che il soggetto stesso non si trovasse più realmente in relazione con l’essere ma invece si trovasse con esso in una relazione puramente conoscitiva. Tuttavia, allo scopo di garantire l’affidabilità di tale conoscenza (ossia il suo rigore) si tendeva intanto a trascendentalizzare il soggetto (Kant, Fichte, Hegel, Schelling) trasformandolo così in un Io assoluto che poi altro non voleva essere se non un Io divino di tipo impersonale. Cessava quindi così per sempre il personalismo della conoscenza in generale ed ancor più di quella filosofica. E così la conoscenza dell’oggetto non era più umana ma unicamente divina.
Nello stesso tempo si esigeva che l’oggetto conosciuto dovesse essere indipendente dal soggetto, con la conseguenza che cessava qualunque relazione tra i due termini. E quindi si affermava un concetto di “oggettività” che consisteva esattamente nella rigorosa separazione dell’oggetto dal soggetto, invece di essere “rivelazione” (“Enthüllung”), “visibilità” (“Sichtbarwerden”) e “corporizzarione” (“Verkörperung”) dell’oggetto stesso, e quindi dell’essere. Necessariamente iniziava così a manifestarsi un’“oggettivazione (Objektivierung) del senso”, negando così che invece il senso insorge solo “in me”, ossia in me come spirito umano, specie se filosofo. Ecco dunque – contro quest’ultima prospettiva − delinearsi il ruolo dirimente della coscienza (Husserl) ed ecco il delinearsi del concetto di “spirito oggettivo”.
Ora, a fronte di tutto ciò, è ancora più evidente evidente perché la Rivelazione ha iniziato da questo momento in poi ad essere un termine estremamente sospetto, ed è dunque chiaro perché si è iniziato ad operare contro di essa o almeno fuori di essa.
Ma se andiamo oltre nella riflessione di Bedjaev coglieremo altri aspetti di tale realtà. Perché la conseguenza di ciò che egli descrive è stato un intellettualismo − lo stesso intellettualismo criticato da Hessen ed in effetti presente già molto prima che nel moderno Idealismo − entro il quale il pensiero stesso veniva scambiato per l’essere.
Ed allora, se poniamo che (in termini tradizionalmente metafisico-religiosi l’Essere è Dio stesso) come possiamo meravigliarci dell’attuale tendenza scientifico-religiosa a sostituire la trattazione dell’essere divino (quello manifestato per misteri entro la Rivelazione) con il semplice dipanarsi di pensieri rigorosamente logici (nonché pure astrusi). In tale contesto insomma si ha davvero la sensazione di star trattando di Dio stesso (e perfino in modo infinitamente più pulito logicamente rispetto al passato).
Nel mentre invece ci si sta aggirando appena nel labirinto oscuro della propria mente, e più precisamente (oggi che la Scienza ha sostituito la Filosofia) in una quella specie di mente collettiva che è il mondo della comunità scientifica dibattente fino allo stremo questioni scientifiche (ancor più se in esso finisce per insorgere addirittura il tanto agognato «consenso»).
Il che poi è ancora più grave se si tiene conto del fatto che − entro la relazione soggetto-oggetto criticata da Berdjaev – i pensieri finiscono per essere appena riflesso dell’essere, e mai e poi mai invece coglimento diretto e pieno dell’essere. Che per Berdjaev è invece attivo per definizione e proprio per questo richiede un atto intellettuale di investimento dell’essere (che è sempre attivo ed assertivo per definizione), ossia quell’intuizione che è poi null’altro che visione. Era esattamente ciò che accadeva nell’antica metafisica (illuminata o meno dalla Rivelazione) – in essa l’intelletto umano si trasferiva letteralmente entro il proprio oggetto di riflessione, venendo così da esso impregnato ed illuminato da ogni parte. Ma questa attività del conoscere non è affatto l’attuale tendenza dei teologi- e filosofi-scienziati a forgiare letteralmente ex novo (per la via della pura argomentazione logica) teorie sull’essere divino che invece prima venivano invece ottenute unicamente per la via di una riflessione visionario-intuitiva. E questa era una riflessione sicuramente attiva, ma che intanto recepiva rispettosamente (e con venerazione) i contenuti della Rivelazione, invece di cercare di ricrearli ex novo.
E ciò del resto viene sottolineato da Berdjaev nel sottolineare che l’uomo conosce l’essere solo perché vi si trova immerso dentro. Il che significa poi intrattenere con l’essere (cioè con l’oggetto) una relazione che è strenuamente soggettiva, ossia è personale.
Ebbene questo atteggiamento distorto del soggetto conoscente verso l’essere configura ancora una volta un’”obiettivazione” Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-75]. L’oggettivazione causa insomma una presa di posizione verso l’oggetto (quella contrassegnata dallo stare «davanti» ad esso e non invece «in» esso) in forza della quale l’oggetto stesso cessa semplicemente di avere valenza di essere. Ed in tal modo mai e poi mai la conoscenza dischiuderà davanti a noi il “mistero dell’essere”.
Ecco di nuovo esattamente ciò che accade nella letteratura scientifico-religiosa – essa vede del Dio-Essere tutto il possibile (ed anche di più), tranne l’essenziale, e cioè il Suo mistero. E dunque essa è tale perché in definitiva non vuole essere più in alcun modo una filosofia dell’essere – ossia proprio quella che per Berdjaev è la più autentica e piena Filosofia. Essa invece semmai non è altro che la filosofia della conoscenza (quella dominata dalla sola «teoria della conoscenza») che intanto viene del tutto illegittimamente ed anche scompostamente applicata all’essere. Per di più in quanto essa pretende addirittura di essere non solo filosofia scientifica ma invece scienza vera e propria. Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un complessivo campo di conoscenza che manca completamente il proprio obiettivo, ossia il proprio oggetto, limitandosi così a girare del tutto a vuoto.
In ogni caso veniamo davvero al dunque (rispetto alla nostra questione) laddove Berdjaev stesso si occupa non più della Filosofia con pretese di scientificità ma della conoscenza scientifica stessa [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-117].
Qui egli afferma che non c’è nulla che possa separare di più il conoscente dal mistero dell’essere se non quella pretesa della validità conoscitiva (con tutto il suo pesante ed ingombrante corredo di leggi logiche in funzione rigidamente normante) che annienta letteralmente qualunque atto di intuizione ed inoltre anche la stessa dimensione soggettivo-personale della conoscenza, ossia la dimensione vitale ed immersiva del filosofare. E peraltro egli sottolinea anche che qui non ci troviamo più affatto per davvero sul piano della conoscenza, bensì invece sul piano di mere esigenze sociali (mascherate da conoscenza) – nelle quali non a caso domina una cogenza che pretende di sottomettere tutto e tutti (è insomma di nuovo il luogo del dominio dell’universale).
A questo seguono poi le considerazioni del pensatore sulla dimensione religiosa che insorge per via sociale di tipo comunionale allorquando l’Io supera la sua dimensione solipsistica per porsi in intima relazione con l’altro Io [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III p. 111-162]. Tali considerazioni non riguardano direttamente la nostra questione per cui non ne tratteremo. C’è da chiedersi però se l’attuale ricercatore scientifico-religioso non sia vittima proprio del solipsismo dell’Io che viene deplorato da Berdjaev, e quindi, proprio per questo, non abbia la benchè minima chance di porsi in connessione con un aspetto fondamentale della dimensione religiosa, ossia quella comunionale. Laddove poi il pensatore russo sottolinea che quest’ultima è davvero ecclesiale solo nella misura in cui è un’autentica “comunione spirituale” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. E quindi è estremamente lontana da quella dimensione ecclesiale meramente istituzionale entro la quale del tutto non a caso questi ricercatori si muovono perfettamente a loro agio e nel pieno consenso delle autorità, visto che in fondo sono dei teologi (e spesso anche sacerdoti e predicatori). Peraltro Berdjaev sottolinea che la tensione dell’Io verso l’altro tende del tutto naturalmente a Dio stesso. Anzi abbiamo un massimo tendere a Dio in quel “teoandrismo della conoscenza” che costituisce uno dei vertici della tensione dell’Io verso l’altro.
A ciò va solo aggiunto (sempre da DIWO) che per Berdjaev solo nella dimensione personale (dell’essere e necessariamente anche del conoscere, specie se filosofico) può esservi una relazione con Dio – che è esso stesso Persona ed inoltre proprio per questo è intimamente connesso all’uomo entro l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-43]. La dimensione personale è dunque sempre e per definizione partecipazione di Dio. Inoltre nella relazione con Dio si finisce per superare anche la stessa dimensione personale-immanente dell’uomo, dato che In ogni caso la personalità non sussisterebbe senza avere qualcosa di “sovrapersonale” (“Überpersönlich”) sopra di sé, e quindi qualcosa di alto che la determina [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 1 p. 205-220]. Si tratta ancora una volta dell’umano-divinità come carattere simultaneo della dimensione personale umana e divina. E quindi proprio in questa determinazione sovra-personale della persona consiste il mistero stesso della persona umana. Anzi il pensatore russo sottolinea che la dimensione della persona emerge in verità solo nella Rivelazione ed affatto invece mai né entro l’esperienza naturale né entro il pensiero umano. Infatti la persona, non essendo (come invece lo è l’individuo) un “fenomeno” (“Erscheinung”) naturale, esso è solo immagine di una “similitudine” (“Gleichnis”) dell’uomo a Dio.
Figuriamoci quindi come e quanto elucubrazioni scientifico-religiose di tipo logico come quelle sull’”ontologia della relazione” (Paolini Paoletti) possano restituirci il mistero centrale stesso della Trinità e cioè la rivelazione dell’ontologia più alta possibile della persona (tanto umano quanto divina).

I-2. L’umano-divinità e la realtà personale dell’umano-divino in quanto Spirito.
Ma veniamo ora al testo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018], nel quale potremo cogliere un altro aspetto delle riflessioni su Dio, e cioè quello ancora più legato ad un aspetto essenziale della divinità stessa, ossia quell’umano-divinità che è nello stesso tempo nucleo della dimensione personale e nucleo della dimensione spirituale. Si vedano per questo anche le considerazioni che abbiamo fatto nel nostro saggio sul Personalismo e nel nostro articolo sulle relazioni tra il pensiero di Edith Stein e lo Spiritualismo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/].
Qui in generale Berdjaev sostiene l’assoluta equivalenza esistente tra persona umana, spirito ed essere.
E quindi per definizione istituisce un’intima relazione tra l’uomo e Dio proprio sul piano della realtà personale. Quindi nulla come queste riflessioni possono sconfessare le attuali riflessioni scientifico-religiose sul post-teismo. Infatti se Dio è persona non può essere in alcun modo una generica deità. E va qui anticipato che in genere per “post-teismo” si intende senza ormai alcun imbarazzo qualcosa di simile ad una «religione senza Dio». Vedremo però poi quale multiforme e bizzarro campionario di idee è incluso in questa complessiva teoria, date le su dirette premesse anti-teistiche ed atee.
Vediamo ora se in Berdjaev riusciremo a trovare argomenti convincenti contro questa dottrina anche senza chiamare in causa la predisposizione della Filosofia ad essere religiosa. Si tratterebbe quindi di argomenti preventivi che possono fungere da paradigma per esprimere alla fine un giudizio sul post-teismo.
Bisogna peraltro premettere che il pensatore russo non è affatto incline ad un teismo di tipo dogmatico, ingenuo e addirittura cosmologico-naturalistico (come quello che è stato affermato nel Cristianesimo a partire dalla Scolastica per poi prolungarsi di fatto, sebbene in maniera sempre meno esplicita ed affermativa) fino ai giorni nostri.
Qui va detto però che evidentemente questo non fu altro che l’aspetto essoterico (e non esoterico) dell’onto-metafisica cristiana. Quindi è assolutamente certo che esso è stato affermato ed anche molto propagandato come articolo di fede. Ma intanto il vero motivo di tutto ciò non riguardò affatto la dottrina in sé (la cui natura era unicamente esoterica, e quindi affatto letterale, come di certo ben sapevano i suoi sostenitori) bensì riguardò unicamente quella esigenza sociale che non a caso anche Berdjaev sottolinea, ossia l’esigenza di affermare un Ordine cosmico che alla fine aveva una valenza meramente politica. Ed è ovvio che tale Ordine andava mantenuto con il terrore, ossia per mezzo del dogma. Anzi al proposito il pensatore russo sostiene che il Cristianesimo originario fu profondamente stravolto in questo senso dal prevalere in esso di uno spirito barbarico in fondo pagano, tutto germanico e tutto politico-teocratico che era ossessionato dalla violenza delle passioni, alle quali esso cercava appunto rifugio nell’ordine più inflessibile possibile [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 2 p. 8-16].
Berdjaev definisce tale tendenza come prevalre del “principio angelico”, indicando con ciò la presunzione che l’esistenza di Dio (e soprattutto l’esistenza di Dio nel mondo specie grazie all’umano-divinità, cioè all’Incarnazione nella sua pienezza) potesse venire affermata unicamente sulla base di un mero simbolismo che sosteneva la divinità integrale del mondo nel mentre intanto (contraddicendosi totalmente) svalutava totalmente quest’ultimo [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8, 3-4 p. 17-25]. Egli ritiene invece che la divinità del mondo debba venire affermata integralmente, ossia in modo realmente coerente, e ciò in forza del concetto di Incarnazione una volta affermato con estremo coraggio da parte della Chiesa cristiana. Cosa che per davvero non è mai accaduta, visto l’imbarazzo che essa ancora prova davanti a questo concetto (come peraltro evidente al massimo proprio nel post-teismo).
Eppure sta di fatto che (come egli constata) il dissolversi progressivo del principio angelico (sotto la spinta possente della sempre maggiore valorizzazione umanistica ed immanentista del mondo) ha portato al risultato per nulla desiderabile della separazione tra uomo-mondo e Dio. In altre parole possiamo dire che un teismo troppo estremistico (che poi è quello che vuole un mondo penetrato da Dio ma intanto solo nella Sua distanza incommensurabile dal mondo stesso) porta a risultati senz’altro controproducenti. E questo è senz’altro quel teismo trascendentista che poi (a causa delle sue oggettive colpe) può venire considerato il remoto punto di partenza dell’ultra-moderno post-teismo. Quest’ultimo affonda quindi senz’altro le sue radici nelle obiezioni che prima la Filosofia rinascimentale della Natura e poi l’Illuminismo (per culminare infine nel Positivismo) iniziarono a muovere proprio contro la credibilità (razionale ed esperienziale) di un Dio Trascendente; e ciò peraltro a fronte di un mondo che la scienza empirica iniziava a mostrare sempre più come un meccanismo perfetto. In altre parole fu proprio in questo modo che si iniziò a considerare l’esistenza di Dio come insostenibile alla luce dell’esperienza e della Ragione. Egli sottolinea peraltro che la teologia che si mosse in tal modo fu una teologia sostanzialmente apofatica (sebbene non sempre in modo letterale) che di fatto temeva fortemente un’antropomorfizzazione di Dio, e quindi una valorizzazione del mondo che si basasse proprio su quest’ultima. Sta di fatto comunque che, come vedremo in Gamberini, questo genere teologia (per moto tempo restata nascosta tra le pieghe della teologia razionale e naturale) si è alla fine manifestata pienamente proprio nel post-teismo. In esso infatti l’accusa all’antromorfismo è divenuta massima.
Non vi è quindi dubbio che questo genere di teismo non è affatto una via praticabile per opporsi al post-teismo. Anzi addirittura si può essere certi che ne rafforzi gli argomenti.
Contro questo approccio Berdjaev sostiene la necessità di una santificazione del mondo che abbia al suo centro un amore verso Dio che sia simultaneo all’amore verso il mondo. Proprio per questo egli propone la via di un’attività creativa umana (anch’essa assolutamente da santificare), che però gli sembra possibile solo se finalmente viene superato quel platonismo tendenzialmente gnostico che secondo lui è residuato nello stesso Cristianesimo nella forma di un dualismo (opponente radicalmente il Trascendente all’immanente) entro il quale si finisce per confondere fortemente Dio stesso con il Diavolo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43]. Infatti in tale contesto vi è da un lato un’identificazione strettissima del mondo con il male, ma anche una forte rassegnazione al mondo così com’è. Con la grave conseguenza che il male non viene combattuto. Laddove per lui la via per farlo è esattamente quella di una trasfigurazione creativa del mondo stesso, in modo che esso divenga ancora più divino di quanto non sia di per sé in forza della creazione. Egli postula infatti un’attiva collaborazione dell’uomo e del mondo alla creazione. E ciò implica il superamento di un pessimismo (senz’altro incentrato sull’ossessione cristiana per il Peccato) che di fatto equivale fortemente allo stesso “dubbio scettico”, ossia all’agnosticismo ateo. Esso insomma comporta la mancanza di una vera fede in Dio, e precisamente della fede in un Dio realmente presente nel mondo.
E invece secondo Lui Dio è presente indubitabilmente nel mondo, ma lo è per la precisione per mezzo dell’uomo stesso e della sua creatività; a sua volta (teologicamente) incentrata su quell’umano-divinità che poi ha le sue radici nell’Incarnazione accettata senza più alcuna riserva (né trascendentista né scettica).
Ed a questo scopo egli non esita a dichiara di chiedere in un “monismo quasi panteistico”. La cui natura deve però venire ben chiarita per non cadere in quella fatale “antinomia” dell’esperienza religiosa che non solo rende quest’ultima assimilabile ad una fede infantile, ma soprattutto la rende paralitica, e quindi incapace di opporsi davvero al male in forza di una (non dichiarata ma anche non del tutto consapevole) assuefazione ad un mondo che intanto si disprezza fortemente. Ebbene tale antinomia può secondo lui venire superata solo se si diviene consapevoli in primo luogo del fatto del fatto che Dio e mondo sono simultanei (Dio “è immanente al mondo e all’uomo”, così come però “il mondo è l’uomo sono immanenti a Dio”) ed in secondo luogo del fatto che il mondo deve venire considerato extra-divino solo nella misura in cui intanto è divino (“il mondo è totalmente extradivino” ma come tale è “totalmente divino”). A suo avviso un’esperienza religiosa può essere piena ed attiva (e dunque non antinomica) solo se si basa su questa fede estremamente forte. Forte soprattutto perché essa è capace di esporsi alle evidenze negative del mondo senza mai venire scossa.
Ed è evidente che il nucleo di questa fede è la ferma certezza che Dio è presente nel mondo. E nel nostro articolo sullo Spiritualismo abbiamo chiarito che ciò equivale a credere che Gesù Cristo è restato nel mondo come Spirito incessantemente trasfigurante (e quindi di realizzare l’impossibile qualora invocato) dopo essere nuovamente asceso al Padre.
Tutto ciò conserva comunque tutta la tensione cristiana verso il superamento del mondo, ma senza che mai essa si trasformi in paralisi dell’azione.
E qui egli finisce per sostenere che la relazione tra uomo e Dio deve essere assolutamente immediata e diretta in quanto essa si incentra proprio nel pieno impersonamento da parte dell’uomo della creatività che lo contraddistingue per dono divino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 75-82]. Il che implica la libertà da qualunque condizionamento, incluso quello della stessa teologia.
A questo punto le considerazioni del pensatore riprendono l’intera materia che abbiamo discusso nella sezione precedente rispetto alla dimensione religiosa della Filosofia. Il che significa che per lui la Filosofia stessa (una volta libera e ben intesa) è una risorsa posta a disposizione del vero credente. E ciò soprattutto perché essa ci pone in contatto con la Rivelazione esattamente così com’è, e quindi né riletta, né interpretata, né ridotta nella sua portata (ossia non distorta). Qui vi è già un fortissimo argomento anti-teistico proprio in quanto decisamente anti-teologico. Infatti cosa fanno gli ultra-moderni scientifico-religiosi (ossia i teologi stessi, specie se post-teisti) se non mettere fortemente in ridicolo la fede in Dio realmente presente nel mondo? È evidente quindi che, se si crede a quest’ultimo, non si può credere alle elucubrazioni post-teistiche nemmeno sulla base delle più rigorose e sofisticate argomentazioni logico-critiche. Infatti in questo caso il credente vivrà un’esperienza religiosa che è in primo luogo diretto contatto con Dio, e lo è in modo così intimo da costituire in tal modo uno spazio assolutamente inviolabile. Insomma nessun teologo, o predicatore, o apologeta, o chicchessia, avrà il minimo diritto di irrompere in questo spazio con quelle sue argomentazioni scettiche che oggi fin troppo stesso vengono considerate addirittura indiscutibile articolo di fede.
Tra l’altro a ciò si aggiungono anche fortissime considerazioni metafisico-filosofiche [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Infatti Berdjaev sostiene che l’uomo è di per sé consapevole di essere universo ed anche centro dell’universo, ossia autentico ”centro dell’essere”; ed inoltre proprio per questo esso è perfettamente in grado di conoscere l’universo, e dunque Dio, stesso, senza alcuna intermediazione (specie da parte di una teologia critica). Sostanzialmente perché esso sa di racchiudere in sé l’universo stesso. Ecco dunque che l’uomo è per definizione microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. E questa, dice il pensatore russo, costituisce la via complessiva per mezzo della quale sempre sono stati recepiti dall’uomo (per Rivelazione) gli stessi “misteri dell’universo”; come del resto la vera Filosofia ha sempre saputo.
Dunque perché mai questa via così breve, semplice e diretta a Dio dovrebbe venire resa immensamente lunga, tortuosa e complicata per mezzo di un’argomentazione scientifico-religiosa che nutre una profonda sfiducia proprio nella Rivelazione come fonte purissima ed incondizionata della verità circa Dio? Davvero non si riesce a comprendere la necessità di una simile inutile e pretenziosa complessità. L’unica sua spiegazione può quindi risiedere nell’irrefrenabile ansia di protagonismo intellettuale ed accademico di coloro che la rappresentano. Non a caso questo è il campo nel quale sono fiorite come funghi carriere e cattedre. E ciò proprio per mezzo di una rivivificazione teologica della Filosofia e di una rivivificazione filosofica della Teologia, che di fatto hanno rimesso in piedi delle discipline ormai morte sotto l’urto terribile di una scienza empirica che aveva occupato tutti i campi del sapere e anche tutti i luoghi accademici.
Peraltro proprio tutto questo sottolinea per Berdjaev che molto poco è stato detto finora dai teologi di tutti i tempi (specie nel contesto dell’antropologia della Patristica e dei Dottori della Chiesa) sulla vera natura della “cristologia”; la quale è realmente perfetta coincidenza di uomo e Dio nell’umano-divinità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Essa è stata semmai fortemente depotenziata per mezzo di una forte svalutazione dell’uomo nel suo contesto, che poi ha l’effetto paradossale di svalutare anche l’umano-divinità del Cristo. Con l’ulteriore conseguenza di sostenere una distanza infinita tra Dio e uomo.
Ecco dunque delinearsi nuovamente una remota via che già preannunciava il post-teismo. Vedremo infatti che quest’ultimo assegna all’uomo il ruolo di interprete unico della realtà divina proprio perché quest’ultima è in sé assolutamente ineffabile, e pertanto può essere solo ingenuo considerarla realmente presente nel mondo. E peraltro quanto Berdjaev qui deplora è avvenuto nuovamente per la svalutazione di quella natura personale di Dio che secondo lui va totalmente di pari passo con l’umano-divinità (divinità dell’uomo in quanto persona) e con la divino-umanità (umanità di Dio in quanto persona). Ed eccoci quindi di nuovo di fronte ad una del tutto inutile coartazione neo-teologica di quei misteri cristiani che non solo sono chiarissimi ma anche talmente profondi da permettere una riflessione interminabile su di essi senza alcun bisogno di modificare una sola virgola nel loro contenuto.
È vero che interferisce in questo quella dimensione del mistero che la logica dei teologi vede come il fumo negli occhi. Ma nemmeno questa è un ostacolo per chi decida, come Berdjaev, di guardare a queste cose rispettando in pieno la dimensione della Rivelazione, e proprio come filosofo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 127-133]. Egli afferma infatti che semplicemente “Dio attende dall’uomo la rivelazione antropologica della creatività avendogliene nascoste le vie…”. Ed è proprio su questa base che egli auspica ed anche profetizza una nuova “rivelazione antropologica” entro il Cristianesimo. Egli dice infatti che, una volta che noi abbiamo compreso questo senso specifico della Rivelazione, allora essa si presenterà a noi in forme storiche graduali che procedono inevitabilmente verso il futuro. Vi sono insomma epoche e gradi della Rivelazione cristiana: − dal più basso (Legge), che pone un limite al male insito nell’uomo nel metterlo a nudo; all’intermedio (Redenzione), che restaura la natura umana restituendole la sua libertà, in modo che avvenga una rinascita dell’uomo; fino all’ultimo (Creatività), che restaura davvero in pieno la natura umana.
Dunque per Berdjaev la creatività dell’uomo è qualcosa che riguarda integralmente l’uomo fatto a somiglianza, e quindi è la manifestazione più diretta dell’immagine del Creatore. Ma essa non è né nel Padre né nel Figlio bensì solo nello Spirito. Quindi non è legata al sacerdozio ma solo allo “spirito profetico”, che è poi libertà come quella dello Spirito che soffia dove vuole. Ne deriva che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano”.
E dunque l’uomo, essendo divino per definizione (e quindi in immediata relazione con Dio) ha addirittura in sé tutte le possibilità per rendere del tutto superflua quell’intera ricerca scientifico-religiosa che (almeno sulla carta) è stata messa su per porre rimedio alla distanza invalicabile che (in quanto esistente gettato nel mondo) gli renderebbe assolutamente impossibile toccare la realtà di Dio. Non a caso una delle più forti questioni insorte in questo ambito è stata ed è quella dell’incontestabile male del mondo al quale la teologia cristiana non sarebbe mai riuscita a trovare una soluzione davvero credibile. Ebbene la risposta a questa questione sta già qui in Berdjaev. Ed è la seguente: − l’uomo proprio in quanto ente divino è così prossimo a Dio, e precisamente al Dio-Persona (che non è in alcun modo un Dio Trascendente, ma è invece il Dio Vivo impregnante il mondo come Spirito) che esso ha per davvero la forza di combattere il male del mondo (specie attraverso la trasfigurazione dell’essere che è alla piena portata della propria natura) e quindi di fare come se non fosse mai esistito. Per questo è solo richiesto che l’uomo pronunci quel fatidico ”sì” grazie al quale il Dio Vivo (fino ad allora inattivo per scrupoloso rispetto della libertà umana) finalmente gli offrirà il Suo possente appoggio, manifestandogli così in modo davvero tangibile (sebbene comunque misterioso) la Sua presenza. Del resto proprio questo è il nucleo di una delle più profonde e provocatorie riflessioni sul male che Berdjaev deduce da Dostoevskij − «L’esistenza di Dio è certa proprio perché nel mondo esiste il male» [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, IV p. 67-81]. Il che significa che Dio ha da sempre tollerato il male nel mondo semplicemente perché aveva affidato già all’uomo (in quanto umano-divino e peraltro totalmente libero) il compito di eradicarlo. Pertanto, per risolvere una tale questione non vi era bisogno affatto di alcuna logica, ma invece bisognava solo guardare alla Rivelazione divina con il desiderio autentico di comprenderla.
Ma per questo, come dice Berdjaev, bisogna superare tutto quell’armamentario filosofico-gnoseologico (che egli vede culminare soprattutto nel neo-kantismo) grazie al quale, così come la conoscenza dell’essere è stata resa del tutto inaccessibile all’uomo (fino a considerarlo del tutto inesistente), così anche Dio è stato definitivamente dichiarato un Trascendente irraggiungibile ed anch’esso in forte odore di totale inesistenza [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 153-156]. E senz’altro va vista qui un’altra delle radici filosofiche dell’attuale ricerca scientifico-filosofica (così scettica, dubbiosa e puntigliosamente critica). La verità è invece un’altra ed è semplicissima – Dio è insieme trascendente ed immanente. E non caso per Berdjaev questa consapevolezza è stata del tutto alla portata della mistica e non della teologia.
Il che significa allora che, così come la filosofia ben intesa, anche la mistica rappresenta un potente antidoto all’ultra moderna ricerca scientifico-religiosa. Non a caso in nessun ambito come quello della mistica l’esperienza religiosa viene colta e vissuta nella sua autenticità e integralità, ossia come intima relazione personale con Dio. Eppure udremo Gamberini affermare il valore della mistica in senso diametralmente opposto a quello di un’esperienza religiosa intesa come intima relazione con Dio. Essa ha infatti per lui un valore proprio in quanto è radicale alternativa alla concezione antropomorfica di Dio, e quindi afferma un Dio non realmente presente ma solo ineffabile ed apofatico.
Quanto poi al decisivo concetto di creazione divina (cioè il più grande campo di battaglia entro la ricerca scientifico-religiosa), Berdjaev sottolinea che esso è stato sempre insufficiente proprio in quanto non è stato inteso come un’antropogonia ma invece come una cosmogonia, e quindi non ha mai previsto la creazione di un creatore [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-1775]. Questo significa che Dio invoca letteralmente la nascita divina nell’uomo prima ancora, forse, di pensare alla genesi dell’essere. Dunque tutta la problematicità della creazione di quest’ultimo svanisce di fatto a fronte di una prospettiva completamente diversa. E questa è stata poi la stessa rilettura eckhartiana della creazione come sostanziale nascita divina nell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Vedremo comunque nelle conclusioni come ciò introduca un elemento davvero dirimente entro la polemica post-teista contro l’antropomorfismo.
Ma tutte queste problematicità sono di non poco conto; visto che, come dice il pensatore russo esse sono strettamente connesse ad un razionalismo che è stato sempre connesso al concetto di creazione, lasciando così sospettare addirittura che gli eventi del Genesi compresi nella Rivelazione non siano poi così autentici come si può spontaneamente pensare. Naturalmente comunque il sospetto va rivolto non contro la Rivelazione davvero originaria, ossia quella esoterica, ma invece contro quella che era stata riletta dalla più antica metafisica razionalista (allo scopo di correggere le aporie delle remote teogonie), la quale evidentemente già era diventata unicamente essoterica. Queste problematiche sono infatti strettamente legate ad una creazione di tipo “creaturale” che a sua volta aveva sempre comportato (già entro la metafisica platonica e aristotelica) l’aporia di un essere «già stato», ossia preesistente, nel quale l’uomo fosse destinato a venire accolto. Ma, come si può vedere, entro la visione di Berdjaev la creazione dell’essere non sembra essere affatto necessariamente primaria. E questo genera una prospettiva entro la quale la Trascendenza divina perde molta della sua necessità, dato che di fatto sembra invece che Dio letteralmente accompagni personalmente l’uomo nel corso di tutti gli eventi creativi. Ecco allora che l’antropogonia finisce per manifestare l’Incarnazione già molto prima del Nuovo Testamento. E questo rende vane molte speculazioni critiche sulla creazione divina. Non solo quelle relative all’esistenza o meno di una Materia eterna antecedente o coeva alla creazione, ma anche quelle circa l’eventuale creazione del male da parte di Dio.
In ogni caso Berdjaev sottolinea che caratteristica tipica della creazione (a differenza dell’emanazione che è invece impersonale e involontaria) è l’attività volontaria che fa di essa qualcosa di tipicamente personale, specie nel senso della totale autonomia. E quest’ultima nega chiaramente un Dio Trascendente affermando invece un Dio personale che è necessariamente immanente, ossia presente nel mondo.
Qui però egli fa una precisamente decisamente anti-teistica, dato che per lui il Dio Trascendente ha le caratteristiche tipiche del classico Dio del teismo, cioè un Dio per definizione separato dal mondo. La sua soluzione a questo problema sta nel dinamismo creativo che è essenzialmente energia creativa incessantemente riversantesi nel mondo. Ma questo è per lui null’altro che la dottrina trinitaria (presa però così com’è senza alcuna correzione), ossia dinamismo della vita divina che è creazione nel mentre è amore tra le Persone divine. Ecco quindi che, almeno in via di principio, il concetto di Trinità non dovrebbe costituire alcuna problematicità logica. Anzi tutt’altro.
Tanto più che con ciò sta in relazione la creatività umana in quanto continuazione della creazione divina. Ma in tal modo si ripresenta nuovamente la sagoma davvero decisiva dell’umano-divinità, dato che quest’uomo condividente la creazione divina non può essere in alcun modo una creatura finita da Dio nel momento della sua messa al mondo. Esso invece è per definizione un ente creato come non finito, e, proprio come tale, è chiamato a completare il proprio essere attraverso la propria creatività. Esso allora è Signore dell’essere in quanto, a causa di tutto quanto finora illustrato, Dio stesso gli ha ceduto questo status per mezzo di una kenosis che è stata estremamente precoce. Ecco che si nuovo l’Incarnazione si presenta già nel bel mezzo del Genesi; dimostrando peraltro così che essa non è affatto “epistemicamente inappropriata” come sembra alla ricerca scientifico-religiosa. Anzi tale presenza dimostra proprio che gli eventi biblici vanno letti esotericamente e non essotericamente – e quindi in questo senso in modo non letterale.
Del resto Berdjaev afferma che in assenza della postulazione di tutto questo non vi è nemmeno un vero Cristianesimo. E questo nuovamente sgombera il campo da una grande serie di questioni sulle quali la ricerca scientifico-religiosa si appoggia nelle sue argomentazioni.
Ma in tutto ciò l’evidenza così forte della kenosis creativa (per di più in quanto unita intimamente all’Incarnazione) sottolinea l’importanza decisiva del Cristo in quanto Dio-Uomo ed anche Dio-Persona, ossia di quel Dio Vivo che non può in alcun modo venire posto in discussione da alcun anti-teismo o post-teismo. La Sua presenza comporta infatti la relazione con Dio, che a sua volta secondo Berdjaev è possibile solo da uomo a uomo, ossia solo se anche Dio è un uomo. in questo consiste l’esperienza religiosa nella sua pienezza. Essa, dice il pensatore russo, consiste nel fatto che “l’uomo inizia così una vita caratterizzata da un rapporto interiore, reciproco e profondo con Dio; inizia una sua partecipazione cosciente alla natura divina”. Ecco che per davvero, senza il Cristo, è impossibile relazionarsi con Dio, perché Egli altrimenti è lontano e spaventoso. E solo se fosse davvero così allora la discussione sul post-teismo avrebbe un senso. Ma non è così in quanto il Cristianesimo crede in Cristo e non nel Dio biblico.
Ecco allora che l’intera argomentazione scientifico-religioso si rivela del tutto superflua proprio perché essa esautora totalmente la pienezza dell’esperienza religiosa. È insomma una pur e vuota retorica che nemmeno sfiora la dimensione religiosa.
A tutto ciò si aggiungono ulteriori considerazioni di Berdjaev che illuminano una serie di aspetti di davvero fondamentale importanza e che certamente costituiscono altrettante problematicità nel contesto della ricerca scientifico-religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VI p. 190-196]. Si tratta del tema della libertà umana connessa con i fenomeni del Peccato e della Caduta. La tesi del pensatore russo è estremamente originale e proprio per questo estremamente illuminante. Egli sostiene infatti che la libertà di Adamo era negativa per definizione in quanto divisa tra obbedienza assoluta ed arbitrio assoluto. E proprio questo ha giustificato infine in pieno la Caduta. Infatti quest’ultima aveva un già predestinato significato positivo (quello destinato alla creatività) in quanto solo dopo di essa sarebbe potuta insorgere la libertà positiva e cioè quella autentica. Il che avvenne esattamente attraverso l’esperienza critica della conoscenza del bene e del male. La libertà positiva, però, divenne possibile solo in quanto essa andò di pari passo con la piena genesi dell’Uomo-Dio, e quindi il vero primo Uomo, ossia Uomo assoluto e Cristo. E questo fu dunque il vero progenitore dell’uomo in quanto umano-divino. Questo genere di libertà viene comunque definita da Berdjaev come “materiale” diversamente da quella antecedente che era invece meramente “formale” e quindi vuota. Ecco che allora la prima presuppone un punto di vista immanentista, mentre la seconda presuppone un punto di vista trascendentista.
In tal modo si ricostituisce quindi la dimensione teistica nella forma specifica di una libertà intesa in termini radicalmente negativi mentre invece essa non lo è affatto. E questo configura in Berdjaev di nuovo un certo argomento anti-teistico, ma nello stesso tempo lo svuota di significato mostrando nell’umano-divinità la dimensione della stessa creatività umana. In tale prospettiva non vi è infatti in alcun modo un Dio Trascendente lontano dall’uomo e dal mondo.

Ecco, questo è quanto possiamo desumere dalla trattazione della dimensione religiosa svolta da Berdjaev. E, come abbiamo potuto vedere, vi sono per davvero in essa dei significativi antidoti a tutto quello che vedremo esaminando l’attuale ricerca scientifico-religiosa. Quindi, grazie a Berdjaev, in qualche modo già disponiamo delle risposte alle questioni che ora vedremo poste dalla ricerca scientifici-religiosa. Tuttavia nelle conclusioni tireremo definitivamente le somme su questo confronto.

II- La ricerca scientifico-religiosa ed analitico-cognitiva: panenteismo, teismo, anti-teismo e ateismo.
Gli articoli che esamineremo qui sono estremamente eterogenei e comunque prenderemo in considerazione solo alcuni tra gli aspetti in essi trattati. Non nascondiamo comunque che essi contengono un genere di argomentazioni alle quali è davvero difficile attribuire un valore per chi condivide gli argomenti di Berdjaev, e quindi si sente autenticamente cristiano come lui stesso si sentiva. Tuttavia il loro esame è indispensabile per potere arrivare ad una conclusione cieca la questione che stiamo discutendo.
E la questione è, per la precisione se sia legittimo o meno spendere tanto tempo e versare tanti fiumi di inchiostro in una serie di argomentazioni che appaiono essere già superate in partenza nel loro valore e ruolo nonostante l’impressionante apparato logico messo in piedi per sostenerle.
Nel complesso di queste argomentazioni daremo comunque la preferenza alle tesi più prossime al post-teismo, dato che sarebbe impossibile trattare invece tutte le infinite questioni sfornate a ciclo continuo nella moderna letteratura scientifico-religiosa. E comunque tratteremo di tutte le posizioni implicate in questo contesto, incluse quelle francamente teiste. In generale comunque, anche di fronte alle tesi più ortodossamente teiste, si è portati a chiedersi a che serva tutto questo dibattito autoriale visto che tutto ciò che è contenuto in esso già esiste e viene perfettamente illustrato entro la Rivelazione ed in essa riceve anche estremamente convincenti risposte (sebbene solo contro-razionali e contemplative). E l’unica spiegazione è come al solito che la Modernità non sopporta l’anonimato intellettuale, e quindi desidera con tutte le sue forze porre dei protagonisti di pensiero laddove non ve ne sarebbe invece alcun bisogno.
Infatti constateremo con stupore il fenomeno davvero paradossale e ridicolo (oltre che inspiegabile) del proliferare di una vera sconfinata foresta di teorie con i relativi autori (ognuno con la sua personale “soluzione” ad annosi problemi religiosi) – inclusi perfino studiosi apertamente teisti – che sembra volersi sovrapporre (se non sostituire) bramosamente alle verità già presenti nella Rivelazione (ed in essa anche già perfettamente illustrate e risolte), ma che alla fine fa la misera figura di un’incrostazione parassitica che si accumula sul corpo della più pura e limpida verità. E mai come qui ricorre l’immagine platonica di Glauco marino [Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999, X, XI, 611d p. 685-687].

II-1. Panenteismo e panteismo.
Inizieremo però con il cosiddetto “panenteismo” [Benedikt Paul Göcke, Alles in Gott, Friedrich Pustet, Regensburg 2012; Patrick Hutchings, “Postlude: Panentheism”, Sophia, 49, 2010, 297-300; R.T. Mullins, “The Difficulty with Demarcating Panentheism”, Sophia, 55, 2016, 325-346; Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47], formula neo-teologica molto simile a quella del post-teismo e anzi spesso collegata a quest’ultima nelle argomentazioni e nei dibattiti. E faremo questo perché il concetto di panenteismo rappresenta il campo di un’ottima serie di esempi per comprendere le caratteristiche del dibattito scientifico-religioso.
Non a caso quello di panenteismo è un concetto che a prima vista seduce il metafisico di stampo tradizionale in quanto possibile soluzione alla condanna unilaterale e dogmatica del panteismo che sempre è stata pronunciata in ambito cristiano. Ma poi alla fine si rivela essere invece un’artificiosa argomentazione logica molto simile alle altre. Prima di entrare nel merito però bisogna dire che Göcke si riferisce ad un panenteismo già molto datato storico-filosoficamente, ossia quello di Karl Christian Friedrich Krause, che operò all’inizio del XIX secolo come filosofo post-kantiano. Ora anche in lui il panenteismo afferma di fatto il fatidico “tutto in Dio” (“Alles in Gott”), che a sua volta ha una quantità immensa di significati (risalendo addirittura fino al monismo plotiniano dell’Uno e al non-dualismo śankariano). Secondo una visione metafisica del tutto intuitiva (e quindi di per sé estremamente lineare, ossia semplice) esso implica comunque che Dio impregna tutte le cose presentandosi come essenza profonda e nucleare di esse, e pertanto rende il mondo integralmente divino. Si tratta in definitiva di quello Spiritualismo pneumatico (profondamente in comune tra metafisica occidentale ed orientale) del quale abbiamo parlato nel nostro già citato articolo (vedi “Edith Stein e lo Spiritualismo”). E bisogna dire che questo rende il panteismo una dottrina del tutto plausibile (ed affatto eretica) dal punto di vista metafisico-religioso; dato che (qualora esso sia bene inteso) non si tratta affatto né di immanentismo, né di politeismo né di una divinità impersonale identica alla Natura come quella di Spinoza. Si tratta invece semmai di quanto afferma anche Berdjaev, e cioè del fatto che Dio è trascendente ma anche immanente. E fin qui tutto bene. Dato anche che siamo del tutto fuori di sofisticate speculazioni logiche. Ma intanto si da il caso che Krause (commentato Göcke) non aveva affatto parlato di panenteismo in questo senso. Egli infatti (fedele alle idee dominanti dell’Idealismo tedesco in pieno corso) intendeva con ciò non l’omni-costituzione divina delle cose mondane, ma invece la loro omni-intelligibilità, ovvero la loro omni-esplicazione da parte di un Dio che era presente nel mondo non ontologicamente ma solo gnoseologicamente, ossia come il più sommo dei Principi di conoscenza.
Qualcosa di simile veniva affermato in quel periodo anche entro lo Spiritualismo di Maine de Biran [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, 17-19 p. 40-42, 61-67 p. 65-73, 83-90 p. 82-88].
Tuttavia neanche così ci troviamo entro il classico campo delle minuziose e contorte argomentazioni iper-logiche dell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Ci troviamo invece soltanto entro l’impiego sostanzialmente gnoseologico della metafisica che è stato sempre tipico della filosofia idealista o tendenzialmente idealista, e che non a caso ritroviamo anche in Cartesio e Leibniz. Si tratta insomma del famoso «razionalismo metafisico». Abbiamo già visto che esso è senz’altro una delle radici dell’attuale ricerca scientifico-religiosa, ma comunque non coincide affatto con essa.
Ma Göcke rincara la dose leggendo il pensiero di Krause nel contesto dei principi di una gnoseologia ancora più moderna, ossia quella che si sviluppò nel corso del XX secolo con la Fenomenologia di Husserl ed il neo-kantismo. Egli dice insomma che Dio è l’Assoluto capace di chiudere il regressum ad infinitum generato dalla postulazione di diversi livelli di Io trascendentale quale termine ultimo della conoscenza veridica, ed inoltre rappresenta anche il culmine del rapporto auto-conoscitivo che l’Io intrattiene con sé stesso sempre allo scopo di ritrovare in sé la verità. La differenza tra l’Io divino e i vari livelli più immanenti dell’Io stesso consiste intanto nel fatto che nel suo caso l’atto di relazione (auto-conoscitiva) dell’Io con sé stesso non comporta alcun conflitto tra totalità e singolarità dell’identità (che sempre si costituisce come termine dell’atto di relazione con sé stesso). E quindi in definitiva il “tutto in Dio” (“Alles in Gott”) ha un estremo significato gnoseologico, anzi più precisamente logico – esso significa che Dio null’altro è se non Dio (“außer Gott nichts ist”). Insomma Dio rappresenta la forma più incondizionata possibile dell’«è» predicativo, e quindi la massima espressione del principio logico di non-contraddizione applicato specificamente all’identità. Il che fa di Lui l’Io trascendentale per eccellenza, e quindi il vero principio ultimo della conoscenza.
In tal modo Egli è anche l’essenza dell’essenza (ossia la suprema categoria stessa di essenza). Ecco dunque definitivamente decifrato, secondo Göcke, l’insieme di proposizioni implicate dal panenteismo, e tutte sottolineanti il fatto che «Dio è in tutto» nel mentre intanto (senza alcuna contraddizione logica) «tutto è in Dio». Proposizioni che poi di fatto si riuniscono già di per sé nel «mondo in Dio» − «Dio-è-in-tutto», «tutto-è-in-Dio» e «tutto-è-Dio». Insomma Dio è tutto (e dunque allo stesso modo tutto è Dio) sostanzialmente perché Egli non ha bisogno di essere sottomesso ad alcuna forma immanente (ovvero non assoluta) di totalità (“tutto”) identitaria. E ciò a causa del fatto che è già di per sé “tutto”, e lo è così tanto da non ricadere in tal modo nemmeno in alcuna categoria di singolarità (che non sia assoluta, ma invece solo immanente). La conseguenza di ciò rientra per il pensatore nel pieno del classico tema dibattuto nell’Idealismo tedesco secondo l’aspirazione di rileggere gnoseologicamente la metafisica, ossia quel tema della relazione tra Ragione e Natura sul quale aveva riflettuto a fondo anche Schelling [Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ideen zur einer Philosophie der Natur, Holzinger, Berlin 2016]. Insomma per Göcke si tratta della fusione di quelli che per la Scienza sono due poli opposti tra loro (specie nei termini di quella Scienza della Natura della quale Schelling si occupò), ossia “Natura” e “Ragione” (“Vernunft”) – il primo polo (Natura) costituisce la “totalità” (“Ganzheit”) per eccellenza, mentre il secondo (Ragione) rappresenta invece la “seità” singolare (“Selbheit”) per eccellenza. Laddove questo secondo termine è in effetti l’Io conoscente in quanto soggetto e non oggetto. Ed è chiaro che qui sono rappresentati i due termini fondamentali della conoscenza. A Göcke non sfugge che in tal modo ricorrono anche i termini del non-dualismo śankariano, ma egli intanto non intende in alcun modo soffermarsi su questo significato intensamente metafisico-religioso del panenteismo. Per cui alla fine la sua intera argomentazione finisce per sostenere che il nucleo del panenteismo − cioè il concetto di «mondo in Dio» − ha l’unico significato di porre in Dio tutto quanto può essere conoscibile e conosciuto. E ciò secondo gli auspici più fervidi della Scienza. In altre parole nella realtà di Dio si realizza la forma più felice e piena di conciliazione conoscitiva tra Natura (oggetto) e Ragione (soggetto). E questo è tutto!
Ora va notato che Göcke è sostanzialmente un teologo e docente di storia delle religioni. E quindi ciò che egli argomenta sulla base di Krause sottolinea il significato sostanzialmente scientifico del panenteismo, ma intanto egli non sembra avere alcuna intenzione di dissociarlo dalla consistenza e veridicità dell’idea di Dio. Per cui la sua lettura del panenteismo resta entro i tradizionali limiti di quella visione idealistica che volle essere teologia nel mentre perseguiva l’obiettivo di riflettere sulle caratteristiche della scienza, affermandone anche fortemente il valore.
Con ciò non siamo quindi ancora affatto nel contesto della ricerca scientifico-religiosa. Anzi ci troviamo anche ancora nel pieno della Filosofia. Ma vediamo ora cosa accade provando a discutere le letture del panenteismo da parte di Hutchings e Mullins.
Hutching sembra a prima vista argomentare anche lui sostanzialmente come un filosofo, ma poi inserisce nel suo discorso anche elementi di tipo scientifico-religioso (simili a quello già commentato dello Spirito divino come energia cosmica) ed inoltre giunge alla fine a conclusioni critiche che sono decisamente anti-filosofiche. In ogni caso egli sembra avere due sostanziali intenzioni: − 1) quella di sottolineare le incongruenze logiche del panenteismo; 2) quella di correggerlo in senso ancora più riduzionistico di quanto accada entro la lettura di Göcke. E la sua critica si appunta in particolare su quella dimensione dell’”in” che domina l’intera argomentazione panenteistica – ossia quella relativa sia alla presenza di Dio nel mondo sia alla presenza del mondo in Dio.
Su questa base va notato che egli innanzitutto critica molto severamente il concetto di ubiquità affermato nel panenteismo (“God is Everywhere”) sottolineando che in esso il concetto del ”dove” (“where”) non viene affatto chiarito. Ed è evidente che in questo modo egli trascura totalmente una località concepita in termini integralmente metafisico-religiosi, e quindi al di fuori di qualunque spazialità mondano-sensibile. Oltre a ciò egli contesta che il panenteismo non fa affatto (come invece dovrebbe) una constatazione aggiuntiva rispetto a quella dell’ubiquitarietà di Dio, e precisamente nel senso del “ma” (“all is God, but we are all in God”). Esso insomma pretende di presentare come assimilazione (tra proposizioni) quella che invece, sul piano logico, resta appena una sostituzione – nel senso che o «tutto è in Dio», oppure invece «Dio è in tutto», e senza alcuna possibilità di risolvere tale contraddizione logica. Oltre a ciò il panenteismo pretende addirittura di rende le due proposizioni consequenziali (“’we are in God’ whatever this ‘in’ may mean”). In altre parole egli contesta radicalmente il concetto di «contenimento» intra-divino del mondo che il panenteismo vorrebbe rendere simultaneo al concetto di impregnazione divina del mondo stesso.
E quindi accusa in panentesimo di affermare e negare allo stesso tempo. Insomma lo demolisce logicamente nella forma in cui di fatto si presenta. E così – com’è tipico entro tali argomentazioni su concetti metafisici – inizia a pensare di doverlo correggere.
Per cui egli propone di eliminare il primo significato per lasciare in piedi solo il secondo. Ed in questo caso l’”in” andrebbe secondo lui inteso unicamente come la vitalità animica di tutte le cose in forza della presenza divina nel mondo. Ed ecco l’emergere del concetto di Spirito divino come energia cosmica vivificante affermata da Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571]. Ma soprattutto egli contesta al panenteismo degli errori logici che secondo lui sono tipicamente alla volontà di cercare nella Filosofia la soluzione a problemi che riguardano invece in definitiva la sola Natura (anche quando vengono intesi in senso religioso). Ed è evidente che dietro questa accusa alla Filosofia vi è l’accusa ai resti di metafisica che ancora nel XX secolo si facevano sentire in essa. Egli ne conclude quindi che, dato ormai il sussistere di una cosmologia scientifica assolutamente vincolante, bisognerebbe smettere una buona volta di cercare soluzioni alle questioni ontologiche ricorrendo a libri come il Genesi ed il Timeo.
E con ciò egli assume quindi alla fine la classica posizione scientifico-religiosa.
Ma vediamo cosa dice al proposito invece Mullins. Egli sostiene più o meno la stessa tesi critica di Hutching (vaghezza ed illogicità dottrinaria, infondatezza della sua differenziazione tra teismo e panteismo, assente giustificazione dell’aspirazione a mediare tra teismo e panteismo ecc.), ma comunque rincara la dose perché accusa direttamente la stessa teologia. Egli dice infatti che il panenteismo ricade in quelle artificiose soluzioni che oggi i teologi ricercano per offrire all’uomo moderno un’immagine di Dio ancora “più teologicamente adeguata”. E nel caso specifico sarebbe quella di una divinità intesa come “relazionale e dinamica”. Ed eccoci quindi all’interpretazione della Trinità secondo la moderna “ontologia relazionale” che ci viene proposta da Paolini Paoletti, così come anche alle linee guida del post-teismo che poi vedremo esposto da Gamberini. Possiamo insomma qui constatare quanto vero sia che il post-teismo si è presentato come uno sforzo di rispondere a tutte queste obiezioni senza però mai abbandonare il terreno dell’approccio scientifico.
Insomma, sebbene questa non sia affatto la sua intenzione, quella di Mullins è un critica molto pesante a quella ricerca scientifico-religiosa che vede come protagonisti proprio i moderni teologi (specie post-teisti), angosciati come sono dall’imbarazzo che essi provano verso l’immagine di Dio proposta nella Rivelazione in quanto in lampante conflitto con la moderna scienza (e specialmente l’ormai così sofisticata se non para-teologica fisica cosmologica). In ogni caso egli prende atto del fatto che vi è anche un panenteismo decisamente anti-teistico, e che quindi esso si pone decisamente fuori della moderna teologia scientifica.
In ogni caso Mullins legge il panteismo come la postulazione di una sostanza unica divino-mondana (e che quindi chiaramente parla di un Dio impersonale); e quindi lo ritiene una visione decisamente non teistica.
In ogni caso lo studioso si fa comunque sostenitore di una sorta di teismo post-teistico, dato che secondo lui gli oggettivi ed eterni attributi di Dio (concepiti entro la tradizione teologico-metafisica) devono ormai venire posti decisamente in discussione. In ogni caso egli attribuisce al panenteismo il valore e ruolo di ponte tra panteismo (secondo lui indubitabilmente anti-teistico) e il teismo. E questo potrebbe avere anche molto senso perché in fondo il panteismo nella sua versione panenteista rappresenta l’immanenza di Dio, mentre il teismo rappresenta la sua trascendenza. E sappiamo ormai bene che queste due dimensioni divine sono in verità simultanee. Ciò è però sostenibile unicamente sul piano autenticamente metafisico-religioso, e quindi contro-razionale e contemplativo. Non certo invece su un piano rigorosamente logico. Ma è esattamente quest’ultimo quello che interessa a Mullins (così come ad Hutchins). Per cui alla fine egli condanna senza appello il panenteismo affermando che la più lampante contraddizione di questa visione consiste nel fatto che essa pretende di porre sullo stesso piano (assimilandole e rendendole perfino conseguenti logicamente), due affermazioni che costituiscono invece degli inconciliabili opposti logici: –
Dio non è identico al mondo, e quindi è “più” del mondo / Dio non è distinto dal mondo, e quindi è esteso quanto il mondo. A ciò si aggiunge poi che ci si aspetta che il mondo sia “in” Dio anche se Dio è “più” (maggiore) del mondo. Ecco insomma che di nuovo l’”in” diviene l’autentico perno intorno al quale effettivamente gira l’intera visione panenteista. Proprio su questa base egli critica sistematicamente le idee di diversi pensatori panenteisti moderni (Oord, Clayton, Winters, Barua, Lataster, Peacocke ecc.).

A questo punto vale però la pena di prendere in considerazione anche il discorso condotto sul panenteismo da parte di un autore indù e cioè Purushottama Bilimoria. Questo articolo è di estrema importanza perché esso riporta la visione panenteista alle sue fortissime implicazioni metafisico-religiose, e cioè il non-dualismo śankariano ed il connesso idealismo di stampo vedantico-upanishadico. Ma più in particolare egli intende discutere il tentativo di Radhakrishnan di ricondurre le Upanishad all’idealismo occidentale.
Radhakrishnan sostenne infatti che l’Uno (non finito / non infinito) ha tutte le caratteristiche per partecipare del mondo (come le ha lo stesso Io assoluto hegeliano). E questo per lui sarebbe platonico (nel senso specifico dell’Uno-Molti) in quanto affermazione però del valore e non disvalore del cosmo. Sarebbe insomma l’affermazione che il mondo è pieno di senso. Ma ancora più in particolare egli finisce per sostenere che all’Assoluto divino spettano entrambi gli attributi dell’“essere” (“being”) e del “divenire” (“becoming”), e quindi quelli dell’”immanenza” e della “trascendenza”. Pertanto (in forza di questo legame all’essere) egli ritiene di avere evidenziato la “non impersonalità” dell’Assoluto divino delle Scritture indù. Cosa che poi implica per lui il “panenteismo”.
Il che ci conferma quindi che questa visione è tutt’altro che l’affermazione dell’impersonalità del Dio trascendente; cosa che non era però affatto emersa nella riflessione occidentale su di essa. Bilimoria precisa quindi che proprio su questa base si sviluppò il progetto di Radhakrishnan di “salvare le apparenze” compromesse da una lettura non filosofica dei testi sacri. E così egli finisce per avvalorare l’ipotesi che i “veggenti” (”seers”) delle Upanishad (ossia coloro che più hanno incarnato l’intuizione visionaria che permette di penetrare intellettualmente al metafisico le verità della Rivelazione) abbiano concepito un mondo e soprattutto un mondo “pieno di senso” (“meaningful”). In altre parole il Vedanta upanishadico non avrebbe affatto svalutato il mondo.
Su questa base Radhakrishnan sostiene infine che il Brahman è un Assoluto per varie vie compromesso con l’essere – come suprema origine di ogni cosa, come Bene-Verità della cose (al modo di Platone), come effettivo motore immobile del cosmo (per quanto trascendente). E tutto ciò si basa secondo lui sui supposti paralleli tra le Scritture indiane e Platone, così con l’intera cultura greca specie ateniese.

Ecco. Appare evidente che solo in questo modo noi ci approssimiamo al pieno significato e valore che può avere il panenteismo. Ciò può accadere insomma solo quando il relativo concetto non viene sottoposto alla devastante dissezione analitico-logica che la moderna ricerca scientifico-religiosa occidentale gli ha inflitto. E questo è esattamente ciò che non accade in Bilimoria, il quale non a caso si limita ad argomentare in maniera unicamente filosofico-metafisica e metafisico-religiosa, e senza fare uso di alcuna rigorosa logica né di alcun approccio sicentifico. Ecco che a questo punto il panenteismo può davvero soddisfare il pensatore tradizionalmente metafisico-religioso, dato che esso si lascia intendere come una moderna rilettura dello Spiritualismo pneumatico. Ma naturalmente, messe così le cose, il panenteismo cessa definitivamente di essere assimilabile al post-teismo.

II-2. Teismo, anti-teismo e ateismo.
Uno degli studiosi che oggi più si è impegnato a sostenere il post-teismo è senz’altro l’italiano Paolo Gamberini. Tuttavia, prima di giungere a discutere il suo articolo, prenderemo prima in considerazione altri temi ed autori, anche se essi a volte non si producono in affermazioni ed argomentazioni direttamente post-teiste (e cioè semplicemente anti-teiste) ma invece in affermazioni ed argomentazioni avverse al concetto tradizionale di Dio e per varie vie, come quella della negazione di un Dio-Persona [Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338]. Insomma vogliamo in tal modo premettere al post-teismo la trattazione di teismo, anti-teismo ed ateismo così come si presentano nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. E quindi in questo modo potremo vedere qual è il percorso di pensiero che ha portato al post-teismo come necessità di risposta ai così abbondanti argomenti anti-teisti che nel tempo sono stati apportati nella scienza della Religione.
Chastain menziona una buona fetta di letteratura anti-teista a proposito del tradizionale concetto della vita come dono divino. Concetto che recentemente è stato riaffermato da teista Solomon (The psychology of gratitude) nel sottolineare la necessità della gratitudine umana verso un Dio personale. L’esatto contrario accade invece nella fede areligiosa che viene qui sostenuta, entro la quale la gratitudine per la vita sussiste egualmente ma senza alcun riferimento ad un benefattore personale. Ma la critica al concetto integralmente religioso di gratitudine per il dono della vita è anche un’altra, e cioè è l’accusa di insostenibile astrattezza rivolta ad essa. Specie sulla base dello scritto “Philosophy of flesh” (Lakoff e Johnson, 1999), viene infatti sostenuto che non si può parlare in astratto di ciò che invece è intensamente concreto. Ed estremamente concreti sono sia il dono che la stessa gratitudine.
Quindi non si può attribuire a Dio un concetto letterale di dono, senza con ciò cadere in un grave errore logico, e quindi in una falsità. In particolare si impiega qui una metafora corporea a proposito di un atto divino. Ma non vi è solo questo, perché anche lo stesso concetto di «dono della vita» è del tutto improprio, dato che il dono è per definizione utile, e quindi deve produrre qualcosa di tangibile, ossia la felicità. Non può quindi essere un dono quello che pone l’uomo in una posizione esistenziale entro la quale nella maggioranza dei casi vi è l’esatto contrario della felicità.
Ecco insomma un anti-teismo che si presenta nella forma di denuncia della retorica mistificatoria impiegata tradizionalmente nel conferire a Dio attributi rientranti nell’idea umana della bontà. Da questa critica non può scaturire pertanto altro che a Dio questo carattere va negato nel contesto della necessaria negazione ad esso della stessa realtà personale. Dato che quest’ultima sarebbe in realtà solo umana e mondana, ossia integralmente materiale e carnale. Ne risulta quindi che l’anti-teismo qui in causa si oppone frontalmente ai contenuti della Rivelazione, ossia li nega letteralmente. E questo delinea una particolare area di ricerca della attuale scienza della Religione dato che Chastain è un’esponente di quel pensiero che definisce sé stesso come “spiritualità” non religiosa, quindi di fatto una sorta di religiosità atea. Eccoci insomma nel campo di un anti-teismo che è anche espressamente ateo. Non a caso lo studioso colloca le sue riflessioni nel concetto di “postsecular age” coniato da Habermas. Siamo insomma così nel pieno della paradossale religiosità atea post-moderna.
Una tesi relativa allo stesso tema è poi quella di Dealey, il quale si interroga sulla gratitudine verso Dio rispetto alla questione del migliore dei mondi possibili e quindi anche della Grazia. In quanto teista, la presa di posizione di Dealey è però diametralmente opposta a quella di Chastain in quanto essa ci mostra come l’impiego di corrette argomentazioni teologiche spazzi via come del tutto superfluo l’intero campo delle argomentazioni logico-teologiche; tra le quali le davvero assurde riflessioni moderne (in gran parte peraltro nemmeno religiose) sui molteplici mondi possibili. Peraltro egli si schiera anche decisamente da parte della presa di posizione dell’uomo comune, ossia il semplice credente e uomo di fede. Dealey parte dalla principale obiezione anti-teistica dei filosofi analitici sulla base dell’argomento dei “mondi possibili” − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. Insomma – sempre sulla base di un’inflessibile logica rigorosa – essi pongono in questione il fatto che ci sarebbe una mancanza di “consistenza” tra la gratitudine e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Soprattutto a causa del fatto che questo atto divino era assolutamente necessario.
Ma egli ritiene che entro la Rivelazione vi siano sufficienti argomenti per rintuzzare questa obiezione specie sulla base di una Grazia che appartiene totalmente ed incondizionatamente all’azione divina in quanto puro “atto grazioso”. In particolare egli difende qui un “teismo dell’essere perfetto” sostanzialmente sulla base del primario argomento del rispetto divino della libertà umana (che abbiamo visto sostenuto anche da Berdjaev). Più precisamente si tratta del fatto che vi è una perfetta compatibilità tra la necessità dell’azione divina e la dimensione della libertà. E questo (secondo l’attuale piuttosto ridicola moda filosofica di generare “neo-ismi” a ciclo continuo) costituirebbe il cosiddetto “compatibilismo”. Questa teoria consiste semplicemente nel fatto che è perfettamente è compatibile compiere un atto necessario senza contraddire la libertà.
Una volta poste queste premesse più astrattamente teoriche, le argomentazioni successive di Dealey sono così condivisibili nella loro ovvietà (almeno per il credente anche solo poco edotto nel contenuto delle Scritture ed inoltre nella consuetudine diretta con Dio) che la loro discussione potrebbe anche venire omessa. Eppure siamo costretti a discuterle a causa di quel velenoso spirito critico (che vive e vegeta nell’approccio filosofico-analitico alla religione) che tende ad insinuare dubbi anche laddove essi non sono assolutamente giustificati.
In ogni caso l’autore chiarisce che l’invocazione del compatibilismo serve soprattutto ad evitare quell’”accusa” che sostiene l’impossibilità di conciliare la perfetta “bontà” (“goodness”) divina – a sua volta determinante necessariamente Dio a creare − con la sua libertà. Ed egli si rifà particolarmente in questo alle riflessioni di Wierenga [Wierenga E, “The freedom of God”, Faith and Philosophy, 19, 2002, 425-436; Wierenga E., “Perfect goodness and divine freedom”, Philosophical Books, 48, 2007, 207-216].
Insomma la cosa è estremamente semplice – dei buoni desideri (non inquinati dalla brama e dall’irresistibile spinta istintiva, come accade nel consumo di droghe o nella dipendenza patologica dal potere) non possono che generare un’azione buona, cioè invariabilmente rivolta al Bene. Ed a questo punto il fatto che essa sia necessaria (come avviene nell’azione creativa di Dio) non cambia assolutamente nulla nella bontà dell’atto. In altre parole, una volta sottomessa all’etica, la necessità dell’azione divina è per definizione compatibile con la libertà. Si tratta insomma in definitiva di dover compiere necessariamente delle azioni libere rivolte al bene. E ci sembra che ciò trovi del resto una perfetta rispondenza nella teologia di Dostoevskij commentata da Berdjaev – la libertà è un valore supremo ed inviolabile, eppure essa è all’altezza di questo suo valore assoluto solo se è rivolta al bene; altrimenti si trasforma addirittura nel suo opposto (la schiavitù) per mezzo dell’arbitrio che prende fatalmente il suo posto nell’azione rivolta al male
[Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57, III p. 62-66, IV p. 75-81].
In altre parole la logica dei filosofi analitici (nonostante tutta la sua supponenza) – secondo la quale Dio non può cercare altro che il migliore dei mondi possibili, e quindi non è affatto libero bè buono nel suo agire − non ha il benché minimo potere su questa complessiva questione. E peraltro non ha alcun potere su di essa in base a considerazioni che qualunque uomo della strada (ammesso solo che sia credente) potrebbe fare. Eppure lo stesso Dealey cita importanti studiosi che hanno puntato tutto su questa teoria critica ed anti-teista − Adams (ne suo commento dei Salmi), Laura Garcia, William Rowe.
Ma comunque (per restare comunque sul piano filosofico) lo studioso sostiene che l’inconsistenza non sussiste affatto se si punta l’attenzione sull’atto divino stesso, e cioè sulla sua natura di atto invariabilmente “grazioso”. Il che è poi la stessa identica cosa che sostenere che un desiderio buono può produrre solo un’azione rivolta al Bene. Per il resto (ed anche questo è assolutamente ovvio per l’uomo comune credente) la Grazia divina non ha alcuna relazione con il “merito” del recipiente dell’azione graziosa divina. Altrimenti non sarebbe ciò che è. La Grazia dipende solo quindi dalla qualità (amorosa) della disposizione divina all’azione e da assolutamente niente altro. E qui Dealey chiama in causa le riflessioni di Feinberg [Feinberg J., No one like Him: the doctrine of God, Cossway Books, Wheaton 2001].
Quindi l’invocazione dell’umana gratitudine finisce per essere quindi un mero pretesto (e non poco volgare) che la logica filosofica-analitica (screditando così non poco sé stessa) ha escogitato con il del tutto scoperto intento di infamare Dio. E questo getta sull’intera ricerca scientifico-filosofica un’ombra davvero infamante.
Per questo Dealey chiama in causa le Scritture stesse – Genesi, 6:8 8 (Noè che ha trovato grazia…), Salmo 145:8, Esodo 34:6, Pietro, 5:10 (la Grazia ci associa alla Gloria di Cristo).
Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo, dato che il nucleo della questione è semplicemente la totale gratuità dell’amore divino, il quale per definizione non può in alcun modo essere utilitaristico e quindi non può aspettarsi alcun effetto. Meno che mai la gratitudine umana.
Una volta chiarito questo non c’è bisogno di dire di più delle argomentazioni di Dealey che si approfondiscono poi in ulteriori aspetti della faccenda ed anche su ulteriori prese di posizione di studiosi.
Qualcosa di ancora più estremo in senso critico si ritrova poi in Trakakis, il quale inizia contestando alla Religione il diritto di controllare totalmente la fede. E qui peraltro egli avvalora la dissociazione totale della Filosofia dalla Religione che è stata sostenuta da pensatori come Heidegger e Bertrand Russell. Insomma siamo in un campo di riflessione diametralmente opposto a quello delineato da Berdjaev.
Il tema qui, comunque, è ancora più scottante perché è quello del male. In tale contesto lo studioso non intende nemmeno prendere posizione nella sconfinata querelle che secondo lui si è scatenata nel tempo tra teisti ed anti-teisti. E così prende atto del proclama di Plantinga (1980) nel quale si chiedeva ai pensatori cristiani di argomentare unicamente in circoli cristiani evitando qualunque confronto con pensatori agnostici e atei. In altre parole per lui la filosofia religiosa (che sia credente o atea) è comunque inaccettabilmente ideologica, e quindi da essa non vi è da aspettarsi assolutamente nulla. Ed ovviamente, se questo è il giudizio sul pensiero cristiano, figuriamoci quale può essere quello sulla Rivelazione.
Un panorama un po’ più ampio ci viene offerto da Breul. Egli però appare rappresentare perfettamente l’attuale ricerca scientifico-religiosa propria dei teologi che si sforzano di affermare l’idea di Dio senza ricorrere al teismo. Ci troviamo così di fronte ad una posizione intermedia tra teismo ed anti-teismo (o ateismo), e cioè di fronte ad una sorta di non-teismo dell’idea di Dio. Una posizione questa assolutamente emblematica, dato che essa esprimere l’inspiegabile imbarazzo oggi provato dai teologi specie davanti ad un Dio personale. Ed ovviamente, a questo punto, la visione di Berdjaev si presenta al proposito come un’alternativa davvero tangibile. Questo non-teismo appare comunque essere già molto prossimo al post-teismo.
Breul presenta comunque un vasto scenario di autori in cui possiamo farci un’idea molto precisa delle diverse tendenze attualmente all’opera, ed anche, comunque, della vera e propria astrusità paradossale di alcune prese di posizione. C’è Schnädelbach che sostiene apertamente l’assenza di Dio senza che ciò abolisca per lui la necessità di una Religione – postulando così una religiosità del tutto naturale dell’uomo la quale non richiederebbe né il supporto di alcuna Istituzione né tanto meno una Persona divina nella quale credere. Inoltre proprio in tale contesto egli sostiene la necessità che la fede (“faith”) sia essenzialmente “fiducia” (“fides”), e non invece “credenza” (“belief”); e quindi sia spogliata di qualunque natura cognitiva. Ma intanto la fiducia presuppone molto esplicitamente il dubbio, per cui la fede convive naturalmente con quest’ultimo. La sua posizione definisce comunque sé stessa come “ateismo pio” e quindi assomiglia molto alla spiritualità non religiosa di Chastain. Davvero però non è possibile capire in cosa consista una religione che sussiste in assenza di Dio. In ogni caso (come abbiamo detto) nel caso di Schnädelbach ci sembra che così siamo già piuttosto prossimi al post-teismo.
C’è poi Dworkin, il quale addirittura sostiene l’inconciliabilità della Religione con Dio, ossia con l’idea di Dio; ma precisamente con l’idea più esplicitamente teistica di Dio, ossia quella di un Dio personale che poi impregna di sé perfino il mondo senza perdere la propria identità e trascendenza. Così egli (alla Spinoza) sostiene di fatto un mondo divino assolutamente impersonale, nel senso di buono, bello e pieno di senso anche in assenza di un Dio personale. È evidente qui l’opposizione nettissima alla Rivelazione nel pensare un mondo divino.
La posizione di Nagel (Thomas Nagel, “Geist und Kosmos”) è chiaramente teistica sebbene egli sostenga di fatto il classico “intelligent design” della tradizione tomista-aristotelica in assenza però di qualunque azione volontario-personale, e quindi come universo pieno di senso in quanto chiaramente diretto da un Piano verso un preciso scopo (che si manifesta pienamente nell’intelligenza della Natura). In questo egli si oppone peraltro molto nettamente al concetto scientifico di caso. A ciò anch’egli aggiunge che la fede comporta il dubbio perché essa non è affatto fede nella verità bensì in una persona. Non si vede però dove sia la persona nella sua complessiva visione di un mondo impregnato dal divino in maniera del tutto impersonale. Una traccia di comprensione di questa curiosa assenza si può però ritrovare laddove egli critica apertamente il teismo in quanto tentativo di presentarsi come spiegazione scientifica del mondo. Infatti la Religione teistica include per lui ineluttabilmente la metafisica dell’essere, e quest’ultima non è affatto una spiegazione del mondo. Infatti l’ordine mondano può essere presupposto anche in totale assenza dell’esistenza di Dio. E la scienza basta quindi pienamente per darne ragione. Ecco allora che per lui la questione di Dio è puramente e pienamente etica, così come anche il Piano intelligente e la fede in esso.
A questo punto possiamo quindi solo pensare che per Nagel la fede in una Persona divina si limiti ad un campo estremamente ristretto ed anche riduttivo della dimensione religiosa, e cioè quello appunto etico (che può ben costituire una sorta di ipo-religione). Ora, è ovvio che la fede nella Persona divina non può comportare anche una letterale cosmologia di stampo religioso (come quella dell’antica onto-metafisica), ma comunque deve poter andare oltre il piano dell’etica comportando almeno la presenza di un essere, e cioè la dimensione ontologica (ossia ciò che soggiace a qualunque cosmologia). E questo è esattamente ciò che avviene in Berdjaev, secondo il quale la Persona divina equivale esattamente all’essere nella sua più radicale concezione. Ma di questo non vi è alcuna traccia in Nagel, e quindi di nuovo ci troviamo di fronte ad un riduzionismo. Nella sua visione infatti sembrano venire addirittura affermate le ragioni di un certo teismo (sebbene fortemente razionalizzato), ma intanto anch’esso appare comunque fortemente dissociato ad un’ontologia autentica e forte della Persona divina. E quindi di fatto esso si pone come una specie di post-teismo, sebbene senz’altro non corrisponda ad una posizione non-teistica.
Krummel discute poi una neo-metafisica nichilistico-buddhistica oggi molto in voga, e cioè quella di Nishida, la quale ha peraltro addirittura l’intenzione di appaiare la teologia buddhistica con quella cristiana per mezzo del concetto di kenosis divina. E qui ci troviamo di fronte ad una presa di posizione tra le più astruse nella sua straordinaria tensione alla complessizzazione estrema di concetti teo-metafisici ed anche semplicemente onto-metafisici. E vedremo infatti che i suoi risultati vanno ben oltre tutti i termini che finora abbiamo preso in considerazione – teismo, anti-teismo (o ateismo), non-teismo, post-teismo.
In via di principio egli dichiara di credere in un Dio totalmente “nascosto” in quanto allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma comunque del tutto invisibile quando è immanente. In quest’ultima posizione esso corrisponde al mondo divino e precisamente a quello che lo shintoismo ritiene abitato dalle “deità” per eccellenza, ossia quegli spiriti divini che vengono definiti “kami”. E qui ci troviamo comunque di fronte ad un deciso post-teismo in quanto affermazione della deità in luogo della Persona divina. E Nishida infatti afferma che il teismo non è altro che una distorsione linguistica dell’idea di Dio in quanto illegittimamente del tutto dominata dalla dimensione abusiva dell’”is”, ossia dell’”è”. E qui egli chiama in causa direttamente Eckhart come protagonista di questa critica al teismo. Ma egli va anche oltre questo nel postulare come sostanza fondamentale un Nulla entro il quale l’essere si limita ad apparire e scomparire continuamente, in modo tale che il non-essere stesso vi ha pieno diritto di domicilio. E questo Nulla equivale quindi per lui anche a Dio stesso. Con ciò però viene comunque postulata una presenza. Motivo per cui anche in caso di negazione di Dio (anti-teismo) la sua presenza non può venire davvero negata. Ecco allora che Nishida ritiene non validi sia il teismo che l’anti-teismo. Per tale motivo, come dice Krummel, nel suo caso si delinea una “teologia atea” o meglio una “A/teologia” (secondo la definizione di Taylor) e quindi di fatto una teologia senza Dio. Qui insomma siamo messi molto peggio che con Schnädelbach e Dworkin, dato che la teologia stessa nega l’esistenza di Dio senza nemmeno dove essere anti-teistica o ateistica o infine anche post-teistica. In questo genere di teologia insomma Dio viene identificato con il Nulla stesso.
E quindi è evidente che esso è più che mai un’entità purissimamente metafisica, della quale non si può nemmeno pensare che mai possa divenire oggetto di fede da parte dell’uomo. Questo Dio insomma non è altro che l’essere nella sua più radicale formulazione. Ma non in quanto infinitamente creatore come quello di Berdjaev, bensì invece come il Nulla stesso. E qui davvero quindi ci troviamo in un campo in cui all’uomo non viene lasciata altra scelta che la totale disperazione. A molto poco serve quindi che Nishida si sforzi di postulare in questo contesto quella kenosis divina che poi in Bedjaev abbiamo visto molto prossima al Dio-Persona. Anche questa kenosis sarà infatti nichilistica e molto puramente metafisica. E quindi non potrà servire ad alcuna vera fede. Per cui non perderemo nemmeno tempo a descriverne i dettagli estremamente complessi.
A questo ateismo teologico di Nishida merita di venire appaiato anche quello di Ueda Shizuteru e precisamente la visione della Scuola di Kyoto (ateismo teologico definito qui come “mistica del nulla”) − che si incentra anch’esso nella ricerca di assonanze tra il Buddhismo e il presunto tendenziale post-teismo di Eckhart basato sul concetto di “deità” (“Gottheit”) −, che viene discusso da Vianello. Ma preferiamo rinunciare a questa discussione per non prolungare troppo la nostra esposizione. Anche perché l’articolo in questione sconfina in un campo in fondo lontano dalla disputa tra teismo ed anti-teismo.
Larmer (che è sostanzialmente un teista) addirittura riconosce l’anti-teismo nel pieno della dottrina neo-tomista più scettica che oggi esista. Ed egli fa nomi e cognomi: − Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz. Il che è estremamente interessante perché ci mostra in questi studiosi i prototipi stessi dei moderni teologi che, nell’essere anti-teisti, si affidano totalmente non solo alla logica ma anche alla scienza empirica in tutta la sua attuale vigenza. Ed è significativo che essi vengano definiti come “scettici”. Questi neo-tomisti rigettano infatti il teismo in quanto negano in Tommaso una dottrina dell’”intelligent design” (ID) intrinseco alla Natura, dato che al loro avviso l’Aquinate presupponeva la totale dipendenze dall’esistenza primaria di Dio del potere in possesso degli esistenti.
Il che contraddice in modo lampante la dottrina dell’evoluzione, e quindi la spiegazione scientifica della creazione di essere. In luogo di quest’ultima infatti Tommaso avrebbe lasciato vigere unicamente la spiegazione “metafisica” della creazione e dell’essere. A ciò si aggiunge inoltre il solito impiego implacabile della logica da parte di questi così singolari anti-teisti, e cioè il rimprovero a Tommaso di avvalorare il “Dio dei vuoti” (“God of gaps”), ossia il Dio che avalla i vuoti nella spiegazione delle cose. Ma oltre ciò i neo-tomisti scettici sollevano forti obiezioni alla postulazione dello stesso intervento diretto di Dio nel mondo da parte di Tommaso. Con la conseguenza, secondo loro molto grave, della confusione tra Dio come Causa primaria e Dio come causa secondaria. Essi ammettono infatti Dio come Causa primaria, ma unicamente sul piano teologico. E quindi ritengono un errore epistemologico considerarlo tale anche fuori dell’ambito teologico. Perché così di fatto si passa dalla teologia alla cosmologia naturalista. E su questo non c’è molto fa obiettare. Ma intanto l’obiezione di Larmer va menzionata perché è molto acuta ed inoltre molto utile ai nostri scopi. Infatti egli dice che colui che in generale ha fede nell’intervento diretto di Dio nel mondo è anche molto più aperto alla dottrina dell’ID. E tuttavia essi sono aperti alla versione integrale di questa dottrina e non a quella unilateralmente scientista e scientifico-empirica, per cui vedono l’azione di Dio anche dietro all’intrinseca intelligenza della Natura. Di conseguenza essi sono convintamente teisti.
Ma cosa può significare questo per i nostri scopi? Può significare che, sebbene l’intervento di Dio nel mondo sia da intendere ovviamente in modo primariamente etico – come nel contesto di quella fede nell’«aiuto divino» che non si illude affatto circa la necessità di accettare la prova dolorosa anche nel contesto della più intensa prossimità divina −, ciò si presta molto bene a travalicare questo ambito (che potrebbe anche essere solo vuotamente retorico-teologico e pietistico) verso l’ambito della piena fede nella presenza reale della Persona divina.
E questo di nuovo ci riporta alla complessiva teoria filosofico-religiosa di Berdjaev. Dato che evidentemente il teismo può avere tutti i difetti logici che si vuole, ma perlomeno preserva quella fede nel Dio-Persona in assenza della quale davvero non sapremmo dire più cosa significa concretamente essere religiosi e soprattutto cristiani.
Una volta posto in evidenza questo, il resto delle argomentazioni pro-teiste di Larmer può essere anche trascurato, dato che esso non concerne direttamente i nostri scopi. Va solo ricordato che egli ci informa che il genere di anti-teismo da lui contestato (che afferma il non intervento di Dio nel mondo) affonda le propre radici addirittura nel XVIII secolo, e quindi nell’empirismo e nell’Illuminismo. Il che conferma quanto già abbiamo visto, e cioè che la complessiva teoria del post-teismo ha le sue radici abbastanza lontano nel tempo entro la storia della filosofia e della teologia.
Platzer va poi direttamente (e perfino brutalmente) al dunque chiedendosi se per davvero si può pensare che esista un Dio. E questo la dice del resto molto lunga sullo spirito che domina nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Essa infatti nutre dei dubbi davvero così radicali da obbligarci a chiederci se per davvero essa si collochi ancora nell’ambito religioso. Per la verità egli pone la questione molto più sul piano metafisico che non su quello teologico, ed inoltre si produce in un’argomentazione che è in realtà alla fine pro-teistica. Si chiede infatti se il presupporre un livello ontologico costituito da entità oggettuali altamente metafisiche non contraddica l’esistenza di Dio. E la sua risposta è decisamente sì. E per di più egli riconosce in questo una vera e propria grave “aporia” filosofica. Evidentemente perché l’astratto viene considerato più reale dell’esistente. Egli ripropone insomma l’antica querelle tra metafisica cristiana e pagano-platonica circa la possibilità di concepire somme entità onto-ideali che addirittura sarebbero ad un livello più alto di quello sul quale esiste Dio. Ma intanto si pone in particolare il problema della postulazione di somme entità metafisiche soprattutto in quanto supremamente “vere”. Ed è inoltre molto significativo che egli proponga come soluzione all’aporia la dottrina cartesiana ed ancor più quella neo-cartesiana. Il che significa che egli non ha la minima intenzione di argomentare su un piano autenticamente metafisico-religioso. E tuttavia restiamo non poco sorpresi nel constatare che egli intende però procedere comunque sul piano teologico. Egli infatti sostiene che la postulazione cartesiana di somme entità in quanto verità divine di fatto supporta un teismo puramente epistemologico (cioè gnoseologico) in quanto invece quello basato sull’esistenza di Dio (che fa di Dio un’oggettualità trascendente) comporta insuperabili aporie. In altre parole la dottrina teistica di Platzer rientra di fatto in quella gnoseologia filosofica che abbiamo avuto presente in tutto questo scritto (oltre che in altri), e che abbiamo visto severamente criticata da Berdjaev.
Ma le cose si aggravano ulteriormente quando lo studioso dichiara di volersi rifare al “neocartesianismo” e non invece a Cartesio in persona. A quest’ultimo infatti egli rimprovera severamente l’idea (secondo lui solo “bizzarra”) secondo la quale le verità divine presenti nella mente umana sarebbero state letteralmente “create” da Dio; laddove invece (secondo il neocartesianismo) esse sono appena il prodotto della volontà divina. E ciò comporta una visione relativa della necessità invece che assoluta, la quale pone di nuovo in evidenza l’epistemologia contro l’ontologia. In altre parole non è assolutamente vero che “ogni realtà è fondata in Dio” in termini ontologici (cioè secondo una “necessità metafisica” e quindi assoluta), ma è semmai vero invece che tutte le realtà vengono spiegate in Dio. E per sostenere questo egli menziona l’Eutifrone di Platone nel quale si dimostra che le cose non hanno valore in sé ma solo perché Dio le ama. Non ci sembra però necessario soffermarci su questo, se non per il fatto che questa presa di posizione platonica rafforza il teismo nel sottolineare la primarietà di Dio rispetto a qualunque cosa, include le cose di valore in quanto sommamente vere.
In ogni caso va detto che egli non si sogna nemmeno di negare che per Platone il “vero” sta al di sopra di tutto, e cioè al di sopra di Dio stesso. Esso rappresenta pertanto una necessità gnoseologica e non ontologica. Per cui, pur posta la primarietà di Dio (rispetto alle cose di valore in quanto da lui amate) quale esistenza, resta comunque la Sua sottomissione al “vero” in quanto autentica necessità assoluta. Il problema a questo punto è per lui solo quello di sottrarre alle somme entità (corrispondenti al “vero”) la natura di effettive oggettualità. Cosa per lui possibile considerandole così delle entità appena “modali”, ossia puramente ideali. E qui egli afferma il teismo nel difenderlo dalle aporie che insorgono quando si sostiene che Dio avrebbe creato le verità stesse invece si essere Egli stesso sottomesso ad esse. Si tratta insomma dell’affermazione della sottomissione di Dio alle supreme leggi della logica. E questo è ancora una volta un ben strano teismo, dato che limita fortemente la realtà di Dio e quindi anche la sua potenza, prestandosi così molto poco a fondare una fede entro la quale da Dio ci si aspetta tutto, anche ciò che è del tutto contrario alla logica stessa. E questo ancora una volta è quel Dio del «tutto è possibile» che si presenta soltanto nello Spiritualismo pneumatico (vedi articolo “Edith Stein e lo Spiritualismo”).
Detto questo non si sembra opportuno prolungarci ulteriormente nella discussione dell’articolo di Platzer se non per il fatto che egli assolve il teismo di Cartesio in quanto esso è in gran parte epistemologico (cioè gnoseologistico), mentre invece condanna quello di Leibniz che sarebbe invece intensivamente ontologico. Esso sostiene infatti che secondo il pensatore tedesco Dio è l’ente fondamentale nel quale è fondato tutto ciò che Lui non è, ossia le mere oggettualità mondane ed immanenti. Leibniz insomma afferma la necessità di Dio in termini ontologici e non gnoseologici. Tuttavia anche queste così sofisticate considerazioni metafisiche non si prestano affatto a fondare un’autentica fede.
Per cui, con Platzer, noi possiamo constatare l’esistenza di un teismo puramente metafisico che, a fronte delle necessità religiose del teismo stesso (equivalenti alla necessità si porre un Dio-Persona), appare in verità del tutto superfluo. In altre parole non mette affatto conto difendere questo genere di visione religiosa. Che peraltro intende obbedire più che mai alla logica ed inoltre alla più esigente e rigorosa epistemologia. Non a caso l’autore non nasconde che Cartesio gli sembra estremamente importante per contrastare ed anche correggere il teismo più “mainstream” ossia quello più letterale e forse (almeno dal suo punto di vista) anche ingenuo e volgare.
Di nuovo estremamente esplicita e diretta è la tesi di Cockayne, il quale intende addirittura difendere il pieno diritto all’ateismo, ossia all’anti-teismo (cioè l’inviolabile “diritto a non credere”). Non senza però difendere anche le ragioni del teismo ed inoltre non senza dichiarare del tutto inappropriato l’ateismo puramente epistemologico del quel finora abbiamo visto tanti esempi. La sua conclusione è che è giustificato in definitiva solo un ateismo morbido (cioè né dogmatico né aggressivo) il quale si basa semplicemente sulla constatazione che non vi sono elementi decisivi a favore o a sfavore della fede. Naturalmente questa presa di posizione svaluta la natura più autentica della fede che (sia per non teisti come Schnädelbach e Nagel) implica necessariamente il dubbio, e quindi è sempre rischio, e pertanto decisione. Ma questo per il momento non importa. Infine va sottolineato che Cockayne smantella letteralmente forti argomenti anti-teistici come quello del famosissimo Quine.
In definitiva comunque l’autore intende sostenere una tesi esattamente simile alla tesi dello psicologo della religione Henry James (“The will to believe”) secondo la quale la fede si giustifica unicamente su un piano volontario ed ancor più passionale, con il conseguente delinearsi di una vera e propria «volontà di fede». Cockayne (che durante la sua intera esposizione segue passo passo la falsariga delle tesi di James) sulla stessa identica base sostiene la piena legittimità di una volontà esattamente contraria. E ciò si basa peraltro sulla radicale discrepanza tra “fede“ e “credenza” che appunto James aveva sostenuto. Egli sostenne infatti che una credenza non ha affatto la forza di giustificare un’autentica “verità” (“truth”) oggettiva (“truth that p”). Dunque la fede manca naturalmente di “evidenza”, così come anche la stessa esistenza di Dio manca di evidenza. Ma intanto una vera credenza esige inflessibilmente proprio l’evidenza. La fede è pertanto semplicemente una fede priva di evidenza.
Su questa base Cockayne sostiene quindi che teismo ed ateismo hanno lo stesso identico diritto ad esistere. Motivo per cui può e soprattutto deve venire concepito [Rowe W. L., “The problem of evil and some varieties of atheism”, Am. Philosophical Quarterly, 16 (4) 1979, 335-341] un’”ateismo amichevole” (“friendly atheism”).
Posto questo sembra proprio che l’intera (densissima e complessissima) querelle tra teismo ed anti-teismo non abbia in verità alcuna giustificazione. Ma il suo sussistere appare allora unicamente il frutto dell’intervento velleitario e ideologico (quindi del tutto arbitrario) nel contesto della Religione da parte di un anti-teismo logicamente giustificato. Ma quest’ultimo non è altro che il puro prodotto di quella ricerca scientifico-religiosa la quale a sua volta in fondo non è altro che il figlio degenere (e anch’esso del tutto arbitrario) della filosofia analitica applicata alla Religione, ossia delle idee di Bertrand Russell. Idee che vengono presentate come oggettive necessità conoscitive ma invece sono solo pretese, e peraltro puramente ideologiche. In altre parole (nonostante la pompa con la quale lo si sostiene ed impone) l’anti-teismo non ha alcuna vera ragione di essere e quindi avrebbe anche potuto non esserci affatto. Dunque non è affatto vero che esso sarebbe inevitabile a causa del patrimonio di conoscenze apportate dalla Scienza all’umanità. Infatti la verità è semplicemente che si ha il pieno diritto di essere credenti o atei unicamente in forza di una volontà passionale che con l’epistemologia, con la gnoseologia e con la logica non ha assolutamente nulla a che fare. E tale volontà passionale si traduce in fede unicamente in relazione alla scelta arbitraria, e quindi alla coraggiosa decisione, di affrontare a viso aperto il rischio tremendo della fede.
Vale qui insomma, oggi come allora, ciò che aveva già perfettamente compreso Pascal, come vedremo alla fine. E del resto Pascal viene invocato anche dallo stesso James nel guardare alla fede esattamente in questo modo. Sta di fatto è che la razionalità (e quindi anche logica e gnoseologia) appare essere quanto fonda la fede nel modo più debole possibile, con la conseguenza che solo la volontà riesce invece a fondarla in modo forte. Ma quindi ciò vale anche per la decisione a non credere e quindi per l’ateismo. Anch’esso è una specie di fede e come tale è una scelta forte. Diversamente stanno le cose per l’agnosticismo che invece è un restare sospesi tra due decisioni. Per Bishop si tratta in questo caso di un di “ateismo pratico” [Bishop J., Believing by faith: an essay in epistemology and ethics of religious belief, Clarendon University Press, Oxford 2007]. Intanto la dimensione razionale della fede (e quindi la sua dimensione epistemologica e cognitiva) corrisponde per James ad un “prendere per vero”, mentre invece la dimensione volontaria della fede, la vera decisione, corrisponde ad un “accettare per vero”. Ed esattamente lo stesso vale anche per l’ateismo. In altre parole, come dice Bishop, si tratta del credere in qualcosa per fede – fatto che ci mostra un’altra volta la grande differenza esistente tra credenza e fede. La credenza è infatti per davvero un fatto cognitivo, e quindi relativo integralmente al vero, alla verità di qualcosa. Pertanto la fede non è mai diretta (immediata) relazione con la verità, ma semmai relazione appena mediata con essa. Proprio per questo essa può sussistere solo in relazione con una Persona, nel senso pieno dell’«io credo in te!».
E precisamente essa è mediata da una volontà che, per essere davvero forte, non può essere altro che amore. Ed è ovvio che l’amore può stare solo in relazione con una persona, ossia la Persona divina.
Dall’altro lato – ci fa osservare Cockayne – vi è un ateismo fondato nell’affermazione tutta cognitiva che l’inesistenza di Dio possa effettivamente essere vera – come sostenuto da Adams e Robson (2016).
E precisamente essa si basa sull’evidenza di un universo “inospitale”. La conseguenza affermazione è la seguente: − «Dio non esiste e basta!». Questa affermazione si ritiene basata su un’evidenza, e quindi pretende di fondare un ateismo è che “vero” esattamente quanto sarebbe “vera” l’inesistenza di Dio.
Sta di fatto però che quella invocata non affatto un’evidenza della non esistenza di Dio, in quanto è semplicemente un’evidenza indiretta. E quindi l’ateismo che ne risulta non può essere vero. Ecco insomma di nuovo un ateismo affatto fondato sulla volontà. Ma in verità – come riportato da Clifford (1999) − James ci fa osservare che la preoccupazione epistemologica (quella verità) è in verità appena il paravento di uno “scetticismo” sostanzialmente pavido, nel senso che esso si sottrae al rischio della fede e quindi non perviene mai ad una vera volontà di non credere.
Tutto questo riduce di molto l’importanza dell’accusa rivolta sia alla fede (o teismo) che all’ateismo in nome della verità, ossia in quanto “errori” logici. Ed infatti a tale proposito all’opinione appena citata di James si aggiunge quella di Nagel [Nagel T., The last world, Oxford University Press, Oxford 1997]. Egli ritiene infatti che la fede in Dio sia sostanzialmente e primariamente speranza. E ad essa non oppone assolutamente nulla, dato che per definizione la speranza può essere solo speranza nell’esistenza di Dio, e non invece speranza nella sua inesistenza oppure speranza nell’esistenza di un ente spirituale opposto a Dio, ossia il Demonio. Su questa base quindi l’ateismo cessa di essere giustificato anche se è volontà e decisione. Ecco che, come dice Nagel, l’ateismo è assurdo in sé, e non invece in quanto opposizione alla fede (teismo) in quanto presunto errore. Dall’altro lato quindi – in forza della sua natura di legittima speranza − lo stesso teismo non ha alcun bisogno di difendersi dall’ateismo o anti-teismo, sia in quanto espresse volontà sua in quanto presuntamente veri.
Posto questo noi aggiungeremmo che quindi, se la fede è speranza, essa deve necessariamente postulare l’intervento di Dio nelle circostanze esistenziali, cioè un concreto «aiuto divino». Altrimenti questa speranza si trasforma in mera menzogna retorica.
Ma vi è un’ulteriore osservazione di Nagel che completa la sua analisi dell’ateismo. Egli dice infatti che ne esiste uno che addirittura ammette l’esistenza di Dio (esercitando così la sua volontà in senso opposto a quello del classico ateismo) ma intanto ne desidererebbe la non esistenza in quanto lo accusa del male del mondo. Si tratta secondo lui di un ateismo su basi morali che senz’altro è molto più forte e giustificato di quello fondato epistemologicamente. Ma qui diremmo che ci troviamo nell’ambito di un ateismo decisamente di tipo gnostico.
Infine Cockayne menziona l’argomento ateistico di Quine. Laddove bisogna dire che questo filosofo (anche lui fortemente incline allo scientismo) è stato ed è un autentico protagonista del pensiero moderno di tipo analitico. Quindi la sua tesi ha senz’altro una grande rilevanza. Stranemente però si tratta appena di una sorta di poetizzazione della gnoseologia, dato che Quine parla dell’ateismo in nome di una “parsimonia” razionalistica che si oppone legittimanente alla passione, a sua volta caratterizzata dal desiderio di un universo non “deserto”. L’argomento del nostro pensatore sembra quindi basato (come del resto quelli di Russell) si una specie di sdegnosa compassione per coloro che, nel credere in Dio, rinunciano ad una Ragione che non ammette alcun sentimentalismo, ossia una Ragione del tutto gelida. E ci sembra che qui non sia necessario assolutamente alcun commento.
In conclusione Cockayne sottolinea che – a fronte della debolezza dell’ateismo epistemologicamente fondato e della forza oggettiva dell’ateismo eticamente fondato, e sullo sfondo generale poi della forza dello stesso ateismo volontario – bisogna ammettere che la presa di posizione più legittima è in fondo quella “riflessiva”, che è poi comune al teismo ed all’ateismo. Si tratta insomma dell’ammissione della grande difficoltà che c’è tanto nel mantenere la fede che nel rigettarla. Il che sottolinea poi l’assoluta necessità del dubbio entro una fede autentica e ben fondata. Necessità del dubbio nella fede che mette piuttosto facilmente fuori gioco l’ateismo più classico. Posto questo l’autore riconosce che è vero che l’ateismo basato sull’evidenza del male del mondo è tendenzialmente più forte del teismo. Sebbene sottolinea che non mancano oggi le teodicee che mettono fortemente in discussione questa evidenza – come in Rowe e Stump (2010). Queste moderne teodicee vengono quindi ad aggiungersi a quelle tradizionali (di grandissime proporzioni ed integralmente filosofiche oltre che metafisico-religiose) di Agostino e Leibniz.
Ciononostante per l’autore la disponibilità di evidenze concrete per l’ateismo è ben lungi dalla sua oggettiva giustificazione come vero.
In conclusione, quindi, l’ottima e chiarissima esposizione di Cockayne ci offre argomenti in abbondanza non solo per guardare criticamente all’ateismo (riconoscendo in esso le forme forti e le forme deboli, e quindi sottraendoci alla sua attuale presunzione di onnipotenza) ma anche per esautorare (in quanto ateismo non volontario e passionale) tutti i tentativi di annientare il teismo per via epistemologico-gnoseologica.
E questi tentativi rappresentano di fatto in blocco l’intera ricerca scientifico-religiosa. La quale quindi, alla luce delle estremamente lineari e ragionevoli argomentazioni di Cockayne, finisce per presentarsi come un immenso e pesantissimo apparato logico-argomentativo che però serve e vale davvero molto poco.
A causa della rilevanza del pensatore, un ultimo cenno va fatto soltanto al tendenziale ateismo di Heidegger, che viene presentato da Solari nel sostenere che il pensatore tedesco sarebbe stato in effetti uno gnostico. In effetti la problematica discussa dall’autore è di estrema importanza proprio perché essa in effetti concerne molto da vicino il post-teismo come possibile (ma solo presunta) risorsa dell’ultima teologia cristiana. Ed inoltre ci rivela anche che questa presunzione deve avere le sue radici (tra l’altro) proprio in Heidegger. Ebbene, dice Solari, Heidegger si limitò semplicemente a presentare appunto una mera “deità” (ossia un Dio assolutamente non personale) che assume poi il suo senso vero nel contesto della sua fortissima contestazione dell’intera tradizionale onto-teologia cristiana. E lo fece in particolare mostrandoci un dio (“ultimo dio”) presente nella “radura” del bosco dell’essere (“Lichtung”) in maniera in gran parte occulta (quindi totalmente diverso dal Dio di tutte le religioni) e comunque unicamente storico-temporale. Esso garantisce per Heidegger comunque una forma di salvezza (anche se non si capisce assolutamente quale) specie come potente fattore di opposizione alla tecnica. E questo Dio, evidentemente, non vuole essere altro che una semplice “deità”. Esso infatti è appena un “theos”.
Ebbene Solari contesta molto giustificatamente la possibilità che questo possa costituire il punto di partenza per una nuova teologia cristiana, ed inoltre per una rivivificazione del Cristianesimo stesso per mezzo di essa. Ed è evidente che con ciò si tratta di nient’altro se non della moderna teologia post-teistica. Ciò per l’autore è impossibile proprio perché intanto Heidegger − nell’espressa volontà di distruggere la metafisica e con essa l’intera onto-teologia cristiana [Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127 ; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194] – aveva voluto assumere una posizione evidentemente agnostica (massimamente evidente in “Lettera sull’umanesimo” e ”Tempo ed essere”) che alla fine ha una chiara valenza pagana (perfettamente espressa nella postulazione di una “deità”). Dunque nel complesso non ha alcun senso l’operazione (molto diffusa tra i teologi moderni) di trasformare Heidegger in pensatore cristiano, e peraltro uno tra i maggiori. La sua presa di posizione è invece decisamente anti-teistica ed anche in forte odore di post-teismo.
Resta a questo punto solo da accennare alla già citata riflessione da Robinson sul cosiddetto “Debunking argument” in quanto forte contestazione del teismo sulla diretta base della scienza cognitiva. Entro tale argomento si sostiene infatti che la fede in un “agente invisibile” (divino) non sarebbe altro che un indesiderato effetto collaterale del sistema cognitivo nel contesto della sua sana capacità di cogliere la causalità sulla base di solide evidenze naturali (ossia una specie di indesiderato deragliamento del funzionamento normale del sistema cognitivo). È evidente che l’applicazione di un tale argomento demolisce in un solo colpo l’intero teismo considerandolo non solo puramente fantasioso ma addirittura una forma di insania mentale (nel senso di un malfunzionamento del sistema cognitivo). A questo punto (per mezzo del suo “Reply argument”) Robinson risponde che invece è pienamente plausibile l’ipotesi pienamente naturalistico-razionale di un Dio che abbia predisposto l’evoluzione umana in modo da includere nel sistema cognitivo la possibilità di supporre legittimamente un agente invisibile. È evidente però che la stessa replica pro-teistica di Robinson intende muoversi esattamente sul piano della tipica ricerca scientifico-religiosa. E questo ci mostra bene quanto disperata sia oggi la situazione anche del settore di ricerca entro il quale si è intenzionati a difendere a spada tratta il teismo. I protagonisti di tale settore sembrano infatti essersi essi stessi sbarazzati totalmente di riflessioni altamente metafisico-religiose (anche se assolutamente moderne) come quelle di Berdjaev; le quali giustificano pienamente il teismo e peraltro senza assolutamente far ricorso ad alcuna ingenua metafisica naturalistica (come quella della tradizionale cosmologia dogmatica incentrata sulla presenza di Dio per mezzo della creazione).

Per completezza bisognerebbe discutere qui anche l’ormai piuttosto abbondante ricerca neuro-fisiologica che giustifica la fede in Dio almeno in quanto tendenza assolutamente naturale della mente umana (quindi in fondo del tutto indipendentemente dalla realtà effettiva dell’esistenza di Dio). Si tratta insomma di un argomento a favore del teismo, anche se solo molto vago, indiretto ed anche in qualche modo abbastanza pilatesco. Non c’è però lo spazio per trattare di questo, per cui ci limiteremo a citare la letteratura esistente su questo aspetto, incluso anche un nostro articolo [Franco Fabbro, “Il paradigma neuropsicologico nello studio della Bibbia”, RivB, 2015, 63 (1-2) 181-207; Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, Roma 2012; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018
< http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].

III- Il post-teismo (Gamberini)
Ecco. Abbiamo finora illustrato uno scenario di ricerca che comprende diversi punti di vista sia teistici che anti-teistici e francamente ateistici. Tra questi ultimi si sono delineati alcuni tra i maggiori argomenti impiegati per combattere il teismo entro l’attuale ricerca scientifico-religiosa: − la contestazione della Bontà divina (specie per mezzo della messa in discussione dell’obbligata gratitudine umana verso il dono della vita), l’evidenza inoppugnabile del male nel mondo, la logico-razionale giustificazione della sola “deità” in luogo del Dio personale teistico (e ciò perfino attraverso l’affermazione di una valenza ateistica della kenosis divina), la contestazione del concetto di un intelligente Piano divino, l’affermazione di varie precisazioni rispetto alla vera natura di un ateismo perfettamente giustificato. Ed inoltre abbiamo anche accennato (ma parte dedicata al panenteismo) alla messa in discussione scientifico-religiosa (ed anti-teistica) di altri elementi metafisico-religiosi e teologici come ad esempio la realtà trinitaria (Paolini Paoletti).
Abbiamo quindi un quadro abbastanza completo del complessivo anti-teismo; anche se quella da noi presentata non è altro che una miscellanea di ricerche che non può avere assolutamente l’ambizione di rappresentare l’intero dibattito attualmente in corso. Cosa che peraltro sarebbe impossibile a causa dell’estensione davvero sconfinata di un dibattito che peraltro ogni giorno cresce sempre più davvero a dismisura. È evidente quindi che è possibile prenderlo in considerazione solo a campione.
Ma è dunque finalmente arrivato il momento di affrontare direttamente la tesi post-teistica, rappresentata qui da un articolo del gesuita Paolo Gamberini [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417].
In effetti già nell’abstract dell’articolo Gamberini affronta tutte le tematiche che già abbiamo presentato e discusso in questo nostro scritto. Egli sostiene infatti che è divenuto ormai urgente, per la fede cristiana, confrontarsi con la modernità (e soprattutto con la scienza empirica) nell’obbligo di mettere in discussione il “teismo personale” specie nelle forme costituite dall’intervento diretto di Dio nel mondo e dalla sovrannaturalità della natura ed azione divina. Ed egli definisce tutto questo l’introduzione di un “nuovo paradigma” nella fede e dottrina cristiana (affermazione in cui si rifà alla ben nota teoria di Thomas Kuhn delle rivoluzioni scientifiche). L’effetto finale di questa operazione non dovrebbe però essere per lui una negazione del Dio-Persona bensì una sua postulazione non più ontica bensì invece “dinamica e relazionale”. Insomma, almeno a prima vista, non sembra che egli voglia giungere ad abolire del tutto il concetto di Dio-Persona. Infatti più avanti dirà anche che il “teismo classico” (da lui direttamente avversato) non si identifica affatto con il “teismo personale”, e quindi proprio in questo è difettivo. Certo è però che egli intende svuotare non poco il concetto di Dio-Persona e proprio per la via dell’anti-teismo. Non a caso afferma che il Dio-Persona non può venire accettato solo come posto del tutto al di fuori dell’”ordine del creato”. Ed inoltre (menzionando il vescovo episcopaliano John Schelby Spong) egli afferma l’impossibilità di accettare il Dio-Persona come “dotato di attributi sovrannaturali”. Insomma in definitiva egli nega il Dio-Persona anche se dice di accettarlo. E vedremo poi infatti alla fine con quale forza lo nega.
In altre parole lo studioso rimprovera al teismo tutti gli aspetti che invece con Berdjaev abbiamo visto essere rilevanti per la comprensione di Dio in quanto Persona, ossia la sua onticità addirittura carnale (umano-divinità), la sua azione concreta nel mondo (sia per mezzo dell’uomo sia come Spirito) e la sua ricongiunzione di naturale e Sovrannaturale, ossia la sua riunificazione di Terra e Cielo. E se si intende qui impiegare (anche solo alla lontana) Eckhart per gli scopi di un siffatto post-teismo, bisognerà obiettare a ciò che la principale intenzione del pensatore (proprio nel sostenere la dimensione relazionale della presenza di Dio nel mondo) fu quella di riunificare (fino alla totale fusione) la dimensione naturale (Natura) con quella sovrannaturale (Grazia) [Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., I, 1 p. 25-37].
Estremamente significativo ci sembra il fatto che – nel ricorrere a Kuhn per sostenere un obbligato e naturale cambio di paradigma anche nella metafisica e nella teologia oltre che nella scienza (che ovviamente adombra la messa in discussione delle verità intuibili da parte della metafisica entro la Rivelazione in modo del tutto immediato, e quindi indipendente dalla scienza empirica) – Gamberini da un lato si rifà al moderno idealismo filosofico (in quanto anti-realismo che pone in primo piano il soggetto cosciente-conoscente in quanto autentico luogo della verità), ma dall’altro lato si rifà addirittura anche ad una sorta di tradizione apofatica (anch’essa decisamente anti-realistica), in forza della quale la negazione dell’antropomorfismo divino sarebbe non solo del tutto legittima ma anche doverosa. In sua presenza, infatti, secondo lui perdiamo qualunque capacità di comprendere la vera natura di Dio e soprattutto la natura della Sua azione. Peraltro più avanti egli dirà anche quali sono i suoi diretti punti di riferimento filosofico-idealistici, cioè Hegel, Fichte e Schelling.
Ed ecco dunque il suo primo diretto attacco al concetto di Dio-Persona, in quanto realtà che sfugge all’onticità ordinaria esperienziale costituendo invece sostanzialmente sovrannaturale, e quindi del tutto inafferrabile. Per lui infatti l’antica tendenza della metafisica a trasformare Dio e la sua azione nell’essere mondano stesso, ossia l’universo (cosmologia dogmatica) corrisponde esattamente all’attribuzione a Dio (per la via di una visione antropomorfica) di caratteristiche personali che sono sostanzialmente straordinarie, ossia sono caratterizzate dalla perfezione. Conseguentemente proprio questa viene considerata la realtà di Dio di fronte alla quale l’uomo si trova. Ma in tal modo noi ci troviamo di fronte ad un concetto unicamente antropomorfico di Dio-Persona. Infatti la perfezione è un attributo che noi associamo a Dio in base all’esperienza di noi stessi. Ed a questo punto (pur accettando almeno in parte questa sua tesi) dobbiamo ricordare che Berdjaev afferma il concetto di Dio-Persona proprio sulla base di un suo intendimento intensamente antropologico. Egli afferma insomma che l’antropomorfizzazione di Dio non è affatto un ostacolo per la comprensione del Dio-Persona ma è semmai invece una risorsa in tal senso. Il che significa sostenere che l’umano-divinità non è altro che (sic et simpliciter) l’affermazione della perfetta identità (pienamente ontica) tra Dio e uomo. il che comporta poi l’accettazione finalmente incondizionata del concetto di Incarnazione divina. Laddove vedremo che invece Gamberini si adopera fattivamente per la profonda revisione critica di tale concetto.
In tutto questo consiste insomma l’attacco idealistico dello studioso al classico realismo filosofico che era stato sempre dominato dal concetto tomista di “adaequatio rei et intellectus”; che comporta a suo avviso una reificazione di Dio (trasformazione di Dio in “cosa”, “res”, e quindi anche mondo) con la conseguenza di rendere del tutto superflui la presenza e il giudizio del soggetto. Ebbene, ecco che la sua obiezione al teismo si presenta immediatamente nella forma dell’equiparazione di esso con una reificazione di Dio che metterebbe fuori gioco il credente (in quanto soggetto) trasformando in tal modo Dio in una cosa reale. Intanto comunque dobbiamo dire che Dio, anche se inteso come cosa reale, non può essere altro che un’entità che è presente ed agisce nel mondo pur non appartenendo ad esso in alcun modo in forza della Sua natura sovrannaturale. Si tratta insomma di quel Dio insieme trascendente ed immanente che abbiamo visto affermare a Berdjaev, e che poi costituisce la forma più autentica del Dio-Persona.
Gamberini però naturalmente non crede ad una sola parola di quest’ultima dottrina del Dio-Persona. Infatti egli la definisce come “comprensione mitica” di Dio. E nello stesso tempo equipara la dimensione mitica di Dio a quella antropomorfica. Con il deplorevole effetto (secondo lui) che il soggetto non ha più nulla da dire su Dio, dato che in suo luogo si pretende che invece già parli la sola Rivelazione (e precisamente con un linguaggio che non è affatto umano). Cosa per lui assolutamente inaccettabile. Invece per lui proprio il soggetto è fondamentale in un atto religioso che è fondamentale ed assolutamente propedeutico alla fede, ossia la “ricezione della Rivelazione”. Ora poco importa che a tale proposito Gamberini indichi nella mancata ricezione umano-soggettiva della Rivelazione il deplorevole effetto della sua letteralizzazione; con la conseguente credenza ingenua in espressioni come “Dio agisce” e “Dio parla”. Il problema principale della sua visione non è affatto questo (dato che la lettura letterale della Rivelazioone è di per sé più che condannabile). Il problema sta invece nel fatto che − nel trasferire al soggetto il diritto e dovere di parlare in nome della Rivelazione (e quindi letteralmente riscriverla e ri-dettarla) − egli sostiene letteralmente che l’unica accettabile verità è che “Dio si rivela con e attraverso le parole umane”. Ed ecco il già evidente totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, cioè ecco la fondazione della ricerca scientifico-religiosa da parte dello stesso post-teismo. Anche questo è dunque un atto tipico del post-teismo. Ebbene, con “le parole umane” sono da intendere le affermazioni ordinarie e mondane dell’uomo, ossia quelle che compaiono entro l’ordinaria conoscenza, ossia nella Scienza. In tal modo, dunque, la Rivelazione non ha più assolutamente nulla da rivelarci nell’illuminarci laddove invece la nostra Ragione (per sua natura) è e resta totalmente all’oscuro; e quindi non può in alcun modo sorprenderci con le sue trascendenti verità. Ma sta di fatto che ciò è esattamente quanto avviene allorquando nella Rivelazione parla lo stesso Spirito pneumatico, ossia la Sapienza divina. Secondo il post-teismo invece il linguaggio proprio della Rivelazione (ossia il linguaggio di Dio stesso) deve venire di fatto rigettato nella forma in cui si presenta, in quanto esso non è mediato dall’uomo.
In luogo di questo, invece, per Gamberini è l’uomo che fa tutto; e nel caso specifico è l’uomo in funzione di neo-teologo e moderno filosofo decostruzionista. E su questo secondo lui non c’è da discutere. Naturalmente egli si appella in questo a quell’“ermeneutica” che (dopo Heidegger) è ormai omnipresente dovunque oggi si intenda screditare la metafisica e soprattutto la metafisica religiosa. E sostiene infatti che proprio essa (ad opera dei nuovi teologi) ha ormai esautorato totalmente l’uso “letterale” del linguaggio biblico. Il che è poi è falso ed in mala fede, dato che (come poi vedremo) una lettura letterale della Rivelazione non è mai stata giustificata.
Ma possiamo toccare con mano per davvero la gravità devastante di tali convinzioni allorquando lo studioso avvalora totalmente l’ormai totale avversione dei teologi alla “preghiera di richiesta”, che a sua volta poi riposa poi su una deplorevole di nuovo letterale interpretazione dell’Incarnazione divina (in quanto evento presuntamente puntuale, e non invece continuo e quindi storico). E qui egli menziona come protagonisti di tale idea Queiruga e Hick [Andrés Torres Queiruga, Io credo in un Dio fatto così. Risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede, EDB, Bologna 2017; John Hick, The Metaphor of God Incarnate: Christology in a Pluralistic Age, Westminster, John Knox Press, Louisville 1993]. In particolare Hick avrebbe riletto l’Incarnazione divina come non più puntuale (questa sarebbe infatti appena una “metafora”), ma invece “graduale e differenziata rivelazione di Dio all’umanità”.
Insomma è evidente che qui non ci troviamo solo di fronte ad un post-teismo, ma invece anche ad un vero e proprio anti-teismo e perfino ateismo. E peraltro ci chiediamo cosa mai resti ancora di cristiano una volta eliminati del tutto questi atti e concetti, specie in quanto oggetti di fede vissuta; e peraltro anche fede molto coraggiosa nell’Invisibile (in quanto reale presenza divina) nel contesto della tremenda sfida rappresentata dall’esistenza.
Viste queste premesse (cioè soprattutto la totale negazione della dimensione sovrannaturale di Dio che persiste nella sua concreta ed attiva presenza del mondo come Spirito pneumatico), diventano del tutto poco credibili se non ridicole le petizioni di principio che Gamberini fa seguire a queste sue riflessioni preliminari. Egli sostiene infatti che l’assoluta urgenza di eliminare totalmente dalla teologia il Dio Trascendente della tradizionale metafisica religiosa cristiana (quello caratterizzato dall’”aseità”, ossia assoluta libertà nei confronti del creato con una conseguente Sua relazione unicamente “accidentale” con il creato stesso) avrà come conseguenza l’affermazione di una relazione di Dio con il mondo che ha il carattere specifico dell’Amore unito intimamente a sua volta alla Sua totale “libertà creatrice”. Costateremo però più avanti quanto riduttivamente ed astrattamente egli intenda questo primario Amore creativo divino. E tutto ciò corrisponderebbe poi ad un atto di “autodeterminazione” divina nel mondo, ossia di fatto ad una sorta kenosis che però addirittura nasconderebbe Dio nella ordinaria fattualità mondana – rendendolo così invisibile nel senso peggiore del termine e cioè come totalmente non tangibile. Non solo, ma ciò corrisponderebbe per lui addirittura ad una nuova “mistica” incentrata nell’idea che Dio è Spirito che impregna di sé totalmente il mondo.
Ma intanto la negazione da parte di Gamberini di atti religiosi come la preghiera di richiesta indica chiaramente che tale impregnazione non è invece altro che un letterale sprofondare e sparire di Dio nel mondo, ossia una Sua totale immanentizzazione che alla fine non può che sottometterlo alle Leggi della Natura. E dopo questo sprofondamento evidentemente non si ammette che di Dio resti alcuna vera traccia.
Il che tra l’altro cancella di un sol colpo la dimensione della Potenza proprio in quanto massima espressione dell’impregnazione divina del mondo. In tal modo, insomma, Dio non è più affatto lo Spirito pneumatico che è presente nel mondo nel «rendere nuove tutte le cose». Invece non è altro che una vaga ed anche dubbiosa presenza sulla quale l’azione umana eserciterebbe peraltro un controllo totale, fino al punto da poterla rappresentare pienamente. Ed è evidente che ciò accade a causa della soggettualità conoscente in quanto ispirata totalmente ad evidenze scientifico-empiriche.
Posto questo, Gamberini riafferma la necessità storica urgente di superare totalmente il teismo in quanto affermazione di un Dio come “necessario, onnipotente, sovrannaturale” e perfino anche “personale” (in quanto come tale situato fuori dell’”ordine del creato”). Ed egli giustifica questo sulla base della sua insostenibilità alla luce della scienza empirica più moderna ed inoltre anche a fronte delle possenti sfide del moderno ateismo. Il che ci mostra quindi che post-teismo e ricerca scientifico-religiosa sono in effetti una sola ed unica cosa. In altre parole il post-teismo non è altro che una vergognosa ritirata della teologia cristiana di fronte a forze storiche che in sé nulla hanno a che fare con la Religione né con il Cristianesimo.
Nel frattempo però egli si rifà nuovamente ai protagonisti dell’idealismo tedesco (già prima menzionati) considerandoli come gli apri-pista della (secondo lui) perfettamente legittima affermazione della “morte di Dio” (e peraltro per la via della significativa intermediazione di Böhme). Si tratterebbe in definitiva della doverosa dichiarazione della morte del Dio Trascendente, ma in obbedienza alla stessa scelta divina di negare sé stesso (entro la kenosis) come “infinito” nel “finito” rappresentato dal Dio umano, ossia Gesù.
E lo studioso menziona al proposito la totale accettazione di tutto questo da parte dei teologi in figure come Jürgen Moltmann e Eberhard Jüngel; specificamente nel contesto di un atto di decostruzione della stessa tradizionale teologia cristiana. Laddove va notato che costoro sono dei teologi protestanti e non cattolici.
Ma aldilà di tutto questo Gamberini viene davvero allo scoperto con la seguente (secondo noi assolutamente scandalosa) affermazione: − “Il teismo classico non è più in grado di dar ragione della presenza di Dio davanti alla scienza: non è più plausibile la fede nei miracoli e tale credenza è qualcosa di mitologico e superstizioso, così come non si è più in grado di conciliare la presenza del male con la fede nella bontà di Dio”. Personalmente ci chiediamo se la negazione dei miracoli non sia una vera e propria negazione del Vangelo stesso, dato che la presenza di Gesù nel mondo è stata costellata continuamente dai miracoli stessi. E sarebbe davvero troppo dover pensare che essi non siano stati atti reali ma invece solo metaforici. Sia qui insomma molto probabilmente di fronte ad una resa incondizionata di quella metafisica religiosa cristiana, che a sua volta un tempo era invece intimamente legata alla Rivelazione (per mezzo delle intuizioni visionarie dei suoi protagonisti) quale contesto per descrivere la natura di Dio ed affermarne l’azione nel mondo.
A questo punto Gamberini precisa che la premessa del post-teismo risiede nei pregevoli approcci “non teistici” o “ana-teistici” di teologi come il vescovo Spong [John Schelby Spong, Why Christianity Must Change or Die: A Bishop Speaks to Believers in Exile (1998); A New Christianity for a New World. Why Traditional Faith is Dying and a New Faith is Being Born (2000)] e Richard Kearney [Richard Kearney, Anatheism. Returning to God after God, Columbia University Press, New York 2010]. Laddove va notato che il primo è di nuovo un protestante ed il secondo è un filosofo della Religione totalmente agnostico.
Posto questo, allo scopo di una radicale riforma della teologia cristiana, egli ritiene indispensabile in primo luogo un colloquio con altre tradizioni religiose per comprendere se Dio sia “personale, impersonale o transpersonale”. E questo è a nostro avviso un altro vergognoso atto di rinuncia alla specifica identità cristiana (che andrebbe sempre mantenuta anche se nel ieno rispetto di altre tradizioni religiose), in quanto essa è incardinata nella natura personale di Dio. Ed è evidente che qui si allude alla presa in considerazione di argomenti di stampo buddhistico del genere di quelli che abbiamo discusso nella sezione precedente. Inoltre Gamberini ritiene indispensabile la rinuncia definitiva alla concezione di un Dio che non includa in sé il creato fin dall’inizio (invece di averlo fuori di sé). Inoltre ritiene indispensabile il superamento di una “visione interventistica e sopra-naturalistica della presenza attiva di Dio nell’universo e in particolare nella storia umana”. Ora, come abbiamo già detto, è del tutto evidente che interpretazioni letterali di Dio come queste non sono per definizione giustificate. Ma per questo non vi era affatto bisogno del post-teismo, che peraltro in definitiva nega la stessa onticità di Dio. La Rivelazione cristiana offre infatti elementi in abbondanza per non soggiacere a tali interpretazioni riduttive; a patto solo che essa non venga intesa in termini volgarmente letterali, ossia unicamente essoterici. E questo crediamo che nessun vero teologo cristiano lo abbia mai fatto. Eppure Gamberini attribuisce questa inaccettabile concezione “mitologica” di Dio non all’interpretazione errata del teologo (o del credente), bensì invece allo stesso linguaggio oggettivo presente nella Bibbia (ossia di fatto quel linguaggio divino che prima abbiamo constatato essere inaccettabile per il post-teismo). Il che comporta poi non una revisione della lettura della Rivelazione, ma invece un suo vero e proprio rigetto. Sta di fatto che proprio da questo rigetto egli si aspetta la definitiva “trasformazione post-teistica della teologia cristiana”.
Questi erano gli elementi decisivi per comprendere la natura ed in senso del post-teismo di Gamberini, ed anche (per la sua intermediazione) dell’intera teologia cristiana attuale. Tutto quello che viene dopo nel suo articolo sono estremamente complesse e sofisticate riflessioni metafisico-teologiche che non possiamo discutere certo in dettaglio perché ci allontanerebbero del nostro tema. Qualcosa su di esse va comunque detto.
Nel suo lungo paragrafo dedicato al Dio da intendere come puro amore (2 p. 398-405) Gamberini si sente obbligato a premettere a quello che è per lui il più autentico intendimento di Dio la messa in discussione dell’intera onto-metafisica tomista incentrata nell’”atto puro” (e nella quale egli include anche Bonaventura e perfino Eckhart). Infatti per lui l’intendimento di Dio come “atto puro” (e quindi come assoluta perfezione ed assoluta attualità non bisognevole di alcuna aggiunta di essere così come di nessuna relazione) istituisce una invalicabile distanza tra Lui stesso e l’uomo inteso come “creatura”, e quindi anche con il mondo stesso. In altre parole in tal modo viene affermato che l’essere dell’uomo e del mondo (in quanto creati) non ha alcuna realtà al di fuori della relazione con Dio in quanto unico atto di essere perfettamente compiuto (ossia davvero primario atto di esistere). E quindi uomo e mondo costituiscono in vero e proprio nulla ontico. È ovvio comunque che per lui si tratta con ciò del teismo fondato unicamente sul Dio Trascendente; che egli intende decisamente rigettare (nonostante con Berdjaev abbiamo visto che, entro un ben inteso Cristianesimo, il Dio trascendente sia assolutamente simultaneo a quello immanente).
Ebbene, secondo Gamberini, sulla base di questo genere di relazione, Dio non può stabilire con l’uomo e il mondo alcun vero rapporto, specie se lo si intende come autenticamente amoroso. Il che è provato, secondo lo studioso, dal fatto che per Tommaso la relazione esistente tra Dio e uomo-mondo non è affatto “reale”. Se infatti lo fosse, “Dio muterebbe nella sua sostanza” (invece di essere assolutamente immutabile, com’è l’”atto puro”), ed inoltre intanto “il mondo aggiungerebbe qualcosa di reale al suo essere”.
Pertanto entro la relazione tra Dio e uomo-mondo (secondo la tradizionale onto-metafisica tomista) non è mai davvero Dio a mutare, ma invece solo l’uomo. Il che di fatto rende inesistente la relazione tra i due termini – specie perché Dio è un essere stabile mentre invece solo l’uomo è un essere dinamico. Entro questo contesto è peraltro per lui spiegabile anche quella assai poco credibile “preghiera di richiesta” che secondo Tommaso non era affatto reale (proprio a causa dell’immutabilità divina), ma era appena un ricordarsi dell’uomo di avere assolutamente bisogno della relazione di Dio per non essere ciò che è, ossia un non-essere. Quindi per Gamberini già in Tommaso con questa preghiera l’uomo per definizione non riceveva un bel nulla da Dio, ossia non riceveva un reale «aiuto divino». Dunque per lui la negazione della preghiera di richiesta è giustificata non solo entro il post-teismo.
Comunque, secondo Gamberini, è urgentemente necessario superare questa complessiva visione per concepire la perfezione divina (ossia l’”atto puro”) come includente pienamente in sé (ed in partenza) una relazione con l’uomo ed il mondo che semplicemente consiste nella rinuncia pregiudiziale di Dio alla propria perfetta compiutezza e quindi all’assenza di qualunque bisogno di aggiunta di essere da parte Sua.
Il che significa che bisognerebbe intendere Dio come un essere unicamente relazionale e non invece staticamente ontico. Gamberini dimentica però di dire che quell’Eckhart che lui condanna (come affermatore di un Dio radicalmente trascendente) afferma proprio la natura sostanzialmente relazionale e dinamica di Dio [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., Prol. 14-17 p. 71-74; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., II, 142-149 p. 231-237; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, I, 5 p. 63-73, IV, 16 p. 153-163]. In ogni caso, secondo lo studioso, bisogna pensare che Dio semplicemente si pone (per propria scelta) in relazione con ciò che in sé non è altro che nulla, ossia l’uomo ed il mondo (specie in quanto radicale alterità rispetto a Lui). Ma per fare questo bisogna pensare che Dio contenga nella sua essenza già in partenza il dinamismo della relazione con l’uomo ed il mondo creati. Insomma è come se questa relazione avvenisse già all’interno di Dio (e soprattutto entro la sua assoluta perfezione) e non invece fuori di Lui. Essa non richiederebbe insomma alcun riversarsi di Dio fuori di sé stesso. Ma, una volta posto questo, c’è da chiedersi cosa si intenda quando si concepisce la Trinità proprio come un flusso d’amore nel quale Dio si riversa fuori di sé stesso.
Ecco quindi delinearsi per Gamberini un “libero atto creativo” di Dio che è già parte del Suo stesso essere (e non invece mero accidente, e quindi per nulla necessario). È da intendersi dunque in questo modo, secondo lui, il fondamentale atto di “auto-determinazione” di Dio nel mondo. E qui egli menziona come punti di riferimento dottrinari i teologi Jüngel e Rahner. Insomma Dio non è propriamente l’Essere per eccellenza, ma invece semmai è Colui che determina il proprio essere nella relazione con ciò che è totalmente «altro» rispetto a Lui stesso. E così andrebbe intesa anche la creazione divina.
In questo consisterebbe dunque per Gamberini l’intendimento di Dio come Amore, e quindi non come Essere statico, ma invece come Essere dinamico e fondamentalmente relazionale. Insomma, egli ne conclude citando di nuovo Jüngel, “Dio è Creatore per amore e in questo senso creatore dal nulla. Questo atto creativo di Dio non è però altro che l’essere di Dio, che come tale è essere che crea”.
Orbene sinceramente ci sfugge totalmente perché, per poter sostenere questo, si debba concepire una teologia post-teista. Infatti, innanzitutto le due dimensioni divine, solo apparentemente in contradizione tra loro (quella statica e quella dinamica), sono entrambe contemplate in una Rivelazione che non venga intesa in maniera supinamente letterale (anche nel contesto di una riflessione propriamente metafisica); ed in secondo luogo, una volta concepito un Dio-Persona in tutta la sua piena onticità (e non invece come mera metafora), la dimensione amoroso-relazionale della creazione è già di per sé assolutamente evidente. Soprattutto se essa si associa ad un intendimento dell’Incarnazione come kenosis. Infatti la dimensione del Dio-Persona corrisponde esattamente a quella del Dio incarnata, e precisamente al Dio incarnato una volta per tutte. E questo Dio-Persona in quanto incarnato per definizione è in relazione con l’uomo e con il mondo. Del resto questo è il nucleo stesso del Cristianesimo (e quindi anche la sua specifica e preziosa identità). Quindi non vediamo assolutamente cosa mai ci sia da riformare in questo. Ma intanto il post-teismo condanna di fatto il concetto di Dio-Persona. E questo è un fatto.
Ed emblematica in tal senso è la riflessione di un grande teologo cattolico come Erich Przywara, il quale non a caso non sentì alcuna esigenza di dare vita ad un post-teismo [Erich Przywara, Analogia entis, Johannes-Verlag, Einsiedeln 1996]. Egli infatti sostenne che non vi è alcuna contraddizione tra “ontica” e “noetica” nella concezione di Dio. Per cui l’affermare che Dio è il paradigma ideale (noetico) e trascendente di ogni oggettualità (cioè l’Idea di cosa nella sua eterna staticità) non comporta alcuna contraddizione con il considerarlo come l’esistente per definizione, ossia il Dio incarnato. E lo stesso vale per la riflessione di Romano Guardini [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, II, 12 p. 166-174, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531, VI, 14 p. 579-585], il quale affermò che lo Spirito divino (entro gli eventi dell’Ascensione al Padre da parte di Gesù) andò di fatto a impregnare di sé il mondo stesso, riproducendo così l’Incarnazione dopo l’evento decisivo della Resurrezione.
Insomma la riflessione cristiana contiene da molto tempo in sé tutti gli elementi per rendere del tutto superflua la pretesa del post-teismo di essere il primo ad aver riconosciuto la natura creativo-relazionale di Dio. Come abbiamo detto questa consapevolezza risale fino ad Eckhart.
Ed allora, considerato tutto questo, non è vero forse che in fondo il post-teismo non consiste in altro che nell’invito (rivolto dal teologo al credente) a non leggere letteralmente la Rivelazione? Sarà insomma che non si tratti solo di questo? Ma se così fosse ciò renderebbe di nuovo del tutto inutile un apparato dottrinario pesantissimo ed ingombrantissimo che forse ha il solo scopo narcisistico di delineare sempre nuovi protagonisti del pensiero teologico. Inoltre non è forse vero che il più semplice credente vive concretamente tutto quello che Gamberini presenta come radicale novità teologica (e peraltro senza alcuna riflessione teologica e metafisica) nel credere fermamente nella propria intima relazione con un Dio assolutamente presente ed amante anche se del tutto invisibile?
E veniamo ora al secondo ed al terzo paragrafo di riflessione teo-metafisica di Gamberini (3-4 p. 406-413) che sono dedicati alla “presenza di Dio come creaturalità”. E qui (di nuovo entro una riflessione onto-metafisica estremamente sofisticata, dettagliata e complessa, che non può ovviamente venire riportata integralmente), lo studioso sostiene sostanzialmente che la presenza divina in quanto volontaria auto-determinazione nel mondo da parte di Dio va intesa come qualcosa che intanto è assolutamente reale (tanto che essa nega frontalmente la trascendenza divina). Eppure però è tale solo in quanto per definizione è costante e ordinaria (nel senso della totale inapparenza), dato che essa non è assolutamente coinvolta negli eventi, ossia nella dimensione spazio-temporale. Cioè nel concreto essa è totalmente invisibile ed intangibile. In particolare essa non si manifesta mai in quella maniera “puntuale” che la renderebbe presenza straordinaria invece che ordinaria. Ed è evidente che il tal modo si sta parlando dell’insostenibilità dell’irruzione del Sovrannaturale divino nel naturale. Infatti pensare questo significa per Gamberini ricadere in una visione “mitologica” (ossia deplorevolmente ingenua) della presenza divina. Infatti è proprio in tale contesto che secondo lui viene concepito quel “miracolo” nel quale il cristiano non ha alcun diritto di credere. Ed evidentemente questo avviene anche nell’«aiuto divino» che ci si aspetta nella preghiera di richiesta.
Possiamo quindi dire che, pur con tutta l’insistenza di Gamberini sulla presenza divina nel mondo come espressione più autentica della Sua stessa natura (e quindi decisa negazione della Sua remota trascendenza, per definizione infinitamente distante dal mondo), egli impiega tutta la cura possibile per evitare che essa venga intesa in modo reale e quindi tangibile.
A questo punto, a fronte dell’impossibilità di comprendere cosa sia nei fatti questa «reale» presenza divina (oltre che rappresentare appena il frutto di una sofisticata ed ambiziosa neo-riflessione teo-metafisica), non resta che pensare che essa non è altro che un’affermazione puramente retorica; che poi non solo è vuota ma è anche non poco cinica. Essa quindi deve venire intesa come una presenza da considerare puramente formale e rituale dal punto di vista religioso. Si tratterebbe insomma di una cosa che c’è e nello stesso tempo non c’è. Ed in pratica ciò significa che Dio (per quanto definito unicamente come amore creativo e perfino come totale immanenza nella realtà “creaturale” alla quale Egli non esita ad abbassarsi) di fatto non è per nulla presente nel mondo. Di certo infatti, una volta ammesso tutto questo, non lo sarà per il credente che, totalmente «gettato» in situazioni esistenziali estreme e senza alcuna via di uscita, non ha altra scelta che credere incondizionatamente nell’Amore divino come presenza sì, ma come presenza davvero tangibile. Non invece come presenza vuota e formale, in quanto vagamente ed incomprensibilmente metafisica.
Ebbene, se questo è il frutto più pregevole del post-teismo per la consapevolezza religiosa (cristiana e non), c’è da chiedersi veramente in cosa consista mai il prodigioso rinnovamento da esso apportato. Esso infatti sottrae al credente perfino il più minuscolo conforto ed appoggio che finora la teologia tradizionale (anche la più irrazionale e superstiziosa) gli aveva comunque procurato. Esso sottrae insomma al credente la fede nella presenza reale di Gesù nella propria vita e nella propria interiorità. E questo significa allora che il post-teismo può essere semmai vantaggioso per il sussiegoso e narcisista professore di teologia, ma non certo per il credente. Proprio per questo esso si rivela in definitiva essere null’altro che una sofisticata ed ambiziosa neo-metafisica (e di certo non meno controproducente di quella che intanto viene demolita senza il minimo scrupolo) che serve semmai appunto ai professori di teologia (e correlati filosofi innamorati del loro protagonismo) come campo per sviluppare a josa teorie sempre più astruse in quanto totalmente distanti dalla realtà (specie da quella di fede). E come tale esso non serve in alcun modo la fede vissuta.
Del resto di tutto questo possiamo comunque avere la prova tangibile nel quinto ed ultimo paragrafo dell’articolo di Gamberini (5 p. 413-417), nel quale il suo discorso viene al dunque sia rispetto alla presenza divina sia anche ai concetti correlati di “persona divina” e perfino di “spirito divino”. Emblematico è il titolo scelto per questo paragrafo: − “Dio come essere ineffabile e transpersonale”. Questa definizione dice infatti già tutto ciò che si deve sapere dell’intendimento post-teista della presenza divina, della persona divina ed anche dello spirito divino.
Del resto lo studioso è qui estremamente esplicito in primo luogo circa la presenza divina. Egli dice infatti che, pur nella sua auto-determinazione mondana, che poi anche “auto-comunicazione” amoroso-relazionale, Dio rimane comunque costantemente “incomprensibile ed ineffabile”. E ciò ha una ricaduta fatale su ciò che si intende come esperienza religiosa in termini appunto di presenza divina. Essa andrebbe infatti intesa unicamente come “esperienza originaria di Dio”, ossia un’esperienza tutt’altro che tangibile, e quindi per nulla una vera esperienza. Con il termine “originario” si intende qui infatti una dimensione del tutto estranea allo spazio-tempo, alla località, alla storia, alle circostanze concrete, all’esistenza; ossia ancora una volta qualcosa di puramente formale e quindi totalmente astratto (se non addirittura irreale).
Quindi essa è meno che mai un’esperienza del divino che possa venire realmente vissuta dall’uomo comune nel bel mezzo della propria esistenza. Il che significa allora che la presenza divina non può né deve venire intesa come “qualcosa che si aggiunge dall’esterno alla nostra creaturalità, come qualcosa di meraviglioso e straordinario”. Essa deve invece venire intesa appunto come “presenza di Dio” che è solo “ineffabile e indicibile”. E ciò ha una ricaduta poi anche sullo stesso concetto di persona divina. La quale per Gamberini andrebbe compresa unicamente come realtà trinitaria; e come tale nel senso di una dimensione “relazionale” di Dio che però si muove ad un livello altissimo e quindi del tutto inafferrabile. Il che significa che, quando noi riteniamo Dio una Persona, intanto “ogni forma di individualità e limitazione Gli deve essere negata”. Qui lo studioso cita dal testo fondamentale del teologo Schoonenberg [P. Schoonenberg, «Gott als Person und Gott als das unpersönlich Göttliche», in G. Oberhammer (ed.), Transzendenzerfahrung, Vollzugshorizont des Heils. Das Problem in indischer und christlicher Tradition, Indological Institute University of Vienna, Wien 1978, 207-234, p. 230-231] ed inoltre nuovamente anche a Rahner e Barth. Insomma (riferendosi addirittura alla dottrina del non-dualismo śankariano) Gamberini dice che si può parlare di persona divina solo nei termini di quella Sua “presenza alla creaturalità” che è amoroso-relazionale ma senza alcuna reale tangibilità. Il che significa quindi che il Dio-Persona è il “tu” al quale noi ci rivolgiamo (nel mentre Egli prende contatto con noi stessi come il proprio “tu”) solo nella misura in cui siamo consapevoli che esso intanto ci trascende totalmente. E ci trascende perché Dio non può assumere alcuna forma determinata, inclusa quella di una persona intesa in termini antropomorfici.
In parole povere Egli non sta affatto davvero in relazione con noi.
Insomma dov’è qui Gesù? In altre parole a nostro avviso vi sono qui i termini di quell’altra dottrina che si associa spesso al post-teismo, ossia quella che larvatamente postula la totale irrealtà dell’umano-divinità di Cristo appunto nella persona umana di Gesù. Il quale non sarebbe stato altro che una figura storica, rispetto alla quale (secondo questa teoria) ha competenza unicamente la ricerca storico-critica. Ma a questo punto, una volta preso atto di ciò che dice Gamberini rispetto alla persona divina (in quanto unicamente trinitaria), c’è da dubitare fortemente anche nella persistente presenza di Gesù nel mondo non più come essere storico ma come Spirito.
Non a caso proprio qui veniamo davvero al dunque nel definire anche come “Spirito” il Dio definito nei modi finora illustrati. Secondo Gamberini Egli infatti è tale proprio in quanto assolutamente non determinabile; e quindi anche come entità di natura unicamente amoroso-relazionale ma solo in termini molto astrattamente metafisici.
Secondo lo studioso ciò esprime esattamente il fatto che lo Spirito “non ha limiti e può diventare tutte le cose”. E qui è davvero lampante la differenza esistente tra questo intendimento dello Spirito e quello che abbiamo visto in Berdjaev; il quale identifica totalmente lo Spirito divino sia con la Persona divina che con la persona umana (senza alcuna differenza ontica tra di essi) ed inoltre attribuisce alla collaborazione tra di essi la totale e fattuale trasfigurazione del mondo. E naturalmente siamo qui distanti anni luce dall’intendimento di Spirito pneumatico che abbiamo illustrato nel nostro già citato articolo sullo Spiritualismo. Quest’ultimo infatti, pur nella sua assoluta inafferrabilità ontica, si rende così tanto presente nel mondo da entrare perfino nella storia stessa (oltre che nell’esistenza personale di ognuno di noi) come una Forza che tutto trasfigura per il fatto che ad essa «nulla è impossibile». E questo poi corrisponde esattamente all’intendimento guardiniano dello Spirito pneumatico come Forza che spinge addirittura verso l’attualizzazione storica del Regno dei Cieli.
In ogni caso (riferendosi al proposito ovviamente ad Agostino) Gamberini approfitta di questa occasione per riaffermare nuovamente l’insostenibilità della postulazione dell’intervento di Dio nel mondo e nell’essere. In particolare si tratta infatti per lui dello Spirito divino che sarebbe presente nella nostra interiorità in maniera unicamente trascendente (dunque di nuovo del tutto non percepibile), e che quindi in generale non è altro che “la presenza silenziosa del mistero di Dio”. Il che, tenuto conto di ciò che egli ha detto finora, significa che questo silenzioso Dio interiore è in verità più che mai assente. Quindi non si può nemmeno lontanamente pensare di entrare in dialogo con Lui.

Ecco dunque co’sè il post-teismo almeno così come ci viene illustrato da Gamberini.
Abbiamo visto che esso è diverse cose, e tutte purtroppo solo negative. È nei fatti un sostanziale anti-teismo e perfino ateismo. È immanentizzazione di Dio specie nel contesto di una vergognosa resa della teologia e della metafisica cristiane alla critica religioso-scientifica alla Religione ed al Cristianesimo stesso. Quindi è una consegna integrale di questi ultimi a quella ricerca scientifico-religiosa che è tendenzialmente in primo luogo agnostica se non atea. Ed è evidente qui il totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, con la conseguente fondazione della ricerca scientifico-religiosa proprio da parte del post-teismo. Il che significa poi che il post-teismo non è affatto (come pretende di essere) una difesa del teismo per la via della scienza della Religione. È invece semmai la consegna del teismo nelle mani rapaci, aggressive e blasfeme di una ricerca scientifico-religiosa che sostanzialmente è anti-teistica ed atea.
E questo l’abbiamo visto chiaramente nella precedente sezione.
Inoltre per la via dell’acritica assunzione di metafisiche religiose aliene (come quella impersonalistica e trans-personalistica) il post-teismo è di fatto rinuncia all’identità cristiana stessa.
È recisa negazione (nonostante le sue stesse affermazioni in tal senso) della relazione esistente tra Soprannaturale divino e naturale. Quindi è spocchiosa negazione scientista della realtà dell’intervento divino nell’esistenza personale e nella storia (con la totale messa in ridicolo di atti religiosi come la “preghiera di richiesta” e la fede nei miracoli).
È proibizione del riferimento alla Rivelazione come ambito in cui sussistano verità fondamentali ed oggettive alle quali il pensatore religioso e cristiano si riferisce nelle sue argomentazioni, conservando intanto il pieno ossequio nella loro oggettività e nel loro paradigmatico valore (e quindi sottomettendosi ad esse invece di farsene interprete privilegiato). Infatti in luogo di tutto ciò il post-teismo sostiene la perfetta liceità di un’interpretazione soggettiva della Rivelazione stessa che ha peraltro un fortissimo sapore protestante. È paradossale al proposito l’affermazione dell’immanenza divina, nel mentre però viene affermata la Sua Trascendenza nel modo più radicale possibile. In modo tale che la presenza divina viene svuotata di qualunque significato e di fatto viene negata anche la realtà personale di Dio. E ciò fino al punto di spazzare via elementi fondamentali della fede cristiana fino a giungere a svuotarla totalmente dei suoi tipici contenuti. Tra questi un intendimento autentico (in quanto fedele alla Rivelazione) dell’Incarnazione divina e perfino dell’impregnazione divina del mondo. Ed a questo punto salta peraltro all’occhio la costante citazione da parte di Gamberini di teologi protestanti (come Barth, Jüngel, Moltmann, Spong ed altri); cosa che poi è abbastanza diffusa nella neo-teologia cattolica animata dalla ricerca scientifico-religiosa.
È un’ulteriore ed estrema complessizzazione della metafisica posta alla base della teologia (proprio nel mentre si ambisce invece a smantellare totalmente la tradizionale metafisica cristiana), in maniera tale da essere anni luce lontana dall’esperienza religiosa vissuta e perfino contraddirla in molti suoi pregevoli aspetti (specie nella postulazione di una tangibile presenza divina). Come tale il post-teismo è di fatto la revisione totale e radicale della teologia e metafisica cristiana in modo che essa venga strappata al credente e venga data invece in pasto ai professori di teologia e di filosofia per la forgia continua ed illimitata di teorie personali il cui unico scopo è l’affermazione del loro protagonismo intellettuale.
Ed oltre a tutto ciò, per di più, una volta ridotto all’osso, il post-teismo si rivela consistere quasi unicamente nell’invito a non prendere alla lettera la Rivelazione. Cosa di cui ogni serio teologo e filosofo religioso era già perfettamente consapevole, senza alcun bisogno che il post-teismo venisse a ricordarglielo.
Posto tutto questo, chi si aspetta dal post-teismo davvero qualcosa di nuovo e ri-vitalizzante nel contesto della dottrina e fede cristiana, dovrebbe pensarci molto bene prima di persistere in questa convinzione.
Insomma, in estrema sintesi, il post-teismo altro non è se non un pesante, ingombrante e pleonastico apparato argomentativo, che, pur essendo del tutto inutile oltre che controproducente, viene ad aggiungersi alla già non poco ingombrante tradizionale metafisica cristiana senza apportare non solo alcun vantaggio ma inoltre anche nuocendo non poco all’esperienza religiosa vissuta.

IV- Pascal
Ed infine confrontiamo tutto quello che abbiamo finora visto con quanto aveva già detto Pascal nel XVII secolo. Ecco cosa egli ha detto nei suoi “Pensieri”: −
“Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all’altro […] Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra si apre in abissi” [Blaise Pascal, I pensieri, Paoline, Milano 1963, 72 p. 67] ”Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista” [ibd. 230 p. 242]; “Parliamo ora secondo i lumi naturali. Se c’è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non possedendo né parti né limiti, non ha nessuna proporzione con noi. Noi dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è, ma anche se è. Ciò posto, chi oserebbe accingersi a risolvere questo problema? […] Chi dunque biasimerà i cristiani di non poter dare ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? […] Esaminiamo allora questo punto e cominciamo col dire: «Dio esiste oppure non esiste». Da che parte ci decideremo? La ragione non può decidere nulla; c’è di mezzo un caos infinito: si giuoca una partita, all’estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su cosa puntate? […] Si ma bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine […] La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro […] Ma la vostra beatitudine?…” [ibd. 232 p. 245-247]; “Esistono tre mezzi per credere: la ragione, l’abitudine e l’ispirazione […] bisogna aprire il proprio intelletto alle prove, fortificarvisi con l’abitudine e soprattutto col sottomettersi umilmente alle ispirazioni” [ibd. 245 p. 257]; “L’esteriore deve essere congiunto all’interiore se si vuole ottenere qualcosa da Dio; vale a dire bisogna mettersi in ginocchio, pregare con le labbra ecc. […] Attendere da questo esteriore il soccorso significa essere superstizioso; non volerlo significa essere superbo” [ibd. 250 p. 259]; “Timore, non quello che viene dal credere in Dio, ma dal dubitar se esiste o no. Il buon timore viene dalla fede, − il falso timore viene dal dubbio. Il buon timore è unito alla speranza in Dio in cui crediamo; − il cattivo timore è unito alla disperazione, perché si teme il Dio nel quale non si crede. Gli uni temono di perderlo, − gli altri di trovarlo” [ibd. 262 p. 264]; “Sottomissione e uso della ragione: in questo consiste il vero Cristianesimo” [ibd. 269 p. 267]; “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. E questa è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione” [ibd. 278 p. 269]; “L’uomo senza la fede non può conoscere né il vero bene né la giustizia […] Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità, di cui adesso non gli resta che il segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle presenti , ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso?” [ibd. 425 p. 327-329]; “Se è un segno di debolezza dimostrare l’esistenza di Dio per mezzo della natura, non disprezzate la Scrittura; se è un segno di forza aver conosciuto questi contrasti apprezzate per questo la Scrittura” [ibd. 428 p- 330]; “Noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è impossibile ogni comunicazione con Dio […] Ma nel medesimo tempo noi conosciamo la nostra miseria, perché Dio non altro che il Riparatore della nostra miseria. Perciò non possiamo ben conoscere Dio senza conoscere le nostre iniquità. Perciò quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la loro miseria non lo hanno glorificato” [ibd. 547 p. 383-384]; “La religione cristiana consiste in due punti, che per gli uomini è tanto importante conoscere quanto è dannoso ignorare; e si deve alla misericordia di Dio l’avere concesso dei segni di quei due punti […] E su questo fondamento essi traggono motivo di bestemmiare la religione cristiana, perché la conoscono male. Immaginano che essa consista semplicemente nell’adorazione di un Dio considerato grande, potente ed eterno; e questo è propriamente il deismo, che è tanto lontano dalla religione cristiana quanto lo è l’ateismo che ne è tutto l’opposto […] Ma pur concludendo quello che vogliono contro il deismo, non ne concluderanno mai nulla contro la religione cristiana, a quale consiste nel mistero del Redentore, che unendo in sé le due nature, la umana e la divina, ha sottratto gli uomini alla corruzione del peccato per riconciliarli con Dio nella sua divina persona [ibd. 556 p. 39].
Insomma Pascal aveva già tematizzato davvero tutto – la necessità del teismo e la sua problematicità in quanto oggettivamente disdicevole (rispetto ad un Dio Trascendente del quale non possiamo sapere nulla); il rischio della fede come decisione e scelta specie a fronte della prospettiva della salvezza; la totale inutilità dell’impiego della Ragione nel decidere circa l’esistenza o inesistenza di Dio; l’importanza fondamentale della dimensione del “cuore” e quindi dell’amore, unita a sua volta alla primarietà di Dio come Cristo, ossia come Redentore.
Ebbene allora il fatto che oggi esista una così ingente ricerca scientifico-religiosa (includente la discussione su teismo, anti-teismo ed ateismo) ed il fatto che essa abbia reso necessario addirittura una del tutto nuova teologia post-teista, sono due fatti che dimostrano che o tutto ciò stato dimenticato (se non cancellato) oppure non è mai stato conosciuto. Infatti i “Pensieri” di Pascal rendono tutto ciò che abbiamo finora illustrato ancora più inutile di quanto sia in sè

Conclusioni.
Vediamo ora di integrare e riassumere tutto ciò che abbiamo visto e detto finora.
Partiamo da un’estrema sintesi di quanto sostiene Berdjaev. Bisogna innanzitutto osservare che egli non si esprime affatto nei termini del teismo classico che viene criticato così aspramente dall’anti-teismo e superato dal post-teismo. Egli infatti deplora (e proprio alla luce della scienza moderna) la naturalizzazione delle verità religiose (specie la cosmologia ingenua e dogmatica dell’antica metafisica); in relazione a questo condanna l’antico teismo medievale (in quanto “spirito angelico” avverso al mondo); ritiene inaccettabile una lettura davvero volgarmente ingenua della presenza di Dio nel mondo; infine auspica un’estrema valorizzazione del mondo (contro ogni Trascendentismo divino) considerandolo peraltro luogo della presenza divina. Tuttavia queste sue affinità con l’anti-teismo cessano non appena entriamo nei particolari. Infatti egli non accetta che il rifiuto della naturalizzazione delle verità religiose si traduca in una svalutazione della dimensione antropologica (come avviene nella condanna post-teista dell’antroporfismo).
E motiva questa sua presa di posizione affermando che il Dio presentato nella Rivelazione cristiana è per definizione antropomorfico proprio in virtù della sua primaria umano-divinità; ritiene inaccettabilmente apofatica una teologia che si opponga all’antroporfismo (e questo è esattamente quanto invece Gamberini auspica in nome del post-teismo); ritiene che la filosofia stessa (essendo primariamente umana) comporti un’”umanizzazione” di Dio stesso; pensa che il classico concetto di creazione divina sia stato insufficiente proprio perché cosmogonico (ossia intellettualista nella sua ingenuità) e non antropogonico (il che significa che la causa dell’ingenuità è l’intellettualismo e non l’antropomorfismo); a causa dell’intima relazione esistente per lui tra persona umano-divina, spirito ed essere, deve susistere necessariamente un Dio-Persona e peraltro in tutta la sua piena onticità; infine (nel contesto dell’umano-divinità) ritiene l’esperienza religiosa come intima relazione con Dio che è “uomo a uomo”.
In ogni caso proprio questa sua insistenza sulla dimensione umana lo porta anche ad affermare in modo forte e concreto la realtà del Dio-Persona. Infatti sostiene che la filosofia, essendo personale (e quindi anche personalista) può e deve stare in relazione solo con un Dio-Persona. E siccome esattamente questo è il Dio presentato nella Rivelazione, la filosofia (che a suo avviso è naturalmente religiosa, condividendo con la Religione la primaria “domanda metafisica”) per lui deve stare necessariamente in relazione con quest’ultima esattamente così com’è per vari motivi: − perchè essa (non essendo affatto pensiero) coglie l’essere stesso, perchè essa coglie per definizione il mistero dell’essere, perché essendo esso stesso universo (microcosmo), l’uomo sta in naturale relazione con il microcosmo.
Egli però nega totalmente alla teologia il compito e diritto di porsi in relazione con la Rivelazione allo stesso modo pensante della filosofia. Perché, così facendo, può solo deformarne i contenuti invece di limitarsi a presentarli. E questo è esattamente quanto accade nel post-teismo.
In ogni caso per lui la Rivelazione assumerà una pienezza storia nell’era dello Spirito (susseguita a quelle antecedenti del Padre e del Figlio) manifestando proprio in tal modo anche la pienezza dell’umano-divinità.
Particolarmente importante è l’accento posto da Berdjaev su una presenza davvero reale e concreta di Dio nel mondo. La fede in tale presenza è secondo lui un tratto tipico del Cristianesimo (così che in sua assenza resta solo l’agnosticismo). Essa di certo si manifesta attraverso la creatività umana, ma alla fine quest’ultima poggia sull’umano-divinità e quindi sull’Incarnazione. Quindi l’uomo impersona esplicitamente e consapevolmente Dio nella sua creatività. E questo non è affatto sostituzione ma è invece diretta manifestazione di Dio proprio perché uomo e Dio sono per lui la stessa identica cosa. Proprio per questo per lui Dio è insieme trascendente e immanente.
Infine c’è da dire che la da lui concepita perfetta identità esistente tra uomo e Dio annulla in partenza tutte le obiezioni (anti-teistiche ed ateistiche) sollevate contro l’esistenza di Dio a causa del male del mondo.
7Da questa base siamo partiti per poi arrivare a trattare della ricerca scientifico-religiosa. E nel contesto di quest’ultima sono emerse le teorie più varie, la maggior parte delle quali non poco astruse, include quelle teiste.
Intanto (nella sezione di questo paragrafo che abbiamo dedicato al panenteismo) abbiamo visto con Bilimoria che le idee e relative entità metafisiche possono restare esattamente come sono (senza alcuna necessità di venire rivedute e corrette) se vengono trattate sul piano della metafisica invece di venire ricondotte alla logica-filosofica ed all’approccio scientifico-empirico.
Tra le questioni emerse in questa sezione abbiamo visto comunque tutto il possibile.
Nel campo anti-teistico ed ateistico abbiamo visto: − la radicale messa in discussione della realtà metafisica della persona umana (Chastain, Schnädelbach, Dworkin, Nagel), con la conseguente negazione di una persona divina e quindi l’abolizione di una vera Religione; la trasformazione della Religione in uno spiritualismo del tutto a-religioso oppure in curiose religioni naturali senza Dio (Breul, Dealeay, Schnädelbach), con la conseguenza della netta negazione di ogni teismo; una teologia addirittura neo-tomista ma scettica che nega la presenza divina nel mondo attraverso il rigetto dell’”intelligent design”; un anti-teismo puramente gnoseologico e neo-cartesiano (Platzer) che ritiene Dio non esistenza ma solo verità, o meglio Principio di verità ma esso stesso sottomesso alla trascendenza del “vero” (e quindi della logica); un anti-teismo incentrato sull’idea buddhista di Dio come Nulla, e che quindi costituisce una davvero astrusa teologia, ossia l’”A/teologia”. Abbiamo anche visto che spesso gli argomenti logico-critici anti-teistici sono basati su meri velenosi pretesti per iniziare una del tutto infondatamente polemiche infamanti Dio.
La tesi più equilibrata in questo ambito è risultata comunque essere quella di Cockayne (a sua volta rifacentesi ad Henry James) secondo la quale sua teismo (fede) che ateismo si basano unicamente sulla volontà e sulla decisione e quindi non possono essere in alcun modo epistemologicamente fondati.
Sul piano pro-teistico abbiamo visto la convergenza con Berdjaev da parte di diversi autori (Dealey, Wierenga, Feinberg) sul tema del rispetto da parte di Dio della libertà umana.
In generale è emerso comunque in questa sezione l’importanza del dubbio per la fede – cosa sulla quale sono d’accordo sia teisti che anti-teisti (Schnädelbach, Nagel, Cockayne). Ed allora, se a questo punto teniamo conto di tutto ciò che Pascal aveva detto già nel XVII secolo, appare evidente che non ci sarebbe stato alcun bisogno di mettere su un apparato di pensiero così pesante come quello che difende teismo, anti-teismo ed ateismo ed alla fine addirittura si organizza in un nuovo paradigma religioso detto “post-teismo”. In Pascal era stata infatti detto tutto ciò che era necessario a tale proposito, e quindi il suo pensiero comprendeva già tutte le prese di posizione qui discusse.
Queste ultime costatazioni ci mostrano quindi che la querelle tra teismo e anti-teismo non è affatto oggettivamente giustificata ed è pertanto unicamente surrettizia, ossia puramente ideologica. Essa è stata dunque voluta e sicuramente per scopi che ci sfuggono. La cosa grave è che però la stessa teologia cristiana (insieme alla Chiesa che la nutre e la sostiene) si è fatta complice si questo progetto tanto scellerato quanto occulto. Deve trattarsi insomma dello spirito anti-cristico che Berdjaev riconosce in tutte le forze storiche che si oppongono alla fede cristiana [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., VI p. 101-116, VIII p. 147-160].

I motivi per ricollegare Edith Stein allo Spiritualismo sono davvero molti. Innanzitutto esso stesso emerge in vari modi nel di lei pensiero. Infatti già dalla lettura delle sue prime opere la sua forte insistenza sulla natura spirituale dell’anima, ed anche dello stesso Io, ci suggerisce che la sua intera visione dell’interiorità umana sia stata sempre dominata dalla primarietà dell’elemento spirituale, e peraltro prima ancora che interferisse in questo in maniera significativa la fede cristiana [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, IIA, 6 p. 169-170, IIB, 1-7 p. 171-196, III, 1 p. 197-206; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 3, 1-4 p. 72-92, II, 1, 2-3 p. 173-216; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23 p. 237-386; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9-11 p. 360-396]. Abbiamo sostenuto questo in alcune nostre passate ricerche, non senza sottolineare che questo tendenziale e già precoce spiritualismo riduce sensibilmente la portata della natura fenomenologico-husserliana del pensiero steiniano, presentandosi quindi come un suo tratto caratteriale ben più di quest’ultima [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima, in: Prospettiva Persona, 95-96 (Gennaio-Giugno), 2016 p. 92-95; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170]. In questa sede avevamo supposto che questo suo spiritualismo fosse di natura platonica. Abbiamo poi sostenuto questo in maniera ancora più sistematica in un saggio (ancora non pubblicato, ma presentato nel nostro blog) che abbiamo dedicato alla natura neoplatonica del pensiero da lei sviluppato nell’ultima fase mistica della sua opera [Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/%5D ed inoltre anche nel nostro tentativo di accostare il suo pensiero a quello di Eckhart [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >]. Tuttavia, però, poco a poco abbiamo dovuto ammettere che questi nostri argomenti erano troppo estremistici per vari motivi.
Il primo motivo è che la stessa Fenomenologia di Husserl era più o meno impregnata di uno Spiritualismo che era sempre stato presente già da Cartesio in poi e si era notevolmente accentuato dopo l’Idealismo tedesco (contenendo peraltro anche alcune tracce di platonismo, sebbene però ridotto a sola teoria della conoscenza). E ciò in Husserl si tradusse in una chiara postulazione dell’Io puro quale “spirituale”, così come anche l’atto intellettuale stesso – di fatto venne da lui considerato spirituale l’Io rivolto (auto-conoscitivamente) verso sé stesso, ossi verso il flusso di vissuti che lo costituisce [Edmund Husserl, Idee per una Fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541]. Il secondo motivo è che il platonismo steiniano esiste in maniera solo molto tendenziale, e cioè né esplicita né voluta. Per cui, se − com’è molto probabile [Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 1 p. 78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 p. 149-155, II, I, V, I p. 174-183; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014 I, III p. 77-87; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236 (p. 219-225; Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017] − a Platone è attribuibile uno Spiritualismo, non è affatto detto che sia stato proprio questo quello professato da Stein. Anzi (ed ecco il terzo motivo) lo Spiritualismo platonico ha sempre avuto i caratteri di un «onto-spiritualismo», ossia di una visione (trascendentista, dualista e molto prossima alla Gnosi) secondo la quale l’unica e vera realtà (quella radicalmente trascendente) è quella spirituale, e lo è in forte conflitto con tutto ciò che è immanente, ossia mondo, materia e corpo [Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255]. Inoltre, propria a causa di queste sue caratteristiche, lo Spiritualismo platonico è stato sempre fortemente imparentato con quello Spiritualismo delle metafisiche religiose orientali che in alcune nostre ricerche abbiamo indicato come «idealismo vedantico» [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164; Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78]. Va però anche detto che tale Spiritualismo si lascia fortemente appaiare anche a quello che poi indicheremo come Spiritualismo pneumatico. Infatti esso ha voluto vedere lo Spirito stesso soprattutto come essenza profonda ed occulta di tutte le cose mondane − “jīvātman” (nucleo essenziale della cosa), parola o “udgïta” (vibrazione acustica profonda e centrale), “prāna” (essenza della funzione sensoriale), “etere”, o “iod” o “ākāśa” (essenza dell’anima incarnata, o cuore, equivalente a sua volta all’evangelico “granello di senape”) [René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, 57 p. 300-304, 69-75 p. 355-396; Chāndogya Upaniṣad, in: Raphael (a cura di), Upaniṣad, Bompiani, Milano 2010, I, I, 1-10, p. 293-295; Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, ibd., IV, IV, 1-3, p. 191-192; Māṇdūkya Upaniṣad, ibd., III, 3, 1-48, p. 1059-1073]. Inoltre questo pensiero ha inteso lo Spirito divino trascendente esattamente come un Pneuma (“vāyu”, o “soffio” o ancora semplicemente “aria”), ossia come una sostanza aerea, mobile, onticamente inconsistente ed inafferrabile, ossia come un vento o meglio ancora come l’aria stessa [Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, in: Raphael, Upaniṣad…cit., III, VII, 1-23 p. 130-137; Chāndogya Upaniṣad, ibd., IV, III, 1-8 p. 418-421; René Guénon, Simboli…cit., 42 p 234-237; René Guénon, L’uomo ed il suo divenire secondo il Vêdanta, Adelphi, Milano 1982, 5 p. 49-52, 8-9 p. 63-72, 18 p. 117-121, 21 p. 135-145]. E peraltro viene anche riconosciuta la sua presenza non solo nel mondo ma perfino entro le funzioni del corpo e dell’anima umani. In Platone potremmo riconoscere qualcosa del genere nell’intendimento dello Spirito come “eros”, ossia come forza ascensiva che eleva materia e corpo verso il mondo trascendente dell’essenze ideali divine [Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136; Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77, II, II, 20 p. 738-749].
Ecco quindi che emerge uno Spiritualismo antico (di tipo prevalentemente orientale, ma anche occidentale) che è caratterizzato da un versante «onto-spiritualista» e da un versante «penumatico». Ma questi due aspetti appaiono piuttosto contraddittori tra loro; dato che il primo pone lo Spirito come solida realtà ontica (sebbene trascendente ed immateriale, ossia ideale) ed il secondo invece lo pone appena come essenza estremamente sottile della realtà, e cioè di fatto come una non-realtà; ossia come una sorta di vuoto pregno di energia (molto prossimo al Nulla) che starebbe nelle profondità abissali di ogni cosa. E ciò corrisponde poi abbastanza bene al simbolismo universale del “cuore” quale autentico centro dell’uomo ed anche del cosmo – è insomma un centro in cui tutto converge, ossia una sorta di centro dei centri.
La contraddizione tra i due intendimenti di Spirito forse però cessa se consideriamo che il primo si interroga sul «dove» si trovi la realtà più autentica in quanto spirituale (se a livello trascendente-ideale oppure immanente-mondana e reale), mentre il secondo si interroga sul «come» è internamente ed ultimamente costituita la realtà spirituale.
Tuttavia sta di fatto che questo genere di Spiritualismo non è mai appartenuto alla tradizione del pensiero moderno (prevalentemente occidentale), il quale più che altro si limitava a identificare lo Spirito con la Ragione umana e anche divina, oltre che con l’Intelletto ed in generale, con l’interiorità e con la coscienza. Quest’ultimo è quindi semmai un «onto-intellettualismo» (secondo il quale il vero essere è quello interiore) ma ancor più precisamente si è sempre trattato di un idealismo fortemente gnoseologistico – entro il quale la questione prevalente era quella della conoscenza («teoria della conoscenza», o Erkenntnistheorie) e non certo invece l’essere o la realtà. Esso insomma non si preoccupava affatto né del luogo (ideale o reale) dove risiedeva la più autentica e piena realtà, né della possibile costituzione metafisica più intima, e cioè spirituale (ossia immateriale) della realtà stessa. Entro questa visione, quindi, lo Spirito viene invocato solo a fini conoscitivi.
Ebbene molto probabilmente proprio questo è stato lo Spiritualismo al quale si è costantemente rifatta Stein. Infatti mediamente è proprio questo che ritroviamo nel suo pensiero. Eppure però vi sono comunque piuttosto sorprendenti suggestioni che lasciano pensare ad una sua sottostante visione ben più ampia e profonda dello Spiritualismo. Se ne può avere il sentore sia esaminando le idee che ella ebbe in comune con Gerda Walther – la quale professò uno Spiritualismo davvero estremo che addirittura sconfinava nello spiritismo [Vincenzo Nuzzo, “La filosofia religiosa di Gerda Walther e di Edith Stein”, Prospettiva Persona, 103, 2018, 49-52]−, sia esaminando le idee che ella condivise con Hedwig Conrad-Martius – dalla quale attinse il materiale di quei “Metaphysische Gespräche” che furono di così decisiva importanza nella sua opera [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018; Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < Vincenzo Nuzzo, L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein. | cielo e terra (wordpress.com)>] –, sia infine tenendo conto anche delle possibili assonanze giudaico-esoteriche della sua complessiva visione metafisico-religiosa e soprattutto della concezione dell’anima spirituale [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95]. Ma l’argomento più convincente per sospettare in lei questo genere di Spiritualismo è certamente quello delle sue stesse argomentazioni, riflessioni e menzioni di elementi metafisici di tipo spiritualista.
Entro i suoi testi vi sono sostanzialmente due luoghi dottrinari che giustificano questo. Il primo luogo dottrinario compare nel testo “Der Aufbau der menschlichen Person” (AMP), e consiste nella sua decisa scelta del significato di “spiritus” per concepire ciò che è Spirito, in radicale alternativa con gli altri significati rappresentati da “mens”, “intellectus” e “ratio” [Edith Stein, Der Aufbau …cit., V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129]. Laddove ella chiarisce che lo Spirito in quanto “spiritus“ non è altro che il “Pneuma“ divino della tradizione cristiana ed anche il “Ruah“ della tradizione ebraica (equivalente pienamente al “vāyu“ in quanto “soffio“ o “alito“); elementi che compaiono entrambi nel Genesi per indicare lo Spirito divino come quel sottilissimo e mobilissimo elemento aereo che ha il potere di andare «dove vuole». E come vediamo qui ella fuoriesce molto decisamente dal moderno Spiritualismo filosofico-gnoseologista ed «onto-intellettualista».
Il secondo luogo dottrinario compare verso la fine della seconda parte del suo “Endliches und ewiges Sein” (EES) e consiste nel concetto paolino di “Soma pneumatikon”, ossia di fatto la corporalità spirituale [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9 p. 387-389]. Orbene rispetto a tutto ciò diviene di nuovo estremamente prossima la riflessione esoterico-religiosa giudaica, dato che Stein stessa non esitò a menzionare il termine ebraico per il Pneuma, e cioè “Ruah”. Termine e concetto che si ritrova poi sia nella riflessione ebraica più ortodossa, come in quella di Maimonide [Mosè Maimonide, Il libro dei perplessi, UTET, Torino 2009, II,XXX, 244,20-252,15 p. 431-443], sia in quella più eterodossa di natura cabbalistica [James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, 72-86 p. 99-100]. Ma oltre a ciò in particolare il concetto di “Soma pneumatikon” ci approssima in modo straordinario alle caratteristiche dello Spirito pneumatico che poi illustreremo più iin dettaglio grazie a Guardini.
Insomma al cospetto di tutti questi elementi si potrebbe ben pensare che Stein abbia professato una sorta di secondo Spiritualismo (incentrato soprattutto nelle realtà spirituali superiori, o “spiriti puri”, ed inoltre nello Spirito visto soprattutto come Vita divina, e peraltro nel suo significato chiaramente pneumatico).
Eppure questa visione spiritualista ha sempre giocato un ruolo soltanto di secondo piano nel suo complessivo pensiero. Il che è davvero sorprendente, come poi vedremo più approfonditamente nelle conclusioni.
In ogni caso (sia in generale sia rispetto al pensiero steiniano) le cose divengono piuttosto chiare solo quando ci si confronta con il moderno Spiritualismo che è strettamente intrecciato a quel Personalismo del quale Stein è stata senz’altro una dei principali esponenti. È insomma quello che abbiamo constatato nel riflettere sul materiale che ha dato vita al nostro recente saggio sullo Spiritualismo. Questo saggio non è stato pubblicato ma ne abbiamo presentato un’ampia sintesi nel nostro blog [Vincenzo Nuzzo, “Riassunto del saggio dell’autore dal titolo ‘Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo’”. In: Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”. | cielo e terra (wordpress.com)]. Qui ci si confronta infatti con uno Spiritualismo moderno che ha senz’altro molti volti, ma certamente non coincide né con l’«onto-spiritualismo» platonico-gnostico e vedantico né con quel generico Spiritualismo (che si approssima addirittura ad un certo spiritismo) per il fatto di concepire una serie di entità spirituali sovrannaturali delle quali gli “spiriti puri” angelici rappresentano certamente il livello più alto. Anche questo è una sorta di Spiritualismo, e peraltro Stein stessa se ne occupò sia nelle riflessioni che ebbe in comune con Conrad-Martius sia anche nelle sue ponderose traduzioni dei testi di Tommaso di Aquino [Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 1. Übersetzung III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008 II p. 43-98, IV p. 118-134, VIII p. 191-242, X p. 259-306; Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 2. Übersetzung III, ESGA 24, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, XXII p. 568-612]. Tuttavia questo Spiritualismo si pone molto poco la questione di cosa sia lo Spirito (in assoluto ed oggettivamente), e quindi appena si limita a prendere atto del fatto che nell’universo esistono delle entità spirituali. In ogni caso va detto che comunque Stein si servì non poco di questa dottrina nel sostenere che la persona umana è anch’esse spirito in maniera molto simile a queste entità (specie agli spiriti angelici) [Edith Stein, Excursus sull’idealismo trascendentale, in: Edith Stein, Potenza… cit., g, p. 367-369; Edith Stein, Potenza… cit., p. 387-389; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9-11 p. 360-396]. Quello che è certo è che questo complessivo Spiritualismo fu dottrinariamente molto estremo come invece quello personalista non fu affatto (a parte forse in Guardini). Va tuttavia anche precisato che lo Spiritualismo legato intimamente al Personalismo non si negò ad un unico elemento dello Spiritualismo più estremo, e cioè all’identificazione (spesso strettissima) tra Dio e Spirito. E questo senz’altro accadde anche in Stein.

Ebbene nello scenario di questo Spiritualismo personalista domina senz’altro la visione di Nikolaj Berdjaev.
Secondo il quale al Dio in quanto Essere ed in quanto Spirito corrisponde perfettamente l’uomo in quanto persona ed anche quale entità sostanzialmente spirituale; dunque per lui il Dio-Spirito equivale all’Essere nella sua più radicale originarietà. Il suo è senz’altro (almeno in questo senso) lo Spiritualismo più estremista che ritroviamo in tale contesto di pensiero. Lo è però in quanto (almeno in una certa misura) è «onto-spiritualista», dato che identifica il Dio-Spirito con l’Essere stesso. Vi è però (come vedremo) anche un altro Spiritualismo estremista nel contesto del pensiero personalista, ed è quello di Romano Guardini.
Il quale sostiene invece che il Dio-Spirito è l’esatto contrario dell’Essere, cioè è il Pneuma.
Nell’universo personalista vi sono però anche spiritualismi ben più moderati.
Ebbene esamineremo in questo articolo in maniera sistematica tutte queste visioni spiritualiste per mezzo di un’analisi testuale che costantemente terrà presente lo Spiritualismo steiniano come primario termine di confronto. Per una trattazione completa dell’intero panorama di pensiero qui implicato rimandiamo ovviamente al nostro saggio, dato che comunque in questo articolo considereremo solo alcuni pensatori personalisti. In particolare prenderemo in considerazione Berdjaev, Guardini, Maine de Biran e Mounier. Siamo consapevoli che lo scenario dello Spiritualismo non può essere affatto esaurito nel trattare questi autori; e tuttavia, data l’importanza decisiva (già giustificata) che ha lo Spiritualismo personalista, ci sembra che per il momento sia sufficiente questo. Per esempio va fatto notare che in questa nostra indagine c’è un grande assente, e cioè Blondel, ossia il massimo teorico dell’intendimento azionistico dello Spirito. Ed un altro grande assente in questa trattazione sarà anche Bergson (senz’altro esponente di uno Spiritualismo estremamente moderno e quindi vitalistico-materialistico). Ebbene, il motivo di tale assenza è semplicemente il fatto che non abbiamo letto un numero sufficiente di testi di questi autori. Intanto, comunque, è nostra norma trattare solo degli autori dei quali abbiamo letto e meditato i testi in modo ampio e profondo. Comunque vedremo delinearsi la presenza di questi pensatori entro la discussione del pensiero di Mounier.
Nel corso della nostra trattazione accenneremo soltanto molto brevemente alla possibile portata spiritualistica della visione metafisico-religiosa di Eckhart (ma senza poterci in alcun modo approfondire nella sua discussione). Per la precisione va detto però che egli concepì soprattutto un fortissimo «onto-intellettualismo», secondo il quale il Dio-Spirito è in primo luogo una suprema sostanza intellettuale (e tuttavia una sostanza assolutamente non ontica, e quindi molto prossima al concetto di Spirito pneumatico). Non a caso il suo Dio-Intelletto è decisamente apofatico. Ovviamente, a causa di tutto ciò, questo «onto-intellettualismo» non può coincidere in alcun modo a quello che abbiamo riconosciuto nel convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico.
Aggiungeremo comunque (con Steinhart) anche una del tutto moderna riflessione sullo Spirito in modo da poter comprendere alla fine in che modo questa lunghissima tradizione di pensiero si sia tradotta oggi in una riflessione sostanzialmente riduzionistica e di vedute anche estremamente ristrette
In ogni caso va detto in partenza che lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più moderato, pragmatico e meno estremista. Ma comunque esso ha un’estrema importanza storica dato che il pensatore francese dedicò tutte le sue energie a quella rivista “Esprít” nella quale di fatto lo Spiritualismo moderno trovò la sede privilegiata della sua esposizione (dato che alla rivista presero parti attiva pensatori insieme personalisti e spiritualisti, come in particolare Lavelle e Le Senne).
E con ciò risulta chiaro che nel corso della nostra investigazione vedremo chiaramente che la concezione dello Spirito si allontana gradualmente dalla più radicale Trascendenza e contro-razionalità per divenire sempre più immanentistica e razionalista. Anzi forse possiamo considerare Berdjaev e Guardini come ricadenti in una sorta prima parte (o primo versante) della concezione dello Spirito, ed invece Maine de Biran e Mounier come ricadenti decisamente nella sua seconda parte (o secondo versante). Steinhart si pone poi decisamente fuori di entrambe le parti del moderno Spiritualismo.
In conclusione va da sé che qui stiamo trattando unicamente di uno Spiritualismo moderno assolutamente non convenzionale, dato che esso molto spesso si sovrappone (fino a cancellarla) a quella visione solo vagamente e tiepidamente spiritualista che intanto (senza assumere alcuna forma personalista) aveva vissuto e prosperato entro il pensiero moderno (da Cartesio in poi).
E veniamo quindi all’analisi testuale dei vari autori

I- Nikolaj Berdjaev
Lo Spiritualismo di questo autore si lascia riconoscere ed analizzare per mezzo di tre tra le sue opere: −
“Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO), “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (SC)
In generale Berdjaev sostiene che l’Io è spirito nella misura in cui è persona. Il che significa che è trascendente non solo rispetto al mondo, ma in particolare rispetto a quell’irreale mondo che si costituisce per via filosofico-gnoseologica specie per mezzo di quel ricorso all’universale (come norma assoluta) che obiettiva qualunque realtà ideale (rendendola così solo apparente mondana e quindi esistente) al solo scopo di renderla rigorosamente conoscibile. In altre parole l’obiettivazione in nome dell’universale ricostituisce un mondo di soli oggetti conoscibili, e non invece il reale mondo degli esistenti.
Ma intanto per lui l’Io in quanto persona non può sottomettersi a questa dimensione oggettivo-oggettuale senza perdere la propria natura spirituale. Dato che, se ciò accade, esso risulterà separata invalicabilmente dagli oggetti (conosciuti e conoscibili, ossia intelligibili) con la conseguenza principale di perdere la sua possibilità di comunicazione con le entità spirituali che le sono affini, ossia gli altri Io in quanto persone. Oltre a ciò l’Io in quanto persona perderà in tal modo uno dei suoi caratteri ontici primari, e cioè quella sua trascendenza rispetto al mondo che fa di esso qualcosa di radicalmente diverso da una cosa. Trascendenza che poi risale addirittura all’equivalenza assoluta che esiste tra persona umana ed essere in quanto creativo, e quindi radicalmente originario.
Ecco allora che lo Spiritualismo di Berdjaev si lascia in tale complesso comprendere in primo luogo nei termini della trascendenza dell’Io personale-spirituale rispetto a qualunque oggettività-oggettualità mondana. Orbene (come abbiamo già detto) l’equivalenza da lui istituita tra persona, essere e spirito (in particolare divino) fa sì che qui si possa ritrovare una certa dose di «onto-spiritualismo» − specie nel senso che lo spirito personale equivale all’essere per eccellenza. Tuttavia Berdjaev non scade però mai da questa convinzione nel tipico dualismo trascendentista (di stampo platonico) che caratterizza il vero «onto-spiritualismo», secondo l’idea che l’unica realtà sarebbe quella trascendente ossia essenziale-ideale.
Anzi al contrario egli si esprime decisamente contro qualunque dualismo spirito-carne, ed in questo è decisamente anti-platonico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43].
Naturalmente comunque risulta evidente che egli è totalmente avverso ad uno Spiritualismo in qualunque modo e misura assimilabile all’intellettualismo gnoseologistico. Egli infatti non concede alcun potere né alcun diritto all’universale come istanza dirimente di obiettivazione delle entità astratto-ideali, anzi si oppone radicalmente a questa visione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-122, III, 2 p. 143-147, III, 3 p. 148-162, V, 2-3 p. 221-249; Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI-XII p. 323-349]. In particolare egli rimprovera all’universalismo gnoseologistico l’impossibilità che da esso possa scaturire una vera e propria “comunione spirituale” tra persone a loro volta spirituali, ossia una società autentica ed intesa secondo il lemma primario dell’amore unitivo (e peraltro autenticamente cristiana). Insomma per lui la prospettiva unicamente gnoseologistica (che è introdotta dal ricorso all’universale) impedisce quella dimensione comunitario-spirituale della società che prevede per davvero una relazione tra “io” e “tu”, ed inoltre rende impossibile qualunque individualismo egocentrista.
E tutto questo quindi pone il suo Spiritualismo decisamente in conflitto con quello steiniano, entro il quale per varie vie la dimensione spirituale coincide invece esattamente con quella intellettualistico-gnoseologistica – essa si incentra soprattutto nell’atto sostanzialmente intellettuale (sebbene dalla valenza vagamente spirituale) per mezzo del quale l’Io rivolto a sé stesso (cioè ai propri vissuti) assume il pieno possesso di sé stesso [Edith Stein, Der Aufbau… cit., VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza… cit., V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches… cit., V, 5, 1 p. 239-241 ,VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2-4 p. 362-374]. E va detto che questo approccio finì per permanere anche laddove la sua riflessione investì dimensioni decisamente metafisico-religiose, teologiche (ed in parte ultra-filosofiche) come quelle relative all’«Io sono» biblico, al Logos cristico ed alla dinamica trinitarie. Si tratta insomma di quella seconda parte di EES entro la quale ella di fatto si stava apprestando a passare alla filosofia alla mistica. In altre parole il suo Spiritualismo non riuscì mai a liberarsi dell’ipoteca filosofico-gnoseologistica (il cui interesse primario era la teoria della conoscenza) che la Fenomenologia husserliana aveva gettato sul suo pensiero.
Ma vediamo se in Berdjaev a livello testuale esistono ulteriori elementi che siano a supporto di queste nostre affermazioni e permettano anche di allargarle.
Iniziamo da DIWO. Un aspetto particolare delle sue riflessioni al proposito è quello che riguarda la società in quanto “comunione spirituale” e quindi comunione di persone [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. Qui egli chiarisce infatti che il tendere verso la comunione implica l’uscita da sé stesso dell’Io (apertura) per andare verso l’altro, per cui alla fine ciò comporta l’unione perfetta tra le persone spirituali. Ma ciò avviene puramente sul piano dell’esistenza e non invece della gnoseologia, quindi è totalmente indipendente dal rapporto tra universale e particolare. Peraltro in SC Berdjaev chiarisce che in una comunità di vere persone (com’è quella che dovrebbe insorgere in una società cristiana), ossia una vera comunione spirituale, tutto ciò che è universale è anche cosmico, e quindi non prevede alcuna separazione di oggettualità in forza dell’universale, ma invece solo una perfetta unione che corrisponde alla Totalità dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 323-326]. In ogni caso tutto ciò parte solo dall’interiore, non avendo invece nulla a che fare con la dimensione esteriore della società, cioè scaturisce solo da quel «dentro» umano dove c’è Dio. Quindi la comunione non insorge affatto senza la presenza simultanea di Dio.
Più precisamente essa si compie a partire dallo spirito, e precisamente dallo Spirito divino. E con ciò avviene una vera e propria unione degli opposti. E quest’ultima non è altro se non quella dimensione ontica (la “coincidentia oppositorum”) che Nicola Cusano aveva inteso come raggiungimento di un altissimo livello sia conoscitivo che ontologico, dato che esso sta ormai ben aldilà della logica così come anche ben aldilà di qualunque separazione naturale tra individualità cosali e personali; ossia si trova di fatto ben oltre il principio logico di contraddizione [Nicola Cusano, La dotta ignoranza, Fabbri, Milano 1996, I, X p. 73-75].
Quindi per Berdjaev la vera dimensione sociale è solo religiosa e per nulla invece conoscitiva (non è insomma affatto una comunità del sapere). E ciò sottolinea la perfetta equivalenza tra persona umana e spirito divino, ossia l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ciò significa allora che il suo Spiritualismo è decisamente religioso in quanto si incentra su questo fondamentale elemento.
Su questa base appare evidente che egli identifica lo Spirito con il soggetto personale (umano o divino che sia). Il che lo porta poi a contestare qualunque idea di “spirito oggettivo” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Ma sta di fatto che Stein (insieme ad Husserl e senz’altro sulla scorta di Hegel) concepì fortemente lo spirito in questo modo [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4 p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127; Edith Stein, Psicologia…cit., II, I, 2 p. 182-184; Edith Stein, Potenza…cit., II, 1-3 p. 72-90]. In particolare però Berdjaev si astiene da qualunque affermazione dell’astrazione dello spirito soggettivo, ed infatti sottolinea qui la carnalità e concretezza dello spirito personale. Questo significa allora che il suo Spiritualismo non si nega affatto all’ammissione dello spirito oggettivo allo scopo di affermare la trascendenza dello Spirito in termini astratti. E quindi esso non è assolutamente trascendentista in questo senso. Anzi si pone come intendimento decisamente concreto dello Spirito; sebbene però nel contesto di un intendimento senz’altro interiore e non esteriore dello Spirito stesso.
Per contro egli deplora il soggettivismo sicuramente deteriore (corrispondente all’individualismo che sicuramente per lui deriva dall’Idealismo). Infatti precisa che esso insorge quando l’universale viene contrapposto al particolare-individuale nel contesto di quell’oggettivazione della quale abbiamo già parlato. Essa consiste in particolare nel trasformare in oggetto ciò che invece non lo è affatto, ossia quell’Io che è appunto spirito.
E questo sottolinea quindi che il suo Spiritualismo non solo è religioso, ma intanto non manca di affiancarsi esso stesso non poco al tradizionale Spiritualismo del pensiero moderno, secondo il quale l’interiore umano è spirituale. Tuttavia non lo fa fino al punto da considerare l’universale (di significato gnoseologistico) come la dimensione alla quale l’interiore umano debba sottomettersi per poter essere spirito. E questo previene decisamente il configurarsi di uno Spirito oggettivo in quanto esteriore, e cioè di fatto quell’edificio della Cultura umana che Husserl e Stein intesero come la forma più tangibile e concreta dello Spirito stesso. Laddove poi la Cultura umana corrisponde all’universale stesso una volta obiettivato in forma di conoscenza. Si tratta infatti in primo luogo della veridicità inter-soggettiva del conoscere, e quindi della sua affidabilità scientifica.
Dunque per Berdjaev in via di principio lo spirito resta sempre solo il soggetto stesso, e tuttavia lo è in modo radicalmente diverso da quanto previsto dalla gnoseologia. Perché lo Spirito per definizione è tutt’altro che un oggetto (a causa della propria trascendenza). Semmai invece l’oggettivo-oggettuale stesso riceve il suo senso unicamente nello Spirito, ossia entro la dimensione spirituale individuale e soggettiva e non invece universale-oggettiva. Ciò significa che l’Io è Spirito totalmente di per sé (in quanto interiore umano tout court) e non invece in forza della sua sottomissione ad un paradossale Io universale impersonale com’è l’Io puro di Husserl [Angela Ales Bello, L’universo nella coscienza, ETS Pisa 2003, 1, 2-4 p. 130-139] ed in parte anche di Stein. In altre parole l’Io è da considerare Spirito senza alcuna necessità che esso venga oggettivato in alcun modo e ed in alcuna misura. E quindi la sua conoscenza resta affidabile anche se essa resta puramente soggettiva, e quindi senza mai divenire oggettiva.
Fu esattamente questa convinzione che portò Berdjaev a considerare la filosofia un’opera unicamente soggettiva, e quindi basata pienamente sull’intuizione soggettuale senza sottomissione ad alcuna oggettualità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1-2 p. 11-48]. La filosofia infatti per lui tutto può essere tranne che scientifica. Proprio per questo essa prevede non solo un filosofo che in primo luogo sia un esistente-vivente e poi prevede anche necessariamente una filosofia dell’esistenza che sia insieme anche filosofia dell’essere. Ecco allora che lo Spiritualismo moderno non convenzionale in qualche modo (almeno in Berdjaev) si oppone decisamente all’intendimento della Filosofia come scientifica, per avvalorare invece la filosofia dell’esistenza e dell’essere.
Ma passiamo ora a SC.
Qui innanzitutto Berdjaev chiarisce che l’onticità dello Spirito consiste esattamente nell’illimitata creatività libera che caratterizza l’essere, e che si manifesta in una incessante generazione del nuovo che è poi continuo incremento dell’essere stesso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 182-185]. Il che poi, dal lato dell’agire della persona umana, corrisponde ad una volontà illimitatamente libera che equivale a sua volta alla creatività stessa. Ebbene, proprio a causa di tutte queste caratteristiche, la persona è spirito: dato che lo Spirito è esattamente l’essere nella sua creatività illimitata. Ci troviamo insomma nuovamente di fronte da una certa dose di «onto-spiritualismo». Ma solo non nel senso che la vera realtà sia quella spirituale-trascendente (peraltro fortemente statica) bensì nel senso che lo Spirito non è altro che l’essere nella sua illimitata creatività e quindi nel suo illimitato dinamismo. Il che fonda uno Spiritualismo che prende certamente l’essere originario a suo paradigma, ma non nel senso della stasi bensì nel senso dell’illimitato dinamismo.
In questa sede innanzitutto Berdjaev deplora che lo Spiritualismo possa basarsi su un radicale dualismo spirito-carne; il quale deve invece venire ammesso senza alcuna aspirazione a risolverlo né senza alcuna aspirazione a vederlo come un’opposizione inconciliabile [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Rrefazione, p. VII-IX (Adriano Dell’Asta); Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8]. Questa presunzione (apparsa secondo lui nel Cristianesimo sulla scorta dell’antico dualismo spirito-materia della metafisica greca, e che peraltro è sempre stato fortemente platonico) rende impossibile concepire quella carnalità, mondanità e concretezza dello Spirito che si manifesta nella persona umana. E pertanto fa dello Spiritualismo una dottrina metafisico-religiosa totalmente astratta che non ha poi alcuna utilità nella vita mondana, e quindi perde per questo qualunque interesse. Infatti (come poi vedremo nelle conclusioni) se lo Spiritualismo ha una sua validità (ed in tutte le sue forme, sia antiche che moderne), ciò accade solo perché esso diviene una dottrina utile alla prassi umana nel mondo.

Più precisamente (specie nella sua forma più religiosa) essa ci serve per tener continuamente presenti quelle fonti inesauribili dell’essere la cui disponibilità ci permette di non lasciarci schiacciare dalla spietata esteriorità mondana, dominata com’è da quelle Leggi della Natura che non hanno nulla di spirituale.
È esattamente in questo senso che si può (e secondo noi anche si deve) professare una fede cristiana che non abbandoni mai la certezza che lo Spirito ci soccorre continuamente nel nostro esistere; e specialmente nei suoi momenti più duri e difficili. Bisogna dire che oggi però questa non è affatto la fede cristiana che viene usualmente insegnata e praticata. Essa è invece semmai di segno diametralmente opposto, e quindi è decisamente anti-spiritualista, materialista ed immanentista (fino ad essere perfino decisamente atea).

A completamento di queste riflessioni Berdjaev però condanna decisamente quel monismo assoluto che egli vede rappresentato tipicamente in Plotino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43], ma che certamente (diremmo) si era manifestato molto prima nel famoso non-dualismo di Śankara – nel presupporre la totale interiorità dell’essere mondano all’Uno divino trascendente [Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì 2007, I, II, p. 138-162]. Infatti per il filosofo russo la persona, in quanto molteplicità (ed anche unità di per sé) è in decisa competizione con l’Uno assoluto neoplatonico (ed ovviamente anche śankariano). Egli condanna così il monismo platonico affermando la necessità assoluta del dualismo (spirito-carne) della persona. Ma afferma anche la necessità di un monismo che sia relativo in quanto compatibile con il dualismo nel contesto della postulazione della divinità del mondo (monismo divino).
Inoltre in questa sede Berdjaev distingue inoltre molto opportunamente lo Spiritualismo autenticamente filosofico-metafisico e metafisico-religioso da quello della moderna teosofia, che poi si appaia pure all’ancora più deteriore moderno spiritismo (ossia quello di dottrine arbitrarie, superstiziose ed anche pericolose come quella di Alain Kardec). Egli sottolinea infatti che lo Spirito è in primo luogo unità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-361]. Ma sta di fatto che la moderna teosofia (specie quella paradossalmente evoluzionistica di Rudolf Steiner) scompone l’unità dello spirito umano nella serie di gradi di una fantasiosa evoluzione planetaria, ed inoltre nega così l’esistere di un Uomo prototipico divino quale radice originaria della spiritualità umano-personale stessa, ossia quel Logos cristico (quale Umanità originaria) che è poi ciò che fonda la stessa umano-divinità. A ciò si associa poi lo spiritismo più volgare e superstizioso che abbiamo appena menzionato (quello, per intenderci, che ipotizza addirittura una Rivelazione cristiana che avvenga ad opera degli spiriti dei morti che si presentano ai medium) nel suo scomporre l’unità spirituale umana in una serie di realtà elementari, come ad esempio il corpo astrale.
A tutto ciò si aggiungono poi gli elementi desumibili dai suo commento alla visione di Dostoevskij (SC), il quale colse la natura dello Spirito in modo davvero originale ed estremamente intenso.
Lo scrittore russo vide infatti lo Spirito nella stessa profondità dell’uomo e precisamente nella forma di un abisso turbinoso ed infuocato (di natura decisamente dionisiaca) entro il quale tutto è davvero possibile nel contesto di una creatività libera davvero senza limiti [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., I, p. 8-25, I p. 32-35, I p. 40-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-81, V p. 85-93, VI p. 104-109, VIII p. 160-166]. Lo Spirito è dunque per davvero il luogo nel quale ha sede l’illimitata possibilità della trasfigurazione dell’essere. Il che significa che lo Spiritualismo più autentico deve tenere conto esattamente di questa dimensione come assolutamente fondamentale.
Fu su questa base che non a caso Dostoevskij intuì infallibilmente non solo la rivoluzione russa ma anche quella universale, che è poi rivoluzione dello spirito ed apocalittica, e quindi si verifica per definizione solo alla fine dei tempi, cioè nel momento in cui può avvenire la davvero totale trasfigurazione dell’essere.
Ciò significa allora che l’onto-spiritualità è fondamentalmente dinamismo creativo e nient’altro. E se esso non viene inteso in questo modo, allora è molto probabile che sia inautentico e spurio.
Tanto è vero che Dostoevskij intuì l’evento della Rivoluzione proprio nelle profondità non solo dello spirito umano ma anche dello spirito in assoluto. Non a caso (come abbiamo visto) Platone vide nello spirito esattamente la profondità nucleare e centrale dell’intero essere (vedi voce bibliografica: Friedländer), e quindi vide anche lui in esso quel nucleo dal quale procede qualunque totale trasfigurazione dell’essere.
Peraltro in SC Dostoevskij aveva chiarito che la vera rivoluzione (quella che davvero trasfigura l’essere) avviene solo nel profondo (ossia sul piano delle premesse dell’essere) e non sul piano dell’esteriorità superficiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339].
Ecco. Questo è quanto possiamo comprendere della concezione dello spirito secondo Berdjaev. Ne risulta chiaramente che dal suo punto di vista lo Spiritualismo va concepito senz’altro sul piano radicalmente ed oggettivamente ontico, ma anche in una perfetta coincidenza tra l’onticità spirituale umana e quella divina, che poi corrisponde all’essere stesso. Sicuramente si tratta con ciò di uno Spiritualismo molto estremo nel contesto del pensiero moderno, e peraltro in esso non si trova quasi alcuna traccia dei tratti del classico e connvenzionale Spiritualismo moderno (che peraltro si presenta anche nel Personalismo), e cioè soprattutto l’identificazione dello Spirito con la Ragione umana e divina e con l’interiorità egoica e mentale. È evidente che quindi che lo Spiritualismo di Berdjaev entra decisamente in conflitto con quello steiniano.

II- Romano Guardini
Qui ci riferiremo soprattutto al suo libro “Der Herr” (DH), mentre ulteriori sue riflessioni sullo Spirito si ritrovano anche in “Welt und Person” (WP) – dato che in questo testo egli tenta di giustificare la spiritualità che caratterizza la persona umana. Ma per questo rimandiamo al nostro saggio sul Personalismo.
L’idea guardiniana di Spirito può quindi venire soprattutto constatata laddove (in DH) egli ci parla dello Spirito divino, ossia del Logos cristico, ovvero Colui che egli ci mostra nella forma del Signore dell’Essere.
E questo rende ovviamente (almeno in via di principio e piuttosto superficialmente) il suo Spiritualismo abbastanza simile a quello di Stein. Vedremo però che nei fatti le cose non stanno affatto così.
Anche per lui, così come per Berdjaev, spirito umano e Spirito divino sono la stessa cosa in grazia del dono della somiglianza fatto da Dio all’uomo [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89, III, 4 p. 104-107]. Emerge però intanto un’importante distinzione entro lo Spiritualismo propriamente cristiano. Perché qui si sottolinea che la somiglianza uomo-Dio sussiste rispetto al Logos, e non invece rispetto all’Atto puro della classica metafisica teologica scolastico-tomista. Infatti in maniera molto simile ad Eckhart – il quale affermò che Dio non è un “filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 49-59; Meister Eckhart, Predica 5 (Q 22), ibd., p. 63-79] −, Guardini rifiutò ogni enticismo naturalista nella concezione di Dio, e quindi qualunque sua considerazione come “Ens commune” (per quanto assolutamente perfetto e compiuto in quanto totale coincidenza di potenza ed atto). Dio insomma per definizione non è in alcun modo un «qualcosa», e proprio su questo si basa la Sua profonda somiglianza con lo spirito umano in quanto persona. Con paradigma massimo in Dio, dunque, lo Spirito è l’esatto contrario dell’essere. Semmai invece (come anche in Berdjaev) è il dinamismo puro. E bisogna dire che questo dinamismo nella concezione di Dio corrisponde molto bene a quel “prospettivismo” con il quale Eckhart intese l’esistenza di Dio e la sua relazione con l’uomo e il mondo [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. E con questo termine va inteso un Assoluto divino che in primo luogo è incessante tensione amorosa verso l’uomo e il mondo, e che non a caso sfocia in un’assolutamente continua “nascita divina” nel cuore dell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Sturlese Loris, Meister Eckhart…cit.,, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Tutto questo significa allora che anche la complessiva visione di Eckhart andrebbe vista come parte integrante di uno Spiritualismo simile a quello di Guardini. Ma siccome non c’è qui assolutamente lo spazio per trattare del suo complessissimo pensiero, ci limiteremo a rinviare il lettore agli articoli che abbiamo dedicato ad esso ed al tema più generale dell’onto-dinamismo [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >; Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68].
Quindi questo genere di visione (diversamente da quella di Berdjaev) non può essere in alcun modo un «onto-spiritualismo». Siamo però qui in ambito religioso ed anche cristiano, e quindi dobbiamo trovarci di fronte ad una concezione molto specifica dello Spirito. E quella che più sembra appropriata ad essa è ka concezione dello Spirito come Pneuma, vento, aria, soffio, spirito che va dove vuole. Come abbiamo visto, a tale concezione cristiana corrispondono perfettamente il concetto ebraico di “Ruah” e quello vedico di “vāyu”. Si parla insomma qui di una sostanza aerea, sottile ed immateriale (ma intanto esistente) che non cessa mai di muoversi e soprattutto nel suo muoversi genera continuamente essere. Esso è dunque se mai la premessa dell’essere ma non l’essere stesso. E qui possiamo cogliere nuovamente il concetto berdjaeviano di essere in quanto realtà radicalmente originaria che non cessa mai di muoversi in un incremento costante di sé stesso che è anche trasfigurazione di tutto quanto si trova davanti.
Bisogna però a questo punto ammettere (come abbiamo già detto) che questo concetto di Spirito somiglia almeno ad una parte di quello che anche Stein affermò in maniera secondaria in diverse sue opere.
E questo genera una delicatissima questione critica che affronteremo nelle conclusioni.
In ogni caso per Guardini questo Spirito divino è esattamente il Paraclito, ossia lo spirito consolatore e quindi lo Spirito Santo vero e proprio [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, II, 9 p. 143-151]. Dunque è lo Spirito osservato da un punto di vista sostanzialmente teologico-religioso, ossia di fatto quello Spirito divino-amoroso che compare nell’esperienza religiosa cristiana (del quale parlavamo prima). Pertanto lo Spiritualismo pneumatico (fortemente impersonato intanto da Guardini) si caratterizza per essere appunto fortemente religioso-teologico. Le sue caratteristiche rientrano quindi necessariamente in una certa dogmatica, che a sua volta serve gli scopi di un determinato ritualismo e pietismo. Il che riduce senz’altro la portata metafisica dello Spirito stesso, irrigidendolo in determinati schemi, e peraltro schemi messi su per esigenze umano-terrene oltre che ecclesiali. Resta però sempre intorno ad esso un certo alone di indefinizione che permette di ricostruirne l’immagine completa di una realtà estremamente inafferrabile e misteriosa. E forse questa è l’immagine più appropriata dello Spirito che si possa trovare in metafisica.
Guardini stesso ci lascia intravvedere questo commentando il curioso «vai e vieni» di Gesù nei Vangeli, ossia il suo continuo apparire e sparire [Romano Guardini, Der Herr… cit., VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531]. Il che ci lascia intravvedere una delle caratteristiche principali dello Spirito pneumatico, ossia la sua assoluta a-località, oltre che a-temporalità. Cosa che poi ancora una volta sottolinea la sua realtà assolutamente non ontica, o almeno iper-ontica. Infatti Guardini sottolinea che il corpo (pur integralmente carneo-materiale) di Gesù non è mai stato sottomesso alla condizione mondano-terrena della spazio-temporalità.
Ma proprio qui emerge il punto cruciale di questa concezione dello Spirito. Perché pur possedendo le chiare caratteristiche dello Spirito penumatico, Gesù non solo fu corpo ma inoltre risorse esattamente come corpo. Ecco allora che il Corpo Risorto di Cristo rivela la natura corporale che è insita nello Spirito pneumatico (nonostante la sua non sottomissione alla spazio-temporalità), che appunto emerge in maniera piena dopo un evento (come la Resurrezione) che lo svincola decisamente e definitivamente dalla mondanità terrena, permettendo così ad esso di essere pienamente ciò che latentementeera sempre stato. E cosa sia questo ce lo dice chiaramente Guardini stesso – è corporalità spirituale (o anche, viceversa, spiritualità corporea), e come tale essa è radicalmente diversa da quella del “corpo animale” (“Tierkörper”). Ma proprio per questo si tratta della massima pienezza della spiritualità.
Ecco allora che lo Spirito pneumatico è quanto di meno ontico possa essere immaginato eppure è corporale al massimo grado; anzi esso porta perfino a compimento ultimo la corporalità stessa. Ed eccoci dunque di fronte a quel concetto paolino di “Soma pneumatikon” che anche Stein aveva pienamente riconosciuto.
E tuttavia dall’altro lato Guardini ci mostra che una certa forma di onticità qui comunque sussiste, e precisamente è quella ormai unicamente interiore e per nulla più esteriore. Anzi questa va considerata perfino una certa forma di “realtà” (“Wirklichkeit”). Ciò in particolare nel senso che l’ontologia di Gesù era sempre stata la stessa, senza alcuna frattura tra fase corporale e fase spirituale.
Tuttavia vi è anche un altro aspetto dell’«andare e venire» spirituale-penumatico di Gesù che viene posto in evidenza da Guardini, e cioè il fatto che nell’atto finale di questo suo modo di esistere (l’Ultima Cena ed infine Emmaus) fu la sua promessa di mandare giù nel mondo lo Spirito Santo nel mentre Lui tornava dal Padre per preparare un posto per i figli di Dio nella Sua Casa. Ebbene, quello Spirito che scende nel mondo non è altro che il Cristo stesso divenuto ormai definitivamente Corpo Spirituale; insomma quello stesso Cristo che si era trasfigurato in Corpo di Luce sia sul monte Tabor sia anche nel sepolcro. E nello stesso tempo Egli è il Logos nel quale «fin dal principio» esistono tutte le cose. Ecco allora che lo Spirito diviene il mondo stesso e lo diviene con le stesse sembianze del Cristo. Ed eccoci dunque a quella “ontologia cristo-centrica” che anche Stein aveva intuito [Edith Stein, Psicologia…cit., II, 2, 1-4 p. 217-309, “Osservazioni conclusive”, p. 312-327; Edith Stein, Ber Aufbau…cit., II, III, 2-3 p. 30-32, VII, II, 1-3 p. 78-92,VII, III, 2-4 p. 107-127; Edith Stein, Endliches…cit., VII, 8-9 p. 358-391, VIII, 3,1-3, p. 422-442; Donald L. Wallenfang, “Awaken, o Spirit : the vocation of becoming in the work of Edith Stein”, Logos, 15, 4 (2012), 57-74 ; Donald L. Wallenfang, “The hearth of the matter : the substance of the soul”, Logos, 17, 3 (2014), 118-142 ; Jane Duran, “Edith Stein, ontology and belief”, Hey.J., XLVIII (2007), 707–712 ; Ann W. Astell, “From ugly duckling to swan : education as spiritual transformation in the thought of Edith Stein”, Spiritus, 13, 1 (2013), 1-6 ; Sarah R. Borden, “Introduction to Edith Stein’s ‘The interiority of the soul’ : from finite and eternal Being”, Logos, 8, 2, (2005), 178-182; Sarah Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholica University Press, Washington 2010, 1 p. 16-25, 2 p. 44-48, 2 p. 54-58; Philibert Secretan, “Essence et personne”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 26, 1979, 481-504; Philibert Secretan, “L’homme spirituel et la Creation”, Carmel, 117 (10) 2005, 45-63; Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335], portando così a compimento addirittura quella ricerca filosofico-fenomenologica circa il riconoscimento di un mondo di pure essenze che aveva condiviso soprattutto con Hering [Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, di Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543]. E ciò implica allora che molto probabilmente quel suo stesso (così filosofico-razionalistico) concetto di “spirito oggettivo” aveva subito nel suo pensiero un’evoluzione che infine giunse alla sua forma più mistico-contemplativa, e che non a caso coincide fortemente con lo Spirito pneumatico in quanto mondo.
Dunque lo Spirito pneumatico non solo è corpo ma è anche perfino il mondo stesso. Per la precisione è il mondo nella sua infinita estensione ma ancora più come essenza divina che sta al centro di tutte le cose (esattamente come presupposto nel concetto vedico di “jīvātman”); insomma è il mondo divino stesso che anche Berdjaev auspicava nel contesto di un monismo relativo. Insomma è il mondo impregnato del divino. E del resto Guardini stesso afferma qualcosa di molto simile nel considerare il Regno dei Cieli come una realtà alla piena portata dell’azione umana e della storia [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585].
Del resto il pensatore italo-tedesco ci mostra anche come il mistero riguardante lo Spirito pneumatico era stato già rivelato con l’aprirsi dei Cieli nel momento del Battesimo di Gesù da parte di Giovanni [Romano Guardini, Der Herr… cit., , 4 p. 19-27, I, 5 p. 27-34]. Anzi lo Spirito stesso era disceso su Gesù trasformandone il corpo definitivamente in ciò che intanto era sempre stato latentemente, e doveva ritornare ad essere dopo l’Incarnazione. Non a caso, all’“irruzione dall’Altezza” (“Ausbruch aus der Höhe”) rispose esattamente in quel momento un’accentuazione estrema dell’atto di Incarnazione, ossia la pienezza della kenosis – dato che Gesù si abbassava alla necessità del Battesimo come l’ultimo degli uomini di carne e materia. Si tratta di un “abbassarsi alle profondità umane” (“Herabsteigen in die Menschentiefe”) da parte di Dio stesso per mezzo del Figlio. Ma questa risposta è di importanza decisiva, perché grazie alla simultaneità dei due eventi la discesa si trasforma in ascesa a causa del fatto che di colpo la distanza tra Cielo e Terra è stata annullata.
Insomma è come se un incommensurabile elastico, fino a quel momento teso spasmodicamente fino al limite della rottura, e quindi dilatatosi al massimo (a causa di quella Caduta che era stata estrema separazione tra Cielo e Terra), grazie alla kenosis cristica ora ritornasse alle sue infinitesimamente minuscole dimensioni iniziali (quelle della Prima Creazione), ossia alla totale coincidenza dei suoi estremi.
Ed ecco allora che, come dice Guardini, lo Spirito Santo “eleva l’uomo sopra sé stesso” nel senso della sua ri-assimilazione dell’uomo a Dio dopo gli eventi tragici della separazione avvenuta con il Peccato e la Caduta. Dunque nel farsi corpo e mondo, lo Spirito pneumatico ha anche il potere di ri-assimilare Cielo e Terra, ossia di risolvere proprio quel dualismo che Berdjaev ritenne assolutamente inappropriato alla realtà spirituale. Dunque la sua a-località va intesa anche come ubiquitarietà. Infatti lo Spirito «che va dove vuole» è anche questo – esso si trova già dove voleva arrivare, e quindi di fatto occupa dinamicamente tutto lo spazio dell’essere. Solo in questo senso, dunque, esso è Essere, ossia come Totalità dinamica dell’essere.
E questo fonda anche un’altra osservazione di Guardini, ossia che lo Spirito è Gesù stesso, in quanto è persona della Trinità (“in lui”). Eppure ciononostante sulle sponde del Giordano lo Spirito scende su di Lui (“sopra lui”) come se fosse l’ultima creatura di questo mondo. Siamo insomma davvero di fronte ad una realtà caratterizzata dall’assoluta inafferrabilità in quanto totale non prevedibilità della localizzazione.
Ma intanto lo Spirito pneumatico in quanto mondo è già di per sé intuitivamente lo stesso Regno dei Cieli in terra, ossia il mondo impregnato della presenza divina. Al proposito però Guardini ci invita a comprendere un’altra serie di aspetti riguardanti il potere di questa realtà agente che egli definisce addirittura “violenza divina” (“göttliche Gewalt”) [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 7-9 p. 40-57]. E si tratta esattamente di quell’irresistibile potere sul male che permise a Gesù di guarire ogni sorta di malati e posseduti. Ebbene la valenza di Regno dei Cieli del mondo impregnato dallo Spirito divino dipende strettamente da quel “sì” umano che pone lo Spirito nel pieno del suo potere, permettendo così che esso trasformi in possibile ciò che è assolutamente impossibile nelle circostanze mondano-terrene. Tra gli incalcolabili caratteri di questo Spirito pneumatico rientra dunque perfino l’azione rivolta ad una riforma del mondo che è addirittura concreta e storica, ossia di fatto politica. Si tratta insomma di quella rigenerazione dell’uomo, nel mondo, secondo lo Spirito, cioè secondo il Regno di Dio, che fa del mondo stesso qualcosa di non più naturale ma invece spirituale.
Gesù pensa insomma ad riforma del mondo prevalentemente nel senso del Ritorno in assenza dell’intermezzo della morte, e cioè nel senso di una reintegrazione dell’immanente nel trascendente (ossia la condizione ontica che fu della Prima creazione), e quindi nel senso di una riunificazione sul piano ontologico. Ma questa viene affidata all’opera dell’uomo, e quindi ad una prospettiva utopica ma per nulla ultra-storica. Dunque essa è lasciata in aperto nel contesto della prospettiva di un Regno dei Cieli del tutto immanente. È dunque in questo senso che il Regno è vicino − nel senso che io posso e devo cercare il Dio presente nel mondo (presenza divina) e nel senso che il Regno è effettivamente immanente.
È evidente che tutto ciò sta in immediata relazione con ciò che qualunque uomo può sperimentare entro l’esperienza religiosa nel caso che esso davvero si affidi al potere rigenerante dello Spirito con il massimo livello e grado di fede possibile. Senz’altro fu questo genere di fede (umana ma in verità sovrumana) ciò che attirò irresistibilmente Gesù verso la decisione a compiere quei miracoli che guarirono tutti i generi di malati e sventurati.
Da tutto ciò consegue che la dimensione dinamica dello Spirito immanente è anche eminentemente attivo-creativa. E ciò concorda non solo con Berdjaev, ma anche perfino con lo Spiritualismo personalista più laico, ossia (come vedremo) quello di Mounier, secondo il quale la spiritualità umana è eminentemente attiva.
E ciò ha peraltro un preciso significato etico ed anche in parte etico-politico. Infatti Guardini sottolinea che Gesù, nel venire nel mondo, ha preso certamente atto del fatto che l’uomo, di fronte alla preponderanza ineluttabilmente soverchiante delle Leggi del mondo e della Natura, può in verità solo scappare terrorizzato e pieno di sfiducia. Egli, insomma, deve essersi reso conto di questa schiacciante evidenza. E quindi deve certamente aver deciso di prendere davvero il toro per le corna, in modo tale che, solo grazie a Lui, all’uomo divenisse possibile l’impossibile, ossia il sovrumano. Ma intanto Gesù può fare fronte a tutto questo soltanto perché Egli è pienamente Spirito, oltre che carne. Infatti il male può venire combattuto solo dallo Spirito, e cioè da quanto si pone radicalmente fuori dalle leggi del mondo; le quali altrimenti prevarrebbero senza l’ombra del minimo dubbio.
Lo Spirito pneumatico nella sua propensione attiva, è dunque quella realtà che ha la capacità di rendere possibile l’impossibile in quanto essa ha lo straordinario potere di revocare le inflessibili Leggi della Natura.
Guardini pone l’accento su tutto ciò offrendoci una lettura del famoso Discorso della Montagna, entro il quale, secondo lui, viene sancita la messa a disposizione delle capacità sovrumane all’uomo da parte di Gesù secondo il principio del “a Dio nulla è impossibile” [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 11 p. 66-76]. La questione è al proposito molto complessa, e proprio perché noi uomini tendiamo ad intenderla letteralmente e cioè fuori da qualunque lettura integralmente spirituale. E Gesù è di nuovo estremamente consapevole di questo nostro tragico limite. Egli sa bene infatti che noi uomini siamo costretti ad avere a che fare ogni giorno con il serissimo problema del «pane quotidiano», e sa che esso istituisce un conflitto in sé inconciliabile tra Cielo e Terra. Per cui ci indica l’unica via praticabile, ossia quella di trattare con tale questione guardando intanto unicamente alle «cose del Cielo», e quindi con quella leggerezza (tutta spirituale) che invece le Leggi della Natura non ci consentirebbero mai e poi mai di professare. Si tratta ovviamente di una questione di pura e nuda fede. Ma intanto, prestando fede alle Sue promesse, noi possiamo essere certi che comprenderemo tutto questo una volta che saremo totalmente nello Spirito, ossia una volta che avremo anche noi conquistato davvero pienamente la dimensione ontica della corporalità spirituale. Ebbene, è chiaro che ciò avverrà dopo la nostra morte fisica. Ma intanto (in maniera assolutamente sorprendente) fu esattamente questo ciò che avvenne nel contesto della discesa dello Spirito Santo nel corso della Pentecoste. Infattiin tale evento divenne addirittura tangibile la verità della promessa da parte di Cristo secondo la quale lo Spirito insemina nell’uomo la sovrumanità ossia la divinità stessa. Ed eccoci dunque di fronte alla pienezza estremamente concreta della divino-umanità. Non a caso, dopo questo evento, i Discepoli divennero capaci di atti dei quali prima non sarebbero mai stati capaci.
Naturalmente tutto ciò esige dall’uomo una sorta di «decisione per lo Spirito, e Guardini allude a questo trattando della lotta contro “il Nemico” [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 7 p. 127-136; II, 9 p. 143-151]. Si tratta insomma del “sì” puramente fideistico nel senso di fiducia negli insegnamenti del Cristo. Il che implica un deciso schierarsi. Ed infatti il pensatore parla qui del “peccato contro lo Spirito” (quello che non sarà perdonato), che è evidentemente il rifiuto di Dio implicato nel falso schierarsi da parte dell’uomo. Si tratta insomma dello schierarsi sempre totalmente volontario (e quindi assolutamente libero) dell’uomo dalla parte del Nemico e non invece del Salvatore.
Lo Spirito pneumatico è dunque agente anche nel senso che esso esige da noi uomini una ben precisa decisione libera. In assenza della quale esso resta inattivo e quindi sembra come se non ci fosse affatto.
In questo senso, quindi, lo Spirito pneumatico (nonostante la sua assoluta inafferrabilità metafisica, che poi soprattutto non-onticità) assume portentosamente una decisa forma storica. E peraltro ciò esige una consapevolezza estremamente sofisticata che va senz’altro oltre l’umano naturale. Infatti, come dice Guardini, la vittoria deve avvenire non sul piano della “forza” evidente, ma invece sul piano della “liberazione” (“Erlösung”), ossia la liberazione da quelle Leggi del mondo che includono in primo luogo l’assolutamente ferrea legge del più forte (e quindi inevitabilmente anche l’ossequio assoluto all’istinto egoistico di sopravvivenza). È dunque proprio questo il nucleo della paolina kenosis, cioè questo è il senso del «è quando sono più debole, che io sono forte». Si tratta insomma di una vittoria che doveva assolutamente includere la “possibilità della sconfitta”. Il che sottolinea nuovamente l’importanza che ha la libera e coraggiosa decisione umana. Del resto nel nostro saggio sul Personalismo abbiamo visto, per mezzo di Jaspers, che il nucleo stesso della “coscienza tragica” consiste nella certezza di vincere proprio nel mentre si è nel pieno della sconfitta, ossia nel pieno di quella sconfitta che ormai coincide addirittura con la nostra morte (come esemplificato al massimo dalla vicenda di Amleto) [Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008, p. 34-38]. Il che significa allora che l’infinitamente amorosa Provvidenza divina aveva reso disponibile tale consapevolezza già nel pieno del Paganesimo.
E tutto ciò, per Guardini, investe inevitabilmente anche lo scottante tema della “remissione dei peccati”, ossia ciò che nel Vangelo si presenta nuovamente come guarigione miracolosa da mali fisici e psichici in virtù di quel pentimento che è anche una sorta di socratico atto di profonda auto-conoscenza da parte di noi stessi. Si tratta insomma del riconoscere del tutto umilmente (e soprattutto incondizionatamente) la nostra responsabilità personale nei mali che ci affliggono. E quest’ultima non è in fondo altro che l’ancora mancata decisione della quale prima parlavamo, ed in assenza della quale si delinea per Guardini il “peccato contro lo spirito”, ossia la sfiducia nelle possibilità che lo Spirito divino ci mette a disposizione.
Invece in caso contrario (ossia quando questa nostra decisione si è ormai verificata) si delinea quindi un nostro attivo fare in modo che tutto di nuovo sia “in ordine”. Ed ecco allora che la nostra guarigione non è altro che l’effetto della trasfigurazione del mondo alla quale noi stessi abbiamo aperto la strada con il nostro “si” incondizionato allo Spirito divino nella sua potenza trasfigurante.
Di nuovo siamo insomma di fronte alle illimitate capacità di trasfigurazione che caratterizzano lo Spirito pneumatico come premessa dell’essere. Eppure ciò non significa affatto che lo Spirito sia immanente in quanto ipostatizzato. Anzi significa l’esatto contrario. Guardini ci fa comprendere questo menzionando le difficoltà che Nicodemo incontra nel pensare che lui, vecchio e stanco, possa davvero rinascere per l’azione dello Spirito [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 12 p. 166-174]. Egli è insomma convinto del fatto che l’uomo è solo “mondo” (“Welt”) e tale “resta” sempre ed invariabilmente. Mentre invece l’uomo è spirito anche perché è spirito in quanto può essere allo stesso modo pienamente oggetto dell’azione dello Spirito. Intanto però ciò non può avvenire appena sul piano orizzontale dell’immanenza separata dalla Trascendenza. Perché lo Spirito pneumatico può agire solo “dall’alto” (“von oben her”), e quindi solo in tal modo può dare vita ad un nuovo inizio.
Questo quindi ci illustra un aspetto davvero fondamentale della natura ontologica dello Spirito pneumatico. Infatti lo Spirito (così come viene inteso da Gesù, ossia dalle Scritture) non è in alcun modo immanente (come è senz’altro invece lo spirito ontico, o se si vuole «onto-spirituale», opposto alla corporeità, o anche lo stesso spirito oggettivo filosofico che corrisponde poi appena alla Cultura umana), ma è invece integralmente divino e trascendente (pur essendo intimamente connesso alla corporeità e potendo quindi agire perfino storicamente). Esso è cioè il Padre della Trinità e quindi è il Pneuma stesso – è insomma quel Padre che entro la Trinità è allo stesso tempo Figlio e Spirito. L’uomo, invece, è intanto di per sé solo “mondo” e “carne”, e quindi lo Spirito lo trascende totalmente. E pertanto proprio per questo può fare di lui quello che vuole.
Guardini ci offre un’ulteriore possibilità di comprendere tutto questo illustrando l’episodio evangelico in cui Gesù appare ai Discepoli sul lago come un vero e proprio fantasma [Romano Guardini, Der Herr… cit., III, 8 p. 230-235]. Ebbene questo conferma in pieno l’a-località dello Spirito pneumatico proprio entro la dimensione della sua trascendenza verticale. È infatti estremamente probabile che Gesù non sia stato affatto presente fisicamente sul lago, ma invece sia stato presente solo appunto “in spirito“, e cioè nel contesto di una vera e propria bilocazione. Infatti molto probabilmente Egli era restato sulla montagna, dove si era separato dai Discepoli che erano andati in barca sul lago.
E questo ci riporta poi di nuovo all’episodio del Battesimo nelle acque del Giordano. Gesù Cristo è insomma Colui che è spirito per eccellenza. E quindi è lo spirito (“Pneuma”) che scende su di Lui non trova affatto un uomo medio, ossia un uomo naturale, e pertanto può manifestarsi pienamente in Lui con tutte le sue estreme caratteristiche ontiche. Il che significa poi che, proprio in virtù della sua natura di Spirito pneumatico, in Cristo l’umanità e la divinità non sarebbero mai potute restare separate nel contesto dell’Incarnazione. Insomma Egli fu ed è uomo-dio che poi diviene il risorto senza alcuna interruzione tra le due ontologie − Egli si è incarnato pur essendo Dio (il Logos stesso, ossia lo Spirito divino) e poi è tornato Spirito pur restando corpo. Ecco che allora Egli si rivela essere quel prototipo di uomo divino (ossia la pienezza dell’umano-divinità) che nessuna riflessione filosofico-metafisica (per quanto sofisticata) potrà mai giustificare e lasciarci comprendere. Infatti tale realtà è davvero spiegabile soltanto qualora l’Incarnazione si spieghi dal punto di vista della Resurrezione, e quindi in maniera assolutamente contro-razionale e pertanto per nulla logica. E questo decisamente pone fuori gioco quel lato dello Spiritualismo steiniano che non si soffermò sullo Spirito pneumatico ma invece solo su quello «onto-intellettuale», per quanto religiosamente inteso.
A conclusione di queste riflessioni di Guardini vale la pena di richiamare alcune riflessioni di Gregorio di Nissa che ci permettono di comprendere ancora meglio lo Spirito pneumatico nella sua natura di Corpo spirituale ed anche di estremo dinamismo [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ramelli Ilaria (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381, V, 108-128 p. 457-481, VI, 129-160 p. 483-519; Ilaria Ramelli, Il Platonismo nella filosofia patristica, ibd., II, III, 1 p. 1014-1028]. Il discorso di Gregorio verte in particolare sulla la conoscenza di un oggetto immateriale come l’anima, cosa che per lui implica il coglimento dell’essenza − in forza del fatto che il vero essere è immateriale, ossia corrisponde a Dio, ed è appunto per questo intangibile ed invisibile. Ecco che allora l’intelletto (che è onticamente immateriale) non è affatto escluso dall’essere. Infatti l’uomo che è intelletto, e dunque è del tutto simile a Dio (uomo-dio e “imago dei”) − secondo il paradigma della similitudine al modello −, costituisce di fatto un intelletto immateriale ed incorporeo.
Esso corrisponde pertanto pienamente a Dio in quanto Intelletto. Ebbene quest’ultimo è del tutto “privo di massa” (ἀσωμάτῳ) così come di “estensione” (ἀδιαστάτῳ); proprio come lo è lo Spirito pneumatico. Dunque, al cospetto di ciò (e nel contesto della somiglianza) per Gregorio l’uomo è come un piccolo frammento di cristallo che riflette l’intero disco solare − “così nella piccolezza della nostra natura brillano le immagini di quelle misteriose proprietà della divinità” Sebbene questo non significhi affatto un’identità completa con quella che è una pura sostanza intelligibile.
A ciò si aggiungono poi le considerazioni del pensatore sull’a-località spirituale in quanto eternità (che a quanto pare assimilano il pensatore al neoplatonismo di Plotino) e che ci offrono ulteriori possibilità di comprendere la natura ed azione dello Spirito pneumatico. Si tratta in particolare dell’”atemporalità” espressa come “aidion” (ἀῒδιον) o “aion” (αἰών), dunque assenza di estensione, ossia assenza di “diastema” (διστηνα), cioè separazione nella successione spazio-temporale – “adiastatos” (ἀδιάστατος), ovvero “adimensionale” e quindi “ininterrotto”. Si tratta insomma di una dimensione di essere che, non conoscendo alcuna scansione né spaziale né temporale, costituisce la (fulminea e simultanea) Totalità del tempo e dello spazio come perfetta coincidenza di inizio e fine. Si tratta insomma dell’assenza di scansione tanto temporale che spaziale che sussiste in un attimo eterno che è anche sempre Totalità di Essere. Ebbene tutto ciò nelle “Enneadi” di Plotino [Plotino, Enneadi, Monadori, Milano 2002, III, 7, 3-4] viene espresso appunto come “eterno presente”; che è poi la massima pienezza di essere, laddove l’essere ha l’eternità essenzialmente (e non come attributo accidentale) – l’eternità (αἰών) equivale qui a “ciò che è sempre” (ἀεί ὢν). Dunque non tempo infinito ma invece semmai “mancanza di tempo”. Il che corrisponde poi al permanere dell’eterno nell’unità, o anche al permanere dell’essere nel proprio stato (stasi ad onta del dinamismo temporale) nel senso dell’unità inscindibile − “sempre essente” (ἀεί ὢν) in quanto “veramente essente” (ἀληθῶς ὢν).
E questo è poi ciò che non ha alcun bisogno del futuro, così come ciò che non ha bisogno di altro essere in quanto è “in pieno possesso di ciò che deve essere”. Al contrario la temporalità (come “diastasis” o “diastema”, estensione, successione ed intervallo, ossia scansione) è soggetta fatalmente al bisogno di un essere successivo ed ulteriore, ossia al bisogno spasmodico di possesso come promessa di stasi. Questo spasmodico bisogno di altro implica pertanto fatale perdita dell’assoluta unità che è propria dell’eterno, ossia la fatale “dissipazione” (la cui espressione immanente è poi l’inquietudine della perenne ricerca del possesso come stasi). Questo è insomma il tempo come mobilità dell’eternità (del quale, secondo la commentatrice, si ritrova il corrispettivo in Platone, Timeo 37D) e come Natura [Plotino, Enneadi…cit., II 7, 12].
Orbene è evidente qui la preoccupazione metafisica (che senz’altro fu presente primariamente in Plotino) che intende preservare il valore di una suprema Stasi. E quindi queste riflessioni non si prestano a concepire né lo Spirito né l’Essere stesso come sostanzialmente dinamici. Eppure comunque in tal modo possiamo meglio comprendere quella a-temporalità ed a-spazialità dello Spirito che poi si traducono in particolare in una stasi che è soprattutto Totalità di Essere raccolto in un solo momento anche nel suo perenne fluire dinamicamente. Ed anche questo è senz’altro un aspetto dello Spirito nel suo intendimento pneumatico. In altre parole lo Spirito pneumatico è a-spaziale ed a-temporale proprio in virtù di tali caratteristiche perfino statiche. E quindi esso «va dove vuole» semplicemente perché sta già nel luogo dove voleva arrivare, e quindi non conosce alcuna discrepanza tra causa ed effetto. La quale implica sempre una sorta di impotenza, nel senso di fatale e tragica soggezione alle condizioni che possono rendere impossibile raggiungere l’effetto che era voluto nell’intenzione. E non vi è dubbio che ciò è esattamente quanto può accadere a causa del vigere nel mondo di quelle inflessibili Leggi della Natura secondo le quali una causa implica necessariamente un effetto specie in senso difettivo – ossia una causa impedente rende impossibile raggiungere l’effetto voluto. Insomma siamo così di fronte a quella inflessibile concatenazione causale che entro la metafisica orientale del “karma” (specie buddhista) ha teorizzato che una determinata causa negativa produrrà necessariamente un effetto egualmente negativo.
Ecco allora che è esattamente questo il motivo per il quale lo Spirito pneumatico ha il potere incondizionato della trasfigurazione dell’essere. Esso infatti è esattamente quella creatività illimitata (presupposta anche da Berdjaev) in quanto assolutamente libera dal condizionamento di qualunque necessità naturale.
Dunque è su questa base che si spiega il perché del «tutto è possibile allo Spirito», ossia «tutto è possibile a Dio»

III- Maine de Biran
Lo Spiritualismo di Maine de Biran (MdB) rientra decisamente nella tradizione filosofico-idealistica moderna, ed inoltre (a causa del suo accento posto sulla coscienza) anticipa anche in maniera molto suggestiva alcuni elementi tipici dello Spiritualismo fenomenologico-husserliano, e quindi anche di quello di Stein.
MdB parte infatti chiaramente dalla concezione dello Spirito come coscienza umana [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, Introduzione, 2 p. 12-22], sebbene poi aggiungerà a questo l’affermazione che in essa è presente lo stesso Spirito divino. Peraltro egli postula un processo di auto-conoscenza da parte dell’Io che rientra in modo chiaro nello Spiritualismo che intende lo Spirito come Ragione umana ed Io coscienza [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 47-56 p. 55-64]. Non a caso per lui la coscienza è solo del soggetto in quanto è una realtà ontologica capace di disporre di uno spazio interiore caratterizzata dal “con sé”, e che poi null’altro è se non il «sapere di sé» [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 11-13 p. 35-36].
Tuttavia questo atto ha per lui anche una valenza chiaramente religiosa. In particolare egli dichiara di riferirsi ad Agostino nel teorizzare un auto-possesso dell’Io da parte di sé stesso che avviene sostanzialmente sulla base del riconoscere la sua somiglianza interiore a Dio (umano-divinità). Questa è per lui la dimensione del cuore in senso cristiano. Sul cuore si basa per lui la disposizione sociale della persona, che poi comporta l’amore in quanto compassione.
Rispetto a queste riflessioni egli va poi ancora più avanti nell’affermare che l’Io e Dio sono le due primarie unità dell’essere [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-67 p. 65-73]. E, nel sostenere questo, egli si oppone imoltre decisamente all’unità indifferenziata divino-immanente (decisamente impersonale) che fu teorizzata entro il panteismo di Spinoza. Ecco che quindi il suo concetto di Spirito non consiste solo nella coscienza, ma anche nell’Io stesso come fondamentale unità singolare. Lo Spirito insomma è una persona nel suo isolamento ontico di entità assolutamente e paradigmaticamente unitaria.
Egli tuttavia non manca di concepire lo Spirito divino come trascendente quello umano, ossia l’Io stesso [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-90 p. 82-88]. Lo fa sostenendo che Dio è causa delle esistenze, e come tale coincide anche con quello Spirito originario che contiene in sé ogni verità; in modo tale che esse di trovano prima dello spirito umano. Ecco insomma l’esatta natura dello spiritualismo di MdB, che appare essere una dottrina subordinante l’uomo ad una dimensione ideale trascendente che appare essere poi lo Spirito stesso nella sua integralità ontica. Esso è senz’altro lo Spirito divino, ma senza nessuna delle caratteristiche che abbiamo visto essere tipiche dello Spirito pneumatico.
Questa è molto in sintesi la dottrina dello Spirito di MdB e quindi questo è il suo Spiritualismo.
Comunque in termini specificamente religiosi egli non manca di intendere lo Spirito divino come Grazia [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 2 p. 12-22]. Non a caso egli concepisce una mistica attiva in quanto movimento verso l’Assoluto divino; ma che è anche passiva in quanto attende appunto la Grazia.
Dio in quanto Causa è comunque anche ciò che trasfonde nella stessa anima umana il potere di muovere il corpo, dando vita in tal modo anche a quell’unità spirito-animico-corporea che è tipica dell’uomo e quindi configura un’antropologia fondata in Dio [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-71 p. 65-76].
Ne risulta quindi che per MdB lo Spirito divino coincide anche con la causalità stessa nella sua forma più elevata. Così come è anche la stessa sede di ogni Verità razionale. Più precisamente Egli è “causa delle esistenze”, e proprio come tale è “oggetto della ragione” in quanto è appunto insieme di verità razionali [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-94 p. 82-94]. Le quali sono poi verità antecedenti allo spirito umano in quanto si trovano nello Spirito divino. Ecco allora che MdB, nell’essere spiritualista, assume una posizione decisamente idealista. Dunque il suo Spiritualismo si rivela essere una dottrina che subordina lo spirito umano ad una dimensione ideale-spirituale trascendente che è Dio stesso. Comunque l’oggettività delle verità che sono presenti in Lui lascia pensare che in qualche maniera MdB intendesse lo Spirito divino con le caratteristiche di una certa «onto-spiritualità» paradigmatica, e proprio come tale da intendere come Spirito per eccellenza. In ogni caso comunque l’intendimento più esplicito ed evidente del suo Spiritualismo è quello di una dottrina che intende porre in evidenza ciò che è e fa lo spirito umano (sia nella conoscenza che nell’azione etica). E su questo siamo chiaramente nel campo della visione spiritualista più tipica della moderna filosofia, ossia quella che (aldilà anche dei suoi aspetti religiosi) intendeva lo Spirito come equivalente alla Ragione umana.

IV- Emmanuel Mounier.
Lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più pragmatico ed immanentista; anzi a tratti appare addirittura materialista. In ogni caso vedremo poi che in esso appare decisiva la presenza della visione di Blondel. Tale Spiritualismo non è però affatto razionalista, dato che Mounier, nel fondare il proprio Personalismo, si distanzia decisamente dalla tradizione filosofica, moderna. Ed in particolare si distanzia dallo gnoseologismo filosofico, così come fa anche Berdjaev [Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti), p. 31-40, I, VI p. 103-120]. In particolare egli dissocia decisamente lo Spiritualismo dal «cogito» cartesiano ed anche dall’oggettivazione prodotta dal ricorso gnoseologistico all’universale da parte della moderna filosofia.
Appare perciò molto sorprendente che il pensatore, nell’affermare che il Personalismo ha dietro di sé una lunghissima e remotissima tradizione filosofico-metafisica, veda il nucleo di quest’ultima proprio in quel concetto tutto cristiano di “carne spirituale” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., p. 31-40] che abbiamo visto messo in luce da Guardini, ossia dallo spiritualista più radicale che finora abbiamo esaminato. Egli insomma prende debitamente atto del fatto che lo Spiritualismo si è a lungo (ed in larghissima parte) identificato con la postulazione di uno Spirito pneumatico. Ma questo con certezza assoluta gli serve a fondare la concretezza corporale e mondana della persona umana. Infatti nel definirla egli afferma che bisogna decisamente contraddire il tradizionale dualismo metafisico riconosciuto tra spirito e materia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-56]. A questo punto va anche detto però che ciò si sposa perfettamente con l’irrazionalismo della sua visione, dato che questa parte della tradizione spiritualista fu sempre (forse già da Platone in poi) in qualche modo razionalista. E ciò ci porta a pensare dunque che vi sono due forme di Spiritualismo tradizionale non «onto-spiritualista» − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista «onto-intellettualista»).
In ogni caso Mounier sembra disposto a seguire solo in parte questa strada, dato che lo Spirito è per lui sostanzialmente attivo e quindi è integralmente umano e mondano. Ed infatti egli sostiene la stessa necessità di superare il dualismo spirito-materia laddove afferma che l’azione stessa la esige [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., II p. 132-160]. Anzi qui il suo Spiritualismo assume una venatura decisamente filosofico-politica ponendosi addirittura come rivoluzionario ed anche marxista.
Proprio per questo appare chiaro che egli non sostiene affatto il concetto di corporalità spirituale come fa Guardini. Egli ci fa capire infatti che addirittura lo Spirito è condizionato a tal punto dall’esistenza del corpo che di fatto, in assenza di quest’ultimo, non vi è alcuna realtà spirito-corporea, e quindi di fatto lo spirito si dissolve nel nulla [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-45]. Ne risulta quindi una visione spiritualista che ha perfino tangibili venature materialiste. Non a caso egli giunge perfino a negare la natura spiritualista del Personalismo nel sostenere una visione che, secondo lui, non può dimenticarsi nemmeno un attimo del mondo [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 45-50]. Ciò significa insomma che egli stesso vede in fondo nello Spirito qualcosa si astratto ed anti-mondano.
Ciò concorda peraltro perfettamente con il fatto che egli dichiara l’interiore la regione più propria dello Spirito e la definisce anche come il contrario stesso dell’essere [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, III p. 74-76].
Ecco che trova eco in lui in modo chiaro lo Spiritualismo interiorista ed egoico di Maine Biran e dell’intero pensiero moderno. Esso non sarà quindi razionalista, ma ciò cambia davvero poco nella sua natura.
Di nuovo qui però diviene dirimente la natura azionista del suo Spiritualismo. Lo possiamo comprendere bene laddove egli parla dell’”attività produttrice” umano-personale come un “fabbricare” che è radicalmente diverso dal conoscere (e come tale di distanzia moltissimo dall’”intenzione” così come viene intesa dalla filosofia gnoseologistica, e quindi anche da Husserl) [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VI, p. 103-105]. Ebbene, egli dice, questa attività non è altro che la tipica attività dello Spirito. È evidente insomma che per lui lo Spirito è sostanzialmente attività in quanto movimento, e più precisamente movimento produttivo. Il che poi lascia intravvedere anche lo Spiritualismo di Bergson, secondo il quale l’Intelligenza cosmica (in quanto Spirito) è sostanzialmente attiva perfino nel conoscere, e quindi in tal modo “ritaglia” letteralmente le oggettualità nella compagine indifferenziata dell’essere [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri, Milano 1966, II, p. 135-216].
Come tale, dunque, per Mouniier l’azione spirituale è squisitamente umana. Egli insomma non guarda affatto allo sfondo metafisico dello Spirito umano, ossia si disinteressa decisamente di esso. Pertanto il suo Spiritualismo è decisamente non-metafisico. È evidente allora che per lui il concetto di Spirito pneumatico non è altro che storia, e quindi può semmai servire a fondare concettualmente la corporalità spirituale ma solo nella sua totale concretezza addirittura materiale.
E di questo possiamo trovare riscontro laddove egli parla dello “spirito conoscente” come incarnato in un’esistenza legata profondamente ad un corpo e ad una storia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit.,
I, VI, 3 p. 110-113]. Quindi per definizione esso è “impegnato”. Questo concetto di impegno sembra del resto dominare completamente la sua visione dello Spirito. Egli dice infatti che, nel contesto del problema della relazione tra azione e pensiero, la vita spirituale si rivela assolutamente identica all’azione; dunque, l’azione equivale proprio all’”esperienza spirituale nella sua integrità” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VII p. 121]. Infatti, egli dice, “ciò che non agisce non è”. E dunque secondo lui del Logos cristico noi dovremmo avvalorare le dimensioni della via e della vita, molto più che quella della verità. Ed a questo punto dichiara di dovere queste idee a Blondel, proprio secondo il quale lo spirito è sostanzialmente azione.
Questo si può dunque dire dello Spiritualismo di Mounier che si riconferma essere immanentista, pragmatico e decisamente anti-metafisico. In esso si può dire quindi che si dissolve totalmente la sostanza ontica dello Spirito, dato che esso si presenta appena come una disposizione attiva e funzionale della persona umana, e quindi sostanzialmente nella forma di vita attiva umana fotografata nel pieno del suo esistere mondano.

V- Steinhart.
L’articolo di Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571] compare qui appena come esempio e campione di quella che deve senz’altro essere una riflessione oggi molto diffusa. E quindi ci serve soltanto a prendere atto di come e quanto si sia evoluto lo Spiritualismo fino ai giorni nostri. Tuttavia un’analisi delle sue forme attuali richiederebbe senz’altro un’altra investigazione, dato che sicuramente molti pensatori sono oggi impegnati in questa riflessione. In ogni caso questa presa d’atto potrà essere di grande aiuto nel cogliere quella che è senz’altro la forma più estremamente moderna dello Spiritualismo; e ciò allo scopo di poterla poi paragonare con quelle antecedenti.
Va comunque subito detto che qui viene sostenuta la tesi largamente riduzionistica (anche dal punto di vista religioso) che pretende di intendere lo Spirito quale equivalente all’energia cosmica (in quanto sostanza di tipo sottilmente fisico) ed in particolare alla forza evoluzionistica che spinge l’universo. In altre parole si pretende di dire cosa è Spirito in base a ciò che di esso scientificamente è più coerentemente pensabile.
Ci troviamo insomma di fronte ad uno Spiritualismo che non solo è fuoriuscito dall’ambito della metafisica (come quello di Mounier) ma è fuoriuscito addirittura anche dall’ambito della filosofia. Esso rappresenta pertanto una sorta di estremamente paradossale Spiritualismo scientifico o comunque scientista.
Estremamente significativo è il fatto che l’autore parta nella sua riflessione nel considerare il Pneuma esattamente una “energia”, e più precisamente ancora un “potere naturale” (“natural power”). Egli rivendica inoltre che questo debba essere l’intendimento più proprio di Spirito, dato che gli altri (potere vitale animante, e potere creativo onto-generante ed onto-organizzante) sono del tutto secondari in quanto assolutamente impropri dal punto di vista logico. Ancora più precisamente lo Spirito andrebbe inteso come quell’”energia sottile” (“subtle energy”) che è di per sé “energia spirituale”, anche se si presenta in maniera molto concreta nelle moderne scienze (come quella termodinamica ed informazionale). Ovviamente secondo l’autore ciò non ha nulla a che fare con alcun piano intelligente direttivo, e quindi con “forze trainanti” (“driving forces”). E questo perché lo Spirito non ha assolutamente nulla di personale. Nemmeno nel caso che lo si volesse intendere come entità divina. Insomma esso è energia proprio perché non si muove affatto secondo un’intenzione diretta a sua volta verso uno scopo determinato. Esso si limita ad essere invece quella dimensione dinamica per mezzo della quale le morte cose trovano la forza di spinta per muoversi. In altre parole esso non è altro che una specie di carburante universale, sebbene senz’altro invisibile ed intangibile.
È evidente che ci troviamo qui di fronte ad uno Spiritualismo che ormai si è totalmente dissociato dal Personalismo.
Posto questo come l’intendimento più proprio di Spirito, l’autore si dedica all’esame delle diverse teorie che esistono rispetto a questa energia.
La prima teoria dello Spirito come energia è quella che lo intende come “forza vitale”. Però da un punto di vista rigorosamente scientifico non può per lui esservi alcuna forza vitale (sebbene essa venga presupposta in biologia nella teoria evoluzionistica), dato che essa può essere solo un’entità unitaria inesistente a causa del fatto che sotto di essa vi sono ben più reali molteplici forse elementari. Come ad esempio quelle presupposte nella teoria termodinamica. In particolare si tratta dell’entropia presupposta dalla seconda legge della termodinamica (e questa è la seconda teoria dello Spirito come energia) in quanto dissipazione di energia disorganizzante (forza entropica) che tende intanto alla crescente complessità delle strutture (in particolare attraverso la dissipazione di energia superflua che rende impossibile la genesi di una struttura statica). Questa teoria viene però dichiarata “ingenua” perché essa presuppone una mente diretta verso uno scopo pur non essendo intanto affatto cosciente (per il fatto di essere un’energia profonda e quindi del tutto cieca). Ecco che allora si perviene per esclusione alla terza teoria dello Spirito in quanto energia, che prevede una forza extropica; la quale, per il solo fatto di opporsi alla forza entropica, riesce per davvero ad essere organizzante pur senza prevedere alcuna mente. Si tratterebbe insomma di null’altro che del Big Bang originario. E proprio questo sarebbe lo Spirito in quanto energia nella sua pienezza. Che poi filosoficamente viene equiparato alla volontà di potenza nietzschiana.
Insomma, dato che l’entropia tende all’incremento per deplezione di essere (con conseguente riduzione dell’ordine), essa non può assolutamente tendere alla sempre maggiore complessità, dato che quest’ultima richiede un sempre maggiore ordine. Per cui non resta che ipotizzare l’azione di una forza extropica, la quale quindi tende naturalmente all’incremento di essere per il fatto che essa riduce l’entropia. Infatti il momento del Big Bang è caratterizzato non a caso da un basso livello di entropia. La discussione dei dettagli di questa complessiva teoria è troppo complessa per venire riportata qui, ma comunque l’autore giunge alla conclusione che lo Spirito come energia corrisponde ad una forza extropica, che è poi chiaramente direttiva. Entro il suo esplicarsi essa sta comunque in costante relazione dialettica con la forza entropica.
E su questa base egli ipotizza addirittura l’esistere di un “universo spirituale” la cui struttura e dinamica interna sarebbe descrivibile attraverso il complesso gioco esistente tra forze entropiche ed extropiche.
Posto questo, l’autore passa poi ad occuparsi delle varie prese di posizione teologiche e para-teologiche che si possono delineare in tale contesto. Si tratta del teismo (che ricorre al ben noto “intelligent design” di ascendenza tomista), delll’ateismo (definito “multiverse”) e dello Spiritualismo naturalistico (il quale presuppone una sorta di evoluzionismo cosmico, simile a quello biologico, entro il quale si verifica la genesi di una progressiva complessità di universi). Quest’ultima teoria viene definita come “cosmological arrow”. E con essa si delineerebbe una sorta di “freccia cosmologica”. Ma extrapolando quest’ultima presa di posizione secondo l’autore si perverrebbe alla quarta teoria della natura ed azione dello Spirito. Essa consiste nel ritenere che la freccia cosmologica deve presupporre un potere “ontologico” direttivo, che sarebbe appunto lo Spirito stesso, ossia lo Spirito nel suo potere onto-generante. Infatti a suo avviso bisogna ritenere che solo lo Spirito può condurre l’essere (opponendosi al caos entropico) ad assumere la forma di un organismo. Si tratterebbe così insomma dell’animazione spirituale del mondo (“spirit animates universe”). In altre parole l’azione dello Spirito, come del tutto impersonale energia (ossia carburante dell’universo), sarebbe in primo luogo quella di produrre l’animazione di quelle cose cosmiche originarie che in sé sono per definizione morte, cioè inanimate.
Su questa base (e sulla base delle varie teorie filosofico-scientifiche che egli tiene presente) l’autore perviene ad una sorta di moderna versione evoluzionistico-scientifica della dottrina di Leibniz (definita come “leibnizian argument for spirit”); secondo la quale in primo luogo insorgerà senz’altro una struttura che non si imbatta in una “forma” che ne impedisca l’attualità. E il criterio dominante è qui assiologico-ontologico, nel senso che si tratta di un continuo tendere verso il meglio in quanto concreto finale e cioè ultimamente determinato. Più precisamente si tratterebbe della “theory of striving possibility” (possibilità tendente, anelante, sforzantesi). E secondo l’autore essa può spiegare perfettamente l’evolvere dell’universo verso strutture non solo di maggiore complessità ma anche più giustificate ad esistere.
E ciò fino al risultato finale, ossia a quanto Leibniz considerava come il finale e perfettamente giustificato “determinato” − secondo quel principio del «perché qualcosa e non nulla» che poi corrisponde anche al famoso principio di “ragione sufficiente” [Gottfried W. von Leibniz, Saggi di Teodicea, Fabbri, Milano 1996, 1-4, pag. 69-72; Gottfried Wilhelm von Leibniz, Monadologia. Bompiani Milano 2001, II, 7-15 p. 47-53].
Questo potere (formante in quanto determinante) sarebbe dunque per Steinhart lo Spirito stesso − il potere astratto (ragione) di massimizzazione dei valori e quindi di ottimizzazione. Insomma per l’autore proprio qui vi sarebbe la definizione migliore dello Spirito come energia creante − “Spirit is a natural optimizing power; it is the power of self-surpassing in all thing”). E diremmo che qui di nuovo viene presupposto il concetto di «superamento» di Nietzsche.
Insomma questa estremamente complessa ed articolata teoria (per la verità molto più scientifica che non filosofica) rappresenta almeno un esempio per quello che può essere un estremamente moderno Spiritualismo. Come si può vedere in tale contesto ci si forza molto di essere logicamente rigorosi nelle argomentazioni ed in fondo non si rigettano nemmeno in via di principio i contributi di religione e filosofia. Eppure il concetto di Spirito viene qui letteralmente forgiato dalla mente umana attraverso un minuzioso lavoro di analisi (che tende a scartare le ipotesi meno logiche) senza però tenere assolutamente conto né della tradizione di pensiero metafisico che si è sviluppata dai primordii della filosofia né delle possibili intuizioni della realtà dello Spirito così come si presentano spontaneamente nella nostra interiorità.
Non a caso il pensiero metafisico di Leibniz viene completamente riletto e adattato ad argomentazioni puramente scientifiche che con esso non hanno molto a che fare.
Ebbene il risultato di questo così minuzioso lavoro non può quindi essere altro che un concetto estremamente artificioso di Spirito, che può avere anche la sua validità all’interno dell’attuale dibattito filosofico-scientifico ma intanto non è detto affatto che sia né veridico né oggettivo. E qui vale decisamente l’opinione di Berdjaev, secondo la quale la filosofia tutto può essere tranne che rigorosamente scientifica.
In ogni caso comunque resta l’intendimento iniziale e di partenza (già in sé piuttosto restrittivo) secondo il quale lo Spirito equivarrebbe ad una realtà assolutamente empirico-scientifico-naturalistica come l’energia. E questo taglia ovviamente fuori dalla riflessione qualunque sua valenza trascendente ad ancor più autenticamente religiosa.
È vero che questo concetto ha una certa somiglianza con il concetto di Spirito pneumatico (che indubbiamente è una sorta di energia), ma è anche vero che non solo qui il Pneuma si presenta come una forza assolutamente impersonale (e quindi cieca, per cui impossibile da considerare divina) ma inoltre lo Spiritualismo che ne risulta non permette alcuna applicazione religiosa di tipo pratico. E questo lo discuteremo più a fondo nelle conclusioni.

Conclusioni.
Alla fine di questa indagine possiamo dire che si sono delineate piuttosto chiaramente diverse definizioni sia dello Spirito che dello Spiritualismo. Ed abbiamo visto che esse a volte finiscono per convergere con lo Spiritualismo steiniano mentre altre volte finiscono per divergere molto radicalmente da esso. Dato che la visione steiniana dello Spirito coincide in gran parte con quella dello Spiritualismo più convenzionale di tipo filosofico-gnoseologistico (ossia quella visione che meno si trova rappresentata entro lo Spiritualismo storico, e cioè quello di fatto più prossimo al Personalismo).
In ogni caso però abbiamo constatato che, laddove lo Spiritualismo è più estremo, la convergenza sussiste solo con quel secondo intendimento dello Spirito che Stein sostenne senz’altro, ma che sfortunatamente comparve nelle sue opere solo in maniera molto secondaria e molto poco assertiva. Si tratta dell’intendimento che coincide con il Pneuma, o anche Spirito pneumatico. Ancora più secondariamente si tratta poi di altre due forme di intendimento dello Spirito: − 1) quello proprio di una sorta di Spiritualismo dell’impregnazione divina del mondo corrispondente al concetto di “ontologia cristo-centrica” (simile a quello vedantico, nel quale si postula un’essenza divina situata nel profondo di tutte le cose); 2) quello proprio della visione che abbiamo definito come Spiritualismo «degli spiriti» (coincidente in gran parte con l’antica dottrina patristico-scolastica degli “spiriti puri”).
Posto questo abbiamo visto delinearsi con Berdjaev un intendimento dello Spirito che coincide interamente con l’Essere stesso colto nel suo dinamismo incessantemente creativo. E quest’ultimo è senz’altro uno Spiritualismo che intende convergere con una forte visione onto-dinamica dell’essere. Oltre a ciò abbiamo visto delinearsi nel suo pensiero ulteriori tendenze dello Spiritualismo moderno. Innanzitutto si è delineato uno Spiritualismo concreto assolutamente non trascendentista, entro il quale lo Spirito viene considerato unicamente interiore ed affatto esteriore, ossia tutt’altro che uno spirito oggettivo. Oltre a ciò abbiamo visto emergere uno Spiritualismo che diverge radicalmente da qualunque filosofia rigorosamente scientifica, avendo unicamente l’intenzione di porsi entro una filosofia dell’esistenza e dell’essere. Infine abbiamo visto emergere anche uno Spiritualismo da intendere come prassi umana nel mondo; e peraltro anche nel contesto di una prassi ispirata fortemente alla fede cristiana. Esso si presta quindi fortemente a fondare un’autentica esperienza religiosa, come del resto abbiamo sostenuto in alcuni nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (“Seiende”), Dialeghestai 24, 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Con Guardini abbiamo visto invece emergere in maniera chiara un intendimento dello Spirito che corrisponde esattamente a quello di Spirito pneumatico o Pneuma. Ed abbiamo visto che esso coincide sostanzialmente con lo Spirito nella sua più alta formulazione, ossia come Spirito divino o Logos. Ma oltre a ciò esso coincide con l’altissimo concetto metafisico-religioso di corporeità spirituale, e quindi non è in alcun modo rigorosamente trascendentista né dualista. Qui, in maniera assolutamente imperscrutabile, lo Spirito è quanto di meno ontico possa venire immaginato, eppure è corporale al massimo grado. In ogni caso si tratta di quell’onticità che, essendo totalmente interiore, permette allo Spirito di sottrarsi senza la minima difficoltà a tutte le necessità imposte dall’esteriorità (in particolare quella spazio-temporale).
E non vi è solo questo, dato che il dinamismo irrefrenabile di tale sostanza permette ad essa di occupare simultaneamente sconfinate distese di spazio (e connesso tempo) costituendo così sempre una simultanea Totalità di Essere. Ed è a causa di tutto questo che esso ha il potere di revocare qualunque Legge di Natura, ossia la necessità stessa. Questo Spiritualismo si è rivelato comunque anch’esso molto utile per fondare un’autentica esperienza religiosa – specie nel considerare lo Spirito divino (di fatto lo Spirito Santo) come la misteriosa forza che rende possibile l’impossibile; ed inoltre nel sottolineare l’assoluta necessità dell’umana «decisione per lo Spirito» come condizione indispensabile per innescare la forza rigenerante che è propria dello Spirito divino in quanto pneumatico.
Con Maine de Biran abbiamo poi visto emergere un concetto di Spirito che coincide sostanzialmente con tanto con l’Io razionale umano quanto con l’Io razionale divino. Ed esso quindi potrebbe venire ricondotto solo con molta difficoltà al concetto di Spirito pneumatico; specialmente perché assume forme tangibili perfino nel contesto di una riflessione sostanzialmente metafisica. Esso infatti, pur nella sua più alta formulazione, è sostanzialmente Ragione (sede della Verità) e Causa delle cause moventi l’essere (per mezzo della sostanza animica umana). Oltre a ciò in Maine de Biran lo Spirito si presenta come l’Io nella sua unità tendenzialmente isolata, e quindi come un’entità spirituale decisamente intellettuale, ossia come una sorta di Io puro. E questo rende attuale in lui una certa dose di «onto-intellettualismo», ma comunque assimilabile alla tipica presa di posizione filosofico-moderna, ossia in definitiva non poco idealista. Infine questo tipo di Io appare subordinato allo Spirito divino senza che esso abbia alcuna caratteristica pneumatica. Anzi esso è semmai la sede primaria della verità razionali, con la conseguenza di uno Spiritualismo ancora una volta decisamente filosofico-intellettualistico.
Con Mounier infine abbiamo visto affermato un concetto di Spirito che vuole essere espressamente corporale al solo scopo di presentarsi a livello unicamente immanente, pragmatico e mondano, e precisamente come azione umana. E qui dello Spirito divino ci sono davvero pochissime tracce se non nessuna. Per cui è assolutamente impossibile ricondurlo al concetto di Spirito pneumatico. Anzi sembrerebbe che di questo tipo di Spirito Mounier abbia avuto un’idea assolutamente deteriore in quanto astratto ed anti-mondano. In ogni caso, aldilà dell’intendimento azionista dello Spirito, si ritrova presso di lui anche un suo intendimento interiorista che lo approssima non poco allo Spiritualismo filosofico-convenzionale. Quello che è certo è che in Mounier si dissolve totalmente l’onticità dello Spirito, in modo tale che esso diviene appena una disposizione.
Naturalmente il classico Spiritualismo filosofico-gnoseologistico del moderno pensiero (secondo il quale lo Spirito coincide con la Ragione, la coscienza, l’interiorità e la mente, specie nella sua valenza prevalentemente conoscitiva) interseca tutte queste visioni – a volte solo per venire totalmente sconfessato (come in Berdjaev e Guardini), a volte invece per venire in parte confermato (come in Maine de Biran e Stein). L’unica eccezione al proposito è ancora una volta Mounier il quale Spiritualismo non sembra avere assolutamente nulla a che fare con questo intendimento. Diversamente stanno invece le cose per Stein, nel cui pensiero invece la presenza di questo moderno Spiritualismo di fondo è più che tangibile; con l’eccezione delle affermazioni divergenti da questo che (come abbiamo visto) comunque in esso si ritrovano.
Con Steinhart, in conclusione, si siamo trovati di fronte ad uno Spiritualismo totalmente equivalente alle Leggi della Natura. Ed inoltre abbiamo visto che l’assimilazione Spirito-Energia è qui di natura meramente analogica, e quindi non ha alcuna possibilità di cogliere l’autentica natura dello Spirito stesso.
Non a caso in esso il Pneuma (per quanto molto suggestivamente simile all’energia creante qui presupposta) perde qualunque caratteristica personalistico-religiosa, e quindi cessa definitivamente di equivalere per davvero a quello Spirito divino che è in primo luogo Persona. Ecco allora l’unico Spiritualismo da noi esaminato che non si intrecci con il Personalismo. Con ciò quindi lo Spiritualismo pneumatico perde ogni portata etica e religiosa, e pertanto non si presta più in alcun modo né a fondare un’esperienza religiosa né a fondare un’esperienza spirituale. In altre parole l’intero Spiritualismo perde in esso quella portata pratica che lo rende disponibile a fungere da guida e forza nel corso dell’esperienza umana.

In nessuno degli autori da noi esaminati abbiamo trovato invece traccia di un effettivo «onto-spiritualismo» (per intenderci quello di tradizione platonico-gnostica e vedantica) – tranne per alcune vaghe assonanze con esso in Berdjaev e Guardini. Al contrario l’ordinario Spiritualismo filosofico-gnoseologistico, che si rivela presente al fondo di tutte le visioni esaminate, può ben venire ricondotto ad un paradigma «onto-intellettualistico». Ciò significa allora che nel contesto del moderno Spiritualismo si può ben assumere che lo Spirito sia l’Intelletto stesso. Ma intanto non si può assolutamente assumere che esso sia invece la Realtà nella sua pienezza. Perfino nel così estremo Spiritualismo di Guardini lo Spirito, infatti, è altissimo (come vuole di fatto essere anche quello «onto-spiritualista») ma intanto configura una sostanza assolutamente sfuggente ed ineffabile che in alcun modo può corrispondere alla Realtà; nemmeno a quella più astratto-ideale.
L’intendimento dello Spirito come Realtà appartiene pertanto decisamente ad una tradizione estremamente antica nella quale sembra che si siano perse totalmente le tracce nella filosofia moderna. Tuttavia l’esame dell’articolo di Steinhart ci dimostra in qualche modo che quello che in filosofia era uscito dalla porta (a partire da Cartesio in poi) è successivamente rientrato dalla finestra per mezzo della scienza. Infatti l’attualissimo concetto di Spirito come energia cosmica creante è senz’altro riduzionistico e perfino materialistico, e tuttavia almeno adombra l’idea che lo Spirito sia la Realtà stessa non solo nella sua Totalità ma anche nella sua profondità. Ciononostante però (come abbiamo appena detto) questo concetto di Spirito è così distante da quello anche solo moderatamente religioso, che esso diviene assolutamente inservibile per lo scopo primario al quale dovrebbe attendere qualunque dottrina spiritualistica, e cioè quello di porre l’uomo in profonda (ed anche produttiva connessione) con quella Forza divina amorevole che tutto crea e tutto trasfigura.
Inoltre, sebbene molto di sfuggita, ha fatto sentire la sua presenza anche quell’estremamente originale Spiritualismo eckhartiano che poi è una forma intensissimamente metafisico-religiosa di «onto-intellettualismo». Con esso, ovviamente, il convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologico non ha assolutamente nulla a che fare.
Infine si è comunque delineato nel corso dell’indagine (sebbene solo sul suo sfondo) una sorta di Spiritualismo degli «spiriti», ossia delle entità spirituali più che dello Spirito. Ed abbiamo visto con Berdjaev quanto esso può essere deteriore in quanto non solo riduzionistico ma anche perfino superstizioso.
Tuttavia la riflessione su questo aspetto da parte di Stein, Conrad-Martius e Gerda Walther − che poi risale a sua volta alla riflessione di Tommaso d’Aquino, e per mezzo di lui anche ad un’antichissima tradizione che affonda le sue radici perfino nella metafisica religiosa pagana (specie in Giamblico e Porfirio), e che poi prese forma in ambito cristiano nei Padri greci Massimo il Confessore e Basilio – ci mostra che tale Spiritualismo non è affatto privo di fondamento in termini metafisico-religiosi. Sta di fatto però che esso è comparso però nella nostra indagine solo sullo sfondo, e quindi non si presta affatto a rappresentare il moderno Spiritualismo.

Il bilancio netto di questa indagine, dunque – dato che essa ha avuto fin dall’inizio davanti a sé lo Spiritualismo steiniano come principale oggetto −, è che quest’ultima visione si presenta a noi in una forma davvero curiosamente sdoppiata. Infatti da un lato essa equivale perfettamente (e peraltro per una larga parte del pensiero steiniano) al più ordinario e convenzionale (ed in fondo anche sterile, specie religiosamente) Spiritualismo, e cioè quello filosofico-gnoseologistico. Mentre dall’altro lato esso equivale almeno tendenzialmente allo Spiritualismo più estremo, ardito ed anche più religiosamente produttivo, ossia quello che presuppone uno Spirito pneumatico. E questo è senz’altro quello di Guardini, che pertanto svetta in questa indagine esattamente come il suo Personalismo ha finito per svettare nella nostra indagine su questa visione. Oltre a ciò abbiamo anche visto che lo stesso così rigorosamente filosofico concetto di “spirito oggettivo” (che a sua volta corrispondeva fortemente alla ricerca fenomenologica sulle essenze cosali mondane in quanto «fenomeni») ha subito in Stein un’evoluzione che alla fine è approdata a quella “ontologia cristo-centrica” che addirittura converge con diversi aspetti dello Spiritualismo pneumatico – specie con l’idea che il mondo sia impregnato del divino e rappresenta quindi lo stesso Corpo Mistico di Cristo in quanto Spirito disceso nel mondo stesso. Ed infine abbiamo visto anche che la pensatrice impiegò addirittura lo stesso Spiritualismo «degli spiriti» nel contesto delle sue più pregiate riflessioni filosofiche. Laddove abbiamo visto che quest’ultimo non gioca però alcun ruolo nel moderno Spiritualismo storico.
Ebbene questo complessivo fenomeno rappresenta un qualcosa che continua a stupirci fin da quando abbiamo iniziato a studiare il pensiero steiniano. Per esso infatti ancora non siamo riusciti a trovare una plausibile spiegazione. L’unica spiegazione che pertanto ci sovviene è che la pensatrice deve essersi sentita in qualche modo obbligata (prima dal rigorismo razionalista filosofico hussserliano e poi da quello onto-metafisico e teologico tomista) a mantenere in secondo piano (se non nascosto) questo suo secondo Spiritualismo. Esso infatti era troppo fortemente in odore di spregevole irrazionalismo.
Non a caso, infatti, esso cominciò ad emergere solo verso la fine della seconda parte di EES, ossia in un momento della riflessione steiniana nel quale ella si era liberata definitivamente sia di Husserl che di Tommaso abbracciando invece la metafisica filosofico-teologica di Agostino ed anche dello stesso Paolo.
E sempre non a caso questo momento della sua riflessione precedette di pochissimo quel suo passaggio definitivo alla mistica che segnò poi la sua fuoriuscita quasi completa dalla filosofia. Il che significa che molto probabilmente il suo secondo Spiritualismo avrebbe potuto emergere in questa fase nel caso ella si fosse di nuovo dedicata alla filosofia. Ma ciò non avvenne sia perché ella si dedicò completamente ad opere mistico-pietistiche (che furono poi in gran parte una rilettura dei due grandi mistici, Teresa d’Avila e Juan de la Cruz), sia perché la morte precoce spezzò la sua vita e la sua opera. Fa eccezione a questo forse solo la sua opera dedicata da Dionigi l’Areopagita, ossia “Wege der Gotteserkenntnis” (WGE). In essa infatti si potrebbero forse trovare degli elementi per una concezione spiritualistica diversa da quella antecedente. Ed in effetti nella nostra riflessione su questa opera (vedi nota 3) abbiamo anche trovato tracce di questo aspetto specie nei termini di una visione metafisico-religiosa mistico-contemplativa, apofatica e dai toni molto suggestivamente neoplatonici. Tuttavia il tema di questa opera (che incluse una traduzione del testo di Dionigi ed inoltre un commento ad esso) fu la conoscenza di Dio ed affatto invece il concetto di Spirito. È evidente tuttavia che ella dovette avere ben presente che l’oggetto di tale conoscenza era nient’altro che lo Spirito divino.
Ciò non la indusse però a tematizzare specificamente questo aspetto.

In estrema conclusione quindi possiamo dire che da questa indagine sono emersi due sostanziali elementi.
Il primo elemento è il presentarsi del moderno Spiritualismo in alcune sue forme prevalenti: − 1) quello solo molto vagamente «onto-spiritualista» di Berdjaev, che però si sofferma soprattutto sul dinamismo creativo dello Spirito in quanto Essere non invece sulla sua possibile valenza di autentica realtà trascendente; 2) quello decisamente pneumatico di Guardini nel quale svanisce ogni possibile forma di «onto-spiritualismo», dato che lo Spirito si presenta come una sostanza estremamente sottile ed integralmente divina; che poi si offre esplicitamente a noi come forza di spinta sia nell’esistenza in generale sia anche nell’esistenza illuminata dalla fede cristiana; 3) quello di Maine de Biran, che, nonostante le sue venature religiose ed etico-emozionali-sociali, corrisponde in grandi linee al convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico; sebbene (in concordanza con Mounier) esso abbia una certa valenza etico-azionistica;
4) quello di Mounier, che si presenta decisamente come uno Spiritualismo immanentistico, mondanistico e perfino materialistico, entro il quale lo Spirito non è da intendere in altro modo se non come un vitalismo dell’azione umana; e naturalmente questo Spiritualismo è molto affine a quello di Blondel e Bergson.
Ebbene, sintetizzando ora ulteriormente queste varie forme dello Spiritualismo storico (sicuramente non «onto-spiritualista»), sembrano delinearsi due principali sue forme: − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista ed altissimamente metafisico-religioso) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista se non «onto-intellettualista»). Appare dunque evidente che lo Spiritualismo storico ebbe due anime molto diverse tra di loro. E la dirimente tra di esse sembra sia stata la decisione di rivolgersi o meno alla più tradizionale concezione metafisica e metafisico-religiosa dello Spirito.
Naturalmente sullo sfondo di tutti questi Spiritualismi ha rivelato la sua presenza quello più convenzionale filosofico-gnoseologistico, che però non sembra essere stato fatto totalmente proprio da nessuno dei pensatori da noi presi in considerazione. Fanno eccezione a questo solo Stein e forse in parte Maine de Biran. Sebbene, rispetto a Stein, tale costatazione venga notevolmente ridotta nella sua portata dall’evidenza nel suo pensiero di una sorta di inspiegabile secondo Spiritualismo di segno totalmente opposto. Quel che è certo è che, a fronte di uno Spiritualismo convenzionale di fatto dormiente nell’intera filosofia moderna (tanto che esso nemmeno questa denominazione porta), lo Spiritualismo autentico (ossia quello storico, volontario e consapevole di sé stesso) si rivela essere tutto non convenzionale.
Questo comunque può essere considerato lo scenario dello Spiritualismo moderno così come si è presentato in una serie di pensatori che hanno operato (in stretto parallelismo con il Personalismo) tra il XVIII ed il XX secolo, ma con sviluppi ulteriori che arrivano fino ai giorni nostri.
In ogni caso vorremmo sottolineare che, nell’osservare questo complessivo scenario, non dovremmo dimenticare che lo Spiritualismo non ha soltanto un’importanza puramente storico-filosofica o anche puramente metafisico-filosofica, ma ha invece anche un’importanza religiosa; sebbene nel senso più ampio del termine. Intendiamo con ciò un impiego del termine «religioso» che equivale quasi integralmente al termine «spirituale». Quindi (come abbiamo più volte sottolineato) tale visione dovrebbe venire presa in considerazione anche allo scopo di individuare in essa le forme che ci permettono di impiegare lo Spiritualismo nel corso della nostra esistenza, e specialmente nel caso che abbiamo intenzione di spenderla nel contesto di un’esperienza religioso-spirituale che sia il centro della nostra intera vita. Abbiamo visto infatti che la concezione più integrale dello Spirito, quella pneumatica (ossia quella più fede alla natura più propria dello Spirito stesso, in quanto sostanza onticamente inafferrabile e estremamente dinamica), ci offre la possibilità di attingere continuamente alle stesse fonti più profonde dell’essere nel mentre intanto ogni giorno siamo impegnati a confrontarci con l’essere concreto nella sua maggiore deteriorità, ossia la sua impenetrabile e dura solidità. Questo non è altro che quell’essere esteriore che noi cogliamo nella sua spietata indifferenza (e spesso perfino malvagità) in quanto dominato dalle ferree Leggi della Natura – le più spietate delle quali sono quelle della inflessibile concatenazione tra causa ed effetto (che punisce i nostri errori nel modo più duro possibile) e quella dell’istinto di sopravvivenza nel suo più pieno trionfo, ossia la legge del più forte. Ed è un’esperienza questa che molto spesso − in assenza del soccorso dello Spirito (cioè del Dio stesso che è invisibilmente presente nel mondo) − può molto facilmente piegarci, schiacciarci ed annientarci; ossia strapparci alla nostra stessa natura spirituale. Questo significa allora che lo Spirito nella sua più alta, piena e propria concezione è quello che più autenticamente è presente nel mondo. Ossia è quello che più realmente si offre noi, ci accoglie, ci sostiene e ci accompagna. E lo fa quindi con quella “leggerezza” che è solo della Grazia, della quale parla lo stesso Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339.].
Ebbene per tutto questo decisamente lo Spiritualismo di Guardini si offre a noi come quello che è più utile a questo scopo. Purtroppo però non possiamo dire lo stesso dello Spiritualismo di Stein, a meno che non scegliamo di prendere in considerazione solo quello che fu meno apparente nella sua opera. E probabilmente è proprio questo ciò che bisogna fare per rendere onore alla sua riflessione.

1- Introduzione
Questo scritto vuole essere il sunto del saggio sul Personalismo, che ho recentemente ultimato e che spero di riuscire a pubblicare quanto prima.
Intanto però vorrei offrire qui una sintesi dei risultati ai quali mi ha portato la riflessione condotta sulla base dell’analisi testuale delle opere dei vari pensatori personalisti che ho preso in considerazione.
In ogni caso, comunque, questo saggio ha avuto come centri orbitali dell’intera riflessione il pensiero di Edith Stein e quello di Nikolaj Berdjaev, ossia due tra i maggiori pensatori personalisti del XX secolo.
Al confronto tra i loro due pensieri ho dedicato recentemente alcune riflessioni [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende”), Dialeghestai 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >].
Ho però voluto tentare sia un confronto tra questi due personalismi sia anche un confronto al largo raggio tra di essi e l’universo personalista nella sua interezza; da quello più antico (Maine de Biran) a quello più recente (Ricoeur). Il mio criterio di scelta circa pensatori da includere è stato però quello di trattare soltanto di quelli dei quali possiedo sufficienti letture, escludendo quelli dei quali non le possiedo. E l’effetto di ciò è stata una notevole restrizione del raggio di quello che è il vero universo personalista. Il quale è ben più ampio dello spazio occupato dai pensatori che ho trattato e perfino più ampio anche di quello dei pensatori che tra poco elencherò, e che contano tra i maggiori esponenti del personalismo.
Elencherò dunque ora i nomi di coloro che contano come i maggiori pensatori personalisti nel contesto di un arco di tempo che va dal XIX al XX secolo (ed anche oltre), ma comunque si concentra in particolare nel XX secolo, e precisamente tra gli anni ’30 e ’50. Eccoli: − Edith Stein, Jacques Maritain, Paul Ricoeur, Nikolaj Berdjaev, Gertrud von Le Fort, Karl Jaspers, Max Scheler, Søren Kirkegaard, Charles Renouvier, Charles Peguy, Emmanuel Mounier, Charles Secrétan, Félix Ravaisson, René Le Senne, Louis Lavelle, Gabriel Marcel, Lucien Laberthonnière, Romano Guardini, León Bloy, Michele Federico Sciacca. A questi nomi primari aggiungerò comunque ora anche altri nomi di pensatori o intellettuali che o non rientrano nel periodo d’oro del Personalismo (e dalla sua specifica atmosfera culturale) oppure provengono da aree diverse dalla classica filosofia personalista (filosofia analitica, poesia, psicologia, sociologia): − Fëdor Dostoevskij, Giacomo Leopardi, Wolfgang Goethe, Victor Hugo, Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson (attuale filosofo analitico), Nikolai Hartmann (filosofo eclettico di origini neokantiane e con forti interessi metafisici), William Stern (psicologo). Probabilmente (almeno per alcune loro riflessioni) rientrano comunque nell’universo personalista anche Hans Jonas ed Hannah Arendt. Un cenno a parte va fatto per Dostoevskij e Leopardi, che consideriamo sostanzialmente dei filosofi-poeti ed ai quali ho dedicato un largo spazio come pensatori personalisti.
Quanto poi a Leopardi nel passato lo avevo letto come pensatore esistenzialista ed in questo lo avevo associato anche a Fernando Pessoa [Vincenzo Nuzzo, “Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi” < Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi. | cielo e terra (wordpress.com)>; Vincenzo Nuzzo, I dialoghi di giorni senza fine e l’universale Biblioteca ‒ il sogno di Heidegger < I dialoghi di giorni senza fine e la Biblioteca universale ‒ il sogno di Heidegger | cielo e terra (wordpress.com) >].
Va anche ricordato che, grazie a Mounier (insieme a Le Senne e Lavelle) la famosissima rivista francese “Esprit” fu di fatto il nucleo e l’anima di quel Personalismo nel quale peraltro la scuola francese è assolutamente preponderante. Il che ci mostra anche quanto fortemente intrecciati siano stati Personalismo e Spiritualismo. Infine c’è una certa discordanza circa il pensatore che va considerato il precursore del Personalismo. Alcuni lo vedono in Maine de Biran (il cui pensiero si sviluppo tra XVIII e XIX secolo, immediatamente a ridosso della Rivoluzione Francese e poi anche della Restaurazione) ed altri (tra i quali Mounier) lo vedono invece in Renouvier (filosofo neo-criticista che visse ed operò nel corso dell’intero secolo XIX).
Devo infine anche doverosamente precisare che i saggi sul Personalismo certamente non mancano e che quindi questa corrente di pensiero conta già degli studiosi molto importanti, tra i quali il Prof. Danese [Armando Rigobello, Introduzione ad una Logica del Personalismo, Liviana, Padova 1958; Attilio Danese, Il problema antropologico. Il personalismo di Emmanuel Mounier, Ladolfi, Borgomanero (NO) 2012].

Ora prima di entrare nel merito del sunto del contenuto del mio saggio, vorrei proporre al lettore una sorta di generica classificazione del Personalismo, sebbene Mounier e Ricoeur ne abbiano proposte anche altre.
Eccola: − 1) personalismo in gran parte metafisico-religioso (quasi interamente cristiano) incentrato sull’uomo come essenza o sostanza, e quindi ontologico (Maritain, Stein, Berdjaev, Le Fort, Sciacca, Guardini, Scheler, Maine de Biran, Guardini, Bloy, Le Fort); 2) personalismo specificamente spiritualistico (Stein, Berdjaev, Sciacca, Guardini, Maine de Biran); 3) personalismo totalmente o parzialmente laico e filosofico-politico incentrato sulla relazionalità, sulla socialità e sui valori (Mounier, Scheler); 4) personalismo esistenzialista (Kirkegaard, Marcel, Leopardi, Jaspers); 5) personalismo metafisico-filosofico ma interamente laico incentrato sul fondamentale psichismo umano (Jaspers); 6) personalismo naturalistico e psicologico, incentrato sulla persona come attitudine relazione ed azione, ma non come sostanza (Ricoeur, Mounier, Scheler). Come si può facilmente vedere, diversi pensatori si lasciano difficilmente inquadrare in una sola forma della complessiva visione e quindi devono venire presi in considerazioni contemporaneamente in diverse delle sue forme.
Infine vorrei fornire qui un elenco dei principali testi ai quali mi sono ispirato nel dare forma al Personalismo in generale, dato che nell’esposizione che seguirà non potrà fornire delle voci bibliografiche precise rispetto alle idee espresse dai diversi pensatori. Per questo devo rinviare il lettore al testo del saggio, che però, come ho detto, non è stato ancora pubblicato. In ogni caso ulteriori voci bibliografiche (più secondarie) verranno da me fornite nel corso dell’esposizione. Ecco dunque le opere, che contrassegnerò anche con le sigle per mezzo delle quali le richiamerò nel corso dell’esposizione: −

1) Arendt Hannah, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010 (RG)
2) Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951 (DIWO)
3) Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018 (SC)
4) Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002 (CD)
5) León Bloy, Esegesi dei luoghi comuni, Paoline Roma 1961 (ELC)
6) León Bloy, Il sangue del povero, Paoline, Milano 1962 (SP)
7) León Bloy, L’anima di Napoleone, Paoline, Milano 1962 (AN)
8) Rolando Damiani (a cura di), Leopardi. Poesie e Prose, Mondadori 1996
9) Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Maria Amata Neyer, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA
3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015.
10) Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald &
Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988 (WP)
11) Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016 (DH)
12) Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008 (DT)
13) Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971 (PE)
14) Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956 (PM).
15) Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Forgotten Books, London 2018 (PDW).
16) Hans Jonas, Il principio responsabilità. Einaudi Torino 1993 (PR)
17) Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014 (BTEE)
18) Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione,
Bibliotheca, Gaeta 1998
19) Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti)
20) Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2015
21) Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018
22) Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Elibron Classics 2007 (DFE)
23) Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988
24) Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001 (DAMP)
25) Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006 (EES)
26) Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch
einer Gegenüberstellung“, in: Husserl zum 70. Geburtstag, N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-
338
27) Edith Stein, Geistliche Texte I, ESGA 19, Herder, Freiburg Basel Wien 2009.
28) Edith Stein, Geistliche Texte II, ESGA 20, Herder, Freiburg Basel Wien 2007 Basel Wien 2007.
29) Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Citta Nuova, Roma 1998
30) Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.
31) Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003 (PA)
32) Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996
33) Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934

Prima di procedere nella lettura vorrei avvertire che il testo che segue compare nel saggio come una sorta di bilancio finale di tutto il materiale raccolto. E quindi molte sue affermazioni vanno considerate necessarie in relazione a questo scopo.

2- Riassunto del saggio
Il saggio ha offerto al lettore uno scenario piuttosto ampio del personalismo, sebbene esso non può pretendere assolutamente di includere tutti i pensatori rientranti in questa visione (nel contesto di un vero e proprio Trattato sul Personalismo), specie quelli più attuali ed inoltre quelli più lontani da una visione personalista di tipo metafisico-religioso. Diciamo che, con ciò che ho esposto, il lettore può essersi fatta un’idea abbastanza ampia e profonda del concetto di persona così com’è stato concepito nel Personalismo in generale, ed inoltre può essersi fatto un’idea abbastanza ampia e profonda di quali sono state e sono le varie forme di personalismo che sono insorte già a partire dal secolo XVIII fino ad oggi. Oltre a ciò ho comunque chiarito a sufficienza che il Personalismo non può in alcun modo venire considerato un fenomeno unicamente moderno, dato che esso ha alle spalle una tradizione millenaria che affonda le sue radici addirittura nella filosofia sapienziale e religiosa dei templi egizi e caldei. E peraltro più avanti vedremo che (nonostante le idee contrarie rispetto a questo di Berdjaev, Ricoeur e Mounier) si ritrovano elementi personalistici perfino in Platone. Inoltre ho anche fornito più volte strumenti per l’orientamento entro questo così vasto scenario di concezioni, nel senso della sua classificazione in forme diverse, ognuna della quale raccoglie in sé un certo numero di specifiche visioni e relativi pensatori.
Tuttavia, nel dover discutere ed ancor più comparare la visione personalista di diversi pensatori, il mio discorso è dovuto essere necessariamente molto oscillante. E mi sembra quindi che ciò esiga una nuova sintesi chiarificatoria e disambiguante (sia dei caratteri della persona sia anche dei caratteri del personalismo) – che segue a quella preliminare, ma ormai sulla base di una vasta analisi testuale e dottrinaria.
Quello che però ora mi sembra necessario è rivedere questo intero materiale per due scopi: − 1) ottenere una sorta di sintesi della dottrina della persona (e della relativa visione personalista) nei suoi tratti principali; 2) ottenere una classificazione molto generale del Personalismo diversa (in quanto più generale ed essenziale) da quelle già proposte che ci permetta di vederne le sue più grandi e principali direttrici.
Devo però ribadire che questa mia trattazione del Personalismo resta comunque incentrata su Nikolaj Berdjaev ed inoltre sul confronto della sua visione con quella di Edith Stein. Questo insomma è restato costantemente il punto focale della mia indagine. Abbiamo visto più volte che la prima visione (quella di Berdjaev) è forse davvero la più profonda, completa e profondamente ispirata moderna dottrina della persona. Abbiamo però anche visto che essa è tutt’altro che perfetta, e quindi finisce per apparire insufficiente al cospetto di non poche dottrine della persona ed anche di specifici aspetti di essa.
Quanto a Stein abbiamo constatato l’esatto contrario. Al cospetto della dottrina personalista di Berdjaev quella steinana è apparsa costantemente insufficiente in primo luogo in quanto condizionata troppo fortemente tanto dallo gnoseologismo filosofico ed intellettualistico (che le proveniva di Husserl) quanto anche da quella dogmatica (metafisico-teologica) cristiana la quale (non avendo fino in fondo il coraggio di credere davvero nel mistero dell’Incarnazione) non era riuscita a concepire in maniera realmente integrale la pienezza e dignità della persona in quanto sostanziale umano-divinità. E specialmente, al cospetto di Guardini, abbiamo constatato quanto la causa di tale insufficienza sia consistita nel pesante condizionamento filosofico del pensiero steiniano, che sta oggettivamente in conflitto con le radici sostanzialmente teologiche del concetto di persona. Il che poi in particolare mette allo scoperto l’insufficienza dello spiritualismo steiniano (sostanzialmente a causa della natura sostanzialmente intellettualistica) in quanto del tutto impari rispetto a quello che sostiene il più autentico Personalismo.
Nello stesso tempo però abbiamo visto più volte che la visione personalistica steiniana riesce comunque a sottrarsi in diversi aspetti a quella insufficienza che emerge nel suo confronto con Berdjaev, riconfermandosi così come uno dei più grandi personalismi che mai siano apparsi nel mondo del pensiero.
Insomma qui posso finalmente riconfermare che è stato questo il centro orbitale intorno al quale si è mossa la mia intera trattazione del Personalismo.
Detto questo non posso in alcun modo negare (pur con tutte le relativizzazioni di questa tesi nella quale mi sono imbattuto) di ritenere che la più autentica e primaria visione personalista sia quella che considera la persona come un’entità ontologica e sostanziale, e quindi anche metafisico-religiosa. Il che implica poi che la persona umana è da considerare invariabilmente come la stessa «anima» in quanto sostanza onto-metafisica. A ciò vi è però da aggiungere che tale animicità dell’uomo personale deve necessariamente venire ricondotta alla sua (ben più profonda e fondamentale) onticità spirituale.

2-1 La dottrina della persona in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» della persona sulla base dell’esame del pensiero personalista.
Credo che sia utile qui distinguere i caratteri ontologico-basici della persona in due gradi e cioè quelli più fondamentali e quelli meno fondamentali.
I primi caratteri sono i seguenti: − non-cosalità o trascendenza, sostanzialità animico-spirituale (specialmente spirituale), umano-divinità, concretezza reale, umanità (relazione di possibile coincidenza ontologica tra persona ed uomo), relazionalità, connessione (o meno) con Io, individuo e finito, identità, unità ed unicità.
I secondi caratteri sono i seguenti: − dignità, creatività (unita tendenzialmente alla potenza), azione (specialmente di tipo morale), capacità di responsabilità e scelta, disposizione all’amore, libertà, tendenza alla comunionalità, tendenza ad un’azione trasfigurante e perfino rivoluzionaria.
Per questo motivo tratterò del tema della persona in due diverse sotto-sezioni.

2-1.1 I caratteri più fondamentali della persona.
La persona in primo luogo non è in alcun modo una cosa del mondo. E questo viene affermato praticamente da tutti i pensatori personalisti. Naturalmente ciò comporta uno dei caratteri ontologici più fondamentali della persona stessa, che è la trascendenza. E di questo carattere non mette conto qui nemmeno parlare, dato che, rispetto ad esso, nel mio saggio non sono emerse né problematicità né contraddizioni. Infatti appunto tutti i pensatori personalisti lo mettono in evidenza senza grandi differenze. In altre parole per tutti i pensatori personalisti (tranne forse per Ricoeur) la persona è in pieno possesso di una trascendenza che fa di essa un’entità decisamente metafisica (qualunque sia la letteralità, il grado e l’intensità che si voglia poi attribuire a questo concetto). L’unica discrepanza a tale riguardo potrebbe consistere nella radicale originarietà ontologica che Berdjaev attribuisce alla persona e quindi anche alla sua trascendenza. Ma di questo parleremo tra poco.
Tale trascendenza non impedisce affatto, però, che la persona sia estremamente concreta e perfino carnale, dunque almeno in una certa misura mondana. Essa insomma non è affatto né un’idea, né una vuota entità logico-astratta né un puro spirito (sebbene sul piano metafisico assomigli molto ai puri spiriti). E questo perché essa è presenza nel mondo ed anche azione in esso. In particolare è azione creativa nel senso della partecipazione alla creazione (nella forma soprattutto di sua continuazione) e specialmente della trasfigurazione in senso spirituale del mondo. Questo è da considerare il principale effetto della presenza di una piena persona nel mondo. A questo c’è però da aggiungere che (specie sulla base di Mounier) tale presenza è da considerare qualcosa che è senz’altro in via di principio attuale, ma lo è intanto solo condizionatamente alla decisione presa in tal senso dai singoli uomini ed anche dall’intera società e relativa cultura. In altre parole per il pensatore francese non basta affatto lo status previo ed originario di sostanza metafisica che caratterizza la persona. Essa invece deve ancora farsi come tale nell’azione, cioè deve diventare persona nell’agire (e per sua espressa decisione). Altrimenti resta una mera latenza.
Tuttavia questo non cambia nulla nell’ontologia fondamentale della persona. Infatti, come ho detto già in partenza nell’introduzione a questa sezione, la non-cosalità della persona implica necessariamente che essa è una sostanza onto-metafisica trascendente, e quindi è anima e spirito. Motivo per cui non vi è assolutamente nulla che possa dissolverla onticamente, e quindi nemmeno la morte stessa. Ecco perché la persona è immortale per definizione, ovvero è una sostanza che trascende decisamente il divenire temporale persistendo infinitamente. Il che implica poi necessariamente che essa trascende decisamente la Natura e tutto ciò che è naturale. Proprio per questo motivo, come poi vedremo più approfonditamente, essa non è affatto né individuo, né Io, né coscienza né psiche né uomo in carne ed ossa, né ente animale, né infine un mero ente finito. È invece sempre molto più di questo.
Altro aspetto primario e fondamentale della persona è la sua umano-divinità, ossia la sua somiglianza totale alla Persona divina in quanto Gesù Cristo, Figlio e Logos. E questo è senz’altro quel Dio incarnato il quale, nel suo immenso amore, ha voluto abbassarsi alla natura umana fino a porsi come l’Uomo Cosmico o anche Uomo Prototipico (supremo e nuovo Adamo, o nuovo Primo Uomo, “Adam Kadmon”, “Macroanhtropos” o “Pananthropos”), che è non solo il nucleo e modello divino-spirituale della persona umana ma è anche quel Corpo Mistico entro il quale viene a compimento una delle principali attitudini e disposizioni della persona. Si tratta dell’attitudine della persona ad essere tale in primo luogo nel divenirlo per mezzo dell’«altro» uomo, una volta riconosciuto anch’esso come persona (e non come mero oggetto).
E si tratta quindi della dimensione ontologica primariamente relazionale della persona – in quanto “Io” che non solo sta in relazione con il “Tu” ma che inoltre solo in questo modo giunge al proprio compimento di piena persona. Il che riproduce peraltro perfino la relazione che esiste tra Dio ed il mondo nel Suo creare quest’ultimo sostanzialmente come un mondo alieno («altro») del quale Egli rispetta l’esistenza fino al punto di retrocedere al suo cospetto rinunciando in tal modo alla propria soverchiante Potenza, Perfezione e Santità.
Nello stesso tempo ciò ci indica che questa è una delle principali vie per mezzo delle quali la persona diviene per davvero ciò che è in forza della sua scelta e della sua decisione. Questa è infatti senz’altro la via della dimensione relazionale della persona intesa in termini sostanzialmente metafisico-religiosi e teologici.
Ma (come ci dimostra il pensiero di Mounier) ciò ha un preciso corrispettivo entro la dimensione più pragmatica, mondana e sociale della relazionalità – anche in quest’ultima infatti la persona deve fare una precisa scelta in assenza della quale essa perde la possibilità di essere ciò che è ed in tal modo ricade in quella realtà individuale che è unicamente egocentrica.
In ogni caso tutto ciò sottolinea che gli elementi ontologico-basici più primari della persona (non-cosa e sostanza, umano-divinità) fanno di essa un qualcosa che può e deve venire concepito in primo luogo in termini non solo onto-metafisici ma anche metafisico-religiosi. E questo rende naturalmente assolutamente primario il personalismo cristiano.
Da tutto ciò discende inevitabilmente che la persona non è altro che l’uomo colto nella pienezza della sua inalienabile dignità. Ma di questo aspetto parleremo solo dopo aver chiarito alcuni altri estremamente fondamentali aspetti ontologici della persona.
Innanzitutto il fatto che la persona sia concreta e reale (e quindi né un’Idea, né una vuota entità logico-astratta né tanto meno un puro spirito) implica che essa sia umana e quindi coincida necessariamente con la realtà ontologica dell’«uomo». Ebbene questo Berdjaev lo dice in una maniera così diretta, radicale ed esplicita che davvero non si può trovare un altro pensatore personalista che faccia lo stesso. Egli fu insomma personalista quasi totalmente sulla base di un fortissimo accento posto sul recupero di un’esplicita e centrale antropologia. Anzi per lui il Personalismo è la stessa filosofia colta nella sua irrevocabile vocazione antropologica, ossia come scienza dell’uomo. Cosa che indubbiamente era venuta a mancare in filosofia da quando la preoccupazione critico-gnoseologica (certamente da Kant) in poi aveva spiazzato perfino quell’antropologia che senz’altro si ritrova ancora perfino in Cartesio nonostante la sua forte relativizzazione dell’ontologia (che a sua volta sostiene il concetto di persona come sostanza onto-metafisica e metafisico-religiosamente concepita).
Non vi è dubbio intanto che Stein (sebbene con toni molto meno accesi) segue a ruota Berdjaev in questa sua identificazione strettissima tra «persona» ed «uomo», e quindi nella sua affermazione della necessità di ricostruire un’esplicita antropologia. Inoltre vi sono motivi sufficienti per ritenere che (sebbene in misura minore) ciò valga anche per altri pensatori da noi direttamente discussi – Maritain, Guardini, Jaspers, Scheler, Bloy, Le Fort, Dostoevskij, Leopardi e Maine de Biran. Per Mounier ci permettiamo di nutrire però dei dubbi dato che la sua concezione della persona è largamente relativa all’azione ed alla dimensione sociale. Tuttavia non vi è dubbio che nel suo pensiero si ritrovino certamente elementi antropologici.
Il problema è però se per davvero la persona equivalga onticamente così direttamente all’uomo (come sostiene Berdjaev), dato che tale stretta equivalenza riposa sulla pari equivalenza della persona e dell’uomo all’essere stesso. Ed a tale riguardo sono emersi nella mia trattazione degli elementi di forte dubbio.
Va detto comunque che questo tema è inscindibilmente connesso con quello dell’attribuzione alla persona del carattere dell’umano-divinità ed inoltre quello dell’onticità spirituale (equivalenza tra uomo e spirito). Essa è inoltre connessa anche con il tema dell’attribuzione all’uomo della stessa originarietà che compete all’essere.
Orbene un po’ dappertutto nella mia trattazione (non solo commentando Berdjaev) è emerso che la persona deve necessariamente coincidere con l’uomo a causa dell’unità (a sua volta intimamente connessa all’unicità) che nella sua vera integralità è solo di quest’ultimo. E la persona è appunto quanto di massimamente unitario possa mai venire concepito. Tanto è vero che essa esprime in pieno l’unicità che caratterizza ogni singolo uomo. Ma ultimamente sono insorte diverse concezioni riduzionistiche (alcune delle quali perfino teosofiche e vagamente spiritualiste, e tra le quali anche l’induismo e soprattutto il buddhismo nelle loro versioni occidentali) le quali, nel negare l’unità dell’uomo, negano necessariamente anche la sua equivalenza alla persona. La quale quindi in una certa misura deve invece venire accettata quasi come un dogma. Lo stesso Berdjaev menziona criticamente una serie di moderne visioni teosofiche che di fatto annientano la persona proprio nello scomporre l’uomo in una realtà naturale-elementare affatto unitaria (ed include in queste visioni anche diverse dottrine orientali decisamente anti-personaliste). Nel contesto del mio discorso è emerso con chiarezza (specie sulla base di Guardini) che lo stesso riduzionismo va attribuito alla moderna teoria della “Gestalt” – che da tempo spadroneggia in biologia, psicologia, sociologia e filosofia. In essa infatti si tende a sostenere che potrebbe essere una realtà personale anche un semplice Tutto perfettamente integrato nelle sue parti – laddove invece questo è vero anche per enti unitari del tutto inanimati come ad esempio i cristalli. Stein intanto ha riaffermato la necessità di un’antropologia proprio nel difendere l’unità dell’uomo contro varie dottrine moderne (la dottrina evoluzionistica di Darwin, la psicanalisi freudiana e perfino l’esistenzialismo nichilista di Heidegger).
Esistono comunque anche gli argomenti contro l’affermazione di questa così stretta equivalenza tra persona ed uomo. Uno di questo riguarda proprio l’attribuzione all’uomo della natura personale in quanto spirito per eccellenza. Abbiamo udito infatti Guardini sottolineare che vi è un’onticità para-spirituale del tutto indifferenziata ed elementare che non è affatto umana, dato che essa non ha nulla a che fare con l’azione libera e quindi con la scelta responsabile. E questa corrisponde esattamente alla “Gestalt” in quanto mera sagoma individuale (perfettamente circoscritta) che racchiude una totalità perfettamente integrata nelle sue parti, ma intanto non vitale, non cosciente e non libera. La scelta responsabile, infatti, è solo dello “spirito individuale” che poi è esattamente l’uomo in quanto persona. E solo questo è il vero spirito in quanto uomo e persona. Pertanto su questa base bisogna dire che (diversamente da quanto sostiene Berdjaev) l’equivalenza tra persona ed uomo non è affatto originaria, in quanto essa emerge per davvero soltanto nel contesto dell’azione umano-personale, e quindi è del tutto relativa a quest’ultima (e forse anche totalmente storica). Ben altra cosa invece è dire che la persona è uomo in maniera radicalmente originale e quindi assoluta, dato che uomo ed essere sarebbero esattamente la stessa cosa. Abbiamo peraltro visto in questo contesto che la stessa Stein, nel sostenere come Berdjaev (ma non con lo stesso radicalismo) l’equivalenza tra persona e uomo, non ha nemmeno lei posto mai l’accento su questo concetto di “individualità spirituale” (almeno non con la stessa forza di Guardini).
Ma forse l’argomento più forte contro Berdjaev si ritrova in Mounier, nel contesto del cui pensiero addirittura vi è un momento in cui persona e uomo appaiono ontologicamente del tutto slegati tra loro.
E questo peraltro ci rinvia all’accento posto da Maritain e Guardini sulla persona umana in quanto sostanziale “lui” o anche “chi?” (invece che mero “cosa?”) – e cioè un oggetto che in verità è sempre in primo luogo un soggetto, ed in particolare grazie all’essere oggetto dell’eterna conoscenza amorosa di Dio (è la persona umana come quel “colui” del quale solo Dio conosce il vero “nome”). Mounier dice infatti che persona non è affatto l’uomo. Semmai invece essa è l’uomo che osserva sé stesso scoprendo così di non essere un mero oggetto, ossia un mero e del tutto casuale “un”, ma è invece un “lui”.
Ebbene una simile affermazione si ritrova di fatto in tutti i pensatori personalisti, incluso anche Berdjaev. Tuttavia (come abbiamo prima constatato in Guardini) essa (nella forma specifica in cui è formulata) ci mostra che l’equivalenza tra persona e uomo è semmai un atto e non invece uno stato ontologico – e precisamente è un atto volontario per mezzo del quale l’uomo sceglie di porre sé stesso come persona e come tale considerarsi. E come tale non può essere né originario né assoluto. Il che esclude molto decisamente l’equivalenza trinomiale affermata dal pensatore russo – essere-uomo-persona. Sicuramente, quindi, questo salva Stein da molte delle costatazioni di insufficienza che, nel corso della mia trattazione mi sono visto costretto ad attribuirle. Anche lei infatti ha visto nell’uomo questo atto di auto-consapevolezza che fa di esso una persona. Ma intanto si è guardata bene dal giungere per questa via all’affermazione dell’equivalenza assoluta ed originaria tra uomo ed essere. La sua antropologia metafisica è stata infatti sempre dominata dalla discrepanza da riconoscere tra finito umano ed Infinito divino. Però nel corso della mia trattazione è risultato chiaro che nemmeno questo giustifica in maniera sufficiente la vera natura metafisica della persona – la quale onticamente non è né individuo, né Io, né coscienza, né finito.
Dunque nel complesso questa affermazione berdjaeviana della radicale equivalenza uomo-essere appare essere estremamente debole sul piano onto-metafisico, e quindi risulta alla fine un elemento estremistico che può anche venire tralasciato nel concepire un Personalismo davvero equilibrato. Semmai tale equivalenza può venire considerata relativamente valida unicamente nella sua specifica concezione dell’essere. Ma a questo punto quest’ultima appare anch’essa tutto sommato secondaria e superflua nel contesto di una visione personalista. In altre parole insomma si può dire che un pieno Personalismo può sussistere anche in assenza di una concezione così radicale dell’essere come quella berdjaeviana.
Diversamente stanno le cose però riguardo all’equivalenza stabilita dal pensatore russo tra persona e spirito – e peraltro sempre sulla base della supposizione dell’assolutamente originaria equivalenza tra essere e spirito. Abbiamo già visto infatti che, almeno nei fatti, la persona non è affatto un puro spirito (sebbene lo sia comunque per costituzione ontica originaria), bensì è una realtà estremamente concreta. Questo lo afferma con forza lo stesso Berdjaev, ed abbiamo visto che ciò si basa secondo lui sulla necessità di abolire qualunque dualismo spirito-carne.
Quindi è intuitivo che anche in questa equivalenza deve essere nascosta qualche problematicità filosofico-metafisica ed anche metafisico-religiosa. E tuttavia è anche vero che quasi tutti i pensatori personalisti (a partire da Maine de Biran) hanno colto la persona umana come spirito. Tanto è vero che personalismo e spiritualismo sono oggettivamente strettamente intrecciati. E quindi nemmeno si può dire che tale equivalenza non possa né debba venire considerata valida. In ogni caso la questione dell’equivalenza persona-spirito può e deve venire trattata insieme a quella della valenza spiritualista o meno del Personalismo. Bisogna partire dal fatto, sottolineato da Scheler, che la stessa dimensione relazionale della persona (la sua “intenzione di società”) riguarda unicamente l’uomo spirituale, e non invece né l’uomo razionale né l’uomo naturale. E con ciò viene affermata con forza l’identità ontologica tra persona e spirito.
Tuttavia (in DFE) egli afferma anche che, non essendo né soggetto mentale-naturale né Io, la persona non è da considerare nemmeno spirito. Va però tenuto in considerazione che Berdjaev considera la perfetta equivalenza tra persona e spirito sulla base del fatto che essa è attiva per definizione, e quindi non si può parlare nel suo caso di alcun libero arbitrio, visto che esso è invece solo passivo e reattivo. Ma ritorna di nuovo qui il concetto guardiniano di “individuo spirituale”, dato che egli afferma che la persona umana non è né spirito indifferenziato né tanto meno pura coscienza.
E questo sottolinea l’equivalenza persona-spirito, ma ancora una volta su un piano relativo (incentrato proprio sull’esercizio del libero arbitrio) e non invece originario-ontologico. A ciò si aggiunge peraltro il fatto che Guardini sottolinea (su base unicamente teologica ed affatto filosofica-metafisica) che lo Spirito di Dio in quanto Amore è incarnazione della persona (nel contesto della dinamica trinitaria). Il che ci porta ancora di più a pensare che esattamente in questo modo (affatto letterale) vada correttamente intesa l’equivalenza persona-spirito in quanto originaria, che invece Berdjaev afferma su un piano unicamente onto-metafisico con una certa affrettata foga ideologica di tipo umanistico.
Di nuovo poi a questo riguardo viene Mounier a dirimere l’intera materia nell’affermare che, sebbene la il valore ed anche la stessa ontologia della persona vadano riconosciuti risiedere entrambi nella sua interiorità più intima (che è poi quanto fa di essa uno spirito), è anche vero che in definitiva essa non è affatto un “essere” ma semmai è molto più una “presenza”. E questo scardina decisamente la persona dall’onticità spirituale in radicale conflitto con ciò che pensava Berdjaev.
Orbene tutto questo offre argomenti sia pro che contro l’equivalenza totale persona-spirito. Però bisogna anche considerare che (come abbiamo visto nel corso della trattazione) lo spiritualismo di Mounier non è affatto rappresentativo né dell’intero Personalismo né di quello più profondo (che è senz’altro quello sostanzialista e metafisico-religioso). Peraltro abbiamo visto che Guardini non nega affatto in assoluto l’equivalenza esistente tra persona e spirito. Ed infine a questo punto va considerato paradigmatico per davvero il personalismo di Stein (unitamente anche a quello di Maritain), dato che esso (nonostante il suo così condizionante intellettualismo gnoseologico-filosofico) sostiene con ragioni formidabili (ed anche estremamente sublimi) tale equivalenza.
Pertanto – pur nel dover porre di nuovo in discussione la così radicale equivalenza originaria persona-uomo-spirito-essere affermata da Berdjaev – possiamo qui senz’altro assumere che persona e spirito sono una sola cosa.
C’è poi da considerare la questione se la persona sia da considerare o meno un’entità effettivamente ontologica, e quindi anche da concepire in termini metafisici. Ma riguardo a questo, nel corso della mia trattazione, abbiamo visto che i vari pensieri personalistici si incrociano e mescolano tra di loro, per cui questa affermazione si ritrova anche tra coloro (come Guardini, Maine de Biran) che in primo luogo vedono nella persona un’entità relazionale.
Vi sono poi una serie di caratteri ontologico-basici della persona che possono ben venire trattati insieme sulla base dei riscontri che abbiamo ottenuto al riguardo nel corso dell’indagine – individuo, Io, condizione di finito. La questione rispetto a ciò è se la persona possa venire considerata ontologicamente ad uno o anche a tutti questi elementi insieme. E qui (come ho già detto) la risposta può essere in partenza negativa, dato che (nonostante l’andamento alternante delle costatazioni che ho fatto al riguardo nel corso della trattazione) comunque sono prevalsi gli argomenti contro una tale equivalenza. In particolare per quanto attiene la possibile equivalenza tra Io e persona.
Ma vediamo di riassumere quali sono i punti più rilevanti della questione.
Lo stesso Berdjaev (nel suo DIWO) sentì l’esigenza di fare preliminarmente chiarezza su questo punto sulla base di Nikolai Hartmann. E, sulla base di questo pensatore, ci ha dunque mostrato che né l’individuo né l’Io possono venire considerati persona, in quanto il primo è un’entità umano-singolare puramente naturale mentre il secondo è un’entità umano-interiore totalmente indifferenziata, nel mentre invece la persona è differenziata per definizione. Il che implica poi la dimensione dell’unicità personale che manca sia all’individuo che all’Io per il semplice fatto che entrambi sono ontologicamente riduttivi. L’individuo lo è in quanto meramente quantitativo (e quindi per nulla qualitativo); perché esso è singolare alla stregua di qualunque entità naturale (animali, piante ed anche morte cose). L’Io lo è in quanto è puramente astratto e ontologicamente potenziale, e quindi affatto realizzato com’è invece la persona. Il che comporta anche nel suo caso l’impossibilità che esso possieda davvero l’unicità, dato che quest’ultima si manifesta soltanto in ciò che è «proprio questo uomo» (ossia un uomo come non ce n’è nessun altro). Ed è chiaro che ciò è possibile solo nel caso di un’entità ultimamente concreta, ossia appunto un Io definitivamente realizzato in quanto totalmente esplicato. Del resto questo fu quanto affermò anche Stein un po’ in tutte le sue riflessioni (AMP, PA, EES) – nello sforzarsi di chiarire che la persona è senz’altro originariamente uno spirito, e quindi un’Idea (-Essenza), ma nei fatti lo è solo in quanto idea incarnata, ossia come Essente unico-personale terreno che a sua volta è perfettamente speculare rispetto all’Essente unico-personale divino, ossia il Logos (che è poi anche il paradigma ideale-essenziale di ogni cosa mondana).
Diciamo quindi che la persona è un Io solamente in quanto potenzialità ed affatto invece in quanto attualità. Berdjaev sottolinea comunque anche che, proprio in quanto l’individuo è così riduttivo, lo stesso vale anche quando lo si considera come il finito in quanto esistente. Anche quest’ultimo infatti non è altro che una base ontico-naturale (e per la precisione tragico-esistenziale) che non può essere in alcun modo comparata con la radicale trascendenza, creatività e libertà che caratterizzano la persona.
Oltre a ciò il pensatore russo afferma che la persona per definizione si pone in relazione ad un Tutto, mentre invece l’Io considera sé stesso come un Tutto oltre il quale non vi è assolutamente nulla. E proprio per questo esso tende a porsi come un’identità che non è essa stessa per nulla equivalente alla dimensione identitaria della persona – dato che la prima è escludente, mentre la seconda è includente. Inoltre Berdjaev si richiama a Kirkegaard nel richiamare l’idea di quest’ultimo secondo la quale la verità sta soltanto nel soggetto in quanto “coscienza” nel senso etico (“Gewissen”). Ma questo però non è affatto possibile se il soggetto viene identificato con l’Io, il quale è unicamente egocentrico. E quindi anche questo rende impossibile che l’Io sia persona. E bisogna dire a questo punto che anche Stein cadde in fondo nel tranello di considerare la persona di fatto come equivalente all’Io.
Lo stesso tipo di constatazioni può essere fatta laddove Guardini vede nell’individuo appena il livello secondo (subito dopo quello della “Gestalt”), e quindi più basico ed elementare, della realtà umano-personale, che corrisponde a sua volta ad una mera auto-delimitazione spaziale dell’organismo vivente. Quanto poi all’Io esso potrebbe venire considerato nella sua riflessione equivalente a quel terzo (ed ancora insufficiente) livello della realtà personale che corrisponde alla coscienza nella sua valenza unicamente conoscitiva ed affatto invece etico-attiva che si muove realmente nel mondo. A tale livello mancano infatti ancora totalmente quegli atti della volontà libera, e quindi della scelta responsabile, che poi configurano quell’”individuo spirituale” in quanto persona, del quale ho parlato prima. Inoltre il pensatore tedesco afferma anche che, sebbene in via di principio egli tende a considerare l’Io più originario della persona, tuttavia (come dice anche Berdjaev sulla base di Hartmann) lo considera tale solo in quanto forma ancora incompleta. Quello che è certo è che egli considera la possibilità dell’individuo in quanto persona solo dopo che esso abbia davvero raggiunto lo status ontologico di “Lui”.
Il che ovviamente da suo punto di vista comporta un atto onto-costitutivo che è primariamente divino.
Maine de Biran sostiene poi che, dato che la persona insorge sostanzialmente nell’atto di rivolgersi verso di sé (riconoscendosi come tale interiormente), ciò necessariamente lascia che si delinei un vero e proprio Assoluto che non può in alcun modo essere un individuo. Inoltre egli ritiene che la persona per definizione si muova sul piano religioso verso quell’unione tra le due nature (naturale e divino-spirituale) che può comportare soltanto un percorso che procede da sensibile ad intelligibile e da relativo ad assoluto. Laddove il percorso contrario è esattamente quello che invece reca all’individuo.
Ma, uscendo poi perfino dal piano dell’onto-metafisica, per spostarsi sul piano pragmaticamente sociale e relazionale, Mounier sostiene che la realtà personale è per definizione una pluralità integrata. Il che di nuovo esclude nettamente la possibile identificazione tra la persona e quell’individuo che (essendo poi in primo luogo naturale ed affatto sociale) può costituire solo un’entità disintegrata da tale pluralità. In altre parole, anche sul piano relazionale, la persona tutto può essere tranne che un individuo. Quanto poi all’Io, egli sostiene che il «cogito» di Cartesio (incentrato appunto sull’Io in quanto coscienza) ha potuto al massimo considerare un individuo solipsistico ed affatto invece una persona. E questa va peraltro considerata un’insufficienza personalistica dell’intero idealismo, che abbiamo del resto riscontrato costantemente nell’intera trattazione. L’idealismo non è apparso infatti capace di concepire alcuna vera realtà personale. E questo coinvolge senz’altro anche Stein, dato che ella non riuscì di fatto mai a liberarsi dall’idealismo (nonostante la fase realistica che visse restando in sintonia con Tommaso ed Aristotele) – prima come idealismo trascendentale husserliano e poi come idealismo platonico agostiniano.
Sempre in questo ambito estremamente pragmatico (ed affatto ontologista e metafisico-religioso) vi è da considerare che Ricoeur considera la persona sostanzialmente come un “se” ed affatto invece un “io”. Quest’ultimo infatti è unicamente una “prima persona” che non può per definizione stare in relazione con alcuna “seconda persona”, ossia l’”altro”, se non come mero oggetto da esso invalicabilmente separato (come avviene appunto nella conoscenza). Pertanto la relazione tra Io ed altro, che fa della persona ciò che essa è, si configura solo quando essa si pone come “terza persona”, ossia appunto come “se”.
Posto tutto questo, dobbiamo concluderne (e sulla base di tutte le osservazioni che ho fatto a tale proposito nel corso della trattazione) che il Personalismo di Stein si distacca per davvero da questa serie di prese di posizione nel senso di una certa sua insufficienza. La pensatrice, infatti, ha senz’altro concepito l’Io come un esistente proprio in quanto voleva intenderlo come una persona reale e concreta. Eppure, nel concepire la persona, ella ha avuto sempre davanti al proprio sguardo unicamente l’Io cosciente; specie nel contesto dell’atto tutto intellettualistico di auto-riconoscimento e possesso di sé stesso che costituisce la persona. In altre parole, nel pensare a quella totale fondazione in sé stessa che fa della persona ciò che essa è ontologicamente, Stein non ha affatto trasceso e superato l’Io, ma invece lo ha considerato un elemento indispensabile per questo atto di auto-fondazione. Il che significa che in qualche modo ha ontologicamente equiparato la persona all’Io. Ed a ciò si aggiunge inoltre l’importanza che ella ha dato al processo di individuazione nella genesi di quell’Essente unicissimo che è la persona umana; e che secondo lei non è altro che l’essenza ideale progressivamente concretizzatasi ed incarnatasi lungo la falsariga del processo (logico-ontologico di tipo metafisico) che reca alla determinazione individuale. Certamente nel fare questo ella si è distaccata dal processo di individuazione tomista, secondo il quale l’individuo è una persona unica su base unicamente quantitativa e materialistica (ossia appunto in quanto ente determinato naturalmente separato da altri enti determinati, e quindi tutti «individuati»). Ella ha invece sottolineato che il vero individuo personale non è affatto il semplice «questo uomo qualsiasi» (l’ente determinato), ma è invece semmai soltanto il «proprio questo uomo qui» ossia il «proprio questo tale» − insomma affatto appena il «questo uomo qui», ma invece (secondo l’esempio la lei stessa usato) Socrate in persona.
E ciò sottolineava senz’altro gli aspetti qualitativi (e non quantitativi) dell’unicità personale.
Tuttavia però in tal modo ella ha considerato non solo l’Io ma anche l’individuo stesso un termine ontologico essenziale per concepire la persona. In qualche modo, dunque, Io e individuo sono stati per lei ontologicamente parte integrante della realtà personale. Mentre invece tutti gli altri pensatori personalisti hanno creduto che Io ed individuo siano ontologicamente il contrario esatto della persona.
Pertanto purtroppo, almeno a questo riguardo, non posso assolutamente smentire in questa sede tutte le costatazioni che nel corso della mia indagine ho fatto dell’insufficienza del personalismo steiniano.
Dobbiamo ora completare queste considerazioni (circa la relazione tra persona ed individuo ed Io) con quelle sulla relazione ontologica esistente tra persona e finito. Tema che poi comporta inevitabilmente quello della relazione metafisica e metafisico-religiosa esistente tra finito ed Infinito.
Nel corso della mia trattazione abbiamo visto più volte quanto sia problematica la fondazione della realtà personale sulla relazione ontologica tra finito ed Infinito. E proprio su questa base ho dovuto prendere atto della tendenziale insufficienza del pensiero steiniano.
E qui bisogna dire che non solo Stein considera la persona come finito (“Dasein”), ma lo fa anche Scheler.
E peraltro (diversamente da Berdjaev, Stein e Guardini) egli nega che l’umano-divinità sia carattere ontologico-basico della persona come finito. Per cui egli pone nel modo più intenso e tragico possibile la relazione di totale insufficienza ontologica ed anche impotenza che caratterizza il finito al cospetto dell’Infinito. Ed a questo punto cambia per lui davvero pochissimo se consideriamo il finito umano come persona. La conseguenza di ciò è che Scheler (in maniera molto simile ad Heidegger ed anche a Jaspers e Sartre) pone la gettatezza nel mondo della persona, che invece negano sia Berdjaev che la stessa Stein.
Peraltro, nel discutere sul piano puramente metafisico della persona come finito, il pensatore tedesco sottolinea che solo l’Assoluto divino è un “essente positivo”, il che significa che il finito umano (che sia o non sia persona) non è in fondo altro che un nulla di essere. Almeno sul piano metafisico ad esso, insomma, non è ascrivibile alcuna «positività» ontica. Quest’ultima emerge pertanto solo sul piano autenticamente religioso della Rivelazione – entro il quale l’essente umano non sarà più affatto un finito per il fatto di essere stato creato da Dio. Dunque solo a questo punto emerge la persona in quanto non finito per definizione; sebbene però la sua più autentica base ontologica resti quella di mero finito.
E qui bisogna dire che le sue considerazioni coincidono fortemente con quelle di Guardini, il quale rinuncia in partenza alla filosofia ed alla metafisica filosofica per poter comprendere cos’è la persona. Egli si affida infatti in questo unicamente alla Rivelazione, e cioè alla teologia.
In qualche modo la persona è un finito anche in quel così particolare personalismo della de-personalizzazione che abbiamo visto in Bloy (SP, ELC, AN). Tale infatti è senz’altro il povero, nonostante la dignità di persona che gli compete in maniera estrema in quanto non solo figlio di Dio ma di fatto anche incarnazione diretta del Dio-Persona nella pienezza della «kenosis» (la volontaria spoliazione della propria divinità da parte di Dio). Abbiamo visto però che nel contesto della riflessione del pensatore francese questo status ontologico negativo si rovescia senz’altro a causa della fortissima affermazione (addirittura paradigmatica) dell’umano-divinità del povero. Peraltro egli ci mostra anche come l’elevazione a persona dell’uomo avviene in definitiva grazie all’atto di infinito amore nel quale Dio stesso si abbassa alla condizione di finito. È quindi Dio è di fatto il primo a sottomettersi alla potenziale (e non poco umiliante) equivalenza tra persona e finito. A ciò fanno eco (come abbiamo visto nel corso della trattazione) le riflessioni di Le Fort per mezzo delle quali possiamo renderci conto del fatto che in definitiva la persona non è un finito affatto per dotazione ontologica originaria, ma invece unicamente per dono divino. Ma intanto di tratta di un dono divino che segue a ruota alla decisione pienamente umana di darsi totalmente a Dio per mezzo di un incondizionato e radicale “sì” (il “fiat mihi”) – e del quale è protagonista la Vergine Maria come prototipo di Donna. E ciò quindi Bloy riabilita fortemente quel personalismo steiniano che è così fortemente basato sulla relazione tra finito ed Infinito, e che quindi di fatto assimila la persona al finito stesso. Il che ci mostra poi che la concezione steiniana è molto meno una pura speculazione metafisica e molto più invece un atto pienamente religioso e mistico di venerazione a Dio per mezzo della propria volontaria umiliazione. Tanto è vero che le sue riflessioni sulla relazione tra finito ed Infinito (in EES) sfociarono subito dopo nella pienezza della sua prassi e riflessione ormai pienamente mistiche.
Peraltro è davvero stupefacente che (specie in DIWO) Berdjaev sostenga la sostanziale ed inevitabile solitudine della persona nel mentre afferma la sua potenza e nega recisamente la sua gettatezza nel mondo in quanto finito. Eppure Stein, sebbene abbia fondato la persona sulla realtà del finito, aveva recisamente negato la sua gettatezza né mai ne aveva postulato la solitudine. Ed a questo punto allora (almeno rispetto a questo) l’ago della bilancia del Personalismo si sposta decisamente a suo favore.
Guardini poi – per mezzo di riflessioni simili a quelle di Scheler, ma poste in maniera rovesciata rispetto a quest’ultimo – sostiene che certamente l’uomo sarebbe appena un finito se il suo rapporto con l’Assoluto divino venisse concepito in maniera puramente metafisica. E quindi la persona umana (pur ammesso che in queste condizioni fosse concepibile) sarebbe da considerare equivalente al finito. Ma questa serie di costatazioni ontologiche viene decisamente annullata e spazzata via dall’intervento della Rivelazione, e quindi dall’intervenire della prospettiva teologica in luogo di quella metafisica. Infatti in tale prospettiva l’Amore divino restituisce integralmente all’uomo lo stato di persona, dissociandola così decisamente dalla condizione di finito. Del resto abbiamo visto (specie in DH) che Guardini è disposto ad ammettere che l’uomo sia un finito solo in quanto essere totalmente ed irrimediabilmente decaduto. Ma in questo modo esso non è certamente una persona. Ecco che allora il Personalismo di Guardini si presenta come decisamente divergente dalla fondazione della persona sulla relazione tra finito ed Infinito.
Cose molto simili afferma anche Maritain nel considerare come finito quell’uomo meramente immanente e naturale (ossia di fatto non considerato come creato da Dio) che sicuramente non può venire considerato una persona. Quest’ultima per lui viene infatti costituita unicamente da un atto divino di infinito amore donativo che fa dell’uomo (in quanto “suppositum”) l’esatto opposto di un ente finito.
Quanto poi a Berdjaev va detto che in definitiva egli dissocia la persona dalla condizione di finito soltanto in quanto gli attribuisce non solo la potenza ma anche una serie di caratteri ontologici radicalmente originari che lo assimilano allo stesso essere nella sua pienezza. Ed abbiamo visto che queste due prese di posizione sono estremamente problematiche. Ne consegue quindi che, almeno da questo punto di vista, il suo pensiero è senz’altro più insufficiente di quello della stessa Stein. Infatti, paradossalmente, una volta fatto crollare tutto questo così poco credibile apparato onto-metafisico, sulla base del pensiero berdjaeviano si sarebbe alla fine costretti ad ammettere l’equivalenza ontologica tra persona e finito. Tanto è vero che egli finisce per affermare che, una volta negata la persona, per davvero non resta altro che un individuo finito.
E questo senz’altro è il frutto di una certa arbitrarietà tutta filosofico-metafisica del suo Personalismo, il quale non trova alcun controbilanciamento (come in Guardini) in un’autentica concezione teologica della persona.
Nel complesso quindi possiamo dire che, diversamente da ciò che ci aspettavamo, la fondazione della persona sulla relazione ontologica esistente tra finito ed Infinito appare essere molto meno problematica di quanto appaia a prima vista. Abbiamo visto infatti che vi sono rilevanti momenti del pensiero personalista (come quello di Stein, Scheler, Bloy e Le Fort) nei quali tale fondazione appare essere addirittura vantaggiosa. Ciò è evidente soprattutto laddove essa serve ad evitare certi pleonasmi troppo euforici della dottrina personalista come quelli di Berdjaev. In ogni caso abbiamo anche constatato che la più autentica negazione di tale fondazione può venire ritrovata in campo teologico e non invece filosofico-metafisico – quindi molto più in Guardini e Maritain che non invece in Stein.
Ma veniamo ora a ciò che nell’indagine è emerso circa l’identità della persona; carattere che è legato davvero a doppio filo con la sua unicità.
Berdjaev sottolinea che l’identità fa parte integrante dell’ontologia della persona in quanto è esattamente quella che la rende persistente fino all’eternità, ossia la rende capace di trascendere totalmente il tempo in modo da essere di fatto immortale. Pertanto qualunque negazione di questo carattere nella sua integralità è di fatto negazione radicale della persona. Egli aggiunge che peraltro la persona vuole con tutte le forze essere sé stessa, sebbene ciò non comporti mai quell’egocentrismo che certamente distruggerebbe la persona stessa in quanto ontologia. Non a caso, proprio nell’essere assolutamente unica (a causa della sua forte identità) la persona soltanto è capace di riconoscere nell’altro un qualcuno che non assomiglia a nessun’altro, ossia una persona assolutamente unica e irripetibile. E proprio su questa base la persona umana è capace di amare l’altro.
Guardini poi definisce l’identità (e la connessa unicità) come totale auto-possesso, dicendo che la persona sa di «stare sempre per sè» e quindi è consapevole di essere insostituibile. Si tratta di un essere dato davvero una sola volta che corrisponde all’aversi totalmente ed unicamente ”nelle proprie mani”. Il che configura poi una vera e propria inafferrabilità ontologica della realtà personale, che poi corrisponde esattamente al carattere ontico dell’identità. Come abbiamo visto nella trattazione, tali riflessioni coincidono abbastanza bene con quelle di Stein. Ma intanto Guardini sottolinea l’assoluta fattualità reale e concreta di tale identità personale, che pertanto spiazza qualunque dimensione formale in quanto fondante. Egli dice infatti che semmai l’identità del cristallo (un essere inanimato) può essere concepita formalmente, ma non certo invece quella della persona. E questo quindi nuovamente mette fuori gioco la concezione steiniana della persona – per lei infatti la persona è per definizione una forma vuota (idea-essenza) un volta riempita.
Oltre a ciò vi è da considerare la differenza (sebbene abbastanza sottile) che esiste nella concezione dell’identità personale tra Stein e Maritain. Quest’ultimo, infatti, nel considerare la persona umana come “suppositum” (e quindi come il “lui” o “chi?” amato e creato da Dio in quanto solo Lui lo conosce fin dall’eternità), sottolinea che quest’ultimo (in quanto soggetto ed anche oggetto del pensiero di Dio) è un ente intelligibile in partenza, per definizione e soprattutto in sé stesso (e non dall’esterno). Il che significa che la persona è per lui un’essenza incarnata senza essere in alcun modo sottomesso all’universale, e quindi senza prevedere alcuna previa forma vuota astratta da riempire (come invece avviene in Stein).
Di conseguenza essa non risulta affatto conoscibile dall’uomo, dato che invece solo Dio lo conosce. E lo conosce appunto come identità. Ed è esattamente soltanto per questo che l’identità personale umana è inafferrabile per definizione. A ciò peraltro Guardini aggiunge che l’atto auto-riflessivo con il quale di fatto l’uomo si costituisce in identità è effettivamente (come dice anche Stein) una presa di possesso del proprio Io. Ma intanto non casualmente si manifesta nella forma dell’esperienza dell’”Io sono”. Esperienza che per il soggetto è talmente intuitivamente ovvia da sfociare decisamente nell’ineffabilità e nell’inesplicabilità.
E ciò (nonostante l’assoluta ordinarietà di tale esperienza) pone l’identità personale come un vero e proprio insondabile mistero. Nel suo contesto, insomma, sono del tutto insufficienti speculazioni onto-metafisiche di tipo intellettualistico-spiritualistico come quelle condotte da Stein. Insomma anche l’atto di auto-possesso intellettuale (sebbene anche spirituale) che l’Io pone in opera nel possedere sé stesso, finisce per arrestarsi davanti ad un Abisso (di ineffabilità), soltanto oltre il quale vi è quella pienezza dell’”Io sono” che spiega ultimamente l’unità ed unicità della persona. E quindi in questo falliscono di concerto Stein, Husserl ed anche Agostino. Dunque forse soltanto Meister Eckhart riesce a darci davvero ragione di questo processo, dato che egli ne rispetta pienamente il mistero ineffabile.
Abbiamo inoltre constatato che ovviamente vi sono tra i personalisti visioni più ontologiche e meno ontologiche dell’identità. In Ricoeur, per esempio, essa viene vista in termini puramente funzionali.
Tuttavia comunque tutti i pensatori personalisti sono d’accordo sul fatto che il mantenimento dell’identità personale è sostanzialmente un processo attivo. Vi è solo da rilevare che Ricoeur ed anche Berdjaev sostengono che l’identità comporta un amore per l’altro che è perfettamente equivalente all’amor proprio.
Sebbene il secondo sottolinei che quando quest’ultimo scade in egocentrismo di fatto la stessa identità personale si dissolve. E questa serie di concetti non si ritrova di certo in altri pensatori personalisti (come Guardini, Bloy, Le Fort e Maine de Biran), secondo i quali la disposizione relazionale amorosa propria della persona implica anche una certa quota di disposizione sacrificale. Per essi quindi il mantenimento ostinato dell’identità personale non può giungere fino al rifiuto dell’atto sacrificale che a volte ci viene richiesto proprio affinché l’altro possa continuare ad essere una piena persona.
Quindi nel complesso anche rispetto al carattere dell’identità personale dobbiamo registrare l’insufficienza della dottrina steiniana che abbiamo constatato lungo tutta l’investigazione.
Non parlerò qui del fondamentale carattere ontico della persona che è costituito dall’unicità. E non lo farò sia perché tale carattere è strettamente intrecciato al tema dell’identità sia anche perché nella mia investigazione ho dovuto constatare che tutti i pensatori personalisti pongono in evidenza tale carattere e peraltro in un modo che non evidenza alcuna rilevante problematicità.

2-1.2 I caratteri meno fondamentali della persona.
Il carattere di trascendenza della persona (cioè il fatto di non essere assolutamente una cosa) fonda molto direttamente la sua dignità. Ed anche il carattere della sua umano-divinità. E dunque, proprio a causa di tale dignità l’uomo stesso non può venire concepito in alcun modo come mezzo e/o strumento per il raggiungimento di qualunque obiettivo (politico, sociale o religioso che sia), né può venire in alcun modo venire sacrificato per qualunque fine. Nel contesto del pensiero di Dostoevskij (riportato da Berdjaev in CD) abbiamo visto che tale intangibilità della persona giunge fino al punto che la sua libertà non può venire messa in discussione nemmeno allo scopo di impedirle di commettere il male. Lo scrittore russo sottolineava però che l’altro versante di tale inviolabile dignità è anche quello che prevede la sua piena e volontaria ammissione di responsabilità per le colpe commesse, inclusa la sua libera sottomissione alla pena o punizione che c’è da scontare per questo (senza tentare di sfuggirla in alcun modo ed in base a qualunque argomento). E a tale proposito noi ritroviamo quello che potrebbe essere un vero e proprio rinvio al Personalismo di Platone stesso entro quella vicenda giudiziaria (descritta in vari di dialoghi platonici) nella quale Socrate, pur di non ledere in alcun modo la santità delle leggi della Città, rinuncia volontariamente a difendersi dalle ingiuste accuse rivoltesi e quindi si lascia condannare anche se è totalmente innocente [Ezio Savino (a cura di), Platone. Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 2004; Platone, Eutifrone, Bompiani, Milano 2011]. E con ciò Socrate si propone a noi addirittura come la persona nella radicale forma depersonalizzata di quell’«inerme» il quale, essendo sventurato per definizione, si pone (nell’esperienza del dolore necessario agli eletti) come caprio espiatorio dei peccati del mondo anche come colpevole-innocente non solo per definizione ma perfino per propria radicale scelta etico-religiosa. Il che ovviamente assimila Socrate alla figura del Cristo, com’è stato del resto sostenuto da non pochi pensatori, tra i quali peraltro anche Guardini [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, p. 119-150; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 157-161].
Tutto ciò comporta naturalmente la costatazione che i caratteri ontico-azionistici tipici della persona sono la scelta come decisione e la responsabilità etica. I quali a loro volta sono da riportare al carattere ontologico-basico ancora più fondamentale della libertà. Questo ultimo carattere è stato fortemente posto in evidenza da Berdjaev e Mounier ed abbiamo visto anche che esso si pone in forte conflitto con la classica dottrina cristiana del libero arbitrio; nella quale sono riscontrabili non pochi elementi riduttivi ed anche contraddittori nel senso di una libertà di fatto condizionata alla necessità (e quindi di fatto inaccettabilmente passiva), peraltro schiacciata sulla dimensione estremamente semplificata dell’unilaterale scelta del bene ed infine . Abbiamo visto inoltre che Stein compare qui decisamente come imputata avendo abbracciato incondizionatamente la dottrina del libero arbitrio. Da ciò è apparso evidente che di fatto la dottrina del libero arbitrio contraddice la libertà specie in quanto illimitata creatività. Non solo, ma essa è apparsa come una mera potenzialità della volontà, e non invece come la volontà nella sua pienezza. A difesa però della dottrina steiniana del libero arbitrio abbiamo constatato che la persona non è poi così radicalmente originaria (come ci viene presentata da Berdjaev), ma in verità (come abbiamo appena visto specie sulla base di Mounier) è invece essa stessa chiamata ad essere ciò che è proprio in base all’esercizio della propria volontà. Per cui essa è libera per natura solo se intanto sceglie attivamente di essere persona invece che uomo meramente naturale. In altre parole essa sarà per davvero persona libera solo se lo sceglie e lo vuole. Ne risulta allora che (almeno nei fatti) la persona è libera solo se lo vuole, e pertanto non lo è affatto in maniera radicalmente originaria e quindi ontologica, bensì invece in maniera funzionale.
Questa menzione della libertà inscindibilmente connessa alla volontà ci rinvia necessariamente alla creatività come altro carattere ontologico fondamentale della persona. E qui senz’altro il pensiero di Berdjaev è paradigmatico, dato che nessuno come lui ha posto questo carattere con la stessa forza.
Bisogna dire che però abbiamo dovuto constare che anche Mounier pone in evidenza almeno elementi dell’azione della persona che si lasciano ricondurre a questa dottrina berdjaeviana così estrema.
In particolare abbiamo visto che presso il pensatore russo la creatività umana assume aspetti che sono decisamente sia metafisici che religiosi. I caratteri metafisici sono quelli in cui la creatività umana viene assimilata alla stessa realtà costituita dall’essere colto nella sua massima integralità ed abissalità.
Per Berdjaev infatti l’essere è ciò che è sostanzialmente perché produce incessantemente il «nuovo» e quindi incrementa sé stesso illimitatamente in una crescita infinita, la cui cessazione comporterebbe la scomparsa dell’essere stesso. Questo essere creativo è dunque dinamico per definizione. E naturalmente per lui è così anche la persona stessa in quanto sostanza che perpetua sé stessa all’infinito. In termini religiosi questo comporta comunque una dimensione davvero estremisticamente azionistica, dato che la persona umana viene ritenuta coinvolta necessariamente in un’azione di incessante trasfigurazione dell’essere (che assume un aspetto anche politico in quanto tendenzialmente rivoluzionaria) che per Berdjaev è poi un’autentica continuazione della creazione. È presumibile dunque che l’incessante incremento di essere che segue all’insorgere creativo di quest’ultimo sia da attribuire proprio all’azione della persona umana.
Abbiamo però anche dovuto constatare che l’accento posto dal pensatore russo sulla radicale (e quindi totalmente libera) creatività umana comporta da parte sua la postulazione di un’assolutamente necessaria presenza della persona nel mondo che, in quanto “affermazione”, è talmente assertiva da configurare una vera e propria potenza. Proprio in forza di questo Berdjaev nega recisamente (entrando così in conflitto con la classica morale cristiana) che alla persona appartengano virtù non assertive e remissive del genere dell’umiltà. E questo finisce per configurare entro il suo pensiero un’attitudine personale che spesso assomiglia non poco alla volontà di potenza nietzschiana. Essa è sicuramente tale in quanto continua creazione di essere per la via di un incessante incremento che assomiglia molto alla forgia titanica dell’essere da parte dell’uomo. E peraltro, riguardo a tali aspetti, il pensatore russo non esita a considerare Nietzsche un modello di pensiero – per quanto però lo critichi decisamente per il suo nichilismo. Peraltro egli parla della “forza” come di un’attitudine tipicamente personale che perfino esclude qualunque “grido di dolore” dell’uomo in quanto finito schiacciato dall’Infinito. La persona concepita come finito costituisce infatti per lui quell’ente che è caratterizzato dall’irrimediabile impotenza proprio a causa di quell’inaccettabile Cristianesimo tradizionale che ha saputo concepire unicamente un’antropologia tarata sulla fatale soggezione al peccato ed alla colpa. In ogni caso va registrato che certamente i più radicali pensatori dell’esistenzialismo tragico, nel concepire il finito, lo hanno considerato affetto irrimediabilmente da quella radicale impotenza che sicuramente (di concerto con Berdjaev) non può venire accettata come carattere tipico della persona. Ed abbiamo visto che ciò accade in particolare entro alcune delle riflessioni più anti-personaliste di Leopardi.
Orbene, l’accento posto da Berdjaev sulla potenza come carattere ontologico-basico indispensabile della persona umana (ed anche come tratto dottrinario di un vero Personalismo) mi ha indotto più volte a dover ammettere che (in un certo quale modo) una visione personalista è insufficiente se non prevede questo carattere. E ciò vale senz’altro anche per Stein, oltre che per quasi tutti gli altri pensatori personalisti da me discussi (Ricoeur, Scheler, Maritain, Guardini, Bloy, Le Fort, Maine de Biran, Leopardi, e molto probabilmente anche lo stesso Mounier. Peraltro abbiamo visto che vi sono davvero buone ragioni per considerare più tipica della persona quella sorta di «anti-potenza» che emerge nei pensatori personalisti della de-personalizzazione ed alla difettività di essere (come Bloy e Le Fort ). In tal modo emerge infatti una sorta di potenza da leggere in maniera meno letterale e più metaforica, ossia totalmente in trasparenza sullo sfondo di Cristo come prototipo di Persona, e che quindi corrisponderebbe anche alla più autentica umano-divinità. Proprio Bloy sottolinea infatti che, mentre la potenza letterale è deplorevolmente immanente mondana (corrispondendo alla non-persona per definizione ossia al ricco), invece la potenza metaforica è totalmente trascendente, ultra-mondana e sovrannaturale (corrispondente a quella potenza di Dio che in Cristo non a caso si nasconde). Quest’ultima corrisponde per lui infatti alla vera potenza dello Spirito. Pertanto almeno in via di principio proprio quest’ultima Berdjaev avrebbe dovuto intendere.
Poste le cose in questi termini, allora la potenza umana della quale egli parla non sarebbe in verità altro che un mero riflesso di quella divina. Non a caso vedremo poi che proprio Bloy ci mostra che la disposizione all’amore rappresenta ontologicamente la persona molto più che non la potenza. E questo senz’altro vale anche per pensatori personalisti come Stein, Maritain, Mounier, Le Fort, e soprattutto Guardini).
Inoltre Le Fort parla della “dedizione” tipicamente femminile (riassunta nel mariano “si” o “fiat mihi”) come di una “pazienza” che in verità è la più alta forma di potenza. Guardini poi ci ha mostrato nel fatto che – nel fatto che la persona sente come «mio» tutto ciò che vi è nel mondo – una sorta di potenza che è un vero e proprio possesso dell’essere senza però in alcun modo rischiare di configurare una volontà di potenza. Infine molte delle considerazioni più personal-relazionaliste che uniscono Maine de Biran e Mounier, oltre che ovviamente Guardini (soprattutto il sussistere e crescere ontico della persona nell’«altro» e la sua rinuncia pregiudiziale ad impiegare qualunque suo diritto a danno dell’altra persona), negano decisamente alla realtà personale qualunque forma di potenza che (anche minimanente) possa sconfinare nella volontà di potenza. Non a caso abbiamo visto che Mounier impegnò molte energie a tener nettamente distinto il proprio azionismo da qualunque dottrina di stampo nietzschiano che lo intendesse come volontà di potenza. A tale riguardo egli sottolinea in particolare che – essendo la persona un’entità che senz’altro intuisce è stessa dal di dentro, ma intanto sussiste solo e soltanto nell’atto del farsi persona, ossia nell’agire come persona – il suo considerarsi invece qualcosa di dato in partenza (“fatto”) la indurrà molto probabilmente a travolgere tutto e tutti nel suo agire, esattamente come avviene entro la volontà di potenza.
Intanto abbiamo visto che l’umiltà viene (del tutto diversamente da Berdjaev) espressamente considerata un tipico carattere personale) da pensatori come Bloy, Le Fort e Guardini, oltre che da una pensatrice che ho preso in considerazione solo marginalmente, come Simone Weil.
Ciononostante abbiamo constatato che la presa in considerazione di pensatori del Personalismo tragico come Jaspers ci permette di assolvere Berdjaev da tutte queste colpe, dato che il primo ci ha mostrato come proprio la tragica impotenza umana configuri in definitiva forse la forma più alta e intangibile di potenza (essa è infatti capace di sfidare a viso aperto perfino la morte, nel considerarla come la maggiore realizzazione della persona). E questo peraltro avviene per il pensatore tedesco proprio in quell’eroismo che lo stesso pensatore russo considera assolutamente tipico della persona. Peraltro l’eroismo in Jaspers finisce per far venire alla luce quell’uomo straordinario che lo stesso Berdjaev ritiene essere persona nella sua pienezza.
Ma abbiamo visto che vi sono anche alcune riflessioni profondamente cristiane di Mounier (specie quelle che si soffermano sul “cuore” come centro personale dal quale si diparte una spinta prepotente verso la conquista della perfezione) che supportano il concetto berdjaeviano di potenza specie nel senso di trasfigurazione spirituale del mondo. E lo stesso vale anche per la riflessione mouneriana sulla preservazione della propria identità personale in quanto presupposto indispensabile per avere una presa sulle cose – infatti per lui ciò comporta non solo la capacità di agire nel sentirsi insostituibile (e quindi unico) ma anche la del tutto legittima aspirazione ad avere il possesso di beni.
Insomma, da tutto ciò che abbiamo appena visto, si può ben dire che il carattere della potenza (in quanto forma affermativa della sua presenza nel mondo) può venire attribuito alla persona solo in maniera molto problematica e contraddittoria. E quindi è possibile che, almeno da questo punto di vista, il pensatore russo non abbia visto giusto. E ciò forse proprio perché (almeno in parte venne influenzato da Nietzsche). Si può supporre però che la potenza potrebbe venire considerata una sorta di aspetto secondario e relativo dell’inclinazione all’azione che sicuramente deve venire riconosciuto come carattere tipico della persona.
Naturalmente tale intera materia sta in stretta relazione con il carattere ontologico-basico della persona che corrisponde alla libertà.
Ho già parlato dell’inadeguatezza (almeno per alcuni versi) del suo intendimento come libero arbitrio. E quest’ultimo realmente differenzia non poco i pensatori personalisti tra loro. Ma comunque non ve n’è nessuno tra loro che neghi alla persona il carattere della libertà, tranne forse i pensatori più sbilanciati verso un esistenzialismo tragico (come Jaspers e Leopardi). In questo caso però siamo praticamente ai margini del più autentico Personalismo, e quindi non possiamo su questa base mettere in dubbio che la libertà sia un carattere ineliminabile della persona. Pertanto non mi sembra che valga la pena di discutere qui riassuntivamente tale aspetto. Inoltre va anche sottolineato che vi sono alcuni pensatori personalisti che tutto sommato sembrano disinteressarsi totalmente della libertà della persona proprio nel ritenerlo un carattere del tutto secondario rispetto ad uno status ontologico che sembra avere il proprio centro soprattutto nel fatto di essere fondati in sé stessi, e quindi essere senz’altro molto più autonomi (fino alla tragedia) che non invece liberi. Tra costoro vi sono senz’altro (oltre che gli esponenti dell’esistenzialismo tragico) i pensatori della de-personalizzazione (come Bloy, Le Fort e Leopardi) ma anche i pensatori della morale e dei valori (come Scheler) e dai pensatori della “Weltanschauung” soggettuale (come Jaspers). Presso costoro infatti si delineano soprattutto elementi (nel considerare primario un atteggiamento obbligato o anche una naturale tendenza della persona) che considerano la libertà superflua o perfino la scavalcano.
Forse va solo fatto notare che nel corso della mia esposizione sono emersi tre generi di libertà connessa con la persona: −
1) quello più prossimo alla classica dottrina etico-religiosa cristiana del libero arbitrio (entro il quale la libertà costituisce per la persona più che altro un obbligo morale nei termini dell’auspicabile scelta del bene in luogo del male). E questo intendimento si ritrova soprattutto tra i personalisti davvero integralmente religioso-cristiani come Stein, Maritain ed anche Maine de Biran. Guardini invece pone troppo l’accento sulla relazionalità della persona per interessarsi della libertà come suo carattere tipico. Insomma in lui sembra la possibile esitazione ad agire (alla quale la libertà sempre rinvia) venga decisamente scavalcata dalla prepotente spinta alla relazione che tende ad unire la persona all’altra persona
2) quello più prossimo alla creatività personale come potenza, che quindi considera la libertà nella sua pienezza soprattutto metafisica, trascendente ed ontologica (specie in quanto equivalente al movimento stesso dell’essere), e cioè come in via di principio illimitata ed incondizionata. E qui domina decisamente il personalismo di Berdjaev.
3) quello più prossimo alla dimensione sociale-relazionale della persona, che considerano la libertà in modo sostanzialmente pragmatico (e forse anche ontologicamente secondaria), e quindi come funzione della socialità specie nei suoi aspetti politici. E qui dominano i personalismi di Ricoeur e Mounier (unitamente, almeno in parte, anche a quello di Maine de Biran).
Vedremo poi tra poco come la dottrina della libertà di Dostoevskij si presenti comunque come quella forse più estrema tra tutte.
Ovviamente strettamente connesso al tema della libertà è quello della responsabilità personale che è appunto decisione e scelta per definizione libere. Ho già in parte trattato questo tema in questa sezione, e comunque, anche rispetto ad esso, non mi è sembrato (nel corso della trattazione) che siano emerse differenze significative almeno tra i pensatori più personalisti che abbiamo appena preso in considerazione a proposito della libertà. Peraltro il tema della responsabilità implica strettamente quello del ruolo svolto dalla persona nel contesto della morale. Ed anche qui (a parte l’accento posto su questo aspetto da Scheler ed anche in parte da Ricoeur e Mounier) nella mia trattazione non sono emerse differenze significative. Abbiamo visto comunque che la dottrina dostoevskiana della responsabilità è particolarmente estremistica in quanto essa esige dalla persona il preciso obbligo di addossarsi volontariamente colpa ed anche punizione. Dunque senz’altro il Personalismo in generale (almeno nella sua forma media) non sembra avere dubbi sul fatto che la responsabilità sia un carattere tipico della persona.
Alcune larvate differenze ed alcuni aspetti specifici vanno comunque evidenziati in quanto abbastanza significativi, per quanto essi non inficino affatto la compattezza della presa di posizione personalista al riguardo.
Sebbene con accenti a volte molto diversi (da quello più onto-metafisico a quello più pragmatico), l’attribuzione alla persona della responsabilità comporta in tutti i pensatori personalisti una dimensione azionistica della persona stessa. E qui, come vedremo tra poco, spicca decisamente Berdjaev.
Inoltre (come abbiamo osservato per la libertà) anche nel caso della responsabilità le concezioni personalistiche divergono tra quelle che contemplano una sorta di scelta obbligata del bene (nel contesto di una visione senz’altro deterministica) e quelle che invece lasciano davanti alla persona un campo di scelta del tutto aperto. La differenza tra i due diversi tipi di pensatori personalisti è al proposito la stessa che ho indicato a proposito della libertà. Ma nuovamente si delinea in modo netto la dottrina della responsabilità di Guardini, che sfugge decisamente al determinismo posto da Stein e Maritain – per lui infatti la responsabilità più che un obbligo morale è un’attitudine inevitabilmente coinvolta nell’indispensabile movimento della persona verso l’altra persona. Proprio per questo per lui la responsabilità corrisponde per lui all’azione come irresistibile slancio, e quindi non conosce assolutamente quella sospensione esitante dell’azione che è implicata nella scelta connessa con il libero arbitrio
Ma di nuovo qui spicca la dottrina di Dostoevskij in quanto teorico di una libertà che conserva intatto il suo valore assoluto sia nel caso della scelta del bene sia nel caso della scelta del male. Ed a questa dottrina fa eco quella di Berdjaev secondo il quale la responsabilità (così come la libertà) equivale di fatto all’incondizionata creatività umana, e quindi sfugge decisamente a qualunque determinismo. In particolare egli si rifiuta di considerare la responsabilità come passiva (in quanto mera reazione al peccato) invece che integralmente attiva. Peraltro (a differenza dei personalisti più legati ad un determinismo della libertà e della responsabilità, come Stein e Maritain) il pensatore russo fonda la sua dottrina su una critica molto radicale alla morale tradizionale (ritenendola di fatto per nulla capace di affermare il valore della responsabilità a vantaggio invece di un mero conformismo ipocrita). E nel complesso (pur con tutti i rischi connessi al possibile scivolamento nel titanismo della volontà di potenza) nel corso nella mia investigazione mi è sembrato che il concetto berdjaeviano di responsabilità (in quanto radicalmente libero) possa venire considerato ben più autentico di quello dei deterministi (come Stein e Maritain) in quanto affatto moderato. Ed abbiamo visto che (specie nel contesto della morale cristiana) questo atteggiamento moderato rischia non poco di scivolare nella tiepidità e magari perfino nell’irresponsabilità. Abbiamo visto anche che ciò sta in stretta relazione con il razionalismo tanto della morale che della persona stessa.
E, nell’esaminare il pensiero di Dostoevskij, abbiamo costatato che questo razionalismo rischia perfino di attenuare quell’umano-divinità della persona che è poi l’elemento sul quale lo scrittore russo fonda maggiormente la propria così estremistica dottrina.
Inoltre appare estremamente originale la dottrina personalistica della responsabilità di Le Fort, dato che essa è apertamente sacrificale, essendo incentrata totalmente nella virtù dell’incondizionata “dedizione”.
Eppure abbiamo trovato un riflesso di tale dottrina perfino in Mounier il quale non esita a considerare la responsabilità della persona verso l’altra persona come vero e proprio “dono di sé”.
Infine vanno qui richiamate le prese di posizione in parte personaliste di Jonas (PR) e Arendt (RG), entro le quali la responsabilità si pone soprattutto come obbligo volontario verso un giudizio etico molto intensamente personale, che (esattamente come in Scheler) sfugge decisamente all’impersonale sottomissione passiva a principi morali astratto-formali di tipo kantiano.
Forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire che, dopo tutto ciò che abbiamo constatato, i due caratteri personali congiunti di libertà e responsabilità, appaiono essere entrambi strettamente connessi, entro il pensiero personalista, al carattere personale dell’amore. A tale riguardo vi è da registrare comunque una certa discrepanza tra i pensatori personalisti, dato che ve ne sono alcuni (come Scheler, Ricoeur, Jaspers e Leopardi) che si disinteressano quasi completamente di tale aspetto. Senz’altro i pensatori personalisti che più sottolineano tale carattere tipico della persona sono comunque Berdjaev, Bloy, Le Fort, Guardini ed anche lo stesso Mounier. Anche in questo poi Dostoevskij è molto estremista nella sua davvero intensa concezione dell’amore. Quello che però ci è sembrato strano è che questo aspetto non trova accenti espliciti né in Stein né in Maritain. Quanto a Stein ho chiarito che però dobbiamo prescindere da ciò che lei scrisse dal momento esatto del trapasso dalla filosofia metafisica alla mistica (che iniziò già nella seconda metà di EES). Da questo momento in poi, infatti, l’amore iniziò a divenire il vero e proprio centro orbitante del suo pensiero ed anche della sua prassi. Ma comunque prima di questa fase mi è sembrata condizionante in senso negativo una concezione della persona che è restata sempre stata troppo condizionata dal razionalismo filosofico ed anche gnoseologista; e la cui conseguenza è sempre stata un’etica anch’essa fortemente razionalista. Su queste basi non poteva esservi troppo spazio per la teorizzazione dell’amore in termini personalisti. Non a caso il suo Essente unico-personale è lo specchio umano della divinità ma non appare come un soggetto amante. Ho inoltre anche chiarito che è improprio estendere il suo originario concetto di “empatia” ad una teorizzazione dell’amore.
Quanto poi a Maritain qui ha giocato senz’altro un ruolo importante un trascendentismo religioso-cristiano che senz’altro lo induceva a porre l’accento molto più sull’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio, che non invece sull’amore interumano. Che però con certezza egli non ha mai negato.
Dunque potremmo dire che il Personalismo non è stato affatto compatto nell’attribuire alla persona il carattere dell’amore.
Esattamente lo stesso può venire detto anche per l’attribuzione alla persona di una disposizione alla “comunione”. Sotto questo aspetto il pensiero di Berdjaev è stato davvero paradigmatico nel porre questo carattere personale come addirittura primario. E su questo mi sono molto dilungato nella mia trattazione. Inoltre non vi è dubbio che, sebbene indirettamente (ossia non con la stessa esplicitezza anche terminologico-concettuale) tale carattere è stato attribuito alla persona anche da Guardini (specie nel considerare il Regno dei Cieli come alla portata storica dell’uomo), da Mounier (nel considerare la relazionalità della persona come un’azione tendente ad una società con aspetti sicuramente comunionali), da Maine de Biran (in maniera molto simile a Mounier), da Stein (però nei termini estremamente razionalistici che concepivano lo “spirito oggettivo” come l’edificio stesso della Cultura umana), da Maritain (nei termini della secondo lui auspicabile ricostruzione di una civiltà cristiana), da Scheler (nel senso della ricostruzione di una “comunità spirituale” senz’altro ad impronta cristiana ma comunque soprattutto politico-civile e popolare), ed infine da Dostoevskij (nella maniera solitamente estremistica ed anche sostanzialmente escatologico-apocalittica ed utopistica). In maniera ancora più indiretta tale carattere viene poi attribuito alla persona anche da Bloy e Le Fort. Infine è interessante notare che esso viene attribuito alla persona da Leopardi in maniera chiaramente negativa, ossia nel contesto di un’aspirazione nobilissima che però secondo lui a suo avviso è in partenza destinata al fallimento.
Quanto poi a Jaspers si può dire che egli abbia inteso questo concetto estremamente alla lontana nel contesto di una piuttosto gelida ed intellettualistica teoria (filosofico-psicologica) dell’umanità come Totalità delle “Weltanschauungen”.
Potremmo dire quindi che, con poche eccezioni (tra le quali significativamente Ricoeur), quasi tutti i pensatori personalisti (sebbene con molto diversi accenti) hanno intravisto nella persona questa disposizione alla dimensione comunionale. E questo è anche piuttosto sorprendente dato che un numero decisamente inferiore di pensatori personalisti hanno attribuito alla persona il carattere dell’amore.
La disposizione della persona alla rivoluzione vede protagonisti tre soli pensatori, e cioè Berdjaev, Mounier e Dostoevskij. Il modo in cui essi hanno inteso questo carattere è stato molto diverso. Ma comunque di questo ho parlato a sufficienza nella mia trattazione. In ogni caso questo può essere considerato un carattere decisamente trascurabile della persona, dato che esso non tocca certamente i suoi caratteri ontici sia primari che secondari

2-2 La visione personalista in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» del Personalismo sulla base dell’esame della dottrina personalista.
Finora abbiamo visto come hanno visto la persona i pensatori personalisti che ho esaminato nell’ investigazione, ossia in che modo l’hanno pensata e quindi come ed in quanti modio essi hanno determinato il suo «cos’è?». Ora dovremmo cercare di comprendere come noi stessi possiamo vedere il modo in cui il pensiero personalista ha pensato la persona, e soprattutto comprendere i vari modi in cui ciò avvenuto. Si tratta insomma di ri-comprendere, ri-determinare ed anche ri-classificare l’intera struttura del pensiero personalista ed anche la sua dinamica interna.
E la prima cosa che emerge in questa rivalutazione sono i quattro grandi assi polari secondo il quale il pensiero personalista si è presentato al mondo, si è strutturato e si è organizzato al suo interno: −
1) Personalismo metafisico-religioso oppure laico; 2) Personalismo della potenza (in primo luogo creativa) oppure della de-personalizzazione; 3) Personalismo contemplativo oppure pragmatico (filosofico-politico); 4) Personalismo unilateralmente moderno oppure integrale (ossia di fatto in linea con un ipotetico Personalismo tradizionale ed eterno).
Una volta riconosciuti questi assi, emergono poi immediatamente una serie di dimensioni di pensiero che intersecano l’intero Personalismo, presentandosi a volte in maniera più forte ed esplicita ed a volte invece in maniera più larvata; ed inoltre presentandosi anche in modi a volte molto diversi. Si tratta delle seguenti dimensioni: − 1) spiritualismo; 2) religiosità cristiana o meno; 3) impostazione etica (includente anche un versante azionistico); 4) esistenzialismo (con il connesso nichilismo); 5) impostazione socio-politica e filosofico-politica, decisamente azionistica; 6) impostazione ottimistica (prevalente «positività» dello status persona) oppure pessimistica (prevalente «negatività» dello status ontologico di persona).
Questi due grandi raggruppamenti di elementi nei quali può venire diviso il Personalismo si presentano in maniera intuitivamente molto intersecata tra di loro. In modo tale che così (in maniera simile a quanto è emerso riguardo alla dottrina della persona) si delinea qualcosa di simile ad una serie di possibili caratteri dei vari Personalismi. E non ho bisogno di elencarli dato che essi sono risultati già impliciti nei due grandi raggruppamenti che ho appena indicato.
Tuttavia tra questi caratteri ve ne sono alcuni che vanno discussi in particolare dato che essi si presentano nel Personalismo in maniera non solo costante ma anche ingente e soprattutto pervasiva. Essi sono presenti infatti più o meno a macchia di leopardo un po’ in tutti i tipi di Personalismo. E diremmo che sono i seguenti: − 1) spiritualismo; 2) ontologia come filosofia dell’essere 3) eventuale filosoficità religiosa; 4) grado di connessione con la filosofia contemporanea (specie come idealismo, realismo, gnoseologismo, materialismo, naturalismo, positivismo e grandi ideologie fondate in termini filosofico-politici); 5) valenza teologica e religioso-esperienziale; 6) esistenzialismo eventualmente nichilista; 6) azionismo; 7) vitalismo; 8) relazione con la scienza empirica
A veder bene si tratta dei caratteri che sono chiaramente riconoscibili a colpo d’occhio entro quello che sicuramente è il sistema filosofico personalista più completo, e cioè quello di Berdjaev. E non a essi ritornano anche nelle due grandi classificazioni del personalismo che ci presentano Ricoeur e Mounier.
Naturalmente però se volessi rattare in dettaglio tutti questi aspetti dovremmo scrivere un secondo testo sul Personalismo. Per cui mi limiterò a trattare soltanto di alcuni di questi aspetti in maniera specifica, includendo in essi anche ulteriori aspetti ed altri invece tralasciandoli nel rinviare il lettore a quanto ho già esposto nel corso della nostra trattazione.

Dello spiritualismo personalista bisogna assolutamente trattare (in maniera specifica ed anche piuttosto dettagliata) per il semplice fatto che esso rappresenta la presa di posizione filosofica che ha contraddistinto forse uno dei maggiori precursori del personalismo, ossia Maine de Biran.
Abbiamo constatato che sono stati spiritualisti i due centri orbitali intorno ai quali si muove la nostra intera indagine sul personalismo, e cioè Berdjaev e Stein. Anzi il primo lo è stato in maniera ben più intensa, integrale, radicale e completa della seconda. E questo sostanzialmente perché egli ha equiparato spirito ed essere in maniera totale. Tendendo così quasi a ricostituire l’ambito di quella visione antichissima che in diversi miei scritti ho indicato come «onto-spiritualismo» − termine con il quale va intesa l’affermazione che la realtà è integralmente spirituale (e quindi trascendente) ad affatto invece materiale. Ciò significa insomma che l’essere sarebbe primariamente spirito e basta; e quindi sarebbe una realtà in verità del tutto aerea ed evanescente, secondo il paradigma di ciò che anche lo stesso Cristianesimo paolino ha riconosciuto come «Pneuma». Ed in diversi miei scritti ho mostrato che tale spiritualismo si ritrova in diversi pensatori occidentali appartenenti al platonismo per trovare comunque la sua massima espressione nel pensiero orientale (con estremo vertice nel pensatore vedantico Śankara) [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164]. Il che comporta poi che la realtà materiale non sarebbe altro che una vana illusione, ossia la famosa māyā del Vedanta e del Buddhismo. Ed in questa visione a mio avviso rientra senza ombra di dubbio anche Platone stesso; come peraltro sostenuto non solo da me, ma anche da diversi studiosi [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008].
Ebbene non è stato affatto questo lo spiritualismo che (a partire da Maine de Biran) è rimastro costantemente intrecciato al Personalismo e poi ha trovato molto interpreti anche nella rivista “Esprit”. Esso era in fondo partito in fondo a quella tradizione idealistica occidentale (iniziata da Cartesio e poi continuata in pensatori come Malebranche e Leibniz) presentandosi prima come un razionalismo metafisico e poi come una vera dottrina della Ragione (specie in quanto Spirito universale). Ma intanto, nel passare attraverso l’Idealismo tedesco, si era arricchito di ulteriori e nuovi elementi che poi ritroviamo in pieno anche nel Personalismo. In particolare esso si era trasformato in una dottrina dell’Io assoluto, poi dell’Io cosciente ed infine anche dello stesso Io umano e della stessa interiorità.
Intanto comunque lo spiritualismo steiniano è stato troppo influenzato da un razionalismo filosofico-gnoseologista ed intellettualista (tra le altre cose fortemente condizionato dalla ragionevolezza del cosiddetto «principio di realtà», e quindi dall’idea che sia reale solo ciò che è presente nella coscienza umana in relazione con gli effettivi oggetti dell’esperienza) per poter essere assimilato a qualunque genere di onto-spiritualismo. Ed inoltre (nonostante la sua equiparazione totale di spirito ed essere) anche lo spiritualismo di Berdjaev non è stato affatto «onto-spiritualista». Il pensatore russo afferma infatti che il dualismo spirito-carne deve venire decisamente superato. Ed inoltre intende la persona quale spirito come un’entità decisamente concreta e carnale.
Ed il suo deve essere considerato senz’altro lo spiritualismo più estremista del personalismo. Ma comunque lo spiritualismo di pensatori come Maine de Biran e Mounier è di segno totalmente diverso dal suo, essendo tutto sommato riconducibile ancor più alla grande tradizione idealistica occidentale, secondo la quale lo Spirito equivale sia all’uomo in quanto ente razionale (e quindi anche come coscienza) sia anche all’Io assoluto (che è stato concepito da Hegel e poi anche da Husserl) – insomma molto genericamente alla Ragione. Ed è in questo senso che anche presso questi pensatori lo Spirito viene considerato equivalente all’uomo. Certo però non con la tendenziale valenza «onto-spiritualistica» che possiamo riscontrare in Berdjaev. In ogni caso questo spiritualismo era idealista anche nel prevedere esplicitamente il dominio dello spirito sul corpo, al quale invece il pensatore russo non attribuiva alcun valore. Anzi, nel prendere a modello Dostoevskij, egli considerò semmai lo Spirito come quella insondabile profondità che suscita le passioni invece di dominarle. In ogni caso egli intendeva lo spiritualismo in senso religioso, in modo tale che la spiritualità umana veniva da lui considerata perfettamente equivalente a quella divina nel contesto dell’umano-divinità.
Posti questi principali punti di riferimento, lo spiritualismo si rese presente praticamente in tutti i pensatori che afferirono alla rivista “Esprit”, e che fu, per mezzo di Mounier la culla stessa del Personalismo. Quanto poi a Ricoeur il suo spiritualismo fu decisamente riduzionista, visto che il pensatore lo ritenne appena un’”ismo” tra i tanti. In ogni caso lo spiritualismo di Mounier sta bene attento a non scivolare nel sostanzialismo, dato che si incentra sul valore attribuito all’interiorità della persona. Per lui infatti il valore di quest’ultima consiste infatti proprio nella sua centratura nella dimensione interiore. Quindi per Mounier è esattamente l’interiorità ciò che fa della persona uno spirito. Inoltre per lui ciò che conta è l’azione personale (in quanto “libertà spirituale”) nella sua capacità di produrre realtà spirituali, ossia sostanzialmente prodotti etico-relazionali. Quindi questo lo spiritualismo di Mounier è sostanzialmente azionista.
Certo è che, per l’accento posto da Berdjaev sulla creatività dell’uomo personale in quanto spirito, appare piuttosto evidente che lo spiritualismo cessa di esistere entro il Personalismo se esso non è azionista.
E questo è ciò che avviene per il pensatore russo proprio in quel Cristianesimo che esaltò i valori della passività e dell’adattamento al mondo. Pertanto appare evidente che lo spiritualismo personalista va inteso sostanzialmente come trasfigurazione del mondo. E questo suo intendimento sicuramente fu comune all’intero Personalismo azionista. In particolare Berdjaev afferma al proposito che il classico spiritualismo cristiano ha considerato sempre lo spirito molto più come una potenzialità creativa che non invece come una realtà. E lui invece mirava propriamente alla trasfigurazione spirituale del mondo. In ogni caso il suo spiritualismo fu intimamente connesso con la creatività che secondo lui caratterizza la persona.
Veniamo però ora alla natura religioso-cristiana del personalismo. E vedremo che tale questione − implicando strettamente anche tutta un’altra serie di grandi questioni del Personalismo, tra quelle che ho elencato prima – ci permetterà di dire una parola definitiva anche si queste ultime.
Nel corso dell’investigazione abbiamo constatato che la vena senz’altro più ingente del Personalismo è stata tra il XIX e XX secolo quella metafisico-religiosa e contemporaneamente ontologica e sostanzialista. Nel suo contesto si tendeva a vedere la persona come anima e soprattutto come spirito, e la si identificava con lo spirito divino attribuendole l’umano-divinità. E siccome parliamo di un pensiero unicamente occidentale è ovvio che il riferimento religioso di questa visione è stato il Cristianesimo. Inoltre, siccome nel Personalismo ha dominato decisamente la scuola di lingua francese, si è trattato quasi esclusivamente del Cristianesimo cattolico (con voci come Maine de Biran, Maritain, Renouvier, Peguy, Mounier, Secrétan, Ravaisson, Le Senne, Lavelle, Marcel, Laberthonnière, Bloy, Hugo) . Lo stesso è comunque avvenuto però anche in Germania con Stein, Guardini, Le Fort, Scheler e Goethe. Vi è stato però anche un personalismo di religione cristiana greco-ortodossa in pensatori come Berdjaev e Dostoevskij. Invece il personalismo cristiano di tipo protestante viene rappresentato bene da Kirkegaard.
Non sono informato su altre forme religiose attuali o passate del Personalismo. In particolare le religioni orientali (induismo ed ancor più buddhismo) tendono a negare il concetto di persona e quindi non possono per definizione rientrare nel Personalismo. Inoltre, a causa della scarsa rilevanza in essa del concetto di persona, l’antica religione pagana greco-romana deve venire decisamente esclusa dal personalismo.
Sebbene abbiamo visto che si possono trovare degli spunti personalisti in Platone.
In ogni caso (come abbiamo visto più volte) entro il Personalismo cristiano bisogna tenere presente una lunghissima tradizione che praticamente investe tutti i pensatori che ne hanno fatto parte. Ma direi che due momenti di punta di tale tradizione sono stati senz’altro Agostino e Tommaso d’Aquino.
Abbiamo però constatato che vi è stato anche un Personalismo né religioso né cristiano. È stato quello di tutti i pensatori che abbiamo discusso nella nostra trattazione ma non ho nominato qui (Ricoeur, Jaspers, Leopardi). E come vediamo si tratta di un Personalismo decisamente di minoranza.
Ora, indipendentemente dalla critica al Cristianesimo tradizionale che ha animato personalisti di spicco come Berdjaev e lo stesso Mounier (inducendoli, e con solide ragioni, a pensare che il Personalismo potesse essere davvero cristiano solo dopo una profonda riforma del Cristianesimo), direi che questa costatazione porta in primo piano un elemento che è emerso molto spesso nel corso della mia trattazione.
Si tratta cioè della presumibile «superiorità» del Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. E la principale ragione di tale superiorità sta nel fatto che questo Personalismo è quello che afferma la realtà inconfutabile, il valore ed il ruolo della persona in un modo che è così assoluto e indiscutibile da divenire di fatto dogmatico. E sta di fatto che questo è l’unico modo per affermare davvero con forza la dignità inviolabile ed assoluta della persona umana.
In altre parole questo è l’unico Personalismo in forza del quale si possa dire che l’uomo è realmente persona − e lo è sostanzialmente perché è persona divina −, per cui ad essa spettano una dignità ed un valore così incommensurabili da renderla assolutamente inalienabile, ossia intoccabile. E questo ha ovviamente una serie di infinite conseguenze su tutti i piani possibili (morale, sociale, politico, economico, culturale, scientifico etc.). Il che significa quindi che in questo modo la dignità ed il valore della persona finiscono per costituire un criterio di orientamento teorico-pratico non solo imprescindibile ma anche centrale.
Sta di fatto però che quest’ultimo Personalismo è però già molto datato e quindi di fatto storicamente non esiste più; sebbene permanga in ogni caso come un punto di riferimento dottrinario ineliminabile. Infatti già con Ricoeur (e con i diversi pensatori personalisti da lui citati: Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson) il Personalismo non si presenta più né come ontologico-sostanzialista, né come metafisico né come religioso. E proprio per questo è ormai molto esposto al relativismo.
Ho esposto nella mia trattazione le principali ragioni per le quali secondo me il Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso (specie se cristiano) va considerato superiore agli altri. Ma intanto come leggere il fenomeno della sua totale scomparsa dall’orizzonte storico attuale?
A mio avviso (aldilà di tutte le possibili riflessioni autorizzate da questo fenomeno) l’unico modo per leggerlo è quello di constatare che esso si pone nel contesto della moderna de-sacralizzazione dell’uomo e della società, e quindi nel contesto dell’ormai deciso allontanamento dell’uomo a Dio. Insomma ormai uomo e società sono divenuti decisamente laici. Ma, visto che abbiamo constatato che solo sul piano metafisico-religioso la dignità ed il valore della persona vengono affermati in maniera indiscutibile, tutto ciò può solo significare che i moderni personalismi sono tutti sostanzialmente «deboli», e quindi affermano la dignità ed il valore della persona soltanto in maniera timida, dubbiosa, scettica, moderata, problematica; insomma, in una sola parola, in maniera unicamente relativa. E allora si può ben dire che (come afferma Ricoeur) il personalismo è ormai morto. Non è morto però affatto per i motivi da lui menzionati. È morto invece semplicemente perché si è cessato di attribuire alla persona dignità e valore; anzi addirittura si è cessato di credere in essa come realtà. Non a caso la moderna filosofia (de-costruzionista, nichilista e perfino buddhista) è apertamente anti-personalista. E comunque (anche aldilà di questo) come si potrebbe mai sperare che il personalismo rinasca (come invece Ricoeur auspica con molta convinzione) nel contesto di una cultura ormai così invariabilmente laica e scettica? Insomma quale Personalismo può mai rinascere nell’attuale temperie filosofica; visto anche che in essa è svanita ogni traccia sia di metafisica che di autentica religiosità?
Il che poi avvalora pienamente l’idea berdjaeviana secondo la quale la necessità di una nuova vera e propria “rivelazione antropologica” (secondo lui essenziale per il sussistere di un Personalismo) si pone totalmente entro i fenomeni di una vasta “crisi” tipicamente moderna e che investe in primo luogo la morale ma anche tutti i fenomeni della conoscenza, della società, della civiltà e della prassi (conoscenza in generale, filosofia, scienza, arte, religione etc.) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-68, II p. 101-106, IV p. 151-153, IV p. 159-161 VI p. 196-198, VII p. 214-223, X p. 295-299 XI p. 318-323, XII p. 342-346, XII p. 350-351, XIII p. 370-374]. In altre parole Berdjaev ci ha mostrato chiaramente che la presa in considerazione del Personalismo implica strettamente la consapevolezza di una crisi tutta moderna che non può non coinvolgere anche questa stessa visione.
Del resto la più recente storia stessa (a partire almeno dagli anni ’30 del XX secolo e inoltre dalla II Guerra Mondiale) ci offre le prove di un disprezzo della persona umana che sicuramente non vi è stato nemmeno nell’antico Paganesimo. Lo scenario insomma è divenuto ancora peggiore di quello menzionato da Scheler nel riferirsi ai terrificanti campi di morte della I Guerra Mondiale. Nel corso della più recente storia sono insorti infatti fenomeni di inimmaginabile degradazione della persona umana che si spingevano addirittura fino alla volontà inflessibile del suo annientamento psicologico e fisico (ecco i Lager non solo nazisti e staliniani ma anche quelli ispirati alle più diverse ideologie). La scienza poi (con l’invenzione di nuove armi immensamente distruttive, con l’ingegneria genetica e con la cibernetica applicata non solo alla nascita della robotica ma anche alla radicale trasformazione bionica dell’uomo) è giunta a livelli inconcepibili di ignoranza e disprezzo della dignità e del valore della persona umana. Infine l’economia di tipo neo-liberale e turbo-capitalista è giunta a considerare addirittura un dogma indiscutibile la mortificazione della persona umana per mezzo del suo impoverimento e della cancellazione di ogni suo diritto.
Da tutto ciò consegue che (molto diversamente da quanto auspicava Ricoeur) noi siamo oggi semmai di fronte ad un evidente anti-personalismo.
Ma in fondo anche gli auspici formulati da Mounier (e che puntavano in direzione di una radicale riforma della società in senso personalisti) sembrano essere stati tutti non solo dimenticati ma anche confutati e cancellati. Ed intanto resta però in piedi un Personalismo estremamente debole (e presente unicamente in ordine sparso), che poi fa anche la figura del paria di fronte all’ormai vastissimo fronte di un pensiero totalmente anti-personalista.
E quindi a chi tra di noi sente di potere e volere attribuire ancora valore al Personalismo, non resta che rivolgere lo sguardo al passato, ossia a quel Personalismo che magari è anche senz’altro storicamente morto, ma intanto (sebbene solo dalla tomba) ha ancora tutto da insegnarci. E questo è senz’altro unicamente il Personalismo ontologico-sostanzialista, metafisico-religioso e soprattutto cristiano.
Come ho accennato prima, la questione dell’ontologicità e religiosità del Personalismo implica anche tutta una serie di altre questioni riguardanti questa visione − e che prima abbiamo visto costituire i grandi assi lungo i quali il Personalismo tesso si è strutturato e si è sviluppato – e riguardanti anche le grandi correnti ideali che l’hanno costantemente attraversato. Quindi in tale contesto abbiamo la possibilità di dire una parola definitiva su tali questioni.
Il criterio che dovremmo seguire è in particolare quello della scelta delle caratteristiche dottrinarie che dovrebbe avere il Personalismo al quale noi intanto guardiamo con lo sguardo rivolto al passato in particolare tenendolo fisso su quello ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso cristiano. Da questo momento in poi riassumerò comunque questo Personalismo con l’acronimo POSMRC.
Innanzitutto appare evidente che esso deve implicare una filosofia religiosa e quindi deve privilegiare fortemente anche l’approccio di pensiero teologico. Non a caso abbiamo visto che il momento forse più forte del POSMRC è stato quel pensiero di Guardini che aveva esattamente queste caratteristiche. Quanto poi agli altri pensatori personalisti religioso-cristiani, queste due presenze si ritrovano (sebbene con accenti meno forti, chiari ed espliciti) senz’altro anche in Stein, Maritain, Berdjaev, Le Fort, Bloy e Maine de Biran. Quanto poi a Scheler egli ha un approccio senz’altro cristiano ma sempre intermediato da un interesse prevalente per la pura filosofia. Per cui è difficile riscontrare in lui un’aperta filosofia religiosa oltre che l’invito alla prassi dell’esperienza religiosa. Non a caso egli tiene strettamente separate religione e metafisica.
In connessione con ciò sta inevitabilmente il fatto che il Personalismo deve essere anche strettamente legato alla prassi dell’esperienza religiosa, ossia la prassi nella quale la persona umana coltiva e sviluppa la propria umano-divinità. In alcuni tra i momenti più forti ed autentici del POSMRC (Stein, Maritain, Guardini, Le Fort, Bloy, Maine de Biran, Dostoevskij) abbiamo visto infatti che quest’ultima è da considerare sostanzialmente un dono divino. E quindi non si può assolutamente illudere di poter conservare questo carattere così fondamentale della persona sulla base della sole nostre forze.
Per questo è invece evidentemente necessario un continuo intervento sovrannaturale e divino; e con ciò va inteso senz’altro il nostro volontario mantenimento costante del contatto con la presenza di Gesù soprattutto per mezzo della preghiera, oltre che per mezzo della pratica della giustizia e dell’amore.
Gesù infatti non cessa mai di bussare alla porta del nostro cuore, ma intanto non osa mai aprirla se non lo facciamo prima noi.
In ogni caso dobbiamo ribadire qui che la visione personalista di Berdjaev resta a tale proposito abbastanza problematica. Egli infatti non solo pone il Personalismo come filosofia religiosa ed anche come necessaria prassi dell’esperienza religiosa. Anzi (come ho mostrato nel mio articolo già citato) offre molti spunti per liberare quest’ultima da una retorica religioso-formalista e pietista (i cui protagonisti sono predicatori, apologeti ed anche non pochi moderni teologi fortemente scettici se non atei) che sbarra la strada severamente all’intimità della relazione personale con Dio. Berdjaev cioè ci aiuta moltissimo a rendere l’esperienza religiosa creativa come essa deve effettivamente essere per poter avere la speranza di toccare davvero la Presenza divina. E tuttavia egli non considera affatto l’umano-divinità come un generoso dono divino, ma invece la ritiene connaturata in partenza a quella persona umana che secondo lui è tanto originaria quanto lo è l’Essere divino stesso. E su questa base è molto facile per il credente scivolare su un piano sul quale egli finirà per adorare molto più il proprio Ego che non invece Dio. E così rischierà di entrare in contatto appena con il Gesù che egli stesso crede di essere. Del resto oggi questo atteggiamento è estremamente diffuso nel contesto di gruppi religiosi che fondono sincretisticamente la fede cristiana con una congerie infinita di altre fedi eretico-cristiane e non cristiane (induismo, buddhismo, gnosi, teosofie varie etc.). E tutto questo semplicemente apre la strada a quel titanismo (spesso di stampo fortemente nietzschiano) del quale ho già parlato e del quale parlerò ancora. Non a caso il lemma di questo titanismo neo-religioso è l’ossessione per la meditazione come via dell’auto-consapevolezza e l’illuminazione; via per la quale si persegue chiaramente la deificazione dell’uomo. Berdjaev stesso ci ha però mostrato (specie per mezzo di Dostoevskij) che la deificazione dell’uomo comporta invariabilmente la sua separazione da Dio, ed è quindi l’anticamera della fede nell’Anticristo.
Ma una volta affermata la necessità della presenza tangibile di una filosofia religiosa nel Personalismo, bisogna inevitabilmente accettare che esso si concilii molto poco con una filosofia ossessionata dal razionalismo e soprattutto dallo gnoseologismo. E quindi la presenza di quest’ultima nel Personalismo andrebbe decisamente scartata. Abbiamo constatato che questo è l’aspetto più scottante della costatazione di una certa insufficienza del personalismo steiniano. Nessuno come lei è stata infatti condizionato da questo genere di filosofia nel porre un Personalismo intanto però molto decisamente ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. Tuttavia è un fatto che proprio questo le ha impedito di attingere la pienezza di un Personalismo come quello di Guardini ed anche di Berdjaev. Quindi mi sembra che questa mia indagine abbia mostrato in modo chiaro l’inopportunità del coinvolgimento nel Personalismo di una filosofia di tipo razionalista e gnoseologista. Tuttavia va intanto constatato che anche quest’ultima è ormai storicamente datata. Il che è un altro segno importante entro la prospettiva di una nuova presa in considerazione del Personalismo. Questa filosofia infatti (specie in Husserl e Stein) era ancora pienamente compatibile con un’antropologia, ed in parte anche perfino onto-sostanzialista, dato che essa non negava affatto l’esistenza di una realtà umana che fosse spirito-animico-corporea. Ma ormai l’attuale filosofia non vuole nemmeno sentire parlare di queste dimensioni. E quindi in effetti il problema è già risolto in partenza – un eventuale nuovo Personalismo rinato (magari non nella storia ma solo nei cuori) non potrà mai più includere quel genere di filosofia. Il che però significa che – entro questo progetto di riesumazione del Personalismo − dobbiamo anche iniziare a guardare con un certo distacco al Personalismo steiniano.
E con ciò è risolta in partenza anche la questione dell’intersecarsi del personalismo con una filosofia dell’essere; tema che poi riprenderemo nel discutere la componente esistenzialista del Personalismo.
E qui è presto detto! L’intero POSMRC implica necessariamente una filosofia dell’essere. Ma quest’ultima si ritrova anche fuori di esso in pensatori come Jaspers. Così come anche in pensatori che non ho trattato (Secrétan, Lavelle, Marcel, Sciacca). Quindi dobbiamo concluderne che il Personalismo è senza alcuna difficoltà compatibile con una filosofia dell’essere; che essa sia religioso-cristiana o meno.
La stessa identica cosa può essere detta la filosofia politica. La quale, come ci dimostra Mounier, ha il pieno diritto di essere (insieme alla filosofia religiosa) l’altro grande nucleo di un almeno ideale nuovo Personalismo. Intanto va preso atto del fatto che, come affermato con forza da Ricoeur, essa non può porsi assolutamente come un “ismo” senza con ciò inficiare il Personalismo. Invece la filosofia politica deve essere ben altro. Ed effettivamente essa è tale in Mounier. Egli perfino fa appello all’adesione ad un certo socialismo marxista, ma comunque non cessa mai intanto di mettere in guardia dagli estremismi (tra i quali l’anarchismo rivoluzionario), sebbene resti estremamente e tenacemente critico verso il liberalismo borghese. E questo lo accomuna fortemente a Berdjaev, che quindi non a caso egli menziona esplicitamente come punto di riferimento fondamentale del Personalismo. Detto questo il principale contributo della filosofia politica deve essere considerato il suo appello all’azionismo. Orbene, nel corso dell’investigazione, abbiamo potuto constatare che praticamene (in maniera diretta o indiretta) tutti i pensatori personalisti da noi esaminati sono stati azionisti. Lo è stata perfino Stein, per mezzo della sua dottrina (pur fortemente filosofico-gnoseologista ed intellettualista) della formazione del mondo da parte dello spirito umano. Lo è stato Maritain nell’auspicio della riedificazione di una nuova Civiltà cristiana. Lo è stato Scheler entro un Personalismo che si incentrava unicamente sui valori come guida dell’azione. Lo sono stati perfino Bloy e Le Fort nel rivendicare (almeno indirettamente) la riforma della consapevolezza umana secondo la direttrice indicata dai valori di una de-personalizzazione che (sebbene paradossalmente) promette (per la via di un Cristianesimo decisamente sacrificale) il raggiungimento di una del tutto sublime pienezza della persona. Lo è stato perfino Jaspers (nonostante la sua indifferenza totale alla religione) almeno nell’indicare la via tragica come eroico viatico per una non meno sublime pienezza della persona.
Lo sono stati massimamente Berdjaev e Dostoevskij nel sostenere che carattere ontico addirittura fondamentale della persona sarebbe la tendenza alla trasfigurazione rivoluzionaria del mondo in senso soprattutto spirituale. Lo è stato perfino un nichilista e pessimista come Leopardi nell’indicare (almeno in trasparenza) le possibili direttrici di una profonda riforma utopistica del mondo che si basi sul radicale giudizio di condanna emesso su di esso. E questo senz’altro coinvolge anche Kirkegaard (sebbene del suo pensiero non ho trattato). Infine lo sono stati in maniera senz’altro aperta ed esplicita Mounier e Ricoeur, sebbene quest’ultimo abbia voluto perdersi in una dottrina leziosamente filosofica del Personalismo come ermeneutica.
Dunque non vi è dubbio che l’ideale nuovo Personalismo che noi desiderosamente contempliamo unicamente nel passato (ma con l’intenzione di fare di esso il nostro viatico filosofico-attivo) debba essere azionista.
Insomma, una volta concepito un POSMRC, non si ha alcun diritto a fermarsi in base ad esso ad una mera affermazione della dignità e del valore inalienabili della persona. Questo credo deve invece venire anche posto in pratica. E le due vie per farlo sono senz’altro l’esperienza religiosa e la prassi etico-politica.
E qui naturalmente ritorna essenziale l’appello di Jonas e Arendt ad un giudizio integralmente personale sul mondo, sugli eventi e sul mondo. Cosa che poi trova un preciso riscontro in Berdjaev laddove egli non nega in alcun modo la necessità di superare il mondo, sebbene vada intanto pienamente riaffermata la presenza concreta ed attiva della persona in esso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43, I, p. 48-75, I p. 88-101, I p. 88-101, II p. 113-117, III p. 135-136, V p. 175-177, V p. 182-185, VII p. 203-209, X p. 279-284, XI p. 307-313, XI p. 326-329, XII p. 331-334].
Non c’è dubbio che, nel contesto del Personalismo, ciò implichi un vitalismo, che del resto Berdjaev teorizza in maniera molto esplicita (rifacendosi peraltro a Bergson). E lo stesso vale anche per Mounier, specie nella sua idea che la condizione personale vada attivamente conquistata nel vivere pieno, e non invece solo presupposta. Tracce di vitalismo si ritrovano perfino in Leopardi. Quanto a Stein, anche se non ne ho parlato nella mia investigazione, la sua stessa radicale critica all’evoluzionismo (e proprio a difesa dell’antropologia personalista) è incentrata sul valore divino attribuito alla forza vitale. Intanto però negli altri pensatori che ho preso in considerazione questo aspetto non appare affatto evidente, e tuttavia nulla toglie che esso sia più o meno direttamente sottinteso.
Ora possiamo anche rispondere alla questione relativa alla giustificazione di un Personalismo ottimista o invece ottimista. Nella trattazione ho offerto vari spunti per risolvere la questione. Tuttavia, alla luce di questa ultime considerazioni riassuntive − nel constatare, intanto, che entrambe le anime sono presenti nel Personalismo −, va intanto detto che certamente è molto meglio che il Personalismo ideale sia pessimista che non invece ottimista. In assenza del pessimismo, intatti, viene a mancare molto probabilmente quella spinta verso la pienezza della persona che molto giustamente Mounier considera di importanza fondamentale. E bisogna dire al proposito che il POSMRC comporta un grosso rischio di considerare invece la persona come una realtà presente nel mondo (e più in generale nell’essere) in maniera del tutto incondizionata; con la conseguenza dell’illusione che essa si manifesti poi altrettanto incondizionatamente.
Il che comporta un tendenziale ottimismo che è piuttosto pericoloso. Ed infatti proprio la storia più recente ci dimostra che le cose non stanno affatto così.
E ciò chiama peraltro direttamente anche in causa quell’«ottimismo cristiano» che troppo spesso si è posto come ostacolo all’azione mondano allo scopo di appoggiare l’affermazione della persona. Nell’investigazione abbiamo infatti visto spesso che il pensiero di Berdjaev collide di sovente con questa presa di posizione. Ed a tale riguardo, invece, il Personalismo di Stein (nel disinteressarsi totalmente della questione, oppure nell’abbracciare acriticamente il piuttosto dogmatico ottimismo cristiano) si pone nuovamente in maniera largamente insufficiente. Del resto proprio Berdjaev, a causa della sua menzione di Dostoevskij, ci ha mostrato nel modo più chiaro e drammatico possibile quanto sia pericoloso abbandonarsi all’ottimismo cristiano. Esso rischia infatti seriamente di sconfinare in quella presa di posizione del Grande Inquisitore, il quale non ha alcuna esitazione a sacrificare la libertà al bene.
Per converso ciò ci mostra come il Cristianesimo (con base nella polemica di Agostino contro i Manichei) ha finito di fatto per abbandonarsi ad un ottimismo puramente retorico – che, specialmente oggi giorno, molto irresponsabilmente nega l’oggettiva presenza del male nel mondo (e nell’uomo stesso) nel mentre intanto (del tutto disinvoltamente) nega anche la possibilità di un concreto aiuto divino all’uomo nella lotta al male. E questa è decisamente l’opera francamente diabolica dei moderni teologi scettici e razionalisti in senso soprattutto de-costruzionista ed anti-metafisico (con punte, come ho detto, perfino di sconcertante ateismo).
In ogni caso abbiamo visto che essenziale – nel porre la stringente necessità del pessimismo – è stato il pensiero di Jaspers riguardo al tragico. Proprio per mezzo del pessimismo egli ha offerto infatti un formidabile supporto all’azionismo come aperta e assertiva resilienza eroica. Il che dimostra che tale
atteggiamento non è affatto per definizione una rassegnata passività all’ineluttabilità del Fato. E questo perfino senza l’apporto del Cristianesimo. Il che poi dimostra di nuovo chiarissimamente quanto vuotamente retorico rischi di essere l’ottimismo cristiano. E questo peraltro offre un forte sostegno all’idea berdjaeviana di una connaturata potenza creativa della persona. Sebbene anche qui bisogna guardarsi da un certo ingiustificato ottimismo disforico molto incline al titanismo, e quindi ad una perniciosa illusione.
Infine mi sembra al riguardo assolutamente esemplare la presa di posizione estremamente sobria e pragmatica di Mounier. Il quale afferma a chiare lettere che la lotta della persona per i valori è esposta sempre fatalmente al fallimento proprio perché il male esiste più che oggettivamente. Non solo, ma egli afferma anche che il male ha il potere reale di disgregare la persona stessa. Questo però induce Mounier a sostenere che l’unico ottimismo possibile è quello di fede. Tuttavia certamente non nel contesto dell’ottimismo cristiano di tipo retorico.
A causa di tutti questi motivi risulta evidente che, se proprio si vuole abbracciare un Personalismo cristiano (cosa, come ho detto, altamente auspicabile), bisogna stare molto attenti ad abbracciare anche il suo incondizionato e dogmatico ottimismo.
Vi è poi un’altra vi è un’ulteriore corrente ideale che attraverso l’intero Personalismo, e cioè la sua dimensione morale.
Qui il protagonista è decisamente Scheler; il quale vincola decisamente il suo Personalismo all’azione del tutto autonoma della persona in forza dei valori. E nell’investigazione abbiamo peraltro visto che questa presa di posizione trova un preciso riscontro nel pragmatismo della morale di Mounier ed anche di Ricoeur. Il che sottolinea poi che, per poter essere davvero personalistica, la morale deve essere davvero “materiale” e non invece astratto-formale. E questo inoltre sottolinea in un solo colpo la dimensione intensamente volontaristica, interiore e non-naturalistica di una morale per davvero personale.
Nello stesso tempo ciò sottolinea ancora una volta che è molto rischioso fondare la morale su una concezione ontologico-sostanziale della persona, la quale di per sé rischia fortemente (come abbiamo visto) di non essere azionistica.
Per contro vi è la posizione di Berdjaev (ed in parte anche dello stesso Dostoevskij) il quale vincola la dimensione morale della persona (da lui tutt’altro che negata) alla riforma dell’intera morale ed in particolare di quella cristiana (la quale per lui si era appiattita di fatto sui peggiori valori individualistici e conformistici borghesi). Proprio su questa base egli aveva auspicato una nuova morale creativa che riteneva l’unica in grado di costruire quella “comunione” spirituale che invece il Cristianesimo di fatto non avevamai davvero costruito, e che è poi l’unico modo per essere una religione dell’amore. Insomma per lui la pienezza della persona può venire affermata solo sulla base di questo presupposto. Non a caso a suo avviso la persona è davvero unica solo quando si fa carico dell’azione morale in maniera totalmente autonoma – ossia come un compito che la riguarda molto direttamente. Il che significa che secondo lui la morale è ineluttabilmente personalistica ed inoltre lo stesso Personalismo non è tale se non pone in primo piano la morale. E bisogna dire che anche Guardini (sebbene indirettamente) allude a questa assolutamente necessaria riforma della morale per poter dare vita da un vero personalismo cristiano. A ciò fa eco poi la fondazione unicamente interiore della morale secondo Maritain. Il che fa poi della morale stessa un ambito del tutto irrazionale, che quindi sfocia molto direttamente in quelle profondità insondabili della “vita divina” nelle quali la distinzione razionale tra bene e male decade totalmente. Proprio per questo secondo lui la persona quale “suppositum” si presenta come un sostanziale protagonista unicamente soggettuale della morale che rende relativa ed insignificante qualunque morale oggettiva.
E qui va nuovamente registrato che il Personalismo steiniano – proprio in quanto cristiano − appare di nuovo insufficiente (per quanto sia stato sensibile alla dottrina dei valori), dato che esso ha abbracciato del tutto acriticamente la classica morale cristiana. E ciò perfino ad onta del fortissimo accento da lei posto sulla piena responsabilità personale nella scelta e decisione morale. In questo però la sua dottrina morale, oltre ad abbracciare incondizionatamente la morale cristiana, finisce per abbracciare anche la unicamente razionalistica ed astratta morale universalistica kantiana che è poi del tutto laica. E che invece Scheler rigettò con estrema decisione.
La costatazione di questa insufficienza (unitamente al contributo fondamentale di Scheler alla morale personalistica) svaluta sicuramente il personalismo ontologico-sostanzialista. E tuttavia nel corso dell’investigazione abbiamo dovuto constatare anche che, nel contesto della lettura berdjaeviana di Dostoevskij, la negazione della sostanzialità della persona quale anima spirituale rischia fortemente di aprire la strada ad un falso umanesimo entro il quale la morale può venire pervertita fino al punto di autorizzare i peggiori crimini. Ecco che allora Dostoevskij ri-avvalora nuovamente la classica morale cristiana (sebbene senz’altro senza alcuna indulgenza verso il suo adattamento supino alla morale borghese). Nell’investigazione abbiamo anche visto che la morale di Maine de Biran si attiene anch’essa a questo fondamentale punto di riferimento etico-religioso. Peraltro anche lui (come Scheler) sottolineò l’importanza decisiva di una morale interiore e non invece esteriore. Ed inoltre la svincolò anche decisamente dalla dimensione razionale per legarla al solo sentimento. Tuttavia comunque il vincolo da lui stabilito tra la morale personale e quella relazionale-sociale aprì la strada a quella morale pragmatica di Mounier entro la quale l’aspetto fondamentale era l’azione. E ciò porta di nuovo in primo piano un Personalismo morale molto più funzionale che non ontologico-sostanziale.
Ecco allora che il muoversi della direttrice morale entro il Personalismo ci mostra due aspetti che sono tra di loro piuttosto contraddittori e che si presentano entrambi con vantaggi e svantaggi.
Da un lato vi è un Personalismo morale di tipo ontologico-sostanzialista (e metafisico-religioso), che di fatto è estraneo alla dottrina dei valori, specie nella sua forza azionistica. Esso comporta il vantaggio di considerare la persona umana come anima spirituale divina, evitando così un umanesimo laico che può facilmente scivolare verso l’amoralismo o almeno verso un relativismo morale. Ma comporta intanto lo svantaggio implicato dal considerare la persona umana come un’entità scontatamente morale al di fuori di qualunque sviluppo e di qualsiasi azione. Ed in questo caso vi è anche una disconnessione con i valori reali e storici di una determinata e società, con la conseguenza del ritorno di fatto di una morale universalistica astratto-formale basata su valori anch’essi a-locali ed a-storici; e l’effetto in questo caso può essere un amoralismo di fatto aggravato dal sussistere di una morale puramente di facciata. Proprio questo è il rischio che è stato corso dal Personalismo basato sulla morale cristiana non riformata, e che viene severamente criticato da Berdjaev e da Mounier (ed in parte anche da Bloy), ma non da Stein e nemmeno da Maritain.
Dall’altro lato vi è poi un Personalismo morale di tipo sostanzialmente funzionalista ed azionista (entro il quale può venire anche negata la sostanzialità onto-metafisica della persona e a volte perfino la sua animico-spiritualità nel contesto di una dottrina laica). Ed esso si presenta non causalmente spesso in stretta connessione con una dottrina dei valori. Ecco comporta il vantaggio di considerare la persona umana come un’entità chiamata a conquistare il proprio status attraverso un’azione incessante e mai ultimata, con la conseguenza che anche la sua moralità potrà essere solo attiva e strettamente condizionata ad i suoi effettivi risultati. Lo svantaggio di questa dottrina è però quello che ho considerato il vantaggio del Personalismo sostanzialista, e cioè l’assenza di uno stabile punto di riferimento metafisico-religioso che eviti il suo scadere in una morale basata sì su valori, ma che possono essere anche falsi e distorti in ragione di costumi e necessità locali e/o storiche, o anche di determinate esigenze ideologiche.
E veniamo ora all’ultima corrente ideale che abbiamo visto attraversare l’intero spazio della visione personalista, ossia l’esistenzialismo. Il quale (come abbiamo constatato più volte) è problematico per definizione dato che spesso di presenta come nichilista.
In via di principio l’esistenzialismo dovrebbe essere personalista per definizione in forza del primo e maggiore dei caratteri ontologico-basici della persona, ossia il fatto di non essere una cosa ma invece un esistente che è consapevole di sè. Infatti anche l’esistente è ciò che è perché non è affatto un ente, ma è invece un essere che è dotato di diversi caratteri che sono anch’essi propri della persona – in particolare quel totale possesso di sé stesso che fa di esso un ente fondato unicamente su sé stesso, e quindi per definizione è responsabile pienamente di ogni sua scelta.
E questo è il famoso “Dasein”, ossia quell’ente che è caratterizzato dall’«esser-ci» − che poi in qualche modo è un essere per sé stesso. Peraltro conta qui molto l’opinione di Maine de Biran, secondo la quale il razionalismo filosofico nega di fatto un esistenzialismo che è invece base indispensabile per il Personalismo, dato che esso sostiene la negazione di “tutto ciò che dona valore all’esistenza”, che poi corrisponde perfettamente al “negare che noi siamo delle persone”.
Tuttavia sta di fatto che la filosofia esistenzialista non è nata affatto con intenzioni personaliste. Il che trova un preciso riscontro in Ricoeur quando egli include anche lo stesso esistenzialismo tra le forze storico-filosofiche avverse che hanno schiacciato il Personalismo. E del resto esattamente lo stesso ha detto Stein (AMP) nel considerare l’esistenzialismo heideggeriano come l’opposto stesso del Personalismo.
Per cui la filosofia esistenzialista ha messo in evidenza gli aspetti appena commentati, ma intanto unicamente sulla base della concezione dell’esistente umano come un ente finito, e quindi per definizione così tanto gettato nel mondo da non essere in alcun modo padrone del proprio destino. E ciò soprattutto per il fatto di essere inesorabilmente votato alla soggezione totale al divenire temporale che poi si conclude impietosamente con la morte. Pertanto in questo modo il “Dasein” umano può anche non essere in sé una cosa, ma finisce per diventarlo comunque non essendo in alcun modo padrone del proprio destino – specie se si considera quest’ultimo non limitato affatto agli eventi storici e naturali (temporalità) ma invece lo si vede procedere in prospettiva verso l’eternità. Dunque per definizione il finito esistenzialmente concepito per definizione non ha alcun senso. Laddove invece (specie in Stein, Maritain, Guardini, Scheler, Berdjaev e Maine de Biran; ma anche il Mounier e perfino nel laico Ricoeur) è stato sostenuto che la persona è ontologicamente il “senso” per eccellenza, ossia è un esistente che sta al mondo in forza di una necessità invariabilmente positiva (che essa sia o meno concepita religiosamente) e che non si dissolve nemmeno con la sua morte. Anzi Guardini sostiene perfino che la persona incarna di per sé così tanto il senso che finisce per trascendere anche qualunque senso che non risieda in essa.
Non a caso abbiamo visto in questa sezione che la persona non può venire concepita in alcun modo come un mero finito. E questo fa sì che forse il maggiore pensatore moderno del “Dasein”, Heidegger, non può venire considerato in alcun modo un personalista. Non a caso il suo Personalismo (se pure esiste) è francamente nichilista. E lo stesso può venire detto anche per Nietzsche, il quale in qualche modo anticipò il “Dasein” heideggeriano nel considerare ontologicamente l’uomo come sostanziale volontà di potenza.
Sta di fatto però che non pochi pensatori personalisti hanno assunto una posizione esistenzialista.
Lo ha fatto senz’altro (ed in modo decisamente paradigmatico) Berdjaev. E peraltro lo ha fatto nel contesto di una davvero fortissima filosofia dell’essere. Cosa che (come ho posto in evidenza nei mei articoli già citati) differenzia decisamente il suo Personalismo da quello steiniano. Ed inoltre lo mette anche non poco in ombra. Tra l’altro il pensatore russo si presenta come un esistenzialista decisamente tragico nel ricollegarsi alla visione di Dostoevskij. E tuttavia abbiamo visto che il così forte accento posto da quest’ultimo sull’umano-divinità riscatta per definizione il suo esistenzialismo tragico sia dal pregiudiziale pessimismo sia anche dal tendenziale nichilismo. Infine va considerato che l’importanza da lui data all’irrazionalità dell’essere fa sì che la sua concezione personalistica della libertà sia totalmente libera dai vincoli delle concezioni filosofico-razionalistiche come quelle steiniana, che proprio per questo motivo (nel supporre un ordine dell’essere che in verità è solo ineffabile ed invisibile) non riesce ad essere esistenzialista.
Inoltre è decisamente esistenzialista anche Maritain, sebbene opponendosi con forza all’esistenzialismo di Sartre e Heidegger. Ed abbiamo visto che il suo è un esistenzialismo fortemente etico-cristiano in quanto riconnette la persona in quanto esistente alla volontà del bene.
È senz’altro esistenzialista anche Leopardi, sebbene entro un esistenzialismo tragico che accomuna filosofi e poeti sia religiosi che non (Pessoa, Hölderlin, Bloy, Jaspers, Kirkegaard, Marcel, Sciacca, e forse perfino Le Fort). In particolare abbiamo visto che in Jaspers diviene addirittura del tutto plausibile un possibile esistenzialismo tragico personalista nel suo concepire (grazie proprio alla visione tragica) il tipo umano più estremo del Personalismo della de-personalizzazione (che include poi anche Bloy e Le Fort), e cioè il «non-nato». Non vi è dubbio comunque che questo tipo particolare di personalismo (e cioè quello della depersonalizzazione) coincide di per sé fortemente con un esistenzialismo tragico.
Quanto poi a Leopardi abbiamo constatato che nel suo pensiero si configura una sorta di «secondo esistenzialismo» (sicuramente da sempre inapparente e nascosto) che ha la potenzialità di essere compatibile con il Personalismo. Tuttavia in lui l’esistenzialismo tragico diventa decisamente anti-personalista quando assume toni davvero radicalmente pessimistici e nichilistici. Infatti in questo caso la de-personalizzazione scade decisamente nella concezione dell’uomo inteso come un vero nulla ontologico.
Ed infatti va detto che diversi pensatori personalisti (esistenzialisti o meno) − tra i quali soprattutto Berdjaev, Stein, Maritain e Guardini – hanno messo in guardia dall’abbracciare l’esistenzialismo tragico in quanto lo hanno ritenuto invariabilmente nichilistico. E del resto Guardini auspica esplicitamente (come Maritain) un esistenzialismo unicamente cristiano. In particolare egli ha sostenuto (in conflitto con la visione scientifica del mondo) che il “Dasein” avverte il mondo non come qualcosa che è circondato dal vuoto proprio per il fatto che esso sente di essere un Tutto indubitabilmente consistente. Ed esattamente questo lo pone in naturale relazione con Dio in quanto Assoluto che intanto circonda amorevolmente il mondo. Inoltre − nell’affermare in particolare che il “Dasein” umano è insieme concreto ed astratto ed anche immanente e trascendente – egli sostiene un esistenzialismo cristiano che non deve assolutamente nulla a nessuno. Infine (ed in maniera questa volta molto simile a Stein) egli sbaraglia letteralmente Heidegger nel confutare frontalmente il concetto di gettatezza dell’esistente, dato che per lui il “Dasein” umano-divino rappresenta l’eternità per eccellenza. E Guardini può sostenere questo perché sposta la gettatezza dall’interiore all’esteriore, relegandola in tal modo totalmente nell’ambito della temporalità fisica. Il che implica poi nuovamente che la persona umana è tutt’altro che un finito, dato che la gettatezza non la riguarda affatto; e ciò per il fatto di costituire un ente divino-umano per definizione destinato all’eternità.
Infine va considerato che lo stesso Mounier assume una posizione molto originalmente esistenzialista nel sostenere che la “categoria di persona” è in sostanza come “esistenza incorporata” e non come “essenza” ma invece unicamente come relazione.
Da tutto questo possiamo concludere quindi che l’esistenzialismo (anche se tragico) ha il pieno diritto di intersecare totalmente il Personalismo. A patto solo che esso non sia nichilista. Perché in questo caso il rischio dell’annientamento della persona diviene estremamente alto – indipendentemente dal fatto che essa venga concepita in maniera onto-sostanzialista (e quindi tendenzialmente religiosa) o anche in maniera funzionale relazionalista (e quindi tendenzialmente laica).
In ogni caso si può dire che l’esistenzialismo tendenzialmente nichilista (di pensatori come Leopardi, Pessoa e Nietzsche) rappresenta una sorta di lato ombra anti-personalista del Personalismo che in qualche modo (sebbene con la dovuta prudenza) potrebbe venire considerato anche parte di esso.

Ecco dunque concluso questa sorta di sunto del saggio sul Personalismo che ho appena scritto e che mi auguro di poter presto consegnare alle stampe. Naturalmente in questo scritto il lettore non potrà trovare la ricchezza delle argomentazioni critiche presenti nel saggio (e quindi sarà fatalmente costretto ad accettare alcune affermazioni nella loro forma non giustificata), ma intanto potrà avere almeno un’idea generale del Personalismo che poi potrebbe anche approfondire con la lettura delle opere che ho menzionato ed elencato.

[ATTENZIONE: questo articolo è stato già accettato per la prossima pubblicazione sulla rivista Dialeghestai, per cui diffida dalla riproduzione non autorizzata del testo, in accordo con le leggi vigenti sui diritti d’autore]

Introduzione.
Abbiamo già trattato di questo tema in un precedente articolo, ma esso era fondato su una base testuale molto più ristretta [Vincenzo Nuzzo, Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende), Dialeghestai 2022 (in corso di pubblicazione)]. Comunque lì come anche qui, nell’affrontare il tema, è stato necessario innanzitutto chiedersi il perché di questo sforzo di approssimazione. Tra i due pensatori non c’è infatti null’altro se non delle molto vaghe relazioni e comunque mai dirette. Alcune lettere della Stein mostrano che Berdjaev fu oggetto di lettura e riflessione da parte di alcuni suoi conoscenti (per questo si veda comunque il primo articolo appena citato). Ed inoltre il libro di Gertrud von Le Fort (sua corrispondente e carissima amica) menziona non poche volte il pensatore russo come un proprio importante punto di riferimento [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Sta di fatto che, per quanto si sappia, Stein e Berdjaev non si conobbero mai né mai ebbero alcuno scambio di idee. È vero comunque che Berdjaev si soffermò molto su Husserl nel corso delle sue riflessioni, e quindi non è escluso che vi siano stati dei contatti tra la lui e quella scuola di pensiero. Anche perché da espatriato Berdjaev soggiornò a Berlino, città nella quale però la scuola husserliana non fu affatto rappresentata. A causa di tutto ciò non ci sentiremmo di escludere che la Stein abbia perfino letto i testi del pensatore, sebbene nei di lei testi non ne viene mai fatta alcuna menzione. In ogni caso è evidente anche già a prima vista che il suo pensiero diverge radicalmente da quello di Berdajev, sebbene i due condivisero una serie di significative prese di posizione filosofiche: – la necessità di un’impostazione intensamente religiosa della filosofia, la necessità di ritornare ad una forte antropologia filosofico-religiosa, l’etica incentrata nella libertà, nella responsabilità, nella scelta, il personalismo e lo spiritualismo.
Quindi, come è già avvenuto in molte altre nostre ricerche, il senso di questo nostro sforzo di accostamento consisterà in primo luogo nell’esplorazione dell’ambiente filosofico che vi fu intorno al mondo steiniano nel tempo in cui ella visse ed operò. Cosa che poi giustifica le possibili affinità in una maniera anche abbastanza ovvia. In ogni caso bisogna dire che il tempo in cui visse ed operò Stein coincide quasi totalmente con quello in cui visse ed operò Berdjaev, con l’unica eccezione nel fatto che egli ebbe la fortuna di superare incolume la tragedia della II Guerra Mondiale per morire solo nel 1948. Pertanto una certa (per quanto vaga) relazione tra i due pensieri deve esistere anche solo perché essi sono stati di fatto immersi nella stessa atmosfera storico-culturale, ideale ed anche fattuale. È evidente però già in partenza che può trattarsi solo di una relazione nella differenza. E del resto questo è quanto avevamo messo in luce anche nel nostro primo articolo.
Oltre a ciò colpisce comunque il fatto che Berdjaev è stato uno di quei pensatori che (in maniera abbastanza simile a Heidegger e Jaspers) si è spinto abbastanza oltre i limiti sia del concetto di essere della tradizionale ontologia sia del concetto di essere estremamente riduttivo al quale Husserl permise di esistere nel contesto del suo idealismo trascendentale. E qui le cose divengono estremamente interessanti dato che Stein compì di fatto il percorso che riportava dal secondo al primo concetto di essere.
Berdjaev, invece – anche se si dedicò con molta energia al recupero di questo concetto – non percorse affatto questo cammino. E questa evidenza si presta quindi molto bene ad una relativizzazione del progetto filosofico-metafisico perseguito da Stein nel costruire la sua ontologia; il che poi ci permette anche di comprenderlo molto meglio di quanto sia possibile quando esso viene considerato scontato e così anche assolutizzato. In tal modo scopriamo insomma che al tempo di Stein il recupero del concetto di essere conobbe varie possibilità, delle quale ella seguì appena una. E di questo abbiamo parlato anche nel nostro primo articolo, sebbene a partire da un punto di vista piuttosto ristretto.
Questo non significa però dover necessariamente stabilire una gradazione di valore tra l’una e l’altra filosofia dell’essere. Significa invece molto più tentare di allargare la gamma delle forme storiche con le quali essa si presentò a quel tempo. Ma, rispetto a Stein, implica anche un’altra cosa. Infatti ella condivise fortemente con Berdjaev i valori della libertà, della responsabilità, della scelta, e soprattutto della persona umana. E tali valori risultano strettamente connessi a quella filosofia dell’essere che presso di lui si manifesta con i tratti primari di un’antropologia ancora più forte di quella steiniana (in altre parole in lui il concetto di «essere» e quello di «uomo» coincidono quasi totalmente). Eppure la sua filosofia dell’essere differì molto sensibilmente da quella steiniana a causa di un concetto di essere molto diverso.
E tutto questo, quindi, ci permette di analizzare più approfonditamente come ed in che misura, presso Stein, la filosofia dell’essere si sia strutturata in relazione con elementi filosofici tipici del personalismo.
In altre parole questa indagine ci permetterà anche di gettare uno sguardo sulla relazione tra il personalismo steiniano e quello di Berdjaev. Sebbene a questo così complesso argomento sarà necessario dedicare un’ulteriore indagine.
Naturalmente comunque ci riferiremo qui quasi esclusivamente ai testi di Berdjaev e solo di rimando a quelli di Stein, e quindi tutto sommato dando per scontata la visione di quest’ultima. Se così non fosse l’ampiezza del materiale non ci permetterebbe di restare nello spazio di un articolo. Ma intanto il lettore che non è addentro negli studi steiniani potrebbe orientarsi rapidamente in esso per mezzo della sintesi che noi ne abbiamo fatto [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D, oppure anche per mezzo delle diverse opere riassuntive che sono state scritte su di esso.
Intanto devo ricordare che il nostro primo articolo sul tema si riferì integralmente al testo “Das Ich und die Welt der Obiekte” (DIWO) [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951], che fu un’opera solo tardiva (del 1938). Anche su questa ristretta e secondaria base avevamo discusso la differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. DIWO però aveva obiettivi ben più ristretti di quelli perseguiti in altre opere, e cioè aspirava ad affrontare in primo luogo il problema del filosofare in rapporto ad uno dei suoi aspetti tradizionali più fondamentali, ossia la relazione tra Io ed oggetti. L’opera è quindi di respiro molto meno ampio rispetto a quelle che esamineremo in questo articolo, e cioè “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaka Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], che sono state poi anche opere più precoci e basilari del pensatore − rispettivamente del 1916 e del 1923.
Bisogna inoltre dire che in SC il concetto di essere si presenta in maniera ben più diretta e compiuta. Per cui ci è sembrato necessario basarci soprattutto su questo testo per completare le nostre considerazioni sulla differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. Pertanto il presente articolo si baserà soprattutto su SC e CD, sebbene conterrà anche alcune considerazioni tratte da DIWO.
Infine ecco un’ultima considerazione introduttiva. Tutto quello che diremo della filosofia dell’essere steiniana riguarda di fatto in gran parte quel suo pensiero che venne prima della fase mistico-monastica della sua vita ed opera. Quindi quella certa svalutazione di tale filosofia che inevitabilmente ne scaturisce non investe affatto l’interezza e pienezza del pensiero steiniano. Dato che a nostro avviso essi si ritrovano solo nella sua ultimissima fase mistico-monastica, come del resto evidente nella lettura delle sue ultime lettere [Vincenzo Nuzzo, Le caratteristiche del pensiero nella fase mistica dell’opera di Edith Stein alla luce delle lettere 1933-1942, Dialeghestai, 23, 2021]. D’altro canto proprio in questa fase il centro del pensiero steiniano non era già più affatto la filosofia dell’essere.

I- Essere e conoscenza dell’essere. Il problema della “gnoseologia critica”.
Stando a ciò che Berdjaev scrive in SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., II p. 85-88] è davvero difficile distinguere cos’è per lui il mistero dell’essere e cos’è invece il mistero dell’uomo. Di fatto sono per lui la stessa identica cosa. E lo sono soprattutto in quanto entrambi sono degli a priori assoluti tanto dell’ontologia quanto della stessa gnoseologia. Per cui si tratta di fatto di un complessivo a priori non gnoseologico. Ed ecco che già in tal modo l’essere si presenta in maniera assolutamente incondizionata; come senz’altro non si presenta affatto nel contesto della Fenomenologia husserliana. Non a caso Berdjaev sostiene che l’uomo è essere in una maniera così ampia prima di tutto in quanto è microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. Il che significa che, anche ammesso che noi volessimo seguire la linea della riduzione trascendentale dell’essere secondo Husserl, dovremmo comunque andare a ritroso ben oltre lo stesso Io puro (il quale già non è affatto l’Io empirico della psicologia) per poter raggiungere davvero il termine ultimo della riduzione.
Il quale appare qui anche del tutto rovesciato rispetto a ciò che avviene nella visione di Husserl – perché è l’essere antecedente pensiero e conoscenza, e non viceversa.
Ecco allora che, per Berdjaev, l’essere va inteso (insieme all’uomo) come quanto di più originario possa venire mai concepito. Ora è senz’altro vero che, a partire dalla sua fase realistica (coincidente con l’ontologia tomistico-aristotelica), Stein iniziò a concepire l’essere come in qualche modo primario rispetto alla conoscenza ed al pensiero (coscienza). Proprio in questo senso ella lo intese come il Fondamento, e proprio in questo senso ella cominciò a concepire l’Io come in primo luogo esistente. Tuttavia ciò significava che l’essere non veniva più considerato così tanto condizionato dal pensiero-conoscenza da venire di fatto «dopo» di essi nell’ordine della realtà. Ella non giunse però mai a pensare che l’essere venisse non solo «prima» del pensiero-conoscenza ma perfino prima di ogni possibile cosa. Mai insomma ella giunse a pensare che l’essere fosse un radicale originario. Semmai ella lo considerò contemporaneo al pensiero-conoscenza nell’ordine dell’essere. Dunque l’assoluta originarietà dell’essere rappresenta il tratto che più radicalmente distingue la filosofia dell’essere di Berdjaev, rendendola così assolutamente unica.
Oltre a ciò vi è però anche un’altra questione. Stein sicuramente ha trasceso lo gnoseologismo (pensiero-conoscenza) fondante l’essere (che un po’ dappertutto Berdjaev definisce e deplora come “gnoseologismo critico”). Ma è con ciò arrivata per davvero ad una concezione così estrema dell’essere come quella del pensatore russo? Non diremmo che sia stato così perché ella prima approdò ad un’ontologia realista (sullo stampo di quella tomistico-aristotelica e con al centro il concetto di sostanza) e poi addirittura ritornò ad un’ontologia idealistica sebbene ormai intensamente religiosa (sullo stampo di quella agostiniano-platonica e con al centro il concetto di Logos o essenza trascendente). Dunque ella non giunse mai a considerare l’essere addirittura un a priori pre-gnoseologico. Laddove con ciò l’essere viene concepito in maniera molto diversa dall’ontologia realista – nella quale esso è invece appena l’esteriore «mondo fuori di noi» (oggettualità) che trascende il soggetto. Per Berdjaev invece l’essere è in primo luogo un assoluto ed inafferrabile mistero proprio in quanto radicalmente originario. E bisogna ammettere che tale fu l’essere anche per Jaspers [Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956; Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971]. Vedremo però più avanti in che modo il pensatore russo distingue la sua filosofia dell’essere da quella di quest’ultimo.
Di ciò troviamo del resto un preciso riscontro in un altro luogo di SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., I p. 68-75], e cioè laddove scopriamo che, entro la concezione di Berdjaev, tanto la realtà quanto la coscienza stessa si trovano in fondo entro un piccolo mondo (il nostro); soltanto oltre il quale si trova il vero essere in quanto “rigoglio” (pieno ed originario), e quindi come qualcosa che per definizione eccede tutto quanto noi sperimentiamo nel vivere. E qui ciò che noi sperimentiamo e viviamo sono proprio la gnoseologia (coscienza, o pensiero-conoscenza) e l’ontologia esteriore (realtà o mondo), che appunto restano entro i limiti del nostro piccolo mondo.
Da ciò risulta quindi che per Berdjaev l’essere non può venire affatto ridotto a ciò che è appena esteriore alla coscienza. Anzi, commentando alcuni punti di DIWO, vedremo che quest’ultimo è per lui appena il pensiero obiettivato, e quindi è un essere assolutamente inautentico oltre che estremamente riduttivo. Risulta chiaro, quindi, che la sua filosofia dell’essere si trova totalmente al di fuori sia dell’idealismo che del realismo, e si trova pertanto anche totalmente al di fuori del conflitto esistito da sempre tra queste due posizioni. Tanto è vero che, entro il suo tentativo di definire la filosofia (che discuteremo più avanti) – e nel sostenere che la filosofia è totalmente riducibile al filosofare dell’uomo in quanto essere –, emerge un antropologismo assolutamente primario che è quindi carattere tanto della coscienza quanto dell’essere (senza alcuna precedenza dell’uno verso l’altro e senza alcun primato) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, I p. 75-82]. In altre parole la coscienza non è altro che essere per il fatto che l’essere equivale interamente all’uomo (mentre non equivale affatto alla coscienza, come invece l’intera filosofia idealistica aveva tendenzialmente pensato). Ancora una volta, quindi, l’«essere-in-quanto-uomo» (unitamente all’«uomo-in-quanto-essere») precede la coscienza in modo totale e radicale, in tal modo fondandola e pertanto rendendola anche del tutto secondaria. Ne risulta allora che la coscienza non fonda un bel nulla (diversamente da ciò che Husserl pensò, del resto accompagnato da Stein per molto tempo). È però vero anche che lo stesso mero «essere-esteriore-alla-coscienza» non è assolutamente fondante. Ed ecco allora l’esclusione tanto dell’idealismo che del realismo. Su questa base Berdjaev fornì poi la sua definizione della filosofia: “La filosofia è appunto l’autocoscienza che l’uomo ha del proprio ruolo sovrano e creatore del cosmo”. Ecco insomma un’autocoscienza quale puro atto umano che trascende la coscienza in quanto entità oggettiva.

Ed è proprio in tale contesto che emerge in lui l’elemento ontologico fondamentale che è costituito dalla relazione tra microcosmo e macrocosmo, laddove il microcosmo è poi l’uomo stesso. L’uomo, insomma, è esso stesso un universo nel mentre l’universo è esso stesso uomo. Il che significa che il macrocosmo (grande universo) sta in lui e non fuori di lui. Macrocosmo e microcosmo sono quindi in verità simultanei. Pertanto proprio come microcosmo in relazione con il macrocosmo l’uomo partecipa del Logos universale. E precisamente partecipa di esso impersonandolo nella propria essenza, com’è stato sempre illustrato nelle varie postulazioni metafisiche e teosofiche di un Uomo prototipico o “Macroanthropos” (ossia Adamo e Cristo insieme) [Nikolaj Berdjaev, Il senso… cit., I p. 75-82, II p. 85-113, VI p. 190-196, XIII p. 370-374]. E bisogna dire che anche la stessa Stein non mancò di postulare più volt tale entità nel suo libro dedicato alla costruzione della persona umana [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001].

Ora, la filosofia dell’essere steiniana non solo non si pose mai fuori dell’ambito filosofico idealismo-realismo, ma, oltre a ciò, oscillò di fatto continuamente tra le due prese di posizione. Essa infatti può (a seconda delle fasi e dei punti di vista) venire considerata in parte realista ed in parte idealista. E proprio per questo, entro la nostra tesi di dottorato [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018] parlammo a tale proposito di un «idealismo realista».
In ogni caso – sulla base delle riflessioni di Berdjaev −, se proprio noi vogliamo parlare dell’essere in quanto «mondo fuori di noi» (essere esteriore alla coscienza), dobbiamo allora ammettere che la sua estensione è molto maggiore di quella che possiamo pensare basandoci sulle mere apparenze (incluse quelle metafisiche). Esso insomma va ben oltre i limiti dello stesso mondo esistente, percepibile e pensato. Ossia è un integrale ed inafferrabile mistero più che invece un’evidenza metafisica. E di nuovo ricorre qui la concezione dell’essere di Jaspers. È certo che (almeno su un piano filosofico-metafisico formale) Stein non pensò affatto l’essere in questo modo – sebbene abbia comunque intuito questo suo carattere definendolo (in polemica con Heidegger) come “magis ignotum quam notum” [Edith Stein, Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 495-499]. Ma aldilà di tutto ciò Berdjaev sta in tal modo pensando anche ad un essere che l’uomo riporta alla sua ampiezza e pienezza trascendente nell’incrementarlo grazie al suo continuo atto creativo (potremo comunque comprendere meglio questo più avanti quando definiremo più precisamente il suo concetto di essere). Ed inoltre egli sta pensando a quella che definisce come “filosofia del futuro”. La quale per lui non è altro che quella in cui sia stata per sempre abolita quella distanza tra conoscenza ed essere che era stata istituita dal razionalismo, ossia di fatto dall’idealismo (nel quale rientra poi senz’altro anche la Fenomenologia husserliana). Ed ecco che allora la conoscenza si presenta come in realtà immanente all’essere, a sua volta concepito nel modo più ampio possibile. E questo è un altro modo per dire che l’essere è un assoluto a priori pre-gnoseologico. Orbene, per quanto Stein si sia non poco allontanata dall’idealismo trascendentale husserliano, appare chiaro che ella non arrivò mai a concepire l’essere in questo modo così estremo.
Berdjaev va però ancora oltre nel dichiarare l’atto creativo umano (dal quale scaturisce proprio l’incremento di essere del quale abbiamo appena parlato) come intoccabile da parte della gnoseologia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 151-153]. Pertanto, data l’equivalenza assoluta tra creazione ed essere, è allora evidente che anche l’essere dovrà essere del tutto intoccabile da parte della gnoseologia. Per la precisione ciò avviene secondo lui a causa della natura della coscienza che noi scopriamo una volta che abbiamo scoperto l’assoluta identità tra essere e uomo. Infatti su queste basi (come peraltro abbiamo in parte già visto) la coscienza si presenta come l’atto di “auto-rivelazione dell’essere”, ossia la rivelazione dell’essere all’uomo da parte dell’uomo e senza alcun’altra premessa. Insomma non vi è alcuna dottrina che possa darci conto della coscienza (come invece avviene entro la Fenomenologia husserliana, e senza che Stein l’abbia mai smentita). Infatti abbiamo già visto che la coscienza non è nulla di oggettivo.
Ed ecco del resto anche perché l’essere e l’uomo sono la stessa cosa – essi sono immediatamente simultanei (dove c’è l’uno c’è anche l’altro). Quindi l’atto creativo umano è qualcosa che giustifica senza venire mai giustificato, e pertanto non conosce alcun “fondamento” ad esso esteriore.
Ecco allora che la stessa autocoscienza umana è assolutamente “originaria e non derivata”. Ossia, essa nasce nell’uomo e presuppone solo l’uomo, e ne è quindi atto assolutamente originario così come l’uomo è assolutamente originario. Per tali motivi l’atto creativo si trova sempre già di per sé sul piano dell’essere, e pertanto o è di per sé già gnoseologia (senza però affatto identificarsi onticamente con essa) oppure non presuppone alcuna gnoseologia. Ecco che l’auto-coscienza è l’uomo stesso, e pertanto è premessa di tutto almeno quanto lo è l’uomo stesso. Ancora una volta diviene così chiaro che la coscienza (ossia il pensiero-conoscenza) non precede, non giustifica, non fonda e non costituisce un bel nulla. E ciò per il semplice fatto che, se lo facesse, essa già cesserebbe di essere «coscienza» e sarebbe invece solo «essere».
Ebbene da tutto ciò deriva che la coscienza (in quando riducibile interamente all’atto creativo) non richiede alcuna dottrina che la giustifichi – essa è cioè ontologia (ossia è l’essere stesso) in quanto è pre-scientifica e pre-gnoseologica. Ma sta di fatto che Berdjaev si riferisce qui alla dottrina gnoseologica in quanto volutamente scientifica, ossia come “gnoseologia critica”, e quindi come ciò in cui la filosofia moderna si è voluta trasformare per poter essere scientifica. Quindi essa sembra filosofia ma in verità tradisce la filosofia. E da ciò deriva allora che le aspettative della riduzione trascendentale fenomenologica (quelle che auspicano la conoscenza come giustificante l’essere) in verità non sono affatto filosofico-scientifiche ma sono invece unicamente scientifiche. Infatti, come dice il nostro pensatore, soltanto in ambito scientifico è necessaria una giustificazione gnoseologica dell’essere. Mentre invece in ambito filosofico l’essere è oggetto di un’intuizione assolutamente immediata ed incondizionata. E bisogna allora ammettere che anche Stein è caduta in questa trappola (in cui è caduta di fatto l’intera filosofia moderna); almeno finché non si è svincolata quasi completamente dalla stessa filosofia moderna per muoversi quasi interamente sul piano della mistica.
Berdjaev chiarisce comunque ulteriormente questa sua posizione nel mentre definisce la gnoseologia critica come una vera e propria “malattia” della cultura moderna. Egli chiama qui in causa Kant e i neo-kantiani nel rimproverare loro il fatto di aver voluto a tutti i costi strappare l’area della creatività conoscitiva dal piano dell’essere, identificandola totalmente con quel giudizio che per definizione esula dall’esperienza immediata. Ed ecco che qualunque trasfigurazione pensante dell’essere (che è sempre un suo arricchimento visionario) è stata in tal modo proibita; come nel caso del religioso, dell’in sé e dell’invisibile. Ma per Berdjaev la creatività conoscitiva coincide anche con il pensiero stesso nella sua pienezza. Per cui, grazie a Kant, è accaduto che di fatto non si potesse più pensare senza prima chiederne il permesso.
Un ulteriore spunto per una nuova filosofia dell’essere può poi venire trovato in SC anche sul piano esplicitamente religioso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 159-164]. Berdjaev auspica infatti anche qui una creatività che superi i limiti dell’esperienza religiosa tradizionale per mezzo di un atto che è in primo luogo conoscitivo e che prevede la fusione tra soggetto ed oggetto, ossia il superamento della distanza tra conoscenza ed essere che poi sempre ha caratterizzato ogni religione. In esse infatti Dio è stato sempre un oggetto di conoscenza molto difficile da definire oppure affatto non definito. Ma proprio questo conoscere Dio è ciò che Berdjaev definisce come il tendere verso il Trascendente. Più precisamente egli auspica in campo religioso un’autentica creazione dell’essere (un suo incremento), per mezzo dello svelamento della divinità laddove essa era prima invisibile. E definisce questo un atto che decisamente va oltre la cultura.
Ma in termini più generali si tratta di una “trasfigurazione dell’essere” che consiste sostanzialmente in una “donazione di senso”.
Ancora una volta egli vede però nella gnoseologia critica ciò che pretende di rendere infondato razionalmente questo atto nell’esigere di giudicare criticamente ogni creatività. Ed in questo essa fa prevalere il concetto di adequazione alla necessità (o più precisamente alla “datità”) in una maniera così forte da far di fatto svanire l’essere stesso. Tuttavia Berdjaev ritiene questa disciplina del tutto incompetente a dirimere sia nei confronti della ricerca di senso sia nei confronti della creatività, dato che il suo obiettivo dovrebbe essere unicamente quello di giudicare circa la scientificità della conoscenza. Ma intanto quest’ultimo non è assolutamente il campo sul quale si possa conoscere il senso dell’essere né l’essere stesso. E quindi per lui la gnoseologia critica risulta del tutto destituita di fondamento nella sua ambizione a porre le condizioni per una filosofia dell’essere. Dunque ancora una volta l’essere appare in Berdjaev qualcosa di pre-gnoseologico ed anche pre-ontologico. Esso insomma esso sfugge per definizione ad ogni «logicizzazione».
Su questa base possiamo allora comprendere in maniera più profonda quale può venire considerata la forma di una possibile nuova conoscenza dell’essere in Berdjaev. Essa appare dipendere strettamente da una nuova definizione della conoscenza, e precisamente una definizione che abolisca qualunque contrapposizione tra conoscenza ed essere: − “La conoscenza non è né esterna all’essere né contrapposta all’essere, essa si situa anzi nel cuore stesso dell’essere ed è un’azione dell’essere. La conoscenza è quella luce solare dalla quale l’essere trae alimento. La conoscenza è lo sviluppo creativo, la crescita solare della vita”. La filosofia dell’essere di Berdjaev appare quindi condizionata alla totale inesistenza di un’impotenza della conoscenza (come quella che è stata considerata un dogma dalla gnoseologia critica entro la cosiddetta «teoria della conoscenza»); il che è poi possibile solo in una conoscenza che sfugga a qualunque giudizio gnoseologico (che per definizione deve concernere unicamente qualcosa di settoriale, e quindi tipicamente scientifico). Ed ecco quindi che la filosofia dell’essere è del tutto incompatibile con qualunque scientificità della conoscenza. Ebbene, appare con ciò evidente che una simile filosofia dell’essere non sarebbe mai potuta insorgere in Stein. Dato che, se vi fu un aspetto nel quale ella non prese mai le distanze dalla Fenomenologia di Husserl, questo fu proprio l’accettazione della teoria della conoscenza. Ma quest’ultima appare costituire per Berdjaev un ostacolo insormontabile alla conoscenza dell’essere e perfino al riconoscimento dell’esistenza dell’essere. E quindi non potrebbe mai e poi mai fondare una filosofia dell’essere.

II- Il concetto di essere.
Possiamo però approssimarci ancora di più alla filosofia dell’essere di Berdjaev se la intendiamo più chiaramente come una primaria ontologia. Il che è possibile cercando di capire cos’è per lui ultimanente l’essere, ossia qual è il suo concetto di essere. Ne possiamo avere un’idea dove egli in SC cerca di definire ultimamente la creatività stessa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. E qui risulta chiaro che, dato che egli considera l’uomo un ente essenzialmente creativo, deve anche considerare l’essere identico alla creatività; almeno nella stessa misura in cui esso stesso è da considerare identico all’uomo.
Bisogna in primo luogo osservare che le sue giustificazioni al proposito sono metafisico-religiose, ma come tali così estreme da rasentare perfino l’eresia teologica; almeno nel contesto della classica ontologia dogmatica cristiana. In questo egli parte infatti da una davvero estrema somiglianza tra uomo e Dio che riguarda non solo l’attitudine ma anche la stessa potenza creativa. Il che significa che di fatto l’uomo genera letteralmente l’essere esattamente come fa Dio. E qui è piuttosto evidente che la sua dottrina si approssima non poco a quella dell’onto-generazione che Nietzsche attribuisce all’uomo specie nel contesto di “volontà di potenza” [Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi Milano 2006, II, p. 31-51; Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Roma 2005, 54-88 p. 50-63 89-98 p. 63- 66]. In particolare Berdjaev sostiene che necessariamente il “creato” deve essere creatore, così come lo è Colui che lo ha creato. Il che riguarda pertanto non solo l’uomo ma anche il mondo creato stesso.
E proprio qui veniamo al punto decisivo, perché questo non è per lui affatto un dogma infondato, bensì è invece qualcosa che scaturisce direttamente dalla natura stessa dell’essere. Infatti è tale solo ciò che è possibile in quanto deve costituire per definizione e necessariamente “qualcosa di nuovo e di mai visto prima”; e non invece “precedentemente dato”. Il che poi non vale affatto solo per l’origine dell’essere ma forse ancor più per il suo persistere nel tempo, ovvero il suo continuare ad esistere. Ne consegue che l’essere può esistere e sussistere solo in forza di un continuo suo incremento e crescita, ossia il dinamismo – infatti se invece fosse stabile esso perirebbe senz’altro per esaurimento. Ed ecco allora che il concetto di essere esclude radicalmente non solo qualunque staticità ma anche (e soprattutto) qualunque genere di “redistribuzione” di ciò che già «è». Cosa che spazza via tanto la visione tradizionalmente scientifica dell’essere (come quella della fisica naturalistica e materialistica ed anche dello stesso evoluzionismo, nonostante il dinamismo al quale esso si appella) quanto anche la metafisica nella sua versione emanatista. Infatti l’emanazione, per Berdjaev, implica necessariamente una materia eterna alla quale attinge il flusso che intanto (del tutto involontariamente) promana dal Divino (ossia si limita a traboccare da esso), e che ha poi il grave difetto di esporsi all’inevitabile esaurimento. È evidente che ciò implica sul piano metafisico una del tutto necessaria “creazione dal nulla”, mentre contraddice necessariamente il concetto di «materia eterna» che era stato in comune tra Platone e Aristotele. Ed ecco allora ultimamente giustificata la creatività – essa deve essere carattere necessario del mondo e quindi (in via di principio) anche dell’uomo. Tuttavia per lui la vera e piena creatività (per somiglianza a Dio) esiste solo per l’uomo, dato che esso è l’unico ente la cui anima sussista da prima della creazione. E qui viene indirettamente chiamato in causa il Logos stesso.
È inoltre su questa base che per lui l’uomo è da considerare creativo per definizione, e come tale libero nella stessa misura in cui lo è Dio. Ed abbiamo visto prima in che modo l’uomo esplica questa sua creatività simile a quella divina – cioè attraverso una trasfigurazione dell’essere che è sostanziale incremento, ed inoltre consiste più in particolare nel lasciare emergere (specialmente sul piano conoscitivo ma intuitivo e visionario) aspetti dell’essere che prima erano nascosti. Proprio per questo Berdjaev ritiene che l’uomo è chiamato da Dio ad un’opera di vera e propria continuazione della creazione, che più precisamente consiste nel porre rimedio alla originaria incompletezza di essa (ma da Dio espressamente voluta). E più meno la stessa cosa egli afferma quando rivendica la necessità che l’uomo moderno porti alla luce gli aspetti della Rivelazione cristiana che finora non erano ancora emersi [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Proprio in questo consiste per lui l’assolutamente necessaria “nuova Rivelazione”.
Possiamo comunque guardare tutto questo anche dal punto di vista di Dostoevskij [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., I, p. 5-15]. Berdjaev infatti osservò lo spirito (visionario) di Dostoevskij e non invece la sua opera come letteratura e psicologia. E tale spirito visionario consisté per lui nell’intuizione di “idee” che (molto diversamente da quelle astratte, calme e statiche di Platone) configurano un dinamismo turbinoso e infuocato, e cioè in particolare i destini umani. Come tali esse sono sempre anticipazione di “nuovi mondi”, e quindi in questo senso sono sempre travolgente creazione di essere. Insomma pare che Dostoevskij si sia soffermato dovunque nel mondo vedesse l’insorgere questo turbine, cosa che poi avviene primariamente nel profondo interiore dell’uomo. Più precisamente si tratta di una dimensione in cui mancano forma, misura e freno. Quindi si tratta sempre dell’abisso infuocato rappresentato dallo spirito umano (diversamente dall’anima), che proprio come tale è crogiolo per eccellenza di un nuovo essere futuro.
Ma sta di fatto che l’ontologia tradizionale non a caso ha sempre considerato di fatto inesistenti gli aspetti nascosti dell’essere (il perenne «nuovo») dei quali abbiamo poc’anzi parlato; dato che essa ha sempre preso le mosse dall’essere così come a noi appare attualmente, anche se su un piano metafisico (ossia oltre le mere apparenze sensibili prese in considerazione dalla fisica e perfino oltre lo spazio ed il tempo) e al di fuori dell’immediato attimo anche se considerato intemporale.

In altre parole Berdjaev non sta parlando affatto di una sorta di astruso essere fisico iper-spaziale ed iper-temporale, come oggi è usuale pensare ricorrendo (in filosofia ed in teosofia) ai concetti della moderna fisica quantistica. Né sta parlando del non meno astruso e sofistico essere come Nulla e come Possibilità che fu postulato da Heidegger [Martin Heidegger, Cos’è Metafisica? Adelphi, Milano 2008, p. 44-51; Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010, p. 109-167] nel tentativo di forgiare una neo-ontologia inaudita, ardita ed orgogliosissima che recasse il suo solo nome. Berdjaev, invece, si sta mettendo umilmente davanti al solo mistero dell’essere cercando di evitare qualunque mediazione nel coglierlo. E ciò all’unico scopo di inginocchiarsi davanti alla sua maestà.

Tuttavia per uscire da questi limiti è necessario pre-vedere ciò che ancora non si vede, ossia è necessaria quell’intuizione che è sempre visionaria. Ed infatti Berdjaev considera l’intuizione un atto di importanza cruciale nella conoscenza dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 48-82]. In ogni caso a questo punto (sfiorando così l’eresia teologica) egli considera del tutto insufficiente l’immagine dell’essere che ci viene proposta nel Genesi del Vecchio Testamento, e quindi dalla dottrina cristiana. Essa infatti per lui ignora (o almeno finge di ignorare) il vuoto antecedente l’essere che deve venire presupposto per lasciar emergere la natura di «novità» che spetta di diritto all’essere stesso; e quindi tace circa il vero e proprio Nulla (“abisso pieno di mistero”) dal quale scaturisce l’essere ma che è anche in fondo l’essere stesso nella sua natura ultima. Insomma la natura dell’essere è per definizione abissale e misteriosa, e quindi la sua integralità è per definizione nascosta al nostro sguardo, almeno finché essa non venga portata alla luce. In luogo di tutto ciò per Berdjaev il Genesi si è limitato a porre in evidenza appena il momento del venire alla luce dell’essere grazie al volontario atto creativo divino. In altre parole egli sospetta la teologia cristiana di un atto di occultamento della natura dell’essere. Per questo motivo il nostro pensatore ritiene che la dottrina teologica del Genesi abbia in verità configurato semmai una cosmogonia, ma mai per davvero un’antropogonia. E precisa che invece ciò è avvenuto in teosofie come quella di Böhme [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170], entro la quale compariva proprio il vuoto originario (“Ungrund”). Va registrato però che egli dimentica qui di menzionare la creazione così come si presenta nella Cabbala specie luriana; dato che essa ci mostra in Dio proprio un tragico Vuoto originario, consistente nell’Ein-Sof nascosto dietro il Volto divino (rivolto verso il mondo) e dinamicamente espresso nello “zimzum” ossia un vero e proprio svuotamento interno che scatena la creazione attraverso un’innimmaginabile ed immane concentrazione [James David Dunn, Window of the Soul…cit., p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111].
A tutto ciò egli aggiunge una considerazione etico-religiosa non meno tendenzialmente eretica. Sostiene infatti che sarebbe da ammettere un’originaria “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e bisogno, che sarebbe poi quanto per davvero (nel contesto dell’atto creativo) spingerebbe Dio amorosamente verso l’uomo. E questa è evidentemente per lui la più profonda giustificazione della creazione a somiglianza.
Ora vi sono qui diversi elementi che allontanano di molto la visione steiniana dell’essere da quella di Berdjaev. Fa forse eccezione solo il concetto di “Urgrund” che da lei viene discusso in alcune parti della sua opera [Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p 303-394]; e che a questo punto lascia piuttosto sconcertato lo studioso, indicando forse che anche lei stessa aveva concepito l’atto creativo in maniera molto più estrema di quanto il resto della sua più formale ontologia lasci pensare. Stein comunque sicuramente si attenne nel complesso all’ontologia tomistico-aristotelica nel considerare l’essere come quell’entità metafisica della quale a noi non è nascosto alcun aspetto – si tratta in particolare dell’”essere come tale” del quale Aristotele parlò nella metafisica. Ed è evidente che ciò esclude senz’altro l’intendimento dell’essere come sostanziale «novità» e quindi come sostanziale dinamismo. Le cose cambiano sensibilmente laddove ella successivamente trattò dell’essere facendo ricorso al paradigma trinitario – qui domina infatti quel paradigma dinamico che ella vide nel fenomeno dell’“aus sich herausgehen” (“procedere a partire da sé stesso”) e che quindi contraddice in modo lampante la staticità dell’essere [Edith Stein, Der Aufbau … cit., VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches… cit., VII, 2 p. 307-310, VII, 6 p. 352-356, VII, 9, 6 p. 377-385]. Ma diremmo che questo non modificò di molto la concezione basilare e media dell’essere che ella aveva concepito. Infatti il suo intendimento dell’essere come sostanziale “Fondamento”, e perfino forte “braccio” sostenente ogni cosa [Edith Stein, Endliches… cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113], si rifece senz’altro costantemente all’essere come qualcosa che «è-sempre-già-stato», che non sprofonda da alcun lato nell’Abisso e che infine è senz’altro statico. Oltre a ciò ella non giunse mai a identificare l’essere stesso con la stessa creatività umana (e quindi con la sua libertà), dato che indagò queste ultime sì entro il concetto di creazione a somiglianza ma comunque come “donazione” di essere fatta dal Dio all’uomo, senza che l’uomo stesso abbia posseduto questo carattere fin dall’inizio. Ella insomma intese la creatività umana in maniera ben più moderata di Bedjaev, e quindi senza contraddire in nulla né la classica ontologia dogmatica cristiana né la dottrina teologica esposta nel Genesi. In altre parole Stein non mise mai in dubbio che tale dottrina sia stata anche un’antropogonia oltre che una mera cosmogonia.

III- L’essere e l’uomo. Il nuovo spiritualismo e personalismo, la nuova esperienza religiosa e la morale.
Dell’identità tra essere e uomo abbiamo già trattato, ma conviene richiamare il testo di SC nel quale di essa si tratta molto più direttamente [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 179-182].
Qui Berdjaev dice in particolare che alla nuova concezione dell’essere bisogna far seguire una nuova concezione dell’uomo, e quindi un’antropologia che fino a quel momento di fatto non era mai esistita se non in forme non solo molto riduttive ma anche menzognere (come entro la classica antropologia cristiana o anche nel contesto dell’Umanesimo). L’uomo insomma deve venire inteso come essenzialmente creativo e quindi anche letteralmente creante. Proprio per questo esso va considerato radicalmente originario, e quindi equivalente all’essere stesso nella sua pienezza.
Per questo però è (ancora una volta) secondo lui necessario un nuovo intendimento della conoscenza che allo stesso modo trascenda e superi tutti quelli antecedenti. La conoscenza deve infatti venire intesa come assolutamente attiva e pertanto assolutamente non passiva. Essa pertanto deve divergere da qualunque forma di reazione alla realtà, e dunque anche di adequazione conoscitiva alla datità ed alla necessità che sono proprie del mondo naturale. In altre parole una siffatta conoscenza deve rifiutarsi di accettare il mondo così com’è, puntando invece incessantemente ad una sua trasfigurazione (che poi corrisponde alla messa a nudo di aspetti sconosciuti dell’essere, della quale prima abbiamo parlato). La direzione in cui quest’ultima deve muoversi è per la precisione quella della spiritualizzazione delle cose. E quindi la nuova conoscenza di cui parla deve equivalere ad un vero e proprio spiritualismo, ossia ad una concezione dell’essere che intende le cose come essenzialmente spirituali. Sono spirituali infatti le cose nella loro invisibilità, e restano tali anche quando alla fine vengono alla luce.
Ovviamente però non si può trattare assolutamente del vecchio spiritualismo. E con quest’ultimo egli intende esplicitamente quella concezione cristiana dell’uomo quale persona in possesso del libero arbitrio e capace di agire in maniera eticamente responsabile. Questa concezione infatti aveva per lui sempre mortificato la creatività libera dell’uomo in quanto intanto sottometteva l’essere ed agire umani alla dimensione del peccato. Pertanto era una concezione passiva mascherata sotto le apparenze di una concezione attiva. Essa insomma non concepiva affatto per davvero l’uomo come libero. È evidente che in tal modo ci ritroviamo al cospetto di quel classico personalismo cristiano che a sua volta era stato costruito sempre su un’antropologia tarata sulla Rivelazione cristiana, e incentrata a sua volta sulla Redenzione in quanto prodotto del peccato e della Caduta. Ma Berdjaev denuncia più volte (in tutti i suoi libri) questa dottrina come mero adattamento al mondo della necessità, ossia al mondo decaduto. E la ritiene quindi del tutto inadatta a descrivere e promuovere la creatività libera dell’uomo. In essa infatti l’accento posto sull’azione responsabile è mera reazione alla dimensione del peccato, e quindi è condizionata invece che condizionante. Non a caso, egli dice, essa ha sempre conosciuto solo il concetto di “potenza” (in sé involontaria e determinata) ma mai per davvero quello di creatività (in sé volontaria e indeterminata).
Del resto egli sottolinea che nel Vangelo non vi è di fatto alcuna traccia del concetto di creatività [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Prefazione, p. XL-LV].
Va infine sottolineato che Berdjaev vede lo spazio per questa nuova conoscenza in una “filosofia creativa” che è tale in quanto è incentrata nella dinamicità dell’essere sulla base del relativo concetto che prima abbiamo esposto.
Orbene non c’è dubbio che il personalismo e l’antropologia steiniani (che non a caso pongono fortemente l’accento proprio sulla libera responsabilità dell’azione dell’uomo in quanto persona) ricadano senz’altro entro i limiti di una dottrina che Berdjaev ritiene insufficiente, sterile ed anche poco autentica. E questo ancora una volta fu il frutto dell’atto dell’accettazione incondizionata della dottrina dogmatica cristiana da parte della pensatrice. Dobbiamo quindi pensare che il suo personalismo, a sua volta senz’altro unito ad un forte spiritualismo, rientri esso stesso nei limiti di una visione che il nostro pensatore ritiene superata e del tutto incapace di portare l’uomo fuori dalla tremenda crisi nella quale è caduto a causa proprio del prevalere di dottrine anti-cristiane (come il materialismo, il positivismo, l’Umanesimo, l’evoluzionismo etc.).
Anche rispetto a personalismo e spiritualismo, le cose sono troppo complesse per risolvere entro questi termini la relazione tra il pensiero berdjaeviano e quello steiniano. E quindi anche questo richiederà un’indagine a parte.
Comunque c’è qui da prendere atto del fatto che Stein non riuscì a concepire la creatività come carattere essenziale dell’uomo; sebbene, proprio come Berdjaev, abbia posto fortemente in luce la sua umano-divinità in quanto persona. Questo significa quindi che la sua filosofia (personalista-spiritualista) può e deve ricevere tutto l’apprezzamento che merita, ma non può propriamente venire considerata come creativa.
In ogni caso in SC Berdjaev definisce ulteriormente questa sua visione sul piano sia religioso che estetico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., X p. 297-305]. Egli auspica infatti per il Cristianesimo una “rivoluzione della creatività” che segua all’antecedente e tradizionale “rivoluzione della redenzione”, e quindi lasci apparire un “nuovo essere” specie in forma di “profezia”. Secondo lui infatti l’esperienza religiosa deve cessare di basarsi sul sacerdozio per iniziare a basarsi invece sulla profezia. E qui ritroviamo quindi sul piano religioso quell’incremento di essere che prima avevamo osservato sul piano conoscitivo. Sulle prime non è per la verità ben chiaro cosa Berdjaev intenda esattamente sul piano della prassi religiosa, però più avanti forse ciò diverrà meglio comprensibile. Sul piano artistico però le cose risultano da subito ben più chiare, dato che egli auspica un’arte che si muova verso il “possesso reale della bellezza nel suo essere” (superando così anche l’estremo confine del simbolismo). Ed appare quindi evidente che questa prassi (consistente in una vera e propria celebrazione dell’essere) può e deve venire considerata coincidente una nuova filosofia dell’essere, e cioè quella che coglie l’essere come abissale mistero a sua volta intimamente unito alla creatività. Anche questo ha però una valenza religiosa, perché secondo lui si tratta in realtà di un vero e proprio nuovo essere (“nuovo cosmo”) e quindi del regno dei Cieli. In altre parole la ricerca dell’essere deve venire per lui spostata dal piano (metaforico) dell’arte a quello fattuale della creazione effettiva di essere, ossia al campo dell’azione.
E ciò sposta decisamente l’attenzione dall’arte e dalla religione ad una vera e propria teurgia. Laddove la creazione di nuovo essere deve venire intesa come collaborazione alla creazione ed alla sua continuazione.
Ecco dunque cosa forse egli intendeva per creazione di nuovo essere sul piano religioso – deve trattarsi della collaborazione alla creazione da parte di un uomo riconosciuto ormai come creativo anche dalla religione stessa. Ma qui emerge ancora un nuovo significato della possibile nuova filosofia dell’essere Perché per Berdjaev nella teurgia si rivela “il significato religioso dell’essere”. Precisamente si tratta di “una natura nuova e trasfigurata”, e quindi nuovamente del Regno dei Cieli.
Infine in SC Berdjaev si produce in una nuova definizione dell’essere in relazione alla sua precisazione di ciò che deve venire inteso come personalismo, a sua volta poi in intima relazione con la morale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-329]. Qui in particolare egli auspica una vera e propria nuova rivelazione della persona, e precisamente nei termini di una fortemente rinnovata visione cristiana. Egli intende in SC questo rinnovamento soprattutto come superamento dell’eccessiva morale dell’umiltà, e quindi anche come superamento di un ascetismo che secondo lui è stato sempre fin troppo ossessionato dalla sola salvezza (costituendo in tal modo un’attitudine sostanzialmente egoistica e individualistica)
Il suo discorso parte comunque dalla costatazione che la moderna crisi della morale va considerata in intima relazione proprio con l’insufficienza del concetto di essere, che a sua volta va attribuito tanto all’antica e tradizionale ontologia quanto anche alla progressiva azione corrosiva della gnoseologia critica. Ciò che ne è risultato non è però solo astrattamente conoscitivo bensì anche molto pratico, e cioè è la cronica inesistenza di fatto di una vera “comunione” tra gli uomini. E quest’ultima è stata dovuta poi allo spostarsi sul piano sociale e morale di quella cogente aspirazione all’universalità che intanto aveva sempre dominato nella conoscenza. Ma sta di fatto che il sussistere della comunione non è pensabile senza la creatività (specie morale), e cioè senza l’impegno verso un rinnovamento continuo delle forme, che a sua volta impone tutti i rischi dell’assenza di qualunque stabilità e sicurezza. E qui egli avvalora di nuovo fortemente la critica alla morale di Nietzsche, auspicando che poco a poco l’imperativo morale scaturisca da dentro invece di provenire da fuori (con le cogenze della legge). Ma ciò implica anche la pienezza del valore attribuito all’individualità e quindi alla qualità in luogo della quantità. Il che trova poi il suo riscontro sul piano cristiano con l’affermazione della piena ed incondizionata umano-divinità della persona. Tuttavia per lui quest’ultima resterà sempre inibita e paralizzata finché dominerà l’idea di peccato, a sua volta in intima relazione con l’ossessione per la salvezza e con un sostanziale giuridismo della religione. Ebbene questo sommo valore attribuito alla persona ed alla sua qualitatività corrisponde per Berdjaev ad un intendimento aristocratico e gerarchico del Cristianesimo. E con ciò si tratta in definitiva del nucleo del personalismo, ossia dell’affermazione del “valore assoluto di ogni essere umano”.
Ecco dunque le vastissime e profonde conseguenze che può avere una revisione del concetto di essere in senso creativo anche sul piano religioso.
Infine, sempre in SC, tutto ciò trova la sua espressione nell’indicazione di una nuova prassi rivoluzionaria [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Berdjaev sostiene infatti che essa non deve essere esteriore, e quindi statica in quanto in tal modo rivolta al Passato. Essa è infatti così unicamente una reazione in negativo, e quindi è in sostanza reazionaria. E come tale resta fatalmente sotto il segno del peccato, della Legge ed anche della stessa Redenzione, che secondo lui dev’essere anch’essa superata sul piano della religione cristiana. La rivoluzione deve invece (in quanto creativa) tendere ad una rinascita e quindi alla dimensione cosmica in quanto armonia (quindi ancora una volta alla “comunione”). Deve insomma essere “rivoluzione dello spirito”. E pertanto essa deve cambiare per davvero lo stato delle cose, cosa che può avvenire solo se essa avviene nel profondo (interiore). Se essa invece è superficiale (esteriore), lo stato di cose resterà necessariamente e fatalmente così com’è. Nel senso che non saranno state modificate le premesse profonde dello stato di cose. La rivoluzione deve allora rinnovare le stesse fonti e condizioni dell’essere. Come tale essa deve essere una rivoluzione “mistica”. Deve insomma essere trasfigurazione dell’essere – specie in quanto “nuovo cosmo” incentrato nella “comunione”. Di nuovo siamo in tal modo al cospetto della reale possibilità di un avvento del Regno dei Cieli.
E qui devo ricordare solo per inciso che questa fu anche la posizione espressa da Romano Guardini e peraltro nella stessa epoca in cui operò Berdjaev [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Guardini ritenne infatti del tutto possibile un avvento storico del Regno dei cieli sulla base di un’azione umana altrettanto storica. Anche questo richiederà però un’indagine specifica. Ma bisogna qui ricordare anche che il filosofo italo-tedesco va considerato uno dei più grandi rappresentanti del personalismo.
Queste extrapolazioni dal concetto di essere alla morale si prestano bene a venire integrate da alcune considerazioni tratte anche da CD, opera nella quale appare evidente che molte delle prese di posizione etico-filosofiche ed etico-religiose di Berdajev derivarono molto direttamente dal pensiero che egli attribuiva a Dostoevskij. Innanzitutto si tratta dell’intima relazione che per il nostro pensatore esiste tra essere e libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., Prefazione, 2 p. VIII-XIV]. Infatti La libertà è per Dostoevskij un’entità radicale proprio perché essa ha a che fare con l’essere e non invece con le passioni della psicologia (e quindi con gli elementi meramente funzionali della mente). Essa può dunque costituire a pieno diritto il nucleo di una filosofia dell’essere. A tale proposito va però precisato che la morale di Dostoevskij è soggettiva e non oggettiva. Essa dipende infatti dall’azione dell’uomo come soggetto di libertà, e non invece da astratti principi universalmente oggettivi. E quindi, se la libertà ha un’intima relazione con l’essere, ciò è da intendere come effetto della scelta dell’uomo, a sua volta libero per essenza e quindi originariamente.
Laddove l’uomo libero lascia insorgere l’essere oppure lo annichila a seconda che scelga rispettivamente il bene o il male. Per Dostoevskij il male corrisponde infatti integralmente al non-essere, per cui la scelta di esso configura necessariamente un nichilismo (a sua volta basato sullo scadere della libertà in arbitrio). Berdajev precisa però che tutto questo ha risvolti etico-religiosi davvero estremi, dato che per Dostoevskij il bene senza libertà equivale infine al male stesso. E quindi l’intima relazione esistente tra libertà ed essere comporta il grande scenario religioso di un Cristianesimo (profondamente riveduto e corretto dal pensatore pietrogurghese) nel quale la libertà venga considerato qualcosa di assoluto ed irrinunciabile. Infatti dal sussistere integrale di esso (o meno) dipende il predominio nel mondo dell’essere o del non-essere.
Ecco che una filosofia dell’essere come quella possibile sulla base di Berdajev deve tenere conto di questo come di un elemento assolutamente originario. Per il pensatore infatti (ed ancor più sulla base di Dostoevskij) la libertà è qualcosa di talmente originario da essere ontologicamente abissale, e quindi assolutamente inafferrabile e misterioso. Qualcosa che insomma scaturisce da fonti profondissime.
Orbene, questo non sembra essere affatto vero entro la visione di Stein, secondo la quale semplicemente la libertà è il frutto di quella costituzione animico-spirituale dell’uomo che a sua volta trova una spiegazione del tutto razionale sia entro l’antropologia husserliana sia entro quella cristiana (e quindi in qualche modo è secondaria agli aspetti funzionali della mente, sebbene intesa come anima e precisamente come anima spirituale). Ecco che quindi anche da questo punto di vista la filosofia dell’essere steiniana è molto meno profonda e radicale di quella di Bedjaev.

IV- Filosofia, Io ed essere.
Nel tentare di disegnare in Berdajev una filosofia dell’essere ci si imbatte anche nella relazione di intimità che esiste tra filosofia ed essere (oltre che tra uomo ed essere, tra creatività ed essere e tra libertà ed essere).
Ritroviamo questa relazione in DIWO (che, come abbiamo detto, è stato oggetto del nostro primo articolo ponente a confronto la filosofia dell’essere di Stein e Berdajev), nel quali tutti gli aspetti trattati finora riappaiono nel contesto di un tema che è stato da secoli al centro del pensiero moderno. Ed ecco che la relazione tra filosofia ed essere si presenta laddove il pensatore afferma che (come fa anche in SC) la filosofia è intuizione e precisamente intuizione originaria e primaria che non è deducibile da alcunché se non da sé stessi [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ed è evidente che questa non è affatto la filosofia come viene intesa ormai già da molti secoli. Per Berdjaev è dunque solo mediante una siffatta filosofia che si coglie l’esistenza nella sua ampiezza, pienezza e tragicità, e quindi come destino umano. Ne consegue che il proprio vissuto emotivo è di importanza cruciale. Ed ecco allora che il momento fondamentale del filosofare risulta l’”essere filosofo” più che non la filosofia stessa nella sua oggettività. Ed ecco anche che la filosofia non può costituire appena un indifferente atto tecnico, ma può costituire invece essa stessa solo un essere. Il che implica poi che la filosofia dell’essere non è per nulla l’atto conoscitivo (distaccato per definizione) per mezzo del quale il soggetto filosofante indaga l’essere (in quanto esteriore alla coscienza), ma invece non è altro che il cogliere immediato dell’essere (rivelazione dell’essere nella sua incondizionata pienezza) non appena ci si dispone a filosofare nel mentre intanto si esiste.
Ma tutto ciò sta in relazione con ciò che abbiamo già posto in evidenza, e cioè con l’importanza dell’uomo in quanto persona colto nel pieno della sua creatività. Berdjaev rivendica infatti che colui che filosofa è in primo luogo un uomo-persona, e non invece un impersonale soggetto sottomesso a sua volta alle intimazioni della coscienza trascendentale – come esso era apparso in Kant e nell’idealismo tedesco [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 54-59] E difatti in tal modo l’oggetto resta irrimediabilmente separato dal soggetto in modo tale da non poter in alcun modo costituire una rivelazione di un vero qualcosa (ossia dell’essere).
Il problema è stato quindi per lui sempre l’avvaloramento della conoscenza dell’essere e non dell’uomo. Perché invece, una volta rivalutato l’uomo, ci si accorge che (come abbiamo visto) esso è del tutto identico all’essere – e lo è in forza dell’onticità del suo Io o mondo interiore, ossia in forza del “contenuto ontico” (“seinmäßiges Inhalt”) del proprio Io. Posto questo, allora non sarà più la conoscenza a precedere l’essere, ma sarà invece soltanto l’essere (in quanto uomo) a precedere la conoscenza. Per tali motivi, dunque, l’uomo (l’Io) non potrà mai venire contrapposto all’essere. Ecco quindi una rivalutazione filosofica dell’uomo in quanto né parte della Natura né spirito obiettivato. Come tale esso può infatti essere solo gettatezza (anche se nel contesto di una filosofia come gnoseologia). Ma non può esserlo in alcun modo una volta riconosciuto nella sua piena e incondizionata onticità. Tutto questo significa comunque molto in sintesi che l’Io filosofante (in quanto uomo-persona) va considerato primariamente un esistente.
Tuttavia il considerarlo un esistente non implica affatto considerarlo un ente immanente in quanto gettato nel mondo esistente; ma semmai il Signore stesso perfino dell’esistenza.
Ad evitare qui un mero soggettivismo dobbiamo però fare al proposito delle importanti precisazioni [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-71]. Sappiamo già che Berdjaev considera l’essere come qualcosa che eccede da ogni parte il nostro mondo, soggettivo o oggettivo che sia. Egli parte quindi dal fatto che l’essere non sta né nel soggetto né nell’oggetto. E quindi è del tutto vano tentare di costruire una filosofia dell’essere superando l’idealismo (soggettivismo) in direzione di un realismo (oggettivismo). Va intanto però ammesso che, allorquando si assume la posizione idealistica, compare al massimo una conoscenza dell’essere, ma invece mai l’essere stesso; dato che non si fa altro che produrre un’oggettivazione dell’essere. Questi atti conoscitivi non ci restituiscono dunque mai un’autentica filosofia dell’essere. Berdajev accusa molto direttamente Kant di aver fatto in modo che si scambiasse il pensiero per essere (ma riducendo il secondo al primo), con la conseguenza di un’oggettivazione del pensiero che poi viene scambiato per piena realtà, ossia il famoso «mondo fuori di noi». Ma in definitiva questa era stata ed è restata anche la stessa posizione di quel realismo intellettualistico che aveva trovato la sua espressione nella Scolastica. Anche in questo caso la realtà non era altro che pensiero oggettivato.
E quindi anche il realismo non è altro che conoscenza dell’essere. Ne consegue pertanto che idealismo e realismo convergono perfettamente nel fallito tentativo di costruire una filosofia dell’essere. Ed è stato esattamente così che per Berdjaev è insorta quella “tragedia della conoscenza” la quale consiste di fatto nella conoscenza dell’essere in quanto mera oggettivazione del pensiero.
Da questo egli giunge allora alla conclusione che un’autentica filosofia dell’essere sussiste solo in una vera e proprio “filosofia dell’esistenza” (“Existenz-Philosophie” o ”existenzielle Philosophie”). Solo in essa la tragedia della conoscenza viene infatti superata, e ciò accade perché in essa l’essere dilaga nel trascendere ed inglobare qualunque elemento che fino a quel momento aveva preteso di governarlo e dare ad esso un volto. E nel suo contesto quindi ogni elemento possibile diviene fatalmente un «esistente».
Ma per lui a questa costatazione manca ancora un fondamentale elemento, e cioè un carattere tipico ed estremo dell’essere. Infatti, in base a quanto abbiamo appena detto, l’essere compare ancora in maniera fin troppo chiara ed esplicita (categorizzato), nonostante sia stata ormai tematizzata l’immersione totale e senza scampo dell’Io (o soggetto) nell’esistenza (come per lui è avvenuto al massimo in Kirkegaard). Manca cioè ancora la costatazione che, con tale immersione, l’Io o soggetto finisce per costituire esso stesso l’essere e precisamente come “mistero”, ossia come qualcosa di assolutamente non categorizzabile e quindi inafferrabile. In altre parole, anche quando abbiamo la netta sensazione di aver davanti a noi chiaramente l’essere e addirittura ci sentiamo totalmente immersi in essi (fino al punto di non poter in alcun modo trascenderlo con la nostra conoscenza), noi di esso non possiamo dire assolutamente nulla. Sta di fatto però che solo in questo modo l’essere si configura come un vero “qualcosa” e non invece appena come il discorso “sopra qualcosa”. Ed è esattamente questo ciò che fa della filosofia dell’esistenza una davvero autentica e piena filosofia dell’essere.
Orbene ci ritroviamo qui laddove ci eravamo ritrovati anche già prima, e cioè nel momento in cui noi osserviamo Stein obiettivare chiaramente l’essere prima nell’obiettivarlo come pensiero (seguendo la Fenomenologia husserliana) e poi, come Aristotele e Tommaso, nel concepirne le categorie ed anche nel definirlo come “essere come tale”. Ed è allora evidente che, almeno dal punto di vista di Berdajev, ella non ha affatto costruito una piena filosofia dell’essere. In quest’ultima infatti (nella sua formulazione steiniana) l’essere si presenta in maniera fortemente condizionata, sia che venga concepito in maniera idealistica sia che venga concepito in maniera realistica.
Detto questo, Berdjaev pone a confronto le grandi filosofie dell’esistenza, e cioè quelle di Heidegger, di Jaspers e di Kirkegaard, e deplora peraltro il pessimismo tragico delle prime due. In ogni caso queste ultime sembrano a lui del tutto insufficienti − in quanto quella di Heidegger vede l’esistente unicamente con le caratteristiche molto specifiche del “Dasein”, e quella di Jaspers lo vede unicamente come soggetto sfuggito all’universale nel mentre è dedito all’atto di trascendere le apparenze sensibili verso l’oltre.
Ma il punto sta per lui altrove ed esso viene colto solo da Kirkegaard. Il quale definì davvero in modo pieno l’”esistere” come oggetto primario dell’”esistente”. Ed in tal modo l’esistente viene collocato nel tempo più che non nello spazio. Ma è solo in tal modo che l’obiettivazione dell’essere (statica per definizione e quindi non temporale) viene spazzata via definitivamente; in maniera che l’essere comincia ad emergere davvero nella sua pienezza. In particolare, con l’obiettivazione scompare tutto che è esteriore in quanto oggettuale (per definizione statico), mentre resta invece tutto ciò che è interiore in quanto vero immanente. Ed ecco allora che il soggetto conoscente, una volta posto solo come esistente nel tempo (ossia colto come l’“esistere” stesso), finisce per scomparire dal novero delle oggettualità. È in tal modo che Berdajev sostiene insomma nuovamente che uomo ed essere sono la stessa cosa (il che rende del tutto superfluo postulare un Io o soggetto posto di fronte all’essere).
Tuttavia la filosofia dell’essere emerge qui anche per un altro motivo, sempre sostenuto da Kirkegaard. Infatti, dato che il filosofo è in primo luogo un esistente, anche la filosofia lo sarà – ossia la filosofia in primo luogo esiste. E solo in tal modo essa non sarà più una filosofia «sull’esistenza», ma sarà invece una filosofia «dell’esistenza». Ecco dunque la vera filosofia dell’essere.

Conclusioni.
Ebbene, rispetto a quanto era emerso nel nostro primo articolo, ci sembra che qui sia divenuto ben più chiaro come si possa e debba intendere la filosofia dell’essere in Berdjaev, e quindi quanto essa sia diversa da quella di Stein. Nel precedente articolo (e sulla base di DIWO) l’aspetto che stava in primo piano era soprattutto quello dell’Io in quanto esistente (nel contesto dell’identificazione dell’essere con la dimensione interiore); che a sua volta aveva indotto Berdjaev a considerare la filosofia dell’esistenza come la più autentica filosofia dell’essere. E ciò convergeva del resto con alcuni aspetti di quell’Essente che Stein aveva posto al centro della sua filosofia metafisica.
Tuttavia la lettura di SC e di CD ci ha mostrato che il concetto di essere di Berdjaev è ben più complesso e profondo di questo, e quindi va ben oltre la definizione di ciò che è davvero l’«Io» e del rapporto di quest’ultimo con l’essere in generale e con l’essere oggettuale (il mondo degli oggetti che è esteriore alla coscienza). In particolare abbiamo visto che in SC il pensatore russo definisce in maniera davvero ultima l’essere ed inoltre lo equipara all’uomo, alla creatività ed alla libertà. E ciò dà vita non solo ad una visione filosofica che per molti aspetti è davvero oceanica (tanto che contiene spunti per molte altre ricerche), ma inoltre configura una filosofia dell’essere dai tratti estremamente ampi, profondi, complessi e soprattutto misteriosi. In altre parole non si tratta affatto solo dell’identità riconosciuta tra filosofia dell’essere e filosofia dell’esistenza. Si tratta invece di una filosofia dell’essere entro la quale il concetto di essere si presenta come radicalmente abissale ed originario, così come lo sono anche i concetti di uomo, di creatività e di libertà. Il concetto di essere insomma finisce per essere esattamente equivalente alla stessa fenomenologia creativa (e creazionale) colta in tutta la sua così prodigiosa ed ineffabile produttività. E ciò avviene inoltre nella quasi perfetta equivalenza riconosciuta tra la creatività divina e quella di un uomo il quale (per amoroso dono divino) è in primo luogo libero.
Ebbene, questo così ricco, complesso e significativo assetto della filosofia dell’essere berdjaeviana non poteva non indurci a prendere di nuovo in esame la sua possibile relazione con quella steiniana. Ed ancora una volta (così come nel primo articolo) nell’indagine è emerso che quest’ultima è di ampiezza, profondità e radicalità molto inferiori alla prima. In particolare in essa il concetto di essere non è affatto così estremo e profondo come quello di Berdjaev, e quindi si presenta molto meno come un autentico ineffabile mistero. Mistero che però trova di fatto la sua piena manifestazione nell’uomo. Come abbiamo visto nel primo articolo, però, una volta che noi concentriamo la nostra attenzione sul concetto steiniano di Essente, l’immensa di distanza che separa le due filosofie dell’essere risulta almeno un poco accorciata (per questo però invitiamo il lettore a consultare quell’articolo). Ed inoltre anche in questa nuova indagine abbiamo dovuto constatare che, qualora noi concentriamo la nostra attenzione sull’ultimissima fase mistico-monastica della vita ed opera steiniane, allora l’insufficienza della sua filosofia dell’essere cessa di costituire un criterio di giudizio del suo pensiero − giudizio tendenzialmente negativo, ma solo molto relativamente e metaforicamente.
Detto questo, allora, possiamo concluderne che senz’altro l’analisi del pensiero berdjaeviano ci permette di constatare che la via steiniana alla filosofia dell’essere non fu affatto (nel tempo in cui operarono i due pensatori) né l’unica praticabile né quella più piena, produttiva ed avvincente. Anzi la filosofia dell’essere di Berdjaev sembra aver colto molto di più l’obiettivo di indagare l’essere in maniera da coglierlo nella sua pienezza. Quello che è comunque certo è che la filosofia dell’essere steiniana non ebbe alcuna aspirazione ad essere nuova, ma semmai volle espressamente restare entro limiti molto tradizionali.
Ed allora, a fronte di tutto questo, siamo costretti ad ammettere che l’essere non sembra avere affatto quei caratteri tutto sommato razionali e tangibili che esso ha nell’onto-metafisica steiniana.
In particolare esso non appare costituire affatto quel saldo, stabile ed eterno Fondamento che tutto regge e sostiene, e che salva gli esistenti tanto dalla distruzione comportata dal tempo quanto dallo sprofondamento nel Nulla; non appare costituire affatto un’estensione, tanto che (per quanto invisibile e infinita) finisce per coincidere con l’intero mondo creato, o anche universo, e cioè l’elemento in cui ci sentiamo quasi sensibilmente immersi nel nostro esistere; non appare costituire affatto qualcosa che per definizione resta sempre uguale a sé stesso, giustificando e consolidando in tal modo quell’ente che invece continuamente muta, e così trascendendolo nel rappresentare ciò a cui l’ente deve obbligatoriamente rinviare entro la metafisica (ossia il concetto metafisico di essere in senso aristotelico in quanto “essere come tale”). Insomma, a fronte di questa serie di davvero eclatanti negazioni, la stessa espressione «essere» appare in definitiva non solo insufficiente ed inautentica ma perfino falsificante; dato che essa si presenta fin troppo appena come l’opposto del «nulla», e così finisce per lasciar coincidere l’essere con il mero «è»; quindi in definitiva non appare costituire affatto ciò che per definizione continua ad esistere immancabilmente (per sempre) sullo sfondo di ciò che invece continuamente cessa di esistere. In altre parole l’Essere non appare affatto trascendere davvero il Nulla, ma semmai sembra dipendere logicamente da esso (come sua mera negazione).
Dopo aver preso atto delle riflessioni di Berdjaev, infatti, noi ci ritroviamo di fronte ad un qualcosa che non costituisce affatto una salda, stabile e lineare estensione quasi delimitata (sia pure in maniera indefinibile) e provvista dei caratteri di ciò che brilla al sole come un «definito» che è ormai per sempre emerso ed è così sfuggito per sempre alla notte dell’indefinizione e pertanto all’abissale profondità. Ci troviamo invece di fronte all’esatto contrario di tutto ciò, e cioè di fronte a qualcosa che è quello che è unicamente perché sgorga proprio così com’è da un profondo ed abisso oscuro; emergendo così alla luce come ciò che, nel suo persistere infinitamente (vincendo così effettivamente il divenire in quanto morte), non fa altro che divenire incessantemente in quanto perennemente rinnovato «nuovo». E proprio con queste caratteristiche finisce, secondo Berdjaev, per coincidere con la creatività per eccellenza (e quindi anche con la creazione), ed inoltre con l’uomo stesso in quanto ineluttabilmente creativo. È evidente che in tal modo l’essere è qualcosa di abissale, profondo, inafferrabile e misterioso perfino quando viene alla luce. E tale resta anche nel corso di tutto il suo infinito persistere.
Ebbene cos’è questo in termini filosofico-metafisici ed anche filosofico-religiosi? Abbiamo visto già che non è assolutamente l’essere così come concepito da Aristotele (e probabilmente, in qualche modo, anche da Platone), cioè quella “ousía” che in fondo può venire intesa tanto come sostanza quanto come essenza (senza che poi cambi davvero molto nella sua natura). Ma è forse invece l’infinito divenire di Eraclito? O è forse l’eterno «è» che per Parmenide si dissocia perennemente dal non-essere, facendo sì che quest’ultimo equivalga ad un «nulla» che a sua volta cessa immediatamente di avere qualunque senso?
No! Non sembra proprio che sia così.
Ed allora non ci resta che pensare che Berdjaev abbia goduto di una vera e propria rivelazione assolutamente originale e senz’altro visionaria dell’essere, che non trova pari nemmeno in quel grande rinnovatore dell’ontologia che al suo tempo era stato Heidegger. Tanto che, con la riflessione del pensatore russo, l’essere si presenta a noi in una natura assolutamente finora inaudita, e che quindi è immensamente sorprendente.
Ma quali possono essere le basi di tale rivelazione visionaria? Al di là del pensiero di Nietzsche, che viene da lui non a caso spesso menzionato, ed al di là anche del pensiero di Dostoevskij (al quale Berdjaev attribuisce l’intuizione per eccellenza di un essere spirituale profondo che è abissale, dinamico e magmatico per definizione), riteniamo che si tratta molto più dell’essere così come si presenta nella teosofia, e soprattutto in Böhme (anche lui spesso citato dal pensatore) ed inoltre nella Cabbala lurianica (invece da lui non citata). E come tale si tratta di un essere in sé totalmente ed irrimediabilmente misterioso, inafferrabile ed ineffabile, che (pur presentandosi come il perennemente «nuovo») resta in fondo ciò che è anche dopo essere venuto alla luce.
E così è qualcosa che non cessa né cesserà mai di sorprenderci. E perciò finisce senz’altro per esorbitare perfino dall’ambito di quella filosofia e di quella metafisica che inclinano di più a categorizzare (formalmente e rigidamente) ciò che osservano.
Ebbene, possiamo cogliere le grandi conseguenze di tale conclusione nel constatare che, una volta posto questo, possiamo allora solo dire che l’essere non può rapresentare altro che lo stesso Dio creatore una volta colto al di fuori degli infiniti schemi che le più formali filosofia, teologia ed onto-metafisica hanno fatto calare su di Lui per comprenderlo. Ma a questo punto dobbiamo a questo punto ricordare al lettore che lo scopo della ricerca ontologica alla quale Stein si era sentita chiamata molto prepotentemente era stato proprio quello di definire il Dio-Essere, ossia «Dio-in-quanto-essere». Ora è certo (in base a tutto ciò che abbiamo visto in questo articolo) che la pensatrice – abbagliata come fu da Tommaso ed Aristotele e continuamente intralciata come fu anche dai residui di idealismo trascendentale fenomenologico husserliano che erano rimasti nella sua mente – non è riuscita a dare al Dio-Essere il volto che invece Gli è stato dato da Berdjaev. E tuttavia, come abbiamo fatto notare, vi sono nel suo pensiero indizi del fatto che ella deve averlo comunque intuito – come nel concetto di “Urgrund” e nella riflessione sulla Trinità quale incessante flusso di essere impregnato d’amore.
Ed allora non ci resta che spostare totalmente la nostra attenzione sulla valenza integralmente religiosa di questo Dio-Essere nel contesto di quell’esperienza religiosa alla quale Berdjaev stesso perviene continuamente nel corso delle sue riflessioni come loro esito finale ed anche suggello. E tutto questo significa allora che dovremo dedicare proprio a questo tema la nostra prossima indagine su quel materiale di pensiero berdjaeviano che appare essere quasi inesauribile. Infatti l’esperienza religiosa promette di costituire esattamente quell’ambito entro il quale il Dio-Essere si offre a noi con caratteri più prossimi a quelli davvero inusuali e stupefacenti che Berdjaev attribuisce all’essere.
Ma tutto ciò significa forse anche che, nel leggere Berdjaev e nel connetterlo con una grande pensatrice dell’essere come Stein, non si tratta tanto di verificare se la filosofia dell’essere di quest’ultima sia stata o meno insufficiente. Si tratta invece probabilmente molto più di contemplare lo straordinario fenomeno di una stagione della filosofia (corrispondente grosso modo al XX secolo) nel corso della quale, grazie all’apporto di diversi fertilissimi pensatori (e sebbene nel contesto di una grande sterilità e sostanziale insignificanza dei più poderosi ed apprezzati pensatori e sistemi filosofici che intanto li circondarono), Dio stesso ha voluto far progredire in una maniera prima inimmaginabile la conoscenza che noi uomini possiamo avere di Lui.
Il che significa allora anche che in tale contesto è di fatto rinata una filosofia che vuole essere religiosa nel definire il proprio più primario oggetto al di fuori di qualunque riduzionismo razionalista e/o scientista.
Ed infatti proprio Berdjaev definisce spesso la filosofia come religiosa per sua profonda vocazione, aspirazione ed ispirazione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 11-28]. Ciò a causa del fatto che essa da sempre si è occupata di temi misterici (come la reincarnazione e la liberazione). Ma inoltre, anche al di fuori di questo ambito, per lui essa non è mai stata separata dalla religione; nemmeno nelle sue fasi più razionaliste e scettiche (come da Cartesio in poi). Il che per lui si spiega soprattutto a causa della relazione del filosofare umano con l’essere − sulla base del fatto che il filosofo non può mai scindersi dal proprio vivere immerso nell’esistenza che intanto però gli rivela l’essere come mai altrimenti sarebbe stato possibile. A ciò si aggiunge inoltre che secondo Berdjaev la filosofia è necessariamente religiosa perché (a differenza della scienza) tende incessantemente a liberare l’uomo dal mondo; e per questo essa è atto di intuizione (ed anche atto di auto-rivelazione) e non invece mera reazione alla datità del mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 48-68, I p. 75-82]. Il che poi indica che la filosofia è in primo luogo un “atto creativo”, anzi è l’atto creativo per eccellenza; e come tale è la forma stessa di auto-emancipazione dell’atto creativo dello spirito umano.
Il quale in tal modo (ossia nel filosofare) “reagisce al mondo con la conoscenza e con essa si oppone al mondo”. La conoscenza filosofica, infatti, crea “idee sostanziali” che si oppongono alla datità del mondo introducendo così in essa l’”essenza ultra-mondana”. Dunque la filosofia non riflette affatto il mondo così com’è, ma invece semmai lo purifica e trasfigura in forza della propria intuizione del Sovrannaturale.
Per Berdjaev, comunque, tutto ciò implica anche che, per poter essere pienamente religiosa, la filosofia non può in alcun modo sottomettersi a quei criteri che la rendono scientifica, e così la distaccano dal suo vero metodo e dal suo vero oggetto (laddove in particolare l’atto fondamentale dell’intuizione viene sottomesso al giudizio inevitabilmente distruttivo della gnoseologia critica). Ecco che allora, per poter divenire pienamente religiosa (e così costituire anche una davvero piena filosofia dell’essere, obbedendo in tal modo alla sua più profonda vocazione), l’attuale filosofia deve per sempre scrollarsi di dosso l’ossessione che più l’ha tenuta lontana da questo scopo (specie negli ultimi quattro secoli), ossia l’aspirazione ad essere “scientifica”. Per Berdjaev inoltre la religiosità della filosofia ha anche una valenza radicalmente cristiana, dato che la sua aspirazione religiosa trova piena realizzazione di quell’affermazione di Cristo (“Io sono la Verità”) che poi lo qualifica esattamente come l’Uomo assoluto colto nell’atto più pieno del filosofare (quello in cui la verità viene incarnata). Dovremo comunque esaminare tutto ciò più approfonditamente laddove indagheremo l’intendimento di esperienza religiosa che è deducibile dal pensiero di Berdjaev.
Tutto ciò significa allora che l’apparente dissociazione della filosofia dalla religione (iniziata in parte già in Platone stesso) non è da vedere in altro modo che come insufficienza della sua relazione con l’essere, e quindi deficitaria filosofia dell’essere. Ma abbiamo appena visto che l’essere altro non è se non Dio, e peraltro nella sua forma più estrema e sorprendente. Inoltre appare anche evidente che, per poter essere davvero religiosa, la filosofia deve ripensare totalmente sé stessa, giungendo così a darsi un’identità che finora non aveva forse mai aveva avuto il coraggio di avere. Tranne forse nella fase in cui, come dice Schelling, essa era stata sostanzialmente sacerdotale [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10].
E con questa ipotesi direi che questa indagine possa essere ritenuta aver raggiunto quello che era stato fin dall’inizio il suo scopo principale. In altre parole, insomma, dietro le due filosofie dell’essere a confronto (quella di Berdjaev e quella di Stein), noi dobbiamo soprattutto guardare al grandioso fenomeno del rinascere di una fervorosissima e profondissima filosofia religiosa in un mondo nel quale intanto la separazione tra uomo e Dio sembrava invece averla seppellita e liquidata per sempre.
Dunque, poste così le cose, la differenza tra la filosofia di Berdjaev e quella di Stein appare essere molto ma molto minore.

I- Introduzione
Gertrud von Le Fort ha vissuto una lunga vita a cavallo tra il XIX e il XX secolo – nata nel 1876, è deceduta addirittura solo nel 1971. Il che significa che ha vissuto tutti i momenti cruciali, in gran parte tragici, della storia tedesca e della storia europea. Ed evidentemente ha vissuto anche alcuni tra i più decisivi momenti di cambiamento che hanno caratterizzato la vita della Chiesa Cattolica. Anche per questo i suoi libri (ed ancor più il libro del qual esporrò il testo in questo scritto) meritano una grande attenzione non solo da parte dei credenti cristiano-cattolici ma anche da parte di chi non crede.
Dopo aver studiato teologia, storia e filosofia, Le Fort si diede sostanzialmente alla scrittura, pubblicando molti saggi, romanzi e poesie, tutti incentrati nella fede cristiano-cattolica. E così si guadagnò il titolo di migliore scrittrice cattolica tedesca. Intanto fu sempre molto vicina alla spiritualità carmelitana, tanto che il suo più famoso romanzo fu “Die letzte am Schafott” (“L’ultima al patibolo”), dedicato al triste episodio dell’esecuzione di alcune monache carmelitane durante la Rivoluzione Francese. Anche per questo (oltre che per il comune interesse per la questione femminile vista dal punto di vista cattolico) conobbe molto da vicino Edith Stein; anzi le lettere steiniane testimoniano il sussistere tra loro di un rapporto di amicizia molto profondo ed intenso [Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Erster Teil 1916-1933, ESGA 2, Herder, Freiburg Basel Wien 2010; Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015]. Tanto che Le Fort (lettera 368) si assunse addirittura il compito di visitare i parenti e la madre di Edith Stein a Breslau nel tentativo difficilissimo (ma poi fallito) di spiegare loro la scelta religiosa cattolica dell’amica.
Pare intanto che l’idea lefortiana della mistica fu molto prossima proprio a quella di Stein, ossia fu incentrata nel tema del dolore come strumento fondamentale per la crescita spirituale; specie a causa del fatto che esso spinge verso l’amore allontanando dall’orgoglio (ossia il dominio dell’Io) e quindi tempra l’anima specialmente nel senso del costruire la difficilissima virtù dell’umiltà. Il dolore dunque è mezzo per raggiungere quell’amorosa e sacrificale capacità di “dedizione” (“Hingabe”) che secondo lei caratterizza essenzialmente la natura femminile. Infatti il concetto di dedizione è centrale nell’opera da lei dedicata alla Donna, opera che ora andrò ad esporre e commentare [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Ma anche Edith Stein si dedicò ad una molto approfondita e prolungata riflessione sulla Donna, che trovò spazio in un ciclo di conferenze da lei tenuta presso circoli cattolici nel corso degli anni 30. Il relativo materiale divenne infine un suo libro postumo dal titolo “Die Frau”, “La donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Anzi pare che abbia conosciuto Le Fort proprio in occasione di una di queste conferenze tenuta a Monaco nei locali di una lega di donne cattoliche (lettera 191). Intanto però, nel corso della lunga amicizia che la legò alla Le Fort, Stein aveva fatto la scelta definitiva della vita monastica, e quindi la mistica era divenuta di fatto il suo pane quotidiano. Ebbene, anche la sua mistica fu concentrata sul tema del dolore come decisivo fattore di crescita spirituale ed inoltre sul tema dell’attitudine alla dedizione. Anzi la “dedizione” (“Hingabe”) restò costantemente al centro dei suoi pensieri per poi finire per diventare il viatico che l’accompagnò verso la morte nell’offerta volontaria di sé stessa per la purificazione del mondo dai suoi peccati.
Quindi non ci si potrebbe affatto meravigliare se la sua riflessione sulla Donna presentasse gli stessi tratti della mistica che ritroviamo in Le Fort. Il che è poi giustificato dal fatto che entrambe le pensatrici furono contemporaneamente molto attive nel campo del movimento femminile cattolico. Per verificare questo sarebbe però necessario uno studio comparativo sulle due opere al quale non so se riuscirò a dedicarmi. Intanto comunque le due raccolte di lettere di Edith Stein offrono materiale a sufficienza per venire a conoscenza degli intensissimi scambi di idee che vi furono tra le due donne. E quindi a questo materiale bisognerebbe fare riferimento per comprendere meglio se e quanto Edith Stein si sia riferita anche a “Die Ewige Frau” di Le Fort nel concepire le sue riflessioni sulla Donna. Tuttavia purtroppo non c’è spazio per questo nel contesto di uno scritto che vuole essere solo un’esposizione sintetica dell’opera di Le Fort. Ciononostante, però, colui che conosce anche solo superficialmente la vita ed opera di Edith Stein troverà nell’esposizione di Le Fort non pochi rinvii intuitivi all’esperienza (e relativa riflessione) che la pensatrice visse nell’abbracciare con straordinario entusiasmo la condizione di una donna che è in primo luogo vergine (in principio fallita nella sua attesa di una vita amorosa e familiare) ed insieme sposa di Cristo.
In ogni caso dalle lettere veniamo a sapere che Stein lesse “La donna Eterna” di Le Fort nel 1935 (lettera 365) e ne consigliò anche la lettura ad Hedwig Conrad-Martius (lettera 430). Anzi il libro le fu regalato per Natale dall’autrice stessa. Ed in questa occasione Stein lodò Le Fort per aver ricondotto la realtà della Donna alle sue radici, rendendo in tal modo “superfluo” tutto ciò che era stato scritto fino allora su questo tema. Non è chiaro però dal testo della lettera se ella si riferì con questo alla letteratura cattolica sulla donna, oppure a quella laica e femminista. Comunque Stein apprezzò molto anche gli “Inni alla Chiesa” di Le Fort ed inoltre anche “Die letzte am Schafott” (lettere 371 e 374).
Intanto devo aggiungere a tutto questo il fatto che io stesso negli ultimi tempi ho dedicato un’approfondita riflessione alla Donna paradigmatica (la Donna Eterna, o anche Donna Divina, cioè la Sophia o Sapienza divina, ossia il Femminile metafisicamente paradigmatico) [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Anche in questo libro la tesi centrale consisteva nel fatto che la figura di Maria Vergine va considerata il modello più alto e compiuto di Donna che possa esserci – specie sulla base dei libri di Luigi Grignion de Monfort dedicato appunto al culto mariano ed inoltre al simbolismo della Vergine Maria [Luigi Monfort M. Grignion, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, San Paolo, Milano 2015; San Luigi Maria Monfort, L’amore dell’eterna Sapienza, Edizioni Monfortane, Roma 2002]. E questa è del resto anche la tesi centrale del libro “Die Frau” di Edith Stein. Tuttavia il mio libro restava ancora fortemente influenzato da concetti ed elementi metafisico-religiosi relativi al Femminile che avevo poco a poco assorbito studiando il pensiero «tradizionale», ossia quella riflessione che si riferisce sostanzialmente a contenuti sviluppati nella metafisica filosofica pagana (specie platonica e neoplatonica), nella letteratura gnostica, in diversi testi propri della sapienza esoterico-ermetica ed infine nella sofiologia greco-ortodossa specialmente russa (rappresentata in gran parte da Solov’ëv). Va precisato però che quest’ultima forma di riflessione fu profondamente cristiana specie in quanto rientrava nella fede ortodossa, a sua volta basata sulla Patristica greca (Gregorio di Nissa etc.). L’elemento principale delle mie riflessioni (in gran parte critiche) consisté allora nell’osservazione che l’identificazione di Maria Vergine con la Sophia (o Donna Divina) corrisponde in effetti a null’altro al concetto metafisico-religioso pagano di “Anima mundi”. Laddove quest’ultima era stata sempre considerata come un elemento di raccordo piuttosto statico ed impersonale tra lo Spirito divino-celeste (in gran parte corrispondente all’Intelletto nella sua pienezza o Nous) e la dimensione mondano-corporale-materiale costituita a sua volta in particolare dall’uomo. Ma sta di fatto che nel Paganesimo non vi era alcuna traccia del concetto di Grazia né vi era molto interesse per la Persona.
E quindi la femminile Sapienza divina era un’entità del tutto impersonale e non faceva alcun passo verso l’uomo. Pertanto essa non esercitava di fatto alcuna “misericordia” a favore dell’uomo e del mondo. In altre parole essa non era affatto dinamica in senso discensivo, e quindi si limitava a costituire appena il gradino più basso di un’ascesa al Divino che intanto veniva affidata interamente all’azione umana. Non a caso (specie nel contesto della Gnosi pagana) si pensava che per mezzo di tale ascesa attiva l’uomo potesse deificare sé stesso in maniera assolutamente autonoma e quindi senza ricevere in questo alcun genere di aiuto dall’alto. È evidente che tale visione confligge radicalmente con quella che vede invece la persona di Maria Vergine come un elemento decisivo dell’ascesa umana alla divinità. Essa è infatti la mediatrice per eccellenza tra l’umano e il Divino. Ma in quel libro io mi ero limitato semplicemente a cercare le ragioni pro e contro queste due visioni, e quindi non avevo posto alcun forte accento sul concetto di Misericordia ad opera di Maria Vergine. Tuttavia il libro di Le Fort (addirittura ancor più di quello di Edith Stein) mi ha mostrato che, almeno per chi si sente cristiano, le ragioni stanno tutte dalla parte della visione che concepisce Maria Vergine come un elemento personale e dinamico che è decisivo nell’ascesa umana alla divinità, e ciò proprio in forza del suo movimento discensivo verso l’umano. È esattamente per questo che Le Fort (nel considerarla come il modello e paradigma della Donna) considera Maria Vergine primariamente come una sostanziale “Madre di Misericordia”. E indubbiamente proprio così ella venne considerata anche da Edith Stein. Nelle cui lettere peraltro si ritrovano molti riferimenti al culto di Maria Vergine come “Regina della Pace”, che veniva fervorosamente osservato nel Carmelo di Colonia, dove lei visse la maggior parte della sua vita monacale. Ebbene, a causa di questi miei trascorsi riflessivi sulla Donna, nel descrivere i contenuti del libro di Le Fort dovrò a volte fare riferimento anche ad essa. Ma lo farò sostanzialmente nel correggere le mie convinzioni di allora.
Vi è infine un altro decisivo punto di riferimento del quale dovrò tener conto, e cioè la riflessione sulla donna che poco a poco (negli ultimi due secoli e mezzo) si è andata sviluppando nel contesto del movimento femminista. Orbene non vi è dubbio che sia Le Fort che Stein si sentirono in qualche modo parte dei questo movimento. Anzi pare che, prima di convertirsi al Cattolicesimo, Stein abbia abbracciato le idee femministe in maniera piuttosto intensa. Ma oltre a ciò non vi è dubbio nemmeno circa il fatto che entrambe le pensatrici, a causa della fede cristiano-cattolica che professavano, finirono per non abbracciare mai interamente la visione femminista della donna. Visione che era incentrata su alcuni decisivi e molto specifici elementi −: 1) il reciso rifiuto ad ammettere l’esistere di qualunque «natura» femminile (tanto naturalistico-biologica quanto animico-spirituale), ossia di fatto qualunque forma di “anima femminile” ossia sostanza femminile assoluta; e questo perché la dimensione della donna era invece da concepire in termini unicamente relativi, ossia sociologici e psicologici, allo scopo di poter poi erigere su questo una critica di tipo politico alla sua tradizionale «condizione»; insomma ciò che doveva importare era appunto la «condizione» della donna (storica e relativa, ossia unicamente temporale) e non la sua «sostanza» (a-storica ed assoluta, ossia intemporale) ; 2) la costruzione su questa base di una definizione della donna che si incentrava nella sua differenziazione polemica dalla dimensione maschile; differenziazione che però a sua volta veniva giustificata unicamente in negativo, ossia sulla base della distorsione indotta dalle tradizionali strutture sociali (in gran parte patriarcali), e che infine sfociava nella teorizzazione di una vera e propria necessaria e rivoluzionaria lotta tra i sessi; in altre parole l’approccio femminista (almeno nella sua formulazione media) puntava allo scopo di un sovvertimento totale della relazione sociale e psicologica esistente tra donna ed uomo, e quindi ad una sua vera e propria sua inversione rivoluzionaria con la costruzione di un vero e proprio matriarcato (almeno di resistenza) entro la continua e tenace rivendicazione bellicistica di una finale parità totale tra uomo e donna; 3) l’accento posto sul concetto di «parità tra i sessi» (quale obiettivo finale della lotta politica tra i sessi stessi) veniva infine a chiudere il cerchio dell’intera visione nell’affermazione che non vi è né vi può essere tra uomini e donne alcuna sostanziale differenza se non quella banale, elementare ed etico-politicamente indifferente, che è solo di tipo anatomico-fisiologico; ma tale scontata e banale differenza non deve avere il diritto di costituire la base per alcun genere di differenziazione (sociale, psicologica, etica, politica ed economica) tra uomini e donne, e quindi non ha il diritto di fondare alcuna struttura della relazione tra uomo e donna ed anche della condizione femminile (ovviamente soprattutto sulla base della teorizzazione della naturale superiorità del maschio).
In sintesi dunque il Femminismo affermava che non sussiste di fatto alcuna «natura» femminile, e quindi non è un alcun modo possibile definirne i caratteri, specie in termini negativi, in relazione alla «natura» maschile.
Ora dunque, tanto il libro di Le Fort quanto quello di Stein, nel loro sforzo di definire la natura femminile, dovevano entrare necessariamente in conflitto in modo frontale con questa complessiva e media visione femminista. E per questo nel libro di Le Fort si ritrovano non solo spunti di riflessione anti-femministi ma anche molto esplicite affermazioni in tal senso. Quindi anche di questo tema collaterale dovrò parlare nell’esposizione del testo di Le Fort e nel commento ad esso. Il che però non significa affatto che entrambe abbiano in alcun modo teorizzato l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Cosa che è evidentemente non può venire sostenuta sulla base di qualunque argomento, così come non può venire sostenuta alcuna superiorità dell’uomo rispetto alla donna o viceversa. Quindi, almeno in questo senso, le loro riflessioni restano nell’orbita del movimento femminista; o, per meglio dire, restano nell’ambito degli elementi più giusti e sensati che il pensiero femminile ha messo allo scoperto e rappresentato.
Detto questo sarà risultato chiaro che ciò che mi propongo in questo scritto è in primo luogo di esporre sinteticamente il testo lefortiano in modo da portarlo a conoscenza (nei suoi elementi essenziali) soprattutto a chi condivide l’approccio cristiano-cattolico, specie nell’idea che Maria Vergine sia di fatto il primario modello per l’essere ed agire della Donna secondo criteri in linea con l’ordine divino. In secondo luogo mi propongo però anche di riflettere su questo testo. Cosa che farò con dei commenti ed extrapolazioni che lo connettano da un lato al tema antichissimo della Donna paradigmatica (il cosiddetto «eterno femminino») e dall’altro lato alla moderna discussione sulla donna (nella quale indubbiamente è stato protagonista il movimento femminista) che da tempo è in atto nella società moderna e che ha anche occupato larghissimi spazi della nostra cultura.
Di altri temi interessanti collaterali non potrò però parlare. Mi riferisco in particolare ad una sorta di indagine comparativa tra la visione lefortiana e quella steiniana della Donna. Questa indagine richiede infatti un’analisi testuale molto estesa che ovviamente non può trovare posto in questo breve scritto. Ma probabilmente nel futuro riuscirò a fare anche questo.
Vorrei inoltre anche precisare che (con poche eccezioni) menzionerò la donna sempre indicandola con la lettera maiuscola (Donna), dato che l’intera opera di Le Fort intende parlare del femminile nella sua dimensione paradigmatica.

II- Esposizione del testo e suo commento.
Per chiarezza di esposizione vorrei qui precisare che riporterò di seguito l’intero testo di Le Fort non mancando però di indicare con chiarezza i luoghi testuali (sezioni) ai quali man mano andrò riferendomi, e prendendo comunque come base l’originale testo in tedesco. Devo però avvertire il lettore interessato che il libro è stato anche tradotto in italiano [Gertrud von Le Fort, La donna eterna, Estrela de Oriente, Caldonazzo (TN) 2015], e quindi chi vuole può decidere di verificare quanto ho scritto anche andandosi a leggere direttamente il relativo testo. Tuttavia la mia sintesi potrà comunque servire a chi non intenda dedicarsi alla lettura del testo originale né in tedesco né in italiano.

II-1 Prefazione
L’autrice si è preoccupata di fare precedere al testo una prefazione, e quindi da questa inizierò nella mia esposizione dei suoi contenuti (Prefazione, p. 5-7). In essa viene dichiarato che scopo del libro è quello di esporre il “significato” della Donna dal punto di vista unicamente simbolico (non invece psicologico, biologico, storico e sociale). Inoltre l’autrice precisa che il simbolo (in quanto linguaggio) si riferisce sempre unicamente al metafisico ed all’invisibile. Quindi suo scopo è illustrare il significato sovrannaturale del Femminile, e non invece quello empirico, ossia meramente naturalistico, biologico ed elementare. Dunque, in buona sostanza, il suo scopo è quello di mostrare specificamente nella Donna la portatrice del Divino. Ecco dunque definita la valenza essenzialmente ed intensissimamente religiosa del Femminile. Ed ecco allora che proprio questa può essere considerata (in estrema sintesi) la «natura» della Donna, una volta indagata in termini primariamente metafisico-religiosi. La Donna non è altro che la portatrice del Divino entro il mondano e l’umano. E ciò ci riporta immediatamente alla figura di Maria Vergine − sia come prototipo della fede incondizionata ed incrollabile in Dio (nell’Annunciazione il “si” o “fiat mihi”) che poi fa nascere Dio nell’uomo (conducendo così il credente all’umano-divinità), sia come colei che riporta la Donna Prototipica del Genesi (Eva) alla sua originaria dignità e funzione entro il disegno divino. Vedremo poi più avanti che in verità tale dignità e funzione della Donna non è mai stata offuscata nemmeno dalla Caduta. Anzi è stata semmai da essa esaltata e rafforzata. Per tale motivo, quindi, non vi è alcun motivo per fondare nella Caduta una sorta di obbligatorio e costituzionale disprezzo religioso per la Donna. Questo però è stato purtroppo oggettivamente un errore nel quale è caduta per molto tempo la dottrina più superficiale della Chiesa Cristiana.
Da tutto ciò risulta comunque che, almeno in questi ultimi termini, la «natura» femminile è qualcosa di cui si ha pienamente il diritto di parlare. Ma affatto con l’intenzione tanto di considerarla superiore quanto di considerarla inferiore. In altre parole, grazie all’apporto della metafisica religiosa (specie cristiano-cattolica) il concetto di «natura» femminile può e deve venire svincolato da qualunque significato ideologico-polemico (positivo o negativo che sia). Si tratta invece molto più di descrivere come stanno le cose su un piano oggettivo, che poi in qualche modo è quello per così dire «naturale». Entreremo comunque più avanti di nuovo nel merito di questo decisivo aspetto.
L’autrice precisa inoltre che, nel caso della Donna, si tratta di analogia religiosa e non invece di religiosità vera e propria. Si tratta insomma della descrizione di un’attitudine il cui campo di azione è ben più ampio anche di quello strettamente religioso – non si tratta dunque unicamente della fede in Dio ma anche (ed ancor più) delle ricadute che la fede in Dio ha sull’agire umano. Il che poi fa sì che il carattere femminile si dilati simbolicamente (specie nel senso della protezione dei deboli) potendo venire esteso anche a persone di sesso maschile, oppure presentandosi in emblematiche persone di sesso femminile (es. Caterina da Siena) che hanno occupato nel tempo perfino dei ruoli maschili ed inoltre hanno addirittura presentato anche caratteri maschili. Si tratta insomma in definitiva della descrizione di un’attitudine «di tipo femminile» che si confà naturalmente all’homo religiosus tanto di sesso femminile quanto di sesso maschile. E come vedremo più avanti esso trova il suo culmine senz’altro in quell’attitudine «materna» che a sua volta concorda quasi perfettamente con la virtù della carità, ossia l’amore agapico.
Più precisamente si tratta insomma in sintesi della descrizione della natura simbolica della Donna Eterna.
La quale, in quanto trascendente, deve necessariamente abbracciare in sé esseri e caratteri sia maschili che femminili. Ed in questo senso essa è molto più che una donna naturale. È appunto più che altro un simbolo del Femminile e cioè di quanto va inteso come «femminilità» nel senso più ampio possibile.
Eccoci quindi già di fronte alle riflessioni che io avevo svolto nel mio saggio dedicato alla Sophia in quanto Donna Divina. Infatti è evidente qui che, nel definire quest’ultima, non si tratta affatto dell’identificare Dio stesso con il sesso femminile. Si tratta invece semmai dell’indicazione di quelli che sono i caratteri simbolici dell’eterno Femminino (massimamente espressi in Dio e minimamente espressi nell’uomo), il quale appunto abbraccia in sé maschi e femmine trascendendo così totalmente il sesso empirico. In parole povere si tratta soprattutto della seguente domanda rivolta a noi stessi: − se perfino l’uomo (ente in fondo carnale, naturale e mondano) è fatto in modo tale da riuscire ad amare l’altro come una donna (specie come una madre), allora quanto immensamente ne sarà capace Dio?
Ma a tale proposito ci ritroviamo anche di fronte ad un tema che a volte si può ritrovare in quella riflessione femminista che si sforza di sconfinare perfino nel campo metafisico-religioso. È stato infatti sostenuto da alcuni studiosi che, contrariamente alla tradizionale iconografia, Dio sarebbe in verità una femmina più che un maschio. E ciò sarebbe perfettamente coerente con la sua attitudine insieme amorosa e creativa. Dunque non vi sarebbe in verità alcun Dio-Padre, ma invece semmai un Dio-Madre, ossia un Dio-Donna.
Rimando comunque il lettore al mio saggio per ritrovare alcuni elementi della tradizionale metafisica religiosa pagana, della teosofia e della mitologia che supportano effettivamente questa tesi. Ma intanto sta di fatto che concetti come questi sono stati impiegati dal Femminismo allo scopo di combattere l’idea che il patriarcato avrebbe una fondazione divina. E quindi è chiaro che l’interesse primario è qui di parte e meramente ideologico, ossia non è affatto interessato a scoprire come stanno effettivamente ed oggettivamente le cose sul piano metafisico-religioso. Pertanto le precisazioni di Le Fort ci aiutano non poco a rintuzzare questo tentativo sostanzialmente ideologico, che quindi necessariamente deve corrispondere molto poco alla verità. Quello che si può dire è che Dio, almeno così come appare dal nostro limitato punto di vista umano (condannato a vivere la dualità degli opposti, cioè la polarità), ha aspetti sia maschili che femminili. Ma questo non contraddice intanto affatto il concetto di Dio-Padre, il quale ha giustificazioni metafisico-religiose estremamente profonde e sofisticate (giustificazioni che ho esposto nel mio saggio). In ogni caso, comunque, tale concetto non ha affatto lo scopo di giustificare il patriarcato (almeno non nei suoi aspetti più ideologici, e quindi arbitrari e violenti). E ciò semplicemente perché il patriarcato è qualcosa di meramente relativo al mondano, allo storico ed all’immanente, quindi non ha in sé alcuna valenza religiosa ed assoluta. Questo però è un argomento molto complesso, per il quale devo rinviare il lettore necessariamente al mio saggio.
In ogni caso parla chiaramente contro il discorso strumentale femminista la straordinaria raffigurazione che Michelangelo fece della creazione di Adamo da parte di Dio nella volta della Cappella Sistina. Qui infatti un evidente Dio-Padre protende il suo braccio destro (quello della Potenza) verso l’indice dell’uomo, nel mentre con il braccio sinistro abbraccia proprio la Sophia in quanto Donna Divina. E nel mio saggio ho mostrato che con quest’ultima è da intendere molto probabilmente proprio quel Logos divino nel cui seno giacciono latentemente fin dall’eternità tutti gli enti (in quanto Idee astratte degli enti) che sono destinati a venire creati dal Dio-Padre. E a ciò va aggiunto anche che in una vastissima letteratura (che va dalla teosofia esoterica pagana e cristiana fino alla Patristica specie greca) il Logos in quanto Figlio (nel contesto della Trinità), ossia il Cristo, ha in effetti i caratteri di un Androgino, ossia possiede caratteri maschili e femminili in una perfetta armonia.

II-2 La Donna Eterna, ossia il Femminile trascendente ed assoluto.
Successivamente Le Fort inizia poi a trattare della prima delle tre sezioni del suo libro, e cioè quella dedicata specificamente alla “Donna Eterna”, o “Ewige Frau” (“Die Ewige Frau”, p. 9-29).
In questa prima sezione si parla del Femminile molto in generale, trascendente, eterno ed atemporale, mentre nelle altre due sezioni si parlerà del Femminile concreto ed immanente − prima come temporale (vergine e sposa) e poi come atemporale (madre).
E proprio sulla base di quanto precisato nella Prefazione è evidente che il discorso sulla natura della Donna riguarda primariamente l’eterno (atemporale e trascendente) e non invece il creaturale (temporale ed immanente). Cosa per cui, per l’autrice, la creatura cessa di essere assoluta (ossia un assoluto ed imprescindibile oggetto di conoscenza) e diviene invece relativa. Quindi essa è appena specchio in cui si riflette l’eterno, ovvero “similitudine” dell’eterno stesso. Come tale essa è “vaso” (Gefäß) contenente il Divino. Già questo pone il carattere radicalmente fondamentale della dedizione e precisamente religiosa, ossia subordinazione ontica della Donna alla dimensione religiosa. E questo deve venire necessariamente visto come un carattere fondamentale (assoluto e trascendente) della natura della Donna – la Donna, insomma, sta per sua natura in intimissima relazione con il Divino. In altre parole non vi è dubbio che Eva stessa abbia avuto questo carattere. E quindi, così come nel DNA di Adamo sono sintetizzati i caratteri di tutti gli uomini (maschi) che da lui discendono, allo stesso modo nel DNA di Eva sono sintetizzati i caratteri di tutte le donne (femmine) che da lei discendono. Tra i quali spicca decisamente l’attitudine alla dedizione che poi è anche attitudine religiosa per eccellenza.
Ma qui vi è forse addirittura un timido e larvato indizio per una sua possibile superiorità sull’uomo in quanto maschio, sebbene in totale assenza di qualunque intenzione tanto di dispregio quanto di dominio.
Si tratta insomma di qualcosa di metafisicamente oggettivo di cui bisogna assolutamente tenere conto quando si vuole comprendere la relazione che esiste tra essere umano e Dio. Il che, come poi vedremo, trova puntuale e preciso riscontro in Maria come modello assoluto non solo per la Donna ma anche per la corretta relazione tra uomo e Dio.
E di nuovo ritroviamo qui un elemento di differenziazione rispetto alla concezione pagano-tradizionale del Femminile. Infatti evidentemente la Donna Eterna (diversamente dalla tradizionale concezione della Sophia o Donna Divina) è molto meno qualcosa di metafisicamente ontologico e molto più invece qualcosa di etico in senso specificamente religioso. Essa è insomma molto più una disposizione del Femminile e molto meno invece un’oggettiva entità femminile di tipo metafisico. E tale era (nel mio saggio) sia l’Anima mundi, sia la Sapienza divina (o Logos) associata a quel Dio-Padre che nel pensiero pagano è sostanzialmente l’Uno che trascende vertiginosamente ogni ente. Essa è insomma più che altro una metafora etico-religiosa da applicare al Femminile.
Ma intanto, se seguiamo il discorso di Le Fort, vediamo che proprio applicando questa griglia metaforica al femminile empirico finiscono per emergere i suoi caratteri metafisici, cosmici, misteriosi e religiosi. Ed essi, peraltro, fanno parte di un modello coincidente con Dio stesso, che si presenta tanto all’origine quanto alla fine dell’essere. Quindi tali caratteri mettono a nudo una sagoma del Femminile che occupa di fatto tutto lo spazio dell’essere (sia entro l’eternità sia fuori di essa). Tuttavia bisogna dire che qui finisce per delinearsi davvero qualcosa di effettivamente oggettivo sul piano metafisico-religioso (ossia un’effettiva entità). Infatti l’autrice sottolinea che l’approccio puramente soggettivo al femminile esautora ed annulla totalmente il discorso su di esso, a causa del fatto che lo rende pericolosamente arbitrario. E questo discorso soggettivo sul femminile si ritrova proprio quando si parla di esso come meramente temporale ed empirico. In questo caso, insomma, non emerge alcuna sagoma del Femminile. Quindi qui ci ritroviamo pienamente nel contesto di quella visione femminista che nega il sussistere di qualunque «natura» femminile.
Intanto per Le Fort va però ammesso che la dimensione soggettiva ha una sua legittima giustificazione in quel campo dell’arte sacra. La quale si sforza di dare un volto tangibile alla dogmatica − è insomma uno sforzo soggettivo di rappresentare quella dimensione metafisica che è però in sé solo oggettiva. In altre parole siamo qui costretti ad ammettere una certa licenza poetica, in assenza della quale l’artista avrebbe insuperabili difficoltà nel raffigurare plasticamente realtà evanescentemente divine. E tutto ciò ha per l’autrice un senso e valore particolare in relazione al dogma mariano in quanto manifestazione dell’umano-divinità. Quest’ultima emerge infatti sotto il segno di un’attitudine tipicamente e concretamente femminile (la ricezione passiva, che è poi anche della materia metafisicamente intesa), e cioè l’attitudine al “si” incondizionato (“fiat mihi”). In altre parole, dunque, quella che è un’attitudine meramente naturale e biologica (evidente nel concepimento per mezzo della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo), si dilata e si trasforma sul piano religioso nella «concezione». Ed è allora del tutto coerente (oltre che chiarissimo) che, trattandosi di una realtà puramente spirituale, deve necessariamente trattarsi di un’«immacolata concezione» (atto e fenomeno puramente spirituale). Altrimenti l’attitudine alla ricezione passiva in termini religiosi cesserebbe del tutto di essere una realtà spirituale. E questo spazza via in un sol colpo tutte le vergognose e ridicole perplessità (scettiche e scientiste) alle quale i moderni teologi (tutti privi non solo di fede ma soprattutto di coraggio) hanno aperto la porta nel prendere in considerazione specialmente i dogmi dell’Incarnazione e di Maria.
Rispetto alla metafisica pagana, però, tale attitudine è altamente positiva invece che negativa per eccellenza. Cioè non è un carattere metafisico della materia in quanto sostanza cieca, caotica ed inattiva che somiglia così tanto al non-essere. Essa esprime infatti qualcosa di in verità attivo (e non passivo), ossia la collaborazione della creatura alla Creazione divina. Non solo, ma esprime anche la capacità di rivelare Dio (e la dimensione religiosa) senza frapporre ad esso alcun ostacolo. Ecco il perché della natura religiosa del Femminile.
Tuttavia Le Fort precisa che ciò avviene in maniera tutt’altro che palese, e quindi getta necessariamente su Maria quel velo che poi è quanto caratterizza indelebilmente il femminile in quanto religioso. E del resto abbiamo appena visto che questa intera realtà non può in alcun modo venire compresa in termini meramente materialistici e razionalistici. Si tratta infatti evidentemente di un «mistero» agli occhi di noi uomini fatalmente immersi nella carne. Potremmo dire allora che l’atto femminile di rivelare di Dio avviene sempre solo molto ma molto discretamente. Proprio come avviene per quelle cose che, essendo sacre, sono estremamente delicate e quindi vengono sempre violate dallo sguardo umano. La rivelazione femminile del Divino avviene pertanto solo e soltanto nel luogo più segreto del Tempio, ossia oltre il velo, nel Sancta Sanctorum. Del resto dalla storia di Maria (vedi Maria Valtorta) sappiamo che fin da piccola – e cioè molto prima dell’Annunciazione − ella amava intrattenersi nel Tempio servendo Dio. Ella insomma sapeva già di appartenere totalmente a Dio. Anzi ella si era sentita da sempre una sacerdotessa di Dio.
Ed è attribuibile a questo la sua ostinata decisione alla castità, ossia alla verginità. Cosa che rende ancora più stupefacente il suo atto eroico di accettazione incondizionata della concezione del Divino; con il quale ella di fatto rinnegava sé stessa totalmente fin alle radici del proprio essere. Ma sta di fatto che questa, e solo questa, è la Fede!
In questo senso, dunque, dice Le Fort, la Donna è fatta per illustrare il mistero, e quindi la sua dedizione religiosa è dedizione al mistero metafisico stesso. Il che, come lei precisa, è avvenuto anche molto prima del Cristianesimo con figure come la Sibilla. E di nuovo ci viene qui in aiuto il Michelangelo della Cappella Sistina, dato che egli annoverò tra i profeti anche la Sibilla e la Pizia delfica quale Oracolo del dio Apollo.
In ogni caso per l’autrice la Donna è dedita in termini metafisico-religiosi in tutte le sue forme, le quali vanno tutte oltre il naturale, animale e biologico. Lo è come vergine, sposa e madre. In particolare secondo la maternità. La quale corrisponde secondo lei al momento più forte della missione che è sempre toccata ad alcune tra le più grandi donne della storia, come Caterina da Siena e Giovanna d’Arco. La maternità è infatti in primo luogo protezione e cura, e lo è specialmente verso ciò che non è appariscente, ossia è nascosto. Ecco di nuovo il motivo del velo, a sua volta sempre intimamente unito a quello della dedizione. Vedremo comunque come questo discorso lefortiano diventi ancora più chiaro e forte nella terza parte della sua opera, che è dedicata appunto solo alla madre.
Tuttavia non si tratta solo dell’ascosità dei protetti da parte del Femminile, bensì si tratta anche dell’ascosità che è essenzialmente propria del Femminile stesso. Infatti proprio questo atto protettivo nasconde il Femminile, imponendo un suo ritiro rispetto alla vita pubblica (dato che si tratta di un compito del tutto privato ed in sé tutt’altro che eclatante, ossia un compito considerato di second’ordine). E ciò è tanto vero che la filosofa Hannah Arendt (prendendo a modello la società greca) si è sentita di identificare realmente lo spazio femminile nella società con quello che non ha né può avere alcuna relazione con quel livello eccelso che è occupato invece dalla politica ed è inoltre l’unico che sia davvero caratterizzato dall’esercizio della libertà [Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani Milano, 2008, II, 9-10 p. 49-57, III, 11 p. 58-66]. Per lei infatti lo spazio della donna riguarda gli elementari e brutali fenomeni della vita e della morte, e ciò implica pertanto perfino una certa sua deteriorità. L’ascosità femminile è infatti per lei un fenomeno sostanzialmente deteriore. Mentre per Le Fort esso manifesta in pieno quella grandezza femminile che trova il suo compimento nell’umiltà di una posizione che è di secondo piano soltanto sul piano sociale ma intanto è assolutamente di primo piano sul piano etico e religioso. Proprio per questo tale ascosità non viene affatto subita dalla Donna, ma viene invece voluta e scelta nell’’intuizione (senz’altro sublime) che non sono affatto le apparenze quelle che davvero contano.
La prova di tutto questo sta in fondo proprio il fatto che il contrario di tale attitudine si ritrova nella dimensione negativa che può caratterizzare il Femminile, ossia quella in cui la Donna non fa altro che volere sé stessa, e quindi rinuncia per definizione a qualunque cura dell’altro. Il che ci riporta nuovamente nel campo di quella che secondo il Femminismo sarebbe l’unica prospettiva lungo la quale il Femminile dovrebbe svilupparsi per conquistare la propria dignità.
Per Le Fort invece le cose stanno in maniera del tutto opposta, dato che proprio l’ascosità del Femminile (unita a sua volta all’attitudine alla cura dei più nascosti della realtà sociale) mostra l’enorme peso che esso ha avuto ed ha nella società e nel mondo, oltre che più in generale nell’essere. In altre parole (diversamente da ciò che pensa Hannah Arendt) proprio l’occupazione dello spazio più elementare e basico della società e del mondo fa della Donna il Fondamento stesso dell’essere, ossia una realtà della quale non si potrebbe in alcun modo fare a meno. Ed è evidente che, stando così le cose, lo spazio occupato dall’uomo (maschile) finisce per apparirci come molto più accessorio e secondario, fino a presentarsi addirittura come superfluo e vuotamente retorico. In parole molto semplici potremmo dire che mentre la Donna «fa», l’uomo si limita invece a parlare, se non a blaterare vuotamente ed inconsistentemente.
Non a caso, per l’autrice, tale così preponderante presenza è di nuovo quella che è tipica della Donna Eterna. Infatti questo enorme peso e ruolo della Donna nell’essere (con culmine nel “si” di Maria, la Donna Eterna per antonomasia) trova il suo riscontro negativo nella Caduta che vede proprio Eva come protagonista. Secondo Le Fort qui non si tratta però affatto della mera negatività di un atto che sia stato femminile solo casualmente e quindi incidentalmente. Si tratta invece dell’inaccettabilità di tale atto a fronte di quella naturale grandezza e forza femminile che consiste proprio nella sua religiosità, ossia nel suo esprimere al massimo la relazione tra uomo e Dio. Con l’atto di Eva (prendere il frutto) decade quindi la Creazione nella sua dimensione femminile, ossia dove meno ciò sarebbe potuto e dovuto accadere. In altre parole cade quel muro maestro che era poi quello che mai e poi mai avrebbero dovuto cadere. In particolare si tratta dello svanire della dedizione a vantaggio della signoria su sé stessi, ossia dedizione alla propria volontà. È evidente, dunque, che la Caduta di Eva non mette affatto a nudo una sostanziale deteriorità del Femminile (che avrebbe addirittura profondi fondamenti onto-metafisici ed etici) ma invece rappresenta una tragica de-femminilizzazione del Femminile. Con esso, insomma, la Donna non rivela affatto cosa essa sia veramente, ma invece cessa di essere ciò che essa è veramente. In altre parole essa si svergogna non per essere Donna ma invece per non esserlo più.
Tutto ciò sottolinea l’importanza capitale che ha la Donna nell’essere. Ma inoltre sottolinea anche l’importanza che ha perfino il Femminile negativo. Questo è per la precisione il Femminile che tradisce il proprio ruolo nella mera dedizione ai propri istinti animali. Ci troviamo insomma di nuovo di fronte alla donna che appena vuole sé stessa. E purtroppo proprio questo è quel Femminile che per il Femminismo è un valore invece che un disvalore.
Non a caso per Le Fort tale deviazione implica la caduta del Femminile addirittura nel demoniaco. Come viene illustrato da tutte le figure femminili negative presenti nella letteratura specie tragica – Medusa, le Erinni, le streghe, la Pentesilea di Kleist etc.
Per di più, ella dice, è proprio a causa dell’immensa portata della grandezza della Donna, che la Caduta dell’uomo avviene solo nel contesto della Caduta della donna. È questo ciò che si intende quando, nel Genesi, sembra che Eva abbia sedotto un innocente Adamo trascinandolo nel Peccato, e quindi macchiandosi della maggiore delle colpe. La verità è invece semmai che Eva contava molto più di Adamo.
E quindi proprio per questo la Caduta causata da Eva è molto più rovinosa di quella che sarebbe potuta venire causata da Adamo. Ciò in quanto essa riguarda l’intero essere. Quindi essa apre una prospettiva apocalittica in cui la Caduta finale porterà a termine quella originaria nell’ormai totale infertilità della terra (simboleggiata nell’Apocalisse di Giovanni dall’emersione della Bestia dall’Abisso). Il che rappresenta l’esatto contrario del “si” in quanto incapacità della Donna (Terra) di accogliere e di raccogliere le benedizioni che piovono su di essa.
Le Fort precisa che questa Apocalisse finale è preceduta però da diverse più ristrette e concrete apocalissi, rappresentate dalla degenerazione delle culture. Esse sono insomma storiche e temporali, invece che ultra-storiche ed atemporali. E non a caso proprio in esse svaniscono del tutto i segni positivi del Femminile. Com’e sicuramente il velo. Ed ecco il del tutto non casuale affermarsi della nudità e della vanità femminili (segni della dedizione della donna al piacere ed ai sensi) proprio entro tali contesti degenerativi. Per l’autrice si tratta di segni di “indurimento” (“Enthartung”) della donna, dedita ormai solo alla cura del proprio corpo. Ed eccoci di nuovo di fronte ad un fenomeno che il Femminismo di certo non ha voluto ma al quale ha senz’altro aperto la strada. Vedremo poi più concretamente nelle conclusioni cosa ciò comporti e significhi nella società contemporanea.
Ma tutto queto rappresenta per l’autrice l’esatto contrario della somiglianza uomo-dio (umano-divinità) e della collaborazione della creatura alla creazione, che sono invece i frutti religiosi più tipici della presenza ed azione di un Femminile che resti davvero in linea con la sua profonda essenza o anche «natura».
Ecco allora perché oggi (in un contesto storico ormai sempre più generativo) Maria viene invocata come aiuto (aiuto divino). Ciò avviene proprio perché ella vicaria il decadere della donna storica dal proprio ruolo. In particolare essa è liberatrice perché ripristina quella creatività che dalla creatura può venire solo accolta.
Il che avviene proprio nel contesto della dedizione e della collaborazione. Tutte virtù in cui Maria eccelle in quanto è “ancilla Domini” (ancella del Signore) per definizione.
In questo senso, dunque, la Donna è per davvero capace di benedire il mondo. Il che corrisponde poi soprattutto all’essere madre nell’atto di staccarsi da sé stessa. E qui in particolare la sua maternità è preparazione del mondo per l’eternità.

II-3 La Donna temporale (vergine e sposa).

Nella seconda sezione Le Fort parla molto più concretamente della Donna, cioè della Donna colta nella sua realtà più reale e storica, ossia della Donna immersa nel tempo, o “La donna nel tempo” (“Die Frau in der Zeit”, p. 33-95). È insomma la Donna temporale. E concretamente si tratta in particolare della Donna come vergine e poi sposa. È chiaro intanto che quest’ultima è anche madre, ma di questo aspetto Le Fort parlerà soprattutto nella terza ed ultima sezione. Il che però non significa affatto che la madre abbia un ruolo di secondaria importanza nel contesto della condizione femminile. Anzi è l’esatto contrario (come vedremo appunto nella terza ed ultima parte del libro). Si tratta invece del fatto che la vergine e la sposa (pur appartenendo di fatto alla dimensione più prosaica della vita femminile) sono in via di principio (almeno tendenzialmente) slegate dalla dimensione più fortemente biologica che caratterizza la madre. Cosa che vedremo in particolare laddove la sposa si rivela essere in effetti soprattutto la “compagna” dell’uomo.
Precisato questo, bisogna dire che, con la vergine e la sposa, si tratta insomma di null’altro che della vita femminile colta nella sua massima ordinarietà. E proprio per questo Le Fort si approssima qui quanto mai a diversi aspetti del moderno dibattito sulla Donna in tutta la sua concretezza.
Ebbene essa è per lei come tale per definizione “la metà” − metà dell’uomo come maschio, metà dell’essere umano ed ancor più metà dell’essere. Ma ancora una volta essa è tale come “silenzio” (e quindi nell’ascosità), dato il dominio maschile (che è invece voce e non silenzio) esercitato nei settori chiave (ad esempio nella politica). La presenza femminile è dunque in questo senso “dedizione” (“Hingabe”) − in particolare la Donna appare essere stata ed essere del tutto assente dalla storia. Tuttavia, dice Le Fort, sta di fatto che ormai il criterio che contrassegna la storia è del tutto non personale. Ossia non si riferisce più alle singolarità (grandi personalità) ma invece alla collettività. E quindi oggi la donna è in effetti più che mai dedita proprio alla collettività, ossia alla Totalità. Cosa che rafforza immensamente la sua attitudine alla dedizione.
Tutto ciò ha però un preciso significato anche biologico (oltre che simbolico), dato che la Donna è naturalmente in rapporto alla generazione essendo decisiva portatrice delle disposizioni o caratteri. Ecco che allora la Donna trasmette i caratteri senza però trattenerli e manifestarli, e quindi si limita a tramandarli senza mai appropriarsene (come invece fa l’uomo). E questo è dono disinteressato nel mentre è ascosità cioè ancora una volta velo.
Ma proprio perchè i caratteri della Donna appaiono solo nelle generazioni successive (e non in quella attuale), bisogna riconoscere che essa sta naturalmente in rapporto con l’infinito (anche sul piano meramente temporale ed immanente). Ed ecco che mentre l’uomo è la roccia che ferma il tempo, la donna è invece il flusso che incessantemente lo porta via (essa è insomma ontologicamente dinamica). Ma intanto solo il flusso è formante, mentre la roccia è sempre solo formata. A causa di tutto questo è sì vero che la dimensione maschile corrisponde a ciò che è pienamente personale-singolare (che però in verità appena passa e consuma), mentre invece la dimensione femminile corrisponde al generale (il quale per definizione ferma, ossia conserva). Intanto però, alla luce di tali costatazioni, la dimensione personale appare piuttosto mitigata nel suo così assoluto valore ontologico ed etico. Anzi finisce per approssimarsi molto non solo al solipsismo egocentrico ma anche ad una sorta di superfluo se non insensato dispendio di essere che invece viene completamente a mancare nella dimensione femminile. E non c’è dubbio che allora (sebbene solo in un determinato senso) la dimensione personale appare assomigliare non poco a quanto di più bassamente biologico ed elementare (sicuramente animale) ci sia nell’essere umano, ossia quell’istinto di sopravvivenza che è poi ostinata e perfino feroce difesa dei limiti del proprio essere. Insomma, sintetizzando, la dimensione così fortemente personale dell’uomo (maschio) sembra stare ad indicare una sua inguaribile tendenza a vivere solo per sé stesso, che invece sembra mancare completamente nella Donna.
E a tale proposito bisogna dire che Le Fort prende una posizione molto divergente da quella di Edith Stein, la quale invece difese con molta forza le ragioni del personalismo, specie vendendo nella Persona un valore assoluto ed incondizionato specie perché essa esprime la stessa umano-divinità dell’essere umano. Evidentemente, dunque, Le Fort è riuscita a guardare molto più a fondo in questa realtà, introducendo delle distinzioni delle quali invece Stein non si era affatto resa conto. E ciò va attribuito senz’altro ad una riflessione fondamentale sulla Donna, in assenza della quale probabilmente la dottrina personalista resta incompleta. Vedremo però più avanti che ci sono molte ragioni anche per relativizzare questo tendenziale disvalore della persona. E di nuovo in questo la Donna appare protagonista, specie nella sua condizione esplicitamente religiosa, ossia come vergine e sposa di Cristo, ossia monaca.
In ogni caso, dice Le Fort, la Donna è naturalmente “conservatrice” (“korservativ”). Ed è evidente che lo è però soprattutto in positivo, ossia nel contesto di una disposizione estremamente generosa e perfino sacrificale. Essa insomma fa sì che l’essere stesso persista e venga protetto dal deperimento. E lo fa addirittura a scapito di sé stessa come persona umana.
Intanto però, dice l’autrice, bisogna riconoscere che questa produttività è propriamente della madre. Non è invece della vergine, ossia la giovane donna (o ragazza) ancora senza marito. Dunque è realmente una tragedia (ecco la tendenziale tragicità della condizione verginale sul piano naturale) quando, nel contesto della relativa attesa, non avviene il passaggio dalla seconda alla prima. Tuttavia sta di fatto che tale attesa non realizzata è stata sempre valorizzata (nell’insuccesso e ascosità esaltati come purezza e rinuncia) presso le vergini sacre di ogni tempo e di ogni cultura e religione, inclusa Maria. Qui infatti la pienezza della persona si ha in modo invisibile all’uomo e visibile invece solo a Dio; quindi su un piano molto più alto che è del tutto sovrannaturale. In particolare in tale contesto il temporale riceve il suo senso interamente dal sovratemporale. Ed ecco allora che riceve puntualmente il suo premio la così generosa e sacrificale rinuncia della Donna a quanto ogni essere umano ha di più caro (quasi animalmente), ossia a sé stesso come persona.
Ecco quindi che il “mysterium caritatis” (che è tipico della disposizione amorosa femminile) finisce per manifestarsi anche nella vergine (in sé fatalmente sterile). È in tal modo che la sua attesa incompiuta viene completata e compensata dallo stato di sposa di Cristo. Nel caso di Maria si tratta della realizzazione su un piano più alto (nonostante il fallimento da vero e proprio non senso dell’esistenza femminile), che corrisponde al suo investimento da parte dello Spirito Santo, a sua volta in relazione con il “si” o “fiat mihi”. In particolare l’amore (mysterium caritatis) viene qui vissuto non nel matrimonio ma invece nella comunità monacale. E così esso finisce per evolvere nel senso di un puro amore per gli altri, entro il quale non vi è alcuno spazio per l’ordinaria ed elementare realizzazione personale. Oltre a ciò (in luogo delle dimensioni assenti) vi è poi la vita di contemplazione dedicata solo a Dio.
Naturalmente però, sottolinea Le Fort, tutto ciò si scontra frontalmente con la mentalità moderna, entro la quale in verità non è affatto chiaro quale possa essere il vero e più autentico senso della persona (al di là del piano elementare e superficiale del quale abbiamo appena parlato). Tutto ciò, comunque, anche se è vero sul piano prevalentemente monacale, vale inoltre anche per la Donna in generale, nella cui dimensione le realtà della madre e della sposa (strettamente intrecciate tra loro e rappresentanti i due sensi della Donna nella storia) di fatto prendono origine entrambe dalla vergine. Come abbiamo visto, infatti, quest’ultima condizione non è meno strettamente legata al mysterium caritatis, anche quando essa non sfocia nel matrimonio e nella vita familiare (come accade nell’attesa fallita). Per cui, nella forma di verginità sacra, anch’essa comporta senza alcuna vera contraddizione una reale condizione matrimoniale (quella di sposa di Cristo e relativa vita monacale), a sua volta dedita all’amore in maniera ancora più intensa ed alta. Del resto, proprio perché la Donna trasmette solo le disposizioni entro la generazione, può molto facilmente venire concepita una maternità puramente spirituale; com’è appunto quella monacale.
Ebbene, proprio a tale proposito possiamo ritrovare in pieno le ragioni di felicità e compimento personale che Edith Stein ritrovò nella decisa scelta della condizione monacale, entro la quale essa si riconobbe pienamente come vergine (tendenzialmente fallita sul piano naturale) divenuta ormai sposa di Cristo.
Si trattò di una compensazione ma anche sublimazione ad una serie di fallimenti che erano avvenuti su molti piani, e che includevano senz’altro anche quello sentimentale. Senz’altro ella aveva ritrovato qui in pieno la condizione sponsale e materna che le erano state negate dall’esistenza. E peraltro tra poco vedremo quanto poco la sponsalità religiosa (sposa di Cristo) sia in effetti in contraddizione con quella naturale. Anche qui, comunque, un’indagine sulle sue lettere e sulla sua auto-biografia renderebbe più chiara ed esplicita questa sua presa di posizione. Ma purtroppo non vi è spazio per questo nel presente scritto ed inoltre vi sono anche molti testi critici che ne parlano abbastanza diffusamente.
Tutto ciò, dice Le Fort, spiega il grande peso che la vergine ha sempre avuto nella storia, come vedremo poi nuovamente a proposito della madre (la quale invece nella letteratura non ha avuto alcuna attenzione). L’importanza che la letteratura ha attribuito alla vergine, corrispondente inoltre al fatto che la Donna è sempre intervenuta sempre nella storia in circostanze straordinarie (come guerre e catastrofi naturali) senza contraddire intanto la sua ascosità nemmeno quando è stata tangibilmente presente. Il che evidenzia una fondamentale dedizione (incentrata nel “si” mariano) nella quale la Donna sempre si è ritirata nuovamente in buon ordine dopo che l’emergenza era passata.
Tutto ciò evidenzia aspetti tipici della dimensione femminile che sono collegati ad un’ascosità, però in questo caso affatto slegata dalla presenza e dall’azione; ed inoltre anche alla stessa grandezza femminile o carisma. Si tratta ancora una volta, insomma, di ciò che si è manifestato nella vita ed opera di grandi personalità femminili (tra le quali senz’altro dobbiamo annoverare anche Edith Stein). Per la precisione siamo così di fronte alla tendenza tipica della Donna a farsi strumento o vaso, ed inoltre a venire «mandata» (vocazione e missione). Ma nello stesso tempo questa attitudine si è sempre coerentemente manifestata insieme alla tipica serie di aspetti solo apparentemente fallimentari della persona (oscurità, insuccesso, non venire capiti, non realizzarsi mai). Tutto ciò corrisponde al tratto tipico dell’azione femminile che è in primo luogo la collaborazione alla creazione (così come anche all’opera dell’uomo), corrispondente a sua volta allo stato di ancilla Domini (Maria). Qui insomma, dice Le Fort, nuovamente un raggio della Donna Eterna (Maria) cade su ogni donna ordinaria, ossia sulla Donna temporale.
In ogni caso va ammesso che in tal modo la Donna finisce per manifestare il valore massimo della persona. E quindi in tal modo finisce per venire rovesciata quella tipica dimensione a-personale della quale abbiamo parlato prima come di un carattere tipicamente femminile. Inoltre più avanti vedremo ancora altri aspetti della relativizzazione della dimensione tipicamente a-personale della Donna.
In tale contesto, con la fondamentale intermediazione di Maria (come modello di Donna, o Donna Eterna), la dimensione della vergine e quella della sposa risultano essere intimamente unite sia nella vita profana (famiglia e matrimonio) che in quella religiosa (Chiesa). Infatti la sposa dell’uomo equivale sempre (almeno in parte e tendenzialmente) alla sposa di Cristo. Ecco che la consacrazione della sposa dell’uomo (celebrata nella Messa nuziale) è non a caso simile a quella della sposa di Cristo (cerimonia dei voti).
E questo perché, sempre grazie a Maria come modello, Dio ha voluto che il fenomeno della generazione, in sé meramente naturale, venisse illuminato dalla sponsalità verginale (di Maria e quindi anche della monaca, o vergine sacra), trasformandosi così in sovrannaturale, ossia in puro amore, e quindi nel mysterium caritatis nella sua massima pienezza. In particolare si tratta dell’accettazione dell’altro come un mondo fatalmente fuori di me, e ciò sul modello del mondo fuori di Dio che il Creatore accetta umilmente affinché la Sua incommensurabile potenza non lo annichili totalmente. Considerazioni profondissime su questo si ritrovano in Simone Weil, specie in relazione alla sua personale interpretazione della capacità di fare la Volontà divina [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Simone Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, I p. 39-40; Simone Weil, Attesa di Dio, Adephi, Milano 2008, II p. 171-198; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 51-84; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016 < http://mondodomani.org/dialegesthai/vn01.htm%5D Le Fort chiarisce a questo punto che il fenomeno in causa, in sé storico e cosmico) è quello della collaborazione tra forze polari dell’intero essere (il maschile ed il femminile), che implica quindi l’amore e dedizione della moglie al marito e viceversa. Il che ha poi precisi risvolti nella cultura, dato che la Donna è sempre presente in essa accanto all’uomo sebbene (in principio volontariamente) in una posizione apparentemente di secondo piano (ascosità). Tuttavia entro tale collaborazione la sposa assume un ruolo di spicco diversamente dalla vergine e dalla madre. Le quali, al suo cospetto, diventano solo secondarie, soprattutto perché più biologiche che non culturali. La sposa infatti è “compagna” dell’uomo per definizione. Il che rivela in trasparenza dietro la sposa un’entità (e relativa condizione) che è ontologicamente ben più fondamentale, dato che essa riveste un valore di portata ben più ampia e più alta. E ciò ha come conseguenza che la sposa non può mai divenire mero strumento dell’uomo, come avviene invece nella generazione (fenomeno che riguarda soprattutto la madre), e quindi mantiene una sua autonomia, oltre che avere un ambito di esplicazione molto ampio. In ogni caso ciò comporta anche che non vi è alcuna consecuzione letterale (né di valore o rango) nella sequenza vergine > sposa > madre. Motivo per cui la sposa ha importanza (nella dimensione femminile) almeno quanto la madre. E quindi non è destinata ad avere per forza dei figli. Come del resto viene pienamente accettato anche dalla Chiesa. Nel complesso Le Fort mette qui in luce nuovamente la dimensione personalistica che è propria del matrimonio in quanto legato più alla relazione (spiritualità sovrannaturale) che non alla generazione (biologia). Ecco spiegata la presenza nella Messa nuziale della menzione sostanzialmente paolina di “una sola carne ed un solo spirito”. Il che implica il passaggio della vergine (attesa, infertilità) a madre (fertilità) per mezzo della sposa su un piano che è ben più che biologico. Oltre a ciò si tratta di una particolare persistenza nel tempo della sposa – è per la precisione della sponsalità connaturata essenzialmente alla donna (già latentemente da quando è vergine) che nel matrimonio raggiunge il proprio compimento e poi si prolunga per tutta la vita (nozze d’argento). Si tratta ancora più precisamente del mistero dell’amore perpetuato per tutta la vita.
Ed esso a sua volta mette nuovamente a nudo Maria come modello della sponsalità connaturata alla Donna. Essa si manifesta infatti anche nella monaca o sposa di Cristo, quale secondo compimento della verginità. L’aspetto primario di ciò è che Maria riceve incondizionatamente lo Spirito Santo in quanto realtà di amore e creazione.
Il sacramento cristiano abbraccia entrambi questi aspetti (sposa dell’uomo e sposa di Cristo) affermando l’intera portata del mysterium caritatis. Il suo aspetto principale è quindi il mistero della creatività.
Le Fort ci ricorda che del resto ciò è sempre stato espresso in letteratura nella descrizione delle coppie famose: − Dante e Beatrice, Michelangelo e Vittoria Colonna, Hölderlin e Diotima, Goethe e von Stein, Wagner e Mathilde Wesendonk.
In tale contesto si manifesta insomma il fenomeno della creazione come dilatazione dell’Io al Noi.
Orbene, su questa base cambia completamente la visione del ruolo e valore della Donna (che evidentemente è stato così frainteso dal Femminismo): − non vi è in realtà alcuna contraddizione tra il ruolo familiare e sociale (cultura) della Donna. Il che fa sì che l’ascondimento previsto dal primo ruolo (in sé in stridente conflitto con quello sociale) perde completamente il suo aspetto deteriore. Qui in particolare la Donna esercita in ogni caso (in famiglia o nella società-cultura) il ruolo di immane importanza che è quello di costituire la metà dell’intero Essere. il che ha una dimensione intellettuale nel “conoscere donna” biblico. Infatti si tratta del conoscere nella Donna l’”altra dimensione dell’essere umano”; il che implica una polarità che è sempre Totalità.
In tal contesto il ruolo di guida della donna per l’uomo (unita inscindibilmente al dono di sé), e la sua risonanza (quasi musicale) con il pensiero maschile, pongono del tutto in secondo piano la necessità della competizione con il maschio. Cosa che nuovamente relativizza non poco le rivendicazioni polemiche del Femminismo. Ma ciò pone inoltre in luce il fenomeno della “rivelazione” della donna. La quale, nel mentre si rivela, resta intanto nel mistero dell’ascosità (inapparenza) per mezzo della dimensione simbolica del velo. Tanto che l’uomo non si rende nemmeno conto di tale rivelazione. In particolare, grazie alla Donna, l’uomo raggiunge la sua pienezza di persona senza nemmeno rendersene conto, ossia senza fare nulla.
Ed in particolare ciò avviene per mezzo del fenomeno dell’interposizione della sposa tra vergine e madre, laddove la sposa stessa risulta essere la pienezza della persona per antonomasia. Specificamente la Donna libera l’uomo dalla sua solitudine ponendolo in correlazione con la Totalità dell’essere. Cosa che l’uomo non potrebbe invece mai fare da solo!
Tutto ciò significa che nell’anonimato (velo) la Donna è in verità il “pilastro invisibile” dell’essere.
E tutto ciò, secondo Le Fort, pone in evidenza la realtà della relazione tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’opera di creazione (specie culturale). Laddove la Donna è un soggetto totalmente anonimo (e per questo subordinato alla collettività invece che alla personalità), ma proprio per questo è possente. Ed in ogni caso tutto ciò getta luce sulle comunità di lavoro esistenti tra uomini e donne (sul piano culturale) e quindi anche su quell’amicizia tra uomo e donna che ha il potere di restare totalmente casta. In ogni caso l’autrice sottolinea che bisogna ammettere il fatto che tutto questo valore della Donna è stato effettivamente oscurato laddove (come nel fenomeno storico tutto tedesco delle “leghe maschili”) è stata affermata la mera unilateralità dell’essere (unicamente maschile). Non a caso in esse, in assenza della collaborazione tra maschile e femminile, il risultato è stato sempre l’infertilità, ossia la non creatività.
Naturalmente interferisce in questo la realtà innegabile del Femminile demonico (con tutta la sua portata inevitabilmente distruttiva), che è dunque qualcosa di esistente incontestabilmente. Ma qui il fattore critico è solo il livello e valore ontologico che si sceglie di attribuire al Femminile. Tuttavia qui perfino l’abisso esistente tra il Femminile positivo e quello negativo ricostituisce comunque la Totalità. In particolare il fatto è che la creazione può essere costruttiva o distruttiva. Tutto dipende in questo dalla presenza o assenza della collaborazione tra uomo e donna.
Ed ancora una volta appare evidente l’effetto distruttivo che il Femminismo ha avuto su questa pur solo tendenziale armonia. Esso ha infatti rigettato ed eliminato (con sdegno) proprio la possibilità di una collaborazione tra maschile e femminile.
Posto questo, Le Fort precida che la Donna dovrebbe in verità essere sempre presente nella vita sociale (e non invece solo in situazioni straordinarie). Perché solo in tal modo la Totalità viene ricostituita. Il che è vero specialmente nella cultura, dato che sono creative solo le produzioni che raggiungono la Totalità. Altrimenti esse alimentano solo un flusso della cultura che è fatalmente frazionato in mille rivoli separati tra loro.
Ma, pur ammesso questo, l’assenza della Donna in tale contesto evidenzia in fondo soltanto l’importanza capitale che ha l’anonimato nella produzione, che a sua volta è connessa ai valori dell’umiltà, del velo, e dell’abbandono; e che a loro volta hanno alla base l’attitudine tipicamente femminile del “rispetto” o “riverenza” (“Ehrfurcht”). Cosa che implica necessariamente la dimensione religiosa. Il che esclude la tendenza al dominio (ossia la Signoria) che è invece tipicamente maschile; e che è sempre tendenzialmente distruttiva o almeno non creativa, e comunque risulta legata indissolubilmente all’orgoglio e quindi all’egocentrismo solipsista.
Le Fort sottolinea che proprio questa disposizione è ciò che ha permesso l’edificazione delle cattedrali.
E qui la sua riflessione converge straordinariamente con quella di Ananda Coomaraswamy nella sua critica molto radicale al protagonismo nell’arte che contraddistingue da molto tempo (in particolare dal Rinascimento in poi) la cultura occidentale in radicale conflitto con quella orientale [Ananda K. Coomaraswamy, La concezione indù dell’arte, in : Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano Adelphi 2011, p. 41-73].
Ebbene nuovamente tutto ciò sta in stretta relazione a Maria come modello − con il suo “si” (“fiat mihi”), a sua volta intimamente legato alla disposizione alla collaborazione alla creazione. Entro la quale la Donna è decisamente modello e guida per l’essere umano in generale, specie sul piano religioso.
Il che sottolinea poi ancora una volta il valore ontologico fondamentale della sposa. In particolare si tratta della consapevolezza del fatto che la creazione umana ha indispensabilmente bisogno di un “plus” divino-trascendente, in assenza del quale il creatore appena naturale è del tutto impotente e sterile.
Ma oltre a ciò è necessario conformarsi ad un particolare aspetto dell’ascosità (che trova la sua piena realizzazione appunto nelle cattedrali), e cioè l’accettazione del fatto che, nel contesto di tale creazione, Dio resta comunque nascosto nonostante la Sua manifestazione. Tanto che Egli stesso accetta di restare nascosto alla propria creazione, affermando così il massimo dell’umiltà.
E sta di fatto che solo la Donna è capace di un simile genere di creazione, specie in quanto nascosta (anonima) creatrice.
Qui ritroviamo nuovamente le virtù tipiche della sposa dell’uomo e anche nello stesso tempo sposa di Cristo. Il che sottolinea il fatto che solo per suo mezzo (per mezzo dell’anima collaborazione) l’uomo riesce a toccare la Totalità dell’essere. Cosa che di nuovo sottolinea la natura inevitabilmente religiosa della Donna. In particolare avviene che solo nel contesto della sua opera lo sguardo dell’uomo viene sviato dalla propria creazione verso la creazione di Dio (che è in verità il solo e vero creatore)
Ebbene secondo l’autrice il misconoscimento di tutto ciò è tipico della modernità, con tutta la sua decadenza (consistente nella separazione tra uomo e Dio), in quanto mera “civilizzazione” e non vera cultura. Nel cui contesto prevalgono non a caso unicamente le grandi personalità dei creatori nel contesto di quel protagonismo dell’artista che giustamente anche Coomaraswamy ha criticato. Si tratta insomma della valorizzazione del solo talento, entro una cultura che è fatalmente “volente sé stessa” e quindi resta relegata entro in confini angusti del tempo e della storia (aldiquà). Per questo essa resta chiusa ermeticamente verso l’eternità e verso l’aldilà. Ecco che qui il mysterium caritatis viene massimamente mortificato.
In tale contesto si affermano allora inevitabilmente solo gli unilaterali valori maschili. E non è un caso che in esso si manifestino i fenomeni (e relativi valori morali) che sono diametralmente opposti alla collaborazione tra maschile e femminile: − tradimento, infedeltà e divorzio (rigetto della sposa). Si tratta in particolare di una “separazione spirituale” entro la quale si affermano la solitudine, l’isolamento del singolo e l’individualismo.
Ebbene, per Le Fort questi sono tutti fenomeni apocalittici, e quindi esprimono la “fine del mondo” (sebbene sotto l’aspetto specifico del tracollo di una civiltà). Il fenomeno di fondo di tutto ciò è comunque l’assolutizzazione della parte rispetto al tutto.
Rispetto a tutto questo Maria costituisce per lei ancora una volta un potente antidoto. Specie in quanto superamento dell’unilateralità e restaurazione della Totalità voluta da Dio: − uomo + donna.
In tale contesto soprattutto il maschile tende a sacrificare l’esistere del nascosto (“forze nascoste”) a quello del mero nudo visibile, che a sua volta corrisponde alla metà misconosciuta dell’Essere. Ed è proprio sotto questo segno che si compie il ripudio maschile della sposa (sia in termini metaforici che letterali). Con ciò avviene però anche il rigetto del mysterium caritatis. L’autrice ammette però che questo oggi vede innegabilmente anche una corresponsabilità femminile. Il che chiama di nuovo decisamente in causa il Femminismo.
Ma intanto Le Fort afferma che un aspetto di tale corresponsabilità (e quindi anche della critica femminista alla famiglia) è comunque positivo, dato che la crisi familiare è stata dovuta anche alla borghesizzazione della famiglia, a sua volta connessa allo svuotamento di qualunque senso religioso di essa. Ciò è avvenuto in particolare nel senso dell’affidamento alla famiglia di un ruolo meramente biologico. La critica femminista a tutto ciò è quindi in principio giustificata. Se non fosse che, secondo l’autrice, essa si è dedicata a riformare appena la superficie dell’edificio e non invece le fondamenta. Laddove questa dimensione superficiale consiste nell’interessarsi della sola questione sociale, e non invece dell’essenza femminile nel contesto dell’ordine dell’essere.
Ma intanto tale presa di posizione corrisponde inoltre alla postulazione di un Femminile trascendente oggettivo (Sophia o Donna divina) entro il pensiero tradizionale; del quale abbiamo già commentato la valenza fortemente riduttiva. In ogni caso, prescindendo da questo riduzionismo, va considerato che (come sottolinea Le Fort) il Femminile è autentico solo se si fa portatore della sua tipica dimensione simbolica, che poi si riassume tutta nel velo.
L’autrice sottolinea comunque il fatto che, non trovando oggettivamente un posto nel sociale, la Donna ha continuato comunque a cercare un suo posto (come da sempre) entro l’ordine dell’essere. Ed anche questo (oltre all’accento posto solo sul sociale) va considerato un aspetto del fallimento del Femminismo.
Esso infatti non ha saputo cogliere la portata sostanzialmente positiva che ha perfino la rinuncia delle donne alla lotta per l’emancipazione. Essa corrisponde infatti ad una tendenza che scaturisce dal riconoscere in sé stesse (anche se in modo vago e confuso) la propria più intima ed autentica natura.
Non a caso, dice Le Fort, proprio per questo la Donna ha continuato a restare sempre intimamente unita alla dimensione religiosa e cosmica.
Eppure, pur ammesso questo, resta il fenomeno tutto moderno (e degenerativo) del dissolversi della “comunità essenziale” (“Wesensgemeinschaft”) un tempo esistente tra uomo e donna. In luogo di quest’ultima si è affermata infatti una mera “organizzazione”, entro la quale la reciprocità (tutta spirituale) è stata sostituita dalla realtà giuridica e commerciale del contratto di scambio. Qui prevale insomma la dimensione del mero “accanto”, che è poi l’aspetto più superficiale e deteriore della Donna come compagna. E, almeno a mio avviso, non vi è dubbio che proprio da qui scaturiscono le attuali aberrazioni della legislazione che concerne il divorzio, che è oggettivamente tutta a sfavore del maschio.
Ebbene, Le Fort sottolinea a tale proposito che un decisivo aspetto sociale e di costume di tutto ciò è stato l’affermarsi della “lotta tra i sessi”. Secondo lei, però, è ingiusto attribuire la responsabilità di questo al solo Femminismo, dato che a tale fenomeno hanno contribuito anche le famigerate “leghe maschili”.
Ma soprattutto il fenomeno è espressione di qualcosa di più profondo, ossia della degenerazione sociale, causata a sua volta soprattutto dalla separazione uomo-Dio. In tal contesto, comunque, quella che era una forma di grande libertà femminile (ossia quella fondamentale relazione solo con Dio che le consentiva perfino di restare in qualche modo “sottomessa” all’uomo nella dedizione) ha finito per diventare mera dipendenza dall’uomo. Si tratta in principio dell’irrigidimento del mysterium caritatis. Ma tale fenomeno ha aspetti controversi e perfino opposti, includendo addirittura anche il fenomeno tutto femminista della mascolinizzazione della donna. Oltre ai fenomeni dello sprofondamento della donna nel mondo dei sensi, ossia nel piacere. E con ciò collimano ancora una volta vari aspetti etici negativi del naufragio dell’amore, del matrimonio e del comportamento sessuale che ho già prima descritto. E tutto ciò evidenzia in definitiva il totale spegnimento del mysterium caritatis e l’insterilimento di ogni dimensione produttiva e creativa.
Le Fort sottolinea che intanto, sullo sfondo di tutto ciò, è venuta a mancare soprattutto la possibilità e capacità della Donna di essere metà. E non vi è dubbio che il Femminismo ha contribuito fortemente a questo sviluppando la dimensione femminile in maniera diametralmente opposta a quella maschile (con il relativo conflitto).
Orbene la via di uscita a tutto ciò sta per lei nel recupero di una dimensione polivalente (e non invece bio-socio-unilaterale) del Femminile, ossia quella dimensione triplice (rivelazione femminile) che è vergine-sposa-madre. Solo grazie ad essa, infatti, il Femminile resta in grado di rinviare alla Totalità nella relazione con il maschile. In particolare si tratta della Totalità femminile che spinge anche il maschile verso la Totalità.
E qui l’elemento chiave è ancora una volta Maria come modello del femminile. Esso infatti esclude per definizione l’unilateralità femminile, e con essa la dimensione unicamente biologica e naturale del Femminile stesso, a sua volta riscattata dalla dimensione religiosa di esso. Nella prima infatti femminile e maschile sono irrevocabilmente separati. Mentre nella seconda essi sono irrevocabilmente uniti. Infatti proprio la Totalità del femminile implica inevitabilmente anche l’unione al maschile. E si delinea pertanto una Totalità del compito: − vergine-sposa-madre. In particolare assume qui speciale rilievo la dimensione della sposa che è sempre anche “compagna” dell’uomo in senso non solo fattuale ma soprattutto spirituale: − compagna dello spirito maschile. E proprio come tale essa è per davvero pienamente metà dell’Essere.
Ebbene ancora una volta in questo senso va rivisto e corretto il ruolo secondario che nel pensiero tradizionale il Femminile avrebbe al cospetto di uno Spirito da considerare come unicamente maschile.
Ecco allora che, in verità, la rigida separazione ontologica tra spirito (maschile) ed anima-corpo (femminile) appare non avere alcun senso.
L’aspetto deteriore della dimensione della compagna è comunque quella dell’”accanto”, ma solo se inteso in senso riduttivo. Mentre è di certo assolutamente deteriore la dimensione del “davanti” (della donna verso l’uomo).
A tale proposito Le Fort sottolinea comunque le ragioni storiche oggettive che il Femminismo ha avuto nel denunciare l’esclusione della donna specie nel campo dell’impegno o lavoro. Ma intanto sottolinea anche che l’impegno più congeniale (ed anche esemplare per l’uomo) della Donna è in verità quello di amare Dio; il che implica poi un “si” (“fiat mihi”) che a sua volta è alla radice della creatività basata sulla dedizione amorosa. Pertanto la rivendicazione dell’emancipazione non rappresenta in tale contesto alcuna vera soluzione. Specie in quanto essa non tiene affatto conto della natura femminile, nel mentre afferma appena una mascolinizzazione della donna ovvero la famosa parità dei sessi. Dunque per questa via la Donna finisce per non assumere il grandioso compito storico che oggi le compete di diritto, ossia la ri-affermazione della creatività entro l’ordine divino restaurato. L’avvento di una nuova epoca ispirata a questo principio corrisponde per Le Fort a null’altro che al ripristino del mysterium caritatis: − portato dalla Donna ma intanto valido per l’uomo e per l’intero mondo.
Tuttavia per lei è un fatto che, nel contesto della modernità, quest’ultimo è stato largamente tradito. E ciò è avvenuto a causa di quella negazione del vero significato simbolico della Donna (tutto racchiuso nel “si” o “fiat mihi”) ad opera sia della hybris maschile (valori dell’auto-affermazione) sia della hybris femminile (Femminismo). Ma ancora una volta sullo sfondo di tale negazione vi è il fenomeno ben più ampio e profondo (metafisico-religioso più che sociale) della separazione uomo-Dio; la quale a sua volta dipende vitalmente proprio dal “si”. E proprio questo ha comportato per l’autrice una profonda distorsione della stessa prospettiva apocalittica, con una connessa visione negativa di Dio (inteso principalmente come vendicatore). In particolare ella sottolinea qui di nuovo che l’apocalissi più tangibile è in verità quella attuale e storica (tramonto e degenerazione delle singole culture) e non quella davvero finale. E proprio in tal contesto ella si produce in una critica serrata della scienza (fondamentalmente maschile) in quanto inevitabilmente distruttiva. In particolare si manifesta qui in maniera più drammatica l’esclusione della dimensione femminile per mezzo di un mondo votato alla distruzione per esaurimento ossia per sterilità; specie in quanto deprivato della creatività femminile. Ma di nuovo è proprio in tal modo che (sebbene in negativo) il Femminile si manifesta in tutto il suo valore in quanto “pilastro invisibile” dell’essere, ossia vero e proprio Fondamento dell’essere.
Tuttavia è nuovamente Maria colei che corregge tale prospettiva. In quanto ella mette a nudo la dimensione religiosa di questa disposizione e natura femminile, dato che il vero Fondamento dell’essere è Dio. E quindi, grazie al suo apporto (unito alla ri-valorizzazione del Femminile), ci viene rivelato che esistono delle forze nascoste che alimentano l’essere; e che esse intervengono quando il mondo è giunto all’esaurimento totale delle proprie forze creative (aiuto divino). Si tratta insomma del profondo rinnovamento del mondo che viene operato dallo Spirito.

II-4 La Donna atemporale (la madre).
Giungiamo così alla terza ed ultima parte del testo lefortiano, che discute la “Donna atemporale” (“Die zeitlose Frau”, p. 97-157). Si tratta in particolare della madre.
La tesi generale di questa sezione sta nell’idea che il culmine della femminilità viene raggiunto nella madre (o meglio la donna materna, ossia la Donna in possesso di un’autentica attitudine materna), e ciò a causa del fatto che il tempo non la tocca affatto. Essa insomma è eterna e atemporale per definizione. E lo è peraltro sul piano immanente, e quindi naturale e storico. Il che rappresenta un fenomeno del tutto portentoso, ossia una sorta di miracolo naturale.
Quindi appare qui del tutto evidente che compito imprescindibile della Donna è quello di essere madre.
Il che però non significa affatto appena avere dei figli propri (maternità biologica), bensì molto più prendersi cura di tutti i piccoli, deboli e indifesi.
Le Fort menziona al proposito quello che deve essere stato un dibattito del suo tempo circa il diritto e appello alla maternità (“Ruf nach der Mutter”). Che però non è ben chiaro cosa sia stato effettivamente (argomento femminista?; tematica para-nazista della maternità biologica per l’etnia tedesca?; appello alla ripopolazione in risposta al fenomeno della de-natalità?; tematizzazione post-bellica della tragedia delle donne con poche speranze di trovare un marito?; rivendicazione del diritto ad una normale e fisiologica sessualità femminile?). In ogni caso, comunque, più avanti ella porrà esplicitamente in discussione l’appropriatezza del concetto di “diritto” applicato alla maternità. Intanto ella però sottolinea il fatto positivo che, in tale contesto, è rappresentato dalla tematizzazione dell’essenza femminile in relazione alla maternità (laddove quest’ultima non viene più riconosciuta come una sorta di ovvietà meccanica, ma invece come qualcosa che è sottomesso a condizionamenti specialmente storici). Proprio a tale proposito ella sottolinea tuttavia che la Donna in quanto madre è atemporale per definizione, e quindi rappresenta qualcosa di largamente indipendente dai fenomeni storici. E il non riconoscerlo (come poteva avvenire entro il dibattito al quale ella fa riferimento) può per lei essere fonte di gravi malintesi.
Uno di questi è proprio quello costituito dalla tendenza a slegare la condizione femminile dalla maternità, considerando così quest’ultima come affatto essenziale per la donna. Siamo insomma di nuovo di fronte ad una delle più tipiche ed aggressive rivendicazioni del Femminismo (che negli anni ’60-’70 del XX secolo si riassunse nello slogan «Il corpo è mio e per esso decido io»).
In termini più propriamente filosofici si tratta però del fatto che la temporalità (tempo, attualità sociale) non ha in verità alcun potere sulla Donna in quanto la maternità è “compito della donna per eccellenza”.
Ne consegue che la Donna non può essere davvero tale se oltre che sposa non è anche madre.
Proprio per questo la donna-in-quanto-madre è atemporale e perfino eterna. Il che poi significa che essa è assoluta, e quindi è indiscutibile e soprattutto incondizionata. Non solo. Ma solo la madre è Donna atemporale, mentre non lo sono ancora affatto la vergine (obbligata all’attesa) e la sposa (condizionata dallo stato maritale). In particolare, in quanto resta sempre la stessa nel tempo, la donna-madre è l’infinito terreno stesso, e quindi equivale alla stessa Vita (ossia alla madre-terra o anche madre-natura).
Ed in questo senso essa rappresenta (almeno in un certo senso) anche senz’altro il Femminile più elementare e basico.
Ma proprio per questo essa è sacra per definizione ed anche autonoma. Così costituisce un oggetto intangibile che deve essere fatto segno di incondizionato rispetto e venerazione. Il che comporta poi la sacralità della Vita stessa ed inoltre nuovamente la dimensione religiosa della Donna, che qui (specie per mezzo del Bambino) è tramite tra uomo e Dio. E devo qui ricordare le fondamentali riflessioni svolte da Edith Stein sul mistero del Natale [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988]. In particolare infatti la pensatrice sostenne che il Bambino Gesù (il frutto della maternità) rappresenta tangibilmente (davvero in carne ed ossa) l’”incarnazione” divina (Menschenswerdung) ma nello stesso tempo anche tutta la serie di eventi provvisoriamente negativi (Croce, ossia dolore inevitabilmente comportato dalla sequela di Gesù) che contrassegnano l’accoglimento umano di Dio nella propria vita preludendo così alla Resurrezione. In altre parole Presepe (Bambino) e Croce sono una sola cosa, ma lo sono solo nella prospettiva difficile ma positiva della Resurrezione.
Tutto ciò comporta comunque ancora nuovamente la dimensione del mistero. Ed ecco che di nuovo qui si ripresenta il velo come realtà che accompagna tutti i fenomeni della maternità così come tutti gli aspetti propri della Donna. E a tale proposito Le Fort rivendica la necessità del silenzio da osservare rispetto alla maternità, sottraendola così ad ogni tematizzazione letteraria ed anche allo stesso così chiassoso dibattito sul diritto alla maternità. E questo include per lei anche tutto lo spazio di discussione che usualmente sussiste rispetto al matrimonio in crisi.
Più in generale però si tratta con ciò dell’irruzione del tempo nella dimensione della maternità. Come avviene anche nella medicalizzazione (ginecologia) di tale condizione, a sua volta espressione del fenomeno tutto moderno e dissacratorio dello sforzo per irretire quelle forze della Natura che invece nella maternità (nonostante la sua dimensione sacra) trovano piena espressione. Di nuovo qui Le Fort si produce qui in una forte critica alla scienza.
In termini filosofici ella contrappone a questa chiassosa tematizzazione (domanda di maternità, diritto alla maternità) l’atto del “discendere” (“hinabsteigen”) verso la madre. Sebbene non sia ben chiaro cosa ella intenda con questo.
Intanto comunque ella sottolinea nuovamente il silenzio che va osservato verso la maternità, facendo notare che non a caso la tragedia (così come anche l’arte plastica) non si è di fatto mai occupata della madre. Il che poi sottolinea tra l’altro la natura per definizione “impersonale” della madre, che va poi a raccordarsi con la già discussa fondamentale impersonalità della Donna specie in relazione alla generazione. E qui in particolare (specie nell’amore incondizionato ed eroico che la madre nutre per il figlio) la dimensione personale si rivela nuovamente (sebbene paradossalmente) contraria ai valori del sacrificio, dell’oblio di sé e dell’oscurità (sempre silenzio) che caratterizzano essenzialmente la maternità. L’autrice ci fa comunque notare che, diversamente dalla tragedia e dalla plastica, invece nell’arte popolare (favole, saghe, canzoni) la madre è stata sempre tematizzata, e specie molto in relazione con i temi della Natura.
Tuttavia ella sottolinea come sostanzialmente positivo anche perfino il significativo fenomeno della presenza della madre negativa in certa tragedia (Medea etc). Questo per lei sta infatti a indicare che l’essenza della maternità non è affatto biologica (e quindi istintuale) ma è invece etica in senso volontario, ossia implica una scelta. Il che significa poi che non tutte le donne sono in grado di essere madri, oppure al massimo possono impersonare il ruolo della sola “madre biologica” (“leibliche Mutter”). La vera natura della madre è invece in principio sacra, divina e sovrannaturale, come avviene paradigmaticamente nel caso di Maria, che quindi nuovamente si presenta come modello di femminilità anche in quanto madre.
E qui ella chiama a testimone Sigrid Undset con il suo romanzo dal titolo “Ida Elisabeth”. In esso in particolare emerge la natura della maternità in quanto cura dei deboli e indifesi. Ed inoltre emerge anche il fatto che è il figlio a generare la madre e non la madre a generare il figlio (insomma in verità è solo la presenza attuale di un figlio che fa della donna una madre, con tutti gli obblighi sacrificali che ciò comporta). Il che sottolinea poi il fatto che in verità (ben più fondamentalmente) è il mondo stesso ad aver bisogno di una madre; in quanto portatrice di quei valori della cura, in assenza dei quali il mondo fatalmente perisce o deperisce per sterilità. La maternità sta infatti alla radice della soddisfazione del bisogno che caratterizza anche l’azione della terra stessa (essa infatti nutre). E ciò comporta di nuovo tutta la serie dei valori dell’ascosità che sono propri della Donna ed anche della stessa terra in quanto materia.
Messe così le cose, la maternità influenza potentemente anche la stessa sponsalità, dato che inevitabilmente la sposa è anche madre del proprio uomo. Cosa che giunge fino al ruolo di vera e propria cirenea che la donna svolge a favore dell’uomo che porta la Croce, specie come ingiusta colpa, ingiustizia subita ed anche perfino fallimento esistenziale. E a tale proposito va sottolineato lo scandalo che affermazioni come queste certamente susciteranno sia nella femminista che nello psicanalista.
In ogni caso, mentre all’uomo spetta naturalmente il compito titanico di superare le resistenze della materia (forza maschile), alla Donna spetta naturalmente il compito di soddisfare i bisogni critici che questo compito comporta.
Ed ecco che in tutto questo si delinea chiaramente la figura chiave della “donna materna”, la cui attitudine principale non è solo la cura ma anche la stessa pietà o compassione. Questa attitudine rende assolutamente non femminile la tendenza di alcune donne alla critica ed al giudizio severo ed implacabile.
Ne consegue che la donna non è mai veramente tale se non è integralmente materna.
Un aspetto specifico della pietà propria della donna materna è quella di prendersi cura in particolare dell’essere umano colpito dal fallimento esistenziale. Si tratta di ciò che Le Fort definisce come “Fehlguß” (colata errata, ossia di fatto uomo nato sbagliato), ossia dell’ultimo degli ultimi, cioè colui che è venuto al mondo in forma errata e distorta, e quindi è lo sventurato per definizione. Ma intanto paradossalmente proprio la più fallita delle donne materne (ossia la vergine la cui attesa è andata delusa, cioè la monaca) è colei che è più chiamata a questo compito. A causa di questa opera della donna materna accade dunque che la “debolezza” (“Schwäche”) viene elevata a virtù principe per poter realmente conquistare il regno dei cieli. Ed ecco che nuovamente Maria diviene modello per la donna materna proprio in quanto “Madre di Misericordia”.
Ebbene, ritornando da ciò al modello della vergine-madre (monaca) − in quanto fallita nel suo desiderio di maternità −, emerge più che mai quanto il culmine della condizione di donna materna si abbia proprio nelle donne che non hanno avuto figli. Che poi sono in generale quelle che esercitano una funzione materna sostitutiva (donna parente, madrina di battesimo, educatrice…), oppure laddove la maternità è un lavoro (medico-donna, educatrice, insegnante, infermiera…). Ecco allora che questo genere di maternità si rivela costituire una “disposizione naturale” (“Naturanlage”) ancor più di quella biologica. Il che mostra che la madre biologica configura appena un abbozzo di autentica maternità, e quindi ancora una volta appare chiaro che non tutte le donne si rivelano capaci di essere madri. Si delinea quindi qui il supremo paradigma della donna materna e cioè quello della maternità spirituale. Ed a mio avviso ciò getta un luce davvero molto forte sul valore dell’atto di adozione.
Ma intanto con ciò il discorso sul diritto alla maternità viene definitivamente esautorato. Ecco allora che in verità “Non vi è alcun diritto della donna ad un bambino. Vi è invece solo il diritto del bambino ad una madre” (“Es gibt kein Recht der Frau aud ein Kind, sondern es gibt nur das Recht des Kindes auf eine Mutter”). Il che ancora una volta sottolinea l’importanza ed il valore dell’adozione.
Oltre a tutto ciò viene in tal modo allo scoperto un elemento che è di fondamentale importanza nel confronto con il Femminismo, ossia ancora una volta quello della “natura” femminile. Che Le Fort ritiene essere pienamente valido e vigente anche sul piano puramente spirituale. Il che significa quindi che non solo esiste effettivamente una «natura» femminile, ma essa va anche ben oltre i limiti che sono da assegnare a ciò che è meramente e bassamente «naturale» (ossia il biologico-animale), e quindi finisce per essere pienamente valida anche (e forse soprattutto) su un piano puramente spirituale. Che è poi la dimensione simbolica alla quale Le Fort raccorda la natura femminile.
Tutto ciò lascia per Le Fort emergere anche lo scottante tema del lavoro femminile, che per lei è altrettanto condizionato dalla pienezza della femminilità materna (e quindi ad esso secondario). Per cui è valido qui lo stesso principio affermato per il diritto alla maternità: − “Non vi al mondo alcun cosiddetto ‘diritto femminile’ al lavoro ed all’occupazione, ma vi è invece un diritto alla donna da parte del mondo in quanto bambino”.
Da questo la dimensione della donna materna si estende poi anche all’ambito collettivo e perfino politico, con il fenomeno della Regina (o reggente) come Madre del popolo. Con l’eccezione, però, della maternità negativa che si esprime nella donna che solo “vuole sé stessa” (Pompadour).
Di nuovo quindi emerge che il mondo ha bisogno di madre. Ed in generale emerge qui che la donna materna (ancor più che la Donna in generale) rappresenta il fattore critico per la creatività.
Ma da questo l’autrice passa poi alla discussione del ruolo della donna materna nella cultura. Ruolo che per lei appare basato su aspetti fondamentali della donna materna che sono ancora più elementari di quelli propri della Donna in generale. La donna è infatti per lei conservatrice per definizione, e quindi si presta più di chiunque altro a “supportare” (“tragen”) − cioè conservare, proteggere, difendere ed anche amare appassionatamente − i valori di una società. Il che ancora una volta si estende fino alla cura dello Stato (Regina o reggente).
Cosa che (come anche in altri aspetti) la porta a porsi al di sopra anche della sposa, la quale tende invece più a “spendere” (ossia a dissipare forze e risorse) che non a conservare.
L’esempio più elementare di tutto ciò si ritrova per lei nel ruolo critico che la donna materna esercita nello sviluppo del bambino (insegnamento di linguaggio e costumi).
Ed ovviamente più che mai è qui di importanza cruciale la serie dei valori legati all’attitudine all’ascosità.
I quali rendono la moderna donna dedita al piacere (“gaudente”) particolarmente inadatta ad essere una donna materna.
Al di sotto di questo ruolo culturale si delinea però un ruolo ancora più fondamentale ed elementare, che ancora una volta assimila la donna materna alla terra ed alla natura. Si tratta per la precisione di un ruolo religioso e sacro nella sua dimensione ultra-culturale. Esso è talmente possente e radicale da manifestarsi anche in tutti fenomeni connessi alla maternità naturale e biologica (parto etc.), dove vita e morte scaturiscono dall’eternità (nascita) per procedere come un’onda che infine ritorna all’eternità stessa (morte). Qui accade che l’eternità trapassa nel tempo, e proprio la donna materna ne è il tramite.
Si tratta insomma di una dimensione che più naturale non potrebbe essere. Ma sta di fatto che l’eternità è Dio stesso, e quindi si tratta in verità di un passaggio da Dio a Dio. E in tale contesto la donna materna assume di nuovo una valenza profondamente sacra e religiosa. Si tratta in verità della messa in contatto di Natura e Grazia, che vede proprio la donna materna come protagonista.
Ma Le Fort non manca di sottolineare che tale funzione si è fortemente indebolita in un mondo in cui la Donna è stata equiparata alla Natura proprio nel mentre però la Natura veniva sradicata dalla Grazia. E qui ella cita nuovamente Sigrid Undset con la sua Cristina (Kristin Lavranstochter), la quale ha sostenuto che la Donna-Natura perviene alla piena dimensione religiosa della maternità solo in quanto “cristiana” (“christin”), cioè arriva fino alla Chiesa.
Eccoci quindi alla santificazione della maternità da parte della Chiesa. Laddove viene per lei in fondo celebrata la Vita stessa. E qui vengono discussi tutti i temi dell’invito all’eroismo da parte della madre nel parto – specie nel preferire la vita del bambino alla propria.
L’autrice precisa che però in verità con ciò la Chiesa intende celebrare in questo la “Vita superiore”, ossia quella sacra e divina. Pertanto, entro tale in principio perfetta coordinazione tra Natura e Grazia (quale attitudine della donna materna) la Chiesa giunge infine a celebrare la madre addirittura anche più della vergine e della sposa. Dato che è propria della madre quella virtù dell’umiltà che la induce a non ribellarsi mai a Dio. Ecco che la dimensione di Natura della madre è sempre premessa per la Grazia. È in questo senso che la madre non solo è pronta a sacrificare la propria vita, ma inoltre è anche sempre pronta ad offrire il proprio bambino a Dio. Ella è insomma costantemente pronta a declinare qualunque titolo di possesso sul frutto delle proprie viscere.
E ciò avviene soprattutto nel Battesimo (in cui alla madre biologica del bambino si sostituisce la Chiesa come Madre spirituale), oltre che nell’educazione religiosa del bambino stesso.
In tutto ciò trionfano i valori dell’accoglienza e della rinuncia alla propria volontà, che ancora una volta trovano un modello in Maria e nel suo “si” (“fiat mihi”). In particolare si tratta dell’offrirsi della Donna come campo nel quale germoglia e cresce l’umano-divinità: − il figlio naturale diviene infatti figlio di Dio.
E a causa di ciò con la madre stanno naturalmente in relazione diverse figure del Rosario, ma in particolare quelle legate al dolore per quella perdita del Figlio che è sempre umile offerta. Non senza però che i misteri del dolore preludano a quelli della Resurrezione, e quindi della Gloria e della Gioia, che poi stanno poi in stretta relazione con l’atto di Assunzione di Maria al cielo. Atto con il quale non a caso ella diviene Madre di tutti gli uomini.
È su questa base che, secondo Le Fort, la virtù materna dell’accoglienza fa infine della madre una figura religiosa sacerdotale non inferiore a quella maschile. Ed inoltre in tal modo la donna materna si pone in relazione all’universalità della Chiesa e del Cristo. Ed è per questa via che la donna materna viene infine assimilata alla verginità di Maria (in quanto madre dell’uomo per eccellenza, Cristo), con la conseguenza che riassume in sé stessa (senza alcuna contraddizione) tutti gli aspetti della vita femminile esattamente come accade in Maria.
Con ciò, insomma, la maternità è destinata a venire costantemente riassorbita nella verginità. Il che significa che la maternità rientra sostanzialmente nell’ordine della vita femminile che è stato voluto da Dio e prevede quindi le due congiunte realtà di vergine e madre. E con questo viene restaurata l’”immagine eterna” (“Ewiges Bild”) della Donna (Donna Eterna).
In tal modo (e non senza l’intermediazione di Maria) viene dunque per sempre superata (in un ordine superiore) quella tragicità naturale della verginità, che è poi anche della madre stessa. Il che avviene attraverso la virtù mariana della totale disponibilità a Dio (ancilla Domini). Che è poi anche l’eleggere a propria missione la stessa missione accettata incondizionatamente da Maria. È proprio in tal modo che si può davvero affermare che la salvezza proviene dalla Donna. Dato che tale attitudine è esemplare per l’intero genere umano, ossia afferma il valore primario della relazione con Dio. Prospettiva che è poi anche apocalittica perché salva il mondo dalla Caduta, ed ancor più il mondo moderno che si è separato tragicamente da Dio.
Ma, per mezzo dell’intermediazione di Maria, oltre che vergine la madre è anche sposa, e precisamente “sposa dello Spirito” proprio in quanto sposa dell’uomo, e quindi impegnata con lui nella collaborazione alla creazione. Cosa che implica in una certa misura anche l’accettazione dell’uomo come “capo” (sottomissione), dato che Cristo stesso è Capo del Corpo (vedi testo).
Ebbene è per mezzo di tutto questo che la donna materna partecipa all’opera di salvezza del mondo.
In sintesi possiamo quindi dire che, entro la visione di Le Fort, in un certo senso la madre svetta decisamente sulla vergine e sulla sposa. Tuttavia (specie per mezzo del modello di Maria) essa finisce per venire ridotta sia all’una che all’altra. Ed è così, allora, che si ricostituisce quella perfetta “triplice rivelazione” della Donna (o anche Totalità femminile) che include vergine, sposa e madre senza che nessuna di queste dimensioni venga esclusa o assuma un valore secondario.

III- Conclusioni.
Ebbene, in via di principio alla fine di questa esposizione e commento del testo di Le Fort non ci sarebbe da aggiungere più nulla. Mi sembra infatti di aver assolto al compito molto limitato di offrire al lettore una sintesi di quest’opera che potrebbe anche dispensarlo dal leggere integralmente il testo.
Tuttavia mi sembra che comunque almeno una considerazione conclusiva molto generale meriti di essere fatta.
In particolare infatti ci si può chiedere quale ruolo e senso può avere la lettura di un’opera come questa in un mondo in cui l’ultima cosa che passa per la testa di una donna (giovane o attempata che sia) è quello di conformarsi al modello di Maria Vergine; oltre che di conformarsi ad un’ipotetica «natura» femminile che non solo è eterna ma è anche normante (cioè impone degli obblighi ben precisi). Ma a questo punto sorge la questione del se (aldilà di tutte le possibili sottili discussioni che si possono fare, e di tutte le relative rivendicazioni) l’obiettivo della donna moderna sia o meno per davvero quello di essere fedele alla propria natura. Laddove è chiaro che, se invece così non è, essa fallisce oggettivamente nell’essere ciò che è.
Il che porterebbe poi ad estendere anche alla donna (femmina) un’esortazione alla quale da sempre gli uomini (maschi) si sentono visceralmente vincolati, fino al punto di vergognarsi profondamente se non la seguono. Insomma oltre ad un «Fai l’uomo!» dovrebbe esistere anche un «Fai la donna!».
Ma intanto è anche chiaro che ciò trova un ostacolo ormai davvero possente nella pressoché totale dissoluzione dell’identità sessuale che intanto si va affermando
Orbene si può pensare che quest’obiettivo sia ancora davvero attuale per la donna?
Sinceramente sono portato a dubitarne visto che, nel corso del tempo e con il succedersi delle generazioni, si è sempre più affievolita la percezione di quella che è per davvero la natura femminile. Oggi infatti le donne (anche se non più giovani) ritengono un vero e proprio imperativo morale quello di realizzarsi come persona (ad esempio nel lavoro o nella politica), ed inoltre ritengono il piacere materiale e sensibile come un obiettivo assolutamente imprescindibile. E quindi pongono in cima ad ogni loro valore e desiderio quello di occupare un ruolo di rilievo nella società, specie nel campo del lavoro, ed inoltre di vivere la vita realizzando incondizionatamente il loro desiderio di piacere. Oltre a ciò, specie presso le ultime generazioni susciterebbe il riso o almeno lo stupore non solo l’idea che una donna si possa realizzare solo nella maternità e nella sponsalità (sia pure collateralmente all’esercizio di una professione), ma ancor più l’idea che tale realizzazione addirittura trovi il suo paradigma in una dimensione religiosa (com’è quella di Maria).
Eppure Gertrud von Le Fort non sembra avere alcun dubbio nell’indicare alle donne questi due obiettivi come quelli al di fuori dei quali la donna semplicemente cessa di essere tale, ma inoltre anche come quelli seguendo i quali la donna conquista per davvero l’immensa dignità che le spetta di diritto.
Che dire allora?
Che questa è un’opera semplicemente superata dai tempi e quindi affatto più valida? Che l’autrice è in fondo vittima di un condizionamento religioso che l’ha portata ad ignorare o almeno travisare profondamente quelli che sono i reali obiettivi di vita delle donne moderne? Che addirittura la sua visione sarebbe vittima di una sorta di maschilismo truffaldinamente mascherato da affermazione della massima dignità femminile?
Sinceramente non saprei rispondere a queste domande. E quindi non mi resta che lasciare la risposta alle donne che eventualmente leggeranno questo mio scritto.
L’unica cosa che so e posso dire è che il discorso di Le Fort appare a me personalmente estremamente coerente (almeno nel contesto di una fede cristiano-cattolica davvero salda e profonda) e che quindi per questo possa venire considerato anche molto convincente. Ma è intanto evidente che ciò cozza stridentemente con il dominante spirito del tempo. Non mi resta allora che augurare (ovviamente non senza in tal modo essere io stesso inevitabilmente ideologico e quindi di parte) che la visione esposta da Le Fort ritorni a poter essere di aiuto alle donne moderne. E ciò potrebbe avvenire proprio sulla base della delusione che certamente anch’esse provano nei confronti di un percorso storico-culturale (entro il quale oggettivamente le aggressive rivendicazioni femministe hanno avuto un ruolo di primo piano) che non sembra aver poi prodotto i frutti promessi. Certamente infatti le donne hanno conquistato nella società uno spazio che prima non potevano nemmeno sognarsi. Certamente esse si sono conquistate un diritto al piacere che prima era addirittura infamante. E certamente è stato ormai definitivamente spazzato via (come innegabilmente ingiusto ed anche ridicolo) il pregiudizio che affermava la superiorità del maschile sul femminile. Ed inoltre è altrettanto certo che ciò è avvenuto per una via che senz’altro in molti aspetti diverge radicalmente da quella indicata da Le Fort.
Ma intanto sono sotto gli occhi di tutti quelli che sono stati i frutti reali ed ultimi di tutto questo.
La cosiddetta «donna in carriera» fa una fatica titanica nel ricoprire contemporaneamente il ruolo di madre e sposa. Le famiglie sono ormai costantemente minacciate da un profondo dissidio tra mariti e mogli, così che il divorzio è diventato la norma molto più del matrimonio e della stabile unione coniugale. Fenomeni come il tradimento del proprio partner sono diventati non solo diffusi ma anche quasi obbligatori in quanto normalizzati e addirittura considerati psicologicamente sani. Le giovani donne delle ultime generazioni non pensano più nemmeno minimamente a realizzarsi come spose e madri, ed inoltre sono ormai dedite a comportamenti sessuali sempre più devianti rispetto alla tradizionale norma. Fino al punto che la pura sessualità animale (unita a sua volta all’edonismo ed all’esibizionismo) ha preso decisamente il posto dell’amore di coppia. E peraltro ciò contraddice perfino non pochi capisaldi della dignità femminile così come nel tempo sono stati affermati dal Femminismo. È evidente inoltre che perfino molte giovani ragazze si sentono profondamente disorientate quando pensano alla loro femminilità in un contesto così instabile, distorto e fonte di continue amarezze e delusioni, se non di un vero e proprio sordo dolore che è ormai senza volto e senza nome, e quindi estremamente inquietante. Infine l’identità sessuale stessa viene ormai sempre più aggressivamente posta in discussione.
Ebbene, era davvero questo ciò che si voleva? È davvero questa la giustizia, la pienezza, la felicità, la certezza della dignità femminile e della sua realizzazione? Sinceramente non credo che sia così. E peraltro credo che non sia così proprio per molte donne.
Ed allora mi chiedo se non sarebbe necessario un profondo ripensamento del cammino finora compiuto dalle donne. Ebbene tanto l’opera di Le Fort sulla natura femminile tanto anche quella di Edith Stein (che purtroppo qui non ho potuto commentare) offrono alle donne moderne almeno uno dei tanti possibili supporti per poter operare questo ripensamento.
Perché dunque non approfittarne?

Il caso di Meister Eckhart è davvero emblematico dello stato attuale degli studi filosofico-religiosi. Uno stato che può venire definito almeno problematico, dato che entro tali studi vengono ormai sostenute le più bizzarre idee di religione e di esperienza religiosa. E questo fenomeno coinvolge tanto il moderno neo-nichilismo filosofico buddhista (del quale ho già parlato a proposito di Nishida Kitarō, in un post che comunque non era una lezione di filosofia) quanto anche il tenore fortemente immanentista e secolarista dell’attuale filosofia religiosa più in generale [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018].
Sono entrambi fenomeni abbastanza sconcertanti per l’uomo religioso, dato che in essi si accetta come evidenza il famoso fenomeno della «morte di Dio» mentre nello stesso tempo si dà per scontato che la secolarizzazione immanentizzante sarebbe ormai l’unico modo per vivere l’esperienza religiosa. E al di fuori di tali prospettive si tende a non voler vedere assolutamente altro. Secondo questi studi, insomma, l’esperienza religiosa dovrebbe oggi rassegnarsi a non essere più assolutamente quello che essa è stata fin dai primordii dell’umanità, e cioè rapporto della terra e dell’uomo con il cielo e con il Trascendente.
Nello stesso tempo, inoltre, sembra che si tenda a sostenere che, qualora non si ammetta questo, allora bisogna essere pronti a proclamare (coerentemente) la fine della religione. Infatti pare che la religione del Trascendente sia ormai divenuta insostenibile sul piano filosofico e teologico, a causa dei tremendi fatti storici che l’hanno sfidata e vinta ed a causa anche dello stato attuale delle conoscenze scientifiche.
Ed è davvero una strana presa di posizione, questa. È infatti un po’ come dire: − «Finiamo di uccidere ciò che è moribondo e poi non ci pensiamo più perché tanto di ciò che era vivo e vero noi ci costruiremo un feticcio»
Ebbene questa serie di prese di posizione ci ricorda molto da vicino quanto abbiamo visto commentando i “Dialoghi dell’Anticristo” di Solov’ëv (decima lezione). In altre parole (per quanto a qualcuno ciò possa apparire forse anche esagerato) sembra proprio che entro l’attuale filosofia religiosa parli una vera e propria voce demoniaca. Il cui scopo dichiarato appare essere infatti quello di allontanare per sempre l’uomo da Dio, una volta cancellata per sempre la dimensione trascendente di quest’ultimo. Ed inoltre viene proposto apertamente di sostituire l’adorazione di Dio con l’adorazione di un feticcio.
E si badi bene che ciò viene affermato da uomini che fregiano sé stessi del titolo di “teologo”.

Ma tant’é! Questo è quanto offrono oggi in generale gli studi filosofico-religiosi e si può trovare qualcosa di diverso solo in una nicchia molto ristretta. Quindi in qualche modo dobbiamo accontentarci di ciò che c’è. Bisogna però dire che fortunatamente esistono anche degli studi eckhartiani di tenore molto diverso, ed ai quali ci si può quindi riferire in una lettura del pensatore tedesco che sfugga al riduzionismo secolarista e nichilista [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014; Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014; Marco Vannini (a cura di), Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013; Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012].
In ogni caso, come oggetto di uno studio dell’attuale filosofia religiosa secolarista ed immanentista, mi sembrano particolarmente emblematici alcuni studi che sono stati condotti sulla prossimità tra Eckhart e il buddhismo zen professato in Giappone presso la scuola di Kyōto a partire dagli inizi del XX secolo.
Ne esaminerò a mo’ di esempio in particolare due [Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Raquel Bouso, “Action et contemplation: sur une lecture eckhartienne de Shizuteru Ueda”, Théologique, 20 (1-2) 2012, 313-339] Nel loro contesto viene esaltata al massimo la valenza secolarista, immanentista e nichilista del pensiero eckhartiano ed essa viene inoltre messa in relazione con una corrente di studi filosofico-teologici ermeneutici che è tutta occidentale (Schürmann, Caputo, Haas, Largier). E con quest’ultima siamo nel pieno di una teologia moderna, decisamente anti-metafisica, secondo la quale dovremmo ormai accontentarci della pura ed unilaterale immanenza mondana dell’esperienza religiosa.
Bene. Eckhart viene ricondotto da tali studi esattamente entro questa sfera di riflessione. Ma è proprio vero quanto sostengono i teorici di questa approssimazione? Insomma è proprio vero che Eckhart sia stato come questi studiosi ce lo presentano? Intanto gli studi alternativi che ho poc’anzi citato ci mostrano un quadro sensibilmente diverso. E quindi, a mio modesto avviso, la visione del pensatore renano fu tangibilmente diversa da come ci viene presentata nei due articoli che ora esamineremo. E le sue vere caratteristiche possono essere considerate le seguenti: – 1) decisamente fu un trascendentista anche se teorizzò l’umano-divinità in tutta la sua immanenza (come incontro di Dio nell’interiorità umana); 2) fu un sottile e sublime metafisico; 3) diede grande importanza alle opere di carità ma non pose mai il primato dell’azione sulla contemplazione né mai teorizzò una religiosità secolarista; 4) ebbe una concezione chiaramente apofatica di Dio (ponendo in evidenza la sua assoluta non determinazione e quindi relativa «negatività» ontologica), ma mai si sognò di porre una divinità così radicalmente negativa da giungere a considerarla un nulla, cioè una “vacuità”. Anzi a proposito di tale ultimo aspetto possiamo cogliere quello che è il nucleo più intimo del pensiero eckhartiano (almeno secondo gli Autori alternativi citati, specie secondo Vallin) – egli considerò Dio soprattutto alla stregua di un Intelletto in quanto purissima sostanza spirituale. E quindi ne pose chiaramente la «positività» ontologica, per quanto estremamente sottile, ossia tanto sottile quanto lo è l’Intelletto (sostanza «onto-intellettuale»). Egli insomma volle dire che Dio è un purissimo Spirito; e che quindi (nonostante la dinamicissima omni-presenza che lo reca a effondere continuamente verso il mondo) è quanto di più trascendente possa mai essere immaginato.
Bene. Chi tiene presente questi tratti fondamentali del pensiero eckhartiano non può che trovare assolutamente bizzarri (se non arbitrari, assurdi ed aberranti) i tratti che ad esso vengono invece attribuiti dagli studiosi della scuola di Kyōto e dai loro emuli occidentali. A me personalmente queste ultime sembrano le tipiche elucubrazioni da moderni e disinibiti pensatori, che appaiono venir prodotte al solo ed unico fine di farsi strada nel mondo accademico. Per cui molto spesso c’è una distanza incolmabile tra di esse e la realtà effettiva delle cose.
Ma vi è un ulteriore elemento che abbraccia tutti quelli esaminati finora – Eckhart fu senz’ombra di dubbio in primo luogo un platonico. Egli rientra infatti a pieno diritto entro l’ininterrotta linea di pensatori che prese origine dal Platone, passando poi per il neoplatonismo cristiano e spingendosi infine nel pieno del pensiero cristiano fino alla scuola di Cambridge R. [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344].
Si tratta di ciò di cui ho trattato in alcune precedenti lezioni. Dunque, se è così, com’è possibile che il pensiero eckhartiano rientri in una prospettiva immanentista, anti-trascendentista, secolarista, mondanista, unilateralmente azionista, anti-contemplativa e pragmatista, anti-metafisica ed infine addirittura nichilista? Non vi è dubbio che il pensatore renano sia stato un grande protagonista della teologia metafisica apofatica e quindi teologico-negativa (insieme specialmente a Dionigi l’Areopagita e forse allo stesso Plotino), rientrando così in una tradizione di pensiero con la quale la Chiesa cristiana ufficiale ebbe sempre problemi.
Ma può bastare questo per fare di lui addirittura un nichilista ed anti-teista, cioè un teorico ante litteram della “morte di Dio”? Gli articoli che esaminerò mostrano che in realtà ciò è possibile solo se il suo pensiero viene coartato, forzato e stiracchiato ben oltre i suoi effettivi limiti. Ma intanto l’ago della bilancia (entro questa tale d’atto critica degli attuali studi eckhartiani) resta uno ed uno solo: − Eckhart fu un platonista., con tutto ciò che questo significa. E, se c’è qualcosa di certo ed inamovibile nel platonismo, questo è il suo trascendentismo [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276].
In ogni caso ricordo al lettore che oggi è abbastanza comune il tentativo di ricondurre sotto la sinistra ed imbarazzante ombra nietzschiana i pensatori antichi che hanno sostenuto l’apofatismo o teologia negativa (e che non a caso quasi sempre furono dei platonici). Basti pensare al tentativo fatto in tal senso da Yannaras con Dionigi l’Areopagita [Christos Yannaras, On the absence and unknowability of God. Heidegger and the Areopagite, T & T Clark International, London New York 2005].

Quindi è da tutto questo che bisogna partire.
In effetti gli studi di Mieth, Sturlese e Vannini testimoniano in abbondanza la dimensione platonica del pensiero eckhartiano, anche se non si esprimono esplicitamente su tale aspetto. A questo vanno intanto aggiunti altri studi di tenore non propriamente filosofico, i quali invece si esprimono chiaramente in tal senso (Vallin). Sarebbe però intanto troppo lungo soffermarsi su questi studi per porre in evidenza il platonismo eckhartiano in tutte le sue specifiche caratteristiche. Per questo rimando quindi ad un mio specifico articolo sul tema [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016].
Partiamo comunque da questo e cioè dal fatto che Eckhart può avere senz’altro esposto una visione molto originale, ma è intanto altamente improbabile che ciò sia avvenuto nel senso sostenuto dagli studiosi della sua approssimazione al buddhismo zen.
Vediamo quindi cosa hanno da dire questi ultimi.
Gli autori esaminati (Vianello e Bouso) sostengono in generale la grande somiglianza tra la riflessione eckhartiana e quella del Buddhismo zen nipponico (scuola di Kyōto), rappresentato da pensatori come Ueda Shizuteru, lo stesso Nishida Kitarō, ed infine Nishitani Keiji. Tuttavia entrambi prendono onestamente atto anche della differenza che esiste tra i due tipi di riflessione. Cionondimeno essi presentano un’immagine del pensiero eckhartiano che sorprende non poco il pensatore di impronta filosofico-religiosa trascendentista e platonica.
In ogni caso va fatto notare che Vianello ha fondato a Venezia il Centro Studi Maytreia (replica italiana della scuola di Kyōto), e la Bouso menziona inoltre Amador del Vega quale fondatore di una simile scuola di pensiero in Spagna.

Partiamo da Vianello. Molto in generale egli sostiene che Plotino ed Eckhart sono i protagonisti occidentali di una vera e propria trattazione del Nulla (Assoluto divino in quanto Nulla). Tuttavia egli precisa anche che in fondo nel caso dell’Oriente (Buddhismo) nemmeno si può davvero parlare di nichilismo. Perché quest’ultimo ammette comunque almeno una pregressa e tradizionale onto-metafisica, e quindi ammette sia pure relativamente una concezione «positiva» dell’essere, per quanto ormai archiviata. Pertanto, dato che in Oriente non vi è alcuna onto-metafisica, nel suo contesto la negazione dell’essere coincide con l’affermazione totale e radicale del solo Nulla. Al contrario quella di Plotino ed Eckhart è da considerare come una metafisica ed un’onto-metafisica. Sul piano religioso essa dovrebbe quindi venire definita come una “mistica del nulla”. Cionondimeno sembra che quest’ultima possa comunque configurare un nichilismo.
Lo studioso dice questo perché ci racconta quanto fu dedotto dal pensatore Ueda Shizuteru. Il quale negli anni ’60 si recò a Marburg (presso Ernst Benz) per studiare i rapporti tra Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico. La descrizione dei dettagli degli studi di Ueda è estremamente ricca, e quindi devo rinviare gli interessati all’articolo (che peraltro sono pronto ad inviare a chi me lo richieda). E lo stesso vale per l’articolo della Bouso. Intanto mi limiterò a commentarne gli aspetti più importanti del primo scritto, e sintetizzerò il più possibile alcuni temi in esso trattai.
Ueda sostiene che il Dio con il quale Eckhart prevede l’unione intima (specie per mezzo dell’auto-nientificazione della creatura umana, ossia la rinuncia al proprio Ego) è di fatto quello stesso Uno-Dio plotiniano che è talmente trascendente da essere radicalmente sovra-essenziale, e quindi è un “nulla di tutto” [Giovanni Reale, Plotino come «Erma bifronte», in: Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, p. I-LXXX]. Come venne effettivamente previsto da Plotino, per mezzo del concetto di “aphairesis” (Reale), questo Dio ultra-trascendente può venire raggiunto solo attraverso una progressiva spoliazione di qualunque determinazione ontologica, ossia per mezzo di un estremo atto di “purificazione”. Ora, è plausibile che Eckhart abbia tenuto presente tale dottrina plotiniana nel teorizzare un supremo divino che certamente non può venire concepito per mezzo del letterale “teismo” – che prevede un «dio» (ontico e personale) invece di una non definita “deità” (“Gottheit”). Tuttavia è assolutamente assurdo sostenere che per questa via il pensatore tedesco abbia in tal modo teorizzato (specie per mezzo dell’atto di immersione umana nel Nulla divino) un radicale passaggio dall’Essere al Nulla, in seguito al quale (prendendo il Dio-Nulla come prototipo di ogni ente) si è costretti poi ad affermare la sostanziale nullità di tutte le cose. Questo è quanto teorizzato senz’altro dal Buddhismo.
Tuttavia ciò non può in alcun modo essere quanto teorizzato invece da un pensatore cristiano, il quale non solo non rinnegò mai l’ontologicità di Dio (come nel concetto di Incarnazione, a sua volta connesso a quello di una presenza reale del Dio vivo nel mondo) ma addirittura la affermò con una decisione ed una coerenza che forse non trovano eguali in tutto il pensiero cristiano. In altre parole, pur teorizzando chiaramente la radicale sovra-essenzialità di Dio (con tutta la relativa «negatività» ontologica che spetta a un Dio Trascendente che si rispetti), egli prese più che mai sul serio il concetto di Incarnazione. Il suo concetto di “nascita divina” implica infatti proprio questo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Per Ueda invece (almeno così come ci viene presentato da Vianello), proprio in relazione a questo, il pensiero eckhartiano (per quanto viene ammesso come ancora in parte teistico) sarebbe addirittura equiparabile al radicale nichilismo buddhista, e cioè alle teorie del “no-self” o anātman (radicale negazione della sostanza in ogni sua forma, inclusa quella della persona umana). Insomma Eckhart sarebbe stato il protagonista di una dottrina del “vuoto” che oltrepassa perfino l’”ontologia” stessa – dato che porre il vuoto implica farlo in maniera davvero estrema.
E questo mi sembra totalmente ingiustificato. Certamente Eckhart si oppose all’enticismo tomista – specie affermando che Dio non è affatto “un filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart…cit. p. 49-59 ; ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79] −, ma lo fece solo perché nello stesso tempo affermò la totale «onto-intellettualità» dell’Essere che è autentico Fondamento dell’ente, ossia affermò la radicale «onto-spiritualità» dell’essere giustificato dall’esistenza divina (si veda per questo la ventunesima lezione che ho dedicato allo Spirito). Ma questa è ancora ontologia senza nemmeno l’ombra di un dubbio.
Bisogna comunque precisare che Vianello modera queste sue estreme affermazioni sostenendo che in Occidente (Eckhart e Plotino) venne sostenuta in primo luogo una “mistica del nulla”, e cioè una dottrina della vacuità che aveva il senso principale di sostenere il percorso di unione a Dio. Intanto però egli dice anche che questa stessa mistica rientra pienamente nella stessa “méontologia” (negazione di ogni ontologia) che fu sostenuta in Oriente. Inoltre l’Autore aggiunge che in Occidente prevalse intanto sempre un’onto-metafisica (metafisica dell’essere) che risaliva fino a Parmenide. Il che spiegherebbe perché la radicale affermazione del nulla da parte di Eckhart rientrò in quella sparuta tradizione che sempre generò “scandalo” presso i pensatori ed i teologi. Anche questo però non ha alcun senso sulla base delle precisazioni che ho fatto poc’anzi. È vero, infatti, che il pensiero eckhartiano fu sempre così ardito da suscitare imbarazzo e sospetto, ma non per i motivi addotti dal Vianello.
Meno giustificate ancora sono quindi le conclusioni che l’Autore trae (concludendo circa il pensiero di Ueda). Egli prende infatti atto del progressivo affermarsi in Occidente (almeno da Nietzsche in poi e con acme in Heidegger) di una sempre più decisa affermazione del “Nulla” in quanto Essere. E ritiene quindi Plotino ed Eckhart tra i maggiori anticipatori di questa presa di posizione tutta moderna. Peraltro egli dà totalmente per buone le considerazioni nietzschiano-heideggeriane circa la necessità di prendere atto di un nichilismo storico (a sua volta prodotto del fallimento di qualunque espressa ontologia, inclusa quella scientifico-empirica) che non dovrebbe venire né negato né ostacolato. Infatti solo accettandolo e perfino impersonandolo sarebbe possibile reagire alla distruzione della Tradizione causata dalla Modernità. E solo su questa base poi sarebbe secondo Vianello possibile riformulare una religione (e relativa teologia) che ormai prenda pienamente atto della necessità di vivere il divino esclusivamente nella dimensione immanente. Insomma, esattamente come teorizzato da Heidegger, bisognerebbe rassegnarsi a prendere atto del fatto che la manifestazione divina nell’immanente cancella in un solo colpo il Dio Trascendente e l’Essere trascendente stesso; impedendo così di continuare a considerarli come punto di riferimento dell’uomo nel corso della sua esperienza religiosa. Ne consegue quindi la necessità di cancellare ogni onto-metafisica tanto filosofica quanto religiosa.
Ed abbiamo visto commentando Nishida Kitarō che ciò significa in definitiva una sola cosa, e cioè neopaganesimo, ossia abbandono del Cristianesimo.
Tutto questo è comunque quanto viene affermato effettivamente dal Buddhismo zen (specie dal maestro Joshū) nel sostenere che l’esistenza evidente della “rosa” è pienamente sufficiente a manifestare l’esistenza di Dio senza che sia nemmeno necessario né parlarne (religiosamente) né invocare Dio stesso quale “senso” dell’ente. La rosa esiste insomma totalmente “senza perché”. Ed esattamente così essa va considerata come espressione del divino. Secondo il Vianello questa fu anche l’idea di Eckhart (come l’Autore giustifica prendendo a modello una poesia di Silesius, che effettivamente fu un poeta e pensatore di ispirazione eckhartiana). Si tratta insomma della dottrina dell’”ohne warum” in quanto ontologia priva di qualunque sostegno trascendente; specie il sostegno costituito da un ben definito Dio Personale che sia creatore ed anche ordinatore razionale del caos mondano. Ora, è vero senz’altro che il pensatore renano sviluppò una dottrina denominata in questo modo (”ohne warum” delle cose) – il cui intento era quello di sottolineare la necessità di riconnettere continuamente l’ente a quella sua Origine che sconfinava nel Nulla apofatico divino [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, I, 5 p. 63-73, II, 10 p. 99-101, III, 13-14 p. 123-131, IV, 17 p. 163-170, V, 23 p. 230-231; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 5-13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79 ; Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 47 (Q 47), p. 664-673, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 14-17 p. 71-74, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125, II, 142-149 p. 231-237].
E ciò avviene sostanzialmente perché secondo Eckhart Dio non «è» ma semmai sempre solo «diviene», cioè si riversa costantemente fuori di sé stesso (secondo il modello trinitario) configurando un dinamismo dell’essere nel quale l’Origine è costantemente connessa al mondo ed all’uomo.
Tuttavia per Vianello questa non sarebbe invece altro che la teorizzazione della “morte di Dio”. Anche se egli ammette intanto che in Eckhart ciò non implica affatto l’affermazione dell’inesistenza di Dio, ma semmai invece appena la rinuncia alla sua definizione (apofatismo, o concezione negativa del divino trascendente). In questo senso il pensatore renano avrebbe postulato chiaramente un Dio-Nulla (in quanto Origine delle cose, ossia «Principio»), così come Plotino avrebbe postulato un Uno-Nulla. Il Vianello precisa però che questo non giunse mai alla postulazione di uno “zero” assoluto in quanto Principio delle cose (come accade nel Buddhismo).
Peraltro a tutto ciò si aggiunge (in una maniera a prima vista coerente) la teorizzazione eckhartiana di un atto di auto-annientamento della creatura umana che permette a Dio di essere un Nulla in maniera esponenzialmente maggiore, ossia arretrando rispetto al mondo in modo che esso possa esistere a fronte della sua Onnipotenza ed Omnipresenza.
Insomma tutto ciò sembra estremamente coerente, e quindi si sarebbe portati a credere che Eckhart si sia fatto davvero sostenitore di una sorta di un nichilismo purissimamente metafisico per molti aspetti molto simile a quello buddhista (per quanto comunque per certi versi diverso). E peraltro il nucleo di questa visione consisterebbe esattamente nell’accettazione del concetto di “morte di Dio”.
Ma il problema sta a mio avviso nella possibile portata etica che tale concetto assume immediatamente non appena esso cessa di costituire una sofisticata e cervellotica metafisica intellettualistica. Allora esso diviene infatti letterale, e quindi assume nell’orecchio dell’ascoltatore esattamente il senso recondito che ha − «Dio era una mera invenzione, e quindi, una volta smascherato, è ormami svanito. Dio non c’è più! Anzi non c’è mai stato!». Bene – pur volendo ammettere anche tutte le possibili assonanze tra il pensiero di Eckhart e quello buddhista (ma solo molto alla lontana e vagamente) – è assolutamente impossibile che il concetto di “morte di Dio” ne sia stato addirittura in nucleo. E il motivo sta nuovamente nei paraggi della dottrina dell’Incarnazione divina così come condivisa ed affermata con forza dal pensatore renano. Egli non avrebbe mai potuto condividere un nichilismo metafisico che così seriamente minaccia il concetto di Incarnazione. Proprio lui affermò infatti che l’uomo realmente distaccato dal mondo (e quindi puro) è in grado addirittura di “comandare” a Dio ingiungendogli di manifestarsi e di venirgli in soccorso [Meister Eckhart, Predica 12 (Q 14), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 171-181].
È evidente quindi che quelle del Vianello (e pertanto anche di Ueda) possono essere solo elucubrazioni personali, e peraltro pochissimo giustificate.

Ma veniamo ora all’articolo di Bouso.
Ebbene, questo studio è ancora più radicale del primo nel tentare di appaiare Eckhart (per mezzo dell’approssimazione al Buddhismo) a quella moderna teologia filosofica occidentale che sostiene una radicale secolarizzazione dell’esperienza religiosa incentrata nuovamente nel concetto di “morte di Dio” e quindi orientata a fondare addirittura una “religione senza religione” (ovviamente del tutto priva di metafisica). L’Autrice chiama peraltro in causa più direttamente gli interpreti occidentali dell’approssimazione Eckhart-Buddhismo che ho menzionato prima. In ogni caso il tema centrale dell’articolo è l’attribuzione al pensatore renano di una “teoria dell’azione” (del tutto simile a quella post-moderna), secondo la quale l’azione stessa sarebbe destinata a sostituire la contemplazione annientandola completamente. Si tratta insomma ancora una volta della sostituzione dell’immanente al Trascendente nel corso dell’esperienza religiosa e perfino della mistica. In particolare (come abbiamo visto a proposito della “rosa” di Joshū e di Silesius) il primato concesso alla sola azione diviene la giustificazione piena di una “vita senza perché”, ossia una vita spesa senza preoccuparsi minimamente del “senso”. E questo genere di vita avrebbe poi una valenza intensamente religiosa e perfino mistico-caritatevole. Costituirebbe insomma la stessa mistica pratica (incentrata nelle sole “opere”) della quale parlò Eckhart
Oltre a ciò (sulla base di tale concezione) la posizione di Eckhart viene notevolmente forzata e coartata nel tentare di ricondurla alla dottrina buddhista del distacco come pura azione pratica disinteressata e per questo anche compassionevole (sebbene affatto intenzionalmente); che è poi un’immanentizzazione e banalizzazione totale della vita contemplativa e religiosa. E questo è effettivamente quanto sostengono interpreti come John Caputo e Schürmann.
Inoltre viene qui sostenuto che l’apofatismo eckhartiano andrebbe ridotto unicamente ad una discesa verso il mondo (sullo sfondo dell’atto di auto-negazione dell’ego) quale fatale e triste conseguenza dell’incontro ascendente con un Dio deludentemente negativo e quindi rivelatosi del tutto vuoto.
In altre parole Eckhart avrebbe concepito la discesa verso il mondo nel mentre cancellava totalmente la Trascendenza divina.
Ma esaminiamo ora più da vicino alcune delle considerazioni della Bouso.
Innnanzitutto mi sembra piuttosto artificiosa la riconduzione di Eckhart e del Buddhismo alla tradizione di pensiero cristiana che avrebbe avvalorato la posizione di Marta a svantaggio di quella di Maria – così come esse emergono nei due episodi evangelici della visita di Gesù a Betania (Luca e Giovanni). L’Autrice fa peraltro una dettagliata storia delle varie interpretazioni dell’episodio che si sono succede dalla patristica greca e latina in poi, con l’attribuzione a Marta della “vita activa” ed a Maria della “vita contemplativa”. L’apprezzamento dei pensatori cristiani si sarebbe spostato progressivamente dalla seconda alla prima, e la Bouso menziona soprattutto Agostino come sostenitore del privilegio accordato alla sola vita contemplativa. Eckhart si porrebbe praticamente al termine di questo percorso, essendosi fatto deciso sostenitore della sola azione, e quindi di una mistica pratica incentrata sull’azione stessa.
Peraltro va notato che – nel mentre argomenta in questo senso − la Bouso ci lascia capire che, a rigor di logica, la passività di Maria incarna il “necessario” (quanto è davvero di valore) come invece l’azione di Marta non fa. Infatti Gesù rimprovera la seconda proprio per questo. E proprio questa precisazione rende non poco illogico e contraddittorio l’intero discorso, dato che esso in fondo punta proprio alla svalorizzazione della passività contemplativa di Maria. Pertanto l’episodio evangelico parla di fatto di per sé contro la teoria sostenuta dall’Autrice.
Tuttavia nemmeno questo basta perché il giudizio positivo di valore sull’azione appaierebbe il pensatore renano a quel Buddhismo zen (specie del maestro e patriarca Huineng), secondo il quale l’atto più banale e arbitrario possibile (tagliare una canna di bambù) esprimerebbe un’azione sacra che non solo svaluta la contemplazione ma addirittura la sostituisce nel mentre la incorpora in sé. E ciò ha peraltro a che fare con quella specifica radicale negazione zen della metafisica che si è sempre espressa nelle famose risposte senza senso a qualunque genere di domanda circa il senso e la causa delle cose. Siamo insomma nuovamente di fronte a quell’immanenza che non solo sostituisce la Trascendenza ma anche addirittura la supera in valore. Ed in tale immanenza (dell’unilaterale azione mondana) andrebbe vista la pienezza dell’esperienza religiosa così come sarebbe stata concepita da Eckhart in maniera estremamente somigliante agli insegnamenti della pratica zen.
Certamente viene ammesso che il discorso religioso è solo sottinteso nella dottrina zen, mentre invece è del tutto esplicito presso il pensatore renano. Ma comunque tale discorso porrebbe un Dio manifestato totalmente e definitivamente solo nel mondo. In tale maniera il mondo stesso sarebbe da considerare come ormai divenuto pienamente divino senza più alcun bisogno di un Trascendente divino che lo fondi e lo giustifichi come tale. In altre parole bisognerebbe ammettere che Dio ha trasfuso sé stesso totalmente nel mondo in modo da venirne ingoiato totalmente e svanire come presenza. Ecco insomma una rivalutazione del mondo (quale luogo di esperienza religiosa) da considerare definitiva e totale. Ed a questo sarebbe da ricondurre quel concetto eckhartiano di “nascita divina” che pertanto avrebbe un significato unicamente immanentistico e riduzionistico. Almeno sul piano religioso del pensiero eckhartiano tale riconduzione è quindi non meno astrusa, illogica e contraddittoria della complessiva riflessione su Marta e Maria.
In tutto questo consisterebbe comunque la “mistica pratica” postulata dal pensatore renano. Schürmann ha emblematicamente definito quest’ultima come “mistica intramondana”. Inoltre si tratta in generale di una “teologia umanistica” che avvalora il solo materiale nel mentre tende di equiparare la contemplazione con l’azione mondana. Sullo sfondo di tutto ciò vi è poi ovviamente la totale cancellazione di ogni metafisica. Il che (come ho detto commentando Vianello) è senz’altro vero per il Buddhismo. Ma non è vero in alcun modo per Eckhart.
La Bouso attribuisce inoltre al pensatore renano le stesse conseguenze nichilistiche della sua teologia negativa che abbiamo visto commentando il Vianello. Ma aggiunge a questo un ulteriore elemento di accostamento con il Buddhismo. Per lei infatti (sulla base degli studi della scuola di Kyōto) l’atto di auto-annientamento umano, quale premessa per l’unione a Dio, in definitiva altro non è se non l’unione con sé stesso da parte dell’uomo (tenendo conto della totale immanenza di Dio a causa del suo volontario traslarsi in interiore homine). E tale identificazione con sé stesso non è altro che il risultato al quale punta realmente la pratica buddhista della meditazione e dell’auto-consapevolezza come realizzazioni della «buddhità» in quanto umano-divinità. Si tratta insomma di un altro modo per cancellare totalmente la presenza divina in una prassi religiosa che avviene unicamente entro lo spazio dell’immanenza. Infatti a tale proposito l’insegnamento zen è molto categorico nel senso della sparizione totale di Dio dallo scenario: − «Se tu incontri il Buddha in te stesso, allora sei lui». Ancora una volta non può essere certamente questo ciò che Eckhart ha voluto dire nel teorizzare l’incontro interiore con Dio.
In ogni caso l’Autrice si sofferma ancora su questo nel tentare di darci una visione decisamente anti-contemplativa dell’atto umano di unione a Dio secondo il pensatore renano. Esso, infatti, sfuggirebbe totalmente al concetto metafisico di contemplazione come “theoria”, e cioè movimento filosofico e religioso (mistico) verso una Verità delle cose che risiede unicamente nel Trascendente. Tale atto punta di per sè unicamente al cielo, dimenticandosi così totalmente della terra. Ed in tal modo, afferma la Bouso, è stato in fondo sempre giustificato il controllo totale del mondo da parte dell’uomo. Cosa che poi comporta di fatto anche la negazione di tutto ciò che è «altro».
Ed invece Eckhart (solidalmente con il Buddhismo, specie secondo John Caputo) avrebbe sostenuto una contemplazione puramente attiva che può sussistere solo allorché (sfuggendo all’inconsistenza ed inconcludenza dell’atto ascensivo) nel tendere a Dio si tende a discendere e non invece ad ascendere. Precisamente è necessario volgersi al pratico, quotidiano e mondano nel contesto di un atto di amorevole relazione con le creature (nel Buddhismo la “compassione”) che però esige la totale accettazione del mondo (con tutto il suo tessuto di inesorabili leggi e relazioni causali ed umane). Ebbene, come può avere sostenuto questo un pensatore che concepì senza mezzi termini la totale identità tra dimensione sovrannaturale e naturale nel contesto della perfetta unità esistente tra Natura e Grazia? [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 1 p. 25-37].
Peraltro secondo l’Autrice (solidalmente con Caputo) tale dottrina (buddhista, ma valida anche per Eckhart) costituisce anche un’”etica” (sebbene assolutamente non “normativa”, e quindi non convenzionale) della totale rinuncia al proprio desiderio sia nel perseguire beni e piaceri sia anche (e soprattutto) nel volere che le cose del mondo vadano nel modo da esso desiderato. Ed il nucleo di tale dottrina sta precisamente nell’auto-negazione da parte dell’Io della propria realtà di sostanza, e quindi anche realtà di soggetto “intenzionale” che sempre avanza verso il mondo delle naturali aspettative. Il contrario di tale atteggiamento, dice la Bouso, è la libertà come illimitata apertura, nel senso di accettazione incondizionata degli eventi e degli altri così come essi sono. E tutto ciò, oltre ad essere buddhista, equivarrebbe anche alla dottrina eckhartiana dell’auto-negazione di sé stesso da parte dell’Io umano.
È evidente che in questo modo – oltre a negare qualunque volontarismo attivo − viene radicalmente negata anche la possibilità che l’uomo faccia appello alla Misericordia divina nel corso delle vicende della propria esistenza. Ma pur volendo tralasciare tale aspetto, cosa mai c’entra tutta questa passività (rinunciataria, fatalista e nichilista) con il cristiano attivo sforzo sovrumano d’amore verso l’altro quale impegno e compito accettati e sopportati con lo stesso spirito che è di Cristo sulla Croce?
È perfino inutile dire che, se per davvero Eckhart avesse sostenuto ciò che gli attribuiscono gli studiosi buddhisti, per davvero (in tempi molto diversi da quelli di oggi) il processo che subì si sarebbe concluso con la condanna al rogo. Ciò che gli studiosi buddhisti vogliono attribuire al pensatore renano rischia di cancellare dalla sua visione una buona fetta di contenuti autenticamente cristiani. E questo non può essere assolutamente Eckhart.
Comunque su questa base l’Autrice giunge alla conclusione che Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico avrebbero perseguito congiuntamente (sebbene da lontano nel tempo) un percorso che solo nell’estremo oggi è arrivato al suo compimento. Si tratta insomma delle stesse considerazioni generali fatte dal Vianello.
La dottrina è quella di una teologia filosofica planetaria (orientale e occidentale) che si concentra sulla modernità come “secolarizzazione”, caratterizzata a sua volta dalla “morte di Dio”. Il che implica poi quell’assenza di Dio (teismo e Dio Personale, entrambi surclassati dal Dio-Nulla) che permette di ri-valorizzare la sola vita attiva (unilaterale immanenza) come luogo di spiritualità. Per vivere religiosamente bisognerebbe insomma addirittura abbandonare il rapporto con il Trascendente. Eccoci, quindi, davanti al superamento della mistica (“non-mistica” secondo il concetto zen di “hishinpishugi”) in una “religione senza religione” − “…dans le monde moderne, la transcendance cède le pas à l’immanence”.
E tutto questo implica non più il distacco dal mondo ma semmai l’accettazione incondizionata del mondo, ossia esattamente quanto è stato sempre teorizzato dal Buddhismo.

Dopo aver visto tutto ciò, e dopo aver commentato alcuni aspetti più importanti delle argomentazioni dei due Autori, dobbiamo quindi constatare che tali studi eckhartiani centrati sul Buddhismo si differenziano moltissimo da quelli di natura diversa. Essi recano infatti ad un totale travisamento di Eckhart nel senso di una vera e propria inammissibile orientalizzazione e buddhistizzazione del suo pensiero.
Eclatante è ad esempio la già commentata teorizzazione di un incontro interiore umano con il solo sé stesso che addirittura sarebbe equivalente all’unione a Dio non solo nel Buddhismo ma anche presso il pensatore renano. Insomma così non solo si trascina forzosamente Eckhart dal lato nel nichilismo e dell’anti-teismo, ma addirittura lo si trascina dal lato dell’eresia anti-cristiana. Il che ha lo strano effetto di ottenere lo stesso risultato al quale puntarono i suoi detrattori intentandogli un processo per eresia la cui giustificazione non fu altra se non quella del suo intenso quanto indigeribile platonismo onto-intellettualista.
Con tutto questo non voglio affatto dire che non sia lecito accostare il pensiero eckhartiano ad una vasta serie di dottrine orientali. Questo è stato sostenuto anche da altri Autori − sebbene non con gli intenti riduzionistici di Vianello e Bouso – ed è senz’altro pienamente opinabile ed accettabile [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., V, 23 p. 223-234]. È stato insomma ampiamente riconosciuto che il pensiero di Eckhart si presta a venire collocato in un contesto fortemente “interculturale”.
Tuttavia è anche assolutamente inopinabile ed inaccettabile che Eckhart sia stato un pensatore simil-buddhista o anche solo immanentista, secolarista, nichilista, anti-metafisico ed anti-contemplativo.
Non a caso il suo discorso è stato accostato da Mieth (per mezzo di Peirce) ad una modalità di pensiero che sfugge totalmente all’usuale logica mondana nel tentativo di rendere possibile cogliere il più sublime ed alto divino-trascendente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., Einl. p. 13-16, I, 1 p. 25-37, I, 4-5 p. 56-73, V, 23 p. 223-233].
In ogni caso è assolutamente impossibile accettare che egli sia stato un pensatore della “morte di Dio” nel senso nietzschiano-nichilistico ed inoltre anche buddhista (cioè a-religioso o addirittura anti-religioso).
Del resto sostenere questo può essere giustificato quanto si vuole sul piano puramente filosofico-teologico, ma non potrà mai esserlo invece sul piano etico-religioso e quindi anche etico-filosofico ed etico-metafisico.

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Nella scorsa lezione ho già tentato di dare un’idea generale del platonismo prima ancora di porlo in relazione con la Gnosi. Quindi mi ritengo qui dispensato dall’entrare di nuovo nel merito degli aspetti generali di questa scuola di pensiero. Lo farò comunque di nuovo quando parlerò specificamente di Platone.
Ora però abbiamo davanti il compito di mettere in luce un aspetto molto specifico del platonismo, e cioè un suo aspetto chiaramente connesso alla filosofia metafisica, alla metafisica religiosa, alla religione ed alla mistica. Tale aspetto è quello della teologia negativa, detta anche apofatismo. Naturalmente ci troviamo con ciò su un piano molto lontano a quello sul quale si muove quello che può venire definito come il «platonismo contemporaneo». Abbiamo visto infatti che esso rigetta sdegnosamente l’idea che Platone sia stato un pensatore religioso. Per quanto, comunque, non pochi studiosi abbiano anche recentemente avvalorato tale interpretazione – e peraltro sia dal punto di vista non cristiano (o addirittura neopagano) sia dal punto di vista cristiano [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008; Giovanni Reale, Proclo di Costantinopoli ultimo grande esponente del pensiero greco-pagano, in: Giovanni Reale (a cura di), Proclo. Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, p. XIII-LIII; Paulina Remes, Neoplatonism, University of California Press, Berkeley Los Angeles 2008, Intr. 1 p 1-10; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011; Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 2010, p. 55-75; Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974, II, III/2, XII, 1 p. 657-686; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto platonico, , in: Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 1-25 p. 257-293; Roger Godel, Platone ad Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015; Frithjof Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3, p. .45-52, 5, p. 63-67; 6, 77-84; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, I, 3 p. 964-979; Werner Beierwaltes, Deus est Esse – Esse est Deus, in: Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2004, p. 3-9; Endre von Ivánka, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Johannes Verlag, Einsiedeln 1964; Endre von Ivánka, Plato Christianus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York 1960; Étienne Gilson, La filosofia nel medioevo, Rizzoli, Milano 2014, I, 5 p. 103].
Insomma vi sono molti argomenti per ritenere che la moderna interpretazione di Platone e del platonismo possa essere ampiamente ingiustificata. E su questa solida base mi muoverò quindi nelle mie considerazioni.
Per questo scopo esaminerò nuovamente i due scritti che ho commentato nella precedente lezione, e cioè quelli di Hadot e di Inge [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344]. Inoltre per alcuni altri aspetti rimando alla prossima lezione (ventiquattresima) nella quale parlerò degli studi che pongono in relazione il pensiero di Eckhart con il Buddhismo zen nipponico.
In tutta questa letteratura, infatti, viene preso in esame un aspetto del platonismo che non si presenta in maniera evidente presso Platone, ma assume invece una sua forma esplicita soltanto nel Neoplatonismo, ed in particolare in Plotino. Si tratta della concezione negativa di Dio che emerse entro una metafisica religiosa in cui si tendeva a sottolineare che l’Uno divino si trova illimitatamente al di sopra dell’essere, e quindi ad esso non può venire attribuita alcuna determinazione o anche qualità. Per questo, quindi, all’intelletto umano Dio appare come una sorta di vero e proprio Nulla. La tradizione filosofico-metafisica che scaturì da questa presa di posizione è stata sempre definita come teologia negativa o anche apofatica, ed è stata così contrapposta alla teologia positiva o anche catafatica. Naturalmente la preoccupazione che ha dominato questa presa di posizione è stata sempre (già dal Neoplatonismo pagano in poi) quella di chiarire le condizioni ed i limiti ai quali va sottomesso l’atto di ascesa che reca infine all’unione con Dio, ossia la cosiddetta unione mistica.
Ed in questo si è subito delineata una grande differenza tra Paganesimo e Cristianesimo.
Il Paganesimo, infatti, concepì questa ascesa come di natura squisitamente conoscitiva. Quindi la considerò come perfettamente alla portata dell’uomo nel corso della sua esistenza terrena ed inoltre di natura specificamente ascensiva (sulla base dello sforzo intellettuale di cui l’uomo per natura è capace). Hadot ha definito questo atto come “ascesa teoretica” (e quindi squisitamente filosofico) ed inoltre Friedländer ne ha riconosciuto la presenza già nel pensiero di Platone.
Il Cristianesimo, invece, ha in gran parte concepito questa ascesa come di natura squisitamente fideistica.
Quindi la considerò come in via di principio affatto alla portata dell’uomo nel corso della sua esistenza (e pertanto possibile per davvero solo dopo la morte fisica), e comunque realizzabile solo per via discensiva, ossia mediante l’offrirsi misericordioso di Dio stesso all’unione (Grazia). Emblematica è stata in questo senso la presa di posizione di Agostino [Giovanni Catapano, Agostino. La Trinità, Bompiani, Milano 2013, I, iv, 8, p. 27-29, II, 1, p. 96-99, IV, xv, 20, p. 291-293, IV, xviii, 24, p. 299-303, XIV, i, 1-3, p. 792-797].
Georges Vallin ha tentato di riassumere queste due prese di posizione, schierandosi però decisamente a favore dell’ascesa teoretica umana a Dio e quindi a favore della via per così dire “gnostica”, ossia conoscitivo-intellettuale e non fideistica [Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012].
Personalmente ho affrontato questo tema in uno specifico articolo [Vincenzo Nuzzo, “Analisi contemplativa del concetto di «conoscenza intellettuale dell’Assoluto divino» – Agostino e Porfirio”, in: http://www.rivistabetile.it/analisi-contemplativa-del-concetto-di-conoscenza-intellettuale-dellassoluto-divino >], ma comunque nella precedente lezione ho chiarito quelli che possono essere i grandi rischi della scelta di questo genere di ascesa. L’ascesa umana conoscitivo-intellettuale ha infatti grandi probabilità di configurare un titanismo anti-teistico. Ed in questo consistè non a caso proprio la polemica che si scatenò tra Porfirio e diversi pensatori cristiani del tempo.

Orbene, come si potrà immediatamente vedere, il platonismo è coinvolto in questa tematica in tutti i modi possibili. A partire da Platone stesso, con culmine nel pensiero neoplatonico pagano, e con sostanziosi riflessi anche nel pensiero neoplatonico cristiano. Del resto, come abbiamo visto nella precedente lezione, questa scuola di pensiero scelse di riconoscere la vera Realtà solo in quella trascendente e quindi anche divina (corrispondente al mondo delle Idee ed ancor più al livello dei più alti Principi dell’essere, culminanti a loro volta nell’Uno). L’atto di ascesa al divino corrispose quindi per il platonismo nella contemplazione immediata del Bene (unito al Vero, al Giusto ed al Bello), a sua volta estremamente prossimo all’Uno divino.
E l’immagine simbolica scelta per sintetizzare tutto questo fu quella solare. Ne nacque quindi già da Platone in poi una vera e propria teologia solare di tipo sostanzialmente apollineo (come ben testimoniato ed illustrato dal Prof. Giovanni Reale). A tutto questo si raccordò poi il neoplatonismo cristiano sostituendo l’Uno-Bene-Sole (Apollo) con il Dio della rivelazione vetero e neotestamentaria.
Ma veniamo ora all’esame di ciò che a tale proposito è possibile dedurre dagli scritti di Hadot ed Inge.
Abbiamo visto nella lezione precedente (sulla base di Hadot) che la grande metamorfosi religiosa del Paganesimo si compì nel pieno di una grande crisi in cui l’individuo, angustiato da un’inquietudine del tutto inusuale per la cultura greco-romana, cominciò a nutrire la grande preoccupazione per la propria personale salvezza. E proprio da ciò nacque l’esigenza di un’ascesa filosofica che recasse fino allo stadio supremo dell’unione al divino. Bisogna dire però che l’intera dottrina e prassi misterico-iniziatica (di tipo orfico-pitagorico e peraltro riletta ed integrata da Platone) aveva già concepito una necessità del genere molto prima che si giungesse a tale crisi storica, e cioè almeno sette-otto secoli prima. L’orfismo stesso condusse a maturazione l’intera dottrina misterico-iniziatica tradizionale greca integrandola con un umanesimo che si incentrava proprio in questa preoccupazione [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004].
Quindi possiamo ben dire che il platonismo (in quanto erede della tradizione orfico-pitagorica) impersonò la necessità di un’ascesa al divino molto prima della crisi storica che incolse la società romana imperiale.
La stessa via filosofica nella sua dimensione più autentica (e cioè nella sua branca esoterica, o “seconda navigazione”) fu per Platone null’altro che lo sforzo di pervenire alla contemplazione del supremo Uno divino [Giovanni Reale, Per una nuova… cit., II, IV-VI, I p.147-213]. Pertanto le circostanze storiche proprie del Neoplatonismo pagano c’entrano qui solo fino ad un certo punto.
Hadot attira comunque la nostra attenzione sul fatto che forse solo nel Neoplatonismo si pervenne ad una teologia sistematica sulla base di questa antica dottrina che ebbe la valenza di una vera e propria “rivelazione” (precisamente la rivelazione platonica). E peraltro, come abbiamo visto nella precedente lezione, si configurò in tal modo una “teologia razionale” sulla base di una metafisica razionalistica che stava in costante concorrenza con la teologia fideistico-teurgica basata sugli Oracoli caldaici. Eppure tale teologia razionale non fu affatto come quella poi sviluppata dal Cristianesimo entro quella Scolastica medievale che scelse non a caso come suo punto di riferimento Aristotele e non Platone. Pertanto entro questa teologia metafisica razionale a base platonica c’erano già tutte le premesse della teologia negativa (o apofatismo) che di lì a poco avrebbe fatto irruzione nel pensiero con la visione di Dionigi l’Areopagita.
E che poi si sarebbe perpetuata, lungo la falsariga della linea platonica dei pensatori cristiani, passando per filosofi come Scoto Eriugena ed Eckhart.
È dunque per questa via che giungiamo allo scenario delineato da Inge, e cioè quello di un platonismo cristiano che da un lato stava in ininterrotta continuità con quello pagano e dall’altro lato riproponeva in pieno Cristianesimo (per alcuni aspetti addirittura in maniera anche contraddittoria e poco accettabile) gli elementi tipici della metafisica religiosa pagana.
E quest’ultima aveva il suo nucleo in Plotino in quanto sostenitore di un Uno divino che era da considerare di fatto un Nulla. Riprenderemo questo tema nella prossima lezione sulla base degli articoli di Vianello e della Bouso. Plotino fu insomma il nucleo (ed anche il punto di partenza) di un platonismo entro il quale era imprescindibile una considerazione «negativa» dell’Uno divino. E pertanto sulla base del suo pensiero poteva venire concepita solo una teologia negativa o apofatica. Inge ci mostra peraltro come Agostino si sia attenuto sostanzialmente proprio alla visione di Plotino. E quindi, sebbene l’Ipponate si sia opposto energicamente ad un’ascesa teoretica al divino concepita sul modello pagano, è evidente che la teologia negativa era presente nel suo pensiero già prima di quello di Dionigi l’Areopagita.
Quest’ultimo però fu indubbiamente il pensatore cristiano che (insieme ad Eckhart) si espresse in maniera più esplicita a favore della teologia negativa o apofatica. Secondo il suo punto di vista, insomma, a Dio si può pervenire solo per la famosa “via negationis”, e cioè tenendo presente non «ciò che Dio è» ma invece soltanto «tutto ciò che Dio non è».
Vedremo (nella prossima lezione) che Vianello e Bouso erigono su questo una teoria inaccettabile di ciò che fu il platonismo cristiano così come venne esposto da Eckhart. Ma comunque è evidente che il Cristianesimo fece suoi i tratti portanti di una visione metafisico-religiosa platonico-plotiniana che definì in maniera molto limitativa l’atto di ascesa mistica a Dio e quindi l’atto dell’unione mistica. A tale proposito è del tutto secondaria la questione dell’ascesa umana in vita (secondo la tradizione misterico-iniziatica) oppure della discesa divina e dell’unione a Dio prevalentemente posteriore alla morte fisica. Il punto fondamentale è invece che Dio può venire colto (o addirittura raggiunto, com’è costantemente avvenuto nell’esperienza mistica di tutte le religioni) solo se si evita di considerarlo alla stregua di un Ente.
Ma per poter concepire questo è assolutamente necessaria quella metafisica platonica che Inge stesso condanna in quanto protagonista di una visione che attribuisce la piena onticità al mondo delle Idee, e così svaluta totalmente la realtà del mondo sensibile. Solo sulla base di questa visione è infatti possibile concepire un atto di ascesa a Dio che (almeno tendenzialmente) è in grado di superare lo jato incolmabile esistente tra il mondo trascendente ed il mondo immanente. Non a caso, allorquando la questione fu ripresa nel pieno di una metafisica di stampo aristotelico e quindi immanentistica (ossia entro la teologia scolastica specie di Tommaso d’Aquino), si cominciò a dire che era possibile ed accettabile unicamente una teologia positiva (o a catafatica) [Tommaso d’Aquino, La conoscenza di Dio, Fabbri, Milano 2004]. La quale si basa poi sulle caratteristiche di un Dio oggettivamente ineffabile, delle quali noi veniamo informati unicamente per mezzo della Rivelazione, ossia per mezzo di una via di fede ed affatto invece intellettuale. Ed allora si cominciò a pensare che l’unica via a Dio fosse quella di una teologia positiva (o razionale) – entro la quale Dio si presenta per davvero alla stregua di un Ente −, nel mentre invece la via della teologia negativa è nei fatti del tutto impraticabile. Il che ebbe come conseguenza la necessità di concepire la fine della teologia positiva come barriera invalicabile oltre la quale all’uomo non è assolutamente possibile procedere. Si tratta insomma dell’estrema extrapolazione della prudenza che era stata consigliata da Agostino in polemica con i teorici pagani dell’ascesa teoretica (specie Porfirio).
Detto questo appare quindi chiaro quanto intimamente legato sia sempre stato il platonismo a quella che definiamo come teologia negativa o apofatica. E siccome le premesse di quest’ultima vennero poste nel Neoplatonismo pagano, è evidente che una visione come quella di Dionigi ed Eckhart si pose inevitabilmente in continuità con tali premesse.

Dunque cosa possiamo concludere da tutto questo?
Come sempre mi sento obbligato a pormi qui il problema del possibile riscontro pratico di questa complessiva problematica. In che modo, insomma, essa tocca l’esperienza quotidiana dell’uomo comune?
È evidente che ciò può avvenire solo e soltanto se quest’ultimo ha delle preoccupazioni religiose, ossia se ha intenzione di includere l’esperienza religiosa entro le attività che svolge nel corso della sua esistenza.
Si tratta insomma del se questo uomo sia o meno un homo religiosus.
Se non lo è, allora il problema non si pone affatto, e quindi quest’intera lezione può venire anche tranquillamente ignorata. Se invece lo è, allora, questo genere di uomo dovrà preoccuparsi di gettare almeno uno sguardo sulla visione platonica. In sua assenza, infatti, molto difficilmente gli potrà riuscire anche solo di immaginare un’esperienza religiosa che possa toccare il divino (sebbene solo come ipotesi) a livello immanente.
E qui veniamo alle considerazioni che farò nella prossima lezione (ventiquattresima). Vedremo infatti che proprio il platonismo è quel tratto del pensiero di Eckhart che, una volta eliminato, fa sì che la teologia negativa debba essere considerata alla stregua di un autentico nichilismo. In tale contesto, cioè, la considerazione negativa dell’Uno divino si traduce infine in una teoria complessiva dell’«essere-in-quanto-Nulla». E come vedremo ciò ha come inevitabile conseguenza il dover concepire l’esperienza religiosa come unicamente immanente, mondana, secolare e temporale. In essa insomma svanisce totalmente la presenza immanente di un Dio Trascendente.
Ebbene, proprio a tale proposito tocchiamo il punto più scottante dell’esperienza religiosa dell’uomo comune (prima ancora che del mistico) – Cos’è questa esperienza religiosa? Cosa accade veramente in essa? In essa si tocca per davvero carnalmente e letteralmente il divino, oppure lo si fa solo per via formale e metaforica?
Sono domande davvero terribili. Perché la risposta in esse è contraddittoria e fallimentare per definizione.
Essa sta infatti solo e soltanto nella fede, e cioè in quella premessa pregiudiziale che deve essere anche risposta alla domanda. Insomma io devo fermamente credere che, nel corso dell’esperienza religiosa, tocco realmente Dio sebbene di esso non vi sia alcuna traccia sensibile. Ed è realmente una cosa da pazzi.
In ogni caso il platonismo ci viene qui non poco in soccorso. E ciò avviene perché esso ci abitua a pensare che le apparenze sensibili non coincidono affatto con l’effettiva realtà ma invece ne sono appena delle vaghe ombre. Siamo qui esattamente al cospetto del mito platonico della caverna. E siamo inoltre anche al cospetto di quella dottrina trascendentista della Realtà che Inge condanna senza mezzi termini.
Eppure Platone ci offre la possibilità di concepire chiaramente le cose sensibili come mere immagini (o ombre) delle vere cose, cioè quelle trascendenti. Del resto in questo senso non si esprime solo chi crede nel Platone religioso ed esoterico [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004], ma anche chi lo interpreta in maniera molto più sobria [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. In termini strettamente filosofici ciò significa che il pensatore ateniese è stato un teorico delle “forme” molto prima della Scolastica medievale. Ma in termini molto più pratici ciò significa che Platone ci permette di considerare come assolutamente reale ciò che intanto è assolutamennte invisibile ed intangibile, ossia è ben aldilà del sensibile. E questo è esattamente il Dio che noi possiamo «toccare» nel corso dell’esperienza religiosa. Lo dice in maniera chiarissima Guardini nel suo splendido libro sulla preghiera [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, II, 10 p. 81-89]. Dio è l’Essere stesso in tutta la sua incontestabile evidenza proprio in quanto noi ci troviamo così immersi in esso da non poterlo assolutamente vedere. Ma del resto parla in questo senso anche quell’episodio evangelico in cui Gesù, apparso nella tempesta come un fantasma, chiede a Pietro di camminare sulle acque per raggiungerlo e toccarlo con mano. È evidente che per fare questo non è possibile non dover superare un vero e proprio abisso – è esattamente l’abisso che separa il sensibile dal sovra-sensibile.
Ebbene in questo sente di poter e dover credere l’homo religiosus. Egli sa bene (se non è appena un superstizioso, un idolatra ed un beghino) di star facendo in tal modo una scommessa terribile. Dato che è ben possibile che essa possa venire persa. Eppure sa anche di non avere altra scelta che credere in questa presenza, in assenza della quale il mondo diviene qualcosa di oggettivamente intollerabile. E ciò ci riporta a quanto ho già detto nella lezione sulla relazione tra platonismo e Gnosi.
In ogni caso (per quanto la dottrina platonica della Realtà possa a buon diritto venire contestata, e peraltro proprio da parte cristiana) proprio il platonismo è ciò che ci permette di rivolgerci a Dio come ad una Persona, ossia come un «vivente-nel-mondo». Osando perfino spingerci fino a chiedergli aiuto nelle nostre faccende esistenziali concrete. E questo viene ancora una volta confermato puntualmente da Guardini [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 11 p. 66-76, V, 10 p. 444-452, VI, 1 p. 489-497, VI, 2 p. 497-504].
È vero che questo può anche venire considerato idolatria. Ma intanto è anche vero che (come vedremo nella prossima lezione), se si abolisce questo aspetto dell’esperienza religiosa (il misterioso contatto immanente con un Dio che intanto resta trascendente), allora non resterà che una religiosità meramente immanentista, secolarista e mondanista. Ed in quest’ultima Dio è di fatto solo un grande assente. Quindi si può dire quello che si vuole (invocando l’autenticità di una religiosità immanentista pienamente espressa dalla prassi buddhista), ma intanto di questo genere di religiosità l’uomo comune (cioè tutti noi) davvero non sa che farsene.

Non avevamo mai affrontato finora in maniera diretta una specifica scuola di pensiero, e qui si tratta in particolare del platonismo. Ma perché farlo se ho detto più volte che intendo dedicare queste lezioni a quanto della filosofia può davvero interessare l’uomo che si limita a vivere la sua esistenza quotidiana? Interessarsi del platonismo può aggiungere qualcosa di utile alla vita che viviamo ogni giorno ed ai problemi che in essa siamo chiamati ad affrontare? Mi riferisco in special modo a ciò che abbiamo discusso nelle lezioni dedicate ai fenomeni della nascita-esistenza-morte.
Bene. Il platonismo è stato ed è senz’altro una delle scuole di pensiero più sofisticate dal punto di vista filosofico. Non a caso esso non si è mai limitato alla sola visione del suo fondatore, Platone, ma si è esteso in ogni possibile direzione assumendo così nel tempo ogni possibile valenza – dalle valenze più prossime alla metafisica religiosa, all’esoterismo ed alla mistica, fino alle valenze più prossime alla scienza rigorosa, come la logica, la filosofia della coscienza (entro la quale rientra anche la Fenomenologia husserliana), la teoria della conoscenza, la filosofia della scienza (epistemologia), la filosofia della matematica e la filosofia della mente. Anzi se si getta uno sguardo sulle teorie filosofiche che negli ultimi due secoli si sono presentate come “platoniche” si resterà stupiti del fatto che del pensiero di Platone sembra non resti in essa se non una traccia molto debole e lontana [L. J. Boch, “Platonism and its relation to modern though”, The Speculative J. of. Philosophy, 19 (1) 1885, 33-52; Paul Natorp, “Platons Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Berlin : Holzinger 2013; John E. Jalbert, “Husserl’s Position Between Dilthey and the Windelband-Rickert School of Neo-Kantianism”, Journal of History Philosophy, 6 (2) 1988, 279-296; Francisco Gonzales, “Dialectic as ‘philosophical embarassement’ : Heidegger’s critique to Plato’s method”, Journal of the History of Philosophy, 40 (3) 2002, 361-389; Nishida Kitarō, John W.M. Krummel, “The issue of consciousness”, Philosophy East and West, 62 (1) 2012, 44-51; Robert Arp, “The pragmatic value of Frege’s Platonism for the pragmatist”, The Journal of Speculative Philosophy, 19 (1) 2005, 22-41; Guillermo E. Rosado Haddock, “Why and how Platonism?”, Logic Journal of IGPL, 15 (5-6) 2007, 621-636 (2007) ; Guillermo E. Rosado Haddock “Husserl’s epistemology of mathematics and the foundation of platonism in mathematics”, Human Studies, 4, 1987, 81-102]. Qui, infatti, il pensiero platonico viene preso in considerazione solo nel contesto di questioni gnoseologiche ed epistemologiche, ignorando così totalmente la sua dimensione metafisica, metafisico-religiosa, mistica ed esoterica. Emblematiche in tal senso sono le teorie filosofiche specialistiche a base vagamente platonica che sono state sviluppate da alcuni degli Autori citati (Natorp, Frege, Husserl, Lotze etc.) Nel mio saggio dedicato al pensatore ateniese ho parlato a tale proposito di un evidente e molto deleterio “riduzionismo” [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. Tuttavia, persino quando Platone viene preso in considerazione per questioni non scientifico-rigorose, come ad esempio per l’etica, il suo pensiero viene comunque assoggettato ad un notevole riduzionismo [Jyl Gentzler, “How to know the Good. The moral Epistemology of Plato’s Republic”, The Philosophical Revue, 114 (4) 2005, 469-496]. In questo articolo, infatti, l’Autore (Gentzler) nega addirittura quello che è il tratto più tipico del pensiero platonico, e cioè la postulazione di un’intuizione immediata di entità etiche trascendenti ed oggettive (l’Idea di Bene) da parte della mente (o meglio anima) umana.
Inoltre va tenuto presente che in una qualche misura il platonismo può venire considerato il prototipo di quella presa di posizione idealistica che abbiamo esaminato nella seconda e nella diciassettesima lezione.
In verità, comunque, ritengo che la vera natura di questa scuola di pensiero venga descritta in maniera equilibrata quasi solo da uno dei suoi maggiori studiosi, e cioè Gerson [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276].
Insomma, che il platonismo venga interpretato o meno in maniera corretta, certo è che in via di principio esso è troppo complesso, in termini filosofici, per poter interessare l’uomo comune.
Tuttavia è anche vero che le cose non stettero affatto così nell’antichità – almeno fino a quando il platonismo restò in auge pur attraverso continui alti e bassi, e cioè fino all’avvento della famosa seicentesca Scuola di Cambridge. Allora, infatti, il platonismo era una tipica «filosofia di vita», cioè una visione filosofico-metafisica che affrontava le più scottanti questioni in cui l’uomo si imbatte nel corso della sua esistenza.
Ebbene risiede proprio qui, allora, il punto di snodo tra questa scuola di pensiero e la complessiva dottrina antica che fu definita come “Gnosi”. Una dottrina costruita in effetti proprio sull’impianto generale della visione platonica (oltre che orfico-pitagorica); dato che essa postulava la tragica caduta dell’anima umana (in sé di origine pienamente divina) nel mondo, nel tempo e nel corpo. E su questa base essa teorizzò il recupero della dignità divina da parte dell’uomo per mezzo di un atto mistico-religioso di tipo sostanzialmente conoscitivo, ossia il superamento dell’oblio (del tutto simile a quello supposto da Platone entro la dottrina della reminiscenza o anamnesi) della propria natura divina.
Ovviamente tale presa di posizione comportava una considerazione radicalmente negativa di tutto ciò che era «mondo» − il tempo, lo spazio, il corpo, la carne, la soggezione alle leggi della Natura, la mortalità.
Ed inoltre uno dei tratti metafisici di tale dottrina era l’implacabile accusa rivolta al Dio creatore giudaico-cristiano, in quanto supposto responsabile di una nascita carnale che equivaleva alla massima umiliazione dell’uomo. Questo Dio veniva infatti sospettato essere il Serpente stesso sotto mentite spoglie, ossia Colui che aveva tentato di convincere l’uomo a non mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza. E così tale Dio veniva accusato di essere appena una divinità inferiore di tipo demonico, ossia un malefico “Demiurgo”. Anche questa denominazione è chiaramente di origine platonica, sebbene essa fu usata da Platone in senso diametralmente opposto.
Ebbene, in qualche modo la Gnosi non è mai stata archiviata del tutto, sebbene oggi non rientri più nel corrente dibattito filosofico. Possiamo, infatti, ritrovarne i tratti portanti perfino ancora ai giorni nostri in un pensatore come Cioran [E.M. Cioran, Il funesto Demiurgo, Adelphi, Milano 1986]. In questo libro l’Autore sostiene infatti che la nascita è da considerare senza mezzi termini una vera jattura, e quindi ad essa non vi è altro rimedio se non la morte.
Ecco quindi spiegato per quale motivo noi tutti (quali uomini comuni) abbiamo tutte le ragioni per riflettere sulle relazioni esistenti tra platonismo e Gnosi.

Alcuni scritti che ho recentemente letto [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344] mi danno quindi l’occasione di trattare questo teme. Ed esso è per la verità un tema che si presenta ad ogni studioso del platonismo, e cioè appunto il rapporto da sempre esistito tra quest’ultimo e la Gnosi. Tuttavia questo tema è stato trattato nel contesto di una letteratura davvero sconfinata, della quale ho di tanto in tanto richiamato alcune voci nel corso di queste lezioni ma che non posso certamente richiamare in questa lezione.
Al proposito bisogna però tenere presenti due elementi fondamentali di orientamento, che sono poi l’uno l’opposto dell’altro. Da un lato nulla è più lontano dalla Gnosi come lo è il platonismo, dato che la prima dottrina si basa sul mito mentre la seconda sulla ragione. Dall’altro lato invece Platone stesso può venire considerato di fatto uno gnostico (come del resto lo stesso Plotino) in quanto ha posto le Idee (cioè la sostanza intellettuale) non solo come supremo Principio di essere ma inoltre anche come la Realtà stessa.
E questo viene ampiamente attestato da Inge [R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900 p. 328-329].
Detto questo bisogna dire che però questa valenza gnostica del platonismo (e dei suoi principali pensatori) va ammessa in senso molto lato, e cioè solo in quanto tale dottrina costituisce un «onto-intellettualismo» (nel senso che ho appena chiarito). Tuttavia la vera Gnosi pone miticamente al di sopra di ogni cosa l’Intelletto stesso (il Nous) in quanto suprema Realtà ed anche suprema entità divina [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, cit., p. 122-126]. E questo non è assolutamente quanto affermano Platone, Plotino ed ovviamente anche la metafisica cristiana. Insomma solo nella Gnosi l’Intelletto viene identificato con Dio stesso.
In particolare la presa di posizione gnostica è stata tangibilmente presente (come dice Hadot) anche nel pieno del Neoplatonismo pre-cristiano (detto anche «pagano»); nel contesto di quella specifica “rivelazione” (fonte scritturale della riflessione metafisico-religiosa) che fu costituita dagli oracoli caldaici. Ma il Neoplatonismo pre-cristiano ebbe anche un’altra rivelazione, e quest’ultima fu proprio il platonismo stesso, ossia l’intera serie degli scritti di Platone (in particolare la Repubblica, le Leggi, il Timeo, il Fedro e il Parmenide).
E quest’ultima, come abbiamo visto, è da considerare una Rivelazione fortemente impregnata di razionalismo metafisico.
Ecco allora che lo stesso Neoplatonismo pre-cristiano si scinde in due filoni. Il primo filone fu quello di ispirazione platonica, e vide come protagonisti soprattutto Plotino oltre che Proclo – il quale però non mancò di riferirsi anche agli oracoli caldaici [Giovanni Reale, Proclo di Costantinopoli ultimo grande esponente del pensiero greco-pagano, in: Giovanni Reale (a cura di), Proclo. Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005 p. XIII-LIII]. Il secondo filone fu quello di ispirazione gnostico-caldaica, con pensatori come Porfirio ed anche (almeno in parte) Giamblico, Damascio e Numenio.
Il risultato netto di tale bilancio è insomma che il main stream del Neoplatonismo non fu affatto gnostico.
Del resto basti pensare all’impegno che fu profuso da Plotino (non meno di Origene) nel tentare di confutare gli gnostici. E questo vale ovviamente ancor più per Platone, al cui tempo la Gnosi non era nemmeno ancora una presenza dottrinaria.
In ogni caso va precisato che, se in generale è stato sempre ammessa la relazione esistente in generale tra Platone e la Gnosi [Harold Tarant, Gnosticism, in: Richard H. Popkin (Ed.), The Columbia History of Western Philosophy, Columbia University Press, New York, 1999, I p. 100-102; Birger A. Pearson, “Gnosticism and Platonism: with special reference to Marsanes (NHC 10,1)”, The Harward Theological Review, 77 (1) 1984, 55-72; Vladimir Kharlanov, Clement of Alexandria on trinitarian and metaphysical relationality in the context of deification, Vladimir Kharlanov (Ed.), Theosis II: Deification in Christian Theology, James Clarke & Co., 2012, 3 p. 83-99; John D. Turner, “The gnostic sethians and middle Platonism: interpretation of the ‘Timaeus’ and ‘Parmenides’”, Vigilia Christianae, 60 (1) 2006, 9-64; R. Van den Boeck, “The present state of gnostic studies”, Vigilia Christianae, 37 (1) 1983, 41-71; Alexej Kanenskikh, “Syzygies in Philo of Alexandria”, Schole, 3 (2) 2009, 445-449], è anche vero che alcuni (come Guardini) hanno chiarito come in verità il pensatore ateniese non sia mai stato in alcun modo uno gnostico [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171]. Guardini, infatti, sostenne che Platone fu propriamente sostenitore di una visione spiritualista e trascendentista dell’essere. Più precisamente la sua equiparazione del mondo ideale con la vera Realtà avrebbe voluto sostenere molto più la sostanziale spiritualità dell’essere che non invece sostenere un dualismo svalutante il mondo immanente.

Ma andiamo più a fondo in tale differenziazione seguendo da vicino la falsariga degli scritti che ho preso in considerazione.
Hadot sottolinea innanzitutto che il platonismo riemerse nella speculazione ellenistica (greco-romana) − dopo la grande e lunga crisi seguita alla morte di Platone − proprio in coincidenza con il nascere del Cristianesimo. Proprio la dottrina platonica, quindi, governò la grande metamorfosi della religiosità romana che si apprestava allora a divenire monoteistica, politica ed imperiale, cioè teocratica e fortemente trascendentista. E ciò avvenne peraltro in perfetta continuità tra Paganesimo e Cristianesimo. In altre parole possiamo dire che il platonismo cristiano nacque esattamente nel seno di un Paganesimo che intanto stava vivendo una grande trasformazione religiosa.
Non bisogna dimenticare però che (come sottolineato sempre da Hadot), oltre che Atene e Roma, forse il principale crogiolo di tale trasformazione fu Alessandria d’Egitto. Città e scuola di pensiero nella quale si fusero inestricabilmente elementi greco-pagani, giudaici, cristiani ed anche gnostici. Il che è stato sottolineato anche da altri studiosi [Paul Carus, “Gnosticism in its relation to Christianity”, The Monist, 8 (4), 1898, 502-546].
Inge chiarisce che la Gnosi costituì però una sorta di indesiderato effetto collaterale (e peraltro anche tardo) di tale scuola di pensiero. E lo stesso Carus sostiene che la Gnosi condannò sé stessa al fallimento a causa dell’eccesso di visionarietà che la contraddistinse. Ma comunque è incontestabile che tale dottrina si intrecciò intimamente con la metafisica platonica pagana e cristiana. Peraltro (come sottolineato da Inge) nel momento in cui il Neoplatonismo pagano aveva raggiunto il suo apice con Plotino, il Neoplatonismo cristiano aveva intanto già cominciato ad esistere da tempo (con pensatori quali Clemente, Giustino, Teofilo, Anassagora). E di lì a poco avrebbe raggiunto esso stesso il suo culmine con pensatori quali Origene e Agostino
Tuttavia la Gnosi emerse appunto da una dimensione piuttosto degenerativa della metamorfosi metafisico-religiosa pagana, e quindi si pose per entrambe le due dottrine in campo (Paganesimo e Cristianesimo) come elemento più di sviluppo negativo (espressione di “crisi”) che non invece positivo. Hadot ci mostra infatti come tale dottrina nacque da un individualismo ripiegato su sé stesso che fu il frutto dell’imminente crollo dello Impero romano, e quindi si pose da un lato come considerazione negativa del mondo e dall’altro come psicologia depressiva e solipsistica (preoccupazione per la “salvezza” individuale, inquietudine personale etc.). Un siffatto atteggiamento non era mai esistito nel mondo-greco romano, e si sviluppò peraltro nel pieno del Paganesimo per diventare solo dopo un elemento tipico del Cristianesimo. Tuttavia fu solo quest’ultimo a schivare le possibili conseguenze negative che la Gnosi avrebbe potuto avere sull’intera metafisica religiosa di quel tempo, e cioè un davvero radicale e perfino distruttivo pessimismo cosmico. Inge, infatti, sottolinea come uno dei fattori causali della vittoria del Cristianesimo sul Paganesimo fu rappresentato proprio dal fatto che solo il primo ingaggiò una violenta lotta contro la Gnosi (in quanto eresia) per poi alla fine avere la meglio. E così si può dire che fu proprio il Cristianesimo a mantenere il platonismo totalmente immune dalla Gnosi come era stato già con Platone. Con quest’ultimo, infatti, il mito venne ammesso ma non riuscì mai a prevalere sulla ragione. E si può pensare che più o meno lo stesso sia accaduto anche entro il platonismo cristiano.
Ecco che allora si delinea in maniera chiara un ulteriore elemento di chiara differenziazione tra platonismo e Gnosi. Ed esso consiste in un dualismo ontologico che però mai scade in radicale disprezzo pessimistico verso il mondo immanente. In particolare, dice Hadot, la complessiva metafisica religiosa platonica si mantenne razionalistica nel concepire l’intera dottrina dell’anima e nel porla inoltre anche in relazione ad una prassi catartica psico-spirituale (riscatto dalla “carne” come via di “salvezza”). La Gnosi invece si occupò dell’anima solo per decretarne e descriverne la caduta in quanto elemento critico e fondamentale dell’intera sua cosmo- ed antropogonia. Possiamo avere la misura di questo nella descrizione dei tragici eventi che caratterizzarono il destino della “Sophia” – una volta appartenente al mondo trascendente e poi trascinata per inganno nel mondo immanente in cui essa subì esattamente il destino dell’anima penosamente imprigionata nel corpo [Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014].
A tutto ciò vi è da aggiungere però anche un elemento di vantaggio della metafisica religiosa pagana rispetto a quella cristiana. E tale elemento chiama di nuovo in causa il platonismo. Sempre Hadot sottolinea infatti che, se la fonte della Rivelazione cristiana fu di fatto solo il mito, invece la fonte della Rivelazione pagana fu multiforme. Esso infatti comprendeva in sè il mito, la specifica tradizione civile (storia della città che risaliva ai primi legislatori-fondatori e per questa via fino all’Origine divina) e inoltre la “legge” quale elemento insieme civile e cosmico. Questi due ultimi elementi possono però venire abbracciati dalla Ragione da intendere in particolare come l’Intelligenza che regge l’intero cosmo a partire da quell’Uno-Dio-Bene che poi è molto prossimo all’Intelletto in quanto entità trascendente (il Nous). E qui Platone (unitamente all’intero platonismo a lui succeduto) esercitò (specie attraverso la Repubblica e le Leggi) il ruolo di una vera e propria fonde rivelazionale. Il platonismo ha quindi sempre avuto insita in sé questa valenza di metafisica religiosa (addirittura con il significato di Rivelazione) unita intimamente alla componente razionalistica. E senz’altro anche il platonismo cristiano si è sempre mantenuto su questa linea.

Tuttavia, se Hadot si sforza di osservare le cose senza prendere posizione (a favore del Paganesimo o del Cristianesimo), Inge (da teologo cristiano) tende a sottolineare molto più i punti a favore he secondo lui sono da assegnare al Cristianesimo. E quindi, proprio in forza di questo, ci mostra il platonismo anche sotto un’angolatura per certi versi critica.
In generale però egli sottolinea che il platonismo fu un prezioso elemento di raccordo tra Paganesimo e Cristianesimo, e quindi ebbe il grande merito di evitare quello scontro frontale tra le due dottrine che avrebbe totalmente vanificato la grande affinità esistente tra di esse nel momento della grande metamorfosi subita dal Paganesimo. Egli ritiene inoltre che in particolare il platonismo cristiano continuò ad esercitare questo ruolo anche dopo il tramonto del Paganesimo, ponendosi come fattore di equilibrio tra Ragione e Fede, e quindi anche come fattore pacificatore, anti-dogmatico e stimolante la tolleranza.
Nel complesso egli sostiene quindi che il platonismo costituì un elemento di vera e propria continuità tra Paganesimo e Cristianesimo. In particolare, però, egli vede nel platonismo cristiano un’aspirazione a Dio come Bene (esattamente sovrapponibile in Plotino ed in Agostino) la quale addirittura sarebbe divenuta poi la vera e propria macchia indelebile che avrebbe reso imbarazzante tale dottrina nel corso dell’intero pensiero cristiano.
Tuttavia, da teologo cristiano, Inge si sente in dovere di criticare e condannare il dualismo platonico in ogni sua forma – sia nella sua versione pagana che in quella cristiana. E così di fatto (almeno da questo punto di vista) egli ri-assimila almeno parzialmente il platonismo stesso alla Gnosi.
Cionondimeno, però (in baso a quello che abbiamo visto poc’anzi), le considerazioni di questo Autore ci mostrano che in ultima analisi non fu affatto gnostico né il Neoplatonismo pagano né quello cristiano.
Il dualismo tipico del platonismo costituisce tuttavia un fattore di disturbo proprio in quanto esso ha rischiato continuamente di risucchiare verso la Gnosi la complessiva metafisica religiosa del tempo. E ciò avviene secondo Inge in relazione ad un particolare elemento, ossia l’opposizione esercitata dal dualismo contro qualunque avvaloramento del mondo immanente specie allorquando esso viene identificato con ciò che è “essere”. Il tratto fondamentale di tale opposizione consiste per l’Autore nell’aver voluto concepire la più vera ed autentica Realtà come quella trascendente che è rappresentata dalle Idee, cioè dalla sostanza intellettuale.
Inge definisce questa tendenza come un eccesso di spiritualità che si traduce nel rifiuto del “materialismo escatologico” tipicamente cristiano, e che include la fede in realtà come l’incarnazione e la resurrezione della carne. Dall’altro lato però lo studioso intravvede nel platonismo anche un contemporaneo curioso difetto di spiritualismo a causa della tendenza ad attribuire una letterale onticità alla sostanza intellettuale trascendente (Idee).
Si tratta così dell’invenzione di sana pianta, da parte del platonismo, di una sorta di strano mondo sensibile trascendente (che addirittura sarebbe l’unico davvero reale). Ma questo secondo Inge può venire spiegato solo come l’artificiosa pretesa di popolarizzare un idealismo filosofico e metafisico-religioso. Cosa comunque impossibile, dato che concetti del genere potevano venire recepiti solo dai saggi (eletti ed aristocratici) e mai invece dalle masse. Le quali non a caso finirono per prestare fede sempre più solo al Cristianesimo.
A questo punto viene però una vera e propria condanna del platonismo cristiano. Dato che quest’ultimo avrebbe preteso di interpretare il “Regno dei Cieli” allo stesso modo della dottrina platonica delle Idee, ossia secondo quello stesso idealismo che l’Autore considera fallimentare per definizione. E così si può bene ipotizzare che il platonismo cristiano sia costantemente restato confitto nel Cristianesimo come una sorta di strano corpo estraneo dottrinario, in cui si sono sempre mescolati intellettualismo élitario e creduloneria superstiziosa.
Ebbene quali conclusioni si possono trarre da tutto questo riguardo al possibile rischio di scivolamento del dualismo platonico nella Gnosi?
La risposta è evidente in base ad un bilancio di tutte le considerazioni svolte da Inge. Egli ritiene infatti che il rischio sussista solo per il platonismo pagano ma per nulla o molto meno per quello cristiano (a meno che esso non indulga a quella visione del Regno dei cieli che ho appena commentato). Ciò significa allora che, nonostante ciò che ci fa vedere Hadot, in realtà il dualismo platonico pre-cristiano (pur non essendo affatto schiavo del mito e pur costituendo una metafisica razionalista) ha sempre corso il rischio di sfociare in una presa di posizione gnostica. E ciò avviene evidentemente proprio a causa di quella visione che scelse costantemente di vedere la Realtà solo nel mondo ideale-trascendente.
Tuttavia bisogna intanto chiedersi se tale dottrina non sia stata metafisico-religiosamente giustificata nonostante il suo rischio di scivolare nella Gnosi. Come si può, infatti, concepire l’essere in maniera metafisico-religiosa senza credere almeno in una certa misura che la vera Realtà è solo quella trascendente? Si tratta insomma della famosa dottrina della Prima e perfetta creazione originaria. Ne abbiamo parlato in alcune lezioni precedenti.
Ebbene a questo punto è vero che il Cristianesimo professò una sorta di tendenziale materialismo metafisico – ossia una dottrina secondo la quale bisogna prendere atto del fatto che il mondo, il corpo e la carne sono quello che sono, ossia non solo sono entità sensibili ma sono anche la realtà nella quale siamo effettivamente immersi. E qui pesa molto un giudizio radicalmente anti-platonico ed anti-idealista, che consiste nell’accusa di sognare quando ci si sforza di relativizzare l’esistenza del mondo sensibile per avvalorare invece l’esistenza del mondo ultra-sensibile.
Ma intanto in fondo a cosa ci si riferisce quando cristianamente si parla del Regno dei Cieli? Ci si riferisce forse al mondo sensibile e corporale-carnale accettato incondizionatamente così com’è? No affatto! Ci si riferisce invece a questo mondo solo nel potenziale di trasfigurazione spirituale che esso contiene in sé grazie all’Incarnazione di Cristo accompagnata dalla Resurrezione. Ci si riferisce quindi a qualcosa che è un «di là da venire», e non invece una realtà «attuale». Anche se vi sono teologi come Guardini che sottolineano con forza la possibilità di una trasfigurazione hic et nunc, e quindi pre-escatologica [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Tuttavia anche in questo caso si tratta pur sempre di una trasfigurazione, e pertanto di qualcosa che ancora non è qui.
Dunque non vi è anche in questo credo qualche traccia del disprezzo gnostico per il mondo? Ed allora è proprio vero che il Cristianesimo ha cancellato totalmente in sé stesso quella commistione con la Gnosi della quale restò invece vittima il Paganesimo? Insomma è veramente difficile non nutrire dubbi in tal senso. E del resto vi è chi ha affermato che la mistica (di qualunque tipo, inclusa quella cristiana) è sempre “gnostica” per definizione [Fernando José Da Silva Monteiro, “Meister Eckhart e a gnose mística”, Problemata, 6 (2) 2014, 346-360].
Quindi è opinabile che se la Gnosi è lontanissima dalla prassi religiosa ordinaria, essa non lo è poi così tanto allorquando ci si sposta verso il campo della mistica, ossia quella prassi che punta al vissuto diretto e non indiretto di Dio (unione mistica).
Ebbene allora il tipico dualismo platonico si offre qui come un elemento tendenzialmente «negativo» ma dalla portata in definitiva «positiva» in termini metafisico-religiosi. Esso insomma finisce per avere un valore proprio in quanto comporta il costante rischio di scivolamento verso la Gnosi.
A questo punto bisogna però sottolineare che la Gnosi è una dottrina che deve sempre venire maneggiata con molta prudenza. In essa è infatti fortemente incline a concepire in modo titanistico se non demonico l’ascesa umana verso Dio, ossia appunto l’unione mistica. Questo può venire dedotto anche dallo stesso Hadot, il quale sottolinea come in Plotino stesso (così come in tutto il Neoplatonismo pagano) l’ascesa a Dio venne intesa come una prassi inscritta totalmente entro l’esistenza carnale e mondana, ossia la prassi misterico-iniziatica [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, cit. p. 119-122]. E lo stesso viene sottolineato in uno degli articoli che discuteremo a proposito dei nuovi studi che si propongono di assimilare Meister Eckhart al Buddhismo zen − l’ascesi che reca all’unione mistica dovrebbe venire intesa come pienamente inscritta nella vita terrena, e quindi come “azione” invece che come “contemplazione” [Raquel Bouso, “Action et contemplation: sur une lecture eckhartienne de Shizuteru Ueda”, Théologique, 20 (1-2) 2012, 1 p. 314-321].
Se però teniamo conto di quanto dice Florenskij [Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 2014], ci rendiamo immediatamente conto degli immensi rischi connessi con un’ascesi a Dio concepita in tal modo. Proprio nell’atto ascensivo umano, infatti, tendono a presentarsi entità spirituali della cui vera identità divina non si può essere assolutamente certi. E quindi è molto più prudente attendere umilmente che il divino si manifesti a noi discensivamente, e cioè per Grazia. Di tutto questo ho comunque parlato diffusamente nel mio saggio dedicato alla “Sophia” [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017].

Per concludere possiamo quindi dire che basicamente il platonismo è da considerare come distinto dalla Gnosi sia nella sua versione pagana che nella sua versione cristiana. Tuttavia esso mantiene con la Gnosi stessa delle relazioni che vanno anche oltre l’ovvio argomento dell’attribuzione di piena onticità alla sostanza intellettuale.
Infine si può ben sostenere che il platonismo cristiano (data la sua ininterrotta continuità con quello pagano) è stato sempre almeno tendenzialmente prossimo ad alcuni aspetti della Gnosi. Ciò avviene senz’altro per l’intermediazione del classico dualismo platonico. E quest’ultimo comporta quindi inevitabilmente una certa svalorizzazione del mondo così com’esso si presenta sensibilmente.
Del resto bisogna dire che è quasi impossibile condurre una vita religiosa se intanto non si coltiva una certa distanza dal mondo sensibile con tutte le sue dolcissime promesse e tutte le sue amarissime disillusioni. A questo punto, quindi, se l’homo religiosus non è in una qualche misura pessimista al modo degli gnostici, finisce per essere non solo ingenuo ma anche alla fine non troppo credente come invece dovrebbe essere.

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Non vi è forse nessun concetto che distingua più nettamente la filosofia moderna da quella antica come lo fa il concetto di Spirito. Tuttavia ciò avviene in negativo.
Ricordo ancora la passione con la quale affrontai molto anni fa il testo di Dilthey dedicato a questo tema [Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Bompiani, Milano 2007], per poi restare spaventosamente deluso dopo solo una decina di pagine dall’inizio della lettura. Lo Spirito come lo intendeva il pensatore tedesco non era affatto quello come lo avevo sempre inteso io (spontaneamente ed inoltre per formazione cristiana). Ebbene, in quella fase di letture filosofiche avide ma disordinate e ingenue, ciò iniziò a farmi comprendere molto presto quanto la disciplina che avevo sempre amato (la filosofia) era ormai molto diversa da quella che veniva praticata ormai da almeno due secoli. Non a caso la nostra preparazione liceale in filosofia, dopo essersi soffermata prevalentemente sul pensiero antico, aveva avuto il suo culmine in Kant e poi aveva sorvolato piuttosto rapidamente su tutti i filosofi successivi arrestandosi più o meno proprio nei paraggi di Dilthey (una lettura che proprio per questo da allora in poi avevo sempre sognato di fare). Ma poi ancora dopo, riprendendo in tarda età a studiare filosofia per mezzo del mio dottorato, ho vissuto una delusione non minore nell’approfondire il pensiero di Husserl (a margine dei miei studi su Edith Stein). Il concetto husserliano di Spirito non era infatti molto diverso da quello di Dilthey. A questo punto manca soltanto di menzionare Hegel. Ma confesso senza alcuna vergogna che proprio per questo motivo mi sono sempre rifiutato di leggere i suoi testi, limitandomi così a sapere di lui appena quanto si apprende nei manuali liceali ed in alcuni saggi che ne ricordano il pensiero.
Insomma ciò che da sempre l’uomo comune ha inteso come «spirito» non è affatto ciò che con questo termine (e concetto) è stato e viene inteso dalla filosofia moderna. E tale intendimento distingue quest’ultima non solo dalla filosofia antica ma soprattutto appunto dall’uso linguistico e concettuale dell’uomo comune. Il più spontaneo, usuale e tradizionale intendimento del termine è infatti quello di un’entità che l’esatto opposto della Materia. Non a caso, dopo lunghi anni di riflessione primariamente fenomenologico-husserliana, la Stein stessa approdò alla fine proprio a questo così tradizionale ed antiquato concetto di Spirito [Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 26, i-j p. 380-386]. Concetto che è poi quello più esplicitamente religioso e quindi anche cristiano.
Di fatto, insomma, la filosofia moderna ha iniziato a identificare lo Spirito sia con la Ragione che con l’Io auto-cosciente e conoscente stesso; ed infine anche con il mondo di prodotti della Ragione umana, ossia l’edificio della Cultura. E non vi è dubbio che anche la responsabilità di questo fenomeno vada attribuita a Cartesio. Ma, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, tale intendimento moderno del termine si è prolungato ben oltre la visione del pensatore francese pervenendo così fino ad alcuni filosofi dei quali ho parlato molto spesso, e cioè appunto Husserl e Edith Stein. Forse solo in Kant non si trova traccia del termine, ma si tratta di un’eccezione. E del resto Kant risente in un indebolimento progressivo del concetto di Spirito che si era già manifestato perfino in pensatori molto pronunciatamente metafisici come Leibniz. Quest’ultimo infatti fu uno degli esponenti di spicco di quella metafisica che giustamente Scheler avrebbe poi definito come assolutamente inconciliabile con la religione [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018].
Sta di fatto però che, dopo Kant, il concetto di Spirito assunse con Hegel un ruolo di assoluto primo piano, e proprio in quanto Ragione ed Io. Intanto due pensatori e studiosi del nostro tempo hanno tracciato una storia del pensiero post-hegeliano, mostrandoci il proseguire di tale percorso fin nel pieno del XX secolo nella forma dello “spiritualismo” sviluppatosi in Francia nel contesto della rivista “Esprít” – che vide attivi pensatori come Blondel ed altri [Michele Federico Sciacca, Filosofia e Metafisica, L’Epos, Palermo 2002; Alberto Caturelli, Michele Federico Sciacca, Ares, Milano 2008]. E non dev’essere un caso che proprio in tale contesto iniziò a svilupparsi quel personalismo francese (rappresentato da Mounier, Peguy ed altri) che poi recentemente ha avuto il suo culmine in filosofi come Ricoeur e Guardini, e che intanto aveva messo l’accento sul concetto di unicità irripetibile dell’individuo umano. Il pensiero di Edith Stein si era intanto mosso in una sfera filosofica per certi versi molto prossima a quella qui descritta (sviluppando il concetto di unicità personale, accanto ad un intendimento fortemente spirituale dell’Io ed anche del mondo con il quale l’Io sta in relazione). Si veda per questo la sedicesima lezione dedicata all’uomo. In ogni caso la pensatrice tedesca (in continuità con Husserl) può venire considerata uno dei protagonisti della visione che riconosce l’intima relazione esistente tra Spirito trascendente (Io umano) e Spirito immanente (mondo).
La pensatrice distinse al proposito uno Spirito soggettivo ed uno Spirito oggettivo (in intima relazione tra di loro specie per mezzo del vissuto delle cose in quanto valori), ed infine identificò poco a poco quest’ultimo come il Logos cristico obiettivato nel mondo, ossia come una sorta di ”ontologia cristocentrica” [Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, 5,2-3, p. 106-118, II, I, 2, p. 182-184, II, 2, 1-4 p.217-309, “Osservazioni conclusive”, p. 312-327Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 1-4, p. 18-26, II, III, 2-3, p. 30-32, VII, II, 1-3, p. 78-92, VII, III, 1-4, p. 103-127; Edith Stein, Potenza … cit., II, 1-3 p. 72-90; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VIII, 3,1-3, p. 422-439].
Di questo però parleremo più avanti.
Sta di fatto però che − anticipato dai corrosivi aforismi di Nietzsche – il percorso successivo della filosofia moderna ha decisamente sorpassato, surclassato ed eclissato il concetto di Spirito. Ed in tal modo oggi assolutamente impensabile che un filosofo parli di «spirito». Infatti risulta addirittura ridicolo il considerarlo come il polo opposto della Materia (spiritualismo metafisico) e lo stesso considerarlo come l’equivalente della Ragione e dell’Io auto-cosciente e conoscente (spiritualismo filosofico). Ma soprattutto risulta ridicolo tematizzare la sua esistenza in quanto entità ontologica. Ecco che lo Spirito viene oggi considerato come una mera invenzione della religione e della metafisica, e quindi come un concetto da usare in maniera al massimo metafisica e comunque di interesse unicamente storico e non più invece affatto filosofico.
In parole molto semplici, insomma, oggi per il filosofo parlare di «spirito» non significa più assolutamente nulla e non ha più alcun senso.

Dunque è del tutto vano rivolgersi ai pensatori più o meno attuali per trovare una discussione del concetto e termine «spirito». Vano è allo stesso modo rivolgersi al pensiero moderno antecedente, e cioè quello che prese le mosse da Cartesio. Infatti ancora oggi quando noi uomini comuni (da non filosofi militanti) rivolgiamo la nostra attenzione allo Spirito, lo facciamo attendendoci di ritrovare qualcosa di diverso dalla Ragione e dall’Io. Ci aspettiamo insomma di ritrovare qualcosa di molto simile a quanto è presente nel pensiero autenticamente metafisico (in gran parte antico) ed ancor più negli scritti di un po’ tutte le religioni del mondo, incluse quelle non monoteistiche e perfino animiste. Anzi forse proprio in queste ultime il concetto di Spirito ha il suo significato più forte (ed anche provocatorio), ossia quello della sottilissima e misteriosa sostanza quintessenziale che impregna di sé tutto l’universo. Mi riferisco ad esempio al concetto di “Great Spirit” che era comune presso gli indiani del Nord America – e che uno studioso canadese ha recentemente considerato come possibile termine di paragone dell’ontologia cristocentrica sviluppata dalla Stein.
Pertanto anche rispetto a questo tema filosofico, noi non abbiamo alcuna scelta e dobbiamo quindi rivolgerci a sfere di pensiero radicalmente diverse dalla filosofia moderna. Sostanzialmente di tratta dei seguenti ambiti: − 1) quello dell’antica filosofia metafisica; 2) quello religioso (corrispondente a vari generi di Sacre Scritture planetarie); 3) quello «esoterico-sapienziale» nel senso più lato del termine.
E quest’ultima sfera di conoscenza unisce in sé molti testi religiosi (unitamente ai commentari filosofico-metafisici sviluppatisi nel tempo su di essi) ed inoltre anche quel vasto campo di recenti studi su questo materiale che vengono usualmente definiti come “tradizionali” (vedi lezione diciannovesima). I testi religiosi (e relativi commentari) ai quali qui mi riferisco includono una vasta ed eterogenea gamma di tradizioni religiose e metafisico-religiose sia occidentali che orientali – testi mitico-misterici orfico-pitagorici, testi mitico-misterici caldaici ed egizi (Corpus Hermeticum), scritti mazdeico-avestici, scritti cabbalistici, Veda, Upanishad, Bhagavādgīta, Zohar etc.
E bisogna dire che, a parte una certa differenza esistente tra Occidente e Oriente, in tutti questi scritti il concetto di Spirito è praticamente sempre quello che abbiamo indicato, e cioè quello di significato specificamente religioso. In quanto entità ontologicamente opposta rispetto alla Materia, lo Spirito sta dunque a designare l’entità divina stessa nella sua abissale distanza rispetto a tutto ciò che è mondano.
Ma in questo intero contesto l’uomo è stato sempre inteso come una sorta di intermedio tra le due opposte dimensioni, e cioè tra divino-spirituale e mondano-materiale. Per questo l’uomo è stato sempre inteso come uno Spirito immerso nella realtà mondano-materiale (e quindi corporale). Tale intendimento sostanzialmente esoterico è stato poi fatto proprio un po’ da tutti i testi religiosi designati come Sacre Scritture rivelate ai quali si riferiscono i grandi Monoteismi.
Il che significa, quindi, che la filosofia moderna stessa (a partire da Cartesio in poi) ha raccolto esattamente tale eredità metafisico-religiosa (e per certi versi perfino esoterico-sapienziale ed animistica) del concetto di «spirito». Lo ha fatto però fin dall’inizio con un intento fortemente riduzionistico che era incentrato su due fondamentali istanze: − 1) elidere le valenze più ontologiche dello Spirito per conservare solo quelle gnoseologiche; 2) cancellare sempre più la presenza divina (prima costantemente intravista tra le maglie dell’uomo inteso come Spirito) per identificare infine lo Spirito con il solo essere umano.
Ed esattamente in quest’ultimo assetto noi troviamo l’intendimento filosofico di Spirito da Hegel in poi (inclusi anche gli antecedenti leibniziani). In Cartesio invece le cose non stavano ancora affatto così, data l’evidente persistenza presso di lui di una metafisica religiosa (vedi quinta lezione).

Ebbene in tal modo si delinea un elemento chiave per la trattazione dello Spirito che intendo fare in questa lezione, e cioè l’elemento ontologico, che d’ora in poi possiamo definire come «onto-spirituale». E tale elemento a sua volta corrisponde ad una «esserità» (o più precisamente «onticità») dello Spirito che per molti versi sconfina addirittura in una sua tendenziale materialità e corporalità. Riprenderemo questo tema parlando della «corporalità spirituale».
In ogni caso l’isolamento dell’elemento onto-spirituale ci permette di selezionare meglio ciò di cui possiamo trattare e ciò di cui non possiamo trattare nel corso di questa lezione. Già da tutto ciò che ho detto finora appare infatti evidente che il tema «spirito» offre materiale per una trattazione che sicuramente equivarrebbe ad un trattato di storia della filosofia. E non è certo questo che possiamo fare qui. Abbiamo intanto visto che possiamo piuttosto agevolmente escludere l’intera filosofia moderna. Ma che fare con quella antica, che di certo non è meno ponderosa di quella moderna? È evidente che nemmeno di quest’ultima possiamo qui trattare in maniera sistematica. Potrò quindi limitarmi solo ad alcuni accenni in tal senso. Tuttavia abbiamo a disposizione almeno alcune direttrici tematiche sulle quali lavorare. E proverò qui ad anticiparle prima di poterle sviluppare. La prima direttrice è quella della relazione tra dimensione onto-spirituale («esserità» dello Spirito) e dimensione onto-intellettuale («esserità» dell’Intelletto). E la seconda direttrice è quella della relazione tra Spirito trascendente e Spirito immanente.
Innanzitutto la dimensione onto-spirituale esclude quella gnoseologica ed epistemologica ma intanto anche le richiama. Per cui, accanto alla Spirito come Essere si delinea senz’altro anche lo Spirito come Conoscenza, e quindi nuovamente ci ritroviamo di fronte alla realtà dell’Intelletto (vedi ventesima lezione). Sta di fatto però che, proprio a causa della prevalenza della dimensione onto-spirituale (entro l’antica metafisica filosofica, entro le varie religioni ed anche entro gli scritti esoterico-sapienziali), in questa sfera di pensiero l’Intelletto è stato sempre concepito nella sua valenza ontica. Ed ecco che allora noi ci ritroviamo di fronte a quella dimensione «onto-intellettuale» dello Spirito che appare essere inseparabile dalla dimensione onto-spirituale. Ciò significa, quindi, che (almeno secondo questo genere di antica metafisica) lo Spirito è intanto Conoscenza in quanto è nello stesso tempo anche Essere. E per comprendere meglio cosa va inteso con questo dobbiamo rifarci a quanto abbiamo visto in diverse delle lezioni precedenti, ossia all’equivalenza tendenziale tra Idea e cosa. Ma di questo parleremo più avanti.
In secondo luogo il concetto tradizionale di Spirito evidenzia immediatamente due dimensioni, e cioè quella trascendente e quella immanente. La prima corrisponde alla dimensione divina mentre la seconda corrisponde alla dimensione mondano-materiale. Infine la prima corrisponde genericamente alla dimensione soggettuale mentre la seconda corrisponde genericamente alla dimensione oggettuale. Laddove poi quest’ultima equivale più o meno al mondo in quanto realtà spirituale, ovvero ciò che spesso viene definito come «spirito oggettivo».

Prima di entrare però nel merito di questa trattazione, vorrei fare un breve percorso a volo d’uccello sulla filosofia antica che ha trattato per davvero dello Spirito. Il che è di per sé estremamente controverso, dato che il concetto e termine era di fatto assente nel pensiero pre-cristiano occidentale.
Il problema diviene infatti delicato già con Platone, dato che non pochi critici si sono chiesti se nel suo pensiero vi sia stata o meno la nozione di spirito. Secondo alcuni sì [Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 1 p. 78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 p. 149-155, II, I, V, I p. 174-183;Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171], secondo altri invece no. Anzi per questi ultimi sarebbe iniziata proprio con Platone la tradizione filosofica di identificare lo Spirito con la Ragione. Il che poi significa anche dover considerare il pensatore ateniese come il protagonista di una visione incentrata sul più rigoroso razionalismo, e quindi lontanissima dalla metafisica ed ancor più dalla metafisica religiosa.
Ma a questo punto entrano in gioco di nuovo i critici che ammettono la presenza del concetto di Spirito nel pensiero di Platone. La maggior parte di costoro infatti ammette senza alcuna difficoltà che egli sia stato un pensatore metafisico-religioso; e qualcuno lo ha ritenuto addirittura estremamente affine al Cristianesimo, mantenendosi così sulla scia di un’idea agostiniana [Werner Beierwaltes, Deus est Esse – Esse est Deus, in: Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, p. 3-9; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto platonico, in: Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, p. 257-293; Endre von Ivánka, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964; Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? p. 55-75; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates… cit. p. 260-279; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 10-14 p. 87-91, I, 2-5 p. 107-111].
Dunque proprio quest’ultimo deve essere un elemento chiave per l’attribuzione a Platone di un concetto di Spirito. Infatti il non considerarlo un pensatore metafisico-religioso ci costringe di fatto o a negare che tale concetto sia stato presente nel suo pensiero, oppure che esso abbia avuto appena lo stesso significato di Ragione che esso ha avuto da Cartesio in poi. In ogni caso sono molteplici i punti di abbordaggio per delineare in Platone un concetto di Spirito che abbia i triplice significato da me prima illustrato.
Si potrebbe ben dire che è Spirito quell’Eros il quale venne da lui concepito come una forza di spinta ascensionale che trascinava con sé tanto la Conoscenza quanto l’Essere (vedi prima Montoneri); muovendo così quest’ultimo in una direzione che poi il neoplatonismo avrebbe concepito chiaramente come “ritorno” dell’intero essere al Principio. Si potrebbe dire che Spirito è quel livello ontologico dei Principi che il Prof. Reale [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010] ha supposto come prossimo all’Uno divino e ha considerato di natura onto-intellettuale proprio a causa della sua superiorità rispetto al mondo delle Idee. E di questo passo si potrebbe investire l’intero pensiero di Platone.
Tuttavia a mio avviso è meglio selezionare uno solo dei tanti possibili elementi di abbordaggio. E quest’ultimo consiste per me ancora una volta nella già menzionata valenza ontica della dimensione intellettuale, ossia consiste nell’equivalenza tra Idea e cosa. Su questo non c’è qui da spendere molte parole, visto che ne abbiamo parlato già nelle scorse lezioni (specie equiparando il supremo livello dell’idea-essenza a quello dei Trascendentali indagati nella Scolastica). In ogni caso si tratta comunque di un supremo livello di essere entro il quale l’Idea si presenta nella forma di un supremo e paradigmatico Individuo che è caratterizzato dalla massima pienezza di essere possibile. A questa conclusione si può infatti pervenire leggendo ciò che dice il Prof. Reale nel sostenere che Platone è un pensatore dell’essere [Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008, VIII p. 169-173; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione … cit., II, VI, III p. 172-176]. Tale supremo Individuo ideale è per la precisione la «possibilità di essere» stessa in quanto essenza e forma di tutte le cose, ossia il modello ideale al quale è chiamato a conformarsi ogni possibile Essente.
Ma intanto si tratta comunque di un’idea, e quindi di una sostanza intellettuale. E proprio questo abbiamo designato prima come dimensione «onto-intellettuale». Ora però quest’ultima dimensione tende a venire considerata la pienezza di essere stessa, cioè la più integrale e totale «realtà», nel contesto di una determinata visione metafisica che può bene venire definita come «onto-intellettualismo». Essa consiste sic et simpliciter nel considerare l’essere pieno come caratterizzato unicamente dalla natura intellettuale, o anche ideale – insomma, secondo questa visione l’essere non è altro che Intelligenza e nello stesso tempo è supremo Io.
In Occidente il culmine di tale visione è stato raggiunto con Meister Eckhart e con il suo amico Dietrich von Freiberg [Mojsisch Burkhard, Dietrich von Freiberg. Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980] In Oriente tale visione corrisponde abbastanza bene all’idealismo vedantico, a sua volta in stretta correlazione con la visione di Śankara – il quale riteneva l’essere come qualcosa che in via di principio resta da sempre avviluppato nell’Io divino sommamente unitario, ovvero il supremo Sé [Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì 2007, I, II, p. 138-162].
Ebbene, per gli scopi specifici di questa lezione, si può ben dire che affermare l’onticità dell’Intelletto implica affermare anche la stessa onticità che si addice allo Spirito, e quindi implica farsi sostenitori di una sostanza onto-spirituale. Infatti Intelletto e Spirito condividono la stessa straordinaria sottigliezza di essere – per cui entrambi possono apparire l’esatto contrario del così pesante essere concreto (materia, mondo, corpo) nel mentre però intanto hanno ottime probabilità di costituirne la più estrema pienezza. Il che significherebbe che (contrariamente alle apparenze) l’essere è tanto più pieno quanto più è sottile e rarefatto, cioè quanto più è lontano dalla pensantezza e soldidità dei corpi materiali.
Nel contesto dell’onto-metafisica questa visione è stata comunque sempre minoritaria per due sostanziali motivi: − 1) perché di impronta sostanzialmente platonica; 2) perché di impronta sostanzialmente gnostica.
E per comprendere quest’ultimo aspetto basti leggere il libro di Vallin poc’anzi citato, nel quale si sostiene che l’unica vera e possibile relazione con l’Uno divino si basa sulla totale affinità onto-intellettuale che esiste tra esso e l’uomo. In altre parole, secondo questa visione, l’uomo è di per sè già un dio, e lo è in quanto è di natura onto-intellettuale. È per tale motivo, dunque, che non è data alcuna ascesa a Dio che non avvenga per via puramente intellettuale (e non invece agapico-erotica) e che quindi non giunga alla totale assimilazione a Lui da parte dell’uomo. Questa complessiva visione ricalca le linee generali di quella visione gnostica secondo la quale l’uomo non è altro che una particella dell’Uno divino (“Eone”) – ossia è un Ente ed insieme Idea da sempre presente nella mente divina −, che è stata attirata fuori da tale unione a causa di un inganno perpetrato dal finto Dio creatore o Demiurgo [Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014]. L’uomo quindi non deve fare altro che riconquistare la sua perduta dignità e natura integralmente divina, cosa che avviene proprio per la via di un’ascesa unicamente intellettuale.
Di tutto questo ho trattato specificamente in un mio articolo [Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255].
Ora è ovvio che Platone non ha mai detto cose di questo genere, ma comunque nel suo pensiero ci sono non pochi appigli per extrapolazioni in questa direzione. Non per nulla entro il medioplatonismo ed il neoplatonismo (successi nel tempo al pensatore ateniese) sono fiorite visioni di tipo esplicitamente gnostico. Si pensi all’eresia valentiniana ed a quella ariana.
E con ciò abbiamo detto cosa è accaduto dopo Platone. Intanto di Aristotele non è nemmeno il caso di parlare, dato che per lui lo Spirito non può che essere quella “sostanza seconda” la quale di onticità non è ha assolutamente nessuna. Né comunque mette conto di parlare di Spirito a proposito di altre scuole filosofiche greche e greco-romane, dato che in esse il concetto di Spirito è stato sempre molto sfumato. Fanno eccezione a questo forse solo i concetti di Intelligenza cosmica di Anassimene e dello Stoicismo, ed infine il concetto ancora stoico di Anima Mundi.
In ogni caso dal neoplatonismo in poi si diparte un filone di pensiero cristiano nel quale i concetti che ho appena illustrato si sono manifestati costantemente anche se non sempre con la forza ed esplicitezza che avrebbero potuto avere. Infatti il timore di sconfinare nell’eresia gnostica è sempre stato sempre molto forte e condizionante. Tra i pensatori di questo filone mi limito a segnalare i seguenti: − Gregorio di Nissa, Agostino, Scoto Eriugena, Bonaventura, Bernardo di Clairvaux, Eckhart, Cusano, Giordano Bruno.
Intanto però il brusco mutamento di indirizzo filosofico-metafisico della dogmatica cristiana (in direzione dell’aristotelismo) faceva sì che il concetto più propriamente religioso di Spirito subisse una certa dissociazione da quello più propriamente metafisico. Infatti fu ben presente ai pensatori di questa nuova linea (in primis Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) il rischio di sconfinare facilmente dal concetto sostanza onto-spirituale a quella di sostanza onto-intellettuale. E ciò comportava il grave rischio (in quest’epoca dogmatica temuto più che mai) di indebolire l’intendimento di Dio come Essere; finendo (come accadde in Eckhart) per intenderlo come puro Intelletto. Accadde quindi che il concetto metafisico stesso di Spirito cominciò a venire temuto, con la conseguenza che esso venne lasciato così com’era entro le Sacre Scritture (Rivelazione) senza più includerlo nel logos filosofico. Laddove esso rischiava fortemente di essere imbarazzante se non pericoloso. Non a caso Eckhart per poco non andò al rogo a causa della sua visione. Mentre a Giordano Bruno ciò accadde per davvero. E non certo (come si sostiene oggi) perché sarebbe stato (come si usa dire) una sorta di libero pensatore ante litteram. La verità è che ciò accadde perché egli fu un fervente platonico.
Non a caso entro la filosofia cristiana da quest’epoca in poi si iniziò a parlare molto più di anima che non di spirito. L’anima è infatti molto più prossima dello spirito ad una dimensione ontologica in sintonia con il sostanzialismo aristotelico.
Probabilmente, insomma, già a quest’epoca la strada era ormai aperta per l’intendimento riduttivo di Spirito che si sviluppò poi in Cartesio. E quindi con ciò possiamo considerare chiusa qui la nostra breve carrellata lungo la filosofia antica in relazione al concetto di spirito.
Resta solo da menzionare qualche elemento dello scenario che ricollega la Scolastica cristiana al XVII secolo. In questo periodo vi fu infatti la filosofia della Natura di maggiore impronta spiritualistico-platonica (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno), vi fu lo spiritualismo sostanzialista-immanentista di Spinoza e vi fu infine lo spiritualismo fortemente razionalista di Leibniz.

Ma veniamo ora alla trattazione degli elementi prevalenti dello Spirito che ho già anticipato prima.
Della dimensione onto-intellettuale ho di fatto già parlato a proposito di Platone. Qui vanno quindi solo aggiunte alcune considerazioni.
Come ho già accennato, l’onticità attribuibile all’Intelletto è più o meno equivalente a quella attribuibile allo Spirito. Lo Spirito infatti corrisponde di per sé a quella straordinaria sottigliezza di essere che è propria anche dell’Intelletto. E proprio in forza di questo esso possiede quelle straordinarie caratteristiche di indipendenza dal vincolo spaziale-locale che ne fanno qualcosa di non solo dinamico ma anche alitante per definizione – Spirito come Vento, insomma, e quindi Pneuma. Nella metafisica religiosa ebraica ciò corrisponde al concetto di “Ruah” ed in quella vedico-vedantica a quello di “prāna”. Ed a tali valenze simboliche corrisponde poi anche quella di Fuoco, ossia elemento che dissolve la solidità compatta trasformandola in elemento aereo ed ascendente (e proprio per questo poi purifica).
Per tale motivo, quindi, lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui ne si ammette il dinamismo, la forza di penetrazione dei corpi e della materia (ossia di tutto ciò che è compattamente solido) ed infine anche la capacità onto-formante nel senso della spinta alla concretizzazione di ciò che è (di per sé) igneo ed aereo. In altre parole lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui si è disposti ad ammettere che esso viola totalmente le leggi della Natura.
Intanto comunque lo Spirito in quanto Essere (sostanza onto-spirituale ed onto-intellettuale) è la suprema «Idea in quanto cosa», e quindi è in qualche modo la completezza stessa dell’essere in quanto suprema Individualità (supremo Essente, corrispondente poi all’ente per eccellenza), che costituisce poi anche la stessa Totalità di Realtà (ossia tutto ciò che possibilmente esiste). Pertanto ciò ci suggerisce molto da vicino la completezza di una realtà corporale in quanto nettamente delineata. Ciò avviene però al supremo livello dell’essere, e quindi ci suggerisce non solo la dimensione della pienezza ma anche quella della Totalità di Essere. Ecco allora che la sostanza onto-spirituale si presenta a noi con le caratteristiche di una suprema Corporalità, che nello stesso tempo è il modello costitutivo di ogni corpo (in quanto idea-possibilità-forma-progetto), è anche la Corporalità in quanto Totalità esaustiva ed è infine la Corporalità in quanto perfezione originaria dell’essere. Eccoci insomma davanti al quel concetto di “corporalità spirituale” che fu sviluppato specialmente dalla Patristica cristiana, in relazione a sua volta alla dottrina di una Prima Creazione caratterizzata dall’assoluta perfezione incorruttibile (vedi lezione quindicesima).
Intorno a questo concetto si è sviluppato nel XIX e XX un movimento di idee metafisiche definito come “materialismo spirituale”, che ha ruotato specialmente intorno ad Aurobindo [Satprem, Mère. Il materialismo divino Ubaldini, Roma, 1978]. Ma sinceramente questo mi sembra un pensiero troppo ambiguo e denso di rischi per poter venire davvero seguito.
In ogni caso la dottrina greco-ortodossa della corporalità spirituale è stata capace di ridurre notevolmente l’opposizione tra Spirito e Corpo, suggerendo così sul piano teologica una teoria della resurrezione dei corpi ben più esplicita e forte [Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre &. Frederick Tristan (a cura di), Androgino, ECIG Genova 1991, p. 79-150; Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2006, V, 108-128 p. 457-481, VI, 129-160 p. 483-519]. Infatti presso i Padri latini quest’ultima teoria è stata invece sempre un po’ più annacquata per paura di istituire pericolose assimilazioni tra realtà spirituale (divina) e corporale (mondana). In ogni caso l’integrale dottrina della corporalità spirituale implica che lo Spirito, nel corso della sua azione onto-formante, informa di sé stesso così tanto la Materia da trasfigurarla definitivamente secondo la propria natura. E questo risale poi alla natura puramente onto-spirituale (nell’esatto senso della corporalità spirituale) che il mondo possedeva originariamente entro la Prima Creazione (essendo totalmente interiore all’Uno divino). Le conseguenze di tutto ciò sono due sul piano teologico: −
1) la Resurrezione di Cristo comporta la realizzazione massima della corporalità spirituale (dato che la sua nascita e morte avevano già trasfigurato per sempre la dimensione corporale mondana, la quale invece prima era stata corrotta senza rimedio dalla Caduta); 2) la Resurrezione dei morti comporta il raggiungimento di una corporalità ancora più piena di quella ante-mortale e mondana.
Non a caso Gregorio di Nissa parla della morte fisica come di una “seconda morte” susseguente alla “prima morte” − rappresentata dalla nascita (in quanto imprigiona l’anima spirituale nel corpo) −, che è in verità una rinascita, ossia è liberatrice [Gregorio di Nissa, Sull’Anima e la Resurrezione, in: Ilaria Ramelli, Gregorio di Nissa… cit., I, 7, 44-48 p. 381-387 III, 1, 68-72 p. 411-415].

Ebbene, questa è una delle più rilevanti conseguenze etico-religiose della postulazione di una sostanza onto-spirituale. Ma essa ha delle precise conseguenze anche nel contesto dell’altro elemento che vorrei esaminare, e cioè la differenza tra Spirito trascendente ed immanente. Infatti la corporalità spirituale non sussisterebbe mai se non vi fosse intanto una continuità tra queste due dimensioni dello Spirito. E tale continuità si manifesta proprio nel corso dell’azione onto-formante. Il fatto interessante è però che tale azione viene attribuita allo Spirito non solo entro le visioni religiose ed entro il grande schema metafisico di sempre (che vede lo Spirito come opposto della Materia), ma anche entro la stessa filosofia moderna.
La stessa visione di Husserl era infatti ancora imperniata proprio su questo, anche se poi il pensiero successivo si è decisamente allontanato da tale idea.
In ogni caso, prescindendo dai vincoli dell’attualità storica, si può presumere che religione, metafisica e filosofia convergano nel concepire uno Spirito trascendente – inteso come Dio-Persona (religione), o come supremo Soggetto egoico divino intelligente-creante-ordinante (metafisica), o come semplice soggetto egoico auto-cosciente e conoscente (filosofia) – che sta in costante ed intima relazione con lo Spirito immanente costituito a sua volta dal mondo materiale già formato. Tale già compiuto atto di formazione implica poi la riduzione del caos materiale molteplice ad un ordine costituito dalla differenziazione in enti esistenti (o oggetti) ben separati tra loro ed inoltre interamente intelligibili. Un siffatto Spirito corrisponde poi a vari aspetti della stessa realtà immanente: − in termini religiosi corrisponde al mondo creato, in termini metafisici corrisponde all’universo perfettamente ordinato ed intelligibile (grazie all’azione di un Intelligenza cosmica), ed in termini filosofici corrisponde al mondo degli enti conoscibili (a sua volta poi equivalente a quel mondo che viene umanizzato a Cultura invece che sola Natura). Rispetto a quest’ultimo intendimento va però tenuto presente anche quello di pensatori come Max Scheler e Edith Stein, secondo i quali lo Spirito oggettivo consiste in primo luogo negli enti che si presentano a noi come “valori” – costituendo in tal modo un cosmo dal significato primariamente etico. E rispetto a queste cose-valori il soggetto è costantemente chiamato a prendere posizione tenendo presente l’obbligo di scelta tra bene e male e quindi esercitando in tal senso la sua volontà libera.
In ogni caso al fondo di tutto ciò vi è l’aspetto più importante. E quest’ultimo corrisponde ad un generale atto di obiettivazione dello Spirito trascendente (colto con accenti e con intensità molto diversi dalle varie discipline impegnate in questo campo), in forza del quale esso si trasfonde completamente nella dimensione immanente finendo per impregnarla completamente.
La conseguenza di ciò è quindi l’insorgere di un «mondo spirituale» che però non c’era affatto prima dell’atto compiuto dallo Spirito trascendente. E rieccoci quindi al grande schema metafisico-religioso dell’opposizione radicale tra Spirito e Materia – opposizione che però evidentemente (come ottimamente sostenuto da Edith Stein) è soprattutto interazione. Ciò significa che, in via di principio, lo Spirito è in realtà sempre solo trascendente, per cui un qualcosa come lo Spirito immanente può essere solo un suo prodotto, ossia qualcosa che appunto prima non c’era. Tuttavia, una volta che è nato ciò che prima non esisteva, ossia lo Spirito immanente, esso non è affatto meno «spirito» di quello trascendente, e pertanto la trasformazione è definitiva. Anzi si può dire che il tal modo lo Spirito stesso conquista una pienezza che esso prima non aveva, allorquando era unilateralmente trascendente. Ciò che è avvenuto è dunque una compenetrazione tra elementi opposti che ha davvero dello stupefacente nella sua pienezza di essere. Per cui ciò che ne nasce è una sorta di vero e proprio nuovo elemento ontologico. Eccoci quindi di nuovo al cospetto di ciò che prima abbiamo discusso come “corporalità spirituale”.
Nel complesso si tratta pertanto di una serie di caratteristiche ontologiche che vengono aggiunte dallo Spirito alla realtà mondano-materiale (e quindi anche corporale), nel mentre intanto però anche lo Spirito stesso si arricchisce di caratteristiche immanenti che esso prima non possedeva. Esso insomma diventa «corpo», nel mentre intanto il corpo stesso diventa «spirito». Ma questo implica anche una certa reciprocità ontologica tra i due elementi – implica cioè che il corpo diviene «spirituale» mentre lo spirito diviene «corporeo». La dimensione della corporalità spirituale corrisponde quindi ad una sorta di misteriosa e sorprendente coincidentia oppositorum, entro la quale appaiono fusi perfettamente in un binomio ontico del tutto nuovo dei caratteri ontologici che prima erano non solo radicalmente diversi ma erano anche irrecuperabilmente tra loro separati (e quindi erano riduttivamente unilaterali). In altre parole, così come prima non vi era alcuno Spirito immanente, non vi era intanto nemmeno alcunché di simile ad una corporalità spirituale. Quest’ultima insorge infatti soltanto allorquando lo Spirito trascendente ha già impregnato di sé il mondo immanente.
Tutto questo significa infine, però, che l’intera realtà mondano-materiale-corporale ha acquisito con lo Spirito una sottigliezza di essere che prima non aveva affatto. E che pertanto, se costituisce un «essere» (perfino nella sua pienezza), lo è innanzitutto perché non ha più nulla della compattezza solida, impenetrabile e statica che è tipica della realtà materiale. In questo senso l’intervento dello Spirito inverte totalmente le caratteristiche dell’essere da esso impregnato. E, come ho detto prima, nasce insomma qualcosa che la Natura non conosce affatto. Ossia, come dice Eckhart, la realtà Sovrannaturale si pone in continuità con la Natura trasfigurandone totalmente le caratteristiche [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München, 2014, I, 1 p. 25-37].
Bisogna dire comunque che − se è vero che la Patristica greca ha sviluppato questa serie di concetti in concorrenza con una metafisica occidentale che fu ben più radicale nell’opporre Spirito e Materia, e se inoltre è vero che in Occidente è stata comunque concepita una relazione tra Spirito trascendente e immanente (in religione, metafisica e filosofia) −, la pienezza dello Spirito immanente è stata in verità concepita solo presso alcune dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Mi riferisco in particolare a quel concetto di “mondo divino” (o anche “mondo animato” da presenze divine) che fu analizzato in maniera molto precisa da María Zambrano in un suo affascinante libro [Marìa Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996], e che esisté soltanto nella cultura mitologica greco-romana (oltre che ovviamente nell’animismo di sempre), nel pensiero neoplatonico, ed infine nella metafisica religiosa orientale vedica e vedantica. A mio avviso solo presso quest’ultima il concetto si trova nella sua forma più esplicita e forte. Il che avviene per mezzo dell’immagine di un ineffabile e profondissimo centro di ogni cosa che è nello stesso tempo anche il centro dei centri, ossia il centro assoluto dell’essere. Si tratta del cosiddetto jīvātma, che poi altro non è se non l’espressione più piena della totale impregnazione spirituale dell’essere immanente-mondano [René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adeplhi, Milano 1975, 73-74 p. 377-380]. Infatti il concetto qui è così forte che lo Spirito impregnante di sé tutte le cose finisce per far svanire lo stesso Spirito trascendente nella sua attualità, ossia quello Spirito che resta sospeso verticalmente sul mondo perfino dopo il suo atto di obiettivazione immanente.

Ebbene, a mio modesto parere, si può parlare di una visione filosofico-metafisica spiritualistica («spiritualismo») solo quando viene concepito qualcosa di così esplicito e forte come ciò che ho appena descritto. Sta di fatto però che intanto il termine «spiritualismo» è stato impiegato per descrivere correnti di idee filosofiche moderne come quelle che ho menzionato all’inizio sulla base di Sciacca e Caturelli.
In altre parole l’intero post-hegelismo (almeno da un certo momento in poi) sarebbe stato uno spiritualismo filosofico molto intenso. Dopo ciò che abbiamo appena visto, è però evidente che si tratta appena di un’approssimazione retorico-filosofica a quella che può venire considerata una vera visione spiritualistica. Quest’ultima è pertanto sostanzialmente extra-filosofica e forse anche (secondo l’intendimento di Scheler) extra-metafisica.
Ecco allora che per poter concepire i due elementi fondamentali della dimensione spirituale (quello dell’onticità intellettuale e quello della relazione tra trascendente ed immanente) noi dobbiamo ritornare a quella sfera esoterico-sapienziale di conoscenza della quale abbiamo parlato all’inizio. Ad essa va aggiunta naturalmente anche la religione. Ma sta di fatto che quest’ultima non sempre ha il coraggio di professare idee metafisiche estreme, come invece dovrebbe senz’altro fare. Mi riferisco in particolare al concetto cristiano di Eucaristia. Ebbene nulla manifesta più pienamente tale concetto meglio di quella corporalità spirituale una volta che essa venga concepita nei termini radicali che ho illustrato prima. In essa insomma lo spirito è carne e la carne è spirito senza più alcuna differenza tra i due elementi – e ciò esattamente secondo l’intendimento paolino e giovanneo. Eppure non è così che l’Eucaristia viene spesso intesa.
Dato che oggi più che mai sta prevalendo in teologia una forte relativizzazione razionalistica della molto forte dimensione onto-spirituale ad essa connessa. In parole povere si stenta a credere che l’Eucaristia rappresenti il toccarsi e fondersi effettivo della realtà spirituale e corporea – si stenta a credere insomma che lì ci sono per davvero il Corpo e il Sangue di Cristo.
È ovvio che qui siamo al cospetto di una delicatissima e complessissima questione di relazione tra Fede e Ragione. Ed è inoltre altrettanto evidente che non tutti possono essere interessati a cose come queste.
Il problema di fondo è però, per noi uomini moderni, la nostra disponibilità e capacità di vivere effettivamente ancora una concezione intensamente spiritualistica dell’essere. Ed abbiamo visto finora che il farlo non implica affatto abbandonarsi ad una rigida e sterile opposizione tra Spirito e Materia. Implica invece l’esatto opposto.

Ecco allora che (com’è finora avvenuto più volte nel corso di queste lezioni), nell’affrontare il tema dello Spirito, noi ci ritroviamo su un piano in cui la filosofia religiosa (specie se intensamente metafisica) offre a noi uomini comuni la possibilità di vivere in maniera estremamente concreta una visione che invece resterebbe totalmente astratta (e quindi esistenzialmente sterile) sul piano della filosofia più ortodossa e laica. E, come abbiamo potuto ben vedere, la chiave di tutto sembra risiedere proprio nel concetto di corporalità spirituale. Esso sembra infatti equivalere esattamente al suo opposto concettuale, ossia la «spiritualità corporea». In altre parole il prendere filosoficamente in esame lo Spirito non ci obbliga affatto ad allontanarci dal corpo, dalla carne e da mondo. Anzi!
Ebbene, tutto ciò offre a noi uomini comuni almeno la possibilità di guardare in un’altra prospettiva quelle circostanze in cui la dimensione corporea è per noi più un peso che non una risorsa. Si tratta insomma di quelle circostanze in cui esso è stato abbandonato dalla forza vitale che usualmente lo anima (come avviene nella malattia, nella vecchiaia o negli stati di esaurimento psico-fisico), oppure quelle circostanze in cui la corporalità mondana è esattamente il terreno sul quale le leggi della Natura esigono implacabilmente che noi paghiamo il fio dei nostri passati errori. La visione spiritualistica dell’essere (relativizzando tutte le caratteristiche della corporeità mondana in quanto Natura) ci permette in questo caso la stessa libertà (almeno interiore) che abbiamo visto possibile quando riusciamo a superare il concetto di spazio in direzione di quello di infinito ed il concetto di tempo in direzione di quello di eternità.
Inoltre proprio in tali estreme circostanze qualcosa di misterioso (spesso proprio la sorprendente resilienza che constatiamo in noi senza sapere da dove venga) ci informa del fatto che noi, in quanto enti spirituali, viviamo molto più nella dimensione ontologica interiore che non in quella esteriore. E quindi godiamo di una libertà e di una capacità di non venire pesantemente condizionati dall’ambiente, che non possiederemmo mai se invece fossimo degli enti non spirituali, ossia se fossimo degli enti unicamente carnali e/o materiali.

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Come ho detto più volte nel corso delle lezioni tenute finora, la moderna filosofia non è in fondo altro che una grande “teoria della conoscenza” (definita spesso Erkenntnistheorie secondo la dominante tradizione tedesca). Per sintetizzare userò da ora in poi la sigla TDC.
Ed ho anche spesso ricordato che così è stato almeno da Cartesio in poi.
Tuttavia non bisogna dimenticare che proprio da Cartesio in poi ciò che veniva posto in primo piano non era tanto la fisiologia della conoscenza quanto invece semmai la sua possibilità in assoluto; ovvero, detto più tecnicamente, la fondamentale «problematicità» che è caratteristica della conoscenza (problematicità della conoscenza, PDC). Il che significa che per il filosofo l’atto di conoscenza non è per nulla ovvio, come lo è invece per lo scienziato della Natura (specie il neuroscienziato) e per l’uomo comune. In altre parole dietro l’intera TDC filosofica c’è l’ipotesi di uno scetticismo di fondo; ed in assenza del quale, peraltro, si presume che diventi di fatto impossibile conoscere in maniera appropriata, cioè veritativamente.
E per questo dobbiamo senz’altro rifarci nuovamente a Cartesio. Dato che il suo «cogito» presuppone inevitabilmente un «dubito». Tuttavia sia il «cogito» che il «dubito» rinviano al soggetto quale momento decisivo della conoscenza. Infatti proprio la presenza dirimente di un soggetto impone la necessità della PDC – ciò significa che la conoscenza non può per davvero avvenire senza che essa venga validata nell’unico luogo dell’essere in cui emergono realmente il «cogito» e il «dubito». Ecco che allora non è data né è possibile alcuna conoscenza davvero valida oggettivamente, e quindi valida in maniera assoluta. La conoscenza invece può essere valida solo soggettivamente. Questo però non elimina un certo inevitabile difetto fondamentale della conoscenza stessa, e cioè il fatto che essa avviene nel soggetto, e quindi lontano dal mondo, ossia lontano dall’oggetto da conoscere.
Tutto ciò esprime comunque la classica presa di posizione idealistica in relazione alla TDC, e che ha dominato di fatto l’intera filosofia da Cartesio in poi.
Facendo una grande sintesi potremmo dire che la dottrina della PDC pone la potenzialità e non invece attualità della conoscenza.
Tale presa di posizione archiviò per sempre quella che possiamo considerare l’antica TDC, e cioè quella onto-metafisica. Secondo quest’ultima, infatti (specie secondo l’approccio aristotelico prima e tomistico poi), l’ente esistente è vero di per sé, ossia oggettivamente ed assolutamente. Proprio per questo motivo era stato sempre molto diffuso il concetto di «verità dell’essere». Il che significava poi che Conoscenza ed Essere non venivano affatto considerati separati. Il cambio di prospettiva imposto da Cartesio fu pertanto decisivo perché egli inferse il primo grande colpo alla TDC fino a quel momento imposta dalla metafisica.
Ma per chiarire ulteriormente il senso di tutto ciò rinvio il lettore alla quinta lezione, dedicata appunto a Cartesio.
In ogni caso, allorquando si è voluto contestare la problematicità della conoscenza (PDC) non si poteva che chiamare in causa esattamente il pensatore francese. È ciò che ha fatto ultimamente Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001], sostenendo che (sostituendo la Ragione con la facoltà dell’Intelletto) la conoscenza cessa senz’altro di essere problematica – specie nel senso che essa è da considerare attuata ed efficace sempre, comunque e senza il minimo dubbio. Un’altra confutazione di Cartesio è stata fatta dal famoso António Damásio [António Damásio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995; António Damásio, O livro da consciêcia, Temas e Debates, Lisboa 2010]. E questo non può stupirci affatto dato che questo studioso è un neurofisiologo (o anche neuroscienziato), e quindi non può che sostenere la fisiologia della conoscenza, ossia la sua ordinaria attualità ed infallibilità.
Il che sottolinea poi la stranezza che la PDC ha sempre avuto per la scienza empirica. Chi infatti ha studiato l’anatomo-fisiologia del cervello umano (come fanno medici, biologi, psicologi e neuroscienziati) non può né comprendere né accettare (nemmeno minimamente) che al fondo della conoscenza venga posta un’ipotesi scettica, ossia in definitiva un’ipotesi negativa. Insomma non può assolutamente venire accettato che, per poter descrivere la conoscenza, ci si debba porre primariamente il problema di cosa essa non è capace di fare. L’ipotesi della scienza empirica è invece decisamente e dogmaticamente positiva, e lo è sostanzialmente perché essa si attiene a fatti semplici ed elementari – quando interviene la funzione conoscitiva (della quale la mente umana è dotata per natura), è come se essa avesse già raggiunto il proprio scopo senza che nulla possa interporsi su questo cammino. In altre parole il concetto bio-medico di «funzione» si oppone radicalmente a qualunque concetto di «problematicità». E qui ci troviamo esattamente davanti alla dottrina dell’attualità e non invece problematicità della conoscenza.
Per la verità, da medico, devo sinceramente ammettere che anche me il concetto di PDC ha sempre fatto un po’ sorridere, se non sghignazzare. Infatti chi non è integralmente filosofo non può non trovare molto bizzarra questa dottrina.
In ogni caso questa serie di obiezioni a Cartesio sostiene in ultima analisi che soggetto ed oggetto sono ben più prossimi di quanto si possa mai pensare; anzi si può anche arrivare a dire che tra essi non vi è in realtà alcuno jato. Tuttavia va comunque fatta un’altra osservazione su tali obiezioni. Va cioè notato che Smith e Damásio (il primo fisico sub-particellare oltre che filosofo, ed il secondo neurofisiologo) hanno in comune il fatto di contestare la divisione ontologica radicale operata tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’idealismo cartesiano, e cioè la presupposizione di uno jato incolmabile tra questi due elementi.
È esattamente per questo motivo, infatti, che la filosofia ha concepito una dottrina come quella della PDC – in via di principio la conoscenza è impossibile per il semplice fatto che il soggetto è così ontologicamente diverso dall’oggetto da rappresentare una realtà totalmente inconciliabile con esso. E tale inconciliabilità può venire intesa come lontananza nello spazio, o anche come sfasatura nella relazione. Infatti la dimensione ontologica del soggetto corrisponde al mondo interiore, mentre la dimensione ontologica dell’oggetto corrisponde al mondo esteriore.
E così la domanda che sempre si è posto il filosofo rispetto alla conoscenza (in primis Cartesio) è stata la seguente: − come possono così precisamente incontrarsi (nell’oggetto conosciuto) il conoscente (soggetto) ed il conosciuto (oggetto) se questi due ultimi sono così diversi e lontani tra loro? Al filosofo, insomma, è sembrato stranissimo (se non impossibile) che un nulla di essere com’è il soggetto (fatto di pura interiorità, cioè un finto spazio pieno di entità solo astratte, ovvero la mente) possa realmente (ed anche attualmente) intercettare l’essere più pieno che esista (ossia quello mondano-esteriore). Si tratta in definitiva della problematicissima relazione esistente tra Idea e cosa, che abbiamo finora più volte esaminato specie quando abbiamo parlato di Platone.
In termini di neurofisiologia si tratta invece della semplicissima ed intimissima relazione esistente tra due entità della Natura, e cioè mente (o idea) e mondo (o cosa). E quindi in tale contesto non sussiste nessunissimo problema. Tuttavia per la filosofia non è affatto così; dato che ad essa la dimensione soggettuale-interiore (corrispondente alla mente ma in fondo anche all’anima e perfino allo spirito) è sempre apparsa come radicalmente trascendente il mondo esteriore (con tutto ciò che è connesso: corpo, carne, materia, molteplicità, divenire). Tale dimensione ha infatti sempre ricordato alla filosofia il supremo Soggetto conoscente e trascendente, e cioè Dio.
In ogni caso va detto, anche se solo per inciso (si veda per questo la seconda lezione), che idealismo e realismo – pur teorizzando entrambi la PDC − hanno dato alla questione due soluzioni abbastanza diverse.
Il primo ha infatti considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione soggettuale-interiore (cioè mentale). Il secondo invece ha considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione oggettuale-esteriore. In altre parole il primo ha affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia un’idea della cosa (ossia il conoscente, o anche conoscibilità della cosa), mentre il secondo ha invece affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia una cosa esistente, alla quale si relazionI l’idea (ossia il conosciuto, o cosa in quanto esistente).
Così, nel contesto dell’empirismo (che in qualche modo si approssima al realismo, pur essendo comunque una variante dell’idealismo), l’ipotesi realista ha lasciato supporre che la rappresentazione (idea) insorga unicamente nel contesto della percezione. La quale se ne sta poi immediatamente al ridosso della cosa, ossia dell’oggetto in quanto esistente.

Bene! Le obiezioni a Cartesio ed alla PDC hanno un loro indubbio fascino ed anche una non indifferente capacità di convincere. Il che ha peraltro contribuito non poco all’indebolimento dell’influsso di Cartesio stesso entro l’attuale TDC. Tuttavia anche queste obiezioni non sono prive di difficoltà. E ciò avviene non solo per le loro debolezze, ma invece soprattutto perché la postulazione filosofica della PDC ha delle sue ragioni di essere che sono davvero incontestabili.
Insomma, si può affermare quanto si vuole che soggetto e oggetto stanno a immediato ridosso l’uno dell’altro. Ma intanto ciò non spiega in alcun modo quell’autentico misterioso enigma della conoscenza, che venne perfettamente esemplificato da Edith Stein a proposito del “castagno fiorito” [Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, V, 6 p. 161-182].
Si tratta precisamente di questo – come faccio io a dire che è proprio un castagno fiorito quella cosa indistinta e sconosciuta (quel generico “qualcosa”) che ho appena visto davanti a me? Ebbene, lo posso fare solo perché dentro di me, al cospetto di quell’indistinto e generico qualcosa, viene innescato un processo interiore che alla fine mette capo al riconoscimento di un’essenza (a sua volta unicamente interiore), e cioè quella del castagno. In questo momento io posso quindi rispondere alla domanda “cos’è questo?” per mezzo della menzione dell’essenza, cioè dello specifico «è» di quella specifica cosa – “questo è un castagno!”.
Ecco allora che l’essenza (“cos’è questo?”) costituisce la forma conoscitiva della cosa, mentre invece il castagno costituisce la cosa stessa, ossia il “questo”.
Ma come avviene questo misterioso processo, che bypassa e salta totalmente lo jato effettivamente esistente tra la forma conoscitiva e la cosa da conoscere? La Stein si guarda bene dal dircelo perché, nell’esporre questa dottrina, ella si rifà al venerato maestro Husserl. Il quale con ossessività maniacale aveva «descritto» i percorsi mentali per mezzo dei quali secondo lui avveniva questo fenomeno, che potremmo definire come «intuizione essenziale». Tuttavia non ne aveva affatto svelato il mistero.
Non a caso la «descrizione» voleva essere appena una presa d’atto di ciò che realmente accade (la conoscenza come “fenomeno”). Non voleva invece in alcun modo essere un’esplorazione analitica del perché ciò accade. Il timore di Husserl era infatti di sconfinare nella metafisica.
Ed egli sapeva molto bene che quest’ultima non era altro che la metafisica platonica della conoscenza, ossia quella dottrina che postula la conoscenza previa (da parte della mente-anima umana) di tutte le possibili verità conoscitive relative agli oggetti. Ed in effetti il mistero della conoscenza consiste proprio in questo – come mai io sono dotato nella mia mente di immagini mentali di una cosa specifica che corrispondono ad essa così precisamente pur essendo appena delle idee?
Torniamo insomma alla pienezza del problema posto dalla filosofia come PDC – vi è un’insuperabile differenza ontologica tra idea e cosa. Ma nello stesso tempo ci avviciniamo all’esplorazione del misterioso «perché» di tutto questo. Infatti l’unico modo di spiegare questo mistero è quello di presupporre la presenza effettiva di idee innate nella nostra mente. E questo lo aveva pensato Platone non solo prima di qualunque altro filosofo occidentale, ma anche con una chiarezza ed una limpidezza che erano e sono totalmente priva di astrusità. Mentre l’astrusità (concettuale e terminologica) abbonda ad esempio presso un pensatore come Husserl.
Nel complesso si può quindi dire che hanno insieme ragione e torto sia i filosofi moderni nel porre la PDC, sia anche tutti coloro che si oppongono alla legittimità e perfino veridicità di tale ipotesi.
La ragione consiste nel sottolineare l’effettivo mistero costituito dall’atto di conoscenza in sé (concepito astrattamente ed ontologicamente, cioè come momento dell’essere), in quanto incontro davvero inverosimile tra due «sostanze» radicalmente diverse e lontane tra loro. Usando il linguaggio di Cartesio possiamo ben dire che si tratta dell’incontro tra la “res cogitans” e a “res extensa”.
Il torto consiste nel mancare di constatare che, per quanto teoricamente problematico, l’atto di conoscenza avviene effettivamente ossia attualmente, e quindi esso dimostra quanto reale sia l’incontro tra le due «sostanze». Dunque sul piano pratico è assolutamente ridicolo supporre e/o porre la PDC. Tuttavia bisogna anche dire che l’atto critico di messa a nudo di tale ridicolo è drammaticamente esposto alla mancanza, nel suo contesto, di una vera e propria TDC. In altre parole chi contesta la PDC dispone di argomenti piuttosto poveri e deboli per spiegare l’atto di conoscenza su un piano che non sia appena quello della costatazione di meccanismi fisiologici, ed inoltre rifiuta totalmente di prendere atto della misteriosità dell’atto di conoscenza stesso. Insomma in tal ambito si è perfettamente in grado di illustrare il «come» della conoscenza, ma non si è quasi per nulla in grado di illuminare il suo «perché». In definitiva gli oppositori della PDC sono tutti dei pragmatisti. Ma nell’esserlo sono anche estremamente banali e superficiali nella loro argomentazione. La quale consiste appena in quanto segue: − «Ciò accade semplicemente perché accade. Punto!».
Ora, tenendo conto delle questioni poste dalla PDC, il vero e profondo «perché» potrebbe invece venire descritto nel modo seguente: − perché mai accade che due «sostanze» fatte per non entrare in contatto l’una con l’altra, invece lo fanno e lo fanno peraltro continuamente e con estrema efficienza? È evidente che questa domanda conduce poi a quella ancora più fondamentale, che è poi è tipicamente filosofica − «cos’è mai la conoscenza?», ossia «qual è l’essenza della conoscenza?». Ebbene, la risposta universalmente fornita dalla filosofia moderna a tali domande è consistita sempre nella radicale differenza tra Conoscenza ed Essere. Abbiamo visto prima che invece la filosofia antica aveva sempre preferito postulare l’identità tra Conoscenza ed Essere.
Ma con ciò ritorniamo di fatto alla stessa PDC, dato che, con il constatare la differenza tra Conoscenza ed Essere, non si è spiegato assolutamente nulla ma si è invece preso semplicemente atto di un preciso fatto onto-metafisico – l’essenza della Conoscenza e l’essenza dell’Essere sono radicalmente divergenti.
La Conoscenza designa la sfera di essere corrispondente al soggetto, all’Io, all’oggetto già conosciuto (reso intelligibile), all’interiorità ed alla mente. L’Essere designa invece la sfera di essere corrispondente all’oggetto, al non-Io, all’oggetto non ancora conosciuto (non ancora intelligibile), all’esteriorità ed al mondo.

In ogni caso Smith e Damásio affermano in modo diverso l’ovvietà (assolutamente non problematica) dell’atto di conoscenza.
Il secondo (Damásio) lo fa sul piano puramente scientifico-empirico, sostenendo che mente e mondo fanno entrambi parte della Natura, e quindi non vi è assolutamente alcun mistero nel loro costante incontro.
Per questo egli critica il “dualismo” cartesiano ritenendolo completamente errato. Ma lasceremo da parte tale osservazione dato che essa rientra nel campo della scienza e non della filosofia.
Il primo (Smith) – essendo realmente anche un filosofo, oltre che uno scienziato della Natura – lo fa invece appunto sul piano filosofico, e quindi chiama in causa la radicale differenza che vi è tra Ragione ed Intelletto. Egli critica quindi Cartesio per il suo dualismo a causa del fatto che esso istituirebbe un supposto inevitabile “biforcazionismo” tra soggetto conoscente e mondo unicamente perché il pensatore francese tenne presente la Ragione non invece l’Intelletto. La critica di Smith è quindi rivolta in fondo all’intera moderna TDC, dato che invece quella antica (incentrata in Tommaso d’Aquino) era basata sull’Intelletto e non sulla Ragione. E proprio per questo, del resto, essa postulava l’identità tra Conoscenza ed Essere, ossia l’assenza di qualunque jato tra soggetto ed oggetto.
Ebbene, l’Intelletto soggettuale possiede secondo Smith un’affinità addirittura naturale (oltre che totale) per l’oggetto mondano, ossia è fatto esattamente per entrare in intima relazione con esso come avviene appunto nell’atto di conoscenza. E l’intimità del contatto è proprio il fattore chiave di questa interazione, dato che l’Intelletto possiede una capacità di penetrazione profonda dell’oggetto − corrispondente poi all’”intus-legere”, e quindi all’etimologia stessa del termine “intelletto” [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, IVb p. 54-55] – il cui aspetto principale è l’”intuizione” e non invece il raziocinio. Ecco allora che, finché l’atto soggettuale di conoscenza è e resta appena il raziocinio (proprio della Ragione), è inevitabile che il soggetto sia e resti ontologicamente separato dall’oggetto per mezzo di uno jato davvero insuperabile. Ed ecco allora davanti a noi il nucleo stesso della PDC. Se però, invece, l’atto soggettuale di conoscenza viene visto nell’«intuizione intellettuale», allora svanisce ogni distanza ontologica tra soggetto conoscente ed oggetto. Quindi svanisce anche la supposizione di una PDC.
Qualcosa di molto simile viene affermato anche da Frithjof Schuon nel sostenere che, proprio sulla base di tale capacità di penetrazione caratteristica dell’intelletto, il soggetto umano è perfettamente in grado di conoscere a fondo perfino l’Assoluto divino [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72].
Insomma Smith sembra in tal modo aver risolto ed archiviato quella dottrina della PDC che intanto non era mai stata dismessa dalla filosofia. Tranne nelle forme di ultimissimo realismo filosofico che però hanno abbracciato definitivamente e totalmente la presa di posizione della scienza empirica.
Si potrebbe dire allora che il mistero dell’atto di conoscenza viene svelato anch’esso allorquando si chiama in causa l’Intelletto e non la Ragione. E del resto la Stein (che abbiamo visto protagonista della descrizione dell’atto di riconoscimento del castagno fiorito) parla di Intelletto in quanto Spirito anche perché differenzia nettamente quest’ultimo dalla Ratio, nonostante la prossimità che essa ha all’atto intellettuale e conoscitivo [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VII, II, 1 p. 99-100].
Ciononostante però forse Smith semplifica un po’ troppo le cose. Egli infatti non parla per nulla della problematica conoscitiva centrale, ossia quella del riconoscimento dell’essenza della cosa. Il suo tema è invece la straordinaria e sorprendente intensità di conoscenza che è stata raggiunta per mezzo dei moderni strumenti a disposizione della fisica sub-particellare. I quali appaiono in grado di permettere ormai una penetrazione conoscitiva dei fondamenti più invisibili e più ultra-percepibili della cosa mondana; penetrazione conoscitiva che a sua volta è molto più intuitiva che non rigorosamente razionale.
Infatti le caratteristiche delle particelle sub-atomiche sfuggono totalmente alle leggi razionali dello spazio geometrico cartesiano, e quindi possono venire colte solo facendo appello ad una sorta di metafisica scientifica. E questo secondo Smith è possibile solo invocando l’intuizione intellettuale in luogo dell’argomentazione razionale. La sua tesi è pertanto che sarebbe sempre esistita una possibilità di piena penetrazione conoscitiva della più intima costituzione della cosa mondana, che ultimamente è stata appena slatentizzata dall’avvento di strumenti assolutamente rivoluzionari.
Ciò che dice lo studioso è insomma estremamente affascinante (anche perché egli si appella in fondo ad una perfetta conoscenza intuitivo-intellettuale della Natura che era stata già esposta molto tempo fa da Tommaso). E tuttavia la sua tesi appare non poco stiracchiata e forzosa. Essa inoltre non tocca affatto il tema centrale della PDC, e cioè quello del riconoscimento dell’essenza della cosa.
In ogni caso però anche Schuon (nel trattare della perfettamente plausibile conoscenza umana dell’Assoluto divino) chiama in causa esattamente quella capacità di penetrazione che è solo dell’Intelletto e non invece della Ragione. E quindi l’argomentazione di Smith non deve poi essere così lontana dalla verità.
E cioè molto probabile che, da Cartesio in poi, noi tutti siamo stati tratti in inganno dal fatto che abbiamo attribuito al soggetto conoscente la Ragione e non invece la capacità di penetrazione intellettuale.
Pertanto è altamente probabile che la complessiva dottrina filosofica della PDC sia del tutto artificiosa e perfino del tutto inconsistente.

Bene! Quale lezione noi uomini comuni possiamo trarre da tutto questo?
A mio avviso si tratta di fare una sorta di bilancio delle argomentazioni e delle obiezioni che ho finora illustrato. Come abbiamo visto, il torto e la ragione stanno qui dappertutto e da nessuna parte. E quindi è possibile che noi possiamo davvero vedere le cose come stanno solo se mettiamo insieme tutto ciò che abbiamo visto finora tentando di ottenere un quadro di insieme e ottenendo così un risultato netto.
Ebbene, al netto delle varie argomentazioni presentate, io direi che prevale decisamente il bizzarro paradosso costituito dal considerare la conoscenza come problematica. Tutti noi conosciamo e lo facciamo peraltro continuamente – che ciò avvenga in maniera ordinaria o anche straordinaria. Tutti insomma pratichiamo efficacemente la conoscenza, e di certo senza nemmeno essere consapevoli della sua problematicità.
In altre parole la perfezione dell’ordinaria fisiologia della conoscenza ci dispensa pienamente dal dover professare qualunque teoria della PDC.
Resta però comunque il problema più propriamente filosofico, e quindi esso non viene affatto eliminato da ciò che non facciamo ordinariamente, spontaneamente e con perfetta efficienza. Risulta quindi chiaro che la dottrina filosofica della PDC non può né deve concernere in verità alcuno scetticismo gnoseologico (come però avviene correntemente). Essa cioè non può mettere in dubbio il perfetto compimento (del tutto ordinario) dell’atto di conoscenza. Può invece al massimo mettere a nudo il mistero della conoscenza.
Qui viene però il punto decisivo.
Per divenire pienamente consapevoli del mistero della conoscenza, noi abbiamo davvero bisogno della lezione filosofica, ed in particolare di quella moderna? Io direi di no. Ed il motivo l’ho già menzionato prima – chi ha posto per primo e pienamente il mistero della conoscenza è stato Platone. Ma intanto egli non si era nemmeno sognato di tematizzare una PDC. Egli invece si era limitato a fare ciò che il filosofo è di fatto costretto a fare (se è davvero onesto) qualora il suo cammino viene sbarrato dal mistero – egli si è rivolto al mito, ed in particolare a quello orfico. E così è giunto alla conclusione che l’unico modo per illuminare (anche solo debolmente) il mistero della conoscenza consiste nell’ammettere che il «conoscere» è esattamente come si mostra a noi ordinariamente, cioè è appena un «ri-conoscere». È in definitiva il ritrovare in qualcosa di sensibile (percezione) una conoscenza dell’essenza (di quella sconosciuta cosa) che è infallibile solo perché un tempo già la si possedeva. Ed ecco la teoria della reminiscenza. Che è poi la postulazione di un pieno possesso, da parte nostra, di una vera e propria perfetta conoscenza previa di ogni cosa.
Ma qui ci viene di nuovo incontro il concetto di «intuizione intellettuale». Evidentemente, infatti, tra quest’ultimo e la conoscenza previa vi sono rapporti molto stretti. Insomma, allorquando io osservo che l’intuizione intellettuale mi permette di conoscere infallibilmente proprio l’essenza della cosa che intanto ho davanti percettivamente (permettendomi così di gridare con giubilo «questo è un castagno fiorito»), ciò significa che io, esattamente in quel momento, sto ri-conoscendo qualcosa che un tempo già conoscevo perfettamente. In altre parole io sto ri-attualizzando la conoscenza previa della quale da sempre ero in possesso; e che però dalla mia nascita in poi è stata occultata dall’oblio causato dalla carne.
Ebbene tutto questo è stato illustrato in maniera davvero esemplare da un grande pensatore platonico-cartesiano moderno e cioè il russo-francese Alexandre Koyré, allievo di Husserl [Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York 1960].

E su queste ultime notazioni credo proprio che possiamo finalmente fermarci.

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Quello che ho detto del tempo nella diciottesima lezione vale più o meno anche per lo spazio.
Anche lo spazio è infatti una continuità, e pertanto il concetto di «sostanza» si presta bene a raffigurarlo (insieme al connesso concetto di «causalità»). C’è tuttavia una rilevante differenza tra le due dimensioni ontologiche. Ed essa consiste nella differenza esistente tra dinamismo e stasi – infatti l’essenza del tempo è il dinamismo, mentre l’essenza dello spazio è la stasi.
Ho concluso la precedente lezione dicendo che in verità l’essere va considerato dinamico, e quindi non posso qui contraddirmi affermando l’esatto contrario. Su questo aspetto potrò però essere più chiaro solo alla fine di questa lezione. In realtà ho però anche detto che l’essere non è né dinamico né statico, ma è semmai invece un insieme inestricabile di queste due dimensioni. E così posso ora aggiungere che l’essere dinamico alla fine sfocia sempre nell’essere statico nel momento in cui configura una Totalità. Quest’ultima può essere di certo una totalità infinita ma non per questo cessa di essere ciò che è, ossia una incommensurabile Unità. E come tale è inevitabilmente statica, ossia è e resta uguale a sé stessa. Il che avviene poi inevitabilmente nel tempo, ossia avviene perennemente. Quindi la Totalità quale Unità «è e resta perennemente identica a sé stessa», cioè resta identica a sé stessa sia spazialmente sia anche temporalmente. Come ho detto poc’anzi, alla fine di questa lezione potremo giungere alle definitive conclusioni circa questo aspetto.

Ci troviamo comunque in tal modo davanti alla stessa distinzione che abbiamo riscontrato per il tempo – vi è insomma uno spazio immanente ed uno spazio trascendente. Lo spazio immanente corrisponde all’effettiva estensione (che noi cogliamo molto distintamente per mezzo dei sensi), mentre lo spazio trascendente corrisponde ad una solo apparente estensione.
L’estensione spaziale effettiva è dunque quella che è caratterizzata dalla consecuzione (o sequenza) di luoghi in quanto punti, ed essa è talmente serrata da suggerirci sempre l’immagine di una linea. La linea è insomma una somma di punti, o anche luoghi. E su questo poi la filosofia ha iniziato a riflettere molto precisamente già da Aristotele in poi. Infatti nelle “Categorie” egli fa un’analisi molto precisa ed esaustiva della linearità spaziale. Ma non mi soffermo su questo perché dovrei entrare molto in dettaglio.
L’estensione solo apparente è invece quella che è caratterizzata da una linea (quale insieme di punti) in assenza però di una vera continuità. Infatti ogni suo luogo o punto essa rinvia alla Totalità dell’estensione, ed è quindi essa stessa un Tutto. Tale discorso è molto simile a quello che abbiamo fatto al riguardo della Totalità del tempo trascendente, ossia l’eternità. La differenza sta solo nel fatto che, mentre li si trattava dell’«eternità di un quando», qui invece si tratta dell’«ubiquità di un dove». In altre parole qualunque «dove» dell’estensione trascendente è sempre anche un «dovunque», e quindi configura sempre un «tutto spaziale». Invece qualunque «quando» del tempo trascendente è sempre anche un «sempre», e quindi configura un «tutto temporale».
Inutile dire che, almeno da Kant in poi, questo genere di discorso sullo spazio trascendente (così come sul tempo) è divenuto filosoficamente insostenibile. Kant direbbe che esso non trova alcun riscontro nell’esperienza, quindi è un assurdo logico costruito artificiosamente dalla mente (una “chimera” o “paralogismo logico”), e pertanto è privo di qualunque effettiva realtà. I moderni filosofi analitici e del linguaggio troverebbero inoltre in questo discorso tutta una serie di esiziali cortocircuiti logici che secondo loro hanno piena giustificazione nelle false connessioni tra cose che tende a venire istituita dalla mente soggettuale. E che poi sono prive di qualunque presa nella realtà oggettiva.
Tuttavia – anche se non potrei menzionarne i luoghi specifici – nel pensiero antico lo spazio trascendente veniva considerato esattamente come io l’ho poc’anzi descritto. E prova può esserne il fatto che il discorso tomista sull’Atto puro (vedi lezione diciassettesima) si presta bene a venire extrapolato in questo senso – lo spazio trascendente insorge quando viene abolita la necessaria progressione di essere da potenza ad atto (cioè da possibilità a realtà), e quindi viene abolita la sequenza di luoghi. In questo caso il singolo luogo (potenza) è sempre ontologicamente equivalente alla totale estensione dello spazio (atto); ossia la potenza è sempre già tradotta in atto.
È evidente che con ciò si è sempre descritto lo spazio corrispondente al livello divino di essere – caratterizzato dall’eternità così come anche dall’ubiquità (o omnipresenza). Ed in effetti, se ci riportiamo al concetto gregoriano di “adiastáto”, possiamo constatare che lo spazio eterno è esattamente privo di estensione, e quindi non è assolutamente sequenziale.
Intanto bisogna registrare la davvero fondamentale riflessione cartesiana sullo spazio, che identificò quest’ultimo esattamente come “res extensa”, ossia attribuì ad essa esattamente il carattere essenziale dell’estensione. Per Cartesio insomma lo spazio non è altro che estensione, e quindi è invariabilmente sequenza. Ebbene, questo non è solo lo spazio immanente ma è anche il modello ontologico per qualunque genere di possibile spazio. Per cui non vi è per lui alcun altro spazio; meno che mai uno spazio trascendente. Quest’ultimo può infatti corrispondere al massimo a quella “res cogitans” che è la sostanza della mente, e come tale è un flusso più che non una sequenza.
Kant venne infine a dirci che, se è vero che lo spazio esiste primariamente nella nostra mente (come “a priori”), intanto esso viene però proiettato sulla realtà presentandosi così a noi invariabilmente proprio come una sequenza, e precisamente una sequenza casuale. Pertanto, pur essendo in principio soggettivo, per lui lo spazio oggettivo è comunque lo stesso di Cartesio.
E credo che di più davvero non ci sia da dire sulla classica trattazione filosofica dello spazio. Almeno io personalmente non ho studiato così approfonditamente il tema da poter elencare ulteriori dottrine che lo teorizzino.

A questo punto non mi resta che rifarmi, quindi, agli studi tradizionali che ho già altre volte menzionato nel corso di queste lezioni. I quali a loro volta si rifanno ad una riflessione metafisica che in Occidente è avvenuta soprattutto nel neoplatonismo (specie con Plotino), mentre in Oriente è avvenuta con i Vedanta ed in parte anche con il Buddhismo.
Secondo questa tradizione di pensiero (che potremmo genericamente definire «platonica») lo spazio immanente non esiste affatto almeno quanto non esiste affatto l’essere immanente. Essi sono certamente evidenti ai nostri sensi (tanto che all’uomo comune può sembrare una vera follia negare che esista qualcosa come lo spazio esteso), ma in verità tutto ciò è solo frutto di illusione.
Ebbene per tutto questo mi è sempre sembrata paradigmatica la riflessione condotta su tale aspetto da René Guénon [René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi, Milano 2006, 1-4 p. 19-55]. Egli sostiene in particolare che l’intera fisica moderna ha commesso il grave errore di scambiare la massa elementare con la corporalità elementare – come se, insomma, noi cogliessimo percettivamente ciò che è elementarmente quantitativo (cioè la struttura fondamentale delle cose, o enti) in quanto corpo. È un fatto, del resto, che l’intera fisica moderna (dalla filosofia della Natura rinascimentale in poi) ha descritto tutto il possibile in termini di relazioni tra “corpi”. Guénon sostiene invece che la corporalità è l’esatto contrario di ciò che è fisicamente elementare, e cioè la massa che noi (su sollecitazione della scienza) crediamo di cogliere come dimensione quantitativa basica. Quest’ultima è infatti quanto noi usualmente definiamo come «corpuscoli» (molecole, atomi etc.), che si ritiene poi vadano a costituire le cose del mondo in quanto corpi. Tutto ciò, dice lo studioso, non è altro che il livello più infimo dell’essere, ossia quello che appunto corrisponde alla “materia” bruta e primordiale.
E quest’ultima è “quantità”, in luogo di “qualità”, esattamente perché non è organizzata in alcuna struttura. Dunque essa è solo puro caos, e pertanto non può essere nemmeno intelligibile.
Per questo si tratta di massa e non di corporalità. Quest’ultima è invece organizzata e composta per definizione, e pertanto è perfettamente intelligibile.
È evidente, quindi, che quanto non ha alcuna struttura non può nemmeno in alcun modo costituire la struttura fondante la realtà. Ossia (nella questione che stiamo dibattendo) la struttura fondante la realtà non può essere affatto lo spazio occupato dai corpi che a loro volta stanno tra loro in relazione dinamico-causale. Tutto ciò significa allora che è stata del tutto arbitraria l’assunzione di poter toccare il fondamento delle cose semplicemente portando l’indagine sempre più in basso lungo i livelli di essere. Tutto ciò ha avuto quindi solo il significato di pervenire al supremo «basso». Ma non ha significato affatto pervenire ad una spiegazione ultima.
In altre parole l’accusa di Guénon alla moderna scienza empirica (con al centro la fisica della massa e dei corpi in relazione causale tra loro) è quella di averci condotto a conoscere un mero nulla, ossia di averci portato a non conoscere affatto.
Ecco che allora ciò che ci viene dato come struttura fondamentale della realtà, è in verità una costruzione totalmente artificiosa ed irreale. In tal modo, infatti, dice Guénon, ci viene dato appena di venire a sapere del livello di essere che si trova al di sotto (“infra”) del vero ed autentico livello basilare della realtà, che è appunto caratterizzato dai corpi (in quanto strutture composte e complesse, e non invece elementari).
È in tale contesto che, secondo lo studioso, è nata nella scienza della Natura l’idea dello spazio come estensione fondamentale, ossia contesto nel quale dei corpi elementari starebbero in relazione tra loro costituendo così il tessuto sottilmente quantitativo di qualunque forma di realtà. È evidente che allora, se pure tale spazio può venire concepito, esso non può venire affatto inteso come il fondamento della realtà. E quindi diviene giustificatissimo considerarlo appena un’illusione dei sensi. Esso, infatti, corrisponde perfettamente al luogo più infimo ed oscuro dell’essere in cui regna in verità il più puro caos, e cioè quello corrispondente alla materia bruta. Anzi per Plotino questo è il luogo in cui non regna altro che il male stesso.
Del resto non è affatto difficile provare la veridicità di tutta questa dottrina. Basta infatti che io mi giri intorno nella mia stanza e non vedrò altro che corpi, cioè strutture complesse e composte invece che elementari – tali sono la sedia su cui siedo, il tavolo al quale mi appoggio, e le mura che mi circondano etc. Io non percepisco altro che questo, e quindi addirittura non ho alcuna prova dell’ipotetico spazio invisibile che (come continuità infra-sensibile) connette tutte queste cose. Di certo io intanto «mi oriento nello spazio», cioè identifico delle grandi direttrici che mi fanno sentire al centro di uno spazio ben ordinato.
Ma anche questo non è che un insieme composto e complesso, ossia è un blocco corporale e quindi è una Totalità corporale.
È ovvio però che qualunque moderno scienziato della Natura (ancor più coloro che hanno approfondito la fisica sub-particellare) potrebbe solo sbellicarsi dalle risate di fronte ad una dottrina come questa.
Sta di fatto, comunque, che essa non ha alcuna pretesa di essere una dottrina scientifica, bensì vuole essere solo una dottrina metafisica, e specificamente onto-metafisica. Abbiamo anche visto che peraltro l’argomentazione non è priva di una sua logica ineccepibile.
A questo va aggiunto però che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo iniziò a svilupparsi quella teoria “gestaltica” che diede ragione dell’essere proprio come insieme di Totalità corporali organizzate ed esso stesso alla fine Totalità corporali organizzata [Barry Smith (ed), Foundation of Gestalt Theory, Philosophia Verlag, München Wien 1988]. Ma sta di fatto che questo era stato già perfettamente intuito da Platone nel Timeo.

Che dire allora?
La visione metafisica (specie se orientata «platonicamente») ci permette di non incorrere in una molto probabile illusione nella quale sembra incorrere perfino la scienza empirica più rigorosa e realista. E si noti bene che questa è una metafisica davvero estrema. In essa è infatti del tutto assente perfino quel concetto di sostanza che, da Aristotele in poi, è stato impiegato proprio per giustificare l’idea di una spazialità fondamentale. Infatti nell’argomentazione di Guénon non vi è alcuna traccia di tale concetto. E del resto, altrove nello stesso libro, egli identifica la dimensione qualitativa dell’essere (ossia quella per lui davvero rilevante) con l’”essenza”; laddove invece la dimensione quantitativa viene da lui identificata con la “sostanza”.
Ecco allora che l’onto-metafisica di stampo aristotelico si presenta come un vero e proprio materialismo a fronte di quella platonica. E sembra quindi che proprio da tale materialismo (che esso sia scientifico o addirittura metafisico) si debba fuggire per non cadere in una delle più robuste illusioni che caratterizzano la nostra esistenza, cioè quella di vivere restando costantemente immersi in uno spazio. Del resto va al proposito anche osservato che sia il concetto di «spazio» che quello di «mondo» sono sostanzialmente metafisici e non scientifici. Nessuno di noi infatti si imbatte, nel corso dell’esperienza sensibile, in un oggetto riconoscibile come spazio o mondo. E ciò rende le cose davvero paradossali.

Bene! Allora quale lezione possiamo trarre da tutto questo, sintetizzando la questione a vantaggio dell’uomo comune? Se lo spazio (immanente) è in verità solo un’illusione, quale ricaduta può avere questa consapevolezza nella nostra esistenza quotidiana?
Io direi che la principale ricaduta è quella che ho evidenziato anche alla fine della lezione sul tempo. Infatti l’assenza di un fattuale «dove» corrisponde abbastanza bene all’assenza di un fattuale «quando».
E pertanto, quando io soggiorno in un luogo (avendo così davanti a me la prospettiva di dovermi penosamente ed interminabilmente trascinare da questo luogo ad altri luoghi successivi) in verità non sono affatto davvero lì, ma sono invece in qualunque possibile luogo dell’infinità corrispondente allo spazio trascendente. Ecco allora che la dimensione dell’eternità (corrispondente al tempo trascendente) equivale alla dimensione dell’infinito (corrispondente allo spazio trascendente).

In verità non è affatto difficile rappresentarsi questa costante relazione esistente tra lo spazio immanente e quello trascendente. Anzi essa ha perfino una sua stringente logicità di tipo simbolico-geometrico.
Tale logicità consiste in due fatti appaiati e interconnessi tra loro. Il fatto che lo spazio immanente è una Totalità unitaria solo potenziale, cioè per davvero molteplice, e quindi per davvero essa consiste in una sequenza di punti-luoghi (i molteplici «dove»); e il fatto che lo spazio trascendente è invece una Totalità unitaria pienamente attuale, cioè per davvero unitaria, e quindi per davvero essa consiste in un solo punto (che a sua volta in maniera sublime corrisponde ad una linea priva di estensione sequenziale). Ecco che la Totalità unitaria potenziale è l’effettiva spazialità intesa come sequenza, mentre la Totalità unitaria attuale è la super-spazialità infinita.
Un diagramma può servire a comprendere meglio questa relazione. Esso consiste in definitiva in un semplicissimo triangolo la cui base poggia sulla linea dello spazio immanente mentre il suo vertice tocca un punto della linea dello spazio trascendente. Possiamo facilmente constatare come un solo punto dello spazio trascendente (quello toccato dal vertice del triangolo) abbraccia in sé un intero segmento della linea dello spazio immanente (corrispondente alla base del triangolo). E così possiamo dire che i due punti (apparentemente) separati da questo segmento sono in verità uniti nel punto trascendente. Tutto questo può del resto valere anche per la relazione tra tempo immanente e tempo trascendente. Per cui ciò che vale per l’infinito vale anche per l’eternità. Pertanto, così come l’intero tempo di un’esistenza (o anche di un mondo) può essere ricompreso in un solo punto dell’eternità, allo stesso tempo l’intero spazio di un’esistenza (o anche di un mondo) può venire ricompreso in un solo punto dell’infinito.
Bisogna far notare che questa serie di immagini teoriche non è altro che la conseguenza della dottrina filosofico-metafisica (prevalentemente platonica) secondo la quale l’Uno (cioè il Punto supremo, o anche Principio) contiene in sé totalmente la molteplicità immanente.

Ebbene, tutto ciò ha una conseguenza estremamente importante dal punto di vista metafisico-religioso, che è stata analizzata in maniera profondissima da Edith Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006]. Uno degli aspetti della località rigorosamente determinata è infatti quello della nostra finitezza di enti umani. Noi, insomma, sentiamo di non avere il diritto di considerarci anche appena un po’ più grandi di quel punto infinitesimo ed insignificante che effettivamente siamo nell’universo. In verità, però, noi siamo dei finiti in costante relazione con l’Infinito. E quindi siamo potenzialmente degli enti infiniti.
Dunque, così come noi viviamo nell’eternità ogni attimo della nostra esistenza, allo stesso modo viviamo nell’infinito non solo in ogni luogo in cui ci intratteniamo ma addirittura anche nel luogo che più ci intrappola nello spazio immanente (quello caratterizzato da un limite insuperabile), e cioè il «noi stessi» in quanto individui corporali (dotati di un’identità che in primo luogo è differenziazione, cioè netta separazione da tutto ciò che non siamo). Ma in verità noi viviamo ben oltre questi limiti. E ciò ci viene attestato proprio da Edith Stein nel sottolineare un aspetto dell’ente umano che ha una sua precisa validità filosofica oltre che metafisico-religiosa – l’uomo in quanto spirito (o più precisamente anima spirituale), e quindi Io spirituale, trascende sé stesso quale corpo proprio non essendo in alcun modo sottomesso al vincolo della localizzazione [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, II, IIB, 6 p. 191-193, II, III, 4-5 p. 226-229 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 5, 3 p. 115-116, II, Intr. II, 1, 1 p. 157-163, II, 2, 3 p. 240-255; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 22-23 p. 321-344; Edith Stein, Endliches …. cit., VII, 2-4 p. 307-323, VII, 9, 8 p. 385-387]. La spiritualità umana differisce da quella vegetale esattamente per questo motivo. E quindi essa è nella sua essenza perfettamente equivalente al senso più ardito che ha la parola “spirito”, e cioè quella di “Pneuma” o “Ruah”, cioè “alito” (Hauch), soffio che «va dove vuole». Per la pensatrice, infatti, la nostra vita intellettuale è spirituale proprio per questo; in quanto essa, per definizione, si muove in ogni direzione dello spazio e del tempo senza alcuna limitazione. E questo è poi anche uno degli aspetti sviluppati da Agostino (vedi diciottesima lezione) nel sottolineare la facoltà della memoria di cui dispone l’anima conoscente – essa è vissuto quotidiano e costante dell’eternità.
In termini filosofico-gnoseologici ed anche in termini neuro-fisiologici si tratta del fenomeno della “ripresentazione”. Il quale poi ci riporta a quanto abbiamo visto a proposito del saggio di Ricoeur dedicato alla memoria (vedi ottava lezione).
Ebbene il divenire consapevoli di tutto ciò può essere per ognuno di noi ben più che un’astratta e cervellotica consolazione. Può essere infatti consapevolezza della speciale natura ontologica dell’intellettualità che ci contraddistingue come enti umani, e cioè consapevolezza della natura spirituale di tale status. E ciò significa in primo luogo trascendenza del mondo in quanto sconfinata libertà.
Ma, in termini più specificamente religiosi, ciò implica inoltre la straordinaria similitudine del nostro essere con quello divino. Si tratta insomma di quanto continuamente ci ricorda la davvero straordinaria preghiera del Pater Noster – noi viviamo corporalmente nella spazialità immanente, ma in verità nello stesso tempo (grazie al nostro discendere dal Padre in quanto «figli») viviamo nell’eternità. Il che significa che, allorquando noi veniamo letteralmente dilaniati o stritolati dalle molteplici conseguenze della sequenza spazio-temporale, in realtà noi non siamo affatto lì, ma invece siamo del tutto al sicuro sotto le ali del Padre. Ciò avviene specialmente nella forma davvero atroce del dover pagare a caro prezzo fino all’ultimo dei nostri passati errori; e spesso addirittura essendo totalmente innocenti, a causa del fatto di aver commesso errori solo in piena buona fede e magari anche con ottime intenzioni.
In ogni caso, se nemmeno questo serve a farci sentire meglio come individui (comunque gettati nel mondo e inchiodati da altri aspetti, ben meno gradevoli, della consapevolezza intellettuale), almeno può servire ad avere un maggiore rispetto per il nostro prossimo umano. Infatti, per quanto spregevole quest’ultimo possa essere, comunque parteciperà anch’esso della straordinaria dignità che ho appena descritto.

Ma c’è un ulteriore aspetto da tener presente quando si intravvede l’orizzonte trascendente ed infinito della spazialità. Ed ancora una volta esso ha una stretta relazione con la dura condizione rappresentata dalla nostra finitezza. Si tratta in particolare di un aspetto etico che sta in connessione con la spazialità intesa come (in primis) località delimitata. Di tutto ciò ho parlato comunque nel saggio da me dedicato al valore che a mio avviso dovrebbero ritornare ad avere i piccoli luoghi [Vincenzo Nuzzo, Localismo. Il valore sacro del piccolo luogo, Victrix, Forlì 2020].
Il fatto è insomma che (sulla base di quanto abbiamo visto finora), allorché noi ci troviamo confinati in un luogo molto drasticamente circoscritto (come avviene per ogni piccolo luogo tagliato fuori dall’intensissima rete di scambi che caratterizza invece i grandi luoghi civici), noi possiamo avere una ragionevole dose di certezza che è così solo apparentemente. È così, infatti, solo sul piano di una consapevolezza che tiene presente il solo spazio immanente, ossia quello impostoci dall’illusione sensoriale quale incontrovertibile evidenza. Non è così invece tutte le volte che la nostra consapevolezza inizia a tener presente (e magari anche contemplare) il concetto di spazio trascendente. Ecco che allora l’uomo si ritrova proiettato di colpo in quell’infinito che è insieme anche eternità. Egli si ritrova quindi a vivere in una condizione in cui il muro (apparentemente impenetrabile) delle apparenze viene continuamente trapassato (o letteralmente sfondato) in direzione di una dimensione esistenziale radicalmente diversa da quella immanente.
È insomma come se noi vivessimo contemporaneamente in due mondi, in due dimensioni parallele dello spazio ed anche del tempo – quella immanente (nella quale siamo immersi corporalmente) e quella trascendente (della quale partecipiamo in quanto enti spirituali).
Ebbene, io personalmente conosco due circostanze in cui è possibile vivere tutto ciò in una maniera estremamente concreta, ovvero per mezzo di atti simbolici dal significato molto forte.
La prima di queste circostanze è molto in generale l’esperienza religiosa, e più in particolare la preghiera.
E senz’altro qualcuno potrebbe a buon diritto aggiungere a quest’ultima l’esperienza della famosa «meditazione» (sebbene io resti convinto che la prima è infinitamente superiore alla seconda).
La seconda di queste circostanze è l’attività intellettuale-spirituale stessa, e più precisamente quella davvero intensa. Anche di questo ci ha parlato Edith Stein descrivendo lo straordinario quanto ordinario fenomeno dell’”assorbimento intellettuale” – quando io sprofondo in un pensiero (che sia da me prodotto o venga solo letto) è come se perdessi ogni connessione con lo spazio circostante [Edith Stein, Psicologia… cit., I, 2, 2 p. 60-65]. Cioè è come se vivessi per davvero nell’infinito.
Ma torniamo brevemente sul fenomeno della preghiera. Personalmente da molti anni vivo quotidianamente questa esperienza e mi sforzo anche di comprenderla ogni volta sempre più profondamente per mezzo delle intuizioni che essa provoca in me. E ciò che posso dire è che essa è un’esperienza propriamente ontologica più che gnoseologica. Insomma, quando io (come uomo) prego, è come se mi immergessi una realtà trascendente – che poi è l’essere divino stesso al quale in quel momento sto elevando la preghiera (il Padre, Gesù Cristo, Maria Vergine, uno dei tanti santi…). L’infinito e l’eterno sono queste Persone divine in cui la preghiera ci immerge per mezzo di quel vero e proprio mantra che è la formula linguistica rituale da noi recitata. Per questo non importa tanto se molto spesso, nel mentre preghiamo, noi ci allontaniamo da ciò che stiamo dicendo recitando per davvero solo con le labbra.
In ogni caso resta infatti sempre una certa dose di immersione del nostro essere nell’essere divino che ci trascende. E quindi, quando noi non partecipiamo più mentalmente al contenuto della formula recitata, è come se essa stessa si incaricasse di trasportarci mantenendoci in alto e sollevandoci verso il divino.
Credo che sia stato esattamente per questo che qualcuno (non ricordo più chi) ha affermato che la preghiera è in sé impossibile all’uomo. Per cui, se dipendesse solo dall’uomo, essa non raggiungerebbe mai Dio. Pertanto, quando si prega, è sempre Dio per primo a muoversi per venirci incontro. Il resto viene fatto dal nostro sincero desiderio ed ancor più il nostro amore per il «colui» che stiamo pregando.
Su questa serie di aspetti consiglio chi fosse interessato di leggere lo straordinario libro di Guardini dal titolo “Introduzione alla preghiera” [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009].

Ma tale discorso sulle possibilità che sono alla portata della più ristretta località ci riporta ad un aspetto che abbiamo finora toccato solo marginalmente, e cioè l’ipotetico valore superiore della stasi rispetto al valore del dinamismo. Anche di questo aspetto ho trattato approfonditamente nel mio articolo dedicato all’onto-dinamismo, e cioè al dinamismo dell’essere [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Abbiamo visto che sono in fondo statici sia lo spazio trascendente che lo stesso tempo immanente. Entrambi sono infatti delle Totalità proprio in quanto costituiscono dei blocchi ontologici e cioè delle vere e proprie Unità singolare. La nostra logica ci impedisce di rappresentarci coerentemente tali Unità, dato che esse sono nello stesso tempo limitate ed illimitate – tali sono infatti tanto l’infinito (spaziale) quanto l’eternità (temporale). E ciò non avviene invece per alcun ente unitario che noi incontriamo nell’esperienza; dato che essi sono tutti esclusivamente delimitati. Ecco allora che l’infinito spaziale è una sorta di super-luogo, dato che (in quanto Unità singolare) non vi è assolutamente nulla al di fuori di esso. Esso occupa infatti tutto lo spazio possibile. Pertanto è come se fosse un unico luogo infinito. Quanto all’eterno temporale esso è parimenti una sorta di super-momento (o super-attimo), dato che al di fuori esso il tempo cessa totalmente di scorrere. Ma esso non scorre nemmeno al suo interno, dato che si tratta appunto di un attimo eterno, ossia una frazione infinita di tempo che però occupa tutto lo spazio possibile del tempo.
A mio avviso è sempre stato esattamente questo il significato dell’espressione «eterno presente» − concetto forzato e tradito invece da Nietzsche, che ne volle fare una sorta di infinito circuito avvolto su sé stesso (“eterno ritorno all’uguale”).
Da tutto ciò discende allora che – almeno entro un discorso sull’essere in cui domini l’etica ossia il giudizio di valore a sua volta gerarchico – la stasi appare ricomprendere totalmente in sé il dinamismo, rendendolo così ad essa relativo e pertanto di valore decisamente secondario.
Possiamo quindi sì affermare che stasi e dinamismo si lasciano in via di principio concepire come contrari, e possiamo sì a questo aggiungere anche che in qualche modo il dinamismo porta la stasi ad un compimento che essa altrimenti non avrebbe mai – sia nel caso dello spazio che del tempo. Infatti, la Totalità non insorge mai se luoghi e momenti non si distribuiscono su una linea dinamica e quindi fluente. E tuttavia questo non è che l’inizio del discorso. Se però portiamo invece il discorso fino alle sue estreme conseguenze, noi vediamo apparire il tempo eterno (tempo trascendente) e lo spazio infinito (spazio trascendente). E qui ricompare quindi davanti a noi la stasi nella forma specifica di un valore davvero supremo. Cosa che poi ci permette di contemplare l’Uno divino nella sua dimensione effettivamente suprema, ossia il livello ontologico nel quale non esiste altro che l’immobile e totale Quiete.
A questo tipo di considerazioni ci conduce un altro grande autore appartenente alla sfera degli studi tradizionali, e cioè il nostro L.M.A. Viola – laddove egli esplora i vari gradi della dimensione sovra-essenziale dell’Uno divino così come essa si è presentata nel pensiero occidentale soprattutto neoplatonico [LMA Viola, Essere Italiani, Victrix, Forlì 2015, I, I p. 21-34]. Ma anche in Oriente questo concetto è stato espresso con forza nell’immagine del Principio quale “mozzo della ruota”, e quindi immobile centro dei centri dal quale emanano per irradiazione tutti i possibili gradi di realtà (ovviamente decrescenti dal centro verso la periferia) [ Ananda K. Coomaraswamy, L’esemplarismo vedico, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 13 p. 209-229; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd.., 21 p. 371-376].
Inoltre direi che in Occidente forse nessun filosofo è riuscito a descrivere tutto questo meglio di Scoto Eriugena, nella sua discussione dell’intero ciclo onto-evolutivo nascente dall’Uno e ritornante infine all’Uno come definitiva e suprema Stasi [Nicola Gorlani (a cura di). Giovanni Scoto Eriugena. Divisione della Natura, Bompiani, Milano 2013].
Una volta chiarito tutto questo possiamo comprendere ancora meglio perché il piccolo luogo civico ha un valore infinitamente superiore al relativo grande luogo nonostante la sua così miserevole delimitazione.

Dunque tutto ciò può dirci la filosofia sulla realtà dello spazio. Questa volta però abbiamo constatato che dobbiamo rivolgerci ad una sfera di studi che la disciplina ufficiale perfino disconosce come discorso filosofico. Ossia dobbiamo rivolgerci a quella metafisica davvero estremista che viene esposta solo nel contesto degli studi tradizionali. Per il resto la filosofia dello spazio può dire davvero molto poco a noi uomini comuni.

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Il problema del tempo è stato costantemente affrontato in filosofia. Tuttavia vi è un deciso spartiacque tra trattazione antica e moderna del tema. I pensatori antichi, infatti, hanno sempre trattato del tempo come una dimensione dell’essere che si presenta costantemente sullo sfondo dell’eternità, la quale a sua volta veniva identificata non con l’infinità del tempo ma invece con l’assenza del tempo. Gregorio di Nissa, ricollegandosi a Plotino, definisce molto bene l’eternità in questi termini – essa è per lui infatti caratterizzata dallo status ontologico dell’”adiastáto”, ossia l’assenza di qualunque dimensione dell’essere e cioè più precisamente l’assenza di “estensione” [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381]. In tal modo l’eternità corrisponde esattamente a quel supremo livello ontologico che può solo venire definito come “hyperousios”, ovvero sovra-essenziale. E questo è poi per l’intero platonismo (pre-crsistiano e cristiano) il livello corrispondente all’Uno divino, ossia il livello che sta al di sopra dell’Essere stesso.
In altre parole i filosofi antichi guardavano ad un tempo immanente e nello stesso tempo ad un tempo trascendente – il primo percepibile sensibilmente (e quindi apparentemente molto reale) ed il secondo invece sovra-sensibile (e quindi di fatto così poco percepibile da sembrare del tutto irreale).
Il primo (il tempo immanente) veniva considerato equivalente all’essere molteplice che i nostri sensi colgono come una miriade non coordinata di enti e di qualità, e nello stesso momento colgono come realtà perennemente in movimento (laddove poi tale movimento corrisponde abbastanza bene alla transizione continua che c’è da un aspetto all’altro aspetto dell’ente). Quasi tutti i pensatori antichi, però (con pochissime eccezioni, come ad esempio Eraclito, Democrito e forse anche Epicuro), non si accontentarono affatto di tale assetto dell’essere temprale in quanto assoluto. Essi lo videro invece come fortemente negativo soprattutto perché impediva di conoscere l’ente nella sua completezza, e quindi rendeva in definitiva impossibile la scienza. In questo l’ostacolo principale veniva colto nell’essere inteso come puro divenire, quindi come qualcosa che non era mai possibile abbracciare con lo sguardo in una Totalità solidamente essente, e cioè in possesso di quella stabilità che poi era in primo luogo del singolo ente.
Per tale motivo, allora, l’essere inteso come divenire veniva di fatto considerato equivalente al Nulla, ossia al non-essere. Dunque l’avversione dei filosofi antichi per il tempo immanente (equivalente a sua volta quasi interamente al divenire) non era solo di carattere gnoseologico-epistemologico, ma era invece anche di carattere etico-metafisico. In altre parole il tempo immanente veniva considerato una forma degenere (e perfino malefica) di essere. Tanto che esso veniva considerato equivalente al Nulla, ed il alcuni casi (come presso Plotino) veniva considerato equivalente al Male stesso.
È evidente che ciò ci rinvia fortemente alla visione orfico-pitagorico e platonica dell’essere; entro la quale la qualità e consistenza dell’essere stesso peggiorava progressivamente dal Trascendente verso l’immanente, per raggiungere a tale livello la natura di un effettivo Nulla, o almeno la natura di un essere totalmente illusorio. Inoltre veniva considerata totalmente negativa anche la conoscenza dell’essere che si svolgeva a tale livello. Essa infatti veniva considerata pura “ignoranza”.

Poco a poco però la filosofia ha iniziato a cambiare decisamente registro nella sua visione del tempo. Essa ha cioè gradualmente iniziato a guardare al tempo come unicamente immanente; quindi immanente in senso assoluto e non più solo relativo. Di conseguenza la disciplina ha smesso poco a poco di disinteressarsi totalmente del tempo trascendente, cioè dell’eternità.
Non ho intenzione di fare qui una storia del concetto di tempo nell’intera filosofia. Sarebbe un arduo compito ed io non credo di avere le necessarie competenze per poterlo fare. Si tratta insomma di un argomento che (per poter venire trattato) richiederebbe, almeno per me, un preliminare e molto approfondito studio. Tuttavia è possibile almeno fare un’osservazione molto generale ed approssimativa sul momento in cui lo stacco è avvenuto. Io direi che il momento di viraggio (nella visione filosofica del tempo) è da considerare la transizione dal Medioevo (Scolastica) all’Umanesimo rinascimentale. Certamente, nel corso di quest’ultimo, vi fu anche un grande rifiorire di studi del pensiero antico, e quindi vi si delinearono dottrine metafisiche ed anche esoteriche (di stampo fortemente platonico) che senz’altro conservarono e svilupparono il concetto di eternità. Si pensi a pensatori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Agrippa di Nettesheim, Paracelso, e più tardi anche lo stesso Giordano Bruno (che fu un filosofo della Natura solo nel senso di essere un grande platonico ed un grande anti-aristotelico). Tuttavia non mancò molto e lo scenario cambiò decisamente con l’avvento di una filosofia della Natura immanentista (rappresentata soprattutto da Bacone) che continuò il suo corso costantemente pur nel mezzo di una perdurante visione metafisica dell’essere. Che si protrasse poi perfino oltre Cartesio arrestandosi definitivamente solo con Kant. Si pensi ad esempio alla grande scuola platonica di Cambridge, che fiorì nel pieno del XVII secolo. Pertanto possiamo dire che, tenendo fermo l’Umanesimo rinascimentale come punto di svolta, il concetto di tempo trascendente (o eternità) è restato presente in filosofia almeno finché è esistito almeno una parvenza di metafisica.
Ma comunque il momento in cui il tempo immanente divenne definitivamente assoluto (in senso ontologico) deve venire considerato quello in cui Heidegger elaborò il suo concetto di “temporalità dell’essere” [Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi Milano 1976]. E qui siamo forse anche ben oltre la stessa visione che considera il tempo immanente come assoluto e non più invece relativo (ossia assolutamente non toccato né condizionato da alcun concetto di tempo trascendente, o eternità). Heidegger, infatti, sostiene che la stessa essenza (o sostanza) dell’essere consiste nel tempo, o meglio nella “temporalità”. Quindi per lui non è nemmeno il caso di pensare ad un essere che non abbia le caratteristiche del fluente divenire, e che consista quindi in un blocco statico corrispondente ad una Totalità infinita (totalmente priva di movimento, cioè senza tempo). Insomma a suo avviso il tempo non insorge affatto nel contesto dell’essere, ma è invece l’essere stesso. E quindi è semmai l’essere ad insorgere nel tempo. In altre parole per lui essere è tempo e tempo è essere. Poi si è diffusa tra gli heideggeriani la stucchevole e frivola convinzione secondo la quale presso il primo Heidegger l’essere sia stato equiparato al tempo («essere è tempo»), mentre presso il secondo Heidegger il tempo sia stato equiparato all’essere («tempo è essere»). Ma queste sono solo astruse elucubrazioni da tecnici della filosofia che secondo me possono venire totalmente ignorate senza riceverne alcun danno.

Ebbene, tenendo conto di questo momento assolutamente terminale della riflessione filosofica sul tempo, credo che valga a questo punto menzionare almeno alcuni tra i pensatori che, nel contesto dell’intero pensiero umano, si sono soffermati più specificamente ed esplicitamente su questo tema.
Agostino di Ippona si produsse in una delle più straordinarie e profonde riflessioni sul tempo che vi siano mai state nell’intera filosofia. Ed il bello è che tale riflessione non solo superò decisamente l’intero pensiero antecedente – inclusi Platone, il platonismo ed il neoplatonismo (dato che in essi il tempo non era mai stato così direttamente tematizzato) – ma addirittura restò insuperata anche dopo, e cioè addirittura fino ad oggi. Vedremo tra poco perché. Per ora cerchiamo di penetrare il nucleo dell’argomentazione di Agostino [Agostino di Ippona, Confessioni, Paoline, Sulmona 1949, X, I-XLII p. 295- 350, XI-I-XXXI p. 353-385].
Egli si interrogò in primo luogo circa il vero e proprio mistero rappresentato dai tre momenti del tempo, e cioè passato, presente e futuro. E tale mistero coincide per lui con l’ontologia stessa di ciò che noi spontaneamente chiamiamo «tempo». Lo facciamo esattamente perché (per una misteriosa ispirazione) noi tendiamo ad abbracciare il tempo con il nostro sguardo intellettuale come se fosse un Tutto (ossia come abbiamo visto prima, cioè come se usassimo una cinepresa puntata sull’intera estensione del tempo).
Ma cosa abbracciamo con tale sguardo? La risposta di Agostino è netta: – «Nulla!». Noi infatti cogliamo il tempo come un «qualcosa» che proviene da un «dove», passa per un «qui», e procede verso un altro «dove», mentre in verità l’unica cosa che esiste è il soggetto (lo stesso «cogito-sum» di Cartesio) che ospita in sé queste concettualizzazioni di ciò che non esiste affatto oggettivamente ed oggettualmente. Insomma il tempo non è né un oggetto né è un essere. È in tal modo che Agostino coglie una delle funzioni conoscitive più straordinarie e sottili dell’anima, e cioè la memoria. E così si ricollega esattamente alla stessa riflessione fatta da Platone sullo stesso tema nel Teeteto..
Usualmente i professori di filosofia tendono a sottolineare la modernità concettuale di questa dottrina. Come se di punto in bianco, con l’Ipponate, la filosofia antica avesse smesso di colpo di trattare del tempo trascendente (l’eternità) e avesse preso ad esaminare invece il solo tempo immanente (il divenire). Per i moderni filosofi, infatti, modernità e riduzionismo sono esattamente la stessa cosa. Non a caso lo scaltro Heidegger (che non cessò mai di sfruttare, incorporandoli, diversi grandi pensatori) volle farci credere che la sua “temporalità dell’essere” avesse esattamente radici agostiniane [Norbert Fischer, ”Selbstsein und Gottsuche, Zur Aufgabe des Denkens in Augustins > Confessiones < und Martin Heideggers > Sein und Zeit“, in Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Heidegger und di christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2007, p. 55-90].
Ebbene, a mio avviso non vi è nulla di più falso in tutte queste letture di Agostino. Infatti a me sembra che egli più che mai abbia voluto sottolineare esattamente la sostanziale eternità del tempo, ossia abbia voluto trattare del tempo trascendente, e cioè quel tempo che sta così al di sopra dell’essere da assomigliare fortemente ad un nulla.
Altra grande riflessione sul tempo mi sembra poi quella di Gregorio di Nissa (della quale ho parlato prima).
Ma poi viene quell’altro immenso pensatore che fu Meister Eckhart.
Egli sostenne in generale l’ininterrotta continuità (ed anzi identità di essere) che vi è tra l’Uno divino ed il mondo, e quindi tra Sovrannaturale e Naturale. E così arrivò a concepire addirittura un divenire che altro non è se non la continuazione ininterrotta dell’eternità nel mondo immanente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. Alcuni suoi interpreti hanno parlato al proposito di “prospettivismo”, ossia di una concezione dell’essere che si identifica esattamente con la fluidità del divenire, ma senza intanto mai perdere intanto il suo ininterrotto legame con le Origini. Laddove poi le Origini non sono altro che l’Uno divino. Ciò significa che (come ci fa notare Mieth) la concezione eckhartiana dell’essere potrebbe a prima vista addirittura venire assimilata a quella nietzschiana, ossia ad una dimensione in cui non vi è altro che il movimento prepotentemente sospinto dalla volontà soggettuale. Per Eckhart infatti non vi è alcuna dislocazione tra la posizione del soggetto umano e quella del Soggetto divino; motivo per cui l’essere procedente dal Principio (l’Uno divino o Origine) procede allo stesso modo anche dal soggetto umano. Tuttavia l’inestricabile commistione esistente tra Trascendente ed immanente allontana immediatamente le suggestioni nietzschiane. L’essere fluente, quindi, non è altro che il braccio immanente ed orizzontale di una cascata verticale che emana continuamente dal Principio divino. Ho discusso questi concetti in uno specifico articolo [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Sicuramente bisogna menzionare poi anche la concezione dell’essere di Bergson (della quale ho parlato nella diciassettesima lezione). Egli vide infatti l’essere come sostanziale “durata”, e precisamente come il percorso tracciato nel tempo da un’intelligenza creativo-vitale immanente che non cessa mai di cristallizzarsi negli enti determinati, per poi di nuovo oltrepassarli dirigendosi verso nuovi obiettivi creativi.
E ciò ci riporta inevitabilmente anche alla concezione darwiniana della Natura.
Su questa lunghezza d’onda fu senz’altro anche Nietzsche nel concepire l’essere come il prodotto della sola “volontà di potenza” soggettuale [Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Milano 2005, 54-88 p. 50-63]. L’essere fu infatti per lui unicamente la volontà stessa che si pone in movimento al puro scopo di superare e travolgere ogni possibile ostacolo, impennandosi così come un’onda che poi si abbatte dilagando in maniera inarrestabile, e generando così lo stesso spazio che sussegue. Insomma anche per Nietzsche l’essere non è altro che un nulla puramente dinamico, e quindi è qualcosa che sta sempre per definizione davanti a noi come qualcosa di totalmente e perennemente nuovo. Senza mai essere esistito prima che entrasse in moto il nostro atto di volontà.
Naturalmente tale volontà non è poi altro che l’impulso ad affermarsi vitalmente posto in atto da parte di quel soggetto umano che ha ormai superato decisamente sia i freni di qualunque morale (sempre paralizzante) sia le illusioni di qualunque metafisica dell’essere.
Ebbene anche Heidegger non fu molto lontano da tutto questo. Solo che egli scelse di identificare la “temporalità dell’essere” con una dimensione dinamica che trascende il soggetto stesso, non essendo altro che il fondamento più elementare del suo esistere, ossia quella vita che ad un certo punto, fatalmente, cessa di scorrere orizzontalmente per inabissarsi nel gorgo della morte. Dunque per lui tanto l’essere stesso quanto lo stesso soggetto umano come sostanza (il Dasein, o “esser-ci”) non costituiscono altro che un “essere per la morte” o anche “essere per la fine” [Martin Heidegger, Essere e Tempo .. cit., I, II, I, 45-53 p. 283-324]. Ovvero costituiscono qualcosa di unicamente onto-dinamico.

Mi sembra che queste possano venire considerate almeno alcune tra le più rilevanti concezioni filosofiche del tempo. Sebbene io non possa essere per nulla certo del fatto che il mio elenco sia completo.
Vorrei solo fare qualche breve cenno alla concezione buddhista dell’essere, che intanto è divenuta molto in voga anche nella filosofia stessa, specie quella anglosassone.
Il Buddhismo nega recisamente che esista qualcosa come la “sostanza” (vedi diciassettesima lezione), e quindi qualcosa che unifichi luoghi e momenti separati in quanto determinati. Per cui esso non può in alcun modo ammettere il tempo come essere. Forse nemmeno come essere fluente. Ed in questo si differenzia quindi perfino da Eraclito. Il Buddhismo può solo ammettere il tempo come una mera illusione ontologica, anzi forse la maggiore tra le illusioni ontologiche. Esso, infatti, non unisce nemmeno luoghi e momenti, dato che questi ultimi nemmeno esistono (in quanto non esistendo alcuna sostanza, non vi è nemmeno alcun ente). Ma oltre a ciò (diversamente da quanto sosteneva genialmente Agostino) per il Buddhismo non vi è nemmeno la sostanza animica (ossia il soggetto) che coglie il tempo. E pertanto quella stessa continuità di essere (che il tempo suggerisce spontaneamente alla nostra mente) è qualcosa che meno che mai esiste.
In altre parole, secondo il Buddhismo, parlare della temporalità dell’essere è la stessa cosa che parlare del totale nulla di essere che il mondo immanente è – puro e deteriore prodotto dell’illusione sensibile.
È insomma qualcosa che il soggetto umano non deve far altro che superare e dimenticare allontanandosi così per sempre dal ciclo delle nascite. Quello che è certo è intanto che tale dottrina non considera assolutamente la possibilità che il tempo immanente venga superato per mezzo del passaggio in un tempo trascendente, ossia nell’eternità. Infatti l’eternità è per esso null’altro che un’inconsistente edulcorazione del concetto di continuità sostanziale, e quindi è quanto meno può esistere. Il fedele del credo buddhista non ambisce pertanto ad altro che ad unirsi al grande Vuoto nel quale per lui ultimamente consiste l’Essere.

Bene. Giunti a questo punto dobbiamo come sempre chiederci cosa di tutto questo può servirci nella nostra esistenza quotidiana di uomini comuni.
Sinceramente mi risulta difficile rispondere a questa domanda. Perché in questo caso gioca un ruolo decisivo l’ideologia per mezzo della quale noi possiamo (o anche non possiamo) filtrare ed interpretare le nostre esperienze. Ecco che allora vi saranno senz’altro alcuni che preferiranno le concezioni più radicalmente immanentistiche del tempo (come quelle di Bergson, di Heidegger e del Buddhismo). Alcuni altri preferiranno invece le concezioni più radicalmente trascendentiste del tempo, cioè quelle che negano qualunque realtà al tempo immanente (come quella platonica).
Il problema deve quindi stare esattamente nell’approccio ideologico, con tutto il dogmatismo che esso comporta. E qui Eckhart può fungere per noi davvero da felice esempio. Il problema è infatti che il tempo è immanente ed insieme sempre anche trascendente. Ma ciò sottolinea non solo una discrepanza bensì anche una continuità. Il che significa poi che il tempo è senz’altro un flusso, ma è anche una stasi. Ed esso è stasi non solo nei suoi singoli frangenti (luoghi e momenti) bensì anche nella sua Totalità. Il tempo trascendente gregoriano come “adiastáto” è infatti un’eternità di essere che è blocco temporale proprio in quanto in esso non si muove nulla, e quindi l’oggi e l’ora (il presente) equivalgono perfettamente al sempre, ossia al Tutto. Per questo si dice che qui il tempo è assente. Perché esso non si muove. E non muovendosi non ricollega più nulla. Nello stesso tempo però esso è meno che mai rappresentato da luoghi-momenti statici che abbiano bisogno di venire ricollegati. Si tratta insomma di una concezione circolare e non più lineare del tempo.
Ecco allora che forse l’uomo comune (cioè tutti noi) potrebbe e dovrebbe essere interessato solo ad una concezione del tempo che sia insieme trascendente ed immanente; cioè sia anche tempo quando sembra solo eternità e sia anche eternità quando sembra solo tempo. Ciò significa allora che noi partecipiamo dell’eternità anche quando viviamo quella faticosa e spesso estenuante marcia in cui continuamente dobbiamo passare da un luogo-momento all’altro – e spesso in questo siamo gravati da speranze che non poche volte sono altrettanto torturanti quanto lo sono le preoccupazioni.
Dunque in qualche modo noi non siamo consapevoli del fatto che, proprio allorquando con maggiore pena percorriamo questo cammino (agognando il momento in cui potremo finalmente guardare con serenità all’angoscia ed al dolore che ormai ci siamo lasciati alle spalle, e tirando così il famoso sospiro di sollievo), in verità siamo già arrivati dove volevamo arrivare. E ciò è avvenuto perché, grazie alla costante commistione tra eternità e tempo, il percorso che seguiamo faticosamente passo dopo passo è stato in verità già consumato interamente da qualcosa come la straordinaria ed altissima campata di un vertiginoso ponte.
Deve essere questo ciò a cui si allude in alcuni salmi nei quali si parla del fatto che la vita umana è in realtà un soffio o un battito di ciglia. E ci sono immagini del genere anche nella letteratura religiosa vedica e vedantica.
In questo senso, dunque, sì che il tempo immanente è un’illusione; allo stesso modo in cui lo è lo spazio.
Il che significa che la nostra esistenza si consuma in ambasce senza che vi sia poi un vero motivo per questo. Insomma in qualche modo la nostra esistenza è sempre già compiuta in ciascuno dei suoi attimi.
E dev’essere per questo che (come abbiamo visto nella quattordicesima lezione dedicata alla morte) nell’ultimo attimo della nostra esistenza noi possiamo abbracciare tutto il percorso che abbiamo fatto – perché in verità ciò che sembra esserci stato in realtà non ci è stato affatto (almeno così come ci era sembrato). In altre parole noi nasciamo, esistiamo e moriamo restando costantemente immersi nell’eternità.
È chiaro che tutto ciò resta una debolissima consolazione nel momento esatto in cui noi siamo impegnati nella fierissima lotta con la serie infinita di momenti che si distendono davanti a noi. E tuttavia, anche solo il rivolgere il nostro pensiero a tale realtà, può forse aiutarci a non arrenderci troppo facilmente.
Se riflettiamo più a fondo, però, la consolazione è di portata ben maggiore di questa.
Infatti in ogni caso non si tratta nemmeno di questo, né si tratta della magari fatua illusione che potremmo costruirci su ciò che ho appena detto. Il momento del compimento non è infatti quello in cui noi abbiamo finalmente ottenuto ciò che avevamo desiderato per tutte la vita, annullando in tal modo la discrepanza tra possibile e reale (diciassettesima lezione). Il compimento è invece il momento in cui finalmente possiamo rivolgere il nostro sguardo all’indietro e non più in avanti. Ma la cosa più importante consiste nel fatto che il nostro sguardo è ormai pacificato, ossia non desidera più. Esso, insomma, si guarda indietro e contempla l’immensa estensione di quel sentiero dell’esistenza che non aveva mai smesso di serpeggiare tra valli, lungo fiumi e sui fianchi di montagne, che non aveva mai smesso di guadare fiumi e mari, che non aveva mai smesso di saltare abissi. E vede quindi finalmente che tutto aveva avuto un senso, che tutto aveva puntato verso un unico e solo risultato, ossia verso il compimento. Il compimento è dunque semplicemente la fine del dipanarsi della linea del tempo. Non è perciò affatto il momento della soddisfazione del desiderio ma è semmai il contrario. È il momento della cessazione totale del desiderio. Tuttavia non perché il desiderio sia in sé negativo (come pensano i buddhisti, ritenendo che esso perpetui un insensato attaccamento a enti mondani del tutto illusori). No. Perché invece il desiderio non è altro che un mezzo e non un fine. Esso è infatti la forza propulsiva vitale e fisiologica (tutt’altro che ingiustificata) che ci fa muovere insieme al tempo. Essa anzi fa sì che noi lasciamo che la linea del tempo ci infilzi come una lancia, portandoci con sé nel suo inarrestabile procedere.
Ecco allora che il nostro sguardo retrospettivo coglie per davvero il tempo come Totalità.
Ma, se ora ci poniamo da un altro punto di vista – quello che ci caratterizza quando non abbiamo ancora raggiunto la fine, e siamo quindi ancora pienamente immersi nel faticoso cammino a tappe del tempo immanente −, potremo finalmente comprendere che la fine (in quanto compimento) è letteralmente implicita in ogni luogo e momento di questo cammino. Per questo, dunque, quando noi soggiorniamo in ciascuno di questi punti, è come se in qualche modo già fossimo arrivati alla fine. Ma il momento della fine è quello in cui il movimento del tempo si estingue, e quindi il nostro esistere trapassa decisamente nella dimensione dell’eternità quale assenza di tempo. Ed esattamente quest’ultima è la dimensione in cui sperimentiamo il compimento.
Tutto quello che abbiamo detto significa insomma che tempo ed eternità sono inestricabilmente frammisti, e quindi che tra di essi non vi è in verità alcuna reale discrepanza. Quando viviamo l’uno, noi viviamo sempre anche l’altro. Dunque, se il momento dell’eternità e del compimento può ben venire considerato anche quello dell’eternità, allora dobbiamo constatare che noi viviamo continuamente la nostra immortalità anche se non lo sappiamo.
E con ciò torniamo alla lezione filosofica platonica – il corpo e la materia sono la causa (in quanto “prigione” e addirittura “tomba”) per la quale la nostra anima immortale è afflitta dalla continua illusione della mortalità, la quale poi altro non è se non la sequenza continua di luoghi e momenti per i quali dobbiamo passare affinché possiamo assolvere al compito esistenziale fondamentale del movimento. Movimento che avviene appunto attraverso la dimensione del tempo.

Bene. Anche quella appena esposta potrebbe forse costituire una dottrina della “temporalità dell’essere”. Ma non distruttiva, nichilistica, cupa e mortuaria com’è quella di Heidegger, bensì invece costruttiva, positiva, luminosa e piena di vita.
Non a caso Edith Stein, nel confutare la teoria di Heidegger, oppose alla sua assoluta temporalità dell’essere (in quanto tendere alla morte-fine) il vero e proprio “sfondamento verso l’eternità” che avviene nella nostra vita grazie alla Liberazione donataci dal Cristo morto in Croce [Edith Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 449-457].
Di nuovo, insomma, possiamo ritrovare nella filosofia grandi risorse per poter «ben vivere». Ma perché sia così dobbiamo prima ripensare criticamente la disciplina, e quindi ristrutturarla e riformarla, eliminandone le parti pleonastiche ed allargando le parti troppo striminzite. Abbiamo insomma bisogno di una sorta di meta-filosofia. Per poter disporre di questo l’uomo comune ha però bisogno di una guida nei meandri spesso oscurissimi della disciplina. E questa guida non può venire offerta se non da un filosofo. Un filosofo però che non si sia mai rassegnato ad arrendersi alla congiura esoterico-conventicolare che viene imposta sempre dall’Accademia filosofica ai suoi allievi. Una congiura nella quale si deve promettere di non aprire mai e poi mai all’uomo comune le mura ermeticamente sigillate della Cittadella della Filosofia.
Come ho sostenuto nel mio saggio su questa disciplina [Vincenzo Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018], ho sempre ritenuto che il mio compito fosse diametralmente opposto. Ed è esattamente per questo che propongo le mie lezioni.

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Credo di poter essere matematicamente sicuro nel ritenere che i moderni retori-divulgatori della filosofia non parlano mai di questo argomento ai loro «discepoli».
E ci sono diversi motivi per questo. Il primo motivo è che è un argomento davvero ostico, per quanto esso abbia attraversato l’intera filosofia almeno fino a non molto tempo fa. Il secondo motivo è che non credo proprio che il genere di «discepoli» dei retori-divulgatori di filosofia sia interessato ad argomenti così sofisticati concettualmente. Cosa del resto anche comprensibile, dato che cosa mai l’uomo comune dovrebbe farsene di questi due concetti nel corso della sua quotidiana esistenza? Il terzo motivo mi sembra però quello più appropriato – i concetti di essenza e sostanza, ed anche la distinzione tra di essi, sono ormai totalmente antiquati (proprio in quanto squisitamente metafisici). Per cui oggi nemmeno i filosofi stessi li impiegano più. Infatti l’odierna filosofia si è ormai totalmente liberata dalla metafisica trasformandosi soprattutto in una scienza positiva della mente, ossia qualcosa di mezzo tra logica e psicologia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].
Pertanto a tale proposito va detto che, dopo la seconda rivoluzione critica (successiva a quella kantiana) inaugurata dall’ermeneutica, dalla filosofia analitica e della filosofia del linguaggio (da Heidegger, Russell e Wittgenstein in poi), concetti come quelli di essenza e sostanza sono divenuti quelli che più presentano falle di tipo logico davvero esiziali (e quindi soccombono miserevolmente ogni volta che cadono sotto l’esame impietoso dei moderni logici). In altre parole, nessun filosofo si periterebbe più di usare concetti come questi senza sentire di doversi profondamente vergognare.
Tuttavia le cose cambiano non poco se equipariamo il binomio essenza-sostanza a quello potenza-atto, e poi semplifichiamo entrambi i binomi in quello che vede come protagonisti il possibile ed il reale (o anche l’ideale e il reale). Possiamo denominarlo binomio possibile-reale o anche ideale-reale.
Ebbene questo ultimo binomio sì che interessa tutti noi, incluso il più semplice tra gli uomini. Infatti tutti noi conosciamo perfettamente la discrepanza che esiste tra quanto vorremmo che si realizzasse (il possibile o ideale) e quanto effettivamente si realizza grazie ai nostri sforzi uniti alle circostanze ambientali ed al caso (il reale). Anzi si può dire che questo sia il tema intorno al quale si avvita drammaticamente (e a volte perfino tragicamente) l’intera nostra esistenza.
Per la verità l’eterna questione filosofica idealismo / realismo (cioè la perenna disputa tra le due prese di posizione diametralmente opposte dell’intero pensiero umano) sembra approssimarsi non poco al binomio possibile-reale. Ed in effetti ho accennato a tale questione in diverse lezioni iniziali. Infatti l’idealismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ideale di essere, mentre il realismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ormai già totalmente manifestata e quindi già completamente estinta nella cosa determinata. Naturalmente questa è però una grande generalizzazione ed approssimazione, dato che almeno in Occidente la disputa idealismo / realismo ha riguardato molto poco la Realtà e molto più invece la Conoscenza. Essa si è insomma preoccupata di scegliere il luogo migliore in cui fosse possibile validare l’atto di conoscenza delle cose del mondo – la soggettività o mente (idealismo) oppure l’oggettività mondana stessa, direttamente colta per mezzo della percezione (realismo). Si trattava cioè di decidere dove (tra soggetto e oggetto) è possibile ritrovare meglio la verità nel conoscere le cose. In Oriente invece l’idealismo e il realismo si sono confrontati molto più nel tentare di decidere circa quale fosse il luogo più «reale» dell’Essere – quello trascendente-celeste (ideale) o quello immanente-mondano (reale). Personalmente ho tentato di chiarire questa discussione in alcuni miei articoli [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164 ].
Tuttavia, generalizzando ora tutto questo, possiamo dire che il mondo ideale è quello che corrisponde alla «possibilità di essere» (o «potenza», che per definizione noi cogliamo come ciò che è ancora al di là da venire e quindi non è ancora un vista), mentre invece il mondo reale corrisponde all’«essere attuale» (o «atto», che per definizione noi cogliamo come ciò che è già avvenuto e quindi sta già apertamente davanti a noi). È ovvio che un filosofo accademico considererebbe questa affermazione come solo generica, imprecisa e senza alcun interesse per la disciplina. Però per l’uomo comune (come siamo tutti noi che ora stiamo qui discutendo) le cose non stanno affatto così. Infatti il campo della «possibilità di essere» corrisponde per noi tutti a ciò che potrebbe diventare realtà ma non lo è ancora diventato; mentre il campo dell’«essere attuale» corrisponde a ciò che non è più possibilità perché è ormai già divenuto realtà.
E tra questi due estremi (separati da una linea tensiva spesso spasmodica, che è fatta di speranze, desideri, paure, angosce, ed infine anche continue gioie e delusioni) si dibatte di fatto la nostra intera esistenza.
Se dunque vi è un aspetto della filosofia che più si approssima all’esistenza di ognuno di noi, quello è senz’altro questo.
Il problema è però che il campo di elementi sostanzialmente emozionali (coinvolti nel binomio possibile-reale vissuto dall’uomo comune) è estremamente lontano dagli interessi sostanzialmente gnoseologici della filosofia correntemente praticata. E a questo punto non si tratta solo dell’insufficienza della filosofia moderna. Dato che perfino la filosofia antica è abbastanza coinvolta in questo disinteresse. Infatti proprio il padre del concetto di potenza-atto, cioè Aristotele, non si occupò affatto di ciò che interessa l’uomo comune. Egli volle invece proporre una dottrina metafisico-scientifica che spiegasse l’essere in divenire, ossia il fenomeno di sviluppo delle cose fino al loro assetto attuale ed anche usuale, ossia il mondo così come noi lo vediamo. Ciò che gli interessava era insomma di tracciare e indagare una sorta di genetica causalistica dell’essere. E questo non è certo ciò che sta al centro degli interessi e delle preoccupazioni di tutti noi nel corso del nostro esistere. Noi ci preoccupiamo infatti in primo luogo della gioia e dell’orgoglio che ci possono venir procurati dalla capacità di tradurre il possibile in reale. Ne va insomma del realizzarsi o meno delle nostre più fervide speranze.
Le cose cambiano però molto se da Aristotele ci rivolgiamo a Platone. Quest’ultimo infatti vide nella sfera ideale esattamente quella «possibilità di essere» che è paradigmatica per qualunque livello di realtà in quanto ne costituisce l’immutabile ed eterno modello. Qui siamo dunque di fronte a ciò sul cui modello viene costituita ogni cosa secondo il criterio del «meglio» (e inoltre della «misura»), e quindi insorge l’essere più buono, bello e giusto che possa esistere, ovvero null’altro che l’ordine del kósmos. Tutto ciò che si sottrae al controllo esercitato da questo modello, non è per Platone altro che materia cieca e caotica, e cioè qualcosa che nemmeno possiamo considerare «essere». È chiaro che nemmeno questo corrisponde esattamente a quanto preoccupa l’uomo comune (tutti noi) nel riflettere sulla discrepanza tra possibile e reale. Tuttavia almeno Platone si approssima a questo molto più che Aristotele.
E ciò avviene secondo me a causa di un aspetto del suo pensiero che finora abbiamo esaminato più volte, ossia la convinzione del pensatore secondo la quale la sfera ideale dell’essere rappresenta la sfera cosale più autentica, ossia più pregna di essere oltre che di verità. Insomma, come abbiamo visto già tante volte, per lui l’Idea equivale totalmente alla cosa colta nella sua dimensione trascendente, o meglio l’Idea è la cosa più autentica che possiamo mai riscontrare. Pertanto ciò che molto in generale per la filosofia di ogni tempo (in primis per Aristotele) è quanto meno può venire considerato «essere» − cioè la sfera dell’ideale (o mera e vuota «possibilità di essere», che dipende drammaticamente dalla cosa reale ed immanente per poter acquisire l’essere) – è invece per Platone ciò che è «essere» più che mai. Il che, tradotto poi nel nostro ingenuo linguaggio quotidiano (di uomini comuni), significa che la sfera di essere del possibile vale molto più della sfera di essere del reale. E quindi ciò potrebbe significare per noi che non importa affatto se realizziamo o meno tutto ciò che è possibile che si possa realizzare. L’importante è invece che contempliamo ammirati la completezza e perfezione straordinarie del livello di essere ideale, ossia quel livello di essere in cui è rappresentato «tutto-il-possibile» come ciò che più corrisponde alla vera pienezza di essere. In altre parole, in base a questo si potrebbe giungere alla conclusione che non è tanto importante che ognuno di noi riesca o meno a tradurre in realtà tutto ciò che è teoricamente possibile. Importante è invece che esista un mondo trascendente (corrispondente esattamente a quello ideale) nel quale l’essere sta nella sua pienezza e perfezione pur senza aver nemmeno subito l’onta e la sfida del processo di determinazione – processo che segue sempre grandi dicotomie, in corrispondenza delle quali qualcosa cessa di esistere perché possa esistere qualcos’altro. Ma perfino questo momento così drammatico in negativo ci rinvia al principio perfettamente posto in luce da Leibniz, e cioè quello dell’essere come caratterizzato dal fatto fondamentale di essere “qualcosa e non nulla” [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. insomma la stessa implacabile dicotomia (che sacrifica fatalmente qualcosa per qualcos’altro) ci rinvia a questa ben più grande necessità, in forza della quale sempre l’essere insorge per negazione della totale negazione dell’essere stesso, ossia il Nulla. Il che significa allora che anche una dose molto ridotta e limitata di essere resta sempre molto meglio del nulla.
Ora, è facilmente immaginabile quanto una tale riflessione possa confortarci in quella nostra esistenza che così spesso è costellata di perdite irreparabili, amarissime rinunce e cocenti delusioni – tutte esperienze che ci approssimano di molto al Nulla, anzi in qualche modo vere e proprie piccole morti. Anche in questi casi resta infatti davanti a noi non solo il nostro personale essere (ci accorgiamo infatti che, come per miracolo, noi siamo ancora in piedi nonostante la mazzata che abbiamo appena ricevuto), ma ancor più l’essere dell’intero mondo. Il sole continua a sorgere e tramontare, il vento continua a soffiare, i fiumi continuano a scorrere, l’erba i fiori e i frutti continuano a spuntare. Tutto questo può di certo anche offenderci non appena siamo stati colpiti dalla sventura. Ma, dopo un po’ di tempo, ciò inizierà non solo a consolarci ma anche a scaldarci il cuore e perfino a farci sentire una sensazione di ebbrezza.
Ebbene, forse (nel corso di queste lezioni) non ci eravamo ancora imbattuti in un caso come questo. Un caso in cui la riflessione filosofica sembra essere realmente capace di aiutarci a vivere, e precisamente grazie alla saggezza contemplativa che induce in noi. Ed abbiamo visto che di questo (come di molte altre cose) dobbiamo essere grati a Platone ed al platonismo. Sebbene qui essi siano presenti più che altro come extrapolazioni.

Detto questo, direi che è ormai conclusa la trattazione del nostro tema. Abbiamo infatti trovato l’appiglio per mezzo del quale la riflessione filosofica su essenza e sostanza riesce a divenire utile per la nostra esistenza.
Tuttavia forse vale la pena di dare un’occhiata più da vicino ai concetti filosofici effettivi di essenza e sostanza. E questo per due motivi. Il primo motivo è quello di avere delle definizioni possibilmente chiare e sintetiche dei due concetti. Il secondo motivo è quello di verificare se la filosofia pura (ma quella a-temporale o anche a-storica), che da sempre si è occupata di questi due concetti, può o meno aggiungere ancora qualcosa a quanto ho poc’anzi detto. Qualcosa che possa essere utile all’uomo comune.
Ebbene l’essenza ha sempre indicato in filosofia l’Idea e insieme anche la forma (conoscitiva), cioè quanto costituisce il contenuto puramente intelligibile della cosa reale, ossia la rappresentazione che di quest’ultima noi ci facciamo nella nostra mente allorquando, posti al cospetto di essa come una “x” (una momentanea incognita), noi ci interroghiamo circa il suo molto specifico «cos’è questo?». Ecco che nel momento esatto in cui sorge in noi l’idea che sembra rappresentare quella cosa sinteticamente in modo davvero appropriato (mediante un nome che descrive appropriatamente il suo «cos’è?»), immediatamente emerge in noi anche la sua «forma», cioè l’idea che (come uno stampo perfettamente adatto) accoglie in sé la cosa stessa rendendola un’unità inscindibile ed inoltre unica. Essa risulterà infatti per noi diversa anche dalla cosa che le assomiglia di più, ossia quella che differisce dalla sua essenza anche per un solo minimo particolare. È evidente che si tratta con ciò di un’esaustiva sintesi delle qualità della cosa che intanto i nostri sensi (percezione) colgono in modo sparso, e cioè senza poterle unificare mediante un nome.
Ancora una volta devo far notare che dobbiamo al genio di Platone – specie nei dialoghi Teeteto e Cratilo – l’esplorazione e la descrizione davvero esaustiva di tutti questi aspetti. Il pensiero successivo a lui non ha fatto quindi che utilizzare queste conoscenze basiche per svilupparle in un senso o nell’altro. Ed in generale va detto che da un certo momento in poi (dopo che fu storicamente tramontato per sempre il concetto platonico di «idea», cioè successivamente al neoplatonismo pre-cristiano e cristiano) si iniziò ad usare prevalentemente il concetto di «forma». La quale stava poi a designare in primo luogo l’aspetto conoscitivo dell’atto per mezzo del quale il soggetto si pone in contatto con il mondo. Nacque insomma proprio così in filosofia quella che fino ad oggi viene chiamata «teoria della conoscenza» (in tedesco Erkenntnistheorie).
In quest’ultima, quindi, l’essenza corrisponde esattamente a quella forma che ci permette di cogliere la cosa in quanto ente conoscibile, o anche intelligibile. E per questo, come abbiamo visto, è assolutamente necessaria l’unificazione delle sue qualità sensibili.
Abbiamo visto però che ciò implica la sintesi. Ma la sintesi suggerisce al nostro intelletto piuttosto spontaneamente l’immagine di una concentrazione di essere. In questo modo ci spostiamo pertanto dal piano conoscitivo (ed inoltre epistemologico) a quello ontologico. Ebbene, su quest’ultimo piano l’essenza sta a indicare una sorta di punto ipotetico nel quale è concentrata un’estensione molto grande (perfino infinita) di essere. Tuttavia tale dimensione ontologica dell’essenza corrisponde poi (come abbiamo visto prima) alla valenza di Realtà (paradigmatica e trascendente) che l’Idea ha avuto entro la riflessione platonica. Così possiamo ben dire che l’indagine sugli aspetti ontologici dell’essenza è iniziata di fatto con Platone, e precisamente in relazione alla sua teorizzazione dell’Uno quale supremo Principio di essere (ossia appunto un’essenza estremamente prossima alla dimensione ideale che concentra in sé tutto l’essere possibile). Questa riflessione è poi però fiorita pienamente solo nel neoplatonismo. Infatti recentemente Yount ha posto in strettissima relazione quasi tutti gli elementi della riflessione onto-metafisica di Plotino con quella di Platone [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014]. Ma intanto una simile riflessione sull’essenza era sempre stata patrimonio del pensiero orientale di tipo vedantico. Veniamo dunque proprio in tal modo a quella valenza di «realtà» che ebbe l’essenza nella riflessione orientale.
In ogni caso proprio su tale base quella complessiva sapienza metafisico-religiosa ed esoterica che dal XX secolo in poi ha definito sé stessa come “Tradizione” ha raccolto questa intera eredità sviluppandola in una serie straordinaria di immagini simboliche tutte correlate tra loro in un insieme affascinante ed estremamente coerente. A chi volesse approfondire questa sapienza simbolica consiglio vivamente il libro di Guénon e quello di Schuon [René Guénon. Simboli della Scienza Sacra. Adelphi Milano 1975; Fritjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013].
Ma veniamo ora al concetto di sostanza.
Su questo ho già detto abbastanza nella dodicesima e nella sedicesima lezione (dedicate alla nascita ed all’esistenza), e tuttavia va aggiunto qualcos’altro in modo che sia chiara la differenza tra tale concetto e quello di essenza.
In linee molto generali se l’essenza rinvia alla concentrazione di essere, la sostanza invece rinvia all’estensione di essere, e cioè alla continuità che sussiste nell’essere nello spazio indefinito che divide tra loro le cose determinate o individuali. Si può dire quindi che la sostanza è stata concepita in metafisica come l’ossatura invisibile ed intangibile che costituisce l’essere al di là delle apparenze immediatamente sensibili. Le quali ci restituiscono appena l’immagine di cose separate le une dalle altre ma intanto poste in relazione tra loro per mezzo dell’influsso che costantemente l’una esercita sull’altra. Il concetto più prossimo a tale relazione è quello di causalità, e precisamente quello di causalità efficiente, cioè quella in forza della quale l’urto di una cosa contro l’altra produce il movimento. La causalità è insomma il dinamismo che supera il vuoto esistente tra le cose determinate. Ed in tal modo risaliamo chiaramente fino alla teoria atomistica di Democrito. In ogni caso questa relazione dinamica, supposta tra le cose (estrinseche le une alle altre), ci suggerisce altre due immagini ancora più universali, e cioè quelle dello spazio e del tempo. Lo spazio infatti irrigidisce il dinamismo causale in una sconfinata foto istantanea che ci restituisce l’immagine dell’intero essere. Il tempo invece lascia fluire il dinamismo causale come farebbe una ripresa cinematografica. Esso quindi (a seconda dell’ampiezza del paesaggio abbracciato dall’obiettivo cinematografico) può mostrarci il punto specifico in cui vediamo scorrere l’essere, oppure l’intera estensione dell’essere che scorre. E proprio quest’ultima è l’immagine che ci viene in mente quando pensiamo alla parola «tempo». Devo ricordare che su questo Agostino fece delle riflessioni fondamentali nel Libro X delle sue “Confessioni”. E sinceramente queste riflessioni mi sembrano molto più appropriate di quelle che fece Heidegger coniando il concetto di “temporalità dell’essere” in “Sein und Zeit”.
Ritornando al binomio potenza-atto, possiamo qui vedere la potenza nel tempo (ossia il divenire) e l’atto invece nello spazio. Il primo equivale pertanto alla possibilità di essere ancora pienamente dinamica, mentre il secondo equivale all’essere già cristallizzato staticamente. Mi sembra che Henri Bergson abbia perfettamente descritto tutto questo nella serie di immagini per mezzo delle quali parlò dello slancio vitale come causa produttiva di qualunque ente determinato [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri Milano 1964].
Questa definizione di sostanza è comunque quella che possiamo ritrovare in filosofi post-medievali come ad esempio Spinoza, e quindi è una definizione piuttosto razionalistica e molto prossima alle scienze della Natura. Essa tende infatti a dare ragione della continuità dell’essere (cioè della Natura stessa con le sue leggi eterne) e non invece della cosa determinata nella sua dimensione metafisica.
L’altra definizione, invece (la più antica), è stata quella aristotelica prima e tomistica poi. Ne abbiamo parlato nelle dodicesima e sedicesima lezione. Ebbene, in cosa esattamente differiscono le due definizioni?
Esse differiscono per il fatto che la seconda ha solo indirettamente l’ambizione di descrivere l’estensione dell’essere. La sua primaria intenzione è infatti quella di indicarci la pienezza di essere in quell’individuo osale estremamente determinato (in verità perfettamente corrispondente all’essenza di cui abbiamo parlato prima) che costituisce l’effettivo reale.
In esso sono infatti contenuti (ad esso «ineriscono») tutte le possibili qualità astratte, la cui sintesi ci restituisce una cosa conoscibile (la cosa della quale riconosciamo il «cos’è?»). Ecco che nel mentre l’individuo sostanziale è il massimo concreto, le qualità che lo costituiscono sono sommamente astratte.
Ed Aristotele riteneva che queste ultime corrispondessero esattamente alle Idee di cui aveva parlato Platone.
Abbiamo insomma davanti a noi la differenza (istituita da Aristotele) tra “sostanza prima” (l’individuo sostanziale concreto) e “sostanza seconda”, ossia quelle qualità astratte che (nella sedicesima lezione) abbiamo visto stratificate nelle colonne delle categorie.
Anche qui possiamo e dobbiamo riportare questa serie di concetti al binomio potenza-atto. La potenza corrisponde infatti alla sostanza seconda (e quindi a ciò che potremmo definire come astratto «progetto di essere»). L’atto corrisponde invece alla sostanza prima, ossia a ciò che «esiste» incondizionatamente e primariamente, e cioè «è» prima di qualunque possibilità di essere.
È evidente che in tale visione (molto più aristotelica che non tomistica) la bilancia di valore risulta decisamente spostata dalla possibilità in direzione della realtà. E quindi lo scenario di valori, in relazione a ciò che è «realtà», è decisamente invertito rispetto a quello che abbiamo descritto con la visione di Platone. Infatti ciò che noi dovremmo venerare è quanto già effettivamente esiste immanentemente, ossia quanto già è stato realizzato. Non invece ciò che attende di venire realizzato, e come tale costituisce il modello di qualunque possibile ente.
In termini etico-emozionali ciò implica conseguenze radicalmente diverse da quelle che l’uomo comune può trarre (circa la propria esistenza) ispirandosi alla visione filosofica platonica. Ma non voglio dilungarmi oltre su questo.
È chiarissimo, comunque, che questo secondo concetto di sostanza è abbastanza diverso dal primo. Tuttavia solo il primo significato di sostanza si lascia confrontare con il concetto di essenza in modo che risulti chiara la loro più evidente differenza, ossia il fatto che l’essenza indica la concentrazione di essere e la sostanza indica invece l’estensione di essere. Quanto invece al primo significato di sostanza, se volessimo discutere la sua relazione con il concetto di essenza – com’è avvenuto rispetto al concetto greco di “ousía” – dovremmo addentrarci in riflessioni estremamente complesse e sottili, che certamente non interesserebbero il lettore.
Il lettore però, in quanto non filosofo di professione, può essere certamente interessato all’altra distinzione tra essenza e sostanza, ossia quella tra concentrazione ed estensione.
Il che significa che tale distinzione ha un certo peso anche nelle questioni quotidianamente sollevate dalla nostra esistenza. Non entrerò nel merito del numero veramente grande di immagini che sono legate alle due dimensioni qui in causa. Basterà quindi anche solo fare qualche esempio. Lascio pertanto al lettore il compito di meditare su questo aspetto in modo totalmente libero.
Il primo esempio è quello di una concentrazione di essere che corrisponde al luogo circoscritto o finito, ed un’estensione di essere che corrisponde invece all’infinito in quanto illimitato. E questo suggerisce immediatamente a tutti noi la relazione che sentiamo tra noi stessi, quali esseri finiti, e l’immenso mondo o universo nel quale si svolge la nostra esistenza
Il secondo esempio (ancora più contemplativo) è quello costituito dalla relazione esistente (nell’ambiente in cui viviamo) tra il punto e la linea, e quindi tra ciò che è racchiuso in sé stesso e ciò che invece si sviluppa incessantemente.
Vi sono davvero infinite possibili proiezioni psico-emozionali, etiche e spirituali che possono essere fatte nel momento in cui ci poniamo a meditare su immagini come queste.
Naturalmente anche la riflessione sul binomio possibile-reale si presta bene a venire sviluppata proprio in questo contesto di meditazione. Ed anche in questo lascio il lettore libero di fare le meditazioni che ritiene opportune.

Bene! Ecco che in tal modo abbiamo constatato che perfino la filosofia pura può contribuire ad arricchire (in termini di riflessione) il nostro immediato (e così spesso cieco) esistere di uomini. A patto però che da essa venga estratto ciò che davvero è utile per l’uomo. Il che può avvenire solo se gli usuali concetti filosofici (per così dire di tipo tecnico) vengano extrapolati alle dimensioni di grandi immagini e grandi questioni. Ed in questo direi che la riflessione tradizionale (cioè l’eterna Scienza dei Simboli) può dare davvero un contributo forse molto maggiore della stessa filosofia.

Ma su tutto questo dobbiamo comunque ora addivenire ad una conclusione piuttosto sintetica. Abbiamo infatti identificato due diversi aspetti filosofici nel contesto dei concetti di essenza e sostanza.
Il primo aspetto esula totalmente dalla filosofia, corrispondendo alla relazione esistente tra possibile (quale non ancora realizzato) e reale (quale già realizzato).
Il secondo aspetto rientra invece nella più classica filosofia, corrispondendo all’essenza quale concentrazione di essere ed alla sostanza quale estensione di essere.
Entrambi gli aspetti sfuggono comunque in una certa misura alla riflessione filosofia più tecnica. Anche se abbiamo visto che non pochi elementi di quest’ultima possono almeno contribuire ad alimentare la riflessione che l’uomo comune può effettivamente fare su essenza e sostanza.
Nel complesso possiamo quindi dire che abbiamo finalmente individuato un campo della riflessione filosofica, nel contesto del quale la filosofia classica ha titoli molto maggiori per offrire contenuti dei quali l’uomo comune possa fare concreto uso. Ed è estremamente significativo che tale campo sia proprio quello che ha percentualmente occupato di più il tempo e lo spazio propri della riflessione filosofica planetaria dai primordi fino ad oggi. Si tratta insomma esattamente della riflessione circa essenza e sostanza

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È recentemente uscita la monumentale traduzione (dal greco al portoghese) del Nuovo Testamento (nella versione dei Settanta) ad opera del filologo grecista e scrittore Frederico Lourenço [Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016].
Ebbene un testo di una tale rilevanza (non solo religiosa ma anche culturale) non può venire affrontato senza entusiasmo ed immense aspettative. Cosa che ovviamente riguarda in particolare il credente, oltre che il pensatore religioso. Ma, ahimè, oggi la delusione è sempre dietro l’angolo esattamente quando appare un’opera che promette così tanto. Viviamo infatti in una cultura nella quale pare proprio che più una cosa viene considerata grande più essa inclina a valorizzare la brutale decostruzione all’elementare di tutto ciò che nel mondo per millenni è stato considerato un valore. Sta di fatto che un simile criticismo decostruttivo (anzi spesso per la verità francamente distruttivo) è iniziato con Kant e Voltaire, per poi raggiungere l’acme in Nietzsche, ed infine è divenuto un implacabile ed inarrestabile tsunami che ha travolto e travolge ogni cosa.
Ecco allora che una in sé pregevolissima traduzione dal greco delle Sacre Scritture cristiane finisce per dover essere necessariamente un’opera riduzionistica, brutalmente immanentizzante, desacralizzante e demolitoria, fino a raggiungere limiti che un tempo sarebbero stati giudicati blasfemia se non eresia. Ma questi due ultimi atteggiamenti sono oggi ampiamente considerati grandi virtù invece che vizi. E quindi non poteva non accadere che l’opera di Lourenço (già di suo scrittore super-premiato) venisse in Portogallo celebrata come un grande prodotto culturale ed una grande gloria nazionale.
Lo è però davvero?

Cerchiamo di comprenderlo meglio commentando i testi introduttivi che Lourenço premette alla traduzione dei Vangeli.
In generale la presa di posizione di Lourenço si riassume nei seguenti punti:
1) Il Vangelo è un testo molto attraente nella sua semplicità non solo dottrinaria ma anche linguistica (a causa del fatto che venne scritto in un greco senza pretese dedicato a gente semplice). Punto! Per il resto è un cumulo di false verità delle quali c’è solo da dubitare perché molto probabilmente sono state solo invenzioni. Insomma il Vangelo è null’altro che un bello e struggente (ma falso) testo letterario
2) L’Autore stesso si sente estremamente gratificato per il fatto di essere un grande e geniale grecista che intanto rende democraticamente merito ai testi antichi destinati ai semplici
3) Proprio per questo egli saluta i nuovi studi biblici (ormai in corso in tutte le “grandi università” mondiali), ai quali si dedicano ormai non più quotati teologi, ma invece giovani ricercatori (dottorandi e post-dottorandi) abituati a fare i filosofi e i filologi in maniera puramente tecnica ed affatto umanistica (cioè di quelli che non sanno nemmeno la differenza tra Iliade, Odissea e Eneide). Ebbene l’Autore appare essere molto lieto che a costoro venga offerta (anche grazie al suo esempio) la possibilità di smontare totalmente la sovrastruttura del testo sacro per riportarla all’elementare più nudo ed esplicito
4) Evidentemente su questa base Lourenço si sente fiero di continuare quella tradizione critica protestante che fu fin dall’inizio basata sulla raffinata erudizione testuale, e per questo si sentì pienamente giustificata nella propria opera di demolizione della tradizione
5) Per tale motivo egli dichiara più volte di credere solo e soltanto agli studi biblistici di ultima generazione (almeno quelli condotti dal 1963 in poi, anno della sua preclara nascita), dato che essi si sono espressi in modo unanime con legittimo scetticismo (rigorosamente scientifico) rispetto a quasi tutti gli aspetti più rilevanti dei testi evangelici
6) Ovviamente, in forza della sua traduzione e lettura dei testi, l’Autore annienta totalmente la realtà e credibilità dell’effettiva ispirazione divina dell’agiografo. Ne risulta insomma che il Vangelo è appena un insieme di testi letterari umani (come del resto l’umana logica vuole).

Tuttavia Lourenço non può non lodare il fascino della sua originale creatura. E così descrive in termini entusiastici la bellezza di testi che, pur essendo rudimentali (rispetto ai sontuosi testi epici dell’antichità), hanno surclassato in interesse e successo tutto ciò che era venuto prima di essi [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E così egli imprime su questi testi il marchio indelebile del suo apprezzamento previo, lasciandoci intanto però anche capire a cosa (secondo lui) esso è dovuto e a cosa invece non è dovuto: − “Sono testi che – con il loro messaggio sublime veicolato da parole la cui bellezza disarmante ancora fa rabbrividire chi le ha lette e rilette per una vita intera – rientrano semplicemente in una categoria a parte”. È evidente, in base a questo, che il valore dei Vangeli non consiste per lui assolutamente nel loro significato religioso, bensì invece in tutt’altro.
Dunque – dopo averci rassicurato con il suo autorevole imprimatur (che senz’altro ci impedisce di buttare subito via il libro per non riprenderlo mai più in mano) −, Lourenço sente di poter iniziare a snocciolare i motivi per i quali non vi è da credere ad una sola parola di ciò che è contenuto nei testi evangelici ed inoltre ancor più non vi è da credere ad una sola parola della costruzione dottrinaria che su di essa è stata eretta nel tempo.
Si comincia con il constatare il fatto che (come secondo lui confermato unanimemente dai biblisti degli ultimi decenni) non uno degli stesori dei Sinottici è per davvero chi sembra essere, e quindi non a caso si tratta appena di autori anonimi e tardi (operanti tutti intorno alla fine del I secolo d.C.). In altre parole i Sinottici non sono stati affatto scritti da coloro che noi conosciamo come evangelisti e discepoli di Gesù, cioè Matteo, Marco e Luca. E comunque, anche ammesso che fossero stati scritti da costoro, nemmeno si potrebbe essere certi della loro effettiva identità di discepoli di Gesù e pertanto autentici testimoni dei fatti. Un’eccezione va fatta solo per Giovanni. Ma questo per un motivo negativo e non invece positivo.
Giovanni infatti è l’unico a dichiarare esplicitamente nel testo che egli è esattamente colui che noi ci aspettiamo, ossia uno dei discepoli di Gesù, e peraltro il più amato da lui [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 313-317]. Peccato però che proprio Giovanni non sia altro che un intellettuale di tipo sacerdotale ebraico, il quale (indipendentemente dal fatto di essere stato o meno un discepolo di Gesù) non ha fatto altro che teologizzare i fatti nudi e crudi, trasformando così senza alcun diritto Gesù nel “Logos” divino e quindi producendosi nel complesso in una “finzione” teologico-letteraria bella e buona.
Ma non finisce qui. Perché poi vi è secondo lui il fenomeno lampante ed anche scandaloso di una quantità così grande di contraddizioni, omissioni e plagi (tra i vari testi evangelici) che lo studioso è costretto (per pura “logica”) a ritenere che nessun evangelista abbia detto la verità sui fatti. Il che porta poi necessariamente a supporre che non solo costoro abbiano distorto ed esagerato molte cose, ma addirittura ne abbiano inventate alcune di sana pianta [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E qui si giunge davvero al tracollo, perché su questa base non vi è una sola verità di fede che si salvi.
Circa la nascita di Gesù non si sa assolutamente nulla di certo (né circa la data né circa il luogo). Ed inoltre la verginità di Maria è una cosa così dubbia da essere addirittura costretti a supporre che essa venga semplicemente contraddetta dal fatto che Gesù ebbe dei fratelli (il che significa che Maria e Giuseppe, anche se successivamente, consumarono per davvero il loro matrimonio).
Circa la morte di Gesù non si sa nulla di univoco e anzi si è portati perfino a credere che non sia mai avvenuta. Soprattutto non si sa quando sia davvero avvenuta né cosa davvero Gesù abbia detto prima di esalare l’ultimo respiro. E qui l’Autore porta al massimo il ridicolo del testo, in quanto si sforza di dimostrare che il fatidico anno zero dell’era cristiana, ossia quello della nascita di Gesù è da spostare molto in avanti così come la sua stessa morte. Che sarebbe avvenuta non a trenta anni ma a quaranta o addirittura quarantasei anni.
Circa la resurrezione dei morti è lecito pensare che addirittura (come allora sospettarono effettivamente ebrei e romani) il corpo di Gesù sia stato trafugato dai discepoli, con la successiva invenzione poi di un sepolcro vuoto con tutti gli annessi e connessi.
Infine, pur ammettendo che gli evangelisti abbiano forzato e distorto i fatti in modo che coincidessero con le profezie del Vecchio Testamento, c’è da considerare il fatto che in quest’ultimo non vi è in verità alcuna traccia di tali profezie.
In ogni caso, per diminuire almeno un po’ la drammaticità di tutta questa distruzione (giustificando poi anche meglio il suo stesso lavoro), Lourenço dice alla fine che l’immenso numero di “difficoltà” obiettivamente presenti nel testo evangelico è esattamente ciò che costringe lo studioso a mettere spietatamente a nudo la “materialità” della lingua greca. Insomma, volendo essere più espliciti (di quanto l’Autore sia qui disposto ad essere), ciò vuol dire che bisogna fare in modo che le bugie presenti nel testo devono venire mantenute così come sono. Questa spietatezza (scettica e demolitoria) è però secondo lui benefica. Per cui la Chiesa stessa, secondo lui, dovrebbe essere la prima interessata a questa sorta di così strana, brutale e blasfema autenticità.

Passando poi alle introduzioni ai singoli Vangeli, vengono fuori per l’Autore ulteriori eclatanti «scandala» demolitori.
In primo luogo c’è da osservare che vi sono fatti rilevanti (sui quali si basano poi importantissime verità di fede) che stranamente sono presenti solo in alcuni Vangeli e non in altri. Ma per questo motivo finiscono inevitabilmente per perdere rilevanza alcuni momenti dell’insegnamento di Gesù ai quali è sempre stata attribuita la massima importanza. La tesi di Lourenço al proposito sembra insomma essere questa: − se non tutti gli evangelisti parlano di aspetti così importanti, allora può ben darsi che Gesù non abbia mai parlato di cose come queste. La tesi dell’Autore, insomma, si appaia in questo piuttosto perfettamente a quella di Renan, di Nietzsche e del suo conterraneo Saramago – Gesù non fu nemmeno lontanamente ciò che poi è stato fatto di lui.
Ecco che solo in Matteo noi ritroviamo il famosissimo e fondamentale discorso della Montagna, mentre invece non lo ritroviamo affatto in Giovanni [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Mateus, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 53-57; Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317]. Tutto il così significativo e suggestivo scenario dell’Annunciazione e della Nascita di Gesù si ritrova poi solo in Luca [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Lucas, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 217-220]. Inoltre sempre in Luca mancano tutti gli aspetti più drammatici ed anche miracolistici della vita di Gesù (Gesù non cammina sulle acque, non viene né flagellato né incoronato di spine), il che include poi anche la dolorosa e sanguinosa sua morte. Significherebbe quindi che tutta la teologia cristiana del dolore e della morte in Croce di fatto non varrebbe un fico secco.
Infine in Giovanni (oltre il discorso della Montagna) mancano completamente episodi fondamentali come la provazione nel deserto, il nome effettivo di Maria quale madre di Gesù, l’insegnamento del Pater Noster, e addirittura il presentarsi di Gesù come Messia [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317].
Inoltre (in base alla messa in dubbio dell’identità di Giovanni, che abbiamo visto prima) Lourenço menziona l’opinione del famigerato Rudolf Bultmann (il quale negò recisamente che costui possa essere stato per davvero testimone oculare di tanti importanti episodi) per giungere infine a sostenere che è del tutto lecito considerarlo addirittura un “impostore”.

Ecco, credo che davvero non ci sia bisogno di dire di più. A parte il senso di nausea e desolazione che coglie il credente davanti a queste affermazioni, è inevitabile non nutrire il sospetto che dietro di esse vi sia un’intenzione demolitoria che sfiora addirittura l’insidia satanica.
Non si può comprendere altrimenti quello che lo stesso Autore dice, e cioè di aver dedicato tutta la sua vita non solo alla traduzione di questi testi ma anche alla loro meditazione e contemplazione. Per cosa dunque?
Solo per coprire di ridicolo e di ingiurie le verità di fede che vi sono contenute?
A questo punto mi sembra addirittura non solo irrilevante ma anche estremamente ipocrita che egli difenda il suo impegno mettendo avanti la bellezza ed importanza dei testi che ha tradotto con un così grande e meritevole lavoro. Tutto ciò diviene davvero poco credibile, dato che la cosa più credibile è invece che egli abbia semmai visceralmente odiato ciò che intanto studiava.
Insomma la lettura lourençiana dei testi evangelici sembra l’esatto contrario di una lettura delle Scrittura che venga guidata dallo Spirito. E quindi risulta davvero difficile scartare l’ipotesi che egli sia stato guidato in tutto questo addirittura da una mano satanica. In ogni caso, se anche non è stato questo, non gli si può attribuire altro che quel ben noto corrosivo scetticismo ateo (venato peraltro visibilmente di odio e scherno) che da molto tempo è tipico dell’intellettuale moderno ed ancor più post-moderno.
Tutto questo però non è solo scandaloso per il credente. È invece anche estremamente sconsolante per l’uomo di cultura. Dato che è un atteggiamento di una piattezza, di una meschinità, di una scontatezza e di una banalità che davvero sono difficili da supporre in un filologo al quale viene intanto attribuito un così grande valore e viene tributata una così grande fama.
Insomma viene proprio il sospetto che l’opera “monumentale” di Lourenço (e forse anche il personaggio stesso) non sia altro che un altro dei tanti tipici bluffs culturali moderni.

In questa lezione dovrò davvero sforzarmi molto. Perché su questo tema sono stati spesi non soltanto fiumi ma invece anche oceani di inchiostro. E quindi, se pretendo di parlarne, dovrò dire necessariamente qualcosa di molto originale. Tutto questo dovrà però costituire l’esatto contrario dell’orgoglio. Per cui ciò significa che potrò parlare di questo tema solo rassegnandomi a poter dire appena qualcosina su di esso, senza quindi poter nemmeno lontanamente pretendere di essere completo ed esaustivo.

Ma partiamo da una costatazione iniziale del tutto banale, sebbene estremamente significativa – chi sia l’uomo nessuno non lo sa e nessuno può saperlo. E per vari semplicissimi motivi.
Il primo motivo è quello che noi stessi siamo uomini (noi che parliamo di noi stessi), e quindi non godiamo per definizione del privilegio di poterci guardare dall’esterno. Il secondo motivo sta nel fatto che l’uomo è oggettivamente qualcosa di troppo complesso e misterioso per poter davvero rispondere soggettivamente alla domanda circa la propria essenza ultima, ossia circa il proprio più autentico «cos’è?». In questa lezione forniremo alcune definizioni dell’essenza dell’uomo, ma comunque, sebbene estremamente ambiziose, esse sono tutte ben lungi dall’avere il potere di aver risolto per sempre il tema e problema. In altre parole l’uomo sta davanti a sé stesso come davanti ad un profondo mistero. Per definizione e senza rimedio!
Pertanto già ora possiamo iniziare a dire la cosa più conclusiva ed anche straordinaria e paradossale su questo tema: – dire cos’è l’uomo lo può dire solo chi lo conosce da cima a fondo, ossia Dio.
Si badi bene, però: – almeno per ora, con ciò non intendo fare assolutamente un’affermazione dogmaticamente religiosa. Anzi, tutt’altro! Voglio dire invece solo che, se noi dobbiamo fare lo sforzo di immaginarci chi sia colui che può davvero conoscere l’uomo da cima a fondo, possiamo solo concluderne che costui può essere solo un soggetto conoscente equivalente a Dio. Solo a questo soggetto conoscente può infatti venire attribuita l’ampiezza ed altezza di conoscenza che possono consentire di abbracciare con lo sguardo intellettuale un fenomeno ed ente così immenso e profondo com’è quello umano.
E va detto che forse solo la mente e la penna di Sofocle (Antigone) sono riusciti a ritrarre tale mistero con le dovute profondità e potenza: – “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna / è più mirabile dell’uomo:/ egli attraverso il canuto mare / pure nel tempestoso Noto / avanza, fra le onde movendo / che ingolfano intorno; / e l’eccelsa tra gli dèi, la Terra / eterna, infaticabile, egli travaglia, / volgendo gli aratri di anno in anno, / rivoltandola con i figli dei cavalli…” [Sofocle, Antigone, in: Dario Del Corno, Sofocle. Edipo Re. Edipo a Colono. Antigone, Mondadori, Milano 2010., I stasimo, 332-341 p. 281].

Dunque è da questo che dobbiamo partire.
E quindi è ora il momento di entrare nel merito delle risposte che la filosofia mette a disposizione per chiarire il nostro tema.
Tuttavia ho chiarito all’inizio di questo ciclo di lezioni (e l’ho ribadito a proposito dei fenomeni dell’esistenza) che non intendo affatto chiamare in causa l’intera filosofia, bensì solo quella che può davvero illuminare il cammino compiuto ogni giorno nell’esistenza da parte dell’uomo comune. Ma questo semplifica notevolmente il mio compito, dato che in tal modo potremo trattare solo di alcuni aspetti della visione filosofica dell’uomo. Infatti, se invece non lo facessimo, dovremmo addentrarci in dottrine di un’estensione e di una complessità per davvero sconfinate.
Basta per questo prendere anche solo brevissimamente in considerazione quelli che fin dall’inizio sono divenuti i due grandi rami filosofici della visione dell’uomo, e cioè quello platonico e quello aristotelico.
Ebbene, Platone considerò l’uomo in maniera primariamente ontologica, e precisamente in quanto ente dotato di un’anima primariamente conoscente, e quindi posta in contatto lo strato di essere più vero e reale secondo lui, e cioè quello (trascendente) delle Idee. Idee che per lui incarnavano le vere cose, ossia quelle trascendenti. Proprio per questo motivo giustissimamente il Prof. Reale ha fatto osservare che il primo e più grande pensatore dell’essere è stato Platone, e non invece Aristotele [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, V, IV p. 147-153, I, VI, I-III p. 158-176, II, VII, IV p. 217-227, IV, XVI, III p. 511-526]. Egli, infatti, individuò uno strato di essere trascendente di natura «ideale» ma insieme anche totalmente cosale (e quindi «onto-intellettuale»), che rappresenta di fatto tutto l’Essere esistente.
Il che è vero perché tutto ciò che sta al di sotto di questo strato non è altro che mero effetto (sempre più lontano dalla causa) e mera ombra – quindi è qualcosa di sostanzialmente irreale. L’uomo quindi viene definito da Platone in stretta relazione con questa specifica concezione dell’Essere. Ne consegue che la sua natura ultima viene vista esattamente in quella realtà onto-intellettuale che corrisponde poi a ciò che in filosofia poco a poco è stato identificato come «spirito» – si tratta di qualcosa che ontologicamente equivale esattamente alla dimensione intellettuale nella sua valenza cosale (Idea quale cosa, e cosa quale Idea; inoltre conoscenza che è essere, ed essere che è conoscenza).
E l’anima non è altro che l’aspetto più concreto e cosmico di tale realtà. Cosa che poi venne chiarita in dettaglio specialmente da Plotino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16 p. 1655-1661; Elena Gritti, Proclo. Dialettica anima esegesi, LED, Milano 2008, II, 1 p. 67-87]. Insomma in questo senso la natura dell’uomo è quella di un ente intellettuale-spirituale, la cui espressione più prossima al corpo è la dimensione animica. E devo a questo punto ricordare per inciso che la grande pensatrice ebreo-tedesca Edith Stein ha dato un grande contributo a questa concezione; insieme ad alcuni suoi interpreti, tra i quali io stesso [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/; Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010].
In ogni caso va sottolineato che per Platone la dimensione intellettuale, e quindi in qualche modo quella gnoseologica ed epistemologica (conoscenza), è in primo luogo ontologica, ossia è essere.
Comunque chi vorrà approfondire questo tema potrà leggere il mio saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017].
Ben diversamente stanno invece le cose per Aristotele (nonostante le apparenze). Per lui, infatti, la dimensione ideale-intellettuale non ha per definizione alcuna ontologicità. Essa è infatti appena
“sostanza seconda”, ossia riassume in sé tutte le qualità che possono venire attribuite (“dette di…”, o predicate) alla “sostanza prima”, e cioè all’individuo che intanto esiste senza aver bisogno di alcuna giustificazione ontologica (ovvero l’ente mondano colto nella sua dimensione metafisica). Insomma, tutto ciò che per Platone è l’essere stesso più pieno, per Aristotele è invece appena ciò che “inerisce” all’essere (l’ente-individuo in quanto sostanza prima). E quindi esiste per davvero solo se collocato in tale contesto. Altrimenti, preso da solo, è un puro nulla. Ecco allora che tutto quanto è umano, ossia il costituire un ente intellettuale-razionale (l’ente che «sa di sè»), è per Aristotele unicamente logico, e non invece ontologico.
Ebbene, esattamente da questo scaturisce una delle più forti, universali ed usuali definizioni filosofiche dell’uomo, ossia quella dell’uomo in quanto animale bipede e insieme razionale. Si può dire infatti che nessuna successiva concezione filosofica dell’uomo si sia discostata da questa definizione aristotelica.
Ma cosa essa ci vuol dire in primo luogo? Essa ci vuole dire soprattutto che l’uomo viene definito dal suo carattere logico universale (animale come “genere”), al quale vanno aggiunti poi gli ulteriori (e meno universali) caratteri logici (“specie”), ossia quello di bipede e di ente razionale. In altre parole per Aristotele l’uomo può venire definito nella sua essenza intellettuale-razionale senza fare alcun ricorso all’ontologia («onto-intellettualità»). Ecco che l’uomo può e deve venire definito come ente intellettuale-razionale appena in base ad una dimensione puramente logica. Il che impedisce ovviamente di dire quale sia l‘effettiva natura dell’uomo. Dato che quest’ultima può e deve venire definita solo e soltanto in termini ontologici. In altre parole, affermando che l’uomo è un “animale razionale”, Aristotele si è limitato a constatare qual è la natura dell’uomo dal punto di vista unicamente logico-razionale e, se vogliamo, puramente scientifico. Non ci ha detto però affatto «cos’è» l’uomo, cioè si è guardato bene dal fare anche un solo passo nel campo del mistero nel quale questo ente è avvolto.
Ecco. Qualunque definizione dell’uomo noi troviamo nella filosofia successiva a Platone ed Aristotele, noi dovremo inquadrarla in un una di queste due sfere dottrinarie. E quindi credo che possiamo astenerci dal dilungarci in una ricerca che seguirebbe l’intero iter della filosofia alla ricerca delle varie definizioni dell’uomo.
Il che ci permetterà quindi di concentrarci solo su alcune tra le tante concezioni.
Il criterio per la scelta di queste ultime dipende però dalle coordinate generali che già ora possediamo – l’uomo è un ente animico-razionale-intellettuale-spirituale (ente in quanto onto-intellettuale), e quindi è per natura capace di conoscenza e di auto-coscienza («sa si sè»). Pertanto possiamo già dedurne che l’uomo è un soggetto conoscente ed auto-cosciente, ossia sostanzialmente è molto più un «chi» o «colui» che non invece un mero «cosa» (un ente tra gli enti). Esso insomma è molto più un soggetto che non un oggetto. E su questo bisogna dare senz’altro ragione alle dottrine filosofiche di tipo idealistico.

Ebbene questo ci riporta però a quella affermazione solo provvisoriamente religiosa che ho fatto all’inizio – chi può conoscere l’uomo se non Dio, ossia il davvero supremo Soggetto?
Ed ora possiamo comprenderne meglio il perché. Abbiamo infatti appena visto che l’uomo è un «chi» e non un «cosa». Chi, dunque, può conoscerlo meglio se non il «Chi-Colui» per eccellenza che per definizione conosce l’uomo esattamente in quanto è un «chi» o «colui»; ossia Colui che lo conosce come un’irripetibile ed unica persona (soggetto conoscente ed auto-cosciente) prima ancora che sia venuto al mondo?
Costui è (e può essere) solo Dio.
Egli è infatti Colui che conosce ognuno di noi esattamente com’è (nella sua unicità assolutamente inconfondibile) fin dall’eternità. Egli ha insomma pensato ognuno di noi fin dall’eternità.
Ora, da questo veniamo di nuovo al problema della scelta dei pensatori, delle dottrine e dei testi che possono aiutarci ad approfondire questa materia. Anche qui le possibilità sono sconfinate. Per cui mi limiterò a menzionare (tra le mie letture) quei pensatori che più mi hanno colpito per quanto riguarda la perfezione della conoscenza dell’uomo da parte di Dio.
Si tratta di due grandi pensatori cristiani, e cioè Maritain e Guardini. Essi, quindi, potranno aiutarci a comprendere meglio questa definizione dell’uomo proprio partendo dalla perfezione della sua conoscenza da parte di Dio.
Prima di iniziare a discuterli vorrei però brevemente citare di nuovo Edith Stein. Questa pensatrice non è stata certo esplicita sul tema come lo sono stati Maritain e Guardini. Ma intanto ha sostenuto che l’uomo (in quanto ente animico-razionale-intellettuale-spirituale) è in primo luogo un irripetibile unicum, e precisamente un “Essente” (Seiende) che è poi l’esatto riflesso speculare del Logos divino [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006,VII, 9-11 p. 360-396]. Proprio in questo senso esso è l’esatta replica immanente del supremo Soggetto trascendente, che poi è l’Individuo ideale-cosale per eccellenza, ossia un supremo Ente (Essere) che è anche la suprema Idea di tutte le cose, ossia è la Possibilità trascendente di qualunque genere di ente. In questo si riassume la concezione steiniana di quei Trascendentali nei quali la Scolastica cristiana (specie tomista) volle vedere lo strato di essere nel quale esistono (entro l’essere e la mente divina) i modelli ideali di tutti gli enti creati [Edith Stein, Endliches… cit., V p. 239-279; Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXVII, 1 p. 20-25, 2 p. 26-40, 2 p. 54-58, 3 p. 56-64, 4 p. 115-126.]. Ebbene in questo uomo che è immagine speculare del Logos cristico, noi abbiamo già un ente caratterizzato dallo status di soggetto conoscente-cosciente ed anche di Intelletto, e quindi abbiamo già un sostanziale «chi» o «colui». E per la precisione si tratta di un ente umano-divino, ossia un «figlio di Dio» per natura e per elezione.
Non abbiamo invece affatto un mero «cosa» tra i tanti altri. Ma soprattutto non lo abbiamo perché si tratta di un ente assolutamente irripetibile, ossia un ente che è stato messo al mondo come un «qualcuno» e non come un «qualcosa». Il che può essere avvenuto soltanto attraverso un progetto creativo che non implicava appena il risultato finale da raggiungere, ma anche l’intimità personale con questo risultato, ossia il conoscerlo intimamente. Proprio come accade con una persona. Possiamo quindi assumere che Dio, allorquando crea ognuno di noi, già prima che ciò accada non solo ci ha davanti a sé nella nostra interezza ultima, ma inoltre già intrattiene con ognuno di noi un’intimissima relazione personale.
E ciò assomiglia molto a quella Prima creazione (creazione del mondo e dell’uomo restata interiore a Dio) della quale ho già parlato nella quindicesima lezione.
Va precisato comunque che, con questo complessivo discorso, la Stein tentò di definire quella che per lei era l’”essenza” dell’uomo, ovvero il suo preciso «cos’è?»; e quindi tentò di definire l’idea che costituisce l’uomo rappresentandone l’essere già a livello trascendente. Non a caso questo «essere» assolutamente unico-individuale dell’uomo esiste già, ed è perfettamente fissato (determinato), appunto a livello trascendente. La pensatrice, quindi, volle fare del tutto a meno del concetto aristotelico di sostanza (definente l’individuo umano), e pertanto il suo discorso ricade decisamente nella sfera platonica.
Ma differisce per questo anche da quella aristotelico-tomistica. Dato che in quest’ultima l’uomo viene definito primariamente dalla sostanza in quanto è soprattutto atto e non potenza (essenza), ossia è «atto di esistere», cioè in primo luogo è un assoluto ed incondizionato esistente (e dunque un cosa», cioè un oggetto più che un soggetto).
Esamineremo di nuovo più tra poco questo tema.

Veniamo però ora ai pensatori che parlano più direttamente dell’uomo come «chi» e/o come «colui»
Bene, Maritain, riallacciandosi alla visione tomistica (e quindi aristotelica), sembrerebbe a prima vista colui che meno giustifica questa definizione dell’uomo. Ne abbiamo appena parlato. Egli, infatti, considera l’uomo alla stregua dell’individuo così come venne definito da Tommaso, e precisamente in quanto sostanza prima immanente (alla quale tutto «inerisce»). Si tratta pertanto di un ente tra gli altri enti, e quindi in via di principio si tratta di un oggetto e non di un soggetto. Dunque la caratteristica primaria di tale ente è quella di essere un esistente (totalmente immanente) che è giustificato solo e soltanto da sé stesso nel proprio esistere. Esso è infatti la sostanza (reale) alla quale inerisce l’essenza (ideale). E pertanto per definizione non ha bisogno di alcuna essenza che lo vada a definire; cioè, per poter esistere, non ha bisogno di alcun «cos’è?» ideale e trascendente. L’individuo quale sostanza ha infatti tale elemento già in sé. Anzi l’idea-essenza non esisterebbe nemmeno senza l’individuo-sostanza che lo contiene.
Tuttavia, riferendosi sempre a Tommaso, Maritain aggiunge a ciò qualcos’altro, e cioè che questo apparente assoluto oggetto è invece (stupefacentemente) il soggetto per eccellenza. Però non lo è affatto di per sé, bensì sollo per concessione divina. Nel crearlo, infatti, Dio lo pone come “suppositum” perché esso in generale è sì un oggetto tra i tanti, ma nello stesso tempo (in quanto creato) è in ultima analisi un’Idea divina incarnata, e quindi è di fatto l’oggetto di un’affermazione soggettiva divina circa un ente che potrebbe esistere in quanto determinato [Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014, I, 4 p. 47-50]. Proprio come tale, esso è anche l’oggetto di un’affermazione conoscitiva soggettiva umana di tipo scientifico. Pertanto, a causa di tutto questo, esso è un oggetto pienamente esteriore che per nulla è mai separato dal soggetto conoscente (come invece l’idealismo aveva ipotizzato). Il realismo tomista, insomma (qui ripreso da Maritain), nega semplicemente che possa esistere un puro oggetto separato dal puro soggetto, e quindi afferma che ogni oggetto è sempre anche un soggetto (è sempre il soggetto di un’affermazione soggettuale che non è mai separata dal mondo cosale). E viceversa. Comunque tutto ciò non esclude che tale soggetto-oggetto sia intanto in primo luogo di un esistente pienissimo; dato che esso (nel mentre viene «affermato», e quindi ricompreso in sé da parte del soggetto) è sempre totalmente esteriore a qualunque ipotetico soggetto. Il che avviene per il fatto che esso esiste nel mondo esattamente come esiste nel mondo anche il soggetto stesso. Ebbene, questa parità di status ontologico deriva semplicemente dal fatto che vi è un soggetto che li pone entrambi, e cioè il supremo Soggetto divino. Quest’ultimo è infatti Colui che pensa entrambi (facendo di entrambi il soggetto di una Sua affermazione) nel mentre li crea, ossia li mette al mondo.
Su questa base Maritain richiama quel concetto tomista di “sussistenza” che secondo lui supera e rende del tutto inutile il concetto di essenza [Jacques Maritain, Breve trattato… cit., III, 16-20 p. 93-104]. Per lui, quindi, non è assolutamente necessaria un’essenza per costituire un soggetto, ma è invece pienamente sufficiente il suo esistere esteriore indipendente. Pertanto, anche quando il soggetto pensa sé stesso, coglie sempre null’altro che un oggetto, ossia una sostanza e non un’essenza. Nulla è più astratto del soggetto colto da sé stesso. Infatti non vi è qui assolutamente alcun oggetto. Eppure un oggetto si delinea comunque. Ed esattamente questo è il «chi» – è l’oggetto più soggettuale possibile che il soggetto stesso coglie quando guarda a sé stesso. Proprio così esso è presente anche nella mente di Dio; allorquando essa, guardando a sé stessa, intravvede un qualcosa che un giorno (una volta creato) sarà un soggetto umano.
Da ciò Maritain deduce che da questa Idea divina il soggetto umano scaturisce immediatamente, senza che vi sia alcun bisogno di creare prima la sua essenza. L’essenza semmai finisce per rientrare in questo soggetto come qualcosa di totalmente inconsistente dal punto di vista ontologico. E ciò accade perché tale soggetto è il “suppositum” in quanto è persona per eccellenza (ossia l’unicissimo e irripetibile soggetto in quanto «chi» o «colui»). E quindi è propriamente l’”anima spirituale”. Maritain, menzionando Tommaso, dice che in base a tutto questo “La persona è quanto c’è di più nobile e di più elevato in tutta la natura”.
Ed esso, in quanto Io giustificato solo da sé stesso, ossia dal suo specificissimo modo di essere (ovvero “sé”, “soi”), è assolutamente insondabile nella sua ragione di esistere. È insomma per definizione “un mistero”, un mistero che solo Dio conosce perché ospita questa presenza in sé ancor prima che venga da Lui stessa messa al mondo (cioè creata).

Guardini [Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988] ci mostra il «chi» o «colui» da un diverso punto di vista; ossia nel modo specifico di una persona umana che si forma in relazione con il “Tu” o “Altro”. Insomma, mentre Maritain pone il «chi» o «colui» dal punto di vista logico-ontologico (secondo la tradizione tomistico-aristotelica), Guardini lo pone invece dal solo punto di vista relazionale. Ed in questo bisogna dire che la sua tesi assomiglia molto a quella di uno dei più grandi pensatori contemporanei, ossia Emmanuel Lévinas [Emmanuel Lévinas, Totalità ed infinito, Jaca Book, Milano 2006]. Ne abbiamo parlato nella quindicesima lezione sulla base di Ricoeur.
In ogni caso si può dire che la trattazione guardiniana del «chi» o «colui» è senz’altro incentrata sulla dimensione etico-emozionale (invece che puramente logica) che caratterizza tale realtà.
Per Guardini, quindi, non vi è altra maniera (se non la relazione) in cui dal mero soggetto possa emergere un ente che costituisca per davvero una persona; e quindi non sia ontologicamente indifferente (come un ente qualunque), ma sia invece caratterizzato esattamente da quell’unicità individuale in forza della quale il soggetto stesso risulta etico-emozionalmente individuato e non invece individuato appena logicamente.
Va da sé che, entro questa riflessione, siamo piuttosto lontani da quanto sostiene Maritain sulla base di Tommaso d’Aquino, e cioè che qualunque ente oggettuale è un soggetto entro il pensiero divino. Il discorso riguarda infatti molto più direttamente l’uomo, così come del resto avviene anche entro il pensiero della Stein. Guardini pone semmai l’accento sulla dimensione orizzontale del costituirsi di un soggetto quale «chi» o «colui», ossia precisamente la dimensione relazionale. Maritain pone invece l’accento sulla dimensione verticale di tale fenomenologia. E la prima dimensione (orizzontale) pone a sua volta in evidenza la dinamica relazionale privilegiata che vi è tra enti viventi senzienti-coscienti, mentre la seconda dimensione (verticale) ricalca sostanzialmente l’atto creativo divino (e quindi pone in evidenza l’universale relazione che vi è tra tutti gli enti senza alcuna distinzione tra animati ed inanimati).
Prima di arrivare a questo Guardini traccia però una storia filosofica del soggetto inteso come ente spirituale auto-fondato; e pertanto costituente un molto ben definito «Io»; che non solo trascende il mondo ma anche «costituisce» (cioè forma) in esso le cose in quanto intelligibili, ossia conoscibili (da ora in poi definiremo tale dottrina come quella del soggetto-spirito). E così ciò ci rinvia a quanto anche la Stein vede come il soggetto in veste di paradigmatico «chi» o «colui». Ma nello stesso tempo Guardini altresì supera una siffatta visione in quanto essa è per lui del tutto insufficiente. Il pensatore vede infatti Kant come il centro di tale approccio al soggetto-spirito [Romano Guardini, Die Welt, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., I p. 15-24]. Egli insomma identifica filosoficamente tale visione come incentrata nella dimensione epistemologico-gnoseologica del soggetto. In altre parole bisogna supporre che, sebbene la Stein abbia offerto una sua versione fortemente etico-emozionale di tale dottrina del soggetto (nell’arricchirla con sostanziosi contenuti teologici e metafisici), essa resta comunque sostanzialmente epistemologica e gnoseologica; e quindi fa riferimento soprattutto alla valenza che il soggetto ha nella conoscenza e nella scienza.
Ma a tutto questo Guardini aggiunge anche che bisogna intendersi sul genere di ontologia che il “mondo” rappresenta in relazione al soggetto così inteso [Romano Guardini, Welt, Weltverschließung und Weltoffenheit, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., I-IV p. 71-96]. Infatti l’intendimento unilateralmente epistemologico-gnoseologico del soggetto fa sì che il mondo non sia affatto un tessuto di relazioni, ma sia invece al massimo un caos materiale da mettere in ordine per mezzo dell’intelligenza conoscente. Ed il tal modo, una volta posto al di fuori di qualunque fondamentale relazione (onto-mondana), il soggetto non può affatto per davvero porsi come un «chi» o «colui».
Per di più il pensatore insiste intanto particolarmente sulla necessità di un realismo filosofico-religioso che sottolinei l’esistenza indipendente del mondo, in quanto esteriore al soggetto; e quindi si ponga esso stesso in una relazione con il soggetto stesso che non è affatto soltanto epistemologico-gnoseologica. E tutto ciò rende quindi indispensabile superare la classica posizione filosofica di tipo idealistico. Egli fa comunque salva la presa di posizione del razionalismo metafisico-religioso (tendenzialmente idealistica), e cioè quella che prevede un Piano divino (e che nelle precedenti lezioni abbiamo esaminato come “teodicea”). Tuttavia anche questa dottrina sembra a Guardini tutto sommato insufficiente. Specialmente perché essa occulta per lui l’aspetto principale di Dio, che è quello di una presenza, e quindi di una Persona. Vedremo meglio alla fine che conseguenze ciò abbia.
In altre parole il Dio che si pone in relazione con un mondo (totalmente esteriore a Lui stesso) non è affatto appena un Architetto intelligente, ma è invece Egli stesso in primo luogo appunto un «chi» o «colui», e cioè è un sommo Ente che in primo luogo sta in relazione amorosa con il mondo e con i soggetti (i vari «chi» o «colui») in esso esistenti.

In ogni caso, secondo l’Autore, vi è un aspetto della dottrina del soggetto-spirito che va comunque tenuta ferma, e cioè quella secondo la quale esso è un “Io”, ossia è un’identità definita in modo radicalmente esclusivo rispetto a tutto ciò che ne differisce [Romano Guardini, Die Person. Vorbemerkung, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., p. 109]. Per la precisione lo è però non tanto in quanto esso si ponga unicamente di fronte a sé stesso (come ritiene la Stein) – rivolgendo a sé stesso il proprio “sguardo intellettuale” e non ritrovando altro che sé stesso (ossia la Totalità puramente interiore dell’essere). Lo è invece proprio in quanto se ne sta davanti al mondo quale Totalità esteriore e indipendente da qualunque soggetto. Tuttavia ancor più il soggetto è per questo motivo una persona, ossia un «chi» o «colui». Esso è cioè un ente che individua sé stesso soprattutto in quanto sta in relazione con tutto ciò che è «altro-da-sè» (non solo interiormente ma anche esteriormente) nello stesso esatto momento in cui esso da tutto ciò si segrega in quanto identità. Esattamente per questo (in forza di tale ineluttabile relazione) il soggetto-Io trascende il mondo in quanto ne riconosce il “senso” globale – ed in questo modo esso si pone come “coscienza” e come conoscenza.
Ma non si tratta solo di questo. Perché il soggetto-Io se ne sta anche davanti a sé stesso nel mentre si auto-trascende. E pertanto resta una persona anche quanto l’oggettività che la esprime (come mente e corpo) si dissolve e perfino svanisce nel corso delle malattie e perfino della morte.
La dimensione onto-relazionale fa comunque della persona un ente in primo luogo esistente, ossia un ente sostanzialmente concreto – ”uomo esistente concretamente in maniera personale” (“konkreter personal existierende Mensch”) [Romano Guardini, Die Person. Der Aufbau des personalen Sein, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., p. 110-131]. Ciò significa che la sua primaria definizione non va cercata nella dottrina del soggetto-spirito.
La quale invece pone in evidenza l’assolutamente primaria astrattezza ideale del soggetto (esso sarebbe infatti in primo luogo l’essenza quale ideale «cos’è?» umano, e quindi sarebbe un astrattissimo ente spirituale-pensante totalmente fondato in sé stesso, ed in null’altro né in nessun altro). Tale concezione rende inevitabile un forte solipsismo idealista nella concezione del soggetto umano. E non è certo questo ciò a cui Guardini pensa nel cercare di definire l’uomo.

Partendo da questo il pensatore si dedica a chiarire perché il soggetto quale persona non è un’unicità per motivi unicamente e meramente riduzionistici – come unità organismica conchiusa in sé stessa in termini corporali-materiali (“Gestalt”), o anche in termini psicologici, cioè come “personalità” (interiorità spirituale formante un’unità organismica esteriore).
La definizione più autentica di persona è invece un’altra. Ed è intanto quella che certamente risponde anche alla domanda circa l’essenza dell’uomo. Ma lo fa non in ragione soltanto dell’epistemologia-gnoseologia, bensì invece di nuovo ancora in ragione della relazione tra soggetto ed essere mondano.
Se quindi a prima vista Guardini definisce l’uomo esattamente come la Stein, e cioè come soggetto-spirito auto-fondato in sé stesso e quindi come Io spirituale – “Un essere strutturato, fondato nell’interiore, spiritualmente determinato e creatore” (“Ein gestaltetes, in Innerlich begründetes, geistig bestimmtes und schaffendes Wesen“) –, in realtà poi il suo aspetto principale emerge solo al cospetto di una domanda che rinvia molto direttamente alla relazionalità. E proprio in tal modo essa individua il soggetto-Io solo in quanto «chi» o «colui». La domanda è la seguente: – “Wer ist Dieser da?”. E la risposta è “Io” (Ich), oppure “lui” (Er).
Intuitivamente ci viene spontaneo pensare che tale domanda risuoni in uno spazio che è quello della relazione tra persone (tra Io e Tu). Ma in fondo è anche lo spazio nel quale l’idea di una determinata persona umana comincia a formarsi misteriosamente nel profondo della mente divina ed inoltre nel cuore stesso dell’essere. Infatti nella risposta a questa domanda sembra proprio sentir lontanamente risuonare anche quale sarà il nome proprio più autentico che designerà per sempre tale individuo, racchiudendo così in sé tutto il suo eterno mistero di persona. Ma su questo torneremo alla fine.
Ebbene in verità solo così viene toccata davvero l’essenza della persona, cioè il suo più intimo nucleo.
Infatti si tratta di un ente che, proprio in quanto è totalmente in possesso di sé stesso, e quindi è svincolato da qualunque condizionamento esteriore cogente, è in definitiva capace di una relazione con l’Altro che gli permette poi di raggiungere per davvero la sua pienezza di persona.
Ebbene, proprio in questo si ripresenta davanti a noi la dimensione del mistero.
Infatti quella persona che è in grado di porsi davanti a sé stessa in maniera talmente inalienabile è anche quella che è capace di riconoscersi come “Io” in maniera insieme fondamentale ed anche tutto sommato inspiegabile in base alla Natura. Essa è infatti capace di fare ciò che in verità solo Dio può fare, e cioè sa riconoscersi come un qualcosa pur non avendo davanti a sé alcun qualcosa. Essa è insomma capace di affermare: – “Io sono”, o meglio «Io sono io, e null’altro».
Il tema è tanto scottante che trova un’eco molto rilevante nella riflessione filosofico-metafisica vedantica e anche buddhista [Pawel Odyniec, “Rethinking advaita within the colonial predicament: the ‘confrontative’ philosophy of. K. Bhattacharyya”, Sophia, 57 (3) 2018, 405-424; Christian Coseru, On engaging Buddhism philosophy, Sophia, 57 (4) 2018, 535-545; ], oltre che trovare riscontro nella stessa riflessione filosofica occidentale sull’ontologia del soggetto. Sartre, infatti, ci indica nel “per sé” (l’Io soggettuale) il nulla di essere per eccellenza [Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, Introd. 6 p. 29-33, II, I, 2 p. 117-123, II, I, 4-5 p. 135-144, II, II, 2 p. 169-189, III, II, 1 p. 354-389; Evan Thompson, “Sellarsian Buddhism comments on Jay Garfield, Engaging Buddhism: Why it Matters to Philosophy”, Sophia, 57 (4) 2018, 565-579; Anand Jayprakash Vaidya, “The paradox of egocentricity”, Sophia, 58 (1) 2019, 25-30].
Tuttavia ancora una volta c’è in Guardini una tangibile differenza rispetto all’accento posto (nella classica dottrina del soggetto-spirito) sulla spiritualità come intellettualità legata intimamente al riconoscersi come «Io». Insomma per lui il nucleo di tale atto è ben diverso. Infatti, nel contesto di tale esperienza, io riconosco me stesso come “ovvio” nel senso specifico che l’espressione ha in tedesco, cioè come “selbst-verständliche”, ossia come ciò che «si spiega da sé e di per sé». E proprio tale ovvietà suscita “stupore esistenziale” (existentielle Staunen) – sia in chi vive l’esperienza che in chi la osserva dall’esterno (in quanto fenomeno psichico) – per il fatto che essa è la più ovvia di tutte le cose nel mentre intanto sfida apertamente le leggi della Natura. Insomma il nucleo di tale esperienza sta nel fatto che l’Io riconoscentesi come tale, ossia come un’incondizionata ed irripetibile unicità individuale, è di fatto in primo luogo un «chi» o «colui» che inspiegabilmente si trova davanti a sé stesso come un «chi» o «colui», pur non avendo davanti a sé altro che un nulla (cioè la mera immagine di sé stesso). Ma proprio in tal modo (molto stranamente) egli riesce a raggiungere la certezza dell’essere. Esattamente come fu intuito da Agostino e da Cartesio per mezzo del «cogito-sum».
Eccoci, insomma, davanti al mistero profondissimo dell’identità, che poi è anche il mistero stesso della persona. Dato che quest’ultima nasce proprio nell’atto di auto-riconoscersi come Io, ed inoltre proprio in questo consiste la sua totale intangibilità ed infrangibilità fondamentalmente ontologica. Ecco allora che, esattamente perché io riconoscerò sempre e comunque me stesso come ciò che sono (e null’altro), nessun attacco portato alla mia compagine individuale, potrà mai sottrarmi tutto ciò che di fatto per davvero possiedo, ossia il fatto di «essere io stesso e nulla o nessun altro». Tuttavia, una volta extrapolato questo intero discorso sul piano teologico, metafisico e religioso, io dovrò ringraziare per questo il supremo Colui che ha voluto rendere possibile che Io (in quanto ente umano, o uomo) non fossi un ente qualsiasi della Natura, ma fossi invece appunto una persona, cioè un misterioso ente irripetibile e inconfondibile.
E bisogna dire che in questo Tommaso d’Aquino e Edith Stein si avvicinano di molto alla verità misteriosa, nel sostenere (con poderosi argomenti filosofico-metafisici) che l’uomo (in quanto Io spirituale) assomiglia totalmente agli “spiriti puri”, ossia agli Angeli [Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, g. p. 367-369, p. 387-389].

Tutto questo implica però il nostro dovuto riconoscimento della totale ed inalienabile dimensione ontologica che caratterizza la persona (in quanto incontestabilmente esistente). Il che non avviene di certo entro la dottrina del soggetto-spirito, dato che in essa l’Io compare sì come persona ma in quanto ente purissimamente intellettuale, ossia come ente essenzialmente astratto (tanto che ampiamente la filosofia vede in esso in nulla di essere). Infatti è proprio l’ente purissimamente intellettuale il frutto del fondamentale atto di auto-riconoscimento (dal quale scaturisce l’egoità come unicità identitaria).
In ogni caso l’ammissione della primaria dimensione ontologica della persona finisce per dissolversi essa stessa nel suo significato etico-emozionale (generando in tal modo appena un neutro esistente simile all’individuo-cosa di Aristotele) se essa non viene completata molto concretamente con la dimensione relazionale. Bisogna quindi affermare che la pienezza ontologica della persona viene raggiunta solo se essa, ponendosi in relazione con l’Altro, ritrova solo in quest’ultimo ciò che essa stessa davvero è – ossia la natura di un ente che è un «chi» o «colui» destinato fin dall’inizio ad entrare in relazione con un Altro «chi» o «colui».
Si arriva così alla debita ammissione della “relatività della persona” (Bedingtheit der Person) [Romano Guardini, Der personale Bezug, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., p. 132-142]
A questo punto, pertanto, la consistenza ontologica puramente interiore della persona (fortemente affermata nella dottrina del soggetto-spirito) si dissolve totalmente a vantaggio dell’esteriorità. Ma a questo punto accade qualcosa di davvero straordinario in termini filosofici, dato che anche la dimensione ontologica della persona perde in consistenza e spessore fin quasi a svanire. Ecco, infatti, che la persona non è più appena un fondamentale esistente, come avviene in Maritain (cioè un «atto di esistere»), ma si risolve invece ontologicamente tutta in un’azione. Insomma essa sussiste per davvero solo e soltanto quando si pone in relazione ad un “tu”. Solo la presenza di un “tu” lascia che emerga la persona. Altrimenti essa non emerge affatto. Dunque è in questo che sussiste la sua trascendenza rispetto ad ogni essere mondano.
Ma bisogna fare molta attenzione al senso filosofico di tale tesi. Ciò significa infatti che Guardini rinuncia qui a qualunque filosofia e perfino metafisica. Dato che, nell’affermare questo, egli si basa unicamente nel messaggio evangelico. Non a caso (altrove nella sua opera) egli prende a modello per tale tesi il discorso della Montagna tenuto da Gesù, ed annunciante la speciale ontologia mondana costituita dal “Regno dei Cieli” [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585].
Proprio qui, comunque, il soggetto si presenta a noi unicamente come un «chi» o «colui». Perché, una volta poste le cose in questo modo, è assolutamente impossibile pensare alla relazione tra un soggetto ed un altro soggetto che a qualunque titolo costituisca un oggetto (ossia l’ente che viene colto tanto dalla filosofia che dalla metafisica).
Ecco allora che – una volta dissoltisi tutti i possibili riferimenti dottrinari per ciò che è «persona» (quello filosofico, quello metafisico, quello psicologico, quello scientifico in generale) – emerge l’unico elemento sul quale possa davvero poggiare la persona, e cioè quel Dio che è poi il modello stesso di ogni «chi» o «colui». Egli, infatti, è di fatto in primo luogo Colui che parla di sé, ossia la Parola. Tuttavia non è affatto solo questo.
Perché è anche l’Ascoltatore per eccellenza, e quindi è il Tu che sta costantemente in relazione con un Io. Pertanto, secondo Guardini, è entro questi termini che si esprime la perfetta unità dinamico-relazionale della Trinità – essa vede costantemente l’esistere ed agire di un Tu esprimente perfettamente l’Io. E tale dinamica coincide con la realtà più piena dell’Amore.
Su questa base Guardini perviene alla conclusione secondo la quale il più autentico “tu” è per l’Io umano solo quello divino [Romano Guardini, Die Person und Gott. Die menschliche und die göttliche Person, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., I p. 143-145]. Abbiamo appena visto dissolversi completamente l’ontologia della persona (a fronte dell’atto amoroso che la costituisce). Ma eccola ora riapparire di nuovo (completamente trasformata) in una giustificazione ancora più forte della sua assoluta intangibilità – la persona è intangibile in quanto l’Io è fondato nell’Io divino e non in quello umano.
Anzi le cose stanno in maniera ancora più estrema; dato che (come ci fa rilevare qui Guardini) la persona cessa addirittura di essere tale se essa non si fonda in Dio. La sua inconsistenza ontologica dipende quindi da questa fondamentale relatività. La verità è dunque che l’uomo è ciò che è – un ente unico assolutamente irripetibile -, e cioè una persona, soltanto perché sta (più che naturalmente) in relazione con Dio.
Ed anche questo sfugge radicalmente alla metafisica filosofica. Perché non significa affatto che l’uomo sia l’ente che ha ricevuto in dono da Dio l’essenza spirituale-intellettuale di pensante, conoscente ed auto-cosciente (ossia ciò che fa di esso un Io). Significa invece semmai che l’uomo è ciò che è solo in quanto sta in relazione con Dio (una relazione che però è del tutto ineffabile, dato che è essa è naturalmente del tutto intangibile, e quindi oggetto di un dubbio scettico pienamente legittimo). Ebbene proprio nel contesto di tale relazione l’uomo si delinea come un sostanziale «chi» o «colui».
Nel capitolo successivo Guardini si sforza poi di indicarci nel Cristo il Dio-Io-Tu che ci ha appena presentato [Romano Guardini, Die Person und Gott. Das christliche Ich, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit. II p. 145-160].

Ebbene, una volta giunti a tale risultato, noi possiamo senz’altro fondere i due significati di «chi» o «colui» che abbiamo finora trovato, e cioè quello offerto da Maritain e quello offerto da Guardini. Il secondo infatti può ben essere anch’esso quell’individuo umano che Maritain ci mostra come conosciuto da Dio (e solo da Dio) fin dai primordi dell’essere e del tempo. Il che significa allora che tale ente umano infinitamente amato da Dio non è altro che l’ente umano che è fatto solo e soltanto per amare.
Pertanto sembra che esattamente in questo possa consistere il mistero dell’uomo. Un mistero, come si può vedere, che non può venire illuminato né dalla filosofia né dalla metafisica. Ma alla fine non può venire illuminato nemmeno dalla stessa teologia. Abbiamo visto infatti che Guardini si rifà solo e soltanto al messaggio profondo del testo evangelico. Ed a null’altro. Ecco allora che quest’ultimo si rivela capace di rivelarci molte più cose di quanto ci possano venire rivelate da un miliardo di dottissimi trattati di teologia (includendo in questo perfino lo stesso Tommaso).
Risulta quindi davvero incomprensibile la facilità con la quale un moderno erudito sia potuto giungere – dopo un lavoro davvero sconfinato ed ambiziosissimo di traduzione delle Sacre Scritture dal greco (partendo dal testo alessandrino dei Settanta) – alla conclusione che tutto ciò che si può dire dei Vangeli è che essi sono pieni di lampanti contraddizioni che rendono impossibile considerare veridici quelli che poi sono i fondamenti delle principali verità di fede [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016, Vol. I, p. 21-57]. A me sembra che invece (come Guardini ben dimostra), quando si leggono i Vangeli davvero con umiltà ed inoltre lasciandosi toccare dall’azione misteriosa dello Spirito (rinunciando quindi a porre in primo piano la logica stringente dell’ermeneutica testuale posta in atto da miriadi di studi teologici), si finisce per apprendere molto di più di quanto sia possibile in base a teologia, metafisica e filosofia messe insieme. Ed inoltre non si apprende solo circa il mistero di Dio ma addirittura anche circa il non minore mistero dell’uomo. Tuttavia, per non cadere in un’arroganza scettica quanto saccente da erudito (com’è quella di Lourenço), bisogna sapere che la carne non ci permetterà mai di toccare interamente la realtà ineffabile di un Cristo che è veramente un Dio diventato uomo senza intanto mai cessare di essere un vero e proprio “Deus absconditus”.

In ogni caso, anche al cospetto di tutto ciò, dobbiamo ribadire che il mistero dell’uomo è ciò che è in quanto equivale impressionantemente al mistero di Dio. Entrambi gli enti sono infatti essenzialmente dei soggetti egoici auto-coscienti e conoscenti (che «sanno di sé») soprattutto perché costituiscono dei «chi» o «colui», i quali sono irripetibilmente unici in quanto sono assolutamente insondabili nell’essere ciò che sono.
Tuttavia per quanto più specificamente riguarda l’uomo, tale mistero è quello di un ente che non sarebbe mai fuoriuscito davvero dal nulla se non fosse stato pensato, e soprattutto amato, esattamente come è (né più né meno) da parte di Dio. Gli altri enti, infatti – ossia quelli non pienamente soggettuali, e cioè le «morte cose» o anche le cose inanimate –, sono qualcosa che mai per davvero si distacca dal nulla. Per la verità Heidegger volle sostenere l’esatto contrario di ciò – affermando che la cosa è per definizione addirittura l’intero «essere» in quanto, mostrandosi a noi in piena luce (“scopertezza”), è l’esatto contrario del nulla. Ma intanto la grande lezione del platonismo (vedi quattordicesima e quindicesima lezione) ci mostra che invece le cose inanimate sono così lontane dal vero essere reale, da risultare molto prossime al nulla. Ebbene, questo ente umano-personale (pienamente soggettuale) che esiste solo perché è stato pensato-amato è allora colui che è chiamato a lasciare che altri enti umani (ed anche enti puramente oggettuali) fuoriescano dal nulla in forza di un suo pensiero che deve essere necessariamente amante. Costui deve insomma volere con tutte le sue forze soprattutto che l’«Altro» esista al di fuori di lui. Il che poi avviene solo se egli fa un radicale passo indietro al cospetto di un «essere-altro» che mai sboccia pienamente se la presenza del soggetto pensante è troppo ingombrante. Il che significa poi anche che è esattamente l’amore a sottrarre al pensiero soggettuale quanto basta perché esso possa essere realmente creativo. Cosa che avviene solo nell’amore. Infatti senza l’amore non vi è mai vera creazione.
Tale insieme di concetti è comunque intensamente platonico-cristiano. Infatti fu sviluppato da Simone Weil a proposito della “kenosis” divina, in quanto attitudine creativa incentrata sulla decisione di Dio ad arretrare dall’«essere» affinchè il mondo potesse esistere al cospetto della Sua Onnipotenza (sempre tendenzialmente annientante) [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 69-84Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, Prospettiva Persona, 92 (Aprile-Luglio), 2015 p. 33-38].
Insomma a quanto pare questo è l’uomo. È un mistero vivente. Ma in tal modo dobbiamo concludere in circolo questa lezione, dato che bisogna tornare a quanto abbiamo visto all’inizio: – è impossibile dire cos’è l’uomo. Si può appena constatare che esso è un «chi» o «colui».
Tuttavia, come abbiamo visto finora, da ciò discende intanto una grande quantità di pregevoli significati etico-emozionali. E quindi si può concludere che questa trattazione semi-filosofica del tema «uomo» davvero può aiutare le persone a vivere meglio la propria vita.
Infatti la principale lezione che scaturisce dal mistero dell’uomo (così come da quello di Dio) è quella riguardante l’amore. Intanto però nessuno di noi (nemmeno il più grande filosofo o teologo) può comprendere in che modo ciò accada.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

Nell’ultima lezione abbiamo già parlato abbastanza del male. Ma, dato che si tratta di un tema filosofico di fondamentale importanza, credo che valga la pena completare il discorso.
Sarà quindi di nuovo necessario prendere in mano il libretto dedicato da Ricoeur a questo tema. Tuttavia la letteratura su questo tema è in filosofia così sterminata che nemmeno in un trattato si riuscirebbe ad esaurirla. E pertanto mi limiterò a prendere in considerazione solo pochi punti di riferimento (impiegando per questo le dottrine di alcuni autori ed inoltre alcuni articoli recentemente pubblicati sul tema). Intanto però bisogna dire che Ricoeur (sebbene nella critica) ci offre le vere e proprie coordinate generali della trattazione del male in filosofia. E quindi credo che valga la pena di attenersi ad esse, tracciando proprio su questo modello le linee generali dello scenario.

Prima di entrare nel merito della questione mi si permetta però di suggerire e descrivere cos’è il male in termini estremamente concreti. E questo credo lo sappia solo colui che ne ha realmente provato il terribile e lacerante morso nella propria stessa carne. Quindi probabilmente a molti di voi io non dirò alcunchè di nuovo. Come giustamente dice Ricoeur (prendendo giustamente ad esempio Giobbe), il male è esattamente quello subito (molto più che quello agito). E lo è tanto più quanto più chi lo subisce è totalmente innocente in quanto è per natura un giusto.
Il male è vedere andare la propria vita a rotoli nonostante non si faccia altro che spendere ogni attimo della giornata nel tentare di non essere ingiusto e di soddisfare il più possibile le aspettative degli altri. Il male è vedere i propri sforzi altruistici non solo non riconosciuti ma addirittura sbeffeggiati e perfino accusati di essere segni di egoismo o addirittura malvagità. Il male è sforzarsi in tutti i modi di fare il bene, nel mentre in cambio si riceve solo gelida indifferenza, accuse, minacce ed infine ingiurie fisiche e morali. Il male è volere essere un giusto a qualunque costo, e venire invece considerato un malfattore. Il male è curvarsi sotto il peso di responsabilità immense (per il benessere altrui), che però si è costretti a sopportare nell’assoluta solitudine ed inoltre nella totale ingratitudine.
Questo è il male. E appunto molti di voi sapranno molto bene di cosa parlo. Ora, moltiplicate questo male all’ennesima potenza e potrete trovare un solo uomo al mondo che sia stato capace non solo di sopportarlo, ma anche perfino di vincerlo. Quest’uomo non è altro che Gesù Cristo. Colui che è stato malinteso, offeso, sbeffeggiato, torturato, sputato in faccia, frustato, dilaniato, schiacciato a morte dal peso immenso dei vizi e peccati umani, tanto più quanto più Egli era deciso ad amare gli uomini incondizionatamente. Nessun altro uomo, nessuno di noi, sarebbe stato mai capace di fare quello che poteva fare solo Lui, un uomo ed insieme dio.
Quindi non possiamo trattare il problema del male senza tenere conto costantemente della sua figura − che noi lo facciamo direttamente ed esplicitamente o anche solo indirettamente e tacitamente.

Innanzitutto bisogna prendere atto del fatto che, secondo quanto afferma Ricoeur, il pensiero dedicato a male è stato praticamente sempre impegnato nel tentativo di razionalizzarlo in maniera tale da giungere infine o alla sua negazione oppure alla sua presentazione addirittura in positivo (come bene non evidente). Il che fa sì che il tradizionale pensiero del male si presenti a noi con le caratteristiche di una notevole assurdità. In ogni caso il pensatore ci informa del fatto che il nome di un siffatto pensiero è quello di “teodicea”, ed inoltre anche che si è pervenuti a quest’ultima solo molto gradualmente − partendo da dottrine precedenti ( il mito e l’“onto-teo-logia”, che non avevano ancora un carattere rigorosamente filosofico).
In secondo luogo, attenendoci al quadro generale disegnato dal pensatore, bisogna dire che il pensiero circa il male si divide probabilmente in tre grandi periodi storici. Il primo periodo storico è il più lungo, e si estende dal mito fino alla matura teodicea leibniziana. Il secondo periodo è ben più breve, prendendo le mosse con Kant (il quale liquidò per sempre qualunque teodicea insieme a qualunque metafisica), e va a avanti fino alla metà del XX secolo. Il terzo periodo è quello più breve (perché inizia dall’ultimo dopoguerra in poi) ma è anche il più decisivo quanto a drammaticità.
Il pensatore francese menziona infatti proprio a tale proposito quella “teologia spezzata” (vedi lezione quattordicesima) la quale ha deciso di prendere atto definitivamente di fenomeni storici come Auschwitz e la Shoà. E da ciò ha poi tratto la conclusione che non soltanto non è più possibile alcun pensiero del male (teodicea) – cioè di fatto non è più possibile alcuna filosofia del male, bensì invece al massimo è possibile una teologia del male −, ma che esso deve venire decisamente bandito in quanto (più o meno direttamente) nega sempre l’esistenza inoppugnabile del male nel mondo. In altre parole sembra che la storia abbia decisamente sconfitto la filosofia. Quindi, dal momento in cui sono emersi nel mondo fenomeni storici come Auschwitz e la Shoà, nessun filosofo può più nemmeno sognare di tentare una spiegazione del male mondano. Infatti il male non solo è inoppugnabilmente evidente, ma è anche assolutamente inspiegabile.
E la tesi teologica a tale proposito è che il male altro non è se non il «non-essere», ossia il “Nulla”, e cioè è tutto quanto nientifica e distrugge. Il che non è affatto invece quanto fa Dio. Dato che Egli, in quanto Essere, è l’Essere-Bene per definizione.
Da tutto ciò dobbiamo trarre la conclusione molto generale che del male è evidentemente possibile solo una trattazione integralmente e fattivamente etica, mentre non ne è possibile alcuna trattazione a qualunque titolo rigorosamente razionale, e cioè filosofica. Ed è pertanto evidente che un’etica integrale e fattica si approssima molto più alla religione (quindi alla teologia) che non alla filosofia.
Il che deve significare che un pensatore come Kant dovrebbe avere oggi ben poco da dire nel campo del male come tema di riflessione. Eppure Ricoeur stesso gli attribuisce in ruolo e valore di spartiacque dello sviluppo storico del pensiero sul male, ed inoltre gli attribuisce anche il merito di aver posto per primo l’esistenza indiscutibile di un male mondano (di tipo esperienziale) in quanto “male radicale” soggettivamente vissuto [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015, II p. 17-46].
Ebbene, tenuto conto di questo lo schema che ho dedotto dal pensatore francese presenta allora una notevole incongruenza. In quanto proprio a partire da Kant si è diffusa in filosofia una tradizione della trattazione del famoso “radical evil” (il “male radicale”) che oggi si ritrova continuamente in letteratura. Pertanto non sembra proprio che sia accaduto quando dice Ricoeur, e cioè che la teologia del male abbia decisamente messo a tacere la filosofia del male. In ogni caso in questa lezione terremo conto del contenuto di alcuni di questi articoli.

Una volta discusse queste premesse, credo che valga la pena (sempre attenendoci allo schema generale ricoeuriano) di parlare più direttamente di alcuni tra i principali protagonisti del pensiero del male, partendo dall’antichità per poi spingerci dentro la filosofia che giunge fino ai giorni nostri.
Partiamo quindi dal mito (dal quale non a caso parte anche Ricoeur), e precisamente dal mito orfico.
E qui bisogna però fare un’osservazione in relazione a quanto mi sono sforzato di chiarire nella prima lezione. Parlando del mito, noi stiamo infatti parlando proprio di pensiero. Lo accenna Ricoeur [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015, II, 1 p. 17-19], lo dice a chiare lettere Raphael a proposito di Orfeo come filosofo (vedi quattordicesima lezione), ed inoltre lo afferma nientepopodimeno che lo stesso Schelling (filosofo davvero di razza) a proposito degli intimissimi legami che secondo lui erano esistiti nei primordi tra sacerdote e filosofo [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam, Conn. : Spring Publication, 2010, p. 7-10].
Ebbene in tal modo noi stiamo però chiamando in causa la filosofia in una maniera molto diversa da come abbiamo fatto finora, ed inoltre molto diversa da come fanno i moderni retori che tentano divulgare la disciplina. Stiamo cioè chiamando in causa un «pensiero-prima-del-pensiero» che però nessun settore della filosofia attuale accetterebbe mai come tale. Si parlerebbe infatti di “mito” come dell’esatto opposto di ciò che è filosofare. E peraltro si chiamerebbe per questo Platone stesso come a testimone a carico. Il che è però totalmente falso, come ha dimostrato il Prof. Reale – dato che Platone condannò semmai la poeticità mitica (in quanto eticamente irresponsabile), ma fece tutt’altro che condannare il mito in sé, visto che attinse ad esso a piene mani nel forgiare la sua più pregevole visione filosofica [Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano: Rizzoli 2008, I p. 27-29, XIII-XIV p. 269-309].
Ma sta di fatto che nella sapienza mitica noi troviamo una fonte davvero inesauribile di riflessione metafisica. E questo è straordinario dato che il mito è sostanzialmente una Rivelazione divina che ci perviene per mezzo di veri e propri agiografi (nel Paganesimo del tutto equivalenti a quelli che redassero il Vecchio Testamento). Il mito quindi è un logos filosofico in maniera ancora maggiore di quello ordinario, dato che esso è Parola divina, ossia è discorso di natura e di origine sovrumana. E dunque dove se non in esso noi potremmo trovare maggiori insegnamenti per la nostra vita? Pertanto, se la filosofia deve venire utilizzata per vivere meglio, i suoi insegnamenti vanno cercati molto più nel pensiero che l’ha preceduta (il mito) e molto meno invece nel pensiero che l’ha costituita.
Ebbene il mito orfico è − per consenso unanime dei suoi studiosi (e questo viene puntualmente ribadito da Raphael) – sicuramente il più progredito nel contesto della religiosità greca [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004, p. 21-35]. Esso infatti non configura tanto una cosmo- e teo-gonia, ma piuttosto un’antropo-gonia, ossia un discorso sulle origini che non perde mai di vista l’uomo, la sua origine, la sua vera natura, i suoi destini e le domande che ne accompagnano l’esistenza. Raphael chiarisce in maniera esemplare questo concetto affermando che il mito orfico in realtà non fa altro che affermare la natura divina (dionisiaco-celeste) dell’uomo – in opposizione alla sua natura terrena e tendenzialmente demoniaca (titanica) −, e quindi non fa altro che descrivere il percorso che reca dalle origini pre-temporali (passando per l’esistenza terrena) fino a pervenire alla riconquista dell’umano-divinità dopo la morte e nel contesto del complessivo fenomeno del Ritorno [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-36, p. 65-78]. Ed anche questo trova ampio consenso presso i mitografi laddove viene interpretata la vicenda mitica dello smembramento di Dioniso con bollitura delle sue carni; che viene poi punito poi da Zeus con la fulminazione dei Titani, dalle cui ceneri nascerà poi la carne dell’uomo. Dunque Dioniso (il divino) è la natura animico-spirituale dell’uomo, mentre i Titani (il demoniaco) sono la carne dell’uomo, ossia la sua natura di ente materiale-naturale (insomma tutto ciò che è appena il suo corpo, cioè tutto quanto è terra, o meglio appunto cenere).
Certo Raphael sintetizza e semplifica di molto il riferimento da parte di Orfeo al Dioniso celeste, così come anche l’intimo legame esistente tra l’Orfismo e l’altra grande tradizione misterico-iniziatico greca e cioè quella di Eleusi e Delphi (in gran parte improntata all’apollinismo, oltre che alla figura di Demetra) [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-35]. È ben noto che il dionisismo è stato nettamente contrapposto all’apollinismo, e non certo senza ragioni. Dall’altro lato però l’analisi della religiosità mitica misterico-iniziatica evidenzia troppe commistioni tra eleusinismo, dionisismo, apollinismo ed orfismo per non pensare che tutte queste tradizioni abbiano sempre avuto dei molto significativi punti di incrocio [Karl Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Mondadori, Milano 1989; Karl Kerényi, Miti e misteri, Boringhieri, Torino 1979;
Filippo Cassola (a cura di), Inni omerici, Mondadori, Milano 2004; Paolo Scarpi (a cura di), Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007].
Infine c’è troppa letteratura mitografica a testimoniare di un Dioniso ben diverso da quello celeste, che è però invece l’unico preso in considerazione da Raphael [Paolo Scarpi, Le religioni… cit.; Kerényi Karl, Dioniso, Adelphi, Milano 2011;
Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano 2009]. Quindi in qualche modo la verità sta come al solito nel mezzo. Cioè, può anche darsi che l’Orfismo abbia reso celeste Dioniso, ma non è affatto detto che egli lo sia stato per natura fin dall’inizio. I libri di Keényi e Graves ci fanno pensare che non sia stato affatto così.
Ma tutto ciò diviene abbastanza irrilevante se si considera che Raphael identifica Dioniso con il Dio celeste in generale. E ciò vale certamente anche per le figure centrali delle varie tradizioni misterico-iniziatiche, e cioè Demetra e Apollo. Una volta posto questo, allora è evidente che l’Orfismo pone il male demonico come l’esatto contrario del Bene divino, ossia come l’immanente (mondano-terreno-carnale-corporale-materiale-reale-sensibile) opposto al trascendente (ultramondano-celeste-etereo-spirituale-ideale-ultrasensibile). In sintesi per l’Orfismo il male corrisponde perfettamente al mondo, al corpo e alla carne.
E non diversamente stettero le cose per il Platonismo e poi anche per lo stesso Cristianesimo.
Per tutte queste dottrine il male coincide insomma con il «basso», laddove invece il bene coincide con l’«alto». Più precisamente il male consiste nella distanza maggiore possibile che può sussistere tra l’essere immanente ed il Principio-Uno-Dio dal quale tutto ha origine. Emblematiche si sono rivelate poi a tale proposito le posizioni dei due maggiori filosofi neoplatonici pre-cristiani, e cioè Plotino e Proclo.
Proclo vide le cose esattamente come ho appena spiegato [Proclo, Elementos de teologia, Aguilar, Buenos Aires 1975, 7-39 p. 28-60, 56-65 p. 70-79, 75-86 p. 87-95], mentre Plotino fu ancora più radicale, ritenendo che quanto si allontanava troppo dall’essere principiale (includente il solo Intelletto, o Nous, con l’anima come appendice) non costituiva altro che un nulla, ossia nemmeno esisteva [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16, p. 1655-1661; Elena Gritti, Proclo. Dialettica anima esegesi, LED, Milano 2008, II, 1 p. 67-87]. E questa posizione filosofico-metafisica (per quanto con aspetti ben più variegati) era in fondo stata anche quella di Platone. Il pensatore ateniese riteneva infatti che tutto quanto toglieva all’anima le sue “ali”, facendola così sprofondare nel corpo e nella materia (cioè nella dimensione sensibile), equivaleva di fatto ad un nulla; in quanto (essendo una realtà colta solo per mezzo dei sensi, e quindi non per mezzo di alcuna vera scienza) costituiva un’illusione generata dalla totale ignoranza [Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014, I, II p. 46, I, IV p. 73-74, I, IV, 1 p. 97-105, I, IV, 4 p. 124-129, I, IV, 5 p. 149-155, I, IV, 6 p. 156-158, II, I, V, I p. 195-198, I, I, V, I p. 212-218].
Ma oltre a ciò − proprio in quanto nel tempo sempre più profondamente influenzato dalle dottrine orfico-pitagoriche − Platone finì poco a poco per identificare tale ignoranza sempre meno con una dimensione gnoseologico-epistemologica e sempre più invece con una dimensione etica, ossia con una colpa, che poi a sua volta richiedeva punizione [Raphael, Iniziazione alla Filosofia di Platone, Āśrām Vidyā, Roma 2008, p. 79-88]. E proprio su questo si basò poi la sua piena adozione della stessa dottrina della trasmigrazione delle anime che era stata professata dall’Orfismo. Ed infatti (del tutto giustamente) Raphael sottolinea continuamente in tutto il suo libro che tutti gli aspetti più intensamente metafisico-religiosi della visione di Platone (così come anche di Pitagora perfino di altri pensatori greci) risale in definitiva all’Orfismo. Cosa che poi viene confermata anche da molti altri Autori, aggiungendo peraltro a questo il legame di Platone con quel Pitagora che ancora più direttamente è riconducibile all’Orfismo [Luciano Montoneri, Il problema… cit., IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155; Raphael, Iniziazione… cit.., p. 31-44; Paolo Scarpi, Le religioni… cit., III, F4 p. 425; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 145-285; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, I p. 35-46].
Sto di fatto già accennando a Pitagora da molto tempo, ma non ne parlerò direttamente perché questo mi porterebbe molto lontano. Dirò soltanto che il suo pensiero stette in linea diretta non solo con l’Orfismo ma anche con l’Apollinismo stesso, e quindi costituì un vero ponte tra il logos mitico e quello propriamente filosofico [Giamblico, Vita pitagorica, Rizzoli, Milano 2008]. E non c’è a questo punto nemmeno bisogno di dire che la visione pitagorica del male fu in qualche modo più o meno la stessa di quella di Orfeo e di Platone.
Al neoplatonismo abbiamo inoltre già accennato per mezzo di Proclo e Plotino. Per quanto un’analisi del pensiero del male sviluppato da questa scuola sarebbe estremamente complesso e richiederebbe un immenso spazio.
Immediatamente in continuità con queste fonti pagane si presenta poi a noi immediatamente (dal versante cristiano) il pensiero di Agostino. Di questo pensiero parla molto espressamente Ricoeur accusandolo non solo di non essere affatto una teodicea (in quanto ancora troppo teologico) ma inoltre di avere il gravissimo torto di voler cancellare totalmente il male come evidenza [Paul Ricoeur, Il male… cit..]. E bisogna dire che il pensatore francese deve avere avuto in questo assolutamente ragione, dato che anche a me stesso la lettura de’ “La natura del Bene” di Agostino [Agostino di Ippona, La natura del bene, Bompiani, Milano 2001] suscitò la sgradevole impressione di un libro che intendeva molto più perseguire intenti retorico-ideologici e apologetici che non dire invece come stavano effettivamente le cose nel mondo.
Del resto ho sempre trovato francamente insopportabili quei cristiani i quali usano affermare che, qualunque cosa ci accada nell’esistenza (anche la più atroce ed assurda possibile) è senz’altro pensata e voluta da Dio «per il nostro bene». Rispetto a costoro sono peggiori soltanto quei cristiani i quali affermano che Dio non interviene mai nel mondo, e quindi a nulla vale invocarlo quando ci troviamo travolti nel male – Dio infatti sarebbe presente nel mondo solo e soltanto come Ecclesia, il cui nucleo è poi una carità che si sviluppa sul piano solo terreno. Bisogna dire che queste sono davvero delle belle consolazioni per chi si trova nella sventura e non sa davvero più a chi ricorrere. Per cui discorsi del genere possono semmai solo servire ad accelerare la decisione al suicidio; oppure perfino a perdere la fede. Dall’altro lato c’è però l’evidenza (sostenuta non a caso dai moltissimi racconti evangelici di guarigioni dal male da parte di Gesù) di una presenza divina nel mondo (per mezzo del Cristo risorto) che è susseguita ad un atto per mezzo del quale Dio stesso non può aver voluto altro che distruggere per sempre il male proprio caricandoselo totalmente sulle sue spalle – la Croce. E sarebbe davvero assurdo che il Dio-Cristo avesse fatto questo per poi pretendere dagli uomini di dover essere capaci (nella sventura e nel dolore) di imitare in tutto e per tutto la Sua terrificante Passione. In verità, se così fosse Dio non avrebbe avuto alcun bisogno di fare quello che fece. Infatti sarebbe bastata pienamente quella salvezza elettiva mitico-omerica (riservata ai soli eroi) che, come giustamente dice Raphael, era stata già superata perfino dall’Orfismo. Figuriamoci poi dal Cristianesimo.
Mentre invece Gesù fece quello che fece semplicemente perché sapeva che solo Lui, un dio, avrebbe potuto fare ciò che un uomo mai potrebbe essere capace di fare senza soccombere (nel dolore oppure nella tentazione della violenta ritorsione). Ebbene, il fatto che Dio ha compiuto davvero quest’atto, può dunque significare solo che Egli sa benissimo che l’uomo non può superare l’aggressione del male senza poter e dover contare sul Suo aiuto. E tale aiuto non può del resto essere appena una presenza confortante (altro assurdo argomento spesso usato dai retori di parte cristiana), ma deve essere invece esattamente una guarigione e liberazione, ossia un miracolo, e cioè un atto di immensa potenza che sfida le leggi della Natura.
Vero però è anche che un simile atto non può verificarsi se l’uomo non crede ciecamente allo sconfinato amore di Dio nei suoi confronti. Perché, se in questo c’è un solo briciolo di dubbio, permarrà una barriera (creata dall’uomo stesso) che impedirà al Cristo di irrompere nel mondo. In questo caso si tratta insomma davvero di un rifiuto di Cristo da parte dell’uomo (per quanto sia inconsapevole).
Bene, abbiamo in tal modo (per mezzo di Agostino) parlato un po’ della posizione dell’intero Cristianesimo di fronte al male. E grosso modo il commento di Ricoeur a questa visione ricalca le linee del discorso che ho appena fatto. A quanto ho detto c’è solo da aggiungere che Agostino fu in verità un grande platonico. Lo dimostra in pieno ad esempio la sua riflessione sull’anima [Giovanni Catapano (a cura di), Agostino. Sull’anima, Bompiani, Milano 2012]. Inoltre lo dicono a chiare lettere diversi studiosi cristiani [Ilaria Ramelli, Il Platonismo nella filosofia patristica, nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. L’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, I, 1 p. 958-963; Étienne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, I, 5 p. 103, II, 2 p. 139-154; Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, II, II, 1, p. 141-157; Endre von Ivánka, Plato Christianus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990].
E quindi risulta abbastanza difficile credere che egli non abbia condiviso la visione platonica del male. Il problema fu quindi molto più storico-dottrinario, dato che al suo tempo (come giustamente viene sottolineato da Ricoeur) circolarono eresie come il Manicheismo ed il Pelagianesimo, alle quali egli (come dottore della Chiesa) aveva il preciso dovere di opporsi.
Ma questo ha generato quella discrepanza tra discorso cristiano e discorso gnostico che ancora una volta proprio Ricoeur non manca di sottolineare [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 3 p. 23-28]. E lo fa peraltro facendoci notare che in realtà era in fondo la Gnosi ad avere ragione, e non invece il Cristianesimo. La Gnosi infatti si produsse sì in una spiegazione trascendente e ontologica del male (simile a quella del Cristianesimo) – che fu incentrata nel concetto di una natura umana corrotta già originariamente dal Peccato e dalla Caduta; con la conseguenza di dover poi subire necessariamente il male terreno (per giusta “retribuzione”). E questo per Ricoeur è assolutamente inaccettabile.
Ma intanto, rispetto al Cristianesimo, la Gnosi ammise almeno che l’essere era impregnato di male fin nelle sue midolla ed a qualunque livello. Per cui non restava che prendere atto della sua evidenza, senza intanto aver alcun diritto di essere ottimisti (come Agostino)
Ma chiediamoci ora cosa dice per davvero la Gnosi. È proprio questo che dice?
Bisogna ammettere di sì, sebbene consultando la vasta serie di scritti gnostici prodotti e commentati nel corso del tempo – Ilaria Ramelli, Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2006; Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014; Luigi Moraldi (a cura di), La Gnosi e il mondo, TEA, Milano 1988; Marcello Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990 – si può constatare in essi una ricchezza dottrinaria molto maggiore di quella prospettataci da Ricoeur. Ciò è vero in primo luogo perché in fin dei conti la Gnosi propone in realtà un’idea non poco ottimistica dell’uomo. L’uomo viene visto insomma come una particella dell’Uno divino, ossia un “Eone”, e quindi un’entità spirituale quasi di pari rango rispetto a quelle daimoniche e divine. Ad esso quindi il male non appartiene affatto per natura. Il problema nasce dunque solo perché alcuni Eoni di grado elevato (ma comunque infinitamente inferiori all’Uno divino) si sono arrogati ad un certo punto la natura ed il ruolo di Dio stesso ed hanno così posto mano ad un’esteriorizzazione di essere dal seno divino che non avrebbe mai dovuto verificarsi. Ecco allora delinearsi quel mondo creato che è del tutto esteriore a Dio, e pertanto (come previsto nell’Orfismo e nel Platonismo) esso non solo dista infinitamente dalla perfezione divina ma ne è anche l’opposto diametrale. E bisogna far notare che in tal modo si delinea in grandi linee la dottrina di una perfetta «Prima Creazione» dell’uomo e quindi di un mondo puramente interiore a Dio (poi scaduta, a causa del Peccato, a creazione esteriore a Dio, e quindi deplorevole «Seconda Creazione»). Tale dottrina è solo accennata nella Gnosi, ma si ritrova intanto presso molti pensatori cristiani – come Gregorio, Scoto Eriugena e perfino Schelling [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa… cit., VI, 129-160 p. 483-519; Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, in: Claudio Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, Bompiani, Milano 2014, in: Claudio Moreschini, Gregorio di Nissa… cit., 5, 1-11 p. 217-227, 8, 1-20 p. 239-251; Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre & Frederick Tristan (a a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 79-172; Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani, Milano 2002, I, II, 14-17, p. 487-637] –, oltre che anche nella Cabbala ebraica – specie nella forma della dottrina della generazione dell’Albero sephirotico a sua volta corrispondente all’Adam Kadmon, ossia l’Uomo quale Universo [Giulio Busi, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 349-351; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-24, 43-45, p. 72-86 p. 99-100; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111]. Inoltre con la dottrina gnostica al riguardo è connessa all’ipotesi piuttosto bizzarra del “cattivo Demiurgo” – di fatto il Dio-Creatore e Dio-Persona dell’Ebraismo e del Cristianesimo, che secondo la Gnosi è solo un usurpatore e addirittura è equiparabile allo stesso Serpente satanico [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, IVb p. 53-54]. E bisogna ricordare che di tale idea c’è traccia ancora perfino in Cartesio, con la sua ipotesi di Dio come possibile “demone maligno” [René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976, I, 9-12 p. 110-114, II, 4 p. 137, III, 21-27 p. 150-155, IV, 1 p. 166, VI, 12-16 p. 191-195].

Dunque per la Gnosi il problema del male non è per davvero pan-ontologico. Esso infatti non risiede affatto nella vera Origine divina, che coincide semmai con l’Uno e non invece con il Dio creatore o demiurgico.
Il male consiste invece nel fatto che si è configurato un mondo collocato fuori di Dio, e non nel fatto che esista qualcosa come un «mondo», ossia un «essere». Infatti, se il mondo avesse continuato ad esistere soltanto nell’interiore essere divino, non vi sarebbe stato alcun male. E, se accoppiamo a questo la dottrina della Prima Creazione, allora possiamo ipotizzare che, in questo mondo perfetto, l’uomo stesso avrebbe potuto esistere senza conoscere alcun male.
Le coordinate dottrinarie sono qui più o meno quelle del Platonismo – nel senso di una radicale distinzione ontologica tra Trascendente e Immanente. E questo è ciò che davvero sostiene la Gnosi. A questo punto, tenendo conto della sofisticazione metafisico-religiosa basilare di tale dottrina (quella che concepisce l’Uno divino e gli Eoni), risulta davvero difficile pensare che quella gnostica sia (come dice Ricoeur) una “spiegazione” filosofica (anche se in abbozzo), e quindi un tentativo di razionalizzare ed infine negare il male. Innanzitutto in tale dottrina non vi è nulla di razionalistico, e quindi nulla di somigliante alla filosofia più rigorosa. Semmai c’è invece quel pensiero contemplante e visionario che è sempre stato tipico della metafisica religiosa più integrale, e quindi basata su autentiche visioni intuitive del Trascendente. Ma oltre a ciò non vi è nella Gnosi la minima intenzione di negare il male nel «razionalizzare». Il male viene invece semmai negato solo nel «contemplare» il livello davvero supremo dell’Essere, e cioè quello corrispondente all’Uno divino.

Bene. Ad Agostino ho già accennato dicendo quello che credo sia sufficiente. Quanto a Leibniz, Ricoeur ne sintetizza in maniera davvero magistrale la presa di posizione, e quindi non credo che valga la pena di aggiungere assolutamente nulla a questo. Infine anche sul pensiero post-filosofico del male abbiamo visto Ricoeur descrivere molto bene la “teologia spezzata” come momento finale della teodicea. E quindi anche a questo non è necessario aggiungere nulla.
Resta pertanto solo ciò che ho fatto notare prima, e cioè che in effetti la riflessione filosofica sul male non si è in verità mai arrestata e quindi si ritrova ancora in pieno nel dibattito attuale. E su quest’ultimo vorrei quindi gettare uno sguardo, scegliendo alcuni tra gli articoli che ho letto ultimamente sul tema.
Devo premettere però che molto spesso i termini di questo dibattito riescono a diventare davvero assurdi, visto che si pretende di razionalizzare entro un logos rigorosamente filosofico dei concetti religiosi che sono non solo arditamente metafisici ma anche fortemente contemplativi e visionari.

Partiamo quindi da Mander [W.J. Mander, “The unreality of evil”, Sophia, 56 (1) 2017, 1-16], il quale si produce nella davvero più classica teodicea affermando che il male è semplicemente inaccettabile sul piano puramente logico, ossia non può esistere secondo un argomentare filosofico rigoroso. E questo è secondo lui vero perché il male non è un oggetto ma è invece appena una “comparazione” (ossia qualcosa di del tutto inconsistente sul piano ontologico). Ammette poi che il male è comunque tematizzabile, ma non credo che ci possa interessare come egli giustifica questo. Aggiunge ancora che gli altri argomenti a favore dell’irrealtà del male sono tutti molto deboli, e quindi di fatto inutilizzabili: – 1) male come frutto di un giudizio puramente soggettivo; 2) male in quanto “privazione”; 3) male in quanto non “materiale” ma solo “mentale”; 4) male come prodotto del solo “desiderio”. Infine (riaffermando pienamente la più dogmatica teodicea) sostiene che il male è solo relativamente inesistente dato che l’intelletto umano semplicemente non è in grado di discernere per davvero tra bene e male, come invece Dio è perfettamente in grado fare. E questa è secondo lui la prima grande teoria affidabile del male (rispetto a quelle più bassamente riduzionistiche).
La seconda è poi quella che attribuisce a Dio un’ampiezza di sguardo prospettico (“occhio di Dio”) che soltanto a Lui permette di vedere ciò che noi uomini non vediamo. In altre parole per Dio il male non può esistere, dato che Egli vede molto più lontano di quanto siamo capaci di fare noi (sempre concentrati su noi stessi e sull’immediato).
Insomma il discorso di Mander si pone nei termini della classica teodicea che vede in Dio l’invalicabile “summum bonum”. E a coloro che obiettano a ciò l’evidenza sensibile del male, egli risponde che essi semplicemente si riducono a tenere presente le sole apparenze.

Va inoltre sottolineata anche la presenza di ulteriori interventi che seguono ancora oggi quella classica argomentazione filosofica che Ricoeur considera tipica della teodicea e considera anche del tutto archiviata. Furlong [Peter Furlong, “Blameworthiness, love, and strong Divine Sovereingnty”, Sophia, 56 (3) 2017, 419-433] afferma infatti che è impossibile sostenere che Dio sia coinvolto nel male, soprattutto in quanto caratterizzato dall’onnipotenza. Egli impiega però argomenti non etico-cristiani (e di sapore fortemente pagano) nel sostenere che l’Amore divino (o anche Bontà) non deve in alcun modo necessariamente coincidere con ciò che l’uomo avverte come male e considera come contraddizione delle migliori virtù divine. Tuttavia egli – citando Il Piano divino secondo Malebranche e Einstein (“Dio non gioca a dadi”), e quindi l’infallibile Ordine divino – fa così di fatto appello alla classica teodicea leibniziana. Egli infatti (come Mander) sostiene che l’intelligenza umana semplicemente non è in grado di abbracciare con lo sguardo le incommensurabili relazioni tra eventi che invece Dio vede chiaramente. Inoltre egli considera assolutamente banale la classica obiezione secondo la quale Dio di fatto sarebbe coinvolto nel male in quanto onnipotente e creatore.
Infatti sostiene che, se Dio certamente crea gli eventi, tuttavia ciò non toglie che le leggi della Natura (assolutamente immanenti) seguano comunque il loro corso.
A questa complessiva argomentazione egli aggiunge infine la proposta di soluzioni al coinvolgimento divino nel male che richiamano molto da vicino la “teologia spezzata”. E tra queste vi è soprattutto quella sostenuta esemplarmente da McCann [McCann H., “The author of sin?”, Faith and Philosophy, 22, 2005, 144-159; McCann H., Creation and the sovereignty of God, Indiana University Press, Bloomington 2012], secondo il quale, mentre la natura umana è fatalmente affine al male quella divina ne diverge invece radicalmente.

A questa argomentazione di Furlong c’è poi da aggiungere quella davvero bizzarra (se non assurda) di Rockwood [Nathan Rockwood, “Foreknowledge without determinism”, Sophia, 58 (2) 2019, 103-113], secondo la quale la presupposizione di un’Omniscienza divina non sarebbe altro che l’extrapolazione delle possibilità pienamente alla portata della logica umana. Di conseguenza sarebbe ridicolo ciò che Furlong sostiene insieme alla tradizionale teodicea, e cioè che il male non esiste semplicemente perché l’uomo non è in grado di guardare così lontano come Dio.

Trakakis [N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630], in maniera molto simile a Ricoeur, prende poi atto della totale estinzione del problema filosofico del male, aggiungendo a questo che il fenomeno sarebbe avvenuto nel contesto della polemica da molto tempo esistente tra teisti ed anti-teisti. inoltre egli menziona l’appello di Plantinga (1980), rivolto a tutti i filosofi cristiani, a smettere di argomentare su questo tema con gli atei, limitandosi invece a farlo solo con i credenti. Ma intanto l’Autore lamenta che proprio questo ha generato un discorso filosofico-religioso che non ha più nulla di filosofico.
E forse questo potrebbe venire applicato anche a quella “teologia spezzata” della quale parla Ricoeur come definitiva alternativa alla filosofia. Secondo Trakakis insomma il discorso filosofico sul male non sarebbe affatto tramontato, anche se in maniera del tutto degenere.

Vi è poi chi addirittura mette bocca criticamente nell’argomento kantiano del “male radicale” (radical evil).
Kohl [Markus Kohl “Radical evil as a regulative idea”, J. of the Hist of Phil, 55 (4) 2017, 641-673] lo ritiene addirittura un argomento di impronta ancora cristiana. E ciò sarebbe vero in quanto di fatto Kant presuppone la radicale ontologicità del male in quanto propria della natura umana. Egli pensa invece che il male è appena un’idea regolativa propria della ragione pratica. Ed essa si muoverebbe in tal modo: − siccome non posso sapere se l’uomo è male o meno, allora devo necessariamente partire dall’idea che l’uomo è malvagio (senza che ciò sia necessariamente vero oggettivamente). L’Autore sostiene inoltre che, se non fosse così, la presupposizione del male assoluto cozzerebbe con la morale universale di Kant.

Un articolo estremamente equilibrato e anti-conformista (in termini filosofico-religiosi e forse anche teologici) è quello di Daeley [Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435]. E bisogna dire che l’Autore mette letteralmente il dito nella piaga dell’attuale riflessione sul male ponendo in evidenza l’aspetto secondo me principale della sua negatività, e cioè la forte spinta a pretendere di decostruire in termini analitico-filosofici un discorso religioso che invece nasce e permane sul piano della Rivelazione divina. Ed un siffatto discorso non può venire in alcun modo ricondotto alla logica. Infatti Daeley ci mostra come e quanto le usuali considerazioni logico-teologiche tendano a scivolare nell’assurdo per il fatto di non tener presente la sostanziale contro-razionalità alla quale deve obbedire il discorso su Dio, ossia il discorso incentrato nella Rivelazione. Emblematico in tal senso è (a mio avviso) quel discorso rigorosamente logico sui “mondi possibili” che poi, come già sappiamo, stava al centro della teodicea di Leibniz.
Per la verità l’Autore non parla direttamente del male. Ma senz’altro lo fa almeno indirettamente affrontando il tema del «meglio» (il migliore dei mondi possibili) in relazione a sua volta alla “Grazia” divina.
In ogni caso l’argomento introdotto diviene fin dall’inizio assurdo quando l’Autore ci informa su quale genere di proposizione logica oggi i filosofi analitici (a loro detta al servizio della religione e della teologia) si vantano di esercitare le loro abilità logiche. Questa proposizione assomiglia infatti molto ad una riedizione logico-cristica della classica argomentazione (citata da Ricoeur: vedi quattordicesima lezione) su cui si è sempre basata la più classica teodicea. Eccola: − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. In verità dal punto di vista puramente logico ci sono ottimi motivi per criticare la messa in relazione (nella teologia e nella filosofia religiosa) tra la gratitudine umana (a sua volta rinviante alla Grazia divina) e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Ma intanto è assolutamente ridicolo voler ridurre la realtà della Grazia divina al concetto logico di gratitudine. La Grazia divina infatti è concepibile solo su un piano sublimemente sovrannaturale totalmente nascosto allo sguardo dell’intelletto umano. Quindi tutto sommato è superflua anche la difesa sul piano logico della Grazia divina (in quanto “atto grazioso”, ossia la creazione stessa), che viene tentata dall’Autore. E lo stesso vale senz’altro anche per la difesa (tentata dall’Autore) del concetto di volontà divina (libera e rivolta invariabilmente al Bene) dalle trappole tese ad esso dal cosiddetto “compatibilismo” (qualunque atto necessario contraddirebbe la libertà).
Comunque è del tutto naturale che l’Autore sottolinei il fatto che l’Amore divino è tale (in quanto “atto grazioso”) proprio perché non prevede dall’altro lato alcuna gratitudine. Ma a mio avviso non vi era bisogno di alcuna logica (né alcun dibattito affollatissimo di Autori e di vari “ismi”) per fare una simile affermazione. In ogni caso va registrato che Daeley parla di una Grazia divina “senza condizione”.
A questo punto, però, la riflessione dell’Autore diviene estremamente importante per i nostri scopi.
Perché, del difendere sul piano logico il concetto di Grazia divina in quanto Amore incondizionato, egli
dimostra di fatto la totale inutilità dell’intero armamentario logico-filosofico costituito dalla teoria dei mondi possibili (oggi diventato autentico cavallo di battaglia di esercitazioni logico-analitiche, peraltro basate su astruse formule matematiche, che nemmeno più nulla hanno a che fare né con la religione né con un razionalismo metafisico come quello di Leibniz). Daeley dimostra infatti che la Grazia divina (in quanto libera) non è affatto tenuta a scegliere tra varie alternative (come accade invece all’uomo). Quindi la creazione necessariamente buona (il migliore dei mondi possibili in quanto determinato e quindi solo uno dei tanti possibili) non ha nulla a che fare con la scelta incondizionatamente libera, e pertanto con l’Amore incondizionato in quanto Grazia. Quest’ultimo insomma non è affatto soggetto alla Necessità che normalmente governa la determinazione. E ciò accade semplicemente perché questo tipo di governo esiste solo sul piano ontologico relativo, e non invece sul piano ontologico assoluto. Insomma è solo sul piano umano-terreno che un determinato effetto (reale) esclude tutti gli altri possibili. Invece, sul piano assoluto, in cui opera Dio, la creazione di un determinato mondo possibile avviene in assoluto e non in relativo.
Ecco allora che in verità Dio non crea affatto “il miglior mondo possibile” (nel separarlo, intanto, da quello mondo peggiore in quanto determinato), ma semplicemente ha il desiderio di creare “il meglio” in assoluto. Non solo, ma Egli ospita tale desiderio anche nel mentre prevede “il peggio”. E lo fa in maniera assolutamente non separata, ossia includendo anche quest’ultimo nella sua intenzione assolutamente positiva, ossia nel suo Amore. Dice l’Autore che esempio per questo può essere l’amore dei genitori per un bambino che però intanto non ha ancora sviluppato le sue potenzialità positive. In altre parole Dio non vuole altro che il mondo buono in assoluto.
E ciò non ha alcunché a che fare con la problematica logico-filosofica dei mondi possibili. Si tratta infatti di una realtà unicamente etica. Non a caso Dealey afferma che è necessario distinguere nettamente tra “necessità metafisica” e “necessità morale”.
In ogni caso tutto ciò implica il fatto estremamente eclatante che Dio ama anche le creature non buone.
E quindi in qualche modo (almeno nei termini dell’intelletto umano) «tollera» il male. Tuttavia mi sembra che le considerazioni di De Benedetti (che ho riportato prima) siano più che sufficienti a disinnescare tale argomento.

Molto significativo mi sembra anche il contributo di Larmer [Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358], il quale pone sul tappeto quella dottrina tomista che è ben nota in filosofia come “intelligent design” e che viene anche molto spesso citata e dibattuta. Molto in generale l’Autore sostiene una tesi critica secondo la quale Tommaso d’Aquino nega di fatto qualunque esistenza del male nel mondo in forza del fatto che l’intelligenza divina è insita in ogni infinitesima piega della Natura. Ed egli precisa che i neo-tomisti (Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz) non hanno alcun diritto di porre in dubbio l’esistenza effettiva di tale dottrina in Tommaso. Anzi egli li accusa apertamente di uno scetticismo inaccettabile per dei metafisici e filosofi religiosi.
Tuttavia questa mancata ammissione del male va registrata tenendo intanto conto di un’importante variabile che è costituita proprio dalla supposizione di un intelligenza divina che è intrinseca alla Natura, e quindi è orientata inevitabilmente al bene. Pertanto bisogna ammettere che anche se il male c’è (tendenzialmente), esso viene comunque cancellato dall’azione di questa intelligenza, che poi in termini teologico-metafisici equivale alla fede in un vero e proprio continuo intervento di Dio nel mondo. Ebbene, il male a questo punto potrebbe venire ritrovato proprio in uno di quegli aspetti di tale dottrina metafisico-naturalistica contro la quale più duramente si appuntano le critiche di coloro che sono alla ricerca continua di aporie. Costoro sostengono infatti che l’immanenza dell’intelligenza divina al mondo naturale implica l’immensa difficoltà del coinvolgimento di Dio nella “fallacia cosmogonica”, ossia quell’imperfezione della creazione che deve venire necessariamente presupposta se si vuole sostenere una relazione continua tra Dio e il mondo. Proprio per tale motivo i neo-tomisti criticati da Larmer preferiscono concepire le leggi della Natura come totalmente indipendenti dall’intervento divino, e quindi come del tutto svincolate da qualunque forma di intelligenza divina intrinseca.
Ed in tal modo si postula di fatto un male mondano evidente ed oggettivo, contro il quale Dio non intraprende nulla per il semplice fatto che tra Lui è il mondo vi è una differenza ontologica radicale ed abissale. Si tratta insomma di una tesi molto simile a quella della “teologia spezzata”.
Vi sono ulteriori (e molto complessi) aspetti di tale discussione. Ma per i nostri scopi credo che basti soltanto questo.

Il tema del male diviene il vero e proprio ago della bilancia della discussione svolta da Cockayne
[Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523] sulle relazioni che idealmente dovrebbero esistere tra teismo ed ateismo. Ed in generale egli sostiene che sarebbe auspicabile un ateismo “passionale” in luogo di quello “classico”; a causa del fatto che il primo sottolinea le ragioni prevalentemente soggettive per avere dubbi sull’esistenza di Dio, anche se può accettare intanto le ragioni oggettive (e razionali) per accettarla almeno in via di principio. E sta di fatto che il nucleo delle ragioni soggettive (per negare l’esistenza di Dio) sta proprio nella costatazione dell’inoppugnabile esistenza del male nel mondo. Si presuppone quindi in tal modo non solo la scandalosa permissione del male da parte di Dio ma anche l’ancora più scandalosa (in quanto terribilmente provocatoria per l’uomo) totale ascosità di Dio (ossia la sua invisibilità ed anche irragiungibilità). E quest’ultima è talmente provocatoria per l’intelligenza umana da costringerla a postulare addirittura la “superfluità” di Dio proprio a causa dell’esistenza del male.

Viene poi un articolo che a mio avviso va tenuto in considerazione in maniera molto più attenta, e cioè quello di Holden dedicato direttamente alle teorie del male di Adorno e Arendt [Terence Holden “Adorno and Arendt: evil, modernity and the underside of theodicy”, Sophia, 58 (2) 2019, 197-224]. Quest’articolo è estremamente complesso, e quindi va molto riassunto. Ma comunque esso tratta direttamente della teodicea, e quindi è per noi di immensa importanza. Comunque quello che mi sembra importante è cogliere quelli che sono i messaggi principali in esso contenuti. Sono i seguenti.
In primo luogo l’Autore registra che i pensatori menzionati (cioè Adorno e Arendt) si pongono senz’altro sulla scia della dottrina kantiana del “male radicale” (radical evil).
In secondo luogo egli rileva che la Modernità ha scoperto che addirittura lo stesso potere individuale di giudizio è in definitiva del tutto impotente davanti al male oggettivo. E questa costatazione non è altro che un’estensione del senso colto da Ricoeur nel passaggio obbligatorio dalla filosofia alla “teologia spezzata”. Tale estensione coinvolge però anche Kant nell’impotenza della filosofia. Infatti perfino la sua fondazione della morale nella gnoseologia (giudizio razionale) appare essere fallimentare davanti al fatto che il male oggettivo è non solo evidente ma anche soverchiante – esso riesce cioè a smantellare perfino la nostra capacità individuale di giudizio nel discernere ciò che è bene da ciò che è male. Pertanto sembra proprio che la delegittimazione della teodicea, da parte di Kant, non cambi proprio nulla nel pensiero del male.
Infatti la negazione di un oggettivo ed assoluto male onto-metafisico (a vantaggio di un male puramente relativo al cattivo uso della morale razionale) non aiuta affatto a cogliere la schiacciante evidenza del male. Anzi sembra proprio che continui a negarla nello sforzo di una sua razionalizzazione.
In terzo luogo, da quanto dice Holden, bisogna desumere che la moderna teoria filosofica del male esiste ancor eccome, ed ha anche inoltre delle caratteristiche ben precise. Per la precisione essa è decisamente post- e ultra-metafisica in quanto consiste in un realismo scientifico, immanentista, elementarista e molteplicista (non unitarista). Vedremo dopo cosa significhi questo più specificamente. In altre parole sembra che Holden non ritenga necessario superare la filosofia razionalistica ma semmai una metafisica perdurante nel pensiero moderno perfino dopo la sua condanna da parte di Kant.
Il che significa che in fondo Leibniz per lui rientra pienamente in quest’ultima. Comunque il messaggio che attraversa tutto l’articolo (nel sostenere una radicalmente nuova teoria filosofica del male) sembra voler essere molto provocatorio nel senso della seguente sfida: − «Vediamo cosa concretamente riuscite a fare (nella situazione negativa specifica) con le vostre teorie del male?». Pertanto anche Holden, come Ricoeur, sfida la filosofia in generale a pronunciarsi attendibilmente circa il male. Solo che l’Autore non sembra affatto voler abdicare dal ruolo di filosofo, e quindi sembra solo che intenda proporre un nuovo realismo filosofico in luogo del tendenziale e tradizionale idealismo delle teodicee. Non a caso, infatti, i pensatori tenuti presente nell’articolo (Adorno e Arendt) vengono entrambi accusati di voler tenere in piedi un’inter-soggettività non autenticamente relazionale (sociale) ma invece puramente pensante ed astratta (cioè in stretta connessione con la filosofia della coscienza). E l’Autore ritiene che tale forma di relazionalità finisca per essere affatto realistica. Così essa viene dichiarata essere del tutto incompetente ad affrontare il tremendo tema del male.
Ma in che modo Holden ci propone di affrontare il tema del male in termini filosofico-realistici?
Lo fa semplicemente considerando il male non più onto-metafisico ma invece unicamente esperienziale e terreno, specie in quanto inter-umano e quindi elementarmente relazionale. In altre parole il male non è altro che il mancare di riconoscere in generale il pieno diritto ad esistere dell’Altro (in particolare la sua dignità). Ed a tale proposito l’Autore ritiene del tutto superfluo sostituire la presa d’atto di questa dimensione con teorie pur sempre metafisiche della realtà, come quella della “Storia” (che da Hegel trapassa direttamente in Adorno e anche in Arendt).
Per Holden vanno comunque tenute presenti le diagnosi di crisi fatte sia da Adorno che da Arendt rispetto alla Modernità (della quale viene criticato in particolare il fenomeno dell’”accelerazione” del movimento storico, e quindi la ben nota ideologia della crescita). Ma questo, se è molto interessante in sé, non lo è però per gli scopi della presente lezione. Pertanto va solo rilevato che i due pensatori testimoniano quanto forte sia il legame tra male oggettivo e Modernità, ed inoltre come entro quest’ultima addirittura la Storia abbia finito per intrecciarsi con la stessa Natura, aggravando così ulteriormente quell’ontologia del male che era stata costantemente rilevata antecedentemente all’avvento della Rivoluzione industriale. E qui viene decisamente alla ribalta la forma più radicalmente ultima del male nel mondo, e cioè quella legata all’economicizzazione totale della società, ed inoltre al dominio della scienza tecnologica sull’essere.
Quella che ho illustrato è comunque in gran parte la dottrina della Arendt. Quella di Adorno aggiunge a tale scenario elementi tipici della dottrina marxista. Ma andremmo troppo lontano se volessimo seguirlo. Importante mi sembra solo il fatto che mentre la Arendt denuncia nella Modernità il male da dinamismo (eccesso di «rivoluzione»), Adorno denuncia invece in essa il male da stasi (difetto di «rivoluzione»).
In ogni caso Holden precisa che Adorno ed Arendt sono semmai eredi della teoria hegeliana della Storia, ma non ne sono affatto interpreti diretti. Entrambi infatti la criticano severamente proprio in quanto essa è la tipica teodicea che tende a riassorbire e negare il male (per mezzo della Storia quale ineluttabile forza impersonale costantemente agente, la quale riduce a sé ogni cosa). In altre parole Adorno e Arendt si sforzano di superare la teodicea, ma secondo l’Autore non vi riescono.
Holden è ancora più esplicito nella sua constatazione e nella sua condanna (parlando di “immoralità della teodicea”). Così egli menziona in alternativa due presenze centrali nella moderna riflessione filosofica sul male, e cioè Lévinas e Davies. Tuttavia egli precisa anche al proposito che, da Kant in poi (“male radicale”), la filosofia ha iniziato a superare questo pensatore stesso nel riconoscere il male come assoluto ed oggettivo esattamente in quanto parte della struttura storico-dinamica dell’essere. E come tale esso non solo trascende largamente il potere di scelta individuale ma diviene anche totalmente ordinario, cioè “banale” (Arendt). Kant invece (pur avendo liberato il tema del male dell’approccio onto-metafisico) riteneva il fenomeno ancora soggettivo, e quindi non era ancora approdato ad un’ontologia del male decisamente post-metafisica. In questa direzione sono andati Adorno ed Arendt, ed infine Lévinas ha concluso il percorso considerando il male come un totale sovvertimento dell’essere nel senso dell’anti-relazionalità. In particolare si parla qui della “comunità morale” come il luogo in cui, a causa dell’intensissima relazionalità in esso vigente, la dimensione etica sarebbe del tutto implicita (senza nemmeno bisogno di venire tematizzata) in modo tale che in esso viene pienamente esercitata la responsabilità dell’uno per l’altro.
Su questa base poi Holden ricorre ad altri pensatori (Pia Lara e lo stesso Ricoeur) nell’estendere la portata dell’appello arendtiano ad un atto di giudizio mai disgiunto dall’atto di memoria. Questi pensatori ritengono infatti che l’elemento dirimente sia in definitiva solo quello della memoria, e nella maniera più accentuata possibile, cioè come “narrazione” dei fatti ossia come circostanziata e personalissima testimonianza. Ed in effetti di questo ho parlato in una precedente lezione (ottava) dedicata al libro di Ricoeur sulla memoria [Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003].
Tutto questo finisce per ridimensionare di molto anche l’ontologizzazione del male entro il pensiero più attuale. Infatti, una volta posto il male sul piano della fattualità (al quale rinvia la narrativa, cioè la memoria), esso appare essere in fondo ontologico quasi solo metaforicamente, ossia in primo luogo come «fatto» ovvero casuale evento. Mai invece come profonda ed invisibile struttura dell’essere, oppure come misteriosa forza (vedi Storia).
Il male insomma è semplicemente qualcosa che capita perché alcune (tutto sommato casuali) volontà spingono in tal senso in relazione a determinate circostanze sfavorevoli. E quindi esso è banale ancor più di quanto è stato stabilito da Arendt. È, direi, più che altro elementare. Lo è perché è esperienziale esattamente quanto qualunque evento dell’esistenza umana e del mondo. Pertanto, se proprio vogliamo considerare il male come ontologico, siamo obbligati a considerarlo tale soltanto in senso relativo e non invece assoluto.
Altra conseguenza è, secondo Holden, che esso costituisce un fenomeno che non è affatto ricomprensibile nel campo della morale (nemmeno negativamente). Perché esso invece si pone totalmente fuori di tale campo, corrispondendo semmai al campo della sola Natura. Su questo aspetto preferisco però esprimere tutte le mie personali riserve. In quanto il realismo filosofico qui all’opera vorrebbe far crederci in fondo nella possibilità di cogliere il male più pienamente fuori della morale che entro di essa. Come se la morale fosse una sorta di filtro che offusca i fatti negativi e malefici.
Sinceramente trovo estremamente pericoloso questo bizzarro sforzo di liberarci della morale allo scopo di cogliere più pienamente il male; e peraltro come tutto sommato innocentemente naturale. Del resto, comunque, ciò era già evidente quando abbiamo preso atto del concetto holdeniano di “comunità morale”.
Le ulteriori considerazioni di Holden entrano troppo nei dettagli del pensiero di Adorno e Arendt, per cui credo sia meglio trascurarle. Va quindi detto solo che la sua accusa a questi pensatori è quella di avere anch’essi costruito una teodicea, ma intanto colta solo nella sua “faccia inferiore”, cioè nella sua dimensione elementare.

Come ultimo viene un articolo che ci permette di intendere la dottrina di Leibniz da un punto di vista piuttosto singolare nella sua bizzarra e arbitraria creatività intellettuale. In particolare si tratta della tesi ampiamente riduzionistica di Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571], secondo la quale lo spirito non sarebbe altro che l’equivalente di un’energia cosmica colta nel suo aspetto più sottilmente fisico.
E quest’ultima, in ultima analisi, non sarebbe altro se non la forza di sviluppo che spinge l’intero essere verso la sua costante esplicazione (cioè l’elementare forza vitale evoluzionistica ed onto-organizzante).
In particolare, secondo Steinhart, si tratterebbe di null’altro se non della forza di organizzazione progressivo-crescente delle strutture che tutti conosciamo come “entropia”. Ebbene, secondo l’Autore, bisognerebbe considerare Leibniz il sostenitore di questo genere di stranissimo “argomento per lo spirito”. Più precisamente egli avrebbe postulato una forza direttiva che deve necessariamente tendere ad un risultato finale, ossia deve essere un “potere ultimativo”, nel senso della sempre completa determinazione dell’astratto. Leibniz è insomma per Steinhart il protagonista di una “theory of striving possibility” (possibilità tendente, anelante, sforzantesi), come spiegazione delle cose concrete (individuo – determinato). In generale si tratterebbe di una teoria postulante le forme astratte matematiche come forme dell’universo.
Tra i principi generali governanti questa dottrina ce ne sono due da sottolineare: − 1) quello secondo il quale la forma tende a divenire attuale a meno che qualcosa non glielo impedisca; 2) quello secondo il quale le forme sono tra loro indipendenti, per cui se non vi è una forma che impedisca l’attualità, essa si verificherà senz’altro.
Dunque la sequenza dell’evoluzione si muove costantemente da una forma semplice in direzione di una sempre maggiore complessità partendo. Ma intanto la forma più semplice possibile è quella più indipendente, e quindi essa è quella in principio più attuale. Ecco che la forma più semplice dell’universo è quella vuota (“empty universe”), ovvero “cosmological zero”. Quest’ultima è quindi la forma di universo più attuale, cioè più possibile nel senso della realtà. Pertanto esiste di fatto un unico universo semplice ed esso corrisponde esattamente al migliore dei mondi possibili. È insomma la potenza massima più generale, dalla quale derivano tutte le attualizzazioni.
Dunque quella qui esposta sarebbe la versione evoluzionistica dell’effettiva visione di Leibniz; dalla quale però essa differisce notevolmente. La versione evoluzionistica non prevede infatti un solo universo migliore ma semmai molti universi migliori (secondo la teoria indicata da Steinhart come quella dell’albero ramificato di attualità). Inoltre prevede anche una progressione al meglio che non si ferma, ma che invece sempre sorpassa i migliori. Questa progressione ha un inizio costituito dalle forme più semplici (livello zero) dell’universo ideale (iniziale), che poi procedono progressivamente verso ulteriori forme di meglio fino al concreto ultimo.
Bene, dov’è il male qui? Assolutamente da nessuna parte. E ciò perché, messa così, la teoria di Leibniz non è nemmeno una teodicea, ossia una dottrina religioso-filosofica e metafisica. È invece appena una teoria scientifico-naturalistica anche se colorita di argomenti filosofici. In ogni caso, se proprio ci si vuole sforzare, si può dire che il bene sta nella costante crescita dell’universo in direzione di nuove e crescenti forme di organizzazione. Tuttavia sembra proprio che del male non vi sia alcuna traccia. Si potrebbe quindi pensare che sia proprio questo il destino naturale delle teodicee, una volta trasportate sul piano della scienza naturale. Esse si presterebbero ad una negazione del male alla quale poi corrisponde la valorizzazione dogmatica della crescita perfino elementare, ossia quella cosmica. Ed in tal modo siamo pertanto riportati alla critica di Adorno e Arendt alla Modernità proprio in quanto crescita che è certamente foriera di male.
Possiamo quindi rintracciare qui un notevole rischio, e cioè quello che estende la critica ricoeuriana alla teodicea, nel paventare che la sua negazione del male può divenire ancora più pericolosa quando la teodicea stessa si trasforma in una teoria scientifico-naturale.

Che conclusioni possiamo ora trarre da tutto questo?
Primo. Abbiamo constatato che la metafisica (specie se religiosa) è perfettamente in grado di rispondere al problema del male senza indulgere ad alcuna “spiegazione” e/o razionalizzazione filosofiche di esso; e quindi non incappando nelle fatali aporie comportate dalla teodicea. Pertanto la soluzione non sta affatto (come dice Ricoeur) nella moderna teologia, bensì semmai nel ritorno all’antica metafisica. E sarebbe auspicabile a questo punto un abbraccio fraternizzante tra l’antica metafisica «pagana» e quella cristiana. Sebbene a quest’ultima vada riconosciuto il vantaggio di avere come modello davvero insuperabile (teoretico e pratico) la figura del Cristo.
Secondo. Non c’è dubbio che il male vada drasticamente ontologizzato ed obiettivato (specie nel senso della sua totale «esternalizzazione»), altrimenti rischia seriamente di venire negato o occultato. Il filo conduttore (e minimo comun denominatore) di tutto ciò che abbiamo visto finora è, infatti, che il male mondano è un’evidenza assolutamente inoppugnabile, ossia è tangibilissimamente esteriore. Almeno in una certa misura bisogna quindi anche ammettere che il male terreno è elementarmente esperienziale, e quindi come tale sfugge fortemente ad una troppo astratta categorizzazione metafisica. Questo va quindi ammesso, a patto solo che non si pretenda per tale motivo di esautorare totalmente la morale (in questo caso infatti i rischi che si corrono sono immensi). Ancora una volta però si impone qui la dimensione religiosa della metafisica su quella puramente filosofica. In altre parole solo in quest’ultimo caso la metafisica è pericolosa. E quindi in tal modo riemerge di nuovo la figura del Cristo come nostro imprescindibile punto di riferimento. In essa infatti convergono perfettamente la dimensione esperienziale del male, quella onto-metafisica e quella religiosa.
Terzo. Premesso quanto abbiamo appena visto, va detto che diviene davvero molto semplice rispondere alla fatale domanda circa il «Cos’è il male?». Si tratta pertanto di una risposta che sembra davvero esulare totalmente dal campo di quella che è stata sempre la teodicea filosofica (e forse anche teologica).
La risposta è la seguente (e si noti bene che essa è totalmente tautologica): − «Il male non è altro che quello che tu, proprio tu, hai sperimentato e stai sperimentando ora, o sventurato. Tu solo sai cosa sia il male, tu che stai soffrendo. Per cui nessuno meglio di te può spiegarcelo, ed inoltre nessuno può osare tentare di spiegarlo a te».
Quarto. Non sembra affatto vero (come invece afferma Ricoeur) che la filosofia abbia cessato di produrre teodicee a ciclo continuo. E per di più continua a farlo addirittura tendendo a sconfinare sempre più nell’assurdità ed astrusità di cavilli logico-filosofici. Pertanto l’uomo comune non ha da aspettarsi proprio nulla da questo genere di dibattito filosofico (se non per rarissime eccezioni).

In sintesi mi sembra che noi dobbiamo tenere conto soprattutto di questa semplice ma profondissima verità: − Guai, ma davvero guai, a prendere sotto gamba la mortale serietà dell’esistenza del male.
Il male esiste oggettivamente, eccome! Tanto che lo si può pensare e dire in molti e diversissimi modi, e cioè lo si può dire in molti linguaggi – quello della semplice esperienza vissuta, quello della metafisica, quello della teologia, quello dell’etica. A quanto pare solo il linguaggio della filosofia appare invece del tutto inadeguato allo scopo. Perfino quando esso si fa estremamente realista ed esperienziale, come abbiamo visto nel caso di Holden. In questo caso infatti esso corre l’immenso rischio di voler fare a meno dell’etica.
Ed allora in chiusura devo proporre al lettore un’altra significativa lettura circa il problema del male, e cioè quella di un libro del grande pensatore russo Solov’ëv [Vladimir Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma 2017]. Questo libro vuole infatti essere esplicitamente non filosofico nel suo sforzo di dirci che il male esiste in maniera talmente oggettiva ed inoppugnabile da giungere a presentarsi a noi non solo come una presenza storica ma addirittura anche come una presenza ultra-storica ed escatologica, ossia nell persona dell’Anticristo. E in entrambi i casi noi non abbiamo altro dovere verso questo male se non un dovere semplicissimo e addirittura sbrigativo, ossia quello di combatterlo apertamente e senza mezzi termini. Ebbene, Ricoeur accenna alla necessità di questa lotta al male sia come corollario di una legittimissima protesta dell’uomo contro di esso, sia anche proclamando il primato dell’azione sul pensiero [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 5 p. 41-46, III, 2 p. 48-50]. Tuttavia poi limita sé stesso affermando che non bisogna illudersi circa il fatto che l’esistenza oggettiva del male possa davvero venir modificata per mezzo della lotta ad esso.
Ma io direi che il criterio non può essere affatto quest’ultimo, bensì invece proprio quello affermato da Solov’ëv – il male va combattuto sempre e comunque, altrimenti ci si macchia dell’imperdonabile delitto della complicità con esso. E nessuno a questo mondo può sapere cosa può accadere se al male viene lasciato campo completamente libero. Non a caso il pensatore accenna ad una critica al moderno pacifismo proprio come potenziale ed insidiosissimo anticristismo. Inoltre (nel racconto finale) ci mostra come la definitiva vittoria di Cristo sull’Anticristo (e quindi sul Male stesso) viene preceduta dalla resistenza ostinata e irriducibile di tre soli cristiani tra i tanti che invece apostatizzano convertendosi all’anti-religione anticristica.
Infine mi sembra evidente che le uniche risorse di pensiero che possano davvero aiutare l’uomo comune ad affrontare il problema del male (nella sua esistenza) risiedono nella filosofia antica (ossia nella metafisica religiosa) ed inoltre nella Rivelazione divina stessa (con i modelli e con le immagini che essa ci propone).

Aldilà di tutto vi deve essere però in noi forte e chiara la consapevolezza del fatto che quello del male è il campo in cui forse la filosofia ha meno da dire rispetto a tutti gli altri campi ed aspetti dell’esistenza umana e mondana.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

Abbiamo finora trattato della nascita e dell’esistenza. Ora, in base al programma tracciato alla fine dell’undicesima lezione (nella quale ho cercato di definire quale fosse il più appropriato approccio filosofico ai fenomeni congiunti della nascita, esistenza e morte), bisogna trattare dell’ultimo elemento del trinomio dinamico, la morte.
La morte è l’ultimo di questi fenomeni, e quindi ha forse lo stesso senso e la stessa importanza del primo, cioè la nascita. Pertanto forse è possibile anche per esso porsi il problema che ci siamo posti per il secondo, ossia il problema del «perché?». Insomma molto probabilmente il «perché sono nato?» è specularmente equivalente al «perché devo morire?».
In primo luogo emerge però qui immediatamente una fondamentale differenza tra le due domande: − la prima riguarda infatti qualcosa che è «già accaduto», ovvero il passato, mentre la seconda riguarda invece qualcosa che «dovrà ancora accadere», ovvero il futuro. Ma lasciamo questa questione per ora aperta.
In secondo luogo va osservato che – entro uno dei due libri che userò come base per trattare questo tema, quello di Ricoeur dedicato al male [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015] – il problema del male stesso si pone (in termini filosofici) esattamente come “perché?”. Ed anche rispetto a ciò per il momento mi limiterò a constatare ciò che ho appena detto.

In ogni caso, in termini ontologici, la morte appare essere il momento ultimo dell’esistenza, e quindi il momento più adatto per quell’atto che noi uomini usiamo chiamare «bilancio». È il momento esistenziale dell’a posteriori, mentre invece la nascita è il momento dell’a priori. Tuttavia sia l’a posteriori che l’a priori costituiscono in qualche modo un importante fondamento di essere, ossia ciò che giustifica ultimamente l’essere. In termini aristotelici si potrebbe dire che il primo equivale alla causalità efficiente mentre il secondo equivale alla causalità finale. La causalità efficiente giustifica tutto l’essere che deve venire prodotto, mentre la causalità finale giustifica tutto l’essere che è già stato prodotto. Ed entrambe giustificano l’essere indicando il senso e scopo del movimento evolutivo e onto-generativo – la causalità efficiente lo fa a partire dall’inizio (a priori), mentre la causalità finale lo fa partendo dalla fine (a posteriori).
Alla luce di tutto questo il fenomeno della morte sembra avere la capacità di «spiegare» l’intera nostra vita (tutto l’essere «già stato» che l’ha costituita) a partire dal momento ultimissimo del dipanarsi di un filo fino ad allora mai spezzatosi, ma che ormai sta decisamente per spezzarsi. Insomma a partire dal momento della morte sembra che noi potremmo avere finalmente la capacità di una visione di insieme che prima non potevamo affatto avere − la capacità di uno sguardo che abbraccia tutta la nostra esistenza, senza perfino più alcuna differenza tra passato, presente e futuro. In questo senso la morte appare essere il momento in cui il filo del tempo se ne sta finalmente di nuovo tutto avvolto in sé stesso a mo’ di gomitolo. Ma questo corrisponde specularmente a quanto avveniva alla nascita. Solo che allora il gomitolo del tempo era ancora da essere svolto, mentre adesso (nell’ora della morte) esso non ha più da essere svolto. E quindi se ne sta lì nella sua definitiva integrità come qualcosa che è giunto finalmente al suo compimento ultimo. Siamo insomma di fronte ad una sistole (contrazione) che conclude definitivamente una lunga diastole (dilatazione).
È evidente che stiamo qui parlando in termini filosofico-metafisici ed inoltre senz’altro anche metafisico-religiosi. Non a caso qualche lettore avrà intravisto tra queste righe la ben nota immagine propostaci dalla scienza del paranormale che viene connessa al momento della morte – quella della sequenza di immagini in cui di colpo vediamo scorrere davanti a noi la nostra intera vita come un film. E pare che (almeno stando ai reports descritti da alcuni Autori) effettivamente questo sia quanto viene raccontato da coloro che hanno vissuto una morte imminente a causa di incidenti o gravi malattie.
Oltre a ciò emerge qui un’immagine mitica che è squisitamente metafisico-religiosa. Infatti la morte come finale sistole, o contrazione (opposta all’iniziale diastole, o dilatazione), richiama molto direttamente la teoria tradizionale (in gran parte orientale) dei grandi cicli cosmici; che in Occidente è stata a lungo esposta e chiarita da studiosi come Guénon e Vallin [René Guénon, Il Regno della Qualità ed i segni dei tempi, Adelphi, Milano 2006, Introd. p. 11-18; Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012, Introd. p. 75-77]. Il ciclo, infatti, è un’estensione spazio-temporale di essere che sempre sprigiona da un punto per poi venire alla fine di nuovo ridotta ad un punto ed in esso ingoiata. Si tratta quindi della continua alternanza ontologica tra punto (contrazione-sistole) e linea (dilatazione-diastole).
Orbene, sia parlando in termini di immagini paranormali che parlando in termini di immagini mitiche, noi ci collochiamo in tal modo decisamente fuori della più rigorosa filosofia. Eppure, come si sarà potuto notare, noi siamo approdati a queste immagini solo dopo aver condotto un’analisi genuinamente filosofica del concetto di morte; giungendo così alla conclusione che essa si presenta a noi come un momento finale di essere che appare molto simile ad una causa finale.
Non solo, ma già nel contesto di tale discorso filosofico, è emerso chiaramente il senso che la morte può avere esattamente come lo abbiamo visto per la nascita. In altre parole, già in termini filosofici è possibile rispondere alla domanda «perché devo morire?», esattamente come è possibile rispondere alla domanda «perché sono nato?». La risposta relativa alla morte potrebbe essere la seguente: – devo morire soprattutto per avere la possibilità unica di abbracciare con lo sguardo tutti i momenti della mia esistenza, in modo da poter comprendere finalmente cosa ho fatto di essa, e quindi anche di poter attribuire ad essa un ben determinato senso e valore. In qualche modo qui il momento del giudizio è prevalente, e lo è peraltro in maniera speculare rispetto alla domanda-risposta configuratasi alla nascita. Nel momento della morte io, infatti, posso (e probabilmente perfino devo) emettere un giudizio di valore su ciò che io ho fatto della possibilità apertesi davanti a me al momento della nascita, e che costituivano nell’insieme il contenuto della domanda circa il «perché sono nato?» ed inoltre anche la risposta ad essa. Insomma, nel momento della morte, io devo sapere se ho fatto o meno ciò che alla nascita ero stato destinato a fare. Tuttavia nel momento della morte vi è anche qualcosa di più rispetto a tale momento giudiziale (specie come giudizio di valore), e cioè vi è un momento gnoseologico ed insieme ermeneutico. In altre parole solo a partire dalla fine (a posteriori) io ho la possibilità di comprendere un «perché» che è sovrapposto a quello iniziale (nascita): – non solo il «perché» dovevo nascere per fare qualcosa, ma anche il perché dovevo nascere per fare proprio quel qualcosa e soprattutto per farlo in un determinato modo.
Non sfuggirà che ciò include in sé il «già stato» in una maniera che alla nascita (a priori) sarebbe stata impossibile; dato che lì il ventaglio delle possibilità era ancora totalmente dispiegato e non vi era stata ancora alcuna restrizione nel senso della definitiva determinazione e fissazione. Io insomma – nell’ambito del ventaglio di possibilità che mi erano state assegnate (apparentemente «per sorte», ma in verità in forza della mia identità animica pre-natale, come abbiamo visto nella dodicesima lezione) – potevo allora fare realmente tutto. Nel momento della morte invece scopro finalmente ciò che ho davvero fatto; il che mi porta a riconoscere che alcune delle possibilità che avevo alla nascita sono restate irrealizzate. Tuttavia ciò è avvenuto non solo perché io non abbia voluto e/o non ho saputo farlo, ma è avvenuto anche (e forse soprattutto) perché io non ho potuto; ossia perché le circostanze (spesso così complicate da essere letteralmente soverchianti) non mi hanno permesso di fare ciò che avrei voluto e saputo fare. Esattamente per questo non solo il giudizio di valore è possibile soltanto alla fine dell’esistenza (a posteriori), ma inoltre esso deve tenere strettamente presente anche il valore e il senso di queste limitazioni e determinazioni.
In altre parole io alla fine della mia esistenza dovrò prendere atto che vi era come un misterioso disegno (reggente le circostanze ed i miei atti) nel quale era già scritto l’estremamente specifico percorso che io avrei seguito nel destreggiarmi tra possibilità e realtà, tra volere e potere, tra essere capace e non esserlo, tra potere e non potere, tra sapere e non sapere.
Ebbene il vero compimento della mia esistenza poteva essere solo e soltanto il momento davvero finale di questo tortuosissimo, penosissimo e molto spesso anche infruttuoso percorso; ossia ciò che poteva divenire realtà solo e soltanto nel momento in cui non poteva esservi più alcun movimento, cioè nel momento in cui il filo della mia vita si sarebbe spezzato. È insomma su questo che io alla fine vengo chiamato ad esprimere un giudizio di valore. Ed è del tutto ovvio che ciò deve implicare necessariamente una riconciliazione con me stesso, ossia una sorta di auto-perdono per ciò che non sono riuscito a fare. Pertanto il bilancio finale (quale giudizio di valore su ciò che ho fatto o non fatto) non può avere la forma di una condanna, ma può avere solo quello di una saggia e serena costatazione. A meno, ovviamente che non ci si sia macchiati di colpe molto gravi. La costatazione potrebbe pertanto essere la seguente: – «È qui che sei arrivato e pertanto era esattamente qui che dovevi arrivare. Questo e solo questo è dunque il senso, finalmente compiuto, della tua esistenza. Ecco allora davanti a te il suo vero perché. Tu eri nato per arrivare esattamente qui. E questo lo hai fatto. Bravo!».
Sta proprio qui allora il valore gnoseologico ed epistemologico della morte come momento finale. Solo una volta giunto a questo momento io non soltanto ho il potere di emettere un giudizio finale su quanto ho realizzato delle possibilità a mia disposizione alla nascita, ma ho anche il potere di comprendere il senso di quel determinato percorso nel quale alcune possibilità sono restate irrealizzate in modo che io poi giungessi ad uno ed un solo risultato, ossia quello davvero finale.
Ebbene, non vi è dubbio che i filosofi accademici mi accuserebbero qui di determinismo; e così, in base a questa terribile accusa, demolirebbero l’interpretazione della morte che ho appena esposto. In ogni caso io penso che essa (sia pure in una maniera filosofica un po’ forzata e fuori dal comune) ci offre almeno la possibilità di cogliere in pieno il senso della morte. E ciò è ancora più vero se constatiamo che questo genere di discorso sta in piena sintonia con immagini mitiche (ed in parte anche esoteriche) che a loro volta si pongono al di fuori della filosofia proprio in quanto esse rafforzano notevolmente il senso del momento finale dell’esistere (sia individuale che perfino anche cosmico).
Tutto ciò significa insomma che finora ci siamo serviti di una filosofia in qualche modo non ordinaria, non ufficiale, e quindi da collocare (almeno in una certa misura) del tutto al di fuori di certi usuali schemi. Non a caso si tratta di una filosofia che (diversamente da quasi tutta la filosofia moderna ed ancor più post-moderna) non disdegna affatto l’apporto della metafisica e perfino di quella metafisica religiosa che non esita addirittura a sconfinare nel mitico e nell’esoterico.

Cosa accade invece in altri ambiti di sapere?
Cosa accade ad esempio nel contesto della scienza naturale ed empirica? In tal contesto la morte non ha il benché minimo senso così come non lo ha la stessa nascita. Infatti, volendo essere estremamente sintetici (e riportando perfino il discorso scientifico a quello metafisico naturalistico), la nascita non è altro che un momento di aggregazione di elementi (in un composto organico e quindi vivente), al quale dovrà inevitabilmente seguire prima o poi un momento di disaggregazione di elementi. E questo è la morte.
Si tratta insomma di fenomeni che semplicemente accadono (secondo leggi della natura che possono perfino venire considerate eterne) ma sul cui senso è assolutamente ridicolo interrogarsi.
Quella scientifica è quindi la forma più forte di liquidazione della domanda circa il «perché?» della morte (così come della nascita). Ma, come ho appena accennato, c’è anche la forma filosofica di tale liquidazione.
Ebbene, secondo la filosofia (in qualche modo) ordinaria e ufficiale, cosa significa allora la collocazione finale della morte?
È evidente che proprio qui dobbiamo rivolgerci ad un genere di filosofia moderna che non ha mai costituito il main stream della disciplina. La quale da Cartesio in poi ha preferito sempre occuparsi di gnoseologia e di epistemologia, rivolgendo così al mondo ed all’esistenza uno sguardo sempre fortemente filtrato da queste ultime prese di posizione. Di certo comunque non pochi pensatori hanno fatto eccezione a questa tendenza dominante della filosofia moderna (sicuramente ben più idealistica che non realistica). Si tratta dei pensatori che hanno elaborato una filosofia metafisica immanentistica (come Spinoza), oppure si sono occupati direttamente del male mondano (come Malebranche e Leibniz), oppure hanno avuto interessi naturalistici (come gli empiristi), oppure si sono occupati direttamente del male di vivere o male connesso con l’esistenza (come Kirkegaard), oppure infine (con una brusca sterzata) hanno spostato il piano della riflessione filosofica dal trascendente-ideale all’immanente e biologico-vitale (come Nietzsche e Bergson).
E sto qui menzionando appena dei pensatori maggiori. Va sottolineato comunque che di Leibniz ci occuperemo direttamente nel momento in cui discuteremo alcune parti del libro di Ricoeur.
Tuttavia, sebbene sia difficile non chiamare qui in causa molti degli esponenti del moderno esistenzialismo filosofico (Kirkegaard, Sartre etc.), credo che sia sufficiente tenere presente anche il solo Heidegger.
Sappiamo tutti più o meno bene il significato che il pensatore tedesco ha tentato di attribuire all’esistenza ed anche all’essere stesso in base alla natura «finale» della morte. La sua fu infatti un’interpretazione radicale dell’essere-in-quanto-esistenza – non si esiste davvero per vivere, ma invece si esiste molto semplicemente per il solo morire! [Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, I, II, I, 45-53, p. 283-324]. Se ciò è vero, allora la natura finale della morte non sarebbe altro che l’espressione dell’essenza ultima stessa dell’esistenza; e precisamente in termini radicalmente negativi. Lo sarebbe peraltro su un piano filosofico che riesce a fare del tutto a meno della metafisica (specie se religiosa), e quindi ha davvero alte probabilità di costituire un’affermazione filosofica autentica tanto quanto quella della scienza naturale. Insomma può ben darsi che questa sia per davvero l’affermazione più autentica non solo circa l’esistenza ma anche circa l’essere stesso. Il che ci riporta poi al secondo dei libri che prenderò a base di questa lezione, ossia il libro dedicato da Raphael all’Orfismo [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004] ed in particolare nei suoi riferimenti alla teoria pitagorico-platonica dell’essere. Ci riporta però anche all’esame del pessismismo gnostico che viene svolto da Ricoeur.
Tuttavia – visto che stiamo nell’ambito di ciò che si può o non si può fare filosoficamente sul piano del vivere concreto e quotidiano – il problema principale al proposito è il seguente: − noi uomini possiamo davvero rassegnarci ad una visione come quella heideggeriana?
Del resto ricordo ai lettori che abbiamo già constatato come l’esistenzialismo filosofico sia assolutamente insostenibile per l’uomo comune. E quindi devo qui più che mai ribadire che è proprio così. Esattamente in quanto noi uomini comuni ricorriamo alla filosofia sostanzialmente per «vivere meglio», come possiamo farlo se essa ci getta in faccia che la mortalità (più ancora che la morte) è la vera essenza del nostro esistere? Sfido chiunque a dire che ciò sia possibile, sebbene poi in Ricoeur troveremo elementi per constatare che forse è proprio ciò che bisogna fare per affrontare a visto aperto il male che ci aggredisce nel corso dell’esistere.
In ogni caso avevamo potuto constatare prima che una filosofia ben diversa da quella appena presa in considerazione (ossia la filosofia non ordinaria che sfocia continuamente nella metafisica religiosa, nel mito e perfino nell’esoterico) appare essere perfettamente in grado di rispondere positivamente alla più radicale delle domande circa la morte, ossia quella circa il suo «perché».
Quindi bisogna chiedersi perché mai allora l’uomo comune dovrebbe rivolgersi ad una filosofia che non solo rifiuta problemi esistenziali come quello della morte (come fa la dominante filosofia incentrata sulla conoscenza) , ma inoltre, quando pure li affronta, lo fa in modo da far totalmente coincidere il senso della morte con il Nulla, e quindi di fatto con il totale non-senso. Tale genere di pensiero può essere autentico quanto si vuole – può affermare insomma la verità nel modo più sincero possibile −, ma sta di fatto che essa può aiutare l’uomo comune solo a vivere e morire nel modo peggiore possibile. Del resto testimone autorevolissimo di ciò è il Leopardi nella sua vivace polemica contro la filosofia in quanto distruttrice spietata delle illusioni senza le quali all’uomo è impossibile vivere. Basti leggere il suo Zibaldone per trovare dappertutto tracce di tale polemica.
Ecco allora che – così come abbiamo fatto nell’undicesima lezione (nel giudicare quale sia il genere di filosofia che è davvero applicabile alla vita) – anche qui dobbiamo arrivare alla conclusione che, per poter affrontare un tema come quello della morte, noi non possiamo servirci di alcun genere di filosofia moderna.
E così ci viene inevitabilmente incontro nuovamente la filosofia antica con tutta la serie delle sue tipiche problematiche.
Pertanto è proprio su questo piano che possiamo e dobbiamo esplorare un’altra possibilità (radicalmente diversa da quella prospettataci da Heidegger) di spiegazione della morte come fenomeno ultimo, e cioè quella della speranza (e non invece del disperare) che è intimamente legata alla tremenda domanda «perché devo morire?». Non vi è dubbio che si tratti con ciò dell’antica e multiforme dottrina dell’immortalità. Proprio di questa parla costantemente Raphael nell’esporre la dottrina orfica. Ricoeur invece (sebbene indirettamente) sembra voler relegare questa dottrina tra le soluzioni che sono del tutto insufficienti ad affrontare il problema del male, ossia quelle che non prendono atto della sua ineluttabilità mondana.

Su questa base possiamo quindi finalmente addivenire all’analisi dei due libri.
Partiamo da quello di Raphael, che è poi l’illustrazione più positiva e costruttiva possibile del fenomeno della morte. Anche perché in tale contesto il male non è affatto la morte, ma semmai lo è il corpo (quale non solo “prigione” ma anche autentica “tomba” dell’anima) [Raphael, Orfismo… cit., p. 35-46]. In altre parole, a parità di dottrina con il Cristianesimo quanto agli effetti della Caduta (dal cielo) quale Peccato, l’Orfismo non equipara affatto la morte con la condizione terrena generata da questa colpa originaria [Raphael, Orfismo… cit., p. 47-55]. Afferma però senz’altro che la corporalità equivale alla mortalità. E quest’ultima viene vista senz’altro come una condizione ontologica negativa. Positiva quindi è semmai la morte, ma non certo la mortalità.
Comunque Raphael afferma in sintesi che Orfeo fu insieme un sacerdote, un mitografo (il fondatore di una tra le maggiori teogonie greche, oltre quelle di Omero e di Esiodo) ed infine un filosofo [Raphael, Orfismo… cit., p. 9-11, p. 17-20, p. 78-84]. E svolse questo molteplice compito allo scopo di indicare all’uomo la via misterico-iniziatica per giungere all’umano-divinità per mezzo dell’identificazione con un Dioniso decisamente celeste [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-30, p. 57-63]. Questa via però implica anche un ben preciso giudizio sia circa il mondo e l’esistenza sia circa il vero senso della morte. Infatti il mondo e l’esistenza rientrano in quell’immanenza che ha sì la sua precisa ragione di essere ma è intanto un luogo di essere decisamente negativo rispetto alla Trascendenza. Si tratta infatti del luogo dell’essere che è caratterizzato dall’imperfezione propria della realtà terrena decaduta rispetto a quella divino celeste; ed inoltre, per quanto riguarda specificamente l’uomo, si tratta della sua natura e dimensione “titanica” (demoniaca), a sua volta radicalmente opposta a quella “dionisiaca” (divina) [Raphael, Orfismo… cit., p. 57-63].
Da tutto ciò consegue che la morte va considerata per l’Orfismo un fenomeno finale radicalmente positivo, in quanto esso pone fine a tale spregevole condizione predisponendo così al recupero dell’originaria condizione celeste e divina. E ciò vale tanto per il mondo che per l’uomo. Tuttavia si tratta solo di una potenzialità. Perché, secondo la dottrina orfica, in assenza di un cammino preparatorio almeno l’uomo non riesce affatto ad utilizzare questa possibilità insita nella morte meramente fisica. E tale cammino non è altro che quello misterico-iniziatico; entro il quale il “miste” è chiamato a vivere una morte certamente non letterale (cioè non fisica) ma sicuramente nemmeno vuotamente formale [Raphael, Orfismo… cit., p. 85-112]. Egli è chiamato insomma a scendere in quegli “inferi” del suo passato esistenziale (in parte corrispondente all’inconscio stesso) entro il quale le circostanze lo hanno condizionato e determinato fino a farlo diventare ciò che non è; perdendo così la sua identità divina ed acquistando una solo illusoria identità terrena.
Ebbene tutto ciò corrisponde perfettamente a ciò che abbiamo scoperto semplicemente riflettendo sulla morte come momento finale. A partire dal quale si guadagna finalmente uno sguardo sintetico sulla totalità dei passi da noi compiuti nell’esistenza, ed ancora più precisamente su quell’unicissimo cammino che noi ci siamo aperti nella foresta intricata delle possibilità e delle circostanze. È quel cammino, puntante all’altrettanto unicisssimo risultato finale (corrispondente al momento in cui la vita si spezza), che poi, una volta giunto alla sua fine, costituisce il più autentico senso e compimento della nostra intera esistenza.
Qui con Orfeo possiamo comunque aggiungere a tutto ciò che quest’estrema comprensione del senso della nostra esistenza (nel suo momento estremo) deve coincidere in qualche modo con la riconquista della nostra natura e identità divina. Il che corrisponde poi al superamento della morte esattamente in direzione di un’immortalità divino-trascendente alla quale più nulla ci sbarra la strada.
Tuttavia il cammino misterico-iniziatico deve introdurre soprattutto ad una forma di conoscenza (quella in cui l’ente corporeo umano riconosce sé stesso come anima ed anche come divinità), con il corredo della quale alla morte fisica non seguirà più quel deplorevole oblio – lo stesso di cui non a caso parla Platone nella Repubblica (X libro) nella forma di immersione dell’anima nel fiume dal nome “Lethe” –, in presenza del quale l’anima certamente ricadrà nel ciclo delle nascite e quindi nel corpo. E questa è un’altra condizione in forza della quale la morte cessa di essere il fenomeno di disgregazione descritto dalla scienza naturale, e che ovviamente non può avere alcun senso.
Come possiamo ben vedere, l’Orfismo è esempio di una dottrina in cui il fenomeno della morte assume un’ultimità che è tanto radicale quanto è anche irrevocabilmente positiva. Essa costituisce infatti l’estremo limite aldilà del quale la negatività immanente si rovescia di colpo nella positività trascendente. E ciò avviene inoltre in maniera definitiva qualora l’uomo abbia compiuto il cammino di conoscenza misterico-iniziatica.
A fronte di questo dire che l’Orfismo è pessimista è pertanto davvero difficile. Tuttavia è intanto evidente anche la sua visione totalmente pessimistica della corporalità immanente, e quindi allo stesso modo di tutto ciò che è mondo, nascita ed esistenza. Raphael chiarisce però che si tratta di un pessimismo che (a confronto ad esempio con quello gnostico) è solo relativo [Raphael, Orfismo… cit., p. 85-112]. E ciò avviene perché l’immanenza corporale viene considerata un fenomeno del tutto necessario entro la dinamica ciclica della Manifestazione del Principio che poi ritornerà a sé stesso in quanto Uno assoluto. Su questa base, pertanto, l’Orfismo concepisce senz’altro una legittima “fuga dal mondo”, al modo del Platonismo così come anche della Gnosi – e che in qualche modo coincide con la morte stessa (sia fisica che iniziatica) −, ma in un senso affatto distruttivo e nichilistico, bensì invece in un senso unicamente costruttivo e positivo. Infatti alla necessità dell’immanenza corporea corrisponde precisissimamente la necessità del movimento di Ritorno all’Uno, il quale nel caso dell’uomo assume l’aspetto franco e intelligibile di un vero e proprio ritorno in Patria.
Ecco allora che, pur tenuto conto del suo tendenziale pessimismo, in alcun modo la visione orfica autorizza la dimensione nichilistica dell’ultimità ontologica assoluta della morte, che abbiamo visto delinearsi entro l’esistenzialismo heideggeriano.

Ma ora passiamo al libro di Ricoeur, nel contesto del quale potremo trovare senz’altro una trattazione decisamente negativa e distruttiva del fenomeno della morte.
Ebbene, la domanda in termini di metodo è la seguente: − possiamo o non possiamo servirci anche di una siffatta trattazione filosofica?
Ora, in base alla complessiva visione appena illustrata, appare evidente che presso Orfeo il fenomeno della morte sfugge largamente alla dimensione del male che è connessa all’immanenza terreno-corporale e mondana. Così avviene di certo anche nel Cristianesimo, sebbene (come abbiamo visto) in esso è sicuramente più accentuata l’identificazione della mortalità con la condizione ontologica causata dalla Caduta e dal Peccato (ossia da quella colpa originaria che anche l’Orfismo concepì in maniera molto esplicita). In questo senso si può dire allora che nelle due dottrine l’ultimità della morte costituisce una sorta di valvola di sfogo metafisico-religiosa a quella complessiva valutazione negativo-pessimistica dell’essere immanente che è obbligata ad includere anche il fenomeno della mortalità. E proprio in tal modo possiamo ritrovarci su un confortante piano filosofico entro il quale non siamo affatto obbligati a identificare morte e mortalità, come invece abbiamo visto fare ad Heidegger.
Ora, una volta tradotto tutto questo in una visione etica dell’essere, appare evidente che Orfismo e Cristianesimo predispongono tutti gli strumenti filosofico-metafisici per evitare l’identificazione della morte con il fenomeno del male. E proprio questo ci permette di attribuire alla morte un senso positivo che essa altrimenti non potrebbe in alcun modo avere. Bene, il libro di Ricoeur non parla affatto della morte (se non incidentalmente). Però esso parla del male in una maniera così incisiva ed implacabile, da porlo come un’evidenza oggettiva alla quale nessun discorso filosofico-metafisico può sfuggire senza fare la pessima figura di rivelarsi una vuota ed affatto veridica retorica (se non una truffa). E quale evidenza oggettiva maggiore vi è nel nostro esistere visto che l’adagio popolare la pone addirittura al di sopra della nascita stessa: − “Sicura è solo la morte!”?
Pertanto anche se Ricoeur si limita a identificare il certissimo male terreno-esistenziale appena con la sventura, il dolore, la violenza subita (a qualunque titolo), comunque è come se egli includesse in questo anche la morte. Se infatti le esperienze menzionate (sventura, dolore e violenza subita) rappresentano in pieno la rovinosa sconfitta e caduta dell’uomo, cosa può essere più simile a questo se non la morte?
Orbene, se accettiamo questa equivalenza, potremo allora confrontare alcune parti del discorso orfico (riportato da Raphael) con alcune parti del discorso ricoeuriano sul male.
In effetti l’Orfismo non manca certo di porre il male, visto che considera la corporalità come effetto di una colpa originaria che fa sprofondare l’anima nella prigione-tomba del corpo. E lo stesso fa senz’altro anche il Cristianesimo. Ma il pensiero di Ricoeur si inserisce come un implacabile cuneo proprio entro questa complessiva dottrina, criticandola da svariati punti di vista e identificandola in generale con una razionalizzazione del male (“spiegazione”, o ricognizione del “perché?”) che iniziò già nel mito (quindi anche in pieno Orfismo) per passare poi attraverso la radicalmente ottimistica “onto-teo-logia” agostiniana, la radicalmente pessimistica dottrina gnostica, ed approdando infine alla “teodicea” per eccellenza, e cioè quella di Leibniz [Paul Ricoeur, Il male… cit., I-II p. 11-46].
L’essenza della teodicea sta quindi per Ricoeur esattamente in un pensare che non ha alcun diritto di tentare di ridurre l’evidenza oggettiva del male attraverso la sua riconduzione ad una necessità razionale o anche etica. E questo è quello che fanno tutte le dottrine appena citate. Sebbene secondo lui quella più attrezzata filosoficamente (cioè basata su una logica rigorosa) sia stata quella leibniziana.
Ma uno degli aspetti principali di tale critica è proprio il tentativo di equiparare il male con un elemento di tipo etico ed anche infine giuridico, ossia quella colpa che esige inevitabilmente una punizione. Si tratta insomma di quella dottrina della “retribuzione” che per Ricoeur trovò il suo abbozzo proprio nel mito orfico e che poi sarebbe stata sviluppata appieno dalla Gnosi, specie nel corso della sua polemica contro l’ottimismo assoluto agostiniano [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 1-3 p. 17-38]. Secondo Ricoeur non c’è nulla di più assurdo per due motivi: − 1) perché i due elementi posti in relazione (male e colpa-punizione) sono ontologicamente del tutto eterogenei; 2) perché il male più vero non è affatto quello agito (per il quale vi è un responsabile volontario, come nel caso del peccato e della colpa) ma è invece quello subito; e peraltro esso è ancora più eclatante allorquando la vittima è totalmente innocente. Egli chiama in causa per il giusto-innocente la figura di Giobbe [Paul Ricoeur, Il male… cit., p. 7-9, I p. 11-15, I, 2 p. 20-23]. E a quest’ultimo l’autore della postfazione, Paolo de Benedetti [Paolo De Benedetti, In margine a Ricoeur. Sul male dopo Auschwitz, p. 59-76], aggiunge molto opportunamente i bambini chiamati in causa entro il famoso discorso di Ivàn nei Karamàzov di Dostoevskij.
Insomma gli aspetti principali della tesi affermata da Ricoeur rispetto al male possono venire così riassunti:
1) Il vero male è non è affatto quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso indicato dal mito e dalle dottrine etiche (Gnosi ed onto-teo-logia specie agostiniana), e cioè quello risiedente nelle radici trascendenti della natura umana (Origine); peraltro nella forma di una responsabilità attiva e volontaria negativa che richiede poi inevitabilmente una retribuzione negativa.
2) Il vero male è invece quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso riconoscibile (ed effettivamente riconosciuto) entro l’esperienza comune quotidiana, e che in filosofia solo la “fenomenologia” accetta come tale [Paul Ricoeur, Il male… cit., p. 7-9].
3) Il male così colto è unicamente quello subito (mentre quello agito rientra in un ambito etico-giuridico che travalica ampiamente la realtà nuda e cruda del fenomeno).
4) Il pensiero del male (teodicea) è di certo autorizzato a sforzarsi di concepire sempre “meglio” il male stesso, ma intanto deve comunque ammettere che l’essenza ultima del fenomeno consiste nel fatto che esso è e resta assolutamente inspiegabile [Paul Ricoeur, Il male… cit., III p. 47-56].
5) Dopo secoli e secoli di teodicea (prima mitico-metafisica, poi teologico-metafisica e solo alla fine davvero filosofica), la parola è passata oggi definitivamente ad una “teologia spezzata” (rappresentata specialmente da Karl Barth e Paul Tillich) la quale ha rinunciato definitivamente a qualunque spiegazione del male; e lo ha fatto uscendo finalmente dalla classica argomentazione della teodicea (Il Dio onnipotente e buono non può essere logicamente conciliabile con l’esistenza oggettiva del male, e quindi di fatto il male non esiste nel mondo creato) e limitandosi così ad affermare che, se Dio è l’Essere (e quindi il Bene), il Male è invece il puro Nulla, e quindi esso non può avere alcunché a che fare con Dio [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 5 p 41-46].
Ebbene, una volta ammesso tutto questo, verrebbe definitivamente spazzato via il criterio che abbiamo creduto di poter riconoscere nel concepire filosoficamente la morte nel modo che ci era sembrato più opportuno, ossia il criterio del “perché?”. Ricoeur afferma infatti che proprio tale criterio espone alla peggiore delle aporie generate dalla teodicea, ossia quella imposta dall’inoppugnabile esistenza del male nel mondo dell’esperienza. A questo punto, quindi – una volta equiparata la morte con il male sulla base di Ricoeur –, noi non potremmo più in alcun modo affermare che la morte si lascia ultimamente comprendere (in quanto fenomeno ultimissimo) in forza di un determinato genere di filosofia. Dovremmo insomma fare come Ricoeur e dire (come hanno fatto i più recenti teologi) che la morte, essendo di fatto riducibile alla mortalità (se davvero vogliamo essere autentici, ossia onesti), è e resta qualcosa di totalmente inspiegabile, e pertanto non perde assolutamente nulla della sua oscurità agghiacciante per mezzo della riflessione filosofica.
Ma in tal modo non ricadremmo forse nella stessa nichilistica e distruttiva visione che è stata inaugurata da Heidegger? Insomma, è di certo davvero lodevole lo sforzo di Ricoeur di porre gli uomini davanti al fenomeno del male senza cercare da nessuna parte una dottrina che lo giustifichi (riuscendo in tal modo solo ad occultarne colpevolmente l’evidente esistenza). E ciò vale senz’altro più che mai anche per la morte. Tuttavia, se le conclusioni di tale discorso sono quelle appena accennate, come possiamo noi servirci di un siffatto pensiero della morte senza correre il rischio di fare la fine dei porci evangelici indemoniati, ossia la fine causata dal dover correre tutti verso l’abisso?
Ancora una volta, insomma, appare evidente che una visione negativo-distruttiva non può affatto servirci ad affrontare la morte con l’aiuto della filosofia. Può servirci sì ad avere della morte una visione estremamente realistica. Ma questo ci aiuta davvero sul piano pratico, ossia ci rende davvero capaci di affrontare la morte in maniera più serena, forte e coraggiosa? A mio avviso la risposta è decisamente no!
Certamente a questo punto si potrebbe chiamare in aiuto molto direttamente la visione cristiana della morte, che culmina nel davvero possente paolino “Morte dov’è il tuo aculeo?”. E probabilmente questa è l’unica strada per affrontare positivamente un fenomeno così terrorizzante a causa della sua totale portata nullificante. Tuttavia non voglio qui fare apologia cristiana ma invece voglio fare solo filosofia. E quindi mi limiterò a ricordare le soluzioni positive che finora siamo riusciti a trovare insieme in questa lezione.
Tuttavia, oltre a ciò, penso che valga la pena di prendere in considerazione la conclusione davvero sublime del commentatore di Ricoeur prima menzionato, cioè Paolo De Benedetti.
«Sì», egli sembra dire «il male è davvero inevitabile in quanto è oggettivamente terreno e quindi è esperienziale. E pertanto non vi è teodicea che tenga di fronte ad esso. Quindi dobbiamo avere il coraggio di arrivare in questo davvero alle estreme conseguenze, e cioè ammettere perfino la stessa responsabilità di Dio nel male». Siamo insomma agli antipodi della teodicea e il discorso potrebbe sembrare a prima vista ancora più negativo e aberrante di quelli negativi che finora abbiamo preso in considerazione (in Heidegger e Ricoeur). Ma non è così.
Lo studioso sostiene infatti una tesi davvero singolare ed estremamente suggestiva, secondo la quale Dio è fatalmente compromesso nel male del mondo per il semplice fatto di aver troppo amato, e quindi per aver accettato di creare un mondo (in assenza del quale l’uomo nemmeno sarebbe mai esistito) dal quale Egli realmente (ma a torto) si aspettava il meglio. Si tratta insomma del «vide che era buono» affermato nel Genesi. Ma così non fu, e Dio stesso ne restò sorpreso. Nel mondo infatti germogliava irresistibile il male. Pertanto non vi sarebbe stata per Dio altra soluzione che ricorrere alla Collera, ossia alla Potenza (rinunciando così all’Amore), e distruggendo così una volta per tutte mondo ed essere.
Ma Dio non ha voluto scegliere questa strada (come ben mostrato nell’episodio biblico di Sodoma e Gomorra). E tuttavia lo ha fatto ben sapendo che in questo modo avrebbe dovuto dichiarare il suo stesso fallimento. La teoria cabbalistica della “rottura dei vasi” e del “zimzum”, ossia il collassare di Dio davanti al creato [James David Dunn, Window of the Soul.The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111] – che giustamente lo stesso De Benedetti ci ricorda –, non fa altro che affermare proprio questo. Dio è insomma direttamente coinvolto nel male e nel fallimento della creazione. Ma lo è perché ci ha infinitamente amato ed inoltre perché non ma mai potuto cessare di farlo. Nonostante il male oggettivo!
Ed allora, ci suggerisce l’Autore – nel dover rinunciare per sempre a qualunque teodicea e nel dover ammettere definitivamente che il male del mondo esiste ed è senza rimedio – a noi non resta altro che l’atto d’amore di comprendere le ragioni divine e la loro profonda innocenza. Il che peraltro (aggiungo io) dovrebbe permetterci anche di capire che non è affatto retorica quando si dice che Dio ci è vicino nel dolore anche se non fa nulla per togliercelo. Ma ammetto anche che affermare questo è la maggior parte delle volte assolutamente impossibile a noi uomini.

Insomma abbiamo detto proprio tutto. Ma mancano ancora delle brevissime conclusioni. Ed il loro punto di partenza può essere costituito proprio dalle stupende considerazioni di De Benedetti.
Abbiamo esplorato (a sufficienza e, credo, anche con successo) la possibilità di attribuire un senso positivo alla morte. Ed abbiamo anche visto che, per raggiungere questo scopo, possiamo effettivamente far uso di un certo tipo di filosofia. Abbiamo anche scansato gli ostacoli formidabili che, su questa strada, vengono frapposti da poderosissimi pensatori dell’autenticità come sono Heidegger e Ricoeur.
Potremmo dunque affermare che abbiamo raggiunto il nostro scopo e così «chiudere il libro» prima di cadere in qualche altro formidabile agguato filosofico. E tuttavia un’argomentazione come quella di De Benedetti ci mostra come l’autenticità non è poi sempre una facoltà che debba venire impiegata solo in modo negativo, e quindi non è necessariamente un vizio. Essa può invece essere anche una virtù, e pertanto può venire impiegata anche positivamente. Quindi, proprio come tale, io vorrei provare ad impiegarla in queste conclusioni.
Ecco come.
La valenza positiva che abbiamo attribuito dalla morte è certamente pensante, e quindi è per definizione qualcosa che può avvenire solo al di fuori dell’esperienza concreta e personale del morire. È infatti assurdo pensare che nel momento dell’agonia, noi possiamo sentirci in qualche modo confortati dall’essere riusciti prima a sapere «perché devo morire?». Pertanto quella che sembra un’esperienza finale, una volta trasposta sul piano filosofico, si rivela invece non esserlo affatto. Essa cioè non sarà a priori, ma certamente non è nemmeno per davvero a posteriori. Insomma è qualcosa che può avvenire solo prima della morte, ossia molto prima che noi entriamo nel territorio agghiacciante della sua concreta esperienza.
Ebbene, forse è proprio qui che ci viene incontro l’autenticismo di De Benedetti. Noi stiamo ora nel pieno dell’esperienza della morte, e sappiamo bene che a nulla possono valerci le elaborazioni filosofiche che tempo prima avevamo fatto di essa. Sappiamo insomma più che mai che ora, in questo estremo momento, a nulla ci varrà il sapere «perché devo morire?». Noi sappiamo infatti ora una sola cosa: − «Io devo morire!». È ormai un imperativo e, come tale esso non può in alcun modo aggradarci. Pertanto abbiamo le nostre buone ragioni se in questo momento esatto noi imprechiamo contro Dio accusandolo di essere inevitabilmente coinvolto nel male, nella morte ed infine nel male come morte. Ci troviamo insomma nel pieno di quella “doglianza” che giustissimamente Ricoeur ritiene essere la risposta più giustificata dell’uomo al male [Paul Ricoeur, Il male… cit., I p. 11-15, II p. 17-46].
Tuttavia De Benedetti ci viene qui incontro permettendoci di comprendere che questo «dover morire» non ci obbliga affatto ad odiare Dio. Anzi al contrario dovrebbe motivarci ad amarlo ancora di più. Non a caso è proprio in questa circostanza che ci può apparire meno retorica che mai l’affermazione secondo la quale, nel momento in cui noi soffriamo, Dio è lì con noi soffrendo nel mentre occupa il nostro stesso posto (e così quasi ambisce a sostituirci nella sofferenza). Nessuno come Lui infatti ha vissuto in pieno l’esperienza del «dover morire» − era un dio e non un uomo, eppure ha dovuto morire esattamente come un uomo!
Eccoci insomma davvero al dunque – sì certo è necessario comprendere «perché» devo morire, ma è anche necessario comprendere «che» devo morire. E chissà se il vero «perché» del morire non stia proprio in questa estrema cancellazione di ogni perché, che solo il «devo» può determinare? Sta dunque forse proprio qui l’ultimità più ultima – essa sta forse nel «devo» una volta intimamente connesso al «morire».
Può essere solo questo il vero ultimo atto, ossia quello a partire dal quale io posso davvero comprendere tutto, tutta la mia esistenza. Ed è evidente che esso si trova già ben aldilà del pensare sensibile, ossia quello legato al mio solo apparente Io. Si tratta insomma evidentemente del pensare di quel mio vero Io che abbiamo constatato essere la vera forza causale determinante la mia stessa nascita.
Ecco allora che la pienezza dell’autenticità (quella virtuosa e quindi costruttiva) può stare forse solo nella (finale ed insieme totale) congiunzione tra «Io» «devo» e «morire», ossia nell’«Io devo morire». Ed è evidente che nessuno di noi potrà divenire consapevole di questo se non nel davvero ultimo attimo della propria vita. Prima ciò è del tutto impossibile. Anzi è insostenibile.
Pertanto questo «Io devo morire» fa decisamente impallidire anche la stessa risposta alla domanda circa il «perché devo morire?». E dunque deve stare esattamente qui il vero nucleo della trattazione appropriatamente filosofica del fenomeno e tema della morte. La famosa preparazione filosofica alla morte deve evidentemente essere capace di edificare proprio questo – la capacità di stare metaforicamente per davvero in piedi davanti al momento terribile dell’«Io devo morire». Si tratta infatti più precisamente dell’ «Ora! È ora, proprio ora, che io devo morire!».
Molto probabilmente è proprio a questo che Orfeo si riferiva in quella preparazione misterico-iniziatica che non a caso includeva un’esperienza fattiva di morte.

Ecco, queste riflessioni cadono in un’epoca storica in cui di colpo, e senza che nessuno di noi se lo aspettasse, l’«Io devo morire» è diventato qualcosa di non solo concreto ma anche comune. Il che non è avvenuto solo nell’esperienza effettiva ma anche (e soprattutto) nella fantasia eretta su questa esperienza da parte di moltissime persone.
Sto parlando dell’esperienza storica della crisi Covid-19, estremamente attuale oggi sette di luglio del 2020.
Eravamo tutti cresciuti in una società nella quale la lunga pace e la potenza tecnologica avevano reso la morte un intoccabile tabù; qualcosa che non si doveva né menzionare né nemmeno pensare, qualcosa di assolutamente impossibile ed impensabile. Ed ecco che uno stupidissimo virus – ma soprattutto l’assolutamente sproporzionata enfasi mediatica eretta inspiegabilmente intorno ad esso – ha gettato il totale scompiglio in questa certezza, o meglio l’ha distrutta totalmente. Ed il bello (o meglio il brutto) è che ciò sta accadendo molto più nella fantasia che non nella realtà. Accade insomma che una legione di ipocondriaci e maniaci ossessivo-compulsivi è venuta alla ribalta e ha assunto il comando della società.
E lo ha fatto esigendo imperiosamente una ed una sola cosa: − che tutto e tutti si pieghino alla loro insopprimibile aspettativa di non venire uccisi dal virus, cioè di non dover morire in alcun caso e secondo nemmeno la più infinitesima probabilità. E si badi bene che si tratta non tanto del virus reale, quanto invece molto più del virus fantasioso.
Ebbene, quale maggiore e più possente contraddizione dell’«Io devo morire!» vi può essere se non questa?
E quindi, per tutto quello che abbiamo finora detto, quale maggiore e più possente negazione dell’attribuzione di senso alla morte vi può essere se non questa?
Abbiamo detto che l’attribuzione di senso alla morte è pienamente possibile. Ma la storia attuale ci sta dimostrando che la sua forma più estrema, in quanto più autentica, ci viene di fatto preclusa dalla patologia sociale profondissima della quale tutti poco a poco ci siamo ammalati.
Insomma la filosofia (almeno di un certo genere) potrebbe non poco aiutarci ad affrontare il momento terribile della morte. Ma le circostanze degenerative in cui viviamo ci rendono impossibile perfino questo.
E quindi a noi poveri moderni restano solo quattro alternative: − 1) rinunciare totalmente a dare un senso alla morte, continuando così miserevolmente a tentare di occultarla quanto più a lungo possibile; 2) opporci tenacemente al valore della conoscenza-esperienza dell’«Io devo morire!», invocando altrettanto miserevolmente la potenza tecnologica che intanto truffaldinamente ci offre l’immunità da tale esperienza; 3) ricorrere alle false trattazioni filosofiche della morte che ci vengono offerte dai moderni retori-divulgatori; 4) arrenderci alla moderna trattazione nichilistico-filosofica della morte e fare ad essa seguire i fatti (con il suicidio) oppure progettare di farlo prima o poi.

Io non pretendo certo di possedere la verità, ma, con questa lezione, mi sono sforzato perlomeno di offrire una qualche alternativa ad un siffatto totale sfacelo.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

Nella scorsa lezione avevo detto che parlare di nascita e parlare di esistenza è di fatto parlare della stessa cosa (almeno entro certi limiti). Ne dovrebbe quindi conseguire che questa lezione è del tutto inutile, dato che nella precedente abbiamo già parlato diffusamente della nascita. Tuttavia abbiamo anche visto che l’atto del venire al mondo, cioè la nascita, è intanto qualcosa di molto ben definito nel tempo e nello spazio.
Quindi è in qualche modo un fatto estremamente concreto e delimitato, ossia è estremamente circostanziale. L’esistenza invece è in sé molto più qualcosa di astratto, ossia è sostanzialmente un concetto. Inoltre essa è un fenomeno affatto puntiforme, in quanto è diffuso nel tempo. Infine è molto più generale che non invece singolare; pertanto è qualcosa di universale. E questo ha a che fare con la differenza tra concreto ed astratto, infatti la nascita riguarda sempre ognuno di noi molto personalmente, mentre invece l’esistenza è semmai la base universale, generale ed impersonale, sulla quale insorge il fenomeno individuale della nascita.
L’ontologia dei due fenomeni appare quindi essere sensibilmente diversa.
Ciononostante, però, è abbastanza concreto (ed anche tendenzialmente puntiforme e circostanziale) anche
l’«esistere» o meglio ancora l’atto di esistere. In esso infatti l’esistenza è sempre un atto, e mai invece un puro concetto astratto, anche se esso si estende temporalmente ben oltre il momento circoscritto della nascita. Inoltre, se noi parliamo specificamente dell’esistenza e dell’esistere di ognuno di noi, e cioè quelli strettamente personali, allora in questo caso si tratta di nulla più e nulla meno del lasso temporale che unisce l’atto della nostra individuale nascita all’atto della nostra individuale morte (in quanto fenomeni questi sì estremamente concreti). Ecco allora che, in questo ambito, l’esistenza e l’esistere, o anche atto di esistere, finiscono per essere ontologicamente quasi la stessa cosa. Ecco allora che il ben più concreto e personale «esistere» prende il posto della solo astratta ed impersonale «esistenza».
Possiamo pertanto dire che l’«esistere» è quel versante estremamente concreto dell’«esistenza» al quale noi di fatto ci riferiamo sempre (direttamente o indirettamente) quando prendiamo a parlare dell’esistenza stessa. In altre parole noi non possiamo proprio fare a meno di parlare dell’esistenza in termini concreti.
Il che significa anche che, nel tematizzarla, noi ci riferiamo sempre a noi stessi, ossia alla dimensione personale, e quindi all’«esistente». E nella precedente lezione avevamo visto che esattamente quest’ultimo è il fattore dirimente tra un pensiero puramente e astrattamente filosofico dell’esistenza (l’esistenzialismo) ed un pensiero dell’esistenza che invece si presti ad applicare la filosofia alla vita.
Ebbene in tal modo – si noti bene − ci troviamo già molto al di fuori di quel puro pensiero eretto sull’esistenza, del quale abbiamo parlato nell’undicesima lezione, affermando che esso è del tutto inadatto alla bisogna di venire proposto all’uomo comune come discorso filosofico utile per vivere. Ma fermiamoci per ora a questa breve osservazione. La completerò solo dicendo che in questa lezione noi ci occuperemo molto più dell’«esistere» (o anche «atto di esistere») che non dell’«esistenza».

Intanto possiamo comunque dire che si potrebbe parlare di una sorta di unità ontologica costituita dal binomio «nascita-esistere»; laddove il primo termine (nascita) è quello puntiforme mentre il secondo termine è quello disteso nel tempo. Ma il binomio esprime pur sempre un’unica realtà ontologica.
In ogni caso possiamo anche osservare che ulteriori elementi dirimenti sono quelli del «mio» e del «nostro». È infatti da essi che dipende in gran parte se l’esistenza e l’esistere sono appena realtà unilateralmente concettuali o hanno invece anche la valenza di fenomeni concreti. E quando essi sono concreti sono anche inevitabilmente ed inalienabilmente personali – caso in cui siamo obbligati a parlare di «esistere» più che di «esistenza». Si tratta infatti di quel «mio esistere» (o anche «nostro esistere») che molto difficilmente equivale al concetto astratto di esistenza. Abbastanza certo sembra allora che, finché si prescinde dal momento personale dell’esistere, si resterà sempre su un piano inevitabilmente astratto, o almeno si rischierà di farlo. Il che è vero sia che si parli dell’esistenza (più astratto) sia che si parli dell’esistere (più concreto).
Tuttavia, in una lezione come quella che ora mi appresto a tenere, e mantenendoci intanto su un piano genericamente terminologico, mi sembra piuttosto indifferente parlare di esistenza in senso più astratto o invece più concreto. Infatti, almeno nel linguaggio comune (non filosofico), si tratta in ogni caso proprio del fenomeno specifico che è costituito dal lasso temporale connettente la nascita con la morte, cioè si tratta di qualcosa che è sempre l’«esistere» (ed ancor più il «mio» o «nostro» esistere) anche quando esso viene verbalmente e concettualmente espresso come «esistenza». Insomma l’uomo comunque intende questo anche quando usa il termine «la mia esistenza», e perfino «la nostra esistenza». Il che significa che egli tratta di questi temi in una maniera per definizione sempre molto più «ingenua» che non «filosofica».
In altre parole l’immagine del lasso temporale tra nascita e morte si presenta alla nostra mente sia quando noi ci riferiamo al piano personale sia quando noi ci riferiamo al piano collettivo-impersonale. Ecco allora che le dimensioni del «mio» e «nostro» finiscono per venire incluse nel fenomeno dell’esistenza inteso proprio nel modo che ho appena menzionato, ossia in quanto lasso di tempo entro il quale personalmente si esiste.
Ebbene, in qualche modo si tratta con ciò esattamente dell’esistenza così come la intese Heidegger, e cioè in quanto fondamentale temporalità dell’essere. E con ciò ci troviamo nel pieno di quel pensiero filosofico puro ed astratto dell’esistenza, che prima abbiamo constatato essere improponibile all’uomo comune. Tuttavia il linguaggio ingenuo, per mezzo del quale questa immagine prende forma, elimina immediatamente tale incombente rischio.

Quindi − pur senza avere alcun obbligo di muoverci in obbedienza alla visione heideggeriana – è esattamente di questo che noi dobbiamo parlare. Dobbiamo parlare di ciò che accade entro il lasso di tempo che unisce la nostra nascita alla nostra morte. Ma intanto ne dobbiamo parlare tentando di comprendere come e quanto la filosofia può aiutare l’uomo comune a compiere questo atto di esistere, cioè a trascorrere nel modo più pieno possibile appunto il lasso di tempo che va dalla nascita alla morte.
Sta di fatto, comunque, che noi ci rappresentiamo tale pienezza compiuta come un «meglio» − pensiamo infatti ad un trascorrere la nostra vita «quanto meglio possibile». Pertanto il paradigma del «bene» è quello che immediatamente si presenta alla nostra mente allorquando tentiamo di dare una forma al possibile influsso della filosofia sul nostro esistere.
Cioè quanto emerge non è la possibilità di conoscere a fondo tale fenomeno, ma semmai di «conoscerlo bene» solo nella misura in cui noi veniamo messi nella condizione di «viverlo bene»; e più precisamente «viverlo meglio» di quanto potremmo fare in assenza dell’apporto della filosofia.
È evidente, dunque, che qui non si tratta affatto di pura conoscenza, ma semmai si tratta invece di concreti atti da conformare in un modo specifico. Il che sembra sensibilmente diverso rispetto a ciò che abbiamo detto per la nascita. In quest’ultimo caso si trattava infatti di sapere il perché sono venuto ad al mondo ed esisto. Tuttavia, una volta compreso questo, si tratta ancora di dover vivere, e cioè di esistere, ovvero si tratta di un atto più che di una conoscenza. Ma abbiamo appena detto che non può trattarsi di un atto indifferenziato. Esso deve invece essere un atto «ben» conformato, ossia un atto conformato al «bene».
Ecco allora che ci troviamo di fronte a null’altro se non il famosissimo «ben vivere». Ancora una volta si tratta di un tema che era stato sempre ben presente alla filosofia antica. Anzi l’aspirazione di quest’ultima a costituire una disciplina intimamente legata alla vita si incentrava esattamente nella sua ambizione ad istruire gli uomini al «ben vivere».
Qui ci troviamo pertanto in un campo nel quale dobbiamo dare necessariamente ragione ai moderni retori-divulgatori della filosofia. Tuttavia va notato che solo fino ad un certo punto è necessario fare questo. Perché nell’undicesima lezione abbiamo visto come il tentativo principale di costoro è quello di psicologizzare la filosofia nel mentre la si rende di facile consumo per le masse. Ossia la si banalizza e la si semplifica, nel mentre intanto la si adatta (acriticamente e cinicamente) al tenore emozionale prevalente oggi nella consapevolezza e volontà collettive, e cioè la si adatta alla prevalente tendenza egocentrico-edonistica. Ebbene, nulla di più lontano potrebbe esistere dalle aspirazioni riposte nell’antico insegnamento filosofico del «ben vivere». Esso puntava infatti come una freccia alla più rigorosa etica, e precisamente un’etica auto-sacrificale quasi interamente basata sul dovere e sul culto del Bene come entità purissimamente trascendente (e quindi per nulla disposta ad adattamenti immanentistici e relativistici).
In tale contesto, pertanto, il «ben vivere» deve essere l’esatto contrario dell’egocentrismo edonista.
Pertanto la filosofia (specie quella antica) non può in alcun modo venire assunta come via verso il «ben vivere» inteso al modo dei moderni retori-divulgatori.
Nell’undicesima lezione abbiamo intanto visto nello stoicismo e nel platonismo alcuni esempi dell’appropriata etica filosofica del «ben vivere». Non abbiamo invece parlato affatto dell’etica aristotelica, la quale era comunque ben meno esigente in quanto ben più pragmatica e utilitarista – essa si limitava infatti a definire come «bene» ciò che promuoveva una vita ispirata alle virtù specificamente civiche (“areté”), e che poi generava la “felicità” sostanzialmente attraverso il buon adattamento dell’individuo alle regole del successo sociale. Naturalmente un’etica come questa si presta quasi perfettamente (così come quella epicurea) a costituire il contenuto degli insegnamenti filosofici dei nostri retori-divulgatori. Essa non urta infatti per nulla i piatti ed acritici luoghi comuni dei quali si nutre ormai quasi esclusivamente la collettiva consapevolezza.
Mi immagino quindi che oggi si possa anche tentare di insegnare alla gente a vivere secondo i principi di questo genere di etica. E mi immagino anche che oggi si possa tentare di ridurre a questo genere di etica tutto il resto della filosofia morale praticata nell’antichità. Un esempio classico di quest’ultima potrebbero essere i famosissimi precetti morali diffusi da Socrate. Sta di fatto però che la morale socratica (almeno per quello che ne sappiamo) aderisce quasi totalmente alla rigorosissima ed esigentissima morale di Platone.
E sfido sul serio i moderni retori-divulgatori a tentare di proporre alle masse proprio quegli insegnamenti etici platonici che propongono l’esatto opposto di quanto oggi la gente tende ad intendere come felicità.
Bene, giunti a questo punto, dovremmo forse esaminare gli effettivi programmi di insegnamento delle moderne agenzie di divulgazione filosofica per verificare se è vero ciò che sto dicendo. Questo però ci porterebbe molto lontano dal nostro scopo primario, che è quello di comprendere se, come e quanto la filosofia può aiutare l’uomo comune a «ben vivere». Ed allora, per superare questa difficoltà, propongo di riformulare la domanda etica ponendola non più in positivo ma invece in negativo. Con ciò voglio dire che forse è ben più appropriato prescindere dall’approccio diretto (e assertivo) al «bene», passando invece ad occuparsi dell’approccio indiretto ad esso. Approccio indiretto che si presenta a noi nel momento in cui emergono ostacoli piuttosto grossi sulla via della realizzazione piena del «ben vivere». La differenza tra le due vie potrebbe consistere in quanto segue. Nella prima via si punta ad un risultato che è incondizionato per il fatto di essere senz’altro alla portata dell’azione umana sorretta dalla volontà; e quindi ci si può aspettare che esso certamente verrà raggiunto. Tale risultato è infatti del tutto immanente e naturale; consistendo semplicemente nel bene inteso come «felicità» sensibile (laddove la soddisfazione del desiderio egocentrico ne è l’esempio più perfetto). Nella seconda via si punta invece ad un risultato che è strettamente condizionato dalle difficoltà che si frappongono nel cammino verso di esso.
E siccome per definizione tali difficoltà sono molto grandi, ci si può aspettare che esso possa molto probabilmente non venire affatto raggiunto. Tale risultato è infatti quasi del tutto trascendente, consistendo in null’altro se non nel Bene in sé (molto intransigentemente teorizzato appunto da Platone).
Tale ultimo approccio mi sembra ben più appropriato esattamente perché esso evita di ricadere in quella retorica pochissimo autentica che è proprio l’aspetto più deteriore dell’insegnamento dei nostri divulgatori. In altre parole è fin troppo facile dire cosa noi dobbiamo fare per raggiungere effettivamente il bene. È fin troppo facile perché qui non solo una ricetta vale l’altra, ma inoltre nulla vieta che il «bene» stesso venga inteso nei modi più disparati e naturali, e soprattutto nei modi che rendono più agevole e vantaggioso il raggiungerlo.
Ben più difficili e molto meno scontate sono invece le cose quando ci si occupa di ciò che si deve fare quando il bene si allontana pericolosamente da noi quanto più noi ci sforziamo di raggiungerlo.
E a me sembra che ciò accada nelle circostanze molto specifiche della sventura e del connesso dolore, ossia in quelle circostanze esistenziali in cui noi – nel camminare verso il bene − veniamo sottomessi ad una severa prova, ossia veniamo apertamente sfidati dal destino.
Ebbene, a me sembra anche che l’esistenza stessa (in quanto lasso di tempo che connette nascita e morte) non sia in fondo altro (nella sua essenza) che il campo in cui noi veniamo sfidati a superare una serie innumerevole di ostacoli per poter solo alla fine (ossia a posteriori) produrci nella fatale affermazione: −
«Io ho davvero ben vissuto». E questo getta una luce davvero molto forte su ciò che molto probabilmente l’esistenza è ontologicamente, ossia sulla sua più autentica essenza. L’esistenza sembra infatti essere una messa alla prova, un severo esame, un austero luogo di apprendimento. Quindi esso è periglioso per definizione, dato che, soggiornandovi fino all’ultimo, noi possiamo provare solo di sapere oppure di non sapere, di avere imparato oppure di non avere imparato.
Ecco allora che il «ben vivere» può presentarsi nella sua forma davvero più autentica soltanto quando esso si presenta in negativo, ossia come potenzialità da realizzare, e quindi come risultato da raggiungere con immenso sforzo e sempre senza alcuna certezza di successo. Ma – si badi bene – questo è esattamente il senso che viene attribuito da Platone a quell’ascesa filosofica (ossia ultimamente conoscitiva) il cui scopo è esattamente quello di raggiungere il Bene, e poi immediatamente anche l’Uno (laddove i due termini sono poi pressoché la stessa cosa) [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014]. Egli concepì tale cammino esattamente come un immenso sforzo, da compiere con tremenda ostinazione ma comunque sempre senza alcuna garanzia di successo.
Ben diversamente stanno invece le cose quando ci si limita a presentare il «ben vivere» in forma unicamente positiva. In questo caso, infatti, lo si approccia dal polo diametralmente opposto rispetto a quello che ho appena descritto, ossia dal polo dell’a priori. E, ponendosi in questa posizione, si può dire tutto ciò che si vuole senza tema di smentita; dato che o si sta parlando di eventi che ancora non si sono verificati oppure si sta parlando di eventi che certamente si verificheranno (data la naturalità del risultato da perseguire).

Ebbene, io sono certo che i moderni retori-divulgatori della filosofia propongono proprio questa seconda via e non invece la prima. Sinceramente (per quanto mi sia spesso proposto di farlo) alla fine non me la sono mai sentita di leggere i libri di costoro, oppure di ascoltare le loro brillanti lezioni virtuali trasmesse in rete quasi sempre a pagamento. Forse così mi sono perso qualcosa di utile e magari anche istruttivo, ma sinceramente c’è in me una voce ribelle che si rifiuta di seguire queste persone nei loro scoppiettanti pezzi di bravura retorica − con tanto di smaglianti sorrisi da venditore, proclami d’amore per questo e per quell’ascoltatore, promesse di felicità e divertimento, sghignazzate, barzellettine, ammiccamenti ai più beceri luoghi comuni etc.
Per quanto ne so io, la filosofia era, è e resta una cosa molto seria (direi «mortalmente seria») anche quando viene divulgata. Inoltre per quanto ne so io, atteggiamenti come questi furono proprio quelli dei sofisti che vennero combattuti da Socrate a spada tratta in quanto acerrimi nemici della vera filosofia.
In ogni caso, lo ripeto, io non ho letto né ho ascoltato quello che insegnano questi retori. Per cui non posso sapere esattamente cosa essi dicano. Tuttavia credo di potermelo almeno immaginare. Immagino quindi che propongano alle persone un «ben vivere» in positivo che consiste sostanzialmente nei luoghi comuni (pseudo-filosofici e anche pseudo-psicologici) sostenuti da affermazioni come quelle che seguono. «A questo mondo tutto cambia continuamente, e quindi non dobbiamo attaccarci a nulla»; «Abbiamo solo il presente e nient’altro; quindi non dobbiamo mai pensare né al passato né al futuro, ed inoltre non dobbiamo lasciare mai che il presente ci sfugga tra le mani»; «Non dobbiamo lasciare che, per nulla al mondo, venga turbato il nostro equilibrio vitale soggettivo; quindi dobbiamo preoccuparci del mondo (oggettività) solo fino ad un certo punto; e quindi non dobbiamo mai perdere la nostra felicità anche quando al mondo tutto va male»; «Il giudizio è un prodotto deteriore del nostro Ego; e quindi non dobbiamo lasciare che ci condizioni nel porci davanti al mondo; dunque dobbiamo tralasciare di emettere giudizi sulle cose»; «Fai meditazione per superare ogni tuo problema e trovare la pace; concentrati su un oggetto e arresta il flusso dei tuoi pensieri…». Etc, etc.
Bene, devo essere onesto fino in fondo e dire che diverse di queste affermazioni non me le sono inventate del tutto ma le ho invece ascoltate per davvero origliando di qua e di là i discorsi dei nostri retori. In ogni caso basta prendere in mano ad esempio anche solo il libro di Cicerone sull’epicureismo (da me citato nell’undicesima lezione) per rendersi conto di quanto devastanti possano essere prese di posizione come quelle consigliate dalle affermazioni che ho appena menzionato. Esse infatti sono in grado di disintegrare la coesione sociale negli aspetti in cui essa dipende più fortemente dalle prese di posizione rigorosamente etiche dei soggetti ed inoltre anche dalla loro capacità di generoso sacrificio. Esse sono in grado si sradicare i soggetti dalla loro storia e dai luoghi ai quali essi appartengono, facendone così dei folli alienati, inquieti ed incapaci di cogliere qualunque senso nel loro esistere – specialmente li rende incapaci di occupare (nella società e nella storia) un posto ben preciso, esercitando il compito che ad esso corrisponde. Esse sono in grado di paralizzare totalmente (o almeno annacquare) il giudizio sul mondo e su sé stesso da parte del soggetto, sbarrando così la strada ad ogni presa di posizione etica (specie quella auto-critica), e così conducendo ad una beotica quanto irresponsabile atarassia epicurea (colma di elementari desideri soddisfatti). Esse sono in grado di generare nelle persone vizi capitali come l’egocentrismo, l’edonismo, la superficialità, l’indifferenza, la stupidità, la passività beotica. Eppure tutto ciò resta del tutto inapparente esattamente perché la retorica ha per definizione la straordinaria capacità di ammantare il discorso di figure amabili ed attraenti, al cui fascino nessuno ha intenzione di resistere. In particolare, inoltre, i retori indulgono a far passare (con uno smagliante ed affascinante sorriso, accompagnato quasi sempre all’irresistibile appello a più semplicistici e biechi luoghi comuni) commistioni di idee che sono insostenibili e spesso colpevolmente contraddittorie. Costoro, insomma sono, bravissimi nello smantellare qualunque irriducibile opposizione tra bene e male, tra «si» e «no», tra verità e menzogna, tra scelta responsabile (incentrata in un giudizio) e colpevole indifferenza. E così sono in grado di affermare tutto ed il contrario di tutto, senza intanto mai negare direttamente alcunché, sottraendosi così abilmente al dovere di assumere una posizione che potrebbe inimicare loro una parte del loro vastissimo ed affezionato pubblico.
Ne consegue inevitabilmente che i loro insegnamenti (sempre simpatici, carezzevoli, ammiccanti e dispensanti da qualunque sforzo intellettuale o di critica) raccolgono sempre nelle masse un successo per definizione travolgente. In tal modo i loro adepti si moltiplicano, nel mentre i retori si trasformano ben presto in vere e propri guru circondati di ferventi adoratori. Di conseguenza sforneranno poi un libro dietro l’altro, e tutti invariabilmente (nonostante la loro pochezza e superficialità) diverranno dei best-seller. Come può, al cospetto di tutto questo, non venirci in mente il carattere principale dell’Anticristo descritto da Solov’ëv, e cioè il suo nascere esattamente come un teologo ed uno scrittore dal successo travolgente?
[Vladimir Solov’ëv, Racconto dell’Anticristo, in: Vladimir Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma 2017, p. 151-185]. Inoltre è davvero difficile pensare che tutta questa confusa e sospetta materia corrisponda per davvero alla filosofia divulgata.

Orbene, ma cosa avviene quando invece si propone la prima via (quella del «ben vivere» in negativo)?
Cosa avviene insomma quando la filosofia si propone a noi (uomini comuni) per aiutarci ad affrontare la serie (a volte interminabile) di ostacoli che si frappongono tra noi e il bene? E quale tipo di filosofia in questo caso potrebbe e dovrebbe venire impiegata?
Propongo di partire da quest’ultima domanda, alla quale è molto più facile rispondere. A mio modesto avviso le uniche due filosofie antiche che ci permettono di compiere questo cammino sono quella platonica (associata a sua volta a quella orfico-pitagorica, e prolungatasi coerentemente nel neoplatonismo) e quella gnostica. Solo queste due, infatti (e senz’altro molto più che la dottrina cristiana) prendono tremendamente sul serio il male comportato dal mondo. E quindi è solo in esse che l’uomo comune può trovare davvero strumenti e risposte per affrontare il tremendo compito del quale stiamo parlando. Riducendo tali strumenti e risposte davvero all’osso, dobbiamo dire che essi si riassumono nel considerare l’esistenza appena un sogno, o meglio un incubo, dal quale è necessario svegliarsi al più presto. Il che avviene poi per mezzo di quella morte fisica il cui aspetto positivo consiste nella liberazione dell’anima dalla prigione e tomba rappresentata dal corpo.
Ed ecco che il tal modo finisce per risaltare in modo molto lampante la totale inconsistenza dottrinaria della materia che è oggetto di insegnamento da parte dei moderni retori-divulgatori con la sua volontà di aiutare gli uomini ad esistere. Essa insomma si rivela essere tutt’altro che filosofia. Infatti l’antica filosofia, che si proponeva agli uomini come insegnamento di vita, non si poneva affatto in positivo, ma invece si poneva solo in negativo. Essa cioè si proponeva come strumento di un «ben vivere» che era sostanzialmente preparazione alla morte. Il suo insegnamento consisteva quindi nel progressivo distacco dal sensibile e dal mondano in modo da essere pronti infine al distacco finale, quello dell’anima dal corpo. E qui allora platonismo-orfismo e gnosi risaltano per davvero come campioni di tale approccio. In qualche modo vi rientrò in principio anche lo stoicismo, ma sempre con un tocco di pragmatismo utilitarista (se non edonista) che mitigava ed annacquava di molto la forza (dirompente e intransigente) dell’approccio platonico-gnostico.
Ma veniamo ora alle due altre prime domande appena poste – cosa avviene concretamente quando questa complessiva visione filosofica viene applicata all’esistenza?
Avviene semplicemente che l’uomo non crede più nelle apparenze, e di conseguenze prende a condurre una vita più profonda e meno superficiale, ossia prende ad accontentarsi non più tanto facilmente (come fa invece la maggioranza degli uomini). Edith Stein definì questo stato come “vita dell’anima” e cioè una vita condotta permanentemente nella profondità [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1996, IIA, 6 p. 169-170, IIB, 1-7 p. 171-196, III, 1 p. 197-206; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1998, I, 3, 1-4 p. 72-92, II, 1, 2-3 p. 173-216; Edith Stein, Der Aufbau, der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 2 p. 80-91; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9, 8 p. 385-387].
Ma non c’è nemmeno bisogno di dire che in tal modo si prende a vivere in una maniera tutt’altro che «felice», e quindi il primo risultato esistenziale di tale presa di posizione è quello di una radicale dissociazione della felicità dal bene. Ecco allora che il «ben vivere» assume l’aspetto di un vivere intanto buono in quanto tutt’altro che felice. Ed ecco allora che in qualche modo la soggezione alla sventura (ed al connesso dolore) diviene il vero e proprio tratto distintivo di quell’«uomo buono» che è poi l’unico «giusto» che davvero ci sia al mondo. Ed ecco quindi che si delinea davanti a noi molto nettamente l’immagine di Giobbe quale modello di questo genere di buona esistenza. Immagine che non a caso ci viene proposta come centrale laddove il moderno grande pensatore Paul Ricoeur affronta davvero frontalmente il problema del male [Paul Ricoeur, il male. Una sfida alla filosofia ed alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015].
Ebbene su questa strada ci viene decisamente incontro il fenomeno della sventura, o meglio quel particolare impedimento in direzione del bene che è rappresentato dalla sventura. Si tratta però in primo luogo di una sfida, e quindi di qualcosa di molto simile ad una messa alla prova. Il ruolo della filosofia in questo ambito sembra pertanto consistere esattamente nel permetterci di guardare ben oltre le evidenze sensibili, in modo da riconoscere un senso laddove esso sembra a prima vista totalmente assente. A prima vista, infatti, la sventura ci appare come qualcosa di diametralmente opposto al bene – dato che, da epicurei per natura come tutti siamo, noi incliniamo a identificare il bene con il piacere. Il pensiero etico, però, ci rende capaci di intravvedere la sagoma del vero e proprio bene attraverso le oscure e terrifiche sembianze della sventura. E così essa finisce per apparirci non tanto il contrario del bene quanto invece, semmai, appena un ostacolo sul cammino che porta al bene. Sarebbe tuttavia molto riduttivo mancare di cogliere il fatto che tale ostacolo è davvero formidabile, e quindi molto prossimo ad essere insuperabile.
Ecco allora che, ancora una volta, il pensiero etico del quale ci serviamo si rivela dover essere moto autentico, ed affatto invece retorico. Motivo per cui esso deve necessariamente essere pessimista.
Nemmeno il pessimismo è però sufficiente di per sé. Perché il fatto di riconoscere l’ostacolo come formidabile non deve distoglierci dalla decisione a fare ogni sforzo possibile per superarlo. Pertanto il nostro pessimismo ha il preciso dovere di essere costruttivo, e non invece distruttivo. In altre parole il vantaggio dell’approccio platonico-gnostico non si risolve affatto in un piatto e semplicistico pessimismo. Quest’ultimo viene infatti chiamato costantemente a superare perfino sé stesso.
In ogni caso esso comunque esso non deve nascondere in alcun modo il male oggettivo del mondo. Se lo fa, allora la sua finisce per essere mera retorica; una retorica sempre edulcorante e quindi colpevolmente occultante. E bisogna ammettere che anche la morale cristiana si macchia almeno in parte di questa colpa. Ci sono ad esempio passi dei vari Contra Manichaeos di Agostino di Ippona [Agostino di Ippona, La natura del bene, Bompiani Milano 2001] nei quali bisogna decisamente riconoscere ai suoi avversari il merito incontestabile di un’obiettività molto maggiore della sua. È intanto un fatto che il manicheismo fu molto prossimo alla gnosi.
Dunque, questa seconda via filosofica ci aiuta sostanzialmente a prendere di petto il male del mondo e ad affrontarlo a viso davvero aperto. Non come fa l’epicureo, che enuclea il bene dal male-dolore, pretendendo di raffinarlo e liberarlo di ogni incrostazione moralistico-idealistica fino ad ottenere il piacere grezzo ed elementare, ma intanto autentico. Non come fa lo stoico, che si curva davanti al male-dolore come canna al vento esercitando in tal modo una saggezza coraggiosa che non pretende in alcun modo né di giudicare né di cambiare il mondo. No, invece il platonico-gnostico non nega nemmeno una sola infinitesima particola del male-dolore esistente nel mondo. Dunque lo ammette in pieno e ne riconosce in pieno l’esorbitanza. Dunque si espone ad esso senza cercare di nascondere le ferite che intanto si aprono nella sua carne. Ma, poiché la sua consapevolezza gli permette di vivere in profondità e non in superficie, egli dichiara intanto al mondo che quanto gli sta accadendo è poco più che nulla. Perché il mondo non è in verità altro che un oscuro sogno. Un incubo dal quale bisogna solo svegliarsi.
È ovvio comunque che ciò accade solo allorquando si sprofonda nella palude del male-dolore, ossia allorquando si soccombe alla sventura. Ma quando ciò non accade, in verità non si vive mai in profondità bensì invece appena in superficie. È ovvio, come giustamente sostiene l’epicureo, che la piena vita dei sensi sani può procurarci solo piacere. Sta di fatto però (e questo è ciò che tra l’altro sostiene Cicerone nella sua critica all’epicureismo) che molto difficilmente in tal modo si procederà verso il bene. Infatti non si farà altro che mentire a sé stessi (e ancor più agli altri) fingendo che il bene sia quel piacere al quale tutti mediamente tendiamo con tutte le nostre forze. E davvero tutti noi lo facciamo. Non c’è da farsi illusioni su questo. Pertanto, se davvero noi vogliamo procedere verso il bene, non possiamo farlo assolutamente in positivo bensì solo in negativo.
In altre parole – per quanto possa sembrare paradossale se non mostruoso − noi abbiamo bisogno della sventura per potere davvero condurre una vita etica. Noi dobbiamo desiderare la sventura (o almeno la non totale buona ventura). Ed ecco che allora, se noi davvero chiediamo alla filosofia un aiuto per il «ben vivere», non possiamo fare altro che scegliere la filosofia che segue questo cammino in negativo.

Ecco. Mi sembra che sia stato detto tutto il necessario.
Solo (in chiusura) ancora un’ultima piccola notazione riguardante il Cristianesimo, dato che credo appassionatamente in esso e dato anche che esso è termine di riferimento continuo delle mie riflessioni.
Ebbene, che fa il Cristianesimo a tale riguardo? Come si comporta? E cos’ha dunque da insegnarci a tale riguardo la filosofia cristiana?
Qualcosa l’abbiamo appena detto rispetto al pessimismo, che il Cristianesimo ha sempre tenuto sdegnosamente lontano da sé (specie nella sua forma gnostica) sostanzialmente perché ha voluto intenderlo in modo fin troppo letterale. Tuttavia, una volta tolto questo difetto, il pensiero cristiano ci guida per una via poi non tanto diversa da quella platonico-gnostica, specie nelle sue connotazioni orfiche.
Esso ci insegna infatti a considerare il mondo come un sostanziale luogo di prova, nella cui realtà bisogna credere solo fino ad un certo punto. Certamente ci viene chiesto intanto di trasfigurare attivamente il mondo secondo il modello del Regno dei Cieli. Esemplare in questo è il discorso del Guardini, che ho ricordato nella mia terza lezione. Quindi qui siamo di nuovo lontani dalla radicale presa d’atto platonico-gnostica del male mondano. Ma comunque mai e poi mai ci viene chiesto di accettare il mondo così com’è.
Sebbene debba dire che una certa teologia post-moderna sta oggi tentando di trasformare proprio in questo senso la fede cristiana (specie riapprossimando la sua variante cattolica a quella luterana), nello sforzo di intenderla appena come un’attività storico-mondana e puramente immanente, che accetta il mondo esattamente così com’è limitandosi ad aggiungere ad esso appena la dimensione ecclesiale in quanto comunità agapica. Questo e solo questo sarebbe dunque il Regno dei Cieli; ossia qualcosa di totalmente immanente e naturale, e senza alcuna pretesa di essere trascendente e sovrannaturale.
Tuttavia l’insufficiente pessimismo del Cristianesimo diviene del tutto secondario e perfino irrilevante al cospetto del coraggio eccezionale e senza riserve con il quale il Cristo in persona affronta il male del mondo. Un coraggio che, come vedremo tra poco, è in verità molto superiore a quello platonico-gnostico, pur non essendovi in esso la benché minima traccia di pessimismo. E questo è l’aspetto davvero più straordinario di tale presa di posizione. Il che però non è affatto strano, dato che quella di Cristo è una presa di posizione sovrumana.
Emblematico per questo è lo scenario della sua preghiera notturna totalmente solitaria nell’Orto del Getsemani. Uno scenario emblematico perché esemplifica in maniera perfetta la condizione dell’uomo in preghiera nel pieno della prova, ossia totalmente solo, nudo, indifeso e impotente di fronte al Male in tutta la sua soverchiante strapotenza. In questo fatale momento il Cristo è più che mai un uomo. Più di così non potrebbe esserlo. Ma nello stesso tempo (come ho detto poc’anzi) egli è anche più che mai un dio. Anzi è Dio in persona nella maggiore pienezza possibile – un Dio talmente divino da avere la potenza ed insieme l’inconcepibile umiltà di sostenere l’umanità.
È evidente che questo e solo questo lo pone nella condizione per fare ciò che abbiamo appena visto. Infatti, quale di noi uomini potrebbe affrontare male, dolore e sventura con lo stesso strapotente coraggio che nello stesso tempo è totalmente indifeso e volontariamente impotente? Esso è deciso a farsi stritolare dal Male senza intanto opporre la minima resistenza né tanto meno scatenare la sua soverchiante potenza. Quale uomo potrebbe far questo senza intanto frapporre tra sé ed il male o il baluardo di una sia pur fragile speranza oppure quella forza (a volte quasi sovrumana) che, nella disperazione, ci viene conferita dall’odio e dal desiderio di vendetta?
Nessuno di noi ne è capace! E quindi la verità è che nemmeno il pur così autentico pessimismo platonico-gnostico è capace di affrontare a viso aperto il Male. E quindi, se pretende di farlo, non può che essere ipocrita e mentitore. Perché la capacità di affrontare a viso aperto il Male non è in verità affatto alla portata dell’uomo. Questo è dunque sì un pregevole ideale, ma nei fatti è assolutamente insostenibile. Il che ci lascia allora pensare che il così entusiasmante ritratto della morte di Socrate fattoci da Platone è probabilmente molto più letterario che non reale. Infatti, se il Cristo stesso (cioè Dio in tutto e per tutto) sudò sangue nel mentre guardava dritto in faccia al Male ed inoltre anche alla sua personale morte (la più ignominiosa, oscura e fallimentare che possa mai venire concepita), figuriamoci se non lo fece anche l’uomo Socrate.
Ecco allora che ci appare possibile affrontare a viso aperto il Male solo in questo modo sovrumano, ovvero, per essere precisi, solo con questo esempio davanti a noi. Il che equivale però ad ammettere che noi possiamo semmai sperare di approssimarci minimamente a tale esempio, ma mai potremo emularlo totalmente. Ebbene, il fare come ha fatto Cristo è l’autenticità assoluta nella presa d’atto del male mondano, ma nello stesso tempo ciò è tutt’altro che un pessimismo radicale. Dietro lo straordinario coraggio inerme del Cristo c’è infatti l’ottimismo di Dio stesso, ossia un ottimismo assolutamente necessario. Questo perché solo Dio (ma mai l’uomo!) può sapere perfettamente che quanto sta vivendo non è nulla e non vale nulla. L’uomo non può per il semplice motivo che intanto è oggettivamente imprigionato nella carne, e quindi nemmeno per un attimo potrà considerare il mondo come un nulla.
Dio insomma considera il mondo esattamente alla stregua del platonico-gnostico, cioè lo considera appena un brutto sogno che deve passare. Ma intanto fa questo come un dio.
Ma non solo. Perché egli è dio solo nel mentre è anche uomo. Il che significa che quanto solo lui riesce a fare viene messo alla portata dell’uomo senza nemmeno che quest’ultimo debba fare qualcosa. La via è stata infatti già percorsa tutta dal Cristo. Ed inoltre la concessione all’uomo della natura divina (da parte del Cristo) è totale, radicale, incondizionata e gratuita.
Il che bypassa completamente tutta la pur pregevolissima immensa, poderosa e formidabile sapienza che era presente nel misterismo orfico nella forma di una dottrina che prevedeva esattamente il raggiungimento della divinità da parte dell’uomo [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004]. È vero, questo è quanto effettivamente insegnava l’orfismo. Ed è vero anche che ciò (come dice Raphael) assomiglia straordinariamente al Cristianesimo (ad esempio io direi che la recita del Rosario assomiglia straordinariamente al percorso misterico-iniziatico orfico-dionisiaco in quanto imitazione del dio ed assimilazione ad esso). È vero insomma che i misteri iniziatici di tipo orfico furono una via di autentica rigenerazione totale dell’uomo. È anche vero però che gli stessi orfici non potevano non sapere che questo restava nella gran parte dei casi uno splendido ideale destinato a rimanere però irrealizzato (forse più una leggenda che non una realtà).
E ciò ci viene dimostrato proprio dal fatto che, volendo essere davvero realisti ed insieme umili (come solo il Cristianesimo ci insegna), l’uomo può conquistare per davvero la divinità soltanto se questa impervia via è stata già percorsa dal Dio divenuto Uomo.
Dunque, una volta constatato questo, per davvero – di fronte al tema dell’esistenza − non ci resta altro se non la via della filosofia cristiana.
Infatti, al netto delle osservazioni appena fatte, essa sembra essere l’unica capace di offrire per davvero all’uomo gli strumenti per affrontare l’esistenza senza nemmeno aver dovuto compiere lo sforzo per comprenderla. Ciò sembra possibile perché sulla mira dello sguardo del cristiano c’è costantemente null’altro che una Persona umano-divina, ossia il Cristo stesso; e quindi un pensiero personale vivente ed una storia personale vivente ma nello stesso tempo misteriosamente mondano ed extra-mondano, naturale e sovrannaturale. In questo senso si tratta quindi di un sentiero già tracciato nel corso del quale tutti, ma proprio tutti, i possibili problemi sono stati già affrontati e risolti. Ad ogni difficoltà c’è quindi una soluzione ed una via di uscita, per quanto imperscrutabile. E la prova vivente di ciò è l’immagine della Resurrezione dai morti da parte del Cristo pieno di Gloria.
Insomma, tra la difficoltà del cammino e la Resurrezione c’è e resta sempre un salto che a sua volta resta colmo di mistero. Ma questo salto è stato per definizione già compiuto.

Ecco quindi detto tutto.
La conclusione non può essere che questa: − per affrontare seriamente (ed insieme umilmente) l’esistenza con strumenti filosofici, noi abbiamo assolutamente bisogno di un pensiero che si nutra della più rigorosa etica e nello stesso tempo anche della più visionaria fede. E a questo punto davvero poche sono le possibilità che abbiamo a disposizione per trovare la corrispondente filosofia. Forse una sola: − il Cristianesimo!

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

Non vi è il minimo dubbio che tutti noi (prima o poi) ci siamo interrogati sul perché siamo al mondo, e quindi anche sul perché siamo venuti al mondo, ovvero perché siamo nati.
Ora questa è senz’altro una questione non esperienziale, cioè una questione che non può venire affrontata e risolta per mezzo di una conoscenza che parta dall’esperienza sensibile. Né quando quest’ultima è quella ordinaria, elementare e semplice (che viene gestita dall’uomo comune), né quando essa è quella speciale, complessa e difficile, che viene gestita dallo scienziato della natura. Insomma noi tutti possiamo senza alcun dubbio affrontare e risolvere la conoscenza del perché mi sta facendo male il dito appena colpito dal martello, e possiamo anche (se abbiamo studiato le scienze) risolvere la conoscenza del perché il sole sorge e tramonta ogni giorno (per quanto complesso possa essere quest’ultimo compito). Ma non possiamo in alcun modo affrontare e risolvere il problema del «perché» siamo nati e siamo al mondo. Tale problema è pertanto di una complessità ben diversa da quella dei problemi affrontabili sul piano dell’esperienza sensibile di tipo ordinario o di tipo scientifico (scienza empirica). E direi che ciò accade perché si tratta di una complessità che si estende spazialmente nel profondo, mentre si estende temporalmente ben oltre le dimensioni del presente-passato-futuro. Quindi si estende in dimensioni dell’essere che sono del tutto al di fuori della portata dell’esperienza sensibile.
Eppure tali dimensioni devono in qualche modo esistere, visto che noi uomini non possiamo proprio evitare di interrogarci su di esse. Il nostro prepotente desiderio si ritrova però qui in una posizione molto delicata.
Dato che ci troviamo di fronte ad una complessità che sconfina per definizione nel mistero e nell’oscurità, ovvero in dimensioni entro le quali l’esperienza sensibile (anche se controllata dalla scienza) non ha alcuna possibilità di gettare la sua luce.
È certamente vero che la scienza empirica (dato anche che essa fa oggi continui progressi grazie ad una tecnologia sempre più possente e sofisticata) è estremamente ambiziosa, e quindi mal sopporta qualunque tipo di limite. Ed infatti l’attuale avanzatissima scienza empirica ha ormai investito campi dell’essere – come quello delle profondità ultime del corpo animale (struttura genetica e bio-molecolare) e quello della profondità della materia (fisica ultra-particellare e connessa astronomia) −, la cui indagine tende a promettere sempre più di illuminare perfino il mistero dell’esistenza (incluse nascita e morte). Tuttavia si tratta e si tratterà sempre semmai di un’indagine sul «come». Mentre invece (per quanto lontano la scienza empirica possa spingersi grazie alla sua sempre più possente tecnologia) non potrà mai trattarsi di un’indagine sul «perché». E ciò per il semplicissimo motivo che l’indagine sul «perchè» concerne unicamente l’uomo, e precisamente la sua dimensione soggettivo-interiore (emozionale, sentimentale, etica, religiosa, ossia in generale giudicativa), mentre non concerne alcun genere di oggettività. Dunque quelle dimensioni dell’oscurità e del mistero (soltanto entro le quali si può porre un problema come quello della nascita) sussistono solo perché intanto sussiste l’interiorità umana, e cioè perché sussiste un ente auto-cosciente, un ente che «sa di sé», un ente, insomma, costantemente rivolto con il pensiero verso il proprio esistere.
In ogni caso bisogna assumere che la dimensione del «perché» (connessa, a sua volta, a doppio filo con tutti i temi dell’esistenza) appare stare in intimissima ed inestricabile connessione proprio con le dimensioni del mistero e dell’oscurità che (come abbiamo visto) caratterizzano la conoscenza non-sensibile o ultra-sensibile.
Orbene, la filosofia è di sé senz’altro la forma di conoscenza che (per sua natura) più si presta di più a travalicare la conoscenza sensibile. Quindi dovrebbe costituire la disciplina più adatta a indagare fenomeni come quelli della nascita, ossia quei fenomeni rispetto ai quali il «perché» è di importanza determinante. Eppure, del tutto sorprendentemente, se questo accadeva certamente entro la filosofia antica, non accade più assolutamente entro la filosofia moderna. Ed il perché ho cercato di spiegarlo nell’undicesima lezione. Tuttavia in quell’occasione non ho ricordato che senz’altro il responsabile di questa situazione va considerato senz’altro Kant, con la sua decisa rigorosissima esclusione del “noumeno” dal novero delle cose conoscibili. Nella sua “Critica alla Ragion Pura” il filosofo parlò al proposito dei cosiddetti “paralogismi logici” (o anche “chimere”), ossia quegli oggetti che sembrano puramente razionali ma invece sono solo del tutto disconnessi dall’esperienza e quindi sono irreali per definizione [Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Adelphi, Milano 2010, Parte I, Anal. Trasc., I, Libro II, II, III p.257-263, I, Parte II, Dial. Trasc., Libro II, I p. 395-467]. Ed il “noumeno” non a caso è caratterizzato proprio da quella misteriosità ed oscurità che fa di esso un oggetto decisamente ultra-sensibile, cioè un oggetto del quale i sensi non possono dire nulla di certo (con la conseguenza che, a livello intellettivo, mancheranno totalmente i fondamenti per un giudizio davvero veritativo su tale oggetto).
Come tale esso venne decretato da Kant come l’oggetto inconoscibile per eccellenza, ossia l’oggetto metafisico stesso. Stranamente però proprio a questo genere di oggetto due millenni prima Aristotele aveva concesso lo statuto del più infallibilmente conoscibile tra gli oggetti, ossia la “sostanza prima” (proté ousìa). Non a caso proprio da qui prese le mosse quella logica proposizionale (incentrata nella verità come coerenza logica puramente astratta tra proposizioni) che infine Kant avrebbe sconfessato definitivamente in quanto conoscenza del tutto inaffidabile perché del tutto illusoria (essa sembra trattare di oggetti ma invece tratta solo di vuoti concetti).
È inutile dire che ci troviamo qui più che mai sul piano della metafisica. Metafisica che per Aristotele (e tutta la filosofia antica) era uno dei fondamenti della scienza (scienza che però per definizione andava oltre il campo del sensibile), mentre invece da Kant in poi venne esclusa addirittura dall’ambito della conoscenza stessa. Infatti da quel momento in poi la conoscenza del misterioso e dell’oscuro (ossia l’«invisibile» in quanto inaccessibile ai sensi) è stata dichiarata di fatto impossibile, e quindi del tutto inaccettabile sia per il filosofo che per lo scienziato. Più o meno un secolo dopo Husserl – nel preoccuparsi di mettere al sicuro la conoscenza contro l’invasione di campo della scienza empirica avvenuta con il Positivismo (a sua volta, tutto sommato, un estremo sviluppo del razionalismo kantiano) – sentì il bisogno di aggiungere alle “chimere” di Kant quei pur legittimi oggetti della mente che però non hanno alcun riscontro tra gli effettivi oggetti ultra-sensibili (oggetti puramente astratti ma pienamente razionali e quindi esistenti). Si tratta quindi di oggetti mentali che sfuggono a qualunque ragionevolezza dell’esistere, e quindi vanno considerati alla stregua di irreali oggetti della fantasia. Non si tratta insomma degli oggetti matematici, ma invece ancora una volta degli oggetti metafisici veri e propri.
Questa fu quindi la seconda e definitiva condanna filosofica della metafisica. Tuttavia Husserl operò intanto una significativa apertura di credito a quegli oggetti mentali i quali, anche se non hanno riscontro nell’esperienza sensibile, sono comunque del tutto ragionevolmente esistenti. Egli li annoverò infatti tra quegli stessi “fenomeni” che Kant considerò l’opposto dei “noumeni”. Ed in questo rientrano ad esempio cose come il «mondo», oppure anche la «vita» − oggetti che io non colgo di certo mediante i sensi, ma che comunque esistono indubitabilmente, prova ne sia che essi possono venire indagati in maniera del tutto razionale, ossia veritativamente. Ciononostante nemmeno qui ci troviamo in quel campo del misterioso e dell’oscuro del quale ho parlato prima a proposito dei fenomeni dell’esistenza. Nemmeno in questo caso, insomma, ci troviamo sul piano della vera conoscenza del «perché» di tali fenomeni. Ne consegue che i fatti dell’esistenza (nascita, vita e morte) – una volta davvero chiariti nella loro essenza (cosa che evidentemente Husserl non fece, nonostante le sue immense ambizioni in tal senso) – non sono in verità affatto dei “fenomeni”. E non lo sono né nell’intendimento kantiano né nell’intendimento husserliano. Essi sono invece semmai degli autentici oggetti metafisici. Più precisamente essi soggiornano in quella sfera della metafisica (la sfera dell’oscuro e del misterioso) che più corrisponde alla natura autentica di tale forma di conoscenza. Infatti, una volta così definita, la metafisica non è affatto quella che ad esempio Max Scheler appaiò totalmente alla filosofia in quanto conoscenza di oggetti astratti rigorosamente razionali [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018].
Eppure bisogna intanto prendere atto del fatto che la Fenomenologia husserliana è stata assunta e fatta propria (come una vera e propria ancora di salvezza) da parte di quella teologia filosofica che si era vista perduta di fronte alla demolitoria critica di Kant. I fatti del sacro (ossia i fatti propri dell’esperienza religiosa) sono stati infatti da essa annoverati entro la sfera di quei “fenomeni” che travalicano sì la sfera degli oggetti immediatamente sensibili, ma restano comunque esistenti. Il che accade in quanto essi sono “dati” nel contesto della Rivelazione divina, e pertanto costituiscono oggetti in sé radicalmente ultra-mondani ma che sono stati incarnati nel mondo grazie allo straordinario intervento divino – la carne di Cristo riassume ed esemplifica perfettamente in sé tali oggetti (e lo stesso vale per l’Ecclesia, in quanto comunità dei credenti in Cristo). Tuttavia, in quanto pienamente esistenti nel mondo, tali oggetti non rientrerebbero affatto nella sfera della più autentica metafisica. In altre parole si può dire che questo genere di teologia abbia sentito l’esigenza di affermare che gli oggetti di natura religiosa, per quanto in sé squisitamente metafisici, debbano invece fare obbligatoriamente eccezione alle caratteristiche degli oggetti metafisici. Ed è evidente che si tratta di un’operazione intellettualistica piuttosto artificiosa e dai risultati inevitabilmente molto forzosi. Per un esempio di questo genere di discorso teologico-filosofico si veda quanto è stato esposto entro la recente opera di Jean-Luc Marion [Jean-Luc Marion, Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007]. Ora, è evidente che tutto ciò non può bastare affatto agli scopi che stiamo perseguendo.
Visto che il tal modo ci si ferma decisamente prima del confine di quella sfera di conoscenza nella quale esistono solo il mistero e l’oscurità, e quindi esistono solo oggetti metafisici che sfuggono totalmente tanto all’immediata esistenza mondano-sensibile quanto ad una rigorosa categorizzazione razionale. Non a caso la teologia rifondata da pensatori come Marion (con la netta esclusione della metafisica da loro posta in atto) pone il divino sul piano dell’immanente nel mentre tende non poco a mettere tra parentesi la sua dimensione trascendente.
In ogni caso questo tipo di pensiero teologico-filosofico si è fortemente impegnato nell’includere anche l’esistenza (in tutti i suoi aspetti) tra i “fenomeni” (immediatamente mondano-sensibili) intesi al modo che abbiamo appena visto. Però (come abbiamo visto anche nella undicesima lezione) non sembra che ci sia da aspettarsi affatto che tale inclusione sia legittima. Ed ho spiegato appena perché. L’esistenza rientra infatti per definizione tra gli oggetti più misteriosi ed oscuri che la conoscenza possa mai incontrare (oggetti quindi decisamente ultra-sensibili). E quindi non c’è da aspettarsi che qualunque genere di filosofia moderna o anche teologia moderna – sia nel suo assetto fenomenologico che nel suo assetto esistenzialista – riesca a soddisfare davvero le domande che l’uomo da sempre spontaneamente si pone rispetto ai veri e propri fenomeni dell’esistenza. Non a caso (come ho detto nell’undicesima lezione) la filosofia si rifiuta oggi molto sdegnosamente di ammettere che esistano «risposte» a domande come queste.

Bene. Una volta giunti a questo punto, ne dobbiamo concludere necessariamente che l’apporto della filosofia così com’è (almeno quella moderna) è di per sé del tutto insufficiente per affrontare un problema come quello della nascita. Il che significa che dovremo andare ben oltre il suo ambito, rivolgendoci così alla sola metafisica. Questo implica comunque la necessità di rivolgersi alla filosofia antica, ma in questa lezione non è mia intenzione soffermarmi su tale aspetto.
Prima di entrare nel merito va fatta comunque una premessa che esula da quelle discusse poc’anzi. Si tratta sostanzialmente della seguente semplicissima constatazione: − dato che l’atto del venire al mondo riguarda direttamente l’essere al mondo, esso (cioè la nascita) implica anche l’esistenza addirittura sul piano essenziale. Insomma, quali fenomeni precisamente isolabili nella loro essenza, nascita ed esistenza sono pressoché la stessa cosa. E quindi affrontare uno di essi implica anche affrontare l’altro.
Ordunque – entrano ora nel pieno della nostra questione – cosa abbiamo a disposizione, nel contesto della metafisica, per affrontare il tema della nascita?
Io direi che qui va fatta una certa distinzione tra la metafisica occidentale e quella orientale.
La prima infatti è molto più scarna nell’offrire contenuti dottrinari che riguardino da vicino la nascita. Mentre lo stesso non accade per la seconda. Entro quest’ultima, infatti, si è riflettuto sul perché della nascita in una maniera estremamente esplicita ed anche molto precisa. Molto in generale (e semplificando una dottrina molto complessa ed articolata) è stato teorizzato che qualunque condizione esistenziale venisse prodotta dalla nascita in determinate circostanze, essa trovava la sua perfetta giustificazione in una catena di cause che risaliva all’indietro fino ad un’esistenza antecedente. E ciò corrisponde alle necessità poste da un Ordine benefico e perfetto. Coomaraswamy afferma senza mezzi termini che perfino la nascita in una condizione sociale svantaggiata (così come anche il suo opposto) trova la sua perfetta giustificazione etica entro tale perfetto ordine [Ananda K. Coomaraswamy, Qual è stato il contributo dell’India al bene dell’uomo? in: Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Adeplhi, Milano 2011, p. 11-39]. In Occidente le dottrine orfico-pitagoriche, in congiunzione alla visione di Platone, si muovono senz’altro anch’esse entro tale sfera di idee – tentando di offrire una spiegazione delle circostanze qualitative della nascita in quanto reincarnazione, e quindi prodotto della trasmigrazione delle anime. Tuttavia ciò non avviene con la stessa estensione e ricchezza di dettagli dottrinari con le quali questo si è verificato in Oriente. Parlo soprattutto di quella dottrina del “karma” che, una volta prese le mosse nel contesto dei Vedanta, assunse poi una straordinaria complessità (perfino scientifico-naturalistica) entro la dottrina buddhista [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I].
In ogni caso, una volta precisato questo, va anche detto che l’intera dottrina metafisica dell’anima professata in Occidente (sia nelle sue forme pre-cristiane che nelle sue forme cristiane) costituisce già di per sé (ossia nella sua semplice essenza nucleare) una forma di profonda spiegazione del fenomeno della nascita.
Infatti già il solo presupporre una sostanza animica significa di fatto porre una realtà che antecede a quella corporale in maniera inevitabilmente causale; e quindi funge da piena giustificazione di essa mantenendosi intanto in una sfera di essere che è decisamente pre-mondana, pre-corporale e pre-materiale. In altre parole si può assumere che un corpo «esiste» (prende ad esistere) solo allorquando è preceduto (onto-cronologicamente) dall’esistenza di una corrispondente anima individuale. E tutto questo implica inevitabilmente anche il presupporre l’immortalità ed eternità dell’anima stessa, in contraddizione con la mortalità e caducità del corpo.
Certamente i dettagli di tale dottrina furono esposti in maniera anche molto diversa, in alcuni suoi punti, entro le varie visioni e relative epoche. Nelle visioni pre-cristiane risultò ad esempio molto meno esplicita l’origine dell’anima individuale in un atto creativo divino. Molto più si pensava infatti ad una dinamica di emanazione (esposta molto esplicitamente presso i pensatori neoplatonici), entro la quale l’anima promanava da una realtà spirituale trascendente che poi equivaleva all’Intelletto, il Nous (a sua volta poi promanante dall’Uno divino). Vi è inoltre da segnalare la sensibilmente diversa versione platonica ed aristotelica della dottrina dell’anima; laddove la prima preferiva lo schema trascendentista e verticale (origine dell’anima in alto) mentre la seconda preferiva invece lo schema immanentista e orizzontale (sussistere potenziale e ubiquitario dell’anima in basso). La dogmatica cristiana avrebbe poi scelto questo secondo schema in quanto esso sembrava salvaguardare maggiormente una spiegazione scientifica della Natura come luogo di presenza dell’Intelligenza creativa divina.
Comunque, però, aldilà delle differenze tra le due dottrine, restava il tratto assolutamente comune di una forte spiegazione metafisico-causale dell’esistenza corporale. E questo tratto è esattamente ciò a cui dobbiamo attenerci ora nel dare un volto alla spiegazione metafisica della nascita – l’ontologia metafisica cronologicamente antecedente che giustifica la nascita.
Le cose stanno al proposito nei termini che seguono. In quanto preceduta da una sostanza animica, la realtà individuale sic et simpliciter (quella che viene al mondo nella forma ben riconoscibile di un corpo composto di materia così come lo sono tutti gli altri corpi) trova una sua giustificazione non solo quanto al «perché esisto?» (in forza una causa antecedente o meno, ed in forza di quale causa?) ma anche quanto al «perché esisto in questo modo specifico?» (ossia perché sono come sono, un Io individuale irripetibile?).
Ebbene, bisogna dire al proposito che il primo genere di perché è senz’altro più sconfinante nel mistero e nell’oscurità (più intensivamente metafisico), mentre invece il secondo trova trattazione su un campo metafisico sì ma intanto anche squisitamente filosofico. Lo scopo di questa mia lezione è trattare solo del primo aspetto, proprio perché esso è di natura più propriamente metafisica. Ma comunque, prima di giungere a questo, è il caso di gettare almeno uno sguardo anche sul secondo aspetto, e cioè quello di natura più propriamente filosofica.
Il tema è quello dell’unicità individuale irripetibile – tema che non è affatto di scarsa importanza e che dovremo quindi trattare in una delle prossime lezioni. Si tratta per la precisione di quel tema dell’individuazione che fu poi il cavallo di battaglia della stessa metafisica tomista, a sua volta in continuità con quella aristotelica ed invece in profonda contraddizione con quella platonica. In poche parole l’individuo veniva qui spiegato come qualcosa che esisteva incondizionatamente ab aeterno, e precisamente su un piano metafisico sì ma intanto totalmente immanente. Ciò in quanto (almeno per Tommaso) esso era l’ente creato originariamente da Dio, e come tale costituiva un esistente assoluto e indubitabile (anche quando ancora invisibile non essendo ancora del tutto venuto alla luce) al quale erano da ridurre tutte le possibili qualità accidentali. Insomma l’individuo era per Tommaso quella “sostanza prima” (proté ousìa) di Aristotele alla quale erano da riferire tutte le qualità accidentali costituenti la “sostanza seconda” (deutéra ousìa). Di conseguenza l’unicità individuale irripetibile trovava una spiegazione nella sola immanenza (sussistenza previa già in basso) e non invece nella trascendenza (sussistenza previa solo in alto). Il che ci riporta poi molto direttamente alla profonda diversità della dottrina dell’anima tra Aristotele e Platone. Per il primo (ed in qualche modo anche per Tommaso) l’anima è già compresente all’individuo (in basso) in quanto ente già pienamente giustificato dal suo esistere assoluto – quindi l’ente individuale è già animato (vivente) fin dall’inizio (anche se solo potenzialmente). Per il secondo invece l’anima perviene all’individuo immanente in un momento solo successivo al suo immediato esistere primario, e precisamente gli proviene solo dall’alto (ossia tendenzialmente da Dio). E solo in tal modo il semplice ente individuale (di per sé indifferenziato) – esistente in forza dell’atto originario di emergenza dell’Essere o anche Creazione – si trasforma in un individuo unico e irripetibile, e cioè un autentico individuo.
Ora, se per un attimo equipariamo la sostanza individuale tomistico-aristotelica alla mera materia, risulta evidente che la visione platonica si allinea di per sé molto meglio alla visione cristiana; secondo la quale l’anima sopravviene alla mera esistenza corporale nel momento esatto della nascita. Per cui (almeno per me personalmente) continua a restare piuttosto strano il perché della scelta della dottrina aristotelica (in luogo di quella platonica) da parte della dogmatica cristiana nel corso del Medioevo. Ma va anche detto che Gilson ci mostra piuttosto dettagliatamente quanto difficile e contrastato fu in verità questo passaggio; dato che all’inizio l’aristotelismo (proveniente dalla cultura islamico-ebraica) fu visto come una vera e propria eresia in relazione con il platonismo che fino a quel momento aveva dominato la dottrina cristiana [Étienne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, VI, 1-2 p. VI, 1 p. 393-429].
In ogni caso non ci addentreremo oltre nella dottrina filosofica dell’individuazione. Dirò solo che nel XX secolo una grande pensatrice come Edith Stein, dopo essersi confrontata molto seriamente con la visione tomistico-aristotelica dell’individuazione, propose una spiegazione decisamente platonica (sebbene fortemente commista alla dottrina fenomenologica husserliana) dell’individualità irripetibile umana [Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010; Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018; Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D.
Tuttavia, come ho già detto, quella che ci interessa di più è la prima questione, e cioè quella più squisitamente metafisica, riguardante il «perché esisto» in relazione (o meno) ad una possibile causa.
Ed abbiamo visto che tale questione corrisponde più intensamente a quella dimensione di mistero ed oscurità che all’inizio abbiamo visto essere appropriata alla trattazione autentica del tema della nascita.
Dunque io esisto in quanto prima ancora del sussistere del mio corpo materiale – potenziale o anche (se si vuole) attuale, qualora si fissi l’ipotetico momento in cui il corpo comincia ad differenziarsi chiaramente dal nulla prima ancora che l’anima faccia ingresso in esso – vi è un qualcosa che già rappresenta totalmente la mia realtà individuale, ossia l’anima, e precisamente la «mia» anima spirituale. Si tratta insomma senz’altro della mia identità più autentica. La metafisica più ardita (e più sbilanciata in senso religioso) ha spesso voluto vedere in questo quella che potremmo chiamare la mia «identità occulta», ossia quel mio vero Io (certamente trascendente) che, nel corso della mia esistenza, viene occultato dall’Io immanente in quanto fatalmente determinato in modo molto decisivo dalle circostanze mondane. Il primo Io è infatti più autentico in quanto è incondizionato. Il secondo è invece fortemente condizionato, e quindi la sua vera natura è in parte occultata dalle circostanze. Ma di tutto ciò parleremo più avanti.
Fatto sta che io esisto così come sono (al modo di un corpo materiale) solo in forza di quella sorta di campo di forze spirituali (dunque del tutto immateriali) che è la mia identità animica. Ne consegue che la mia esistenza corporale-materiale è appena accidentale, e pertanto in qualche modo è perfino irreale (in quanto non è mai per davvero «sé stessa»); nel mentre invece la mia esistenza individuale più reale è quella spirituale ed immateriale (in quanto totalmente incondizionata dalle circostanze mondane). Quest’ultima, insomma (ossia quella animico-spirituale), è la mia più vera e reale identità. E quindi deve stare esattamente in quest’ultima la più autentica ed ultima «ragione» del mio esistere. Il che significa allora che (per quanto tale ragione possa restare inaccessibile alla mia coscienza corporeo-sensibile, cioè quella ordinaria e quotidiana) il mio esistere avrà sempre e comunque un suo senso, sebbene recondito.
Insomma io non esisto affatto casualmente, oppure, peggio ancora, in ragione di un nulla di senso. Non esisto invano. Naturalmente questo senso può venire molto facilmente rinnegato, dato che esso resta del tutto al di fuori della mia esperienza sensibile. Quindi, per poterlo affermare con la certezza che ha effettivamente (in base a tutto quanto abbiamo appena visto), occorre senz’altro una certa dose di dogmatismo fideistico, cioè bisogna essere capaci di sostenere l’incertezza sensibile con l’aiuto di una fede (affatto però disgiunta dall’intuizione intellettuale).
Ebbene, il dire che «io non esisto invano» rappresenta a mio avviso l’affermazione più forte che si possa fare rispetto alla nascita. E non è affatto un caso che essa sia ritrovabile soltanto nell’ambito di una metafisica che sconfina senz’altro verso la religione e/o la teosofia, ma intanto non sta in alcuna vera continuità con la filosofia (almeno con quella moderna). Non a caso è proprio in tale ambito metafisico che si innestano quelle dottrine teosofiche occidentali che (riagganciandosi più o meno direttamente ad orfismo, pitagorismo e platonismo) teorizzano un’incarnazione affatto causale dell’anima in un determinato corpo individuale ed in determinate circostanze mondane. E da qui tracciano poi un percorso esistenziale che (per quanto possa essere costellato da sventure ed insuccessi) sarà costantemente ed invariabilmente caratterizzato dal senso.
Detto questo, ritengo in realtà terminato il compito che mi ero prefisso in questa lezione. Abbiamo infatti dimostrato cosa può venire a significare la nascita se essa viene indagata per mezzo della filosofia. Ma solo tendenzialmente, perché ciò non accade senza l’indispensabile assistenza della metafisica più radicale possibile, cioè quella che è incline ad un’intensissima religiosità a sua volta capace di sconfinare perfino nella teosofia. Ma intanto questa filosofia metafisico-religiosa sembra perfettamente in grado di giustificare che la nascita è un fenomeno pieno di senso. E per questo è peraltro sufficiente ricorrere alla più universale e generale dottrina dell’anima, servendosi appena del suo nucleo più semplice, e quindi senza nemmeno impiegarla in tutta la sua profondità.
Naturalmente della nascita abbiamo in tal modo messo in luce appena un solo aspetto filosofico-metafisico, e cioè il suo senso. E lo stesso vale anche per la dottrina dell’anima, della quale abbiamo posto in evidenza il tratto più generale e nucleare. Tutto ciò significa, pertanto, che il fenomeno della nascita non è indagabile sul piano scientifico-naturale senza dover pagare il prezzo altissimo del vederne dissolversi totalmente il senso. Infatti su questo piano si possono senz’altro indagare fino all’ultimo dettaglio gli aspetti del «come» − fisica (e perfino astronomia), chimica, biologia (inclusa la teoria dell’evoluzione), fisiologia e patologia della nascita. E peraltro ciò può avvenire nella prospettiva di una ricerca scientifica che non cessa mai di accumulare, catalogare e organizzare nuove conoscenze. Però in tal modo non sarà intanto mai possibile comprendere nemmeno il più piccolo aspetto del «perché» della nascita. E bisogna riconoscere che quello del senso è senz’altro l’aspetto più importante della dimensione del «perché». Con esso ne va infatti per l’uomo (individualmente e collettivamente) del suo benessere psichico, della complessiva qualità positiva della sua esperienza e perfino della stessa integrazione sociale. Ne va insomma di quella ragionevole e media «felicità» dell’esistenza umana, che altrimenti viene totalmente a mancare. Una nascita che non ha alcun senso, finisce infatti per diventare un fenomeno del tutto casuale, che poi la nostra mente inquadra immediatamente nel contesto di un Fato del tutto arbitrario e quindi avvertito come gelidamente indifferente e crudele.
Tuttavia bisogna anche dire che ciò accade non solo quando la scienza empirica monopolizza totalmente l’indagine sui fenomeni della vita, ma anche allorquando la comprensione dell’esistenza (il suo «perché») viene affidata alla moderna filosofia nichilistica. Ma, come abbiamo visto nell’undicesima lezione, ciò accade in verità anche quando ci si affida un po’ troppo superficialmente alla filosofia in generale. In questo caso, infatti, il rischio non è quello dello svuotamento di senso dell’esistenza, ma è invece quello della sua mancata comprensione profonda. Si tratta insomma di ciò che accade allorquando ci affidiamo ai retori-divulgatori della filosofia.
In ogni caso apparirà chiaro che il fenomeno della nascita deve necessariamente assumere per l’uomo una dimensione intensamente etica, e quindi deve poter venire in qualche modo accostato (sebbene spesso in maniera anche problematica e difficile) alla dimensione del «bene». E questo sicuramente non può avvenire in alcun modo sul piano dell’indagine scientifico-naturalistica.
È ovvio che a quanto ho detto circa il senso si potrebbero aggiungere moltissimi altri contenuti metafisici.
In tal modo usciremmo però dall’ambito di una breve lezione (sconfinando così nello spazio di un trattato filosofico-metafisico sulla nascita), e pertanto dovremmo entrare nel dettaglio di molte idee, di molte dottrine e di molti autori. Devo quindi lasciare al lettore il compito di approfondire questi ultimi, indicando qui alcuni tra i tanti possibili percorsi di studio: –
1) dottrina orfico-pitagorica e platonica della reincarnazione o anche trasmigrazione delle anime.
2) dottrina dell’identità personale occulta, a sua volta in gran parte corrispondente a quella platonica del “Daimon”.
3) dottrina della tripartizione dell’anima, a sua volta corrispondente in Platone alla dottrina filosofico-politica (Repubblica) della stratificazione sociale (in filosofi, guardiani e commercianti-agricoltori).
4) dottrina vedico-vedantica della nascita, a sua volta in relazione alla dottrina del Fato ed a quella delle tre caste (i brāhmana o sacerdoti, gli kshatriya o guerrieri, ed i vaiśya o commercianti-agricoltori).
Per l’approfondimento di questi temi alcuni (tra i tantissimi possibili) riferimenti bibliografici potrebbero essere i seguenti:
1) Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Āśrām Vidyā, Roma 2008; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974
2) Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, II p. 47-76, I, I, VI p. 151-160.
3) Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, cit., I, IV, 1 p. 78, p. 97-105, I, IV, 2 p. 105-113, I, IV, 4 p. 129-127, II, I, V, I p. 191-194; Platone, Filebo, Bompiani, Milano 2006, 30ad p. 101-103, 47c-48a p. 165-167; Platone, Fedone, Laterza, Roma Bari 2005, IX- XVII, 64a-72e p. 19-45, XXI-XXX, 76b-81e p. 55-73, XXXVI-XXXVIII, 85e-89c p. 85-95; Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999 (Libri IV e X); Platone, Politico, Rizzoli, Milano 2005, 271d-275c, p. 203-217; Platone, Timeo, Rizzoli, Milano 2003; Giovanni Catapano (a cura di), Agostino. Sull’anima, Bompiani, Milano 2012.
4) Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I; Louis Dumont, Homo hierarchicus, Adelphi, Milano 2000,
Ovviamente mi sto limitando qui appena ad alcuni scritti ed autori basilari, ma l’elenco potrebbe essere davvero interminabile. Perciò mi permetto appena di menzionare, tra le altre, anche la profondissima dottrina dell’anima spirituale che fu elaborata da Edith Stein; della quale mi limito però qui a citare solo alcuni tra i testi dedicati a questo tema [Edith Stein, Der Aufbau, der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 2 p. 80-91; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9, 8 p. 385-387; Edith Stein, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Übersetzungen III, ESGA 23, X p. 259-262].

Prima di concludere vorrei però spendere qualche parola su alcuni aspetti davvero centrali delle dottrine appena menzionate.
Platone ci offre la possibilità di comprendere molto significativamente la natura di identità occulta che caratterizza l’anima spirituale in quanto determinante la nostra personale nascita. La sua indagine su questo tema attraversa l’intera sua opera, riguardando in particolare quell’etica socratica che consiste nel porsi costantemente in profonda sintonia con la misteriosa voce che non cessa di parlare nella nostra interiorità. Questa voce sarebbe stata poi ampiamente definita come «coscienza» in senso etico − e ciò tanto entro la morale religiosa (cristiana) quanto anche entro la morale filosofica a-religiosa. Ma intanto Platone dà a questa voce un concreto volto ed un concreto corpo, e cioè quelli del cosiddetto “Daimon”, il quale poi viene definito come null’altro se non lo stesso dio interiore (vedi voce bibliografica al punto 2).
E parlando in nome dell’orfismo, Raphael ci fa comprendere che questo Dio altro non è se non il Dioniso dei relativi misteri, e cioè il rappresentante di un’umano-divinità (diametralmente opposta alla demonicità “titanica”) che è poi molto simile a quella contemplata dallo stesso Cristianesimo [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004].
Ebbene, questa voce interiore daimonica è quella che in particolare ci ammonisce allorquando stiamo per commettere grandi errori etici (ossia veri e propri peccati), e quindi parla a noi in primo luogo in negativo (cioè ci ammonisce a non fare questo o quello). Essa appartiene però intanto ad una persona, e precisamente una persona divina. Per Platone (così come per Socrate) tale entità divino-personale era l’anima spirituale stessa.
E quindi da ciò dobbiamo dedurre che, così come la sostanza animica determina tutte le più rilevanti circostanze della nostra personale nascita, allo stesso modo essa (specie per il fatto di essere eterna ed immortale) «accompagna» costantemente la nostra esistenza dalla nascita in poi esattamente come una persona. E proprio come tale essa parla in noi in quanto nostra coscienza. Eccoci quindi di fronte al mito religioso dell’Angelo Custode.
In ogni caso, comunque si tratta nel complesso con ogni probabilità di una presenza personale che corrisponde alla nostra identità più vera ed autentica. Identità che pertanto trascende radicalmente la nostra evidentissima identità corporeo-materiale, e mondano-circostanziale, ovvero l’unica identità che noi riusciamo nei fatti ad attribuire a noi stessi. Quest’ultima corrisponde insomma a ciò che noi effettivamente pensiamo di essere (a causa dell’indubitabile esperienza di noi stessi che facciamo ogni attimo dal momenti in cui abbiamo coscienza di noi stessi). E dunque si tratta sostanzialmente di quell’essere fragile e barricato in sé stesso (a causa delle tremende paure che scaturiscono dall’impellente esigenza di difendere la nostra integrità corporea), che tutti noi in qualche modo abbiamo presente nel tentare di sopravvivere giorno per giorno alle insidie dell’esistenza, e che non a caso noi identifichiamo con lo spazio racchiuso entro i confini del nostro corpo. In qualche modo si tratta insomma del nostro Io più prosaico, e quindi insieme mondano, biologico, elementare, storico ed infine soprattutto puramente psicologico. Esso è dunque null’altro che l’Io immanente che a sua volta corrisponde alla nostra mente nella sua dimensione più fisiologico-naturale; ossia quel fascio di strutture funzioni che (nonostante una certa sua indipendenza) viene continuamente e fortissimamente determinato dagli eventi del mondo (specie dalle connessioni causali tra le cose) per mezzo del diaframma dei nostri sensi. Ebbene tale genere di Io è stato sempre relativizzato un po’ da tutte le discipline antropologiche che non fossero biologiche e psicologico-empiriche, inclusa la stessa filosofia. Nel secolo scorso proprio Husserl (raccogliendo così l’intera riflessione dell’Idealismo tedesco) contrappose a tale Io psichico quello che definì come ”Io puro”, ossia un’entità comprensibile in termini gnoseologico-filosofici ed affatto invece psicologico-empirici e naturalistici. Recentemente in filosofia si è affermata invece la tendenza diametralmente opposta, e cioè quella di riassorbire di nuovo tale Io trascendente nell’Io immanente rappresentato dalla mente empiricamente compresa (ossia quella della psicologia e della biologia).
Ciò però non ci deve interessare nell’ambito di questa lezione. Quello che deve interessarci molto di più è invece il fatto che, entro la filosofia metafisica vedantica, il cosiddetto “Sé” (ossia l’Io davvero autentico e indistruttibile) è stato identificato con l’Io trans- e super-personale divino che trascende l’Io umano non dall’alto ma invece impregnandolo dall’interno [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909]. Ci troviamo insomma di fronte a null’altro che all’umano-divinità della quale hanno sempre parlato sia la metafisica pagana ellenica sia quella cristiana. Ma, così come ci viene illustrato da Coomaraswamy, tale Io divino-umano equivale esattamente a quella che è la nostra più vera e autentica identità [Ananda K. Coomaraswamy, La reminiscenza indiana e platonica, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 5 p. 75-87].
In altri miei scritti avevo definito quest’entità come la nostra “identità occulta”, ossia quella che da un lato ci trascende totalmente (in quanto la nostra identità fattica, quotidiana e mondana non è nemmeno la pallida ombra di essa, specie in potenza e grandezza) mentre dall’altro lato ci appartiene intimamente e inalienabilmente. Tanto che a volte possiamo perfino intuirne la consolante e vivificante presenza.
Ecco allora che anche questo altro aspetto dell’anima spirituale – quale antecedente causale determinante della nascita – costituisce un ulteriore elemento di speranza che ci viene offerto dalla filosofia (ma intanto metafisica e metafisico-religiosa) nell’affrontare la nostra esistenza.
Ritornando quindi a ciò che abbiamo visto nell’undicesima lezione, possiamo concluderne che la filosofia ha sì da offrire all’uomo degli strumenti indispensabili per il suo vivere, ma intanto ciò non avviene affatto in maniera incondizionata. Infatti, quando ci si pone con questo genere di aspettativa di fronte alla filosofia, bisogna sapere dove e come essa può offrirci tali strumenti e dove e come essa invece non può farlo.

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In questa lezione affronterò un tema, quello dell’esistenza (includente le esperienze del nascere, vivere e morire), che è di per sé molto prossimo alla filosofia ma nello stesso tempo è anche molto lontano da essa.
Qui però non affronterò ancora i suoi aspetti specifici, ma mi limiterò invece a tentare di comprendere qual sia l’approccio più adeguato per affrontarlo filosoficamente.

Secondo i nuovi retori della filosofia − divulgatori nel senso della psicologizzazione da boulevard e dell’estrema semplificazione ad uso e consumo delle masse, ed inoltre anche stars della comunicazione brillante e disinvolta −, il discorso di questa disciplina riguarderebbe per definizione temi esistenziali. Tuttavia, intanto, non costituirebbe affatto un profondo pensiero dell’esistenza. Perché quest’ultimo, in quanto fondamentale, deve essere per definizione indipendente dagli aspetti immediatamente pragmatici e soprattutto utilitaristici (e questo è stato poi il pensiero dei grandi esistenzialisti moderni, da Kirkegaard fino a Heidegger e Sartre). Gli attuali retori della divulgazione ritengono invece che tale così complesso e profondo discorso fondamentale sia per natura destinato a venire tradotto (e proprio da loro!) in termini elementari e di facile consumo. In modo che poi possa venire quotidianamente utilizzato da chi di filosofia non si è mai occupato né intende occuparsi.
Ciò che viene proposto all’uomo comune è insomma una sorta di strano vissuto inconsapevole della filosofia. Un vissuto che tocca quindi i temi esistenziali per l’unico motivo che esso pretende di spostarsi sul piano della superficialità quotidiana – ossia quanto ogni giorno ed ogni attimo noi viviamo di fatto quasi senza accorgercene. Nel corso del XX secolo la filosofia aveva parlato di questa inavvertita ed irriflessa posizione esistenziale quotidiana come di una «ingenuità» che si opponeva per natura alla vera conoscenza del mondo (conoscenza specificamente filosofica). In quanto essa comportava un punto di vista di troppo basso profilo. Tale posizione, insomma, veniva accusata di non sollevarsi mai dal piano della completa immersione nel mondo da parte del soggetto giudicante e conoscente.
In tal modo veniva ritenuto totalmente ovvio che, per poter conoscere una qualunque cosa, io devo osservarla da una certa distanza; perché altrimenti non potrò mai abbracciarla con lo sguardo nella sua interezza. Un’intensa riflessione su questo aspetto venne svolta in particolare da Edmund Husserl e dai suoi allievi (specie Edith Stein) allo scopo di preservare la conoscenza veritativa (fondamentale e filosofica) da quella dell’uomo comune (immerso acriticamente nel mondo del quotidiano) ed anche da quella dello scienziato empirico (immerso totalmente nella miriade infinita dati numerici dettagliati che rappresentano ciascuna cosa nella sua interezza). L’ambizione di questa scuola era invece quella di cogliere la verità delle cose nella sua essenza estremamente concentrata, pura, semplice e immediatamente intuitiva. E con questo la filosofia moderna si allontanava sensibilmente dalla scienza empirica (nella quale era essa stessa sprofondata con il Positivismo) per tornare in prossimità al discorso di Platone sulla conoscenza innata della verità delle cose da parte della mente umana (discorso che era stato sviluppato soprattutto in dialoghi come il Teeteto e il Cratilo).
Bisogna però anche considerare che più recentemente vi è stato – nel contesto della stessa filosofia − un movimento di forte reazione contro l’assetto sempre più astratto della disciplina, con il suo allontanamento dall’esperienza esistenziale e dal percorso di maturazione spirituale che l’uomo dovrebbe sentirsi chiamato a compiere procedendo dalla nascita verso la morte. Uno dei protagonisti di questo movimento di reazione è stato Pierre Hadot [Pierre, Che cos’è la filosofia antica? Einaudi, Torino 2010]. Il quale giustamente ha fatto rilevare che la filosofia antica aveva costantemente conservato la sua prossimità alla vita mentre quella moderna se ne era del tutto distaccata. Ecco che la prima si muoveva sostanzialmente all’aperto e nei luoghi pubblici di discussione, mentre la seconda si rinchiudeva sempre più nelle scuole accademiche, fino a divenire poi poco a poco equivalente al solo spazio della mente del singolo pensatore.
Con la protesta di Hadot si delinea quindi una disciplina che potremmo definire «filosofia-come-vita».
Ebbene, pur essendo costretti ad avvalorare la critica husserliana all’«ingenuità» della prosaica immersione mondana, non si può fare a meno di dare ragione anche allo studioso francese nella sua così severa critica all’attitudine astraente della filosofia moderna. E dunque, una volta giunti a questo punto, bisogna assumere una posizione piuttosto equilibrata tra una filosofia che si occupa solo superficialmente dell’esistenza ed una filosofia che invece non se occupa affatto. Bisogna inoltre dire che anche il pensiero dei grandi filosofi esistenzialisti che ho citato prima (soprattutto Heidegger e Sartre) ha costituito molto più una complessizzazione pensante e astraente dell’effettiva esistenza, che non invece un pensiero avente davvero per oggetto l’esistenza stessa. In questo mi è sembrata estremamente chiarificante la definizione datane da Sciacca – egli ha parlato infatti di “filosofia dell’esistenza” e non invece autentica “filosofia dell’esistente”, in quanto la prima trascura di fatto quello che è l’oggetto primario di un pensiero condotto sull’esistenza, ossia l’uomo stesso che esiste [Michele Federico Sciacca, Filosofia e metafisica, L’Epos, Palermo 2002, II, VI,1-3, p. 148-167]. In maniera molto simile si è espresso Maritain deplorando quell’esistenzialismo filosofico il quale si era a poco a poco allontanato anni luce dall’iniziale presa di posizione kirkegaardiana, la quale aveva invece posto in primo piano il fenomeno emozionalmente più intenso dell’esistenza stessa, e cioè l’”imprecazione” (“doleance”) lanciata dall’uomo esistente (con massimo esempio in Giobbe) contro il dolore e la morte [Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014; Vincenzo Nuzzo, “L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain”, Dialeghestai, 31 Dicembre 2018].
In altre parole l’esistenzialismo non è stato altro che una scuola filosofica che ha appena preso a pretesto l’esistenza per rendere poi ancora più complessa, sofisticata ed astratta la propria riflessione. E si è trattato in effetti di una sorta di regolamento di conti all’interno della Filosofia; dato che gli esistenzialisti intendevano sostanzialmente reagire al tradizionale idealismo del pensiero occidentale affermando al suo posto un fortissimo realismo (secondo il quale non vi è in verità altro che il mondo nel quale siamo immersi quotidianamente). Ma in ogni caso il nichilismo di tale visione ha finito per produrre un pessimismo talmente radicale e distruttivo, che esso non si presta in alcun modo a venire fatto proprio dall’uomo comune. Insomma questo pensiero può al massimo informarci del fatto che l’esistenza è (nella sua natura ultima) solo e soltanto mortalità. Ma intanto non ci dice affatto come gestire praticamente tale così amara realtà.
Ben diverso era invece il tendenziale esistenzialismo della filosofia antica – entro il quale giganteggia addirittura quello di Platone, come ci viene testimoniato da Friedländer [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, II, XII p. 263-279] −, il quale si sforzava di fare in modo che gli uomini sapessero vivere pienamente proprio tenendo presente la mortalità come limite positivo e non invece negativo. Tale dottrina filosofica è stata infatti (con poche eccezioni) dominata dalla convinzione dell’immortalità dovuta alla costituzione animica dell’uomo.

Mi sembrava necessario chiarire tutto questo per poter introdurre il tema della trattazione filosofica dei primari eventi esistenziali, e cioè nascita, vita e morte.
Infatti questa trattazione potrebbe venire svolta al modo (troppo facile) dei moderni retori-divulgatori – cioè nei termini volgari e piatti di una sorta di una «psicologia filosofica» utilitaristica di auto-aiuto −, oppure potrebbe venire svolta al modo (troppo difficile) dei filosofi esistenzialisti. Nel primo caso il discorso piega in maniera davvero massiccia verso la prassi, e cioè verso una sorta di curiosa igiene «psico-filosofica» popolare, molto semplicistica e piuttosto edonistica, la cui promessa è sostanzialmente quella di aiutare l’uomo a vivere di più e meglio e a soffrire meno. Nel secondo caso invece il discorso raggiunge le profondità più abissali possibili del pensiero, e quindi non prende più in alcun modo in considerazione né la prassi né l’esperienza quotidiana dell’uomo comune. Oltre a ciò, tale approccio si guarda bene dall’introdurre qualunque forma di igiene «psico-filosofica» dell’esistenza. Anzi al contrario tende a mettere crudelmente a nudo il dolore ed il non senso dell’esistenza, in modo che tali aspetti diventino oggetto di una consapevolezza tanto cruda quanto incontrovertibile, e dotata quindi della forza necessaria per rigettare qualunque possibile illusione. Non per nulla la critica a questo pensiero da parte di filosofi come Sciacca e Maritain ne ha messo a nudo proprio la natura nichilistica.

In ogni caso – una volta fatta astrazione da queste due posizioni estreme − bisogna ancora chiedersi se comunque, molto in generale, la filosofia abbia davvero qualcosa da dire su nascita, vita e morte.
Ebbene, girandosi intorno nello scenario della filosofia attuale, si resta decisamente delusi in tale ricerca.
Infatti la disciplina si occupa oggi prevalentemente di sottilissime questioni logico-cognitive, che ineriscono sostanzialmente la teoria della conoscenza e magari la stessa neuro-scienza. E tra tali questioni non si troverà mai alcuna risposta alle domande di cui qui ci stiamo occupando. Dato che la filosofia moderna evita accuratamente i cosiddetti «grandi temi» della consapevolezza umana; ed inoltre si rifiuta anche categoricamente di «dare risposte» chiuse a domande aperte, ossia si rifiuta di offrire contenuti dottrinari determinati e definitivi. Si usa dire infatti che la filosofia prevede per definizione solo e soltanto questioni infinitamente aperte che sono destinate a non giungere mai a conclusione. In altre parole la moderna filosofia si rifiuta di costituire a qualunque titolo una forma di apprendimento di contenuti o addirittura erudizione. Personalmente ho criticato fortemente questo intendimento in un mio saggio dedicato alla disciplina [Vincenzo Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018].
A questo punto non ci resta quindi che rivolgerci alla filosofia antica, la quale rigurgita di trattazioni dei temi della nascita, della vita e della morte. Naturalmente è impossibile riassumere questa materia nell’ambito di una lezione come questa. Ma comunque possiamo almeno dire qualcosa di essenziale su questo complessivo tema e possiamo inoltre anche arrischiarci a indicare i comportamenti pratici che ci vengono proposti.
In generale direi che tre sono i principali approcci al tema che si possono ritrovare nella filosofia antica: − quello platonico (a sua volta molto prossimo a quello orfico-pitagorico), quello stoico e quello epicureo.
E bisogna subito dire che l’approccio platonico sfiora in molti punti l’insegnamento gnostico e spesso anche si intreccia intimamente con esso. Ma l’insegnamento gnostico è forse quello che offre la soluzione forse più coerente al tema che stiamo trattando; cosa che accade perché essa è senz’altro la più radicale.
La gnosi afferma infatti che la nascita è una vera e propria disgrazia, e quindi rappresenta la vera e propria morte all’autentica vita, ossia quella trascendente ed immortale (che è propria della sola anima spirituale e non invece del corpo). Pertanto la morte fisica deve essere considerata da noi benvenuta perché (nonostante le apparenze) ci riporta di fatto alla vita. E una tangibile traccia di questo approccio si ritrova addirittura in piena dottrina cristiana, laddove ad esempio Gregorio di Nissa (conducendo peraltro un discorso apertamente platonico) difende la certissima immortalità dell’anima [Gregorio di Nissa, Sull’anima e sulla resurrezione, in: Ilaria Ramelli, Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007].
Dunque, a causa della sua forte portata gnostica, il discorso platonico (e conseguentemente anche quello orfico-pitagorico) è quello davvero più forte che sia stato mai condotto su nascita, vita e morte.
Ma prima di affrontarlo più da vicino, vediamo brevemente cosa affermano lo stoicismo e l’epicureismo.
Lo stoicismo si richiama sostanzialmente ad un grandioso Ordine cosmico (retto dall’Intelligenza divina) entro il quale la Giustizia distributiva (invariabilmente ispirata al Bene universale) è tanto saggia ed infallibile quanto è intanto totalmente indifferente all’incondizionata felicità del singolo.
Bisogna precisare però che (a differenza del platonismo) questa intelligenza divina viene collocata a livello decisamente immanente (sebbene molto più in altro del livello umano-terreno), corrispondendo infatti sostanzialmente all’universo in quanto “Anima Mundi”. La saggezza umana consiste intanto nel conoscere a fondo quest’Ordine ed accettarlo pienamente e soprattutto con grande coraggio. Da ciò consegue quindi che la vita consiste in un intervallo tra nascita e morte, i cui tempi e la cui natura e qualità sono rigorosamente fissati dall’Intelligenza divina e pertanto vanno accettati come giusti e buoni per definizione. Eccoci allora davanti a quel ben noto amor fati tipicamente stoico, la cui caratteristica principale è l’accettazione di qualunque genere di destino ci sia stato personalmente riservato. Quest’ultimo infatti non va considerato affatto cieco ma invece altamente intelligente. Di questo pensiero c’è stato modernamente un riflesso addirittura cristiano (ed anche platonico) nel pensiero di Simone Weil [Simone Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, I p. 39-40; Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, II p. 171-198; Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67].
In sintesi lo stoicismo propone una visione largamente positiva non solo della vita inaugurata dalla nascita, ma anche perfino della morte che pone fine alla vita stessa. Tutto ciò ha infatti un senso ineluttabile entro l’intelligente economia universale; e pertanto prescinde totalmente perfino dall’evidenza schiacciante dei rovesci della sorte, del dolore e delle malattie. Ne consegue che, dalla nascita fino alla morte, l’uomo non può vivere esperienze negative che non possano (specie mediante la saggezza) venire convertite in positive.
L’epicureismo propone una ricetta etico-filosofica molto più semplice, e cioè quella che si basa sulla dottrina del piacere come virtù, laddove esso consiste poi in primo luogo nell’assenza di dolore.
Qui si riconosce insomma che, con la nascita, la vita può comportare cose molto spiacevoli, e quindi si ammette (come anche nella gnosi) che essa può tendenzialmente costituire un’esperienza sostanzialmente negativa. Tuttavia (in maniera molto simile al Buddhismo) si predispone anche un potente antidoto a tale negatività, ossia la ricerca costante e coerente non tanto del piacere fine a sé stesso quanto invece dell’assenza di dolore. Ecco che si prescrive all’uomo di rifuggire da tutto ciò che può comportare dolore, incluso ciò che potrebbe procurargli vanto in quanto austero esercizio di un’etica legata proprio al dolore (come il sacrificio eroico di sé per la Patria, o cose simili). Bisogna dire però che proprio su questo si appuntarono le critiche molto giustificate di Cicerone [Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Fabbri, Milano 1996] ad una visione che parla di virtù ma in verità propone invece una vera e propria anti-etica. E direi che questo svaluta non poco l’antidoto alla negatività esistenziale che viene proposto dall’epicureismo. Esso infatti può in via di principio anche essere sensato ed efficace, ma a che vale se intanto, per metterlo in pratica, bisogna macchiarsi di possibili nefandezze egocentriche e edonistiche?
In sintesi l’epicureismo propone insomma una visione potenzialmente negativa della vita inaugurata dalla nascita. E naturalmente vede il massimo di tale negatività proprio nella morte – essa viene infatti considerata una sorte di dolore all’ennesima potenza, e cioè l’effettivo dolore comportato dalla perdita di quel corpo che poi è l’unico a poter procurare piacere mediante i sensi.
Ebbene, prima di passare ora ad un’analisi sintetica della proposta platonica, dobbiamo porci molto onestamente una domanda che poi dovrà venire riproposta anche davanti a quest’ultima. La domanda è la seguente: – si può oggi davvero credere ai contenuti ed alle proposte della filosofia antica?
I moderni retori-divulgatori della filosofia sembrano disposti a credere di sì senza alcun dubbio. La loro proposta pedagogica si basa infatti proprio su un rapido ripercorrere l’intera filosofia antica e quasi unilateralmente pagana, alla ricerca della saggia felicità che essa proponeva all’uomo prima che si affermasse il Cristianesimo con il suo piuttosto rude ed esigente spirito ascetico. Ed in effetti abbiamo appena visto (con stoicismo ed epicureismo) che la proposta della filosofia antica non-cristiana consisteva in ricette in fondo non tanto difficili da realizzare (anche se alcune di esse esigevano una saggezza non del tutto alla portata dell’uomo comune).
Ma cosa può dire l’uomo di oggi rispetto a delle «way of life» come quelle stoica ed epicurea, visto che (a veder bene) esse si basano su dottrine che, per quanto pragmatiche, sono comunque sostenute da idee metafisiche? Ovviamente non le accetterebbe mai, dato che esso crede semmai solo alla scienza, ma non è invece in alcun modo disposto a credere in alcun genere di metafisica. E naturalmente quanto più quest’ultima è sofisticata e complessa, meno udienza essa può trovare presso l’uomo moderno.
Orbene, certamente il concetto stoico di Ordine cosmico intelligente non troverebbe oggi senz’altro alcun credito, e verrebbe quindi liquidato come una fanfaluca destituita di qualunque realtà. Quanto poi al concetto epicureo di piacere come assenza di dolore (altro concetto sostanzialmente metafisico, in quanto costituisce una sofisticazione del concetto incondizionato di piacere sensibile), nemmeno esso può venire accettato dall’uomo moderno se non si traduce prima nell’idea del piacere fine a sé stesso. A questo punto, quindi, gli attuali retori-divulgatori possono avvalersi di proposte come queste solo traducendole prima in una sorta di moderna psicologia a base antico-filosofica ma comunque in linea con i concetti intanto resi popolari dalla psicologia del profondo (e simili). Inoltre costoro non possono rendere popolari i concetti antico-filosofici senza intanto adattarsi alla posizione tipica dell’uomo moderno, che è quella ispirata molto in generale ad un egocentrismo edonista che nell’antichità era invece del tutto sconosciuto oppure decisamente disprezzato.
Comunque in ogni caso in questo modo ci troveremo infinitamente lontani da qualunque effettiva metafisica. Il che significa che ci troveremo infinitamente lontani anche dalla filosofia antica.
Tutto ciò significa quindi che, anche nelle sue forme tendenzialmente accessibili in quanto non troppo eticamente esigenti (come lo stoicismo e l’epicureismo), la filosofia antica ha di fatto ben poco da dire all’uomo moderno. Bisogna allora rendersi consapevoli del fatto che, anche nell’antichità, l’uomo comune veniva di fatto escluso dal godimento delle dottrine dei filosofi. La via di crescita spirituale proposta dalla filosofia era infatti patrimonio di pochi eletti (per profondità degli studi, per provenienza sociale e spesso anche per censo). E costoro coltivavano poi la disciplina in gran parte sulla base di una sapienza profondamente religiosa che era stata sempre patrimonio dei soli sacerdoti. Tale sapienza si era costantemente intersecata alla filosofia nel contesto delle grandi dottrine misteriche (a loro volta poggianti sulla mitologia e soprattutto sulle tre grandi teogonie: esiodea, omerica ed orfica) – offrendosi così agli eletti –, nel mentre poi intanto si manifestava (anche se solo parzialmente) nelle forme apertamente religiose vissute entro i culti popolari. E la filosofia che più mantenne il contatto con questa sapienza fu sostanzialmente quella pitagorico-platonica, con tutte le sue ampie propagini gnostiche.
Pertanto si può senz’altro dire che allora, quando all’uomo comune veniva voglia di approfondire i temi di pensiero legati intimamente alla sua esistenza, egli si rivolgeva semmai alla religione e non invece alla filosofia. Anche questo, quindi, allontana il patrimonio filosofico antico da quell’uomo moderno che, in media, di religione molto poco vuole sapere, oppure che si interessa solo di una religione asservita al suo sostanziale egocentrismo ed edonismo. Questo significa allora che molto probabilmente i moderni retori-divulgatori della filosofia, in verità fanno (piuttosto furbescamente) leva su questa serie di contraddizioni della moderna consapevolezza collettiva, in modo da portare avanti una proposta pedagogica molto dubbia, poco autentica e forse anche non troppo pulita.
E dunque, una volta chiarito tutto questo, possiamo ora passare alla proposta filosofica platonica (includendo in essa implicitamente quella pitagorica, anche se di essa non parleremo). Ebbene, attenendosi a Platone in persona, l’insegnamento platonico consiste in grandissime linee in un’ardente fede nella realtà del solo mondo trascendente, ideale e divino, e nella totale irrealtà, invece, del mondo immanente, cosale e terreno. Un credo estremamente simile a questo si può ritrovare in Oriente nella filosofia metafisica vedantica.
In base a questa visione, quindi, la vita intesa come esistenza (ossia l’intervallo che unisce la nascita alla morte) è per il platonico poco più che un vuoto sogno, ma comunque un solo vano (cioè un’autentica illusione profondamente ignorante), e peraltro costellato di pessime esperienze e di dolore. Anche qui, pertanto, si assegna alla vita una valenza decisamente negativa. Ma la sua intensità è molto maggiore che nello stoicismo, ed inoltre non vi è alcuna intelligenza cosmico-universale che la riscatti. Che ci sia insomma un Ordine cosmico intelligente (nel quale intanto Platone ed il platonismo credettero senz’altro), questo non cambia nulla nella sostanziale laidezza dell’esistenza immanente. Il riscatto sta dunque solo in quella radicale riduzione dell’immanente al Trascendente, che poi il neoplatonismo categorizzò (in maniera più chiara di Platone) come “ritorno” all’Uno. Ed in termini letterali (posti in luce soprattutto dalla gnosi) tale riduzione non è in fondo altro se non la morte fisica, in quanto liberazione dell’anima spirituale dal corpo, dalla terra, ed anche dal ciclo delle rinascite.
Senza soffermarmi troppo su questa visione – per i cui dettagli rinvio il lettore al mio libro [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017] –, direi quindi che in sintesi la proposta filosofica platonica consiste in una visione decisamente negativa dell’esistenza (e quindi di tutti i fenomeni della nascita e della crescita che poi, con la morte, sprofondano nel totale Nulla). Il platonismo però si guardò bene dal volere costituire un esistenzialismo nichilista, e quindi predispose contro di esso antidoti ancora più forti di quelli stoici (ed ancor più epicurei). Esso previde infatti una faticosa e lunghissima via di ascesi al divino-trascendente che poi corrispondeva alla conoscenza filosofica stessa (e quindi volle essere una saggezza molto più di quella stoica). Proprio qui, però, ci troviamo su un piano filosofico che più metafisico non potrebbe essere – corrispondendo in particolare alla famosa “seconda navigazione” platonica [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, IV-VI, I p.147-213] – e che inoltre più élitario non potrebbe essere. Dunque il platonismo costituisce di fatti la proposta filosofica che meno può venire offerta all’uomo moderno.
Se allora tentiamo qui di rispondere alla domanda che onestamente ci siamo posti prima (si può oggi credere davvero ai contenuti ed alle proposte della filosofia antica?), dobbiamo fornire una risposta ancora più negativa. Infatti, per quanto ancora oggi possentemente attraente, la dottrina platonica è quella che meno potrebbe venire accettata dall’uomo moderno. E questo senz’altro anche perché essa è intensamente metafisica addirittura nel senso dell’arditissima provocazione lanciata contro qualunque forma di materialismo ed immanentismo. Ma, se c’è qualcosa in cui l’uomo moderno crede più fermamente, ciò è proprio una visione immanentista e materialista.

Ecco allora che, giunti a questo punto, la nostra veloce passeggiata lungo tutta la filosofia, dovrebbe concludersi constatando che nemmeno la filosofia antica è in grado di proporre all’uomo moderno contenuti che egli possa utilizzare ed applicare nel corso della propria esistenza. Pertanto il nostro bilancio dovrebbe essere totalmente negativo, essendo obbligati a giungere alla conclusione che l’intera filosofia (antica e moderna) ha poco o nulla da offrire al moderno uomo comune.
Tuttavia affermare questo significherebbe oggi avvalorare da un lato lo sdegnoso isolamento al quale si sono dati i filosofi accademici – specie dopo che la loro disciplina (ormai almeno da quasi due secoli a questa parte) è stata rigettata come mezzo per comprendere il mondo – e dall’altro lato la pretesa della scienza empirica di essere l’unica forma di conoscenza valida e possibile. Ma ciò reca a conseguenze davvero paradossali, dato che proprio la scienza empirica ha dimostrato da tempo (nonostante la potenza di mezzi dispiegata) di essere capace di tutto tranne che di offrire una spiegazione soddisfacente del mondo vissuto dall’uomo. Essa quindi meno che mai può venire invocata nello sforzo di offrire all’uomo comune mezzi per comprendere profondamente quella sua esistenza che si estende dalla nascita alla morte.
Ed ecco allora che dobbiamo di nuovo umilmente comparire al cospetto della filosofia.
Ma quale filosofia?
Abbiamo appena visto che né la filosofia antica né tanto meno la filosofia moderna sono in grado di fare una proposta «filosofica» all’uomo comune. Ed abbiamo anche visto che la pedagogia dei moderni retori-divulgatori è in realtà solo apparentemente «filosofica», costituendo invece nei fatti null’altro che una banale psicologia popolare moderna appena riverniciata di filosofia.
A questo punto non posseggo allora altra risposta che quella più lapalissiana, ossia quella che rinvia l’uomo comune a null’altro che allo studio della filosofia. È ovvio però che, nello svolgere questo compito, è necessaria comunque una guida. La filosofia non è infatti per nulla una disciplina che possa venire studiata senza dirozzarsi prima da quella certa ingenuità del neofita che porta all’inizio a cadere in una vasta serie di tranelli. Devo confessare che io stesso sono caduto in questi tranelli allorquando ho ripreso a studiare filosofia da dilettante moltissimi anni dopo essere uscito dal Liceo Classico. Per la fattispecie, direi che si tratta soprattutto del rischio di affrontare lo studio della disciplina senza avere prima acquisito quella attitudine «critica» che è poi l’anima del filosofare, e che dispone ad assimilare contenuti di conoscenza non senza vagliarsi alla luce della loro effettiva sostenibilità. Tuttavia non bisogna eccedere troppo nemmeno in questo. Perché la filosofia non è affatto solo «metodo» (come si usa dire oggi), bensì è invece anche contenuti, ossia è sapienza, e cioè è conoscenza che si va realmente accumulando nel tempo.
In questo senso essa è quindi una conoscenza come qualunque altra.
Ecco che, allora, potrei dire che il «fare filosofia» da parte di chi non ha intenzione di essere filosofo – ma intanto nemmeno si vuole disinteressare di questa disciplina – può equivalere al dedicarsi a questo accumulo di conoscenza. Ed un modo per farlo può essere proprio quello di partecipare ad un programma di lezioni (e relativo dialogo) come quello che io sto proponendo. Il che non esime ovviamente da quelle letture personali che non possono venire sostituite da alcuna lezione. Ecco allora che la «lezione» può venire intesa proprio come quella guida (entro il tessuto complessissimo) della filosofia, della quale parlavo prima. Essa servirebbe insomma a percorrere alcune strade della filosofia che a loro volta sono fiancheggiate dalle grandi opere dei pensatori che tutti dovrebbero leggere.
Ebbene ciò non è affatto uno sfruttare la filosofia applicandola incondizionatamente ed immediatamente alle questioni esistenziali – il che implica il grandissimo rischio di non rispettare la natura assolutamente non-utilitaristica della disciplina, così distorcendola in maniera che essa non può più essere ciò che è davvero. Infatti la filosofia è e resta in primo luogo conoscenza, e conoscenza disinteressata. Non è invece in alcun modo vissuto immediato. Essa è infatti per definizione distacco (pensante) dal vissuto immediato.
E pertanto essa può al massimo venire vissuta come conoscenza. Questo non significa però affatto doversi identificare con la figura specialistica del «filosofo» professionista e militante – essendo così obbligati a rinchiudersi nell’ambito ristrettissimo di azione (spesso vera e propria torre d’avorio) che caratterizza tale figura. In questo caso siamo infatti davvero irrimediabilmente lontani dalla «filosofia-come-vita», e non c’è più alcun modo di avvicinarsi a quest’ultima. Per cui, a mio modesto avviso, nemmeno il filosofo professionista dovrebbe mai ridursi alle caratteristiche di questa figura totalmente chiusa nel proprio mondo di conoscenza. Quello che è certo è che non può assolutamente farlo l’uomo comune che intanto (del tutto correttamente) attribuisce un valore alla filosofia in quanto conoscenza che non può essere separata dalla vita.

Ecco quindi che abbiamo finalmente inquadrato il modo probabilmente più appropriato per applicare la filosofia ai temi esistenziali. E pertanto su questa sicura base, dalla prossima lezione in poi, potremo affrontare uno per uno gli aspetti specifici implicati in questi temi: –, la nascita la vita e la morte.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

Il tema della relazione tra Ragione e Fede ha attraversato di fatto l’intera filosofia occidentale non solo dall’avvento del Cristianesimo in poi, ma già addirittura a partire da pensatori come Pitagora e Platone, raggiungendo poi senz’altro il suo culmine nel Neoplatonismo.
Naturalmente comunque qualcuno potrebbe oggi chiedersi a che pro’ riproporre una questione come questa, visto che essa è ormai del tutto sparita dall’orizzonte del pensiero, oppure ha assunto in essa una forma estremamente diversa dal solito.
Ebbene innanzitutto va detto che non è esattamente così, dato che il tema viene ancora dibattuto perfino nell’ambito della così laica (se non atea) Filosofia Analitica. Esiste infatti addirittura una riflessione filosofico-analitica di stampo cristiano. Per non parlare poi di quella nuovissima filosofia di stampo buddhista che ha letteralmente conquistato larghi spazi di dibattito in tutto il mondo (anche se in particolare presso le scuole americane). Infine bisogna anche menzionare quella moderna riflessione pienamente atea ed anche anti-religiosa (anch’essa spesso di stampo filosofico-analitico), il cui scopo è liquidare per sempre la possibilità stessa di una filosofia religiosa.
Tuttavia basta gettare uno sguardo anche solo superficiale su questo complessivo dibattito per rendersi conto di quali livelli di astrusità riesce a raggiungere una riflessione filosofico-religiosa la cui principale ambizione è semmai quella di ricondurre l’esperienza religiosa ai criteri razionali quanto più acutamente critici possibili. Questo genere di riflessione può senz’altro soddisfare lo spirito con il quale oggi si fa filosofia, e cioè uno spirito sostanzialmente critico-analitico e quindi fortemente riduzionista rispetto a tutto ciò che è autenticamente metafisico e sovrannaturale (quindi anche fortemente contemplativo).
È evidente però che in questo ambito non è alcun modo possibile ritrovare i termini della tradizionale relazione tra Ragione e Fede. Infatti il massimo che oggi si riesca ad ammettere è una riduzione della Fede alla Ragione che è così completa da annientare di fatto la prima per lasciar sussistere solo la seconda.
Ciò che ne nasce è insomma una ben paradossale Ragione che pretende di includere in sé i caratteri di una Fede ormai completamente svuotata e snaturata.
Per tali motivi in questa lezione non mi soffermerò sul pur abbondantissimo materiale che ci viene offerto dall’attuale riflessione di tipo filosofico-religioso. E quindi offrirò al lettore riferimenti (testuali e di pensiero) che sono di genere totalmente diverso. Il che però significa anche doversi limitare ad un ambito oggi estremamente ristretto di pensatori e di testi; così ristretto che il filosofo accademico avrà facile gioco nel liquidare tutto questo come irrilevante «letteratura secondaria».
È quindi con questa limitazione che entrerò nel merito della questione. Pertanto a questo punto il lettore maldisposto in questo senso dovrà necessariamente smettere proprio qui di seguirmi.

Inizierò dunque prendendo a modello un libro che non a caso dichiara in partenza di voler avere poco a che fare con la filosofia, e cioè “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo” di Vladimir Solov’ëv [Vladimir Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma 2017].
Solov’ëv è stato un grande pensatore cristiano, e non a caso è stato paragonato addirittura a Tommaso d’Aquino nel suo sforzo di difendere filosoficamente le verità di fede. Tuttavia in questo libro egli rinuncia a qualunque argomentazione filosofica proprio allo scopo di tentare la difesa estrema del Cristianesimo dal suo incipiente totale sovvertimento. È infatti questo il pericolo che lui vede nel confuso spiritualismo di Tolstoj, che nel libro viene presentato (specie per mezzo di uno dei protagonisti dei tre dialoghi, e cioè il Principe) nella forma di un pacifismo incentrato in un’etica tutta laica, razionalista ed antropocentrica della non-violenza in quanto (presunta) primaria virtù cristiana. Secondo questa visione (che sente il bisogno di rivedere radicalmente il messaggio di Cristo ed anche la sua stessa figura storico-teologica) il vissuto cristiano è destinato a risolversi tutto nell’azione volontaristica improntata all’amore incondizionato verso il prossimo, e che inoltre rappresenterebbe addirittura l’unico modo per attualizzare il Regno dei Cieli.
Ne risulta, quindi, che il sussistere del Regno dei Cieli non dipenderebbe affatto dalla presenza trasfigurante del Cristo nella storia (come vita, morte e soprattutto resurrezione), ma dipenderebbe invece solo e soltanto dall’agire umano. È evidente che questa visione cancella di fatto dal Cristianesimo la presenza condizionante del Cristo – risolvendo così l’essere cristiani nella sola azione, e non più invece nella nuova ontologia mondana generata dal Cristo. Ed infatti Solov’ëv parla al proposito di un “Cristianesimo senza Cristo”. Ebbene, è proprio da tale visione che scaturisce secondo lui il progetto dell’Anticristo. Che è appunto un progetto di riforma del Cristianesimo nel senso della sostituzione definitiva del Figlio del Padre divino con il Figlio del Padre satanico. Costui è insomma un «anti-cristo» proprio perché si pone come un Cristo definitivamente nuovo e sostitutivo rispetto a quello originario e autentico. Si tratta quindi chiaramente del tentativo estremo di Satana di neutralizzare gli effetti della venuta del Cristo.

Ma cos’ha tutto questo a che vedere con la filosofia religiosa?
A mio avviso moltissimo, dato che la difesa soloveviana delle verità di fede sembra voler prepotentemente uscire dagli equivoci e dalle vaghezze di certa teologia retorica, spostandosi quindi dal piano dell’esercizio della pura Ragione al piano della più intensiva prassi. Infatti il personaggio principale dei dialoghi, il signor Z (che poi alla fine leggerà il manoscritto contenente il Racconto dell’Anticristo), fa da trait-d’union dei discorsi degli altri interlocutori proprio difendendo la tesi dell’esistenza effettiva del male nel mondo e quindi della conseguente necessità di eradicarlo totalmente (per mezzo dell’aperta “lotta al male”). Compito che egli affida di certo anche agli uomini, ma in primo luogo al Cristo in persona. Il che però è destinato ad avvenire solo alla Fine dei Tempi, ossia dopo la sconfitta definitiva dell’Anticristo e di Satana. Intanto, egli ci fa notare, allorquando Gesù esisté nel mondo, Egli stesso non poté fare altro che prendere atto dell’esistenza inoppugnabile del male. Proprio per tale motivo egli sostiene (appoggiando le tesi puramente pragmatiche del Generale) che una guerra sacra è stata sempre necessaria anche dopo la Resurrezione del Cristo. La storia infatti non è di certo cessata con questo fenomeno.
Ritenere invece il contrario (e cioè ritenere che l’esistenza del male è meramente relativa al non-agire dell’uomo in conformità con la volontà divina) espone al rischio di pensarla esattamente come gli spiritualisti pacifisti e laici (sul modello di Tolstoj e del Principe). Il che significa non concepire una lotta radicale al male, e quindi significa infine, in ultima analisi, essere di fatto complici del male stesso.
Questo implica però l’aver intanto elaborato una teoria dell’uomo e del mondo che è senz’altro filosofica, in quanto si muove su un piano decisamente metafisico. Non a caso nel contesto della più moderna riflessione filosofico-religiosa (ossia quella analitica prima menzionata) il problema del male ha un’importanza ancora del tutto centrale. E tuttavia Solov’ëv non argomenta affatto circa il male, come fanno invece oggi i filosofi analitici e come avevano sempre fatto anche i filosofi al servizio della teologia (con vertice in Tommaso d’Aquino). Egli si limita infatti appena a fare una constatazione riguardo all’esistenza certa di esso, anche se lascia che tale constatazione scaturisca da qualcosa di molto simile ai dialoghi platonici (e quindi da una sorta di dialettica argomentativa di tipo filosofico). Ma alla fine, allorquando bisogna andare davvero al dunque, egli non esita al ricorrere alla sola (del tutto a-filosofica) mitologia apocalittica, e cioè al Racconto dell’Anticristo. E quest’ultimo altro non è se non una fiction fanta-politica e fanta-religiosa circa eventi destinati a verificarsi tra il XX ed il XXI secolo (si narra infatti dell’avvento dell’Anticristo quale teologo erettosi a Monarca universale, dopo i disastrosi eventi di una spaventosa guerra tra Oriente e Occidente). Proprio nel corso di questi eventi ne sarebbe andato della sopravvivenza stessa del Cristianesimo, e quindi di quello che fin dall’inizio era stato lo scopo primario della filosofia religiosa cristiana, ossia l’apologetica. Nella sua introduzione al libro Solov’ëv afferma infatti che suo scopo non è quello di fare filosofia ma quello di fare apologetica.
Intanto ciò che mi sembra estremamente significativo è che egli attacca una visione del Cristianesimo che appare essere molto simile a quella oggi difesa da diversi teologi in veste di filosofi (e viceversa). Si tratta in particolare di una revisione del Cristianesimo in chiave secolarista, mondana, immanentista, laica e umanista. Infatti al centro di tale visione sta proprio l’argomento secondo il quale Dio (per mezzo di Cristo, il Figlio) non interviene in alcun modo nel mondo né in alcun modo lo ha per sempre trasfigurato (almeno potenzialmente); con la conseguenza che la dimensione naturale resta totalmente indipendente da quella sovrannaturale anche dopo la venuta del Cristo. Dunque il nucleo del vissuto cristiano sta anche in questo caso nell’agire secondo il principio dell’amore caritatevole e della costituzione di una comunità di fratelli. Anche qui dunque è assente qualunque ontologia cristica. Tanto che (com’è avvenuto effettivamente nel contesto dell’attuale crisi Covid-19) si è oggi ritenuto che il vissuto cristiano possa tranquillamente prescindere dalla carnalità dell’esperienza del Cristo, ossia dalla dimensione fisicamente cultuale dell’Eucaristia.
Ora, non vi è dubbio (almeno a mio avviso) che ciò equivale a trasformare il vissuto cristiano in una mera e vuota retorica. Il che comporta poi il fatto che diviene inevitabilmente mera e vuota retorica anche lo stesso discorso filosofico-religioso. La stessa cosa non accade però in alcun modo al discorso sviluppato da Solov’ëv. E ciò avviene senz’altro perché egli si mantiene sul piano della pura prassi. Ecco allora che il discorso filosofico-religioso si mostra a noi (alla luce di quanto ci mostra Solov’ëv) come qualcosa che comporta di per sé enormi rischi proprio quando viene impiegato allo scopo della difesa delle verità di fede. Esso infatti non difende un bel nulla, ma si limita invece appena ad argomentare. Ed inoltre, non appena le circostanze storiche lo permettono, addirittura si svincola dalla stessa ontologia sovrannaturale (ad esempio cristica) e si dispone ad argomentare su un piano unicamente mondano ed antropocentrico.
Giungeremo alla fine alle conclusioni su questo aspetto.

Ecco, una volta giunti a questo punto bisogna dire che parlare in maniera sistematica della filosofia religiosa (anche solo nella sua veste cristiana) è cosa impossibile a chiunque. Quindi tanto più è impossibile entro lo spazio di una lezione come questa. La sola sistematizzazione della filosofia religiosa cristiana ha occupato un numero sconfinato di volumi. Per cui citerò al suo proposito appena la classicissima opera di Gilson [Etiénne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014]. Quanto poi alla filosofia religiosa non-cristiana essa si estende nel tempo e nello spazio. Essa risale nel tempo fino all’intera filosofia pagana greca e romana (con tutto il suo retroterra misterico specialmente orfico-pitagorico ed esiodeo), ed inoltre ad opere sapienziali non greco-romane come ad esempio il Corpus Hermeticum egizio. Inoltre si estende nello spazio fino all’immenso patrimonio della filosofia metafisica indù e cino-giapponese (includendo ovviamente anche il buddhismo).
Pertanto in questa sede posso dire solo che – come ho del resto giustificato in molti miei scritti, pubblicati o presentati nel mio blog https://cieloeterra.wordpress.com – la filosofia religiosa davvero autentica si lascia riconoscere dal fatto che il relativo pensatore assume la Rivelazione come il luogo di verità conoscitive divino-trascendenti già espresse pienamente ed una volta per tutte. E si badi bene che tali verità sono insieme conoscitive e di fede senza la minima contraddizione tra le due dimensioni; motivo per cui non abbisognano né di una dimostrazione né di una difesa ad opera della Ragione. Questo pensatore, dunque, intenderà l’argomentazione filosofico-conoscitiva (Ragione) come qualcosa che poggia costantemente sul piano di queste verità e inoltre ad esse continuamente risale quali giustificazioni dei contenuti del proprio logos filosofico. In via di principio qui, insomma, non è affatto la Ragione a dimostrare e difendere la Fede, ma semmai è l’esatto contrario. In questo caso però i contenuti di Fede hanno già di per sé una valenza e validità pienamente conoscitive.
Ebbene, fatta eccezione (almeno in parte) per la grande corrente platonica, entro il pensiero cristiano la filosofia religiosa (in quanto relazione tra Ragione e Fede) non si è mai sviluppata secondo questo paradigma. Ma invece si è sempre sviluppata sempre secondo quello opposto, e cioè quello classico (ed ampiamente usuale) della giustificazione e difesa della Fede da parte della Ragione. L’altra posizione, invece (quella opposta che ho appena illustrato), è stata fatta propria e difesa da un pensiero o extra-cristiano (in gran parte pagano) o in forte odore di eresia, che ha trovato infine espressione dagli inizi del XX secolo in poi in quegli «studi tradizionali» (rappresentati in gran parte da René Guénon) secondo i quali l’accesso alle verità trascendenti è aperto a qualunque intelletto umano senza alcuna limitazione. La tradizione cristiana invece ha sempre sostenuto che la Ragione è del tutto impotente senza il soccorso della Grazia, e quindi non può in alcun modo accedere al piano delle verità trascendenti. In questo modo dunque la filosofia religiosa nella sua piena autenticità è eretica per definizione nel contesto della tradizione cristiana.
In ogni caso, una volta detto questo (e senza volere procedere oltre su questo piano), va precisato che ci sono stati non pochi pensatori cristiani che si sono approssimati al paradigma di filosofia religiosa che abbiamo appena definito come il più autentico. Lo hanno fatto senz’altro molti pensatori della tradizione platonico-cristiana, specie quelli della Patristica greca (Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore etc.).
Molto recentemente si può inoltre menzionare Romano Guardini (al quale ho dedicato diversi scritti) come un pensatore il quale ha argomentato sul solo piano della Rivelazione (più che del classico logos filosofico) in una maniera davvero magistrale ed anche esemplare. E in tal modo credo che egli abbia portato a chiarimento non pochi contenuti filosofico-religiosi in una maniera molto più efficace ed istruttiva di filosofi cristiani estremamente sofisticati ed agguerriti. Mi riferisco ad esempio a pensatori del calibro di Jacques Maritain e Edith Stein.
Naturalmente comunque questa moderna filosofia religiosa annega letteralmente in un contesto di pensiero che è infinitamente più lontano da un’autentica filosofia religiosa. E si tratta di quello scenario che ho tentato di schizzare all’inizio di questa lezione.
Ora il fatto che io abbia preso qui a base unicamente il libro di Solov’ëv ci mostra che l’assoluta apoditticità delle verità divino-trascendenti (verità di Fede che non richiedono affatto di essere giustificare e difese dalla Ragione, dato che esse addirittura incarnano la Ragione al suo massimo grado) non solo autorizza la filosofia religiosa a muoversi solo sul suo piano (senza intanto venir affatto meno ai doveri del filosofo) ma addirittura giunge a dispensare il credente dallo stesso filosofare. E così possiamo forse pensare di aver toccato davvero la filosofia religiosa definita nella sua ultima pienezza. Solov’ëv ci ha infatti dimostrato con il suo libro che la vera difesa delle verità di fede consiste nell’accettare pienamente la “lotta al male”.
E questo implica due cose.
In primo luogo implica l’atto fondamentale di umiltà (in genere molto sgradito ai filosofi) del ritenere la presenza nel mondo del Cristo Risorto come l’unico e solo presupposto per poter davvero pensare di essere in grado di combattere il male (in quanto uomini, ossia enti pienamente sottomessi a quelle leggi naturali mondane che in qualche modo sono il male stesso). Con ciò quindi il filosofo religioso cristiano si impegna in una fede che non ha più alcuna giustificazione qualora la presenza del Cristo venga considerata secondaria (“Cristianesimo senza Cristo”).
In secondo luogo implica la prassi, ossia l’impegnarsi concreto e fattivo nella lotta al male. E questo comporta il rigetto da parte del filosofo religioso di qualunque etica relativistica, oltre alla piena disponibilità ad accettare di sporcarsi le mani con le necessità belliche implicate dalla storia. Infatti, in attesa della nuova venuta del Cristo, si può avere una speranza di limitare il male solo opponendosi ad esso in maniera esplicita e fattiva. Il che implica poi che il cristiano non può in alcun modo ritenersi «del-mondo» (magari utilizzando la facile scusa di dovere “a Cesare quel che è di Cesare”), ma invece deve considerarsi unicamente «nel-mondo-ma-non-del-mondo».

Ecco, credo che qui ci possiamo fermare. Viviamo oggettivamente in tempi molto estremi. E quindi forse è arrivato davvero il momento di parlare di meno e fare di più. In questo senso, quindi, la stessa più autentica filosofia religiosa è arrivata al redde rationem non meno di quella non autentica.
Anche per essa è giunta insomma il momento in cui è impossibile dire che il solo filosofare sia sufficiente a difendere quella Fede che intanto viene minacciata molto concretamente da Forze del Male che sono divenute estremamente soverchianti.
In ogni caso, dato che abbiamo trattato qui il tema in una maniera solo molto settoriale, è estremamente probabile che dovremo riprenderlo nel corso delle prossime lezioni.

I- Introduzione. Il personalismo e la persona.
Recensisco qui il libro di Paul Ricoeur che tratta della persona [Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2015] e su questo baserò la mia nona lezione di filosofia. Il commento di tale opera mi sembra particolarmente importante dato che l’Autore ci offre in questo libro un punto di riferimento del tutto nuovo entro la visione personalista. E spiegherò dopo in che senso ciò mi sembra importante nel contesto delle nostre lezioni.
Prima di entrare nel merito bisogna però dire brevemente cosa va inteso con i termini-concetti di «persona» e «personalismo». Innanzitutto va detto che il personalismo si è sviluppato soprattutto in Francia all’inizio del XX secolo ad opera di Mounier, con l’apporto poi di altri pensatori (anche antecedenti) tra i quali Maritain e in parte anche Simone Weil. Va peraltro sottolineata la stretta affinità tra Mounier e l’antecedente pensiero di Peguy [Nunzio Bombaci, “Il Pèguy di Mounier”, in: G. Fidelibus (a cura di), “Dopo Péguy. In presenza di Péguy”, Prospettiva Persona, XXIV, 91 (2015) 39-44]. Peguy aveva sviluppato la sua opera a cavallo del XIX e XX secolo ed aveva allora già apportato al personalismo quei fondamentali elementi cristiano-cattolici, che si ritrovano anche in Mounier e Maritain. Vanno poi annoverati a questa corrente di pensiero anche pensatori tedeschi come Max Scheler, Paul-Ludwig Landsberg e Romano Guardini. Personalmente (da studioso della sua opera) mi permetto comunque di aggiungere a questa lista anche la pensatrice ebreo-tedesca Edith Stein con la sua riflessione sull’”Essente” (quale immagine speculare del Logos divino e per questo individuo unico assolutamente irripetibile). Naturalmente Scheler, Guardini e Stein si muovono sulla stessa fondamentale linea cristiano-cattolica sulla quale si mossero anche i pensatori francesi. E pertanto è evidente che il personalismo ha sempre avuto una vena cristiano-cattolica che fu non solo molto ampia ma fu anche centrale nella sua ispirazione. Ma in particolare la presenza congiunta di Maritain e Stein in tal contesto lascia emergere entro il personalismo un’altra ed ancora più fondamentale presenza filosofica (anch’essa cristiana), e questa volta decisamente passata, ossia quella di Tommaso d’Aquino. Entrambi i pensatori furono infatti fortemente influenzati dalla visione di quest’ultimo e quindi guardarono alla persona in particolare come a quello specifico «atto di esistere» specificamente umano che per loro rappresentava poi la soggettualità per eccellenza. Personalmente ho dedicato a questo una specifica riflessione filosofica [Vincenzo Nuzzo, “L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain”, Dialeghestai, 31 Dicembre 2018].
Comunque le linee ispiratrici di questo movimento di idee possono far meglio comprendere al lettore perché sto proponendo (come lezioni di filosofia) questa serie di mie recensioni di testi di Ricoeur. Il personalismo infatti fu un tentativo (sebbene piuttosto disperato, almeno secondo il nostro Autore) di reagire alle opposte corruzioni (specialmente etico- e politico-filosofiche, oltre che socio-psicologiche ed infine francamente politico-ideologiche) delle idee di soggetto e di Io che intanto la filosofia moderna aveva introdotto con Cartesio, pervenendo poi alla fondamentale riflessione di Kant (e poi estendendosi in avanti fino alla “coscienza” di Husserl ed al “Dasein” di Heidegger). Tali opposte corruzioni erano state rappresentate da un lato dall’esaltazione (non poco aggressiva) del soggetto personale nel contesto dell’individualismo, e dall’altro lato dalla profonda mortificazione del soggetto personale nel contesto dei Totalitarismi. A ciò va aggiunta però anche la curiosamente paradossale esaltazione del soggetto in quanto Io che era avvenuta nel contesto dell’idealismo hegeliano (poi ripreso dalla sua sinistra, e quindi da Marx), con la coincidenza di tale entità con la Storia intesa come una sorta di trascendente super-Persona, ossia una Totalità. Qui insomma il soggetto stesso diveniva una Totalità. E non può venire ignorato che questa idea ha poi contribuito non poco ai Totalitarismi; i quali poi avrebbero mortificato ed oppresso intollerabilmente l’individuo e gli individui concreti.
In ogni caso va sottolineato come tutto quanto abbiamo appena detto ci lascia intravvedere un aspetto che vedremo poi sviluppato molto precisamente da Ricoeur. Infatti, entro il discorso appena fatto, il «soggetto» quale individuo (una volta posto a confronto con le forze politico-sociologiche del nostro tempo) ci è di fatto già apparso come una «persona», ossia come un soggetto colto in primo luogo nella sua dimensione di «esistente», e precisamente con tutte le implicazioni assiologiche che sono proprie del suo esistere.
Insomma direi che la problematica filosofica del personalismo si lascia ben appaiare a tutto ciò che abbiamo già visto sull’idealismo filosofico e sui concetti di coscienza, soggetto ed Io. Non a caso è tra l’altro proprio di questi ultimi che parla Ricoeur nel libro che stiamo recensendo.

II- Ricoeur. Un nuovo concetto di persona.
Ebbene il nostro Autore può venire dunque considerato come una sorta di punta di lancia del personalismo, che si diparte dai suoi trascorsi pre- ed ante-guerra e si prolunga fin dentro l’attuale post-modernità. E lo fa, come abbiamo detto, proponendoci punti di riferimento completamente nuovi per il concetto di persona ed anche per quel personalismo nel nome del quale ancora oggi è forse possibile parlare almeno in via di ipotesi. Non a caso lo stesso Ricoeur sottolinea (come vedremo) l’irrinunciabilità di fatto del concetto di persona per qualunque riflessione attuale sull’uomo, nonostante la crisi storica che tale concetto ha senz’altro vissuto.
Non a caso il punto di riferimento offerto dall’Autore è nuovo innanzitutto perché egli ci mostra come di fatto il cosiddetto “personalismo” (per il quale egli si riferisce soprattutto a Mounier) non solo non esista più, ma sia stato addirittura anche sconfitto per sempre da forze di pensiero molto più agguerrite di esso [Paul Ricoeur, La persona… cit., I p. 21-37] – e cioè essenzialmente l’esistenzialismo ed il marxismo che ad esso furono contemporanei (ma anche concorrenti), e poi lo strutturalismo e il neo-nietzschianesimo che infine lo spazzarono via. Personalmente non riusciamo a lasciarci convincere del fatto che queste due visioni abbiamo davvero detto l’ultima parola filosofica sulla persona. Ma comunque ciò che dice Ricoeur è estremamente probabile almeno sul piano storico-filosofico e anche più generalmente culturale. Tuttavia la cosa non finisce affatto qui, perché a tutto ciò l’Autore aggiunge anche che il concetto di persona è intanto sopravvissuto al personalismo. E peraltro lo ha fatto non solo senza perdere valore ma addirittura raddoppiandolo.
Egli ritiene infatti che, dopo la psicanalisi freudiana e dopo la Scuola di Francoforte, i concetti fino a poco fa impiegati per designare ciò che è «persona» (coscienza, soggetto ed Io) non siano affatto più sufficienti a individuare e designarne (filosoficamente) la natura ed essenza. Ne risulta che il concetto di persona va per lui pienamente e legittimamente ereditato dal personalismo.
Tuttavia egli ci fa in più occasioni capire [Paul Ricoeur, La persona… cit., I p. 21-37, II, 1 p. 39-48] che su tale concetto va sviluppato un discorso più fenomenologico (ovvero descrittivo) che non filosofico (ovvero analitico). A suo avviso infatti il vero e proprio più recente “pensiero” avrebbe comunque definitivamente superato il concetto di persona. Ed ancora una volta, se è vero che su questo è possibile fare obiezioni sul piano filosofico, tuttavia non vi è dubbio che le cose stanno davvero così almeno sul piano storico-filosofico. Infatti è evidente che il pensiero più moderno si è dedicato ad una vera e propria demolizione del concetto di persona. Una sintesi di tale tematica può venire ritrovata in un articolo dedicato espressamente ad essa [Enrica Lisciani Petrini, “Fuori dalla persona. L’impersonale in Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze”, Daímn, Revista Internacional de Filosofía, 55 (2012), 73-88].
Ecco allora che la persona come “via” ancora più che aperta (sopravvivente al personalismo) rappresenta per Ricoeur il campo di un discorso extra-filosofico che finisce in definitiva per costituire una “fenomenologia della persona”. È pertanto esattamente in questa chiave che dobbiamo intendere il pensiero della persona così come ci viene proposto dal nostro Autore. Esso può insomma svilupparsi soltanto entro una cornice specificamente fenomenologica. Ricoeur infatti chiarisce che si tratta di prendere in esame (descrivendoli) gli aspetti concreti della vita della persona, ossia (direi) il «fenomeni» mediante i quali la persona concretamente si presenta a noi nella realtà – linguaggio, azione, racconto, vita etica. Si tratta insomma della trattazione della «persona-come-azione», o meglio ancora dell’«esistenza-personale-come-vita».
Pertanto, riportandoci agli aspetti della visione steiniana della persona (comunque senz’altro per molti versi molto lontani da quanto dice il nostro Autore), direi che si tratti di quanto ella definisce come “vita spirituale” dell’Io [Edith Stein, Der Aubau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien , VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma , V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365]. Inoltre, riportandoci anche alla nostra antecedente recensione di un testo ricoeuriano [Vincenzo Nuzzo, “Paul Ricoeur. Cosa sono e cosa fanno la memoria e la storia (rispetto a ciò che è e fa la filosofia)? Ontologia fenomenologica della memoria-storia”, in:
< https://cieloeterra.wordpress.com/2020/02/16/ottava-lezione-di-filosofia-paul-ricoeur-cosa-sono-e-cosa-fanno-la-memoria-e-la-storia-rispetto-a-cio-che-e-e-fa-la-filosofia-ontologia-fenomenologica-della-memoria-storia/ >], direi che in tal modo emerge anche lo specifico intendimento della fenomenologia da parte dell’Autore – ossia la sua valenza di descrizione realistica delle concrete oggettualità mondane.
Ebbene proprio in relazione a questo la visione ricoeuriana può venire considerata come un del tutto nuovo punto di riferimento entro un possibilmente riattualizzato personalismo (che però non abbia più affatto gli aspetti dogmatici di “- ismo” che vengono giustamente deplorati dall’Autore).
Il nuovo punto di vista consiste nel fatto che l’Autore non ci ripropone affatto più la persona come “sostanza”, bensì invece come prodotto di quell’azione umana volontaria che (almeno in via di principio) resta sempre tendenzialmente aleatoria. Precisamente egli parla di persona come “attitudine” (secondo Eric Weil) e come entità costituentesi dinamicamente in risposta alla “crisi” (secondo Paul-Ludwig Landsberg) rappresentata dallo svanire dell’ordine universale di valori.
Gli aspetti specifici della persona, che così emergono, sono comunque squisitamente etici. Ma lo sono in una maniera molto specifica, ovvero nel senso della presa di posizione del soggetto in risposta all’autentica mobilitazione, i cui segni egli riconosce nelle circostanze esterne. Cosa che ha poi come conseguenza il suo abbracciare un preciso compito da svolgere, verso il quale si sente impegnato e dal quale da questo momento in poi si sente strettamente vincolato. E questo vincola dunque la persona (intanto appena insorta) in particolare alla dimensione “trans-personale” che è rappresentata dalla comunità. Una dimensione che però vede ancora protagonista la presenza della realtà personale. Proprio in tal senso quindi entro di essa si delinea quell’alterità (essa stessa persona) verso la quale va tutta la sollecitudine della persona nel sentirsi impegnata in un compito i cui aspetti principali sono soprattutto drammatici (se non tragici), ossia riguardano gli aspetti negativi che toccano l’altro (l’”intollerabile” che mobilita la persona è rappresentato proprio da tali aspetti).
È insomma solo così che sussiste ciò che è «persona». Cioè di fatto essa non sussiste prima che avvenga la risposta del soggetto agli eventi ed alle circostanze – ossia la persona è qualcosa che «insorge», e non qualcosa che in primo luogo «esiste». Essa è cioè appena un prodotto dinamico dell’azione iniziata e svolta dal soggetto, o anche dall’Io o dalla coscienza (che concorrono a costituirlo). Quindi, prima che tale azione venga posta in opera, là dove ora vediamo la persona c’era invece prima solo un vuoto.
In ogni caso Ricoeur affronta direttamente la struttura della persona presentandola come ternaria secondo la formula seguente: – “auspicio di una vita compiuta – con e per gli altri – all’interno di istituzioni giuste” [Paul Ricoeur, La persona… cit., II, 1-5 p. 37-71]. Si tratta di una struttura triadica che è in primo luogo etica (“triade dell’ethos”) in perfetta obbedienza a quanto abbiamo appena detto circa lo stesso atto originario di costituzione della persona. Ma entrando più profondamente nel merito di questa triade bisogna dire che i suoi tre termini equivalgono nell’ordine al soggetto auto-costituito come persona nella relazione con sé stesso, al soggetto costituito come persona nella relazione inter-personale (ossia entro la relazione con l’”altro”), ed infine al soggetto in relazione con «gli altri» sul piano “istituzionale” della persona, ossia il piano della specifica relazionalità sociale. E qui si delinea il piano più oggettuale della dimensione personale, ossia quello della comunità e della società, entro il quale si sviluppa poi la dinamica politica e giuridica. Tale piano è comunque dominato anch’esso più che mai dall’etica; in quanto operano in esso quei “modelli di eccellenza” (termine desunto da MacIntyre) che secondo l’Autore costituiscono regole di azione ispirate specificamente dal criterio del «meglio» (e quindi lasciano vivere le istituzioni in forza di ciò che è buono in quanto giusto e giusto in quanto buono). Insomma ciò di cui egli parla a tale proposito non è altro che l’antico concetto greco di «buona vita», ossia vita virtuosa.
Ricoeur sviluppa (successivamente nel testo) tutte le possibili variazioni della struttura triadica della quale abbiamo appena parlato. Non crediamo però che sia opportuno (nell’ambito di una recensione-lezione) entrare nel merito degli aspetti specifici del suo discorso (altrimenti dovremmo riportare il testo dell’intero libro). Per cui ci limiteremo a trattare solo di alcuni più importanti aspetti, e comunque in modo solo molto sintetico.
Parleremo pertanto prima un po’ più approfonditamente della triade stessa.
Il primo termine soggettuale è per l’Autore il “sé”, e non invece l’Io, dato che quest’ultimo (in quanto entità per definizione solipsistica ed inoltre affatto incline alla dimensione relazionale) è del tutto insufficiente a configurare una persona. Abbiamo infatti visto che la persona è per Ricoeur intanto dinamica in quanto essa insorge reattivamente, e quindi di fatto non sussiste originariamente (come fa invece l’Io). In altre parole insomma il “sé” insorge per un atto riflessivo (simile a quello che caratterizza la coscienza egoica per Husserl), ma solo nella misura in cui intanto è proiettato fuori di sé stesso. In altre parole il “sé” è da considerare una realtà ben più relazionale che non invece puramente cognitiva. In ogni caso il correlato distintivo di tale entità è specificamente etico-emozionale, e cioè è la “stima di sé”, ovvero è il cogliere sé stesso (sempre però insieme all’altro) nel pieno della dignità di persona. E questo ci porta molto in prossimità di quello sviluppo della persona che Guardini ha voluto vedere nel cammino verso il “tu” [Romano Guardini, Die Welt. Welt. Weltverschließung und Weltoffenheit. Die Welt als »das Ganze«, »ein Ganzes« und das Mächtige, in: Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988, II p. 74; Romano Guardini, Die Welt. Welt, Weltverschließung und Weltoffenheit. Die Grenze und das Nichts, ibd. III p. 80-83; Romano Guardini, Die Person. Der personale Bezug. Das Ich-Du-Verhältniss, ibd., I-II p. 132-136; Romano Guardini, Die Person. Die Person und Gott. Die menschliche und die göttliche Person, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., ibd. I p. 143].
Sul secondo aspetto della triade non c’è molto da aggiungere. Circa il terzo aspetto c’è però da dire che al suo riguardo l’Autore sviluppa un discorso che intende essere ben più ampio di quello di Mounier. Egli sostiene infatti che il pensatore francese non includeva la dimensione relazionale di tipo sociale nel campo della realtà personale. E proprio per questo era poi costretto a dare alla società un volto iper-personale del tutto utopico se non mitico; ossia era costretto a considerarlo una sorta di «Persona di persone», cioè di fatto un’estensione totalizzante della persona individuale stessa. Solo così era dunque per lui possibile non postulare un conflitto tra “comunità” e “società”, laddove a quest’ultima venivano negati i caratteri di una realtà personalistica.
Di conseguenza, entro tale visione utopica, alla politica non poteva venire attribuito un carattere realisticamente positivo. Carattere che invece Ricoeur rivendica in pieno, nel sostenere proprio l’esatto opposto di una visione utopica – e cioè nell’ammettere che il campo sociale prevede relazioni interpersonali che non escludono affatto i conflitti, ma intanto prevede espressamente l’ideale di una “giustizia distributiva” che suddivide esattamente il potere. E qui a suo avviso si può anche parlare esplicitamente di amore. Questa serie di fenomeni obiettivi della dinamica comunitario-sociale hanno quindi il potere di controbilanciare molto efficacemente la dimensione tendenzialmente a-personalistica e non etica di ciò che è “società”.
Pochissime parole vorremmo spendere per la parte del libro in cui egli chiama in causa la filosofia del linguaggio ed in particolare le leggi della mente esposte da Strawson [Paul Ricoeur, La persona… cit., II, II p. 48-57]. Qui in particolare egli sostiene che, se la persona umana è azione, essa non può che essere anche linguaggio (dato che l’uomo è essenzialmente un ente parlante). Il che chiama poi in causa espressamente (nella definizione della persona) tutto ciò che è discorso, narrazione, racconto, e quindi tutta la dimensione collettivo-comunitaria connessa a questo. Su tale base egli ricostruisce quindi i termini della struttura ternaria della persona. Lo fa affermando in particolare che la persona nella sua pienezza compare solo nella dimensione “pragmatica” del linguaggio e non invece nella sua dimensione “semantica”. In quest’ultima dimensione la persona è infatti ancora troppo puramente linguistica, per cui è solo grammaticale (nomi, pronomi etc).
Pertanto solo sul piano pragmatico del linguaggio – ossia quello in cui il linguaggio stesso è produttivo (ovvero è solo azione dotata di senso) e quindi è “interlocuzione” – compare la persona nella sua pienezza in quanto posta in relazione con l’altro. Compaiono cioè finalmente per davvero un “io” e un “tu”, e cioè due entità personali concrete poste per definizione in reciproca relazione.
Pertanto solo su questo piano si ripresentano tutti gli elementi della triade personale entro l’ambito del linguaggio. E lo stesso accade anche laddove si prende in esame un aspetto molto specifico del linguaggio stesso, ossia quello delle proposizioni che non sono più solo astrattamente predicative (riguardanti l’«è» come mera copula) ma descrivono in particolare l’azione, ossia danno un volto alla relazione esistente tra il soggetto agente (attivo) e il soggetto paziente (passivo). Proprio qui si delinea quel fondamentale atto – che già abbiamo a sufficienza trattato nell’altra nostra recensione di Ricoeur – che è la riconduzione dell’azione all’agente. E quindi, entro la serie di conseguenze etico-giuridiche che ne scaturiscono (il cui culmine è l’”imputabilità”), si delinea in particolare quell’atto di “promessa” che costituisce il nucleo sia della triade della persona sia anche del più originario atto costitutivo della persona (che abbiamo descritto prima). La promessa è infatti per definizione un atto “fiduciario” basato appunto sulla “parola”. Esso dunque più che mai vincola la persona al riconoscimento di sé stessa (come realtà permanente) nel mentre intanto la vincola anche agli altri; riconosciuti come persone in quanto degni di non vedere delusa l’aspettativa che hanno nella promessa fatta.
Il tema della persona come persistenza di un’identità ritorna poi anche nella parte finale del libro [Paul Ricoeur, La persona… cit., II, IV p. 64-71], nella quale Ricoeur riconduce la persona alle due diverse forme polari mediante le quali essa si presenta nella narrazione – cioè la “medesimezza” (o “idem”) e l’”ipseità” (o “ipse”). La prima è per l’Autore l’identità più artificiosamente stabile e integra (ossia quella tipica del tradizionale romanzo), mentre la seconda è l’identità più realisticamente instabile e disintegrata. Ebbene egli ritiene che anche nella realtà vi sia un continuo passaggio da una polarità all’altra dell’identità personale. In tal modo dunque si può parlare di una sostanziale “identità narrativa” propria della persona come essenza. E questa poi si ritrova anche nel collocarsi della persona entro il tessuto delle dirette relazioni interpersonali ed anche di quelle sociali – come un suo letterale crescere entro le storie di altri (sia quelle costitutive della comunità locale sia quelle più propriamente leggendario-letterarie).

III- Conclusioni.
La proposta ricoeuriana di riproposizione e riforma del personalismo mi sembra estremamente convincente per il fatto che essa prende atto di precise evidenze storico-filosofiche (ed in fondo anche dottrinarie) ed anche per il fatto che essa dà una ben fondata risposta al bisogno (piuttosto oggettivo) di rifondare e ristrutturare il concetto di persona. Tuttavia va anche detto che la persona anti-sostanziale e puramente virtuale-dinamica (risultante da tale ristrutturazione) sembra assomigliare un po’ troppo alla moderna dottrina filosofica anti-personalista del “no-self”, che poi si ispira a sua volta direttamente al buddhismo. Personalmente ho criticato questa dottrina in diversi scritti [Vincenzo Nuzzo, Buddhismo o ateismo? Cassandra Books, Verona 2019, Vincenzo Nuzzo, “L’inconsistenza dottrinaria del moderno Buddhismo filosofico occidentale”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2019/11/12/linconsistenza-dottrinaria-del-moderno-buddhismo-filosofico-occidentale/ >]. Ricoeur convoca in verità soltanto pensatori occidentali come punti di riferimenti per la sua dottrina riformata della persona, e cioè precisamente Hume e Nietzsche – menzionando al proposito in particolare la “dispersione delle impressioni” come modello filosofico opposto alla secondo lui inaccettabile immutabilità della sostanza personale [Paul Ricoeur, La persona… cit., II, IV p. 66-67]. Inoltre il nostro autore afferma anche di non voler sposare affatto questa dottrina humiano-nietzschiana, ma comunque di non voler accettare nemmeno l’immutabilità della sostanza personale (così com’è stata sempre posta nella metafisica sia pre-cristiana che cristiana).
Il che significa che egli propende decisamente per quella concezione dinamica della persona, che prevede poi espressamente la mutevolezza di quest’ultima. Sta di fatto però che uno dei punti di riferimento più forti per quest’ultima dottrina è attualmente proprio il Buddhismo filosofico occidentale [……. AGG testo], sta di fatto che quest’ultimo nega di fatto alla persona qualunque consistenza ideologica, e infine sta di fatto che su tutto questo viene edificata una sorta di paradossale ed astrusa neo-etica che per molti versi è una vera e propria negazione dell’etica stessa (a vantaggio in particolare di un edonismo molto simile a quello epicureo).
Ebbene, rispetto a tutto questo, la dottrina ricoeuriana della persona, ancorché incentrata nel dinamismo anti-sostanzialista, ha senz’altro almeno il merito innegabile di fondare in maniera molto salda la persona stessa in una dimensione etica, posta a sua volta in maniera più che esplicita (e quindi senza alcuna negazione o relativizzazione). In questo senso, quindi – almeno tenendo presenti le drammatiche circostanze storiche nelle quali oggi ci troviamo, entro le quale traspare in primo luogo una spaventosa crisi dell’etica (a sua volta congiunta ad una del tutto fattuale sempre maggiore svalorizzazione della persona umana) –, direi che oggi è estremamente importante vedere proprio in Ricoeur uno dei punti di riferimento irrinunciabili per un nuovo personalismo. Quanto poi all’urgente necessità di quest’ultimo, ciò che ho appena detto ne è di per sé una prova inoppugnabile. Insomma, che esso sia o meno stato superato dalla storia del pensiero e delle idee socio-politiche, sta di fatto che (almeno a mio avviso) è assolutamente necessario disporre nuovamente di una ben precisamente delineata visione personalista. Ed almeno in questo quindi devo dissentire dall’atto di sepoltura definitiva del personalismo di cui si fa protagonista il nostro Autore.

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I- Introduzione – Ricoeur e il suo progetto filosofico.
In questo articolo commentiamo in particolare il testo dal titolo “La memoria, la storia, l’oblio”, e cioè uno dei testi più significativi di Ricoeur [Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003]. Per cui ciò che scriveremo può venire considerato di fatto una recensione di questo libro.
Paul Ricoeur conta tra i maggiori pensatori contemporanei, e tuttavia (come del resto accade oggi molto spesso) leggere i suoi libri non è affatto un’impresa facile; anzi per certi versi è talvolta anche un compito gravoso e sgradevole.
Vediamo perché.
La terminologia che egli usa è spesso più allusiva che non esplicita (rinviando a linguaggi e dibattiti lontani dal tema, e che non tutti i lettori possono conoscere). Le circonlocuzioni retoriche (unite frequentemente alle descrizioni anticipatorie della struttura del testo) complicano spesso di molto il discorso, allontanando così l’attenzione del lettore dal punto focale. Inoltre si ha in generale l’impressione che talvolta l’Autore sfiori soltanto le problematiche decisive evitando di approfondirle, mentre invece altre si produce in approfondimenti minuziosissimi e ridondanti che ancora una volta tendono a sviare di molto l’attenzione dal filo del discorso. Ed infine l’attitudine descrittiva di Ricoeur sembra essere fortemente lacerata tra l’analisi minuziosa delle evidenze fattuali (sebbene affrontate da un punto di vista fenomenologico e non invece scientifico-empirico) e le considerazioni sintetiche (di ampio respiro ed orientate ai fondamenti) che appaiono senz’altre più appropriate nel contesto di un discorso filosofico. Per tutta questa serie di motivi (almeno sulle prime) risulta difficile al lettore perfino il comprendere quale sia esattamente il tema che l’Autore intende trattare. E così può accadere che il grande desiderio con il quale si può tendere ad affrontare questo così fertile ed importante pensatore rischia molto facilmente di naufragare nella delusione che sta in agguato dietro ogni pagina delle sue opere (specie quelle più fondamentali e ponderose)
Personalmente non ci azzardiamo a dare una spiegazione (positiva o negativa) di questo modo di pensare e scrivere.
Per farlo dovremmo infatti tornare alle considerazioni critiche che abbiamo dedicato al moderno filosofare [Vincenzo Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018]. Tuttavia non ci sembra affatto questo il luogo appropriato per farlo.
In ogni caso, comunque, ci sembra che una possibile risposta a tale questione possa stare nell’approccio fenomenologico al quale l’Autore affida tutto il suo metodo di ricerca ed inoltre di riflessione. E ciò è estremamente pertinente, per cui crediamo che valga la pena di iniziare la nostra recensione del libro da alcune considerazioni su tale aspetto. Considerazioni che trovano poi un loro preciso riscontro ogni volta che in questo testo Ricoeur chiama esplicitamente in causa l’approccio fenomenologico (posto da lui costantemente a confronto con altre prese di posizione filosofica, ma soprattutto con l’approccio conoscitivo scientifico-empirico).
Prima di entrare nel merito di tali considerazioni bisogna però dire che (almeno a nostro avviso) si può assumere che l’intera ricerca dell’Autore vada considerata come l’affronto della questione del ruolo svolto dalla filosofia allorquando lo sguardo dell’osservatore è rivolto verso il passato (il che avviene entro la fenomenologia della memoria ed inoltre entro la storiografia). Inoltre in particolare l’epilogo del libro ci mostrerà come a Ricoeur il passato (e quindi la memoria e la storia) sta particolarmente a cuore in quanto luogo in cui emerge la più piena dimensione etica dell’essere, ossia quella della rappacificazione tra presente e passato (perdono della colpa). Il che ha poi un preciso riscontro nel fenomeno da lui definito come “memoria felice”, ossia il fenomeno che contrassegna l’efficacia massima e più auspicabile della memoria. In altre parole possiamo dire che il progetto filosofico dell’Autore è decisamente improntato ad un recupero dell’etica; e precisamente per mezzo del recupero dell’apporto da sempre offerto in tal senso dalla storiografia. È ben noto infatti che la storia è stata da sempre considerata magistra vitae. Di conseguenza, quindi, scopo dell’Autore sembra essere quello di riportare almeno in parte il fenomeno della memoria nel letto della storiografia, e non più invece nel solo letto della filosofia e/o della scienza empirica. In altre parole sembrerebbe che Ricoeur voglia sottolineare il senso e valore del testo scritto, e precisamente il racconto (la narrazione), accanto all’usuale valore accordato invece modernamente al logos orientato costantemente alla ricerca tanto come discorso filosofico quanto come prassi scientifico-sperimentale. Si tratta insomma del recupero del valore gnoseologico della «descrizione», per natura rivolta al passato (e per questo narrativa), rispetto al valore della «ricerca», per natura rivolta al solo futuro ed inoltre anche improntata fortemente all’analisi.
In questo senso il suo progetto si pone chiaramente nel solco della moderna attenzione rivolta a quell’ermeneutica dell’essere la quale per definizione chiama in causa il linguaggio, ed in particolare quello scritto.
Ebbene, una volta chiarito questo, siamo senz’alto più vicini alla giustificazione dello specifico approccio fenomenologico fatto proprio dal nostro Autore, ma siamo anche più vicini a quella decifrazione della natura del suo progetto di ricerca filosofica, che risulta così difficile da cogliere di primo acchito leggendo i suoi testi.
Il primo aspetto risulta più chiaro perché (come poi vedremo) Husserl e Heidegger sono i principali pensatori con i quali si confronta Ricoeur nel suo libro. E sta di fatto che Heidegger è stato l’iniziatore di una tradizione filosofica di tipo ermeneutico (poi culminata in Gadamer) mentre Husserl è stato il pensatore che più ha portato in primo piano l’epistemologia. Tuttavia il nostro Autore si riallaccia ad entrambi i pensatori nel mentre non lesina ad essi critiche piuttosto rilevanti. Quindi il suo progetto filosofico (ben rappresentato in questo libro) si presenta nella forma di un’ermeneutica per molti versi post- o addirittura anti-epistemologica, che però sembra voler rientrare entro limiti verso i quali il pensiero moderno (specie con Heidegger) ha mostrato una grande insofferenza. Si tratta dei limiti di un discorso filosofico che si sottomette in vari modi ai vincoli dell’etica – addirittura avvalorando una forma espressiva (la descrizione narrativa) che era stata da tempo posta nel dimenticatoio sia dalla filosofia che dalla scienza empirica (essa veniva infatti considerata per definizione molto lontana dal rigore gnoseologico, in quanto arbitraria e perfino tendenzialmente poetica). Quindi si può dire che in questo senso il progetto ermeneutico ricoeuriano di differenzia in partenza da quello heideggeriano. Ma così giungiamo al secondo aspetto della comprensione del suo progetto (e relativo testo). Sembra infatti che il nostro Autore abbia voluto reintrodurre nel contesto della moderna filosofia accenti, strumenti, metodi e linguaggi che da tempo erano caduti in disuso (e forse erano stati anche deplorati).
E ciò si lascia riassumere nel fatto che egli tenta di riportare alla ribalta una prospettiva gnoseologica e culturale entro la quale il Passato riprende il peso che aveva avuto un tempo, rendendo così secondari il Presente ed il Futuro. Egli appare insomma volerci di nuovo proporre il peso che può e deve avere la Tradizione nel conoscere e nell’agire.

II- La Fenomenologia secondo Ricoeur.
Ma veniamo ora alle considerazioni sulla Fenomenologia così come viene concepita da Ricoeur.
In primo luogo, da quanto l’Autore sostiene, sembra che per lui la Fenomenologia costituisca una sorta di ontologia impegnata nell’ambizione di restituirci le cose come sono effettivamente. Ed in questo egli non sembra allontanarsi affatto dalle intenzioni di Husserl. Tuttavia sembra comunque che Ricoeur ambisca a mostrarci le cose come sono soprattutto in maniera fortemente oggettiva, e cioè lontano sia dall’ipoteca gettata su di esse dall’atto di coscienza (Husserl) sia dall’ipoteca gettata su di essa dalla conoscenza scientifica di tipo sperimentale. Infatti sia l’uno che l’altro di questi ultimi due approcci sembrano (per Ricoeur) gettare sulle cose un’ombra che ne nasconde la più autentica natura.
Più specificamente l’intenzione filosofica dell’Autore sembra essere quella di dischiudere lo spazio di un’ontologia in primo luogo ermeneutica più che non epistemologica, ossia un’osservazione pensante delle cose che riveli il senso soprattutto della loro oggettualità oggettiva; ponendo così in secondo piano il senso che esse acquistano entro lo spazio conoscitivo della coscienza egoica (intelligibilità dovuta alla presenza soggettuale), oltre che la spiegazione (solo superficiale) che esse usualmente ricevono entro la scienza empirica. E ciò sta peraltro in concordanza con il progetto di allargare anche all’atto di memoria quell’ontologia di coscienza che Husserl aveva dischiuso; in modo tale che al pensiero ed alla conoscenza coscienti si aggiunga un’ulteriore dimensione di fondazione delle cose nel loro esistere, e cioè la memoria stessa. Molto spesso infatti Ricoeur ci mostra come nel contesto della memoria emergano delle vere e proprie oggettualità esteriori di natura temporale. Infatti la memoria ha perl lui il vantaggio di non essere solo soggettuale (quindi personale, solipsistica ed interiore) ma anche oggettuale (quindi interpersonale, relazionale, comunitaria ed esteriore). Dunque essa configura per definizione una vasta oggettualità esteriore alla coscienza, entro la quale poi la dimensione dell’«altro» ha un peso davvero decisivo. In tal modo, a causa della sua insospettabile oggettualità (tangibile soprattutto nella dimensione collettiva o pubblica), la memoria si rivela essere la franca, solida, esplicita ed ovvia ontologia sulla quale in verità riposano il pensiero e la conoscenza cosciente. Essa appare essere insomma il contesto oggettuale-oggettivo entro il quale sboccia la realtà stessa della coscienza. E bisogna dire che, posto in tal modo, il progetto filosofico-fenomenologico ricoeuriano convince decisamente molto più di quello husserliano. Non a caso egli stesso parla di una “buona fenomenologia” [Paul Ricoeur, La memoria… cit., I p. 13-14], denunziando intanto l’inaccettabile complicità della Fenomenologia husserliana con il soggettualismo idealistico ed inoltre addirittura con lo stesso psicologismo [Paul Ricoeur, La memoria… cit., 3 p. 133-169]. Infine include nella visione fenomenologica anche pensatori decisamente realisti come Sartre e Merleau-Ponty [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 3, I p. 596-608].
Molto in generale si può dire al proposito che la scelta filosofica di Ricoeur appare essere quella di porre l’accento sulla “mondità” delle cose, molto più invece che sulla loro fondazione nella coscienza. E quindi è evidente che la sua simpatia sembra andare molto più a Heidegger che non a Husserl; sebbene egli non risparmi critiche anche al primo pensatore. Non a caso il progetto ontologico-fenomenologico dell’Autore trova chiarimento proprio a ridosso di Heidegger [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 2 p. 493-587]. Infatti per lui la temporalità dell’essere è letterale, ossia riguarda l’essere come tale e quindi è semmai universalmente ontologica (includendo l’uomo entro l’orizzonte di tutte le cose). In altre parola l’essere è tempo nel senso che è memoria e storia, e quindi l’essere è storia. Il che avviene però anche oltre i limiti del Dasein come fondamentale luogo della “cura”. E questa presa di posizione appare essere fondata nell’antica onto-metafisica aristotelica, la quale aveva riconosciuto nell’essere un divenire temporale universale disteso tra potenza ed atto.
Tuttavia dall’altro lato proprio a proposito di Heidegger il discorso di Ricoeur diviene puramente accademico, astruso e artificioso, perdendosi in una sterile (quanto presuntamente realistica) disputa tra l’ontologia della temporalità-storicità (rappresentante la filosofia) e la presunta ontologia della stessa storiografia. Cosa che poi si ricollega all’altrettanto assurda e artificiosa negazione della storia (come “Geschichte”, ossia storiografia) da parte di Heidegger, nel sostenere di fatto che la storia è ciò che si fa e non invece ciò che si scrive e si conosce. Il nucleo della questione resta il conflitto tra dimensione soggettiva della storia-memoria (filosofia come ontologia) e dimensione oggettiva della storia-memoria (storiografia). La disputa può insomma interessare i professori di filosofia, ma molto difficilmente arriverà ad interessare il lettore comune, il quale resterà più che giustamente sconcertato davanti a tutto questo lavorio al cospetto del concetto di storia e storiografia, che invece di per sé è totalmente ovvio e come tale indiscutibile. Tuttavia va detto che probabilmente qui il colpevole è molto più Heidegger che non Ricoeur, dato che i termini del discorso erano divenuti astrusi già nel pensiero del primo. E quindi forse il secondo non fa altro che attenersi ai termini e toni del dibattito filosofico iniziato da Heidegger in poi.
Ecco allora che anche la Fenomenologia di Ricoeur appare essere essa stessa – aldilà di quella husserliana, della quale l’Autore non esita nel libro a vituperare le analisi ridondanti ed ossessive [Paul Ricoeur, La memoria… cit., I, 1, III p. 70-75] – un’inutile complicazione (nel linguaggio filosofico astruso) e complessizzazione (nell’analisi tanto superflua quanto ridondante) delle elementari, ovvie e banali (universalmente comprensibili) evidenze scientifico-empiriche. Essa appare essere dunque una filosofia che (tentando di reagire alla perdita di spazio e autorità che essa ha subito specie dal Positivismo in poi) pretende di sovrapporsi alla scienza, senza però intanto riuscire ad apportare ad essa altro che ulteriori fatue ed inutili elucubrazioni personalistiche (vero e proprio orpello culturale). Non a caso, una volta sovrappostasi alla psicologia (ossia alla stessa Fenomenologia interioristica di Husserl), essa oggi pretende di sovrapporsi perfino a storia, geografia, architettura, urbanistica e cosmologia nella forma della Fenomenologia esterioristica di Ricoeur. Ad esempio la trattazione degli stessi temi del libro dell’Autore (specie il tema del luogo) può essere fatta entro un’indagine puramente metafisica, la quale poi (pur nella sua sofisticazione concettuale) è senz’altro più semplice nel suo discorso. Il che è vero perché essa, non essendo in alcun modo astrusa, risulta di fatto perfettamente comprensibile anche dai non addetti ai lavori, e rientra quindi nel patrimonio delle conoscenze umane di sempre (non solo in quelle dei filosofi moderni). Di questo genere è ad esempio l’analisi della località che abbiamo recentemente condotto in un nostro saggio [Vincenzo Nuzzo, Il Localismo, Victrix, Forlì 2020 (in via di pubblicazione)].
Va però intanto preso atto del fatto che la Fenomenologia di Ricoeur pone allo scoperto due posizioni gnoseologiche che sembrano entrambe giustificate, ma invece sono comunque inconciliabili tra loro: – 1) direttamente (volontariamente) essa pone in evidenza l’assurdità delle evidenze scientifiche riguardanti mente e pensiero (specie per l’identificazione tra pensiero e cervello); 2) indirettamente (non volendolo) essa fa risaltare l’assurdità della posizione filosofica la quale nega (anche se a buon diritto, dal suo punto di vista) l’inoppugnabilità delle evidenze scientifiche oggettive (es: il cervello come un’effettiva realtà), che intanto sono effettivamente lapalissiane ed incontrovertibili.
Ora è senz’altro vero che bisogna ammettere che la Fenomenologia è vera fisiologia (in quanto è anche per davvero ontologia) dato che essa si occupa dei fenomeni ordinari della vita – cosa che risulta evidente laddove l’Autore smaschera la totale astrazione del concetto neuroscientifico di “tracce cerebrali” [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 3 p. 608-630]
Inoltre molto significativo al proposito appare essere il giudizio di insufficienza della dimensione funzionale (corticale) rispetto a quella ontologico-filosofica. Qui sembra insomma che la neuroscienza (ed anche la fisiologia medica umana in generale) abbia inventato di sana pianta un concetto di “funzione” (corrispondente a tutto ciò che nell’organismo non è immediatamente anatomico-statico e materiale) senza avere la minima idea di cosa ciò possa significare sul piano ontologico. Aldilà di ciò, restando ancora sul piano dell’apprezzamento, la superiorità dell’ontologia fenomenologica sull’evidenza scientifico-empirica si mostra in pieno anche quando si constata che la traccia non è altro che un segnale corticale, il cui rinvio al fenomeno del ricordo è pertanto puramente arbitrario. In questo caso, quindi, l’accesso che noi tutti abbiamo intuitivamente alla cosa come fenomeno si rivela superiore alla stessa scienza sperimentale (tutti sappiamo cos’è un ricordo, ma nessun di noi sa cos’è una traccia cerebrale). Infine l’analisi di Ricoeur giunge al culmine quando viene sottolineata la dimensione ontologico-esistenziale della memoria, ossia la persistenza. La quale appare poi essere l’essenza stessa della memoria come cosa – il persistere incontestabile dell’essere interiore, che viene dimostrato dall’evidenza del tutto intuitiva del fenomeno mnemonico. E questo supera per lui in un solo colpo tutte le aporie della memoria; surclassando però soprattutto (in termini di capacità di definizione del «cos’è?») le conoscenze proposte dalla scienza empirica.
Tutto ciò è incontestabilmente vero, e quindi mostra il valore che ha lo sforzo ricoeuriano di riforma realista della Fenomenologia husserliana; con l’effetto che, dopo tale riforma, la disciplina appare in grado di resistere molto meglio alle istanze egemoniche della scienza empirica. E tuttavia anche così resta comunque sullo sfondo la tendenza all’astrusità ed alla gratuita complicazione di un discorso filosofico che cerca non poco di approssimarsi all’autenticità delle cose, ma alla fine resta entro i limiti molto angusti ed inaccettabili dei modi propri del pensiero contemporaneo.
Va detto però che ciò trova una tangibile relativizzazione laddove il senso dell’intera investigazione di Ricoeur viene dichiarato nell’ultimissimo capitolo. Qui infatti viene da lui illustrato di cosa davvero ne va con la fenomenologia della memoria – ne va della dimensione etico-emozionale dell’efficienza mnemonica, ossia di quella dimensione propulsiva (e non invece sterilmente retrospettiva) con la quale culmina la memoria intesa come auspicio (“voto”), ossia il perdono.
Si può dunque dire che, almeno sul piano etico-emozionale, va riconosciuto che la memoria serve soprattutto a questo.
Ne consegue allora che lo sforzo di porre in evidenza un’ontologia della memoria (la quale estende non poco il campo dell’ontologia della coscienza, arricchendolo non solo dell’oggettualità oggettiva ma anche di notevoli contenuti etico-emozionali) ha il senso primario di porre in primo piano gli aspetti relazionali (più che epistemologici e cognitivi) dell’esistere umano nel mondo. Esistere che non è rivolto né solo al passato né solo al futuro, ma invece sempre verso entrambe le direzioni. E questo rende pertanto estremamente plausibile ed attraente il progetto fenomenologico-ontologico di Ricoeur.

III- Memoria e storia. Fenomenologia, epistemologia, ermeneutica e ontologia.
Ebbene, una volta fatto questo inquadramento generale (insieme critico e constatativo), dobbiamo ora entrare più profondamente nel merito della problematica che egli discute, ossia quella costituita dalla fenomenologia della memoria, congiunta poi alla fenomenologia dell’oblio ed alla dimensione gnoseologica rappresentata dalla storia. Per questo passeremo quindi in rassegna l’intero percorso del libro che stiamo commentando.
Iniziando la sua analisi, Ricoeur prende atto del fatto che la dimensione più fondamentale della fenomenologia della memoria sta in linea con l’approccio filosofico antico, e quindi privilegia decisamente il “cosa” della memoria (oggettualità), tralasciando di trattare il suo “chi” (soggettualità) [Paul Ricoeur, La memoria… cit., I, 1, I-III p. 18-81].
E qui ci troviamo al cospetto delle riflessioni di Platone e Aristotele sul ricordo come immagine (eikon) di un’originaria impronta (tupos) a sua volta derivante dalla percezione. Si tratta insomma in generale dell’indagine sulla stupefacente capacità della memoria umana di rendere presente un assente, ossia un oggetto una volta percepito ma ormai di fatto svanito dalla mente se non per la traccia che esso vi ha lasciato. Ricoeur non esita comunque a scegliere il modello di Aristotele, in quanto a suo avviso esso spiega più propriamente quel fenomeno mnemonico che poi alla fine egli dichiarerà giustificato sul piano primariamente ontologico, e cioè sul piano della “persistenza” (la bergsoniana fondamentale “durata”) che caratterizza la temporalità dell’essere [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 3, II p. 608-630].
Platone invece per lui istituisce entro il percorso della memoria una frattura insanabile (tra assente e presente) che poi può venire colmato solo ricorrendo alla teoria mitico-metafisica della reminiscenza. Teoria che però l’Autore rigetta nel contesto di un’ontologia fenomenologica che si rifiuta ostinatamente di sconfinare in qualunque genere di metafisica con la stessa forza mediante la quale essa resiste all’egemonia della scienza empirica. Ecco che la fenomenologia (ed anche perfino fisiologia) della memoria trova per Ricoeur spiegazione piena entro la dottrina della temporalità dell’essere; ossia trova una spiegazione prima di tutto filosofica e solo dopo scientifico-empirica. Proprio su questa base (di fatto quella della persistenza dell’essere) trova quindi per lui spiegazione (ma affatto mitico-metafisica) l’aspetto più centrale della fenomenologia della memoria, ossia quell’autentico portento (“miracolo” ed insieme “enigma” ed “aporia”) che è rappresentato dal “riconoscimento”.
Si tratta di un fenomeno che la scienza empirica tenta molto supeficialmente di spiegare mediante la dottrina delle “tracce corticali”, e che comunque si verifica sia a livello gnoseologico che a livello mnemonico (in esso insomma memoria e conoscenza sono strettamente intrecciate, fino al punto che l’una è presupposto dell’altra)
Ecco allora che in tal modo viene posta da Ricoeur una fondamentale ontologia temporale, entro la quale la memoria ha tanta importanza quanta ne ha la coscienza, e che quindi accoppia del tutto naturalmente la storiografia all’epistemologia (Husserl) così come anche alla stessa ontologia (Heidegger); entrambe discipline squisitamente filosofiche. Insomma per lui la storiografia rinsalda presente e passato su un piano (ontologico ed insieme gnoseologico ed epistemologico) che non ha nulla da invidiare né al flusso di coscienza husserliano né al Dasein come «essere-tutto» heideggeriano.
In altre parole, dal suo punto di vista, la filosofia non possiede affatto l’ultima parola sull’essere ed in particolare sulla temporalità dell’essere. Essa ha invece tutto da guadagnare da un costante dialogo con la storiografia. E qui il discorso ricoeuriano è chiaramente polemico verso il tentativo heideggeriano di rivendicare alla sola filosofia (intesa come ontologia) il discorso sulla temporalità dell’essere quale “storicità” (nel contesto della distinzione tra “Geschichte” e “Historie”) [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 2, II p. 527-547]. La critica dell’Autore ad Heidegger di incentra infatti soprattutto su questo aspetto.
E tuttavia egli si appella proprio a questo pensatore (oltre che a Casey) per definire la sostanziale “mondità” della memoria, ossia il compiersi di essa soprattutto in relazione ad un contesto oggettuale esteriore, e non invece unicamente nel contesto dell’interiore flusso di coscienza (come viene postulato entro l’ipotesi riflessiva di Husserl). Ecco che i fenomeni della memoria si svolgono secondo Ricoeur in una dimensione “oltre la mente” (invece che in “in mente”).
E questo rinsalda quindi l’atto di memoria in primo luogo a quella spazialità temporale che corrisponde direttamente alla storiografia – la quale si dedica costantemente all’atto di “inscrizione” dei ricordi in luoghi che hanno la valenza di autentiche oggettualità temporali, in quanto rinviano alle date (e come tali costituiscono quei “luoghi della memoria” intorno ai quali si costituisce letteralmente lo spazio civico e civile in cui l’uomo esiste). Su questa base Ricoeur si distanzia però nuovamente da Heidegger, dato che secondo quest’ultimo lo spazio civico-civile umano non è altro che quello dischiuso nell’essere da parte del Dasein per mezzo della sua “cura”; e quindi è uno spazio in cui la memoria (come storiografia) non gioca alcun ruolo [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 2 p. 493-587]. Oppure, se gioca un ruolo, lo fa solo in direzione della totale inautenticità di quella consapevolezza meramente formale la quale si nega all’evidenza dell’”essere-per-la-morte” (sostituendo ad essa la consapevolezza attenuata e neutrale del “si muore”).
Ricoeur si serve però di questo approccio oggettualista e realista solo per illustrare il tema della fenomenologia della memoria in sé, ossia colta nella sua oggettività di ontologia e fisiologia (“cosa”). Questa trattazione però non gli sembra sufficiente, e quindi egli ritiene di dover poi affrontare anche il tema del “chi” della memoria, ossia il tema del soggetto che è protagonista dell’atto mnemonico [Paul Ricoeur, La memoria… cit., I, 3 p. 133-187]. Egli stesso precisa che in tal modo si passa dall’approccio antico a quello moderno della memoria ed anche della storia. Per gli antichi infatti ciò che contava era la storia della polis e non invece il soggetto che fa la storia. Nel contesto di tale approccio moderno Ricoeur distingue comunque il polo più oggettualista, quindi realista (corrispondente alla conoscenza propria della scienza empirica e sperimentalista), dal polo più soggettualista e psicologista, quindi idealista (corrispondente alla conoscenza propria della filosofia, unita alla parte meno empirista della psicologia). Ed è a tale proposito che egli inizia a denunziare l’evoluzione progressiva della Fenomenologia husserliana da un approccio oggettualista ad un approccio sempre più soggettualista, che alla fine finisce per identificarsi con lo psicologismo al quale questa presa di posizione filosofica volle intanto opporsi con grande energia. A questi due approcci corrispondono comunque per lui due tradizioni filosofiche radicalmente diverse rispetto al concetto di tempo in relazione alla memoria, ossia quella interiorista (idealista) focalizzata nello “sguardo interiore” (iniziante con Agostino, passante poi per Locke più ancora che per Cartesio, e culminante infine con Husserl), e quella esteriorista (realista) focalizzata nello “sguardo esteriore” (per la quale egli prende in esame in particolare la visione di Halbwachs).
Rispetto alla prima tradizione, egli sostiene che dobbiamo a Locke – e non a Cartesio (il quale pose invece solo un puntuale Io pensante, e non invece uno spazio di essere interiore) – il primo abbozzo dell’idea di coscienza; che poi venne sviluppato e portato a compimento da Husserl. Presso quest’ultimo però la temporalità dell’essere assunse quella forma di “flusso” totalizzante entro il quale la memoria finisce per costituire una fenomenologia puramente interiore senza alcun vero riscontro nell’esteriorità. L’Autore ritiene in particolare che il concetto di “tempo storico” venga decisamente interdetto dall’approccio husserliano.
Ricoeur ritiene però anche la seconda tradizione troppo sbilanciata nel senso dell’unilateralità esteriorista. In essa si sostiene infatti che la memoria personale sarebbe del tutto inesistente senza il supporto della memoria oggettuale, esteriore, collettiva e storica. Si tratta insomma della classica moderna posizione filosofica realista – la quale include poi larghe fette di Fenomenologia, con pensatori come Sartre, Merleau-Ponty ed anche la stessa Edith Stein [Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, VI p 344-386] –, secondo la quale l’Io non ha alcuna consistenza ontologica se non è immerso nell’esistenza e quindi nel mondo.
Ma Ricoeur ci mostra in particolare che, nel contesto di tale visione, la presenza dell’altro (come soggetto di “testimonianza”) è non solo fondamentale bensì anche fondante – infatti la memoria personale non inizia se non partendo da essa. In termini sostanziali la memoria sarebbe quindi in primo luogo comunitaria, sociale, relazionale e collettiva. Ecco allora che l’unico “chi” (soggetto) della memoria che qui conti è quello collettivo. È evidente che ciò concede alla storiografia un primato assoluto rispetto alla filosofia. Ebbene, nel definire tale approccio come decisamente positivista, Ricoeur contrappone ad esso (utilizzando le indagini di Strawson sulle fondamentali leggi della mente) un approccio meno unilaterale, secondo il quale l’intero psichismo riflessivo insorge solo nella presenza contemporanea dell’Io e dell’altro. Infatti l’Io umano non riesce ad attribuire a sé stesso dei “predicati psichici” (ossia non identifica sé stesso come ente pensante) se non attribuendoli contemporaneamente anche all’altro. E quando tale bilaterale atto di attribuzione viene sospeso, allora non si configura più alcuno psichismo ma invece solo il mondo delle cose esteriori (ossia quello definito da “predicati pratici”). Ecco allora che (secondo l’Autore) l’accento posto sulla sola riflessività egoica solipsistica (come avviene in Husserl), anche se ambisce a generare una realtà intersoggettiva, in verità rende impossibile concepire davvero la presenza di un «altro».
Ricoeur dichiara pertanto a tale proposito che non è assolutamente possibile evitare di conciliare la “fenomenologia della memoria” con la “sociologia della memoria”. E con ciò si delinea un approccio davvero bilaterale (che tiene conto tanto dell’idealismo quanto del realismo).
Questo ci riporta però allo specifico concetto di Fenomenologia che l’Autore sostiene. Egli afferma infatti che una Fenomenologia appropriata sussiste solo quando essa non solo prevede espressamente (e davvero coerentemente) la presenza dell’altro ma ritiene invece quest’ultima anche assolutamente vincolante. In questo caso però la coscienza cessa di costituire il punto di repere fondamentale della Fenomenologia per venire sostituita dalle dimensioni del linguaggio, dalla relazione ed inoltre dalla dimensione pubblica vera e propria. In particolare diviene qui decisivo e condizionante il “linguaggio dell’altro”, e quindi tutto ciò che scrittura, letteratura e racconto in qualunque sua espressione (nel testo vero e proprio ed anche nelle inscrizioni architettoniche e pubbliche). Ma oltre a ciò diviene decisiva e condizionante la dimensione esteriore nella forma di comunità, ed in particolare nella sua forma narrata, ossia come memoria e tradizione che ci lega agli antepassati (lungo le catene di generazioni) nel mentre ci vincola al luogo in cui tale memoria viene esercitata.
Il che avviene in relazione ai più “vicini” (famiglia, e se si vuole gens), ai più “lontani”, ed inoltre anche in relazione al luogo stesso che noi condividiamo con costoro. Ecco allora che la Fenomenologia non si limita affatto ad esplorare il mondo di oggetti interiori che fonda (cognitivamente) il mondo degli oggetti esteriori, ma invece ambisce ad esplorare l’intero mondo di cose unitamente al mondo degli oggetti culturali, ossia l’esteriore mondo trasformato radicalmente dalla presenza umana. In tal modo resta senz’altro l’ambizione della visione husserliana a ri-descrivere il mondo delle cose come mondo di «fenomeni», ossia cosa finalmente indagate e definite nel loro vero senso (o essenza). E tuttavia con Ricoeur si passa da una pura Fenomenologia dell’interiore egoico-coscienziale ad una ben più ampia, realistica, multiforme e complessa Fenomenologia dell’esteriorità mondana e civile in tutte le sue forme. Della quale in questo libro l’Autore tratta specialmente attraverso l’intermediazione della memoria. Con la conseguenza che quest’ultima completa notevolmente l’indagine sul senso delle cose, allargandolo alla dimensione temporale con la quale a sua volta sempre sta in relazione la dimensione locale, sociale e collettiva (nel suo riconnettersi costantemente al passato). In relazione a questo egli afferma in conclusione che – per poter porre la fenomenologia della memoria in maniera appropriata – è assolutamente necessario concepire i due “poli”, costituiti dalla memoria individuale (interiore) e dalla memoria collettiva (esteriore), come integrati da un piano intermedio di continui scambi tra individuo e spazio pubblico.
Nel capitolo successivo l’Autore esamina poi le vari problematicità comportate dalla memoria scritta che ha come protagonista il “chi”; ossia quella storiografia che, per l’intermediazione della scrittura, costituisce in primo luogo un’epistemologia e non invece un’ontologia [Paul Ricoeur, La memoria… cit., II, 1-3 p. 205-407]. Insomma, per quanto si possa dare importanza primaria all’immediata temporalità dell’essere (secondo gli auspici di Heidegger) – dovendo così porre anche il primato della filosofia ad impronta ontologica –, comunque si sarà costretti ad ammettere che la storia è in primo luogo conoscenza del passato. Essa è insomma fatalmente Conoscenza e non Essere. Ed in particolare lo è come scienza, ossia come conoscenza o meglio conoscenza degli eventi passati; non invece come immediato discorso sull’essere vissuto. Questo costituisce però un limite negativo ma nello stesso tempo anche positivo. Infatti, a causa di tutto ciò (e del tutto contrariamente agli auspici di Heidegger), la storia non può venire solo fatta ma deve invece anche venire conosciuta. E da questo non si può sfuggire nel tentare (come fa Heidegger) di ridurre la storicità alla sola ontologia, eliminando in tal modo totalmente l’epistemologia.
Ricoeur è infatti molto esplicito e netto nel rivendicare alla storia la piena legittimità nel perseguire la verità in piena autonomia rispetto alla filosofia. E ciò è per lui possibile proprio perché la verità non sussiste affatto solo entro lo spazio della memoria personale (interiore), ma sussiste invece allo stesso modo anche entro lo spazio esteriore della memoria collettiva (ossia lo spazio in cui si muove la storiografia). Ne consegue allora che, nel mantenersi entro lo spazio della sola esteriorità mondana, la storia può intrattenere una sua valida relazione con la memoria senza passare per la dimensione dell’Io né al modo della psicologia che al modo della filosofia.
Una volta precisato questo possiamo insomma prendere atto del fatto che la risposta di Ricoeur ad Husserl va non solo ad integrare quella di Heidegger ma anche a completarla ed arricchirla. Il che significa che – per configurare un’ontologia che vada a coniugarsi con l’epistemologia – non basta affatto (come fa Heidegger) spostare la presenza dell’Io dall’interiore all’esteriore (facendo così dell’Io stesso l’«essere-per-definizione», ovvero l’«esser-ci»). Bisogna invece giungere a non considerare più condizionante la presenza dell’Io….
Questo andava riportato. Ma a nostro avviso le riflessioni svolte poi dall’Autore su questa base scivolano troppo sul piano di quell’astruso artificioso che rende inutilmente complessa una materia in sé semplice fino all’ovvio.
Si tratta in particolare di due ordini di considerazioni.
Il primo ordine di considerazioni è dedicato ad una sorta di pre-esame della legittimità della storia come pura epistemologia, ossia come conoscenza scientifica del passato [Paul Ricoeur, La memoria… cit., II, 1, p. 205-257]. Qui Ricoeur chiama in causa la dimensione formale della spazio-temporalità (rifacendosi a Kant) per giustificare quell’intreccio tra storia e geografia entro il quale la datazione finisce per corrispondere al tempo come estensione spaziale ed inoltre allo spazio stesso come luogo di registrazione del tempo o memoria, ossia l’intero spazio dell’atto di “inscrizione”. In questa sede insomma l’Autore prende filosoficamente in esame il percorso per mezzo del quale dagli eventi (e relative testimonianze) la storia trapassa poi in documenti, archivi ed infine anche in spazi architettonici con la valenza di iscrizione. E sinceramente non si comprende la vera utilità che avrebbe una riflessione filosofica così minuziosa su queste realtà, la cui struttura e giustificazione appare a prima vista del tutto ovvia.
Il secondo ordine di considerazioni è dedicato poi ai problemi interni alla storia come epistemologia, e cioè quella serie di moderni approcci alla storia dei quali Ricoeur discute la maggiore o minore scientificità in termini di rigore [Paul Ricoeur, La memoria… cit., II, 2-3 p. 267-407].
Proprio su questa base l’Autore si approssima comunque ad uno dei temi più forti della sua indagine. Si tratta del suo confronto diretto con il concetto heideggeriano di “temporalità dell’essere”. Proprio su questa base egli ritiene di poter passare dall’epistemologia all’ermeneutica, ossia a quell’esplorazione del senso dell’essere che a suo avviso non è affatto patrimonio della sola filosofia ma anche della stessa storiografia. In particolare però egli si approssima a questo tema discutendo prima la “filosofia critica della storia”, ossia un argomento che appare essere ancora molto prossimo al tema della storia come epistemologia [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 1 p. 425-492]. E qui egli riprende il discorso sul rigore scientifico della storiografia condannando molto nettamente tutte le dottrine totalizzanti ed astraenti (che egli definisce specificamente come “cronosofia”). Ciò che accade in questo caso è infatti che la storia assume il paradossale aspetto di un’entità personale agente, invece di restare una gnoseologia scientifica con la sua relativa ovvia dimensione epistemologica. È evidente che in tale giudizio critico sono coinvolte anche le classiche visioni idealistiche della Storia come quelle di Hegel e Marx. Ma Ricoeur non si esprime esplicitamente su questo. Il suo giudizio appare però pienamente giustificato, dato che il pleonasmo raggiunto nel pensiero moderno dal termine-concetto «storia» appare stare in relazione proprio con le paradossali e assurde estensioni di significato operate dai pensatori appena citati.
In ogni caso su questa base egli affronta direttamente la visione heideggeriana [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 2 p. 493-587].
Ma in primo luogo entro tale contesto appare evidente che lo stesso Autore condivide la critica alla storia come pura epistemologia. A lui infatti (come abbiamo già visto) sta a cuore soprattutto un’ermeneutica ontologica, e quest’ultima non può che essere basata sull’ammissione della fondamentale temporalità dell’essere. Il che significa che (lungo una gradazione di originarietà) l’ambito della storia come epistemologia viene solo dopo l’ambito dell’ontologia connotata temporalmente. In altre parole il concetto di «tempo» non viene coniato affatto dalla storiografia e non appartiene in alcun modo ad essa
Dunque è per legittimare la fondamentale temporalità dell’essere che Ricoeur si rivolge quindi ad Heidegger. Del quale però intanto (come abbiamo visto) non intende ammettere il rigetto radicale della storiografia a vantaggio di un discorso sull’essere che veda come protagonista la sola filosofia anche quando si tratta di rivolgersi al passato. In ogni caso l’Autore si dichiara a favore di un’ermeneutica della storia che sia ontologica e non invece meramente critica (come avviene entro la filosofia della storia). Inoltre egli dichiara che sua fonte non è solo Heidegger ma è prima ancora Aristotele, con la sua messa in questione del senso dell’essere nel contesto della Metafisica. Ed infatti critica fortemente il ricorso di Heidegger ai soli “esistenziali”, rigettando così gli “universali” quali categorie dell’essere davvero generali.
Il problema sembra insomma stare nel fatto che Heidegger pone il Dasein al centro di tutto, pretendendo di fare di esso l’essere stesso. E quindi due sono i più fondamentali rilievi che Ricoeur muove contro questa dottrina. Il primo rilievo consiste nell’obiezione che non vi è affatto solo la “cura” dell’essere (ad opera del Dasein), ma vi è anche la “carne”, a sua volta inclusa nel “corpo proprio”. E la categoria della carne è certamente ben più ampia di quella della cura.
Il secondo rilievo è che la storia costituisce realmente la temporalità dell’essere. Il che significa che non è affatto necessario sostituirla con la “storicità” rivendicata da Heidegger. E ciò secondo l’Autore è vero perché (come già abbiamo visto) lo sguardo rivolto al passato non ha altro scopo che quello di proiettare verso il futuro. Pertanto in tal modo si perviene comunque alla prospettiva della storicità rivendicata da Heidegger. E tuttavia lo si fa senza restringere l’essere al Dasein. Vi è inoltre un motivo molto fondato per questo, e cioè il fatto che la storia parla della “mortalità”.
La quale ha poi il suo fondamento nella carne e nel corpo proprio, e quindi descrive la condizione dei presenti (equivalenti al Dasein) così come quella degli antepassati. Tutto ciò significa allora che (com’è del resto del tutto ovvio che sia) il Dasein non equivale affatto alla “mortalità” (in quanto fondamentale categoria ontologica) ma semmai si inscrive entro di essa; ed infine ad essa si sottomette come fondamentale categoria. In questo senso la “passeità” non assume più affatto il significato per definizione negativo che esso ha presso Heidegger.
In ogni caso Ricoeur ammette senza alcuna difficoltà che, allorquando la storia vuole essere pura scienza (e cioè epistemologia), essa non può del tutto essere ontologia, e quindi non può giungere a postulare la piena temporalità dell’essere. Abbiamo visto infatti che tale concetto non nasce affatto originariamente entro la storiografia.
In questo caso, quindi, la storia ha senz’altro bisogno del supporto della filosofia. Tuttavia questa transizione da storiografia ad ontologia temporale (e quindi alla filosofia) non è affatto difficile se si supera l’ossessione heideggeriana per la “derivazione” come rischio continuo di trapasso in inautenticità del discorso sul passato.
Naturalmente però l’Autore sente il bisogno di rigettare in toto l’equivalenza stabilita da Heidegger tra “futurità” dell’essere e morte (o mortalità). E quindi parla non a caso di una “metafisica della morte” sotto mentite spoglie.
E diremmo proprio che ancora una volta egli ha pienamente ragione nel mettere allo scoperto le astrusità del discorso heideggeriano. Infatti a nostro avviso è assolutamente chiaro che tale discorso ha di per sé pochissimo di davvero autentico. Il che risulta ancora più chiaro a fronte delle obiezioni di Ricoeur alla mortalità concepita come equivalente all’essere. Egli sostiene infatti (ricollegandosi al discorso sulla carne) che bisogna semmai parlare di un “poter essere” che è ben più fondamentale del “poter morire”. Il che significa allora che il fondamento di tutto sta semmai in un “desiderio di essere” che poi coincide perfettamente con quell’istinto di sopravvivenza del quale noi veniamo informati dalla biologia stessa, e quindi totalmente al di fuori delle inautentiche sovrastrutture formali-ideologiche e idealistiche sospettate da Heidegger di totale inautenticità (il “si, o “man”, implicato dal “si muore”). Si tratta insomma di qualcosa che non solo possediamo spontaneamente (insieme alla nostra dotazione corporea) ma del quale diveniamo anche consapevoli perché tutto questo si imprime in noi venendo infine interiorizzato. E proprio come tale il desiderio di essere diviene desiderio insopprimibile di immortalità. Ma sta di fatto che qui stiamo già pienamente nel campo della storiografia, dato che il ricordo registrato (l’inscrizione) equivale perfettamente all’immortalità. Naturalmente però occorre per questo una storiografia che sappia e voglia essere non solo epistemologia ma anche ontologia, ossia discorso sulla fondamentale temporalità dell’essere; ossia, diremmo, una sorta di storiografia filosofica, in luogo di una pura scienza empirica. Tuttavia è evidente che ciò è realisticamente possibile soprattutto nel caso in cui la storiografia ammetta di dover assolutamente presupporre il sapere filosofico.
Ed infatti Ricoeur stesso ci mostra come la ragione principale della sua confutazione di Heidegger stia nello sforzo di impedire una dissociazione irredimibile tra storia e filosofia. Ciò secondo lui non avviene allorquando la passeità non può per definizione essere rivolta solo al futuro, dato che essa resta comunque sempre nelle mani dei presenti. Il che poi – se teniamo conto di tutto quanto l’Autore ha detto sulla relazione tra storia-memoria e comunità – significa che ciò avviene sia sul piano della storiografia che anche sul piano della socialità come luogo di vissuto di un passato che per definizione proietta verso il futuro. Il che poi avviene per mezzo del fondamentale atto di scrittura-sepoltura del quale è protagonista la storiografia.
In tal modo, quindi, il passato non può in alcun modo essere il conchiuso, morto e sterile “non più” contro il quale protesta Heidegger. Ma vi è da aggiungere a tutto questo anche che, entro la pretesa heideggeriana che la storia può solo venire fatta (e non invece scritta o conosciuta), vi è un limite di importanza davvero critica. Si tratta infatti di un immediato fare la storia che in primo luogo si svincola dai lacci dell’etica, ossia dall’esempio degli errori passati.
Tuttavia noi siamo portati a credere che Heidegger conoscesse molto bene questo rischio, e lo accettasse peraltro in pieno. Dato che, da guru del progetto di Hitler, egli cercò di avvalorare proprio un fare la storia che fosse libero da qualunque vincolo etico. E non a caso i protagonisti di questo folle progetto sarebbero poi stati portati davanti ad un Tribunale i cui protagonisti sono proprio la memoria, la storia e l’oblio dei quali parla Ricoeur.
Come abbiamo già accennato, però, il progetto del nostro Autore non è affatto quello di rivolgere lo sguardo al solo passato alla ricerca della dimensione etica sul quale esso regna, ossia la colpa. Il suo progetto è invece semmai, quello di procedere da quest’ultima a quel futuro che è rappresentato dal perdono. E proprio questo è l’argomento dell’ultima parte del suo libro [Paul Ricoeur, La memoria… cit., III, 3 p. 589-646]. Ricoeur si sente però obbligato a trattare a tale proposito di nuovo della fenomenologia della memoria (quale basica e ordinaria fisiologia esplorata filosoficamente invece che scientificamente), a causa del fatto che il perdono è strettamente legato all’oblio. Di nuovo si pone quindi la questione del se l’oblio sia un’eccezione o una regola, ossia se costituisca patologia o fisiologia. E l’Autore propende decisamente per la secondo ipotesi, dato che non ha alcuna intenzione di trattare del perdono nella sua dimensione negativa (ossia come cancellazione di crimini), bensì invece solo nella sua dimensione positiva, e cioè quella di una “riconciliazione” che necessariamente è sempre un riscatto. In questo caso quindi l’oblio non può essere in alcun modo un’incondizionata cancellazione di ricordi.
Qui ritornano dunque questioni che abbiamo già commentato, e cioè la persistenza dell’essere come fondamento di un ricordo che mai può venire cancellato. E di conseguenza ritorna anche la critica dell’Autore al discorso neuroscientifico sull’oblio come “cancellazione delle tracce”, ossia come sostanziale fenomeno patologico. In ogni caso è interessante registrare come Ricoeur ponga fortemente in questione sia il concetto sia il termine che vengono correntemente impiegati dalla neuroscienza. Infatti a suo avviso (a causa di un insostenibile monismo mente-corpo) la neuroscienza dà per scontato che la traccia corticale sia perfettamente sovrapponibile al ricordo. Sebbene essa non abbia intanto alcuna prova per questa equivalenza (la quale è appena l’estensione ipotetica di significato di un fenomeno empirico-sperimentale che potrebbe bene riguardare unicamente la neurofisiologia, e quindi non equivalere affatto né al pensiero né alla memoria). In altre parole la neuroscienza non conosce assolutamente la natura della “sostanza” che essa denomina “traccia corticale”. Da questo l’Autore passa a criticare la stessa identificazione scientifica della mente con la dottrina anatomo-funzionale dei neuroni. Egli ritiene infatti che non sia per nulla scontato che io ritenga il mio cervello come identico (nella sua struttura) a quello degli altri; il che mi porta poi a supporre un cervello come universale e indiscutibile supporto oggettivo di tutto ciò che è mente. Ebbene tale estensione non è scontata in quanto essa avviene in verità per via filosofico-riflessiva e non scientifica – ossia per la via dell’estensione consapevole del mio corpo proprio per via intersoggettiva. Si tratta insomma di un fondamentale atto e percorso di coscienza, e non invece di un’esperienza.
In altre parole ancora una volta la Fenomenologia si rivela capace di configurare una fisiologia ordinaria della mente molto più e molto meglio della neuroscienza. Il che risulta estremamente tangibile se si pensa che solo la postulazione della persistenza dell’essere può spiegare da un lato il ritorno del ricordo e dall’altro lato quell’oblio non patologico, ossia l’”oblio di riserva” (che non è affatto un’amnesia, e quindi non prevede alcuna “cancellazione”), entro il quale il ricordo persiste anche se occultato. Quanto poi alla “tassonomia della memoria” – ottenuta per via puramente empirica ed oggi divenuta molto articolata ed anche oggettivamente molto istruttiva (come nell’identificazione di memoria a lungo e breve termine) –, Ricoeur non ne nega affatto l’utilità. Ma intanto deplora che essa abbia portato ad una frantumazione impressionante del sapere sulla mente, costringendo così i pensatori (tra i quali egli cita in particolare Buser) a riunificare ciò che è stato disperso.
La differenza tra i due approcci, dunque – quello filosofico-fenomenologico (ed ontologico) e quello scientifico-empirico o clinico-sperimentale –, sta per l’Autore tra fenomeni “esistentivi” e fenomeni “oggettivi”, ossia quelli legati a strutture corporeo-materiali come il cortex cerebrale. Ed è chiaro che entità come mente, psichismo, memoria e oblio rientrano senz’altro nel primo ordine di fenomeni.

IV- L’epilogo – memoria, colpa e perdono. L’orizzonte ultimo della memoria.
Per questa via giungiamo finalmente all’Epilogo, che è, per dichiarazione dell’Autore stesso, la parte più importante e significativa del libro [Paul Ricoeur, La memoria… cit., Epilogo, I-IV p. 646-703]. Ebbene qui è nuovamente in gioco l’heideggeriana temporalità dell’essere, e con essa le capacità della storia come memoria di muoversi sul piano dell’ontologia oltre che su quello della conoscenza; ossia la sua capacità di corrispondere al fattuale agire umano nel bel mezzo dell’esistere.
E di nuovo l’Autore ci suggerisce che ciò è possibile come proiezione verso il futuro, invece che appena come sterile retrospezione.
Proprio in tale contesto però l’ago della bilancia è strenuamente etico. L’Autore dice infatti che le dimensioni etiche da lui indicate (colpa e perdono) incrociano senza il minimo dubbio quelle operazioni della memoria, che invece sul piano scientifico-empirico vengono esplorate nella loro nudità. Ciò avviene perché l’unica autentica possibilità di proiezione della memoria verso il futuro consiste per Ricoeur nel perdono come orizzonte dell’azione umana intanto costantemente istruita dal passato; e precisamente orizzonte addirittura “escatologico” (ossia ben lungi dal poter essere raggiunto in modo inavvertito, inconsapevole e automatico, cioè sul piano biologico). Il gioco però sta tutto tra memoria nella sua pienezza positiva e memoria nella sua pienezza negativa, ossia in una rammemorazione congiunta a sua volta ad un oblio che non sia mai archiviazione della colpa senza la sua elaborazione (ovvero non sia immediata e incondizionata cancellazione). E così il perdono può venire attinto solo se viene perseguito ostinatamente in un faticoso cammino, lungo il quale esso fugge continuamente davanti a noi; con il rischio continuo di non riuscire a giungere alla meta.
Infatti il perdono è “difficile” per definizione. Ma intanto non è affatto impossibile.
Tutto sta dunque in bilico tra le possibilità opposte che qui si delineano.
In particolare si tratta del fatto che dalla ricognizione della colpa si dipartono due possibilità: – l’una attiva, stenica e produttiva, caratterizzata dal «potere» (proprio dell’”uomo capace” di memoria, ovvero l’uomo dotato del potere della memoria), e l’altra invece passiva e paralitica, caratterizzata dall’oblio nella sua forma più negativa. Nel primo caso la memoria (congiunta ad un sano ed equilibrato potere di oblio) determina il riscatto della colpa nella prospettiva progressiva e propulsiva del futuro perdono. Mentre nel secondo caso la memoria (in quanto puro e nudo oblio) oscura il passato e dimentica la colpa senza riscattarla.
Per la precisione la colpa corrisponde per Ricoeur al polo più basso dell’asse verticale della memoria il quale va pr definizione dal profondo al manifestato. Ma, in questo luogo infimo per definizione, sta a nostra disposizione la risorsa straordinaria della “confessione”, per mezzo della quale viene innescato quel perdono che sempre proviene da una “voce” situata in alto. Solo così è possibile superare il temibilissimo scoglio dell’”imputabilità” (ossia “colpevolezza” basicamente e nudamente oggettiva), il quale prima di essere giuridico è tutto intimo; ossia si svolge entro l’”ipseità”, ossia entro la relazione riflessiva che intratteniamo con noi stessi come soggetti egoici, e quindi consapevoli.
Infatti la consapevolezza della colpa (conquistata per mezzo della memoria) ci trascina immediatamente al cospetto della nostra personale imputabilità. E in questo luogo noi saremmo perduti se non intervenisse il perdono. Esso è esattamente ciò che non veniva mai nella prospettiva della tragedia greca – peraltro esplorato da uno dei pensatori che Ricoeur tiene ben presenti, e cioè Jaspers [Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008]. Questo pensatore viene chiamato in causa proprio nel porre in forte evidenza la tragicità piena delle “situazioni limite” (accompagnate sempre da “solitudine” e “scacco”) nelle quali soltanto la profondità della colpa diviene così intensa da evocare prima la confessione e dopo il perdono stesso. E qui di delinea la forza schiacciante della “colpevolezza” oggettiva, quale unica condizione che possa davvero slatentizzare il perdono.
L’intensità di tale esperienza non sarebbe però davvero tale, dice l’Autore, se la colpa non imprimesse intanto una forza squisitamente emozionale all’atto di pura “riflessione” (condotto sul piano dell’ipseità) che ci porta ad attribuire l’atto all’agente, ovvero a noi stessi. La forza esercitata dalla “colpevolezza” è quindi fortemente emozionale. A tale proposito egli accenna però nuovamente alla metafisica come dottrina di un’”anteriorità” antropologico-negativa della colpa (in altre parole il Peccato originale) la quale finisce secondo lui per indebolire il potere etico a disposizione dell’uomo, e lo fa proprio sminuendo la volontà di vita che è insita nel “desiderio di essere” – possibile fonte di trasgressione, ma insieme anche di un potere senza il quale l’uomo è eticamente paralitico.
È per questa via che veniamo alle ultime dichiarazioni dell’Autore, per mezzo delle quali possiamo capire ancora meglio in che senso le dimensioni etiche qui indagate abbiano strettamente a che fare con la fenomenologia della memoria e con la storia. Si tratta del fatto che il perdono (come orizzonte ultimo) coincide perfettamente con il fenomeno dell’efficienza della memoria, cioè è il primo luogo con il “compimento”. Quest’ultimo è però in verità il fenomeno ultimo dell’atto mnemonico, laddove è ben noto che la memoria è caratterizzata anche da una sostanziale fallacia. Pertanto il compimento sussiste solo in senso positivo, ossia come felicità, mentre invece non sussiste mai come infelicità, cioè come fenomeno finale negativo, e quindi fallimento dell’atto mnemonico. Ecco allora che, secondo Ricoeur, è proprio a partire da questo (finale) punto di vista che bisogna osservare l’intera fenomenologia della memoria, ovvero dal punto di vista puramente escatologico. Il che mette tra parentesi tutte le altre dimensioni prima indagate dall’Autore, e cioè quella epistemologia, quella ermeneutica, e perfino la stessa fenomenologia. In altre parole, dopo aver delineato un’ontologia ordinaria dei fenomeni della memoria che appare equivalere ad una solidissima fisiologia, Ricoeur dichiara qui che anche questo è nulla se si tralascia di chiamare in causa la dimensione dell’etica accoppiata a quella dell’emozione.
E il binomio felicità-infelicità esprime benissimo questa cogenza. Esso è insomma una vera e proprio prova del nove.
Ma perché la dimensione etico-emozionale è così importante? Perché, dice Ricoeur, la memoria è in sé sostanzialmente “voto”, ossia auspicio desiderante, molto più che invece qualcosa di cognitivo. Quindi la sua vera natura risulta essere del tutto incomprensibile sul piano delle evidenze scientifico-empiriche. In altre parole la memoria è desiderio, ed in particolare è desiderio che aspira al Bene unito al Bello; e pertanto corrisponde ad una dimensione erotica mai disgiunta da quella austeramente etica. Ecco allora che la felicità da compimento (perfettamente espressa nel fenomeno del “riconoscimento”) equivale fortemente alla soddisfazione per un dovere compiuto, per uno sforzo fortemente etico giunto al suo giusto coronamento.
Tutto ciò significa dunque in sintesi che la vera sostanza della memoria è di tipo etico. E questa si può considerare una costatazione di importanza davvero fondamentale; fino al punto di rappresentare una vera e propria riscoperta nel contesto del pensiero moderno. Di ciò dunque dobbiamo essere estremamente grati al nostro Autore.
Ecco allora che possiamo trovare in tutto questo il senso ultimo del superamento dell’enigma-aporia della memoria che avviene (come dice Ricoeur) per mezzo del riconoscimento – questa così felice esperienza non può che rinviare al compimento ultimo dell’auspicio ed inoltre alla conferma della sua natura etica. E infatti la forma tangibile di quest’ultima è appunto il perdono. Dunque il perdono è tanto atteso quanto lo è anche il ricordo stesso. Solo che nel suo caso tale attesa procede verso il futuro. E quindi essa può procedere verso il passato sempre solo per riproiettarsi verso il futuro; altrimenti non ha un vero senso. E lo stesso può ben dirsi anche della storia.
Infine si aggiunge qui anche quella dimensione comunitario-sociale-relazionale che per l’Autore ha fondamentale importanza sul piano della storia, e cioè la dimensione dell’«altro». La presenza di quest’ultimo (entro la fenomenologia del perdono) compie infatti per lui un vero e proprio riscatto della pura “riflessione” unicamente solipsistica (per mezzo della quale si giunge all’imputabilità) con la conseguenza di un distanziamento dell’Io da sé stesso. E così la dimensione del perdono di sé stessi si associa per definizione al perdono dell’altro. Il che dilata l’intera fenomenologia alla sfera sociale, e pertanto oggettiva ed esteriore.
Tutto quanto è stato visto finora riguarda però la memoria – riconosciuta da Ricoeur come di per sé fortemente capace del compimento felice. Le cose non stanno tuttavia così né per la storia né per l’oblio.
E qui ritorna il vincolo rappresentato dall’epistemologia. L’Autore dice infatti che l’applicazione alla storia della prospettiva escatologica è di fatto impossibile perché essa finisce immediatamente per scadere a “cronosofia”. Il che implica quindi che sussiste un’innegabile e quasi irrecuperabile frattura tra fenomenologia della memoria e fenomenologia della storia. Frattura che, almeno in una certa misura, rende la storia addirittura deteriore rispetto alla memoria, dato che essa tende a sacrificare l’esperienza della testimonianza (per sminuirla colpevolmente, come è spesso accaduto nel negazionismo). Nello stesso momento però è innegabile che la precisione epistemologica della storiografia si contrappone l’obiettiva tendenziale fallacia della memoria. In sintesi quindi è davvero difficile parlare di felicità della storia.
Quanto poi all’oblio, Ricoeur lo ritiene ancor meno capace di compimento felice. Esso infatti in primo luogo comporta sempre l’insidiosissimo rischio dell’occultamento. In secondo luogo poi esso è anche ontologicamente negativo, in quanto di fatto non sussiste in assenza della memoria. Ecco che è impossibile poter dimenticare se prima non si è in grado di ricordare. Per questo motivo quindi l’oblio è in sé ambiguo per definizione.

V- Conclusioni.
Siamo partiti dai commenti sulla spesso grande difficoltà che presenta la lettura dei testi di Ricoeur. Ed infatti, proprio in questo articolo, abbiamo dovuto aprirci la strada con una certa fatica entro l’intrico forestale della riflessione condotta nel libro che abbiamo cercato di recensire. Tuttavia ci sembra che questo lavoro possa senz’altro ripagare chi si dà ad esso, dato che da esso risulta alla fine un’immagine del pensatore e della sua visione che appare avere davvero il carattere dell’insostituibilità entro il moderno scenario.
Sicuramente appare piuttosto sterile e fine a sé stessa l’intera discussione intorno alle relazioni tra storia e filosofia.
Ma abbiamo detto che forse bisogna considerare Heidegger, e non Ricoeur, il vero responsabile di questo difetto.
Piuttosto sterile e bizantina ci sembra anche l’analisi (questa volta tutta ricoeuriana) del naturale percorso della storiografia come scrittura (dall’evento, alla testimonianza, al documento ed infine all’archivio), oltre che l’analisi delle relazioni tra memoria, storiografia e località spazio-temporale.
Tuttavia vi sono altri aspetti della riflessione dell’Autore che relativizzano di gran lunga le forti perplessità suscitate da queste trattazioni. L’analisi della fenomenologia della memoria è davvero magistrale ed esemplare – specie se posta a confronto con quella neuroscientifica (la quale diviene addirittura gnoseologicamente inconsistente a paragone dell’ontologia fenomenologica posta in evidenza da Ricoeur). L’analisi del concetto di tempo per mezzo della memoria restituisce decisamente al Passato il valore che esso merita obiettivamente, e che il pensiero contemporaneo aveva decisamente trascurato in quanto polarizzato in diversi modi dalla sola attualità esperienziale (con la conseguenza poi di una cronica inferiorità della storiografia rispetto alla filosofia). La discussione del valore differenziale dell’epistemologia (storiografa) rispetto ad ermeneutica e ontologia (filosofia e scienza) reca a chiarimenti davvero fondamentali. E su questa base Ricoeur demolisce peraltro non pochi insulsi miti filosofici generati dalla visione di Heidegger. In particolare ci sembra davvero di capitale importanza la riconduzione (da parte dell’Autore) dell’«essere-per-la-morte» alla ben più fondamentale “mortalità”, che a sua volta si lascia ricondurre (in maniera molto convincente) all’ancora più fondamentale “desiderio di essere”, e quindi ad un “poter essere” che rende del tutto relativo il “poter morire”. Infine la finale rivelazione del vero e più profondo intento (radicalmente etico) della propria ricerca (l’indagine sulla memoria e sulla storia come esplorazione della tensione tra colpa-passato e perdono-futuro) ci mostra l’aspetto senz’altro più pregevole e rilevante della riflessione ricoeuriana.
Ebbene ci sembra che proprio su questo aspetto si debba concentrare conclusivamente la nostra riflessione.
I chiarimenti offerti dall’Autore sulla fenomenologia della memoria sono senz’altro anch’essi di importanza fondamentale. Ma intanto ci sembra ancora più importante la messa in luce dell’intreccio tra memoria, colpa e perdono, e cioè l’intreccio della fenomenologia della memoria con alcune tra le più decisive dimensioni etiche dell’esistenza umana. In base a quanto ci mostra Ricoeur, infatti, l’uomo sembra vivere in un intervallo tra passato e presente nel quale ne va evidentemente in primo luogo del cercare nel passato la motivazione e la forza per procedere verso un futuro contrassegnato indelebilmente dal Bene. Specie come “memoria felice” nel senso del perdono di sé stesso e dell’altro.
Ed è evidente che tale serie di atti dischiude una dimensione relazionale entro la quale la “persona” umana raggiunge la sua pienezza esattamente come l’«altro» di fronte al quale l’Io egocentrico e solipsista arretra non solo rispettosamente, ma anche consapevole di poter solo in questo modo raggiungere la sua vera realizzazione. E ciò ci riporta a quella personologia alla quale Ricoeur ha dato un fortissimo contributo, specie sulla base di Mounier [Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2015], e che ha visto agire anche pensatori del calibro di Guardini [Romano Guardini, Die Welt. Welt. Weltverschließung und Weltoffenheit. Die Welt als »das Ganze«, »ein Ganzes« und das Mächtige, in: Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988, II p. 74; Romano Guardini, Die Welt. Welt, Weltverschließung und Weltoffenheit. Die Grenze und das Nichts, ibd. III p. 80-83; Romano Guardini, Die Person. Der personale Bezug. Das Ich-Du-Verhältniss, ibd., I-II p. 132-136; Romano Guardini, Die Person. Die Person und Gott. Die menschliche und die göttliche Person, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., ibd. I p. 143].
Pertanto, a fronte di un aspetto di cotale importanza, la questione della relazione tra storia e filosofia diviene davvero secondaria. Il problema non sembra essere infatti quello del fare o meno la storia (invece di limitarsi a scriverla e conoscerla), nell’essere quindi più o meno rivolti verso il solo futuro lasciandosi così il passato decisamente alle spalle.
Il problema sembra essere invece quello di essere rivolti costantemente al passato per poi poter procedere verso il futuro in una maniera che non sia eticamente indifferente. Il che poi non solo costituisce il nostro personale “compimento”, ma inoltre edifica anche quella dimensione relazionale che vede la fondamentale presenza dell’«altro». Ed anche questo ha una rilevanza personologica davvero decisiva.
Questo ci appare essere quindi il contributo più importante offerto da Ricoeur al pensiero contemporaneo. Un pensiero che è stato troppo spesso indifferente all’etica o addirittura avverso ad esso. Ed è inoltre significativo che il pensatore francese veda il fulcro dell’etica in quel Passato che è il punto di riferimento di una dimensione comunitario-relazionale (una società fatta di persone) che intanto, proprio per mezzo della memoria, risulta radicato fortemente in un luogo ben riconoscibile, ossia quel luogo estremamente specifico entro il quale ci è dato di nascere, esistere e poi morire.
Tutto ciò significa allora che Ricoeur ci offre una prospettiva di pensiero etico per mezzo della quale (peraltro senza alcuna esclusione della storiografia e senza alcuna svalutazione del Passato) ci è dato oggi di rintracciare quel senso dell’esistenza che molto spesso proprio il pensiero contemporaneo ha contribuito molto a vanificare.

Ecco dunque perché alla fine di questa recensione ci sentiamo di dire che, nonostante le grandi difficoltà da ciò comportate, vale sicuramente la pena leggere e meditare i testi di un pensatore come Ricoeur.

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Introduzione.
Il libro di Sarvepalli Radhakrishan [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Asram Vidya, Roma 1998, Voll. I] offre a tutti noi la possibilità di gettare uno sguardo sintetico molto proficuo sull’intera dottrina buddhista. Ma soprattutto ci offre la possibilità di collocarla nell’autentico letto naturale in cui essa nacque e si sviluppò, ossia quella sapienza religioso-filosofica vedica e poi vedantica (manifestatasi originariamente nei testi sacri delle Upanishad) che fu l’anima stessa più vera della cultura indù. Ci viene mostrato insomma che il Buddha e il Buddhismo appartennero ed appartengono pienamente a questa sapienza e cultura, e che quindi possono venire solo fraintesi se invece vengono presi in considerazione in maniera avulsa da tale così condizionante premessa storica e dottrinaria. Eppure questo è esattamente ciò che accade quando il Buddhismo viene considerato una visione del tutto autonoma rispetto agli scritti vedantici, o viene considerata addirittura rivoluzionaria rispetto ad essi; ancor più se si vuole fare di questo credo una vera e propria nuova religione non solo rispetto a quella induista ma anche rispetto alle forme più tradizionali dell’universale religiosità umana.
Radhakrishnan, infatti – pur non essendo affatto critico verso il Buddhismo (anzi considerandolo nel complesso rispettabile almeno quanto tutte le altre visioni filosofico-religiose indù) –, conferma in pieno ciò che ho già scritto nel mio saggio [Vincenzo Nuzzo, Buddhismo o ateismo? Cassandra Books, Verona 2019], e cioè che il Buddha sembra non aver avuto alcuna vera intenzione né di distaccarsi dal Vedantismo (e cioè dalle Upanishad), né di fondare una nuova religione, né tanto meno di instaurare una rivoluzionaria prassi apertamente anti-religiosa [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII, 4-6 p. 344-358].
Egli fu semmai invece un pensatore religioso pienamente integrato nella tradizione upanishadica e fu inoltre un uomo dedito all’ascesi come profonda esperienza religiosa. Su questa base l’Autore afferma senza mezzi termini che il Buddhismo non fu affatto una dottrina “originale”, ma fu invece pienamente integrata nelle Upanishad e perfino ad esse conforme. Più precisamente egli sostiene quanto segue: – “Il Buddha stesso non vedeva alcuna contraddizione tra la sua teoria e quella delle Upanishad…”.
La particolarità della dottrina del Buddha consiste semmai solo nel fatto che egli puntò la sua attenzione sulla sola prassi ed inoltre sulla sola immanenza mondana, sospendendo intanto totalmente il giudizio sulla veridicità di qualunque sovrastruttura metafisico-religiosa ed ecclesiastico-istituzionale possibilmente eretta su questo. La sua intenzione primaria fu quindi quella di dare vita ad un “metodo” di salvezza, e non invece ad un pensiero della salvezza. E ciò (nonostante ciò che vedremo dopo) riduce in partenza di molto la pretesa natura squisitamente filosofica della dottrina buddhista. Essa infatti divenne una filosofia semmai molto dopo il Buddha, e quindi anche in contraddizione con le sue intenzioni.
Certo è comunque che giudicò la metafisica, il classico culto (specie quello vuoto in quanto formalistico-ritualistico) e la dimensione ecclesiale come privi di qualunque utilità ai fini della salvezza. Tuttavia è esattamente in quest’ultima che il Buddhismo (anche per Radhakrishnan) differisce da tutto ciò che è tradizionalmente religioso e cultuale. La salvezza è infatti per esso null’altro che la definitiva liberazione da qualunque forma e grado di esistenza, ossia (in termini molto espliciti) non è altro che il cessare di vivere. Insomma il Buddha ricorse ad una formula religiosa piuttosto semplice e addirittura volutamente banale nel suo compassionevole sforzo di ridurre all’osso ciò che (da sempre e dovunque) era stato affermato dai fondatori di religioni (e dagli dèi che avevano presumibilmente parlato per bocca di costoro), dai sacerdoti che li rappresentavano, ed infine dai pensatori che si erano ispirati a queste religioni. Sembra cioè che egli abbia voluto fare suo il punto di vista del più semplice e sprovveduto dei fedeli; al quale non interessano in fondo affatto i sofisticati discorsi dei sapienti, ma interessa invece soltanto come fare per liberarsi del dolore inscindibilmente connesso all’esistenza. A questo genere di fedele il Buddha (filtrando, semplificando e traducendo in tal modo sconfinati e complessissimi testi e discorsi religiosi e metafisici) sembra voler dire più o meno questo – «Amico mio, non dar retta a questa gente e pensa solo alla cosa più semplice di tutte, cioè a morire davvero per sempre, scomparendo così da questo infame mondo. Solo dopo troverai la pace. E la troverai con certezza semplicemente perché non sarai più, e quindi nulla più sperimenterai e saprai».
Radhakrishnan non si esprime di ceto in questi termini, ma effettivamente imputa al Buddha ed al Buddhismo una sola colpa ed un solo difetto, e cioè quello di aver professato proprio questo genere di estremo pessimismo. In ogni caso anche lui attribuisce al Buddha un’affermazione davvero molto estrema: – “Voglio fuggire, voglio morire” [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII, 7 p. 358-361].
Si tratta di un’affermazione molto estrema in quanto essa vuole incoraggiare una vera e propria fuga dal mondo. Dunque questo è un pessimismo che non lascia davvero spazio ad alcun genere di illusione religiosa; specie a quelle di natura spiritualista (professato dalle Upanishad) secondo le quali l’uomo sarebbe fatto di una sostanza (l’anima spirituale) che è capace di sopravvivere la morte guadagnandosi così un’esistenza perfetta soprattutto in quanto libera da ogni frustrazione e dolore. In questo senso il Buddhismo (e molto probabilmente già dal Buddha in poi) – che lo voglia o meno – distrugge effettivamente qualunque genere di religione. Non a caso Radhakrishnan sottolinea come le Upanishad sono altrettanto intensamente pessimistiche (circa l’illusorietà del mondo immanente), ma comunque lo sono non cessando mai di alimentare la speranza umana per mezzo di una metafisica religioso di tipo audacemente speculativo ed inoltre per mezzo di un’etica religiosa incentrata nell’azione invece che nell’inerzia passiva [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 5 p. 133-139].
Tuttavia nel Buddhismo resta comunque il nucleo di una dottrina ed esperienza religiosa e perfino metafisica, ossia l’idea del karma. È insomma in forza di quest’ultima che la fondamentale affermazione poc’anzi ipotizzata assume comunque un senso metafisico-religioso – non è esattamente la morte fisica ciò che va perseguito, ma molto più invece una morte etico-energetica, ovvero quella che deriva dallo spegnimento del desiderio e quindi dell’attaccamento alle cose.
La dottrina del karma prescrive infatti che l’esistenza tornerà inevitabilmente a sbocciare ogni volta che noi avremo passato la nostra vita mancando di compiere lo sforzo di liberarci dall’illusione ossessiva di dover necessariamente essere qualcosa ed avere qualcosa. E con queste premesse, allora, perfino la morte fisica (per mezzo dell’inesorabile reincarnazione) ci getterà nuovamente sulla spiaggia dell’esistenza. Lo stesso Radhakrishnan ammette dunque che quella fondata dal Buddha è sostanzialmente una religione etica, e più precisamente una religione dell’etica pratica – essa non mira insomma a null’altro che alla liberazione dell’uomo nel pieno contesto dell’esistenza mondana, e quindi senza nemmeno porre il tema di una possibile vita immortale nell’aldilà. Non vi può però esservi dubbio circa il fatto che ciò distrugge totalmente i fondamenti dell’usuale religiosità umana universale. Essa è infatti dovunque nata molto probabilmente proprio con il culto dei morti, e quindi con la dottrina dell’immortalità.

I- Idealismo, realismo o materialismo?
Fatta questa premessa molto generale, almeno dal punto filosofico bisogna chiedersi se il Buddhismo rientri nella grande corrente planetaria del pensiero idealista oppure in quella del pensiero realista. E a tale proposito diviene dirimente l’elemento costituito dall’immanentismo.
È infatti molo difficile che una dottrina filosofico-religiosa immanentista possa essere autenticamente idealista. Ed infatti il Vedantismo, dal quale prese le mosse il pensiero del Buddha, fu (ed è ancora) un idealismo, e peraltro fu (come abbiamo visto nelle lezioni precedenti) un idealismo davvero molto estremista. Per esso infatti il mondo delle cose (il mondo oggettuale) non è altro che un illusorio nulla al cospetto della vera Realtà che è rappresentata dal mondo soggettuale, ossia il Sé (il sé umano ed ancor più il Sé divino, ossia il centro e la fonte di tutte le cose). Ma tutto ciò è anche metafisica al grado più assoluto. E quindi è chiaro che il Buddhismo non poteva in alcun modo accettare questa dottrina dell’essere, della realtà ed anche dell’uomo. Non a caso il Sé sta anche per tutto ciò che è spirito in opposizione a tutto ciò che è corpo e materia, e quindi rappresenta soltanto la Realtà non esperibile. Inoltre il Sé corrisponde al soggetto, del quale l’idealismo vedantico deve giocoforza affermare l’esistenza assoluta, dirimente ed indiscutibile a fronte di tutto ciò che è mondo ed oggetto. Insomma in tal modo il soggetto è esattamente ciò che maggiormente esiste, e quindi è il solo a sfuggire all’universale illusorietà dell’essere, ossia la condizione definita come maya. Abbiamo visto però che l’etica filosofica buddhista afferma invece l’illusorietà di qualunque genere di esistente, e quindi anche dello stesso soggetto. Dunque essa deve necessariamente negare anche l’esistenza dell’anima individuale. Radhakrishan ci mostra come questa dottrina non fu ancora così esplicita presso il Buddha (il quale su questo, così come su altri aspetti di tipo metafisico, pare si limitasse appena a sospendere il giudizio). Tuttavia poco a poco essa si sviluppò pienamente per giungere infine ai giorni nostri nella forma della famosa teoria filosofica del “no-self” (ossia la dottrina della totale inconsistenza ontologica dell’anima, dell’Io, dell’interiorità e della persona). Tutto questo non configura però affatto la classica posizione filosofica realista – secondo la quale semmai il vero esistente (quello sicuramente reale) è l’oggetto in luogo del soggetto. Ma il Buddhismo afferma tutt’altro che questo. Tuttavia però esso afferma anche che non esiste altro se non ciò che abbiamo davanti agli occhi (all’immediata portata dei nostri sensi), ossia il mondo dei corpi, della materia e delle leggi inesorabili della Natura (entro la quale viene inclusa la stessa legge cosmica del karma).
Quindi non vi è nulla che fondi ontologicamente questa realtà (tanto meno un soggetto inteso quale autentico esistente). Pertanto secondo il Buddhismo non vi è alcun fondamento (invisibile e massimamente statico) di essere da dover cercare al di sotto delle immediate apparenze sensibili, né vi è alcuna ricerca metafisica da erigere su tali apparenze lasciando così emergere la cosiddetta «vera Realtà». La realtà non è invece altro che quella che noi abbiamo effettivamente davanti ai nostri occhi; quindi essa si identifica con il mero divenire. Ed il fatto che essa sia in verità illusoria cambia molto poco in questa sua così inoppugnabile esistenza. Dunque, se una definizione filosofica qui emerge, essa è molto più quella di «materialismo» e molto meno invece quella di «realismo». E questo, come poi vedremo, viene pienamente confermato da Radhakrishnan.
Viene dunque spontaneo pensare che il Buddha non abbia fatto altro che prendere l’antica dottrina vedantica dell’illusorietà della realtà oggettuale immanente (a fronte della piena realtà del mondo soggettuale trascendente) spogliandola di tutta la sua metafisica idealistica per poi calarla in un definitivo pragmatismo materialista. E quest’ultimo può venire quindi considerato «realista» solo per traslato, e cioè nel senso di un pragmatismo secondo il quale è «reale» unicamente ciò che abbiamo sotto gli occhi ed a portata di mano (che esso sia o meno illusorio). Ma intanto non viene in tal modo assolutamente affermato che l’oggetto sarebbe più vero del soggetto. Semmai viene invece affermato che entrambi vengono fatalmente ingoiati ogni attimo nell’illusorietà che affetta qualunque cosa esista a questo mondo. Vedremo comunque che secondo Radhakrishnan, la scuola buddhistica hinayana configura un realismo almeno in relazione alla successiva scuola mahayana – il che significa che si tratta di un realismo perlomeno relativo. Intanto però possiamo dire con una certa sicurezza che il Buddhismo supera tanto la presa di posizione filosofica idealista (soggettualista) quanto la presa di posizione filosofica realista (oggettualista). E lo fa per la precisione in nome di una ben chiara presa di posizione materialista, ma ciò non significa affatto che esso veda nella Materia statica (ossia quella metafisicamente intesa specie in Occidente) l’unica cosa che indubitabilmente esista. Tuttavia ciò è vero per il Buddhismo solo a patto che per Materia non si intenda invece il flusso continuo del divenire, ossia la dimensione puramente energetica delle cose. Il Buddhismo crede infatti proprio in quest’ultima come nella più indubitabile delle realtà materiali e perfino ontologiche (ritornando con ciò decisamente all’onto-metafisica). La legge del karma è difatti esattamente di questa natura. In questa visione il divenire è quindi l’unica realtà, puramente dinamica (ossia forza e non invece ente), che sfugga all’illusorietà; dato che è essa stessa (come abbiamo visto) a generare l’illusoria esistenza (statica) delle cose (in quanto causa dinamica). È pertanto con questa semplicissima ed estremamente nuda metafisica che il Buddhismo pone al centro di tutto quella fenomenologia della causalità che anche la metafisica occidentale aveva sempre tenuta fortemente presente.
Questa è pertanto la sua spiegazione ultima della realtà – «Tutto esiste, sussiste e persiste solo in quanto viene causato, e quindi esiste in maniera unicamente dinamica». Questo è quindi quanto per il Buddhismo sta dietro il paravento delle illusioni sensibili – un puro ed incessante movimento. È su questa base che esso esautora totalmente qualunque onto-metafisica staticista, ossia quella della sostanza ed anche quella dell’essenza. Laddove queste ultime sono state sempre identificate (entro la metafisica occidentale) l’una con il polo percettivo-oggettuale dell’essere supremamente stabile (o statico) e l’altro con il polo conoscitivo-ideale dello stesso essere.
E proprio su questa base nella filosofia occidentale si è sempre posta la questione idealismo / realismo senza che mai essa sia stata potuta risolvere. Ecco allora che – una volta sfuggito alla dicotomia idealismo / realismo, ed una volta postosi come un deciso materialismo – il Buddhismo si appaia semmai piuttosto fedelmente a tutte le visioni filosofiche (ed in parte anche metafisiche) che hanno letto l’essere come divenire e quindi come dinamismo. E parliamo con ciò evidentemente della visione di Eraclito; alla quale poi si appaia naturalmente l’altra grande visione filosofica occidentale anch’essa estremamente simile al Buddhismo, ossia quella di Epicuro. Queste due visioni sono in molti punti così simili alla visione del Buddha che molto facilmente si è indotti a pensare che vi possa essere stato storicamente un influsso reciproco. Va detto comunque che in esse si può ben vedere una forma di realismo, dato che nel loro contesto viene negata all’idea (e quindi all’essenza) qualunque capacità di fondare o generare l’essere esteriore.

Una volta chiarito tutto questo, appare tuttavia evidente che il Buddhismo si è posto nel tempo anche come una sorta di soggettivismo idealista. Infatti, pur mettendo tra parentesi tutto ciò che è ontologicamente soggettuale (anima, Io, interiorità, coscienza, etc.), esso ha comunque visto nella “mente” un luogo dirimente per il costituirsi dell’illusorietà delle cose. E questa tendenza è progressivamente cresciuta man mano che la dottrina assumeva quello spessore filosofico che poi è stato ereditato in pieno del post-moderno pensiero occidentale di ispirazione buddhista – qui infatti il ruolo condizionante della mente veniva assimilato a quel «criticismo» (dell’esperienza ingenua) che, insorto con Kant, era infine sfociato nelle ricerche della Filosofia Analitica e connesse discipline (filosofia del linguaggio, filosofia della mente etc.). Il tal modo possiamo ben dire che l’idealismo buddhista si presenta con il carattere tipico di una critica alla mente, e non invece con la postulazione della mente come punto di riferimento fondamentale per la conoscenza ed esistenza della realtà esteriore (il che configura poi l’autentico idealismo). Di questo Radhakrishnan prende puntualmente atto [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., Introd., I, 2 p. 17-23], e tuttavia lo fa allargando di molto il raggio di questa presa di posizione filosofica ad altri momenti del pensiero indù non buddhista; e cioè al “monismo mitigato” che secondo lui è attribuibile ad una parte delle Upanishad e soprattutto al pensatore vedantico Ramanuja. Secondo l’Autore una simile presa di posizione si può inoltre ritrovare in Occidente in Hegel nella forma di un “idealismo oggettivo”; e cioè una visione in cui viene costantemente presa in considerazione l’obiettivazione dell’Idea in realtà oggettuale, con un successivo ritorno da quest’ultima all’Idea quale Io assoluto. Entro le Upanishad tale visione si presenta poi con le caratteristiche tipiche di quella metafisica neoplatonica occidentale che prevedeva la manifestazione mondana dell’Idea (quale supremo Principio di essere) seguita poi dal movimento di ritorno al Principio. E ciò configura un idealismo metafisico (di stampo fortemente platonico) secondo il quale la vera Realtà è unicamente trascendente, unitaria e statica, mentre invece la realtà immanente in divenire non è altro che un fugace ed inconsistente momento della manifestazione della prima. In tal modo quindi la realtà in divenire viene ammessa, ma intanto viene considerata tutt’altro che la vera Realtà.
Ebbene questo ci mostra ancora una volta come la così semplicistica (e riduzionista) metafisica buddhista non è in fondo altro che lo strato inferiore di una metafisica ben più complessa e sofisticata – la quale, pur se momentaneamente oscurata o cancellata, continua comunque ad esistere e a vigere. Ma tale metafisica è nello stesso tempo integralmente idealista. E questo significa allora che anche lo specifico idealismo critico del Buddhismo (incentrato com’è sulla sola critica alla mente) non è probabilmente altro che una forma parziale (riduzionistica e forse anche distorsiva) di quello che è l’autentico idealismo. Il che suggerisce ancora una volta la sostanziale insufficienza ed inconsistenza del Buddhismo filosofico.
In ogni caso questo complessivo pensiero (che oggi vede la convergenza del Buddhismo con l’ultimissimo stadio del criticismo occidentale, e cioè in particolare la Filosofia Analitica) si è dedicato in particolare alla sempre maggiore messa in discussione («decostruzione») delle certezze circa il mondo che insorgono proprio nella nostra mente. E così ha progressivamente trasformato in negativa (e quindi critica e demolitoria) quella dottrina filosofica della mente che prima (specie come Ragione) era stata costantemente positiva. In tal modo si è pertanto passati dall’idealismo ad una presa di posizione realistica, secondo la quale vero e reale non è affatto ciò che concepiamo dentro la nostra mente ma invece ciò che sperimentiamo nel mondo esteriore. Ed eccoci quindi di nuovo all’affermazione del primato dell’oggetto sul soggetto. Cosa che abbiamo visto mancare nel Buddhismo, ma comunque presentarsi nella forma di una sostanziale filosofia del divenire.
Tuttavia Radhakrishan ci mostra che vi è nel Buddhismo una dicotomia dottrinaria che è davvero fondamentale in quanto è effettivamente originaria. E quindi si può dire che essa renda del tutto secondari gli sviluppi dottrinari successivi sia nel contesto della tradizionale dottrina buddhista sia anche nel contesto della fusione di quest’ultima con la più recente filosofia occidentale.
Si tratta della dicotomia tra Buddhismo hinayana e Buddhismo mahayana [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, X, 1-8 p. 596-622]. Essa insorse progressivamente, nel senso che il secondo tipo di Buddhismo costituì la seconda prevalente scuola che successe alla prima, lo hinayana (sviluppatosi immediatamente a ridosso dell’insegnamento del Buddha, sebbene non pochi secoli dopo la sua morte). Radhakrishnan ci mostra come proprio lo hinayana va considerato il Buddhismo più crudamente pessimista e realista in senso materialista, immanentista, anti-trascendentista ed anti-metafisico. Esso fu inoltre anche decisamente anti-religioso (nel senso che rifiutò qualunque dogmatismo e ritualismo della classica istituzione religiosa), ma intanto fu incentrato su un ascetismo apertamente monacale. Proprio per questo però esso cozzò contro lo spontaneo sentimento religioso umano che fu anche dei fedeli indù (specie quello più popolare), e quindi per poco non si estinse nel nulla portando così alla distruzione l’intero Buddhismo. Ma se ciò non avvenne fu per il fatto che questo credo si sviluppò infine nella forma religiosa che esso oggi più aspramente critica nel corso della sua avanzata in Occidente, ossia la forma di una vera e propria religione di Stato (peraltro anche missionaria ed espansionistica). Infatti nell’arco di molti secoli (a cavallo tra il III secolo a. C ed il II secolo d. C.) il Buddhismo fu adottato ufficialmente da diversi imperatori (prima Asoka e poi Kaniska) espandendosi così oltre i confini dell’India ed assumendo così una forma chiaramente missionaria. Tuttavia la minaccia della possibile fine di questo credo fu aggravata dalla prepotente rinascita del Brahmanesimo intorno al II secolo d. C. (specie con le grandi scuole di pensiero vedantiche e para-vedantiche specie di Sankara e Ramanuja). A causa di tutto questo il Buddhismo fu dunque costretto a far sue una serie di tendenze che erano state rigettate più o meno direttamente dal Buddha e dai suoi più immediati successori – l’istituzionalizzazione religiosa (con il conseguente assorbimento di forme cultuali tradizionali quali templi e perfino divinità e demonologie), la metafisica, ed infine (come abbiamo visto) la stessa presa di posizione idealistica. Tutto questo avvenne con la scuola mahayana, la quale attenuò di molto l’antico rigore ascetico e pessimistico, entrò in forte compromesso con il Brahmanesimo rinascente (rinsaldandosi così al pensiero ed alla religiosità upanishadica), ed infine sostenne la popolarizzazione del credo buddhista (che cessò così definitivamente di essere un credo elitario com’era stato invece senz’altro al tempo di Buddha e subito dopo).
Ciò che comunque più mi interessa porre in evidenza di questo sviluppo è comunque la strutturazione più o meno idealista del pensiero. Radhakrishnan non esita infatti a definire lo hinayana come realista ed il mahayana come idealista. L’Autore non specifica in dettaglio in che senso il mahayana sia idealista; se non nel fatto di appaiarsi a molti luoghi del pensiero vedantico. Tuttavia, volendo sintetizzare di molto questa tendenza, si può ben dire che con il mahayana il Buddhismo iniziò a porsi come una vera e propria filosofia della mente, ossia una riflessione incentrata fortemente sulla conoscenza (gnoseologia) ed inevitabilmente sulle condizioni fondanti la scienza (epistemologia). Proprio su questa scia si sviluppò pertanto quella successiva riflessione (frantumata tra innumerevoli scuole, pensatori e relative dispute) che poi è stata presa oggi a modello dalla filosofia buddhista occidentale.
Oltre a tutto ciò Radhakrishan [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII p. 340-463] ci offre anche dei giudizi piuttosto generali sul Buddhismo, che possono esserci molto utili per comprendere la vera natura di tale dottrina. Innanzitutto l’Autore afferma che esso volle essere sostanzialmente una scienza naturale ed empirica, e quindi si presta per definizione a figurare come filosofia della natura.
Il che spiega poi molto bene l’attrazione che il Buddhismo ha esercitato sul pensiero post-moderno occidentale. Comunque, altrove nel testo, Radhakrishnan definisce molto in generale il Buddhismo filosofico come una forma di nichilismo scettico e perfino anti-razionalista [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., Introd, I, 2 p. 23-39]. E mi sembra che questo chiarisca ancora meglio la sua parentela con l’attuale pensiero occidentale – evidenziando (almeno da un certo punto di vista) la natura negativa (in quanto decostruzionista e riduzionista) di questo fenomeno filosofico.
In termini filosofico-scientifici, infatti, il Buddhismo si presenta esattamente come un riduzionismo. La natura scientifica della dottrina si incentra cioè nell’affermazione che l’unica legge che esista in Natura è quella del karma; ed essa è assolutamente non divina e non ideale, quindi è immanente, naturale e materiale. Si tratta in particolare dell’unità della Natura come connessione dinamica di tutte le cose e quindi come cogente principio di realtà proprio in questa forma fortemente riduzionista.
In secondo luogo Radhakrishnan afferma a chiare lettere che il Buddha non fu in alcun modo un personaggio leggendario, ma fu invece un personaggio pienamente storico, che peraltro si pose chiaramente nella scia del pensiero upanishadico al modo di un vero e proprio brahmana.
La solo apparente rivoluzionarietà del suo pensiero può quindi venire ben spiegata con il fatto che egli operò in un tempo in cui anche le stesse Upanishad (del tutto parallele alla sua opera) tesero alla riforma del ritualismo formalista vedico a causa dello scetticismo religioso che esso aveva finito per causare. E questo spiega anche perché in fondo il Buddha non tese affatto ad una dottrina anti-religiosa o a-religiosa, ma semmai molto più (proprio come le stesse Upanishad) ad una religione purgata dal ritualismo formalista. Certo è però che egli tese ad una religione anti-metafisica. Pertanto, tenuto conto di questo, sia il Buddhismo anti-religioso sia quello espressamente religioso (che poi sopravvennero al Buddha) appaiono essere delle forzature molto poco autentiche, che possono essersi poste solo come fraintendimento dell’insegnamento originario.
Quello che resta intanto certissimo è che fu proprio il Buddha a fondare una dottrina estremamente pessimistica, a sua volta fondata sull’unica teoria metafisica (o meglio para-metafisica) da lui prevista, e cioè quella dell’impermanenza di qualunque sostanza, ovvero quella teoria del “non-sé” (anatta), che entro la letteratura filosofica anglosassone è nota come teoria del “no-self”. Secondo questa complessiva dottrina l’essere non è altro che il dinamismo innescato dal desiderio, il quale crea letteralmente davanti a sé un solo apparente qualcosa (un ente statico) che poi invariabilmente si rivela essere un nulla non appena venga posseduto. Pertanto il realizzarsi del nostro desiderio lascia sempre e comunque solo un vuoto. Ebbene Radhakrishnan sostiene che questa costituisce una vera e propria ontologia. Precisamente è un’ontologia che pone alla base di tutto la Materia in quanto Energia ed inoltre anche in quanto pura relazione tra entità oggettuali delimitate (ovvero enti) che sono però del tutto illusorie.
In questo senso, quindi, il Buddha diede effettivamente vita ad un Materialismo – il che viene poi fortemente confermato dalla grande somiglianza al darsana naturalistico-materialistico extra-upanishadico, ossia il Sa?khya [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII, 22 p. 459-461]. Pur prevedendo in qualche modo una certa metafisica, la sua fu infatti comunque una visione anti-metafisica in quanto essa ammise solo un’ontologia immanente e sensibilmente evidente; così accuratamente di pronunciarsi sull’esistenza di una Realtà trascendente.
Radhakrishnan chiarisce però che questa dottrina dell’impermanenza appartenne in verità pienamente anche alle Upanishad. Ed ancora una volta delinearsi l’evidenza della dottrina buddhista come appena strato inferiore di una dottrina più ampia, alta e complessa. Pertanto la presenza delle Upanishad resta comunque in piedi anche nel pensiero del Buddha proprio perché pare che egli non negasse affatto la metafisica trascendentista ma si limitasse invece appena ad ignorarla (e ciò a fini ben più pragmatici che non invece teoretici o ideologici). L’Autore ci mostra quindi che solo dopo il Buddha si delineò quella dottrina filosofica della “momentaneità” (ossia della pura temporalità) dell’essere, che ebbe poi una connotazione chiaramente nichilistica.
Questo conferma quindi pienamente il sussistere nel suo pensiero di un’ontologia, e quindi l’inesistenza in essa del concetto centrale di “vuoto” che invece solo dopo sarebbe stato elaborato.
Pare infatti che il Buddha non abbia affatto negato l’essere, ma sia stato semmai appena indifferente al relativo concetto. Anzi Radhakrishanan avanza il sospetto che egli non abbia potuto postulare davvero un flusso omnivalente senza intanto postulare un Tutto nel quale tale flusso sussistesse. Ed in tal modo egli avrebbe di fatto pensato un Assoluto che trascende l’immanente.
Dato tutto ciò l’Autore deduce che probabilmente il Buddha non negò nemmeno il sé, e forse nemmeno la stessa anima; cosa che sarebbe poi avvenuta senz’altro con Nagasena e Buddhagosa.
L’unica cosa che effettivamente mancò nel suo pensiero fu quella esplicita dottrina della vera Realtà trascendente, che invece fu pienamente presente nelle Upanishad.
In ogni caso quello che è certo è che, già a partire dal Buddha, l’etica si configurò chiaramente in maniera negativa e non positiva. Infatti, una volta posto il karma come primaria causalità esattamente di tipo morale (in quanto incentrata nel desiderio come generatore delle illusioni costituite dalle cose come oggetto di desiderio), lo scopo supremo dell’esistenza non può essere altro che l’annullamento di sé. Infatti la principale delle cose che l’uomo desidera è il continuare a vivere (godendo delle cose) invece di morire. Nello stesso tempo, inoltre, il male stesso non può essere altro che il nulla generato fatalmente dal desiderio (ossia quel qualcosa che sembra essere ma invece non è, e che ci inganna con la sua forza di attrazione). Quindi anche il concetto di male rientra in un’etica che è negante invece che affermante. In tale contesto però è fondamentale la già commentata dottrina dell’inconsistenza del sé. Infatti nemmeno il soggetto stesso resta in piedi in una complessiva dottrina che intanto nega qualunque oggettualità. Pertanto non resta nemmeno quello che è il cardine della dottrina idealistico-upanishadica dell’illusorietà dell’essere immanente – quella realtà eminentemente soggettuale (del tutto immateriale) che resta indistruttibile anche quando il mondo esteriore si dissolve (nel sonno o nella morte).
Tuttavia questo così radicale nichilismo non appare essere stato affatto quello postulato dal Buddha. Radhakrishnan ci mostra infatti che anche l’inconsistenza del sé (così come gli altri aspetti metafisici buddhisti visti finora) non è in verità altro che lo strato inferiore di una complessiva dottrina (quella upanishadica) la quale postulava l’inconsistenza del solo sé o Io empirico.
Entro quest’ultima, quindi, se l’inferiore dimensione conoscitiva del vijñana riconosce pienamente l’inconsistenza del sé (in quanto Io empirico), la ben più alta dimensione conoscitiva della prajña riconosce pienamente la consistenza ontologica del Sé superiore. E questo genere di conoscenza è quella per mezzo della quale le Upanishad teorizzano la conoscenza (infallibilmente intuitiva) dell’Assoluto a sua volta prevista nello stato di samadhi. Il che significa che, pur senza dirlo, il Buddha avrebbe in fondo ammesso tutto questo anche se solo su uno sfondo di una dottrina salvifica che intendeva prescindere da tali complicazioni metafisiche.
Comunque già nel pensiero del Buddha (e proprio nel contesto di una dottrina pragmaticamente concentrata sulla sola salvezza) inizia a delinearsi quella “tranquillità” atarassica che è di fatto assenza di sentimento come forma compiuta della presa di distanza dal desiderio e conseguentemente dal mondo. Ora, sebbene questa dottrina sia stata progressivamente sviluppata nella sua pienezza solo dopo la morte del Buddha, è evidente che già nel suo pensiero essa gettò le basi di una prassi consistente nel disimpegno totale dal mondo – con l’esclusione in tal modo tanto delle cattive azioni (consistenti in un malsano attaccamento) quanto di quelle almeno possibilmente buone. Del resto Radhakrishnan sottolinea che perfino la così intensiva etica sociale del Buddhismo (incentrata sulla dimensione comunitaria, o sangha) in realtà è primariamente individualistica, in quanto concepisce la “buona condotta” unicamente in termini di prevalente isolamento (distacco). E ciò configura quindi di fatto un egocentrismo, anche se è chiaro che il Buddhismo tentò sinceramente di rifuggire questo vizio. Più precisamente l’aspirazione a non opprimere l’altro con le proprie aspettative e bisogni finisce per generare una sorta di auto-gestione egotistica di sé, la quale più che compassione sembra semmai indifferenza nei confronti dell’altro come un oggettivo valore. E il passo da qui all’edonismo sembra essere davvero molto breve se si considera l’importanza che ha nell’etica buddhista il tema del piacere-dolore – in fondo la fuga da entrambi (in direzione della beatitudine) afferma una logica incentrata proprio nel piacere come criterio, ossia un piacere ormai totalmente incondizionato. Infine, se si tiene conto del fatto che il Buddha stesso condannò il piacere in quanto illegittima fuga dal dolore (quale molla di tutte azioni guidate dal desiderio), ne deriva inevitabilmente che l’etica da lui teorizzata puntò per davvero non all’alternativa al piacere – ossia il dovere auto-sacrificale del servizio, e soprattutto l’amore auto-sacrificale; atti nei quali possiamo vedere un sentimento che senz’altro è anche desiderio –, ma puntò invece semmai ad una sorta di piacere depotenziato e indifferenziato che coincide poi appunto perfettamente con l’atarassia. Quest’ultimo ha infatti l’aria di essere proprio quel piacere incondizionato del quale parlavo poc’anzi, e che appare lontano davvero anni luce dalla dimensione dell’amore.
Insomma direi che, mancando in tutto ciò il sentimento individuale, deve necessariamente mancare anche la positiva dimensione dolorosa dell’amore, cioè quella preoccupazione per l’Altro che non può essere affatto sereno senso di armonia, ma anzi è invece molto spesso un sudar sangue sotto il peso del peccato umano-mondano. La serenità dell’armonia (auspicata dal Buddhismo) può quindi essere appena una sovrastruttura atta a nascondere questa davvero positiva e costruttiva (per quanto dolorosissima) dimensione sofferente dell’Amore, che trova invece il suo modello pieno soltanto nella Croce di Cristo. Ma probabilmente il Buddha non poteva arrivare a capire ed ammettere tutto questo per il semplice fatto che egli fu solo un uomo e non un dio. Egli, insomma, non poteva in alcun modo guardare in profondità nell’Abisso del male e del peccato, né tanto meno poteva prendere su di sé la dolorosità dell’Amore come unica soluzione al male stesso (redenzione nell’Amore). Comunque, proprio perché in tutto ciò è implicato l’Amore, deve stare esattamente in questo genere di etica la radice del disimpegno irresponsabile che in fondo fu predicato dal Buddha stesso. Infatti, a veder bene, le preoccupazioni per l’altro (il prossimo) e per la società o per il mondo non sono né possono essere affatto egoistiche. Esse quindi configurano un dolore per definizione buono e produttivo; specie se si traducono in azione (opere) per cambiare le cose. Pertanto, anche se tale opera avviene solo in questo mondo, essa ha comunque una forte valenza sovrannaturale. In contrasto con tutto questo il Buddhismo sembra invece voler abolire ogni sollecitudine preoccupata per il mondo, sostituendola con quello che assomiglia molto da vicino ad un atarassico beotismo della beatitudine.
Dunque tutto questo ci mostra la presenza già presso il Buddha delle premesse di quella successiva dottrina che (come abbiamo visto) prese infine le distanze in maniera irrecuperabile dalla metafisica non solo delle Upanishad ma anche della religiosità tradizionale in generale.
Ma Radhakrishan fa ulteriori considerazioni che ci mostrano come ciò sia vero solo fino ad un certo punto, riconfermando quindi che in realtà il Buddha non auspicò né preconizzò affatto questo successivo sviluppo dottrinario. Il suo concetto di karma infatti pare abbia voluto ricollegare l’azione passata molto più con il presente che non invece con il futuro; in modo da mettere capo ad una situazione presente affatto fissata deterministicamente ma invece aperta al futuro nel senso della responsabilità unita alla libertà creativa (come avviene anche nelle Upanishad). Infine se è vero (come dice Radhakrishnan) che il Buddha concepì il nirvana come “dissoluzione”, nello stesso tempo pare però che (a causa del suo disinteresse per la metafisica) egli evitasse di considerarlo tanto in maniera positiva ed affermativa (come effettiva unione a Dio) quanto in maniera negante e nichilistica (come raggiungimento del Nulla). In altre parole pare che egli abbia voluto interessarsi dell’unione a Dio in maniera unicamente pragmatica, invece che sublimemente metafisica. Pare quindi che abbia voluto appena postularne una forma realmente alla portata dell’uomo; il quale è certo soltanto di vivere nell’immanenza senza poter in alcun modo potersi permettere di essere certo della vita nell’aldilà.
Al cospetto di tutto questo, però, Radhakrishnan ci mostra nel disinteresse del Buddha per la metafisica il germe di una sua presa di posizione effettivamente anti-religiosa che è incentrata in una riforma tendente ad un credo consistente in una dottrina della conoscenza più che in un atteggiamento fideistico e devozionale. Anche questo però poggia per l’Autore interamente sulle Upanishad. Infatti, pur tenendo conto delle differenze esistenti tra la teoria buddhista e upanishadica della conoscenza (laddove la prima nega totalmente la dimensione astratto-universale dell’essere, e cioè l’essere ideale trascendente il mondo dell’esperienza), secondo l’Autore le premesse di questa dottrina potevano stare solo nelle Upanishad, e precisamente nella forma di una visione dai molti aspetti (anche contrastanti) che poteva intanto essere unitaria solo e soltanto in forza del fatto di costituire un’effettiva metafisica. Insomma anche l’effettiva presa di distanza del Buddha dalla metafisica non può essere vista come segno di una presa di distanza davvero significativa dalle Upanishad. Proprio a tale proposito Radhakrishnan riconferma la sua idea, secondo la quale il Buddha non volle distanziarsi in alcun modo dal pensiero upanishadico e vedantico – “Il Buddha non si considerò un innovatore, ma solo un restauratore della via antica, vale a dire quella delle Upanishad”.
In ogni caso, se abbiamo visto che il Buddha ebbe tutt’altro che un atteggiamento anti-religioso, la vasta serie delle sue radicali prese di posizione contro la religiosità vedica (a sua volta equivalente alla religiosità tradizionale di qualunque cultura) ci mostra anche che egli non ebbe alcuna intenzione di fondare un’effettiva religione. E tuttavia Radhakrishan (nel capitolo intitolato “la religione pratica”) ci mostra come il Buddhismo si mosse gradualmente proprio verso quest’ultima, e lo fece quindi tradendo totalmente le intenzioni del fondatore [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII, 19 p. 449-450]. Di conseguenza ciò che sopraggiunse in tale contesto non può che essere una metafisica falsa ed una teologia anch’essa tanto falsa quanto anche assurda e paradossale (dato che essa fu fondata su divinità unicamente mortali).

II- Argomenti per un’ipotetica inconsistenza dottrinaria del Buddhismo.
Quello finora delineato può essere considerato un quadro piuttosto generale del pensiero buddhista e del suo progressivo sviluppo. Ed abbiamo visto che la questione idealismo / realismo si presta bene a venir collocata al centro del suo contesto quale utile criterio di discernimento ed interpretazione. In questo quadro sono venuti alla luce diversi elementi di sostanziale debolezza (se non inconsistenza) della dottrina buddhista (in concordanza con quanto ho sostenuto nel mio saggio). Proverò qui a riassumerli molto brevemente, traendone poi alcune conclusioni generali.
Riprenderò comunque tali aspetti critici anche nel paragrafo successivo.
Il Buddhismo non rappresenta in alcun modo né una dottrina filosofico-religiosa originale né una filosofia di tipo orientale che possa considerarsi davvero indipendente dalle antichissime e dominanti matrici indù in cui essa insorse.
Il Buddhismo rifiutò espressamente di costituire una metafisica religiosa, ma alla fine fu costretto a diventare tale – ed è davvero difficile negare che ciò possa essere avvenuto in una maniera poco autentica e perfino sospetta. Non a caso il Buddhismo prima rifiutò espressamente di volere essere una religione e poi fece di tutto per esserlo (e peraltro in forme davvero appariscenti).
Il Buddhismo costituisce (nel suo nucleo) una dottrina così radicalmente pessimistica e nichilistica da prestarsi davvero molto poco a fondare la salvezza religiosa ed inoltre esistenziale – se non sulla base di un brutale e banale materialismo che fa di esso uno pseudo-credo ridicolmente rivestito di parvenze religiose.
Infine, da un punto di vista filosofico, il Buddhismo si presenta in una maniera piuttosto confusa, contraddittoria e paradossale; dato che non è affatto chiaro se esso sia una sorta di realismo contraddicente radicalmente l’idealismo oppure sia nello stesso tempo anche un idealismo.
Del resto, allorquando si consulta la messe oggi davvero abbondantissima di articoli filosofici di ispirazione buddhista (nei quali vengono in genere presi a base diversi pensatori tradizionali), appare evidente quanto confusamente composito (e spesso contraddittorio) sia il campo della complessiva dottrina. Anche rispetto a questo quindi si viene sopraffatti dall’impressione che il Buddhismo sia stato un pensiero che ha continuamente oscillato tra posizioni spesso radicalmente opposte. E questo – aldilà del sospetto che tutto ciò sia avvenuto (come in campo religioso) appena per sagace spirito di adattamento alla intanto agguerritissima scuola vedantica e para-vedantica – lascia pensare che esso non abbia avuto per davvero un’autentica ispirazione unitaria (come quella idealistica dei Vedanta) e che quindi sia stata molto più una filosofia reattiva che non invece attiva.
Vedremo poi che ciò sta soprattutto in relazione con l’assenza di un’effettiva, consistente ed autentica Rivelazione.Pertanto ciò che resta sullo sfondo di tutto è ancora una volta quell’estremo pragmatismo che già sul piano religioso fece del Buddhismo non un vero credo e non una vera dottrina. Sul piano filosofico ciò significherebbe quindi che esso si è arricchito solo avventiziamente e superficialmente di un pensiero filosofico.
Partendo da questo quadro di insieme possiamo quindi ritornare a ciò che avvenne dopo la morte del Buddha, specie in seguito alla grande dicotomia tra hinayana e mahayana.
Abbiamo già visto che il Buddhismo poté sopravvivere solo trasformandosi in una religione di stato ed inoltre perdendo i caratteri estremistici che esso aveva assunto inizialmente. Ma con questo fece ingresso in esso anche quella metafisica sulla distanza dalla quale il Buddha aveva eretto la sua visione, e che senz’altro costituisce la dottrina buddhistica più autentica ed originale. Questo avvenne appunto con il mahayana, e precisamente con Nagarjuna nel II secolo d. C.
Non c’è nemmeno bisogno di dire che (come del resto chiaramente affermato da Radhakrishnan) in tal modo il Buddhismo si distanziò in maniera davvero irrecuperabile dagli insegnamenti del Buddha. Quindi è molto difficile comprendere in che senso ed in che misura i pensatori buddhisti di ogni epoca (inclusi quelli odierni) affermino di rifarsi al pensiero del fondatore.
A questo punto infatti ricomparsero nel Buddhismo elementi metafisico-religiosi che il Buddha aveva inteso esplicitamente escludere (sebbene non attraverso un’assoluta negazione). Soprattutto il realismo hinayana trapassò in un idealismo estremistico molto simile a quello upanishadico, dato che esso tornava a porre l’esistenza di un Assoluto divino trascendente corrispondente al Sé divino. Oltre a questo poi iniziò a fiorire proprio in tale contesto quella leggenda della reincarnazione del Bodhisattva nel Buddha e della successiva divinizzazione di quest’ultimo, che secondo Radhakrishan prescinde totalmente dalla realtà storica dei fatti. Nel mio saggio ho mostrato come molti Autori condividono questa costatazione.
Intanto comunque il Buddhismo hinayana si presentò con caratteri molto più prossimi all’insegnamento del Buddha. Non per questo però esso appare più apprezzabile del Buddhismo mahayana. Anzi il suo radicale pessimismo nichilistico pone una prospettiva filosofico-religiosa di disgusto per il mondo e di necessaria fuga da esso (così come anche dalle stesse relazioni inter-umane), la quale, proprio per il fatto non essere in alcun modo perseguibile (e forse anche perfino per il monaco stesso), tradisce un’inconsistenza dottrinaria che si presenta specificamente come assurdità ed inoltre anche perversione del pensiero e del sentimento. Ebbene la prova del nove (confermante tutto questo) venne poi proprio con l’esigenza di riforma che fu sentita dal mahayana, e che non a caso fu costretta ad allontanarsi totalmente dalle premesse post dal Buddha e dal Buddhismo a lui immediatamente succeduto. Tutto ciò evidenzia pertanto un centrale vizio di fondo del Buddhismo in base al quale possono essere comprese molte cose. Esso sembra consistere infatti nell’assenza di una vera Rivelazione divina. Al contrario, come abbiamo già visto, il Buddha fu solo un uomo e non intese affatto creare una nuova religione, bensì solo un metodo pratico di salvezza (dalla natura ben più filosofica che religiosa). A ciò consegue che necessariamente tutto ciò che è venuto dopo di lui (ossia l’intero Buddhismo come fede e come dottrina filosofica) deve essere appena una sovrastruttura. Il che ci lascia pensare che molto probabilmente i buddhisti moderni sono dei creduloni molto più di coloro che essi accusano veementemente, ossia i cristiani. In conclusione la dottrina buddhista appare dunque risultare dalla stratificazione di tentativi artificiosi di adattamento, che tesero ad introdurre elementi diversi rispetti a quelli originari specie nel senso di una trasformazione in effettiva religione che non corrisponde affatto alla vera natura del Buddhismo. Quanto poi alla tendenziale filosoficità di questa visione, anch’essa appare fortemente inficiata da una complessiva mancanza di unità, coerenza ed organicità. Pertanto ciò che in generale si delinea è una sostanziale globale non autenticità della dottrina buddhista.

III- Alcuni fondamentali aspetti dottrinari
A questo punto prenderò in esame alcuni aspetti specifici del libro di Radhakrishan, che ci permettono di analizzare aspetti del Buddhismo che sono troppo specifici per poter venire trattati in generale. Comunque in questa esposizione parlerò a volte direttamente del Buddhismo, mentre altre volte parlerò di esso solo indirettamente, nel mostrare quali sono (a confronto con esso) le idee delle Upanishad e del Vedanta.

III.1 – La dottrina del karma, ovvero delle catene causali e del Fato.
Radhakrishan sottolinea come entro il moderato pessimismo upanishadico, le catene causali karmiche vadano intese come serie di “opportunità spirituali” e non invece come uno schiacciante determinismo [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, V p. 133-139]. E proprio per questo entro questo pensiero religioso il pessimismo può sposarsi bene con una religiosità intensamente attiva. Esattamente lo stesso sostiene anche Coomaraswamy, sottolineando peraltro che nel Vedanta il Fato è da intendere molto più come una vita dedicata al dovere (per mezzo del compito che ci tocca in sorte) che non invece come passiva e rassegnata sottomissione agli eventi [Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia o meglio sulla pneumatologia indiana e tradizionale, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 21 p. 407-408].
È per questo motivo che – pur con tutta la capitale importanza attribuita al soggetto (vedi dopo) – le Upanishad considerano l’Io esistente (ossia l’Io empirico) alla stregua di un finito che costantemente a chiamato a trasfondersi nell’Infinito, e quindi ad infinitizzarsi (e pertanto a trasformarsi nell’Io divino che esso evidentemente è solo potenzialmente). Con linguaggio nietzschiano Radhakrishan dice al proposito che l’Io umano deve venire continuamente “superato” [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 13 p. 187-189]. L’agire sotto la spinta del karma rende quindi in questo senso la vita un costante banco di prova. Il che evidentemente non solo esige l’azione ma inoltre conferisce al dolore ed alla sventura un senso estremamente positivo.
Non c’è bisogno nemmeno di dire che la dottrina buddhista del karma è diametralmente opposta a quella appena esposta. Pertanto, se è indubbiamente vero che essa si sforza molto di presentare un fortissimo determinismo solo per poi superarlo e negarlo entro la dottrina della liberazione, è molto difficile capire come una così artificiosa teoria (per certi versi inoltre disperante, raccapricciante, astrusa ed anche pochissimo credibile) abbia finito per trovare più credito della dottrina upanishadica. Ebbene la cosa più probabile al proposito appare essere che in verità (almeno in India) ciò non sia affatto avvenuto. Lo dimostrano gli aspetti estremamente controversi e pochissimo edificanti della storia del Buddhismo che ho discusso sulla base di Radhakrishan. E lo dimostra anche il fatto che in India il Buddhismo non ha mai soppiantato il pensiero vedantico. Di conseguenza l’apparente sorpasso della dottrina vedantica del karma (da parte di quella buddhista) può essere avvenuto solo nella mente degli occidentali moderni e post-moderni; ossia agli occhi di osservatori che hanno voluto prendere del pensiero indù solo ciò che collimava con i loro interessi ideologici.
Nel mentre intanto tutto il resto veniva non solo trascurato ma anche crassamente ignorato.
E così di fatto la dottrina del karma si è presentata in Occidente solo nella sua forma buddhista, ossia nella sua forma peggiore. Ma intanto tale dottrina ha potuto alimentare alla perfezione una polemica ideologica anti-religiosa (specie anti-cristiana) che invece non avrebbe trovato alcun appoggio nella dottrina vedantica. Quest’ultima infatti si presenta in una maniera in fondo affatto contraddittoria con la dottrina cristiana del libero arbitrio. E a tale proposito va nuovamente fatto notale come Radhakrishnan sottolinei che in fondo perfino il Buddha non intese negare espressamente tale dottrina, ma invece si limitò appena a non volersene direttamente occupare [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, VII, 15 p. 430-437]. Non a caso pare che egli si rendesse perfettamente conto dei possibili effetti nefasti del formidabile determinismo karmico, giungendo così a postulare la possibilità del pentimento e della conseguente libertà.

III.2 – Il distacco dal mondo, il senso del desiderio e l’ascetismo. Vita come azione e banco di prova?
Ebbene tutto ciò influisce molto su quella dottrina del distacco ascetico [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 14 p. 189-211] che è simile tra Upanishad e Buddhismo ma è anche molto diversa; ciò proprio per l’importanza annessa dalle prime all’intensità dell’azione anche nelle circostanze avverse che quasi sempre caratterizzano l’esistenza. E questo avviene perché la metafisica upanishadica è estremamente simile a quella occidentale (specie quella pitagorico-platonica) nel contesto di un’etica che promuove il distacco dal mondo in assenza di qualunque radicale pessimismo, e quindi in assenza di qualunque radicale svalutazione dell’essere e anche dello stesso sé.
Questa etica metafisica vede quindi nell’esistenza il banco di prova attraverso il quale il finito è chiamato a realizzarsi per mezzo dell’unione sempre più intima a Dio. Quindi esattamente in questo consiste l’”autorealizzazione”, ed anche la forma più intensa di conoscenza liberante dall’ignoranza sensibile, ossia l’auto-conoscenza. Si tratta di quel “conosci te stesso” che nelle Upanishad ha esattamente lo stesso significato auto-critico ed auto-repressivo che ha in Socrate [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, II p. 47-76, I, I, VI p. 151-160]. Esso non punta dunque affatto a quel complessivo distacco atarassico dall’essere che ingigantisce il proprio sé rendendolo onnipotente proprio nella consapevolezza della sua inconsistenza ontologica (come oggi viene postulato specialmente da alcune sette buddhistiche in una dottrina che poi si avvale specialmente degli apporti del tantrismo induista). Ciò che le Upanishad chiedono è invece semmai un auto-dominio che vada di pari passo con il distacco da quel desiderio davvero cattivo il quale ambisce a possedere il mondo sensibile. Non si tratta quindi affatto della condanna assoluta e generale del desiderio, così come del piacere e di tutto l’essere.
Si tratta invece appena di far prevalere il razionale sul sensibile; e ciò con tutte le conseguenze etico-religiose da questo deducibili. La principale di queste conseguenze consiste nell’autentico dovere di considerare l’esistenza come un indispensabile banco di prova per poter poi ritornare a Dio.
Il distacco è ovviamente espressamente previsto, ma si tratta di un distacco dagli “oggetti finiti” che vede in primo piano la rinuncia all’unico aspetto del sé che viene considerato condannabile, ossia l’egocentrismo (ossessionato dalla soddisfazione del desiderio e quindi dalla sete di piaceri).
In tal modo il sé non è disprezzabile in quanto rappresenterebbe la maggiore delle «nullità di essere» – e cioè perché sarebbe illusorio in senso letteralmente ontologico – ma soprattutto in quanto esso è illusorio in senso primariamente etico. Il distacco dal sé predicato dalle Upanishad è quindi molto più qualitativo che non quantitativo. Il sé egocentrico è infatti quanto più ci tiene lontani dall’azione meglio intesa (e così anche dal più pregevole esistere), e cioè quella che punta all’Infinito senza lasciarsi ingannare dall’attaccamento ai falsi fini rappresentati dalle cose finite.
In tal modo più che un radicale distacco viene promosso il disinteresse come non attaccamento specie ai desideri egoistici ed animali (kama). E qui si delinea per contrasto un desiderio buono e positivo che non va affatto disprezzato. Manca quindi totalmente nelle Upanishad la condanna del desiderio come male in sé.
Da tutto questo deriva dunque che l’ascetismo viene concepito in maniera del tutto diversa nelle Upanishad rispetto al Buddhismo. Qui insomma usciamo dall’ambito dell’etica religiosa pragmatico-esistenziale (ossia quella prevista per l’uomo comune) ed entriamo nell’ambito dell’etica religiosa pura, ossia quella prevista per il monaco. Entriamo quindi nell’ambito dell’effettivo atto di ascesa per mezzo del quale l’uomo punta all’unione mistica a Dio.
Tuttavia i fondamenti del secondo genere di etica sono gli stessi di quelli della prima. Pertanto essi differenziano allo stesso modo le Upanishad dal Buddhismo. Il secondo tipo di ascetismo non è infatti altro che il portare all’estremo il distacco radicalmente pessimistico dal mondo, dall’esistenza e dal desiderio, cioè consiste nel puntare con tutte le proprie forze all’annullamento di sé (di fatto alla propria morte personale nel contesto dell’esistenza). Il primo tipo di ascetismo è invece quello tipico del samnyasin indù-ariano, e consiste (come dice Radhakrishnan) nell’abbandonare il mondo al solo scopo di celebrare il “valore dello spirito”; invece di affermare nella propria vita la totale nullità dell’essere. L’asceta upanishadico, dunque, si ritira dal mondo solo affermativamente e positivamente, ossia al solo scopo di portare a compimento la propria esistenza (con tutte le opere che essa aveva visto intanto svolgersi) e non per distruggerla e svalutarla per sempre. Più precisamente il samnyasin si ritira dal mondo affatto nel senso della fuga dall’impegno, bensì secondo l’asramadharma, ossia il “permeare l’intera vita al potere dello spirito”. L’asceta buddhista invece si ritira dal mondo in modo unicamente negante e negativo, ossia per distruggere qualunque fede in esso, e conseguentemente anche nell’azione che si svolge in esso. Il primo tipo di asceta è pertanto un esempio positivo per chi continua a vivere nel mondo, mentre il secondo tipo di asceta è per costui un esempio unicamente negativo – quest’ultimo tipo di asceta spinge cioè l’uomo comune ad abbandonare l’insensatezza del tendere a qualunque cosa (incluse le cose più lodevoli dell’esistenza). È evidente quindi che questo secondo tipo di monachesimo ha (almeno potenzialmente) uno notevole senso distruttivo.
L’atto ascensivo dell’unione mistica a Dio sarà quindi del tutto diverso nelle due forme di ascetismo, e comporterà pertanto anche conseguenze ontologiche molto diverse [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 15-16 p. 211-222]. Infatti la “liberazione” (mok?a) rappresenta per le Upanishad il momento in cui si raggiunge in Dio quella pienezza del sé che è anche pienezza assoluta dell’Essere. Qui avviene insomma la massima conferma della reale consistenza ontologica dello stesso sé umano; il quale (in quanto Io empirico) è in fondo minacciato dal non-essere quanto lo sono le cose stesse. Per il Buddhismo invece questo è il momento in cui il sé tocca finalmente quel Vuoto che rappresenta poi l’unico vero Essere cioè il Nulla, e pertanto si trasforma anche esso stesso in un Nulla. Ebbene tutto ciò è già di per sé estremamente negativo sul piano etico-religioso ed anche etico tout court. Ma non si tratta affatto solo di questo. Radhakrishan chiarisce infatti che, pur con tutto il suo ribrezzo per la metafisica, il Buddhismo raggiunge proprio in tal modo il culmine di una paradossale tendenza all’astrazione del pensiero (da esso negata a parole ma invece perseguita nei fatti). Infatti, proprio in quanto non pienezza dell’essere e del Sé, il Dio quale Vuoto (o Nulla) non è in fondo altro che un’astrazione, anzi è perfino la somma astrazione concepibile. Esso può insomma venire concepito solo astraendo totalmente da quanto noi umani conosciamo nel contesto dell’esperienza. Ebbene il mistico più appassionato può salutare in questo il Dio negativo (apofatico) nella sua più audace formulazione. Esso sarà però ancor più per questo un Dio non solo irraggiungibile ma anche assolutamente inconcepibile. Ed il passo da qui all’ateismo è davvero breve. Non a caso (in contraddizione con le intenzioni dello stesso Buddha) il moderno Buddhismo occidentale tende molto spesso a presentarsi proprio come un ateismo.
Ho dimostrato questo recentemente attraverso un’ampia disamina della letteratura filosofico-buddhista occidentale [Vincenzo Nuzzo, “L’inconsistenza dottrinaria del moderno Buddhismo filosofico occidentale”.
https://cieloeterra.wordpress.com/2019/11/12/linconsistenza-dottrinaria-del-moderno-buddhismo-filosofico-occidentale/%5D.
Ma bisogna anche dire che a questo punto si delinea come una reale alternativa (sia alle Upanishad che al Buddhismo) l’unione mistica ascensiva a Dio così come venne concepita nella Bhagavadgita; ossia un atto di dissoluzione eroico-sacrificale della propria egoicità (intanto affatto radicalmente negata nella sua sostanzialità) per poter raggiungere un Assoluto divino in alcun modo astratto (né al modo delle Upanishad né al modo del Buddhismo) in quanto esso viene incontro all’uomo come Persona divina e quindi anche come modello di umano-divinità [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, IX, 8 p. 561-563].

III.3 – La dottrina dell’essere e l’ignoranza come male.
Naturalmente tutto quanto ho finora mostrato del Buddhismo si incentra sulla fondamentale dottrina dell’essere come mero frutto di ignoranza, e come tale anche male in assoluto.
Ebbene Radhakrishnan ci mostra come tale dottrina affondi pienamente le sue radici in quella upanishadica. La quale allo stesso modo postula (ancora una volta a somiglianza di Platone) la fondamentale ignoranza umana della vera Realtà (o vero Essere) con tutte le sue conseguenze negative di tipo etico. Insomma anche per le Upanishad l’ignoranza umana del vero Essere costituisce un male. Appare però evidente che, mentre il Buddhismo nega in tal modo totalmente la realtà dell’Essere, le Upanishad invece la affermano nel modo più categorico possibile.
Quel che è certo è che sia nel Buddhismo che nelle Upanishad la dottrina del karma si ricollega alla dottrina che ho appena menzionato [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 17-19 p. 222-235]. In entrambi i casi infatti tale dottrina sottolinea l’importanza della responsabilità individuale rispetto agli eventi esteriori, facendo così piazza pulita di qualunque deresponsabilizzazione dell’individuo rispetto al male che ad esso tocca nell’esistenza. E tuttavia anche in tale contesto il suo senso appare sensibilmente diverso; il che diviene poi evidente quando si esaminano le conseguenze etiche ed etico-religiose dell’assunzione di responsabilità da parte dell’uomo.
Innanzitutto, come dice Radhakrishnan, l’ignoranza circa l’essere consiste (per le Upanishad) propriamente nel trascurare l’unità profonda delle cose in Dio (come Realtà spirituale); scambiandola invece per separazione obbligata tra le cose, che ci porta poi a credere al nostro stesso Io empirico come separato dagli altri e dal Tutto. E questo ci spinge fatalmente all’egocentrismo, ossia a porre l’Io umano al di sopra di quello divino. Come si può vedere (a differenza del Buddhismo) l’accento posto sull’ignoranza non ambisce affatto a cancellare l’essere, ancor più se esso viene concepito come Essere divino; semmai invece punta a rafforzarlo straordinariamente. Posto allora questo, se anche nelle Upanishad (così come nel Buddhismo) il karma viene concepito come una forza dinamica incarnante l’ordine legislativo stesso dell’universo – ossia viene concepito come una legge inderogabile dell’essere: esso è “legge dell’uniformità” dominante il “mondo fisico” in quanto elementare conservazione dell’energia iniziale (specie nell’ambito psicologico) e quindi in quanto Necessità che senza tema di smentita prima o poi farà pesare il suo effetto (nei termini di quella che inevitabilmente ci apparirà come una punizione per il male commesso) –, tuttavia da ciò scaturisce tutt’altro che una rassegnata passività di fronte agli eventi negativi, oppure (come nel Buddhismo) una sorta di estatico abbandono alle inesorabili forze della Natura che accentua il distacco pessimistico nella forma di un autentica «volontà di morte». Al contrario entro le Upanishad da ciò scaturisce semmai una dottrina della responsabilità attiva (incentrata peraltro nella sottomissione auto-sacrificale al compito postoci davanti dall’esistenza) che si trasforma infine in una libertà creativa addirittura trasfigurante il Fato. Insomma sulla scia del karma l’uomo è chiamato a sviluppare una forza di spirito talmente grande da riuscire a fondare addirittura l’esatto contrario di ciò che il concetto di karma spontaneamente ci suggerisce, e cioè la rassegnazione ai fatali effetti degli errori passati.
Si tratta cioè del potere di richiamare su di sé la redenzione dalle schiaccianti catene del Fato ingeneratesi nel Passato. E questo potere si presenta in una forma molto simile a quello al quale ci si appella (entro la religiosità tradizionale) nell’invocare l’aiuto divino ed il miracolo – “Qualunque mondo agogni con la sua mente e qualunque oggetto desideri l’uomo dalla mente pura, egli l’ottiene…”.
Le Upanishad quindi vedono nell’azione pura (e quindi riscattata e liberata nuovamente dalla dimensione del sensibile) il più pregevole risultato del karma. E si tratta di un risultato positivo in tutti i sensi. Lo stesso però senz’altro non si può dire del Buddhismo. Come abbiamo già visto, Radhakrishan ci mostra comunque che, entro il pensiero indù, l’azione intesa in tal senso venne postulata in particolare entro i cosiddetti testi epici, ossia di fatto la Baghavagita [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., II, IX, 1-12 p. 531-587]. Il che poi rende chiaro come molto probabilmente il Buddhismo semplificò ad uso e consumo delle masse la complessiva (e metafisicamente molto sofisticata) dottrina dell’azione pura.
Pertanto è evidente che in tal modo, così come viene concepita un’effettiva, reale e indubitabile continuità dell’essere (per quanto solo al di sotto delle ingannevoli apparenze mondane), viene concepita anche un’effettiva, reale e indubitabile continuità del sé, ossia l’Io umano. Radhakrishnan ci dice che si tratta per la precisione di quella “personalità” che rappresenta quanto in noi è assolutamente indistruttibile. Essa è infatti una vera e propria “identità persistente” che trascende l’Io empirico ma intanto resta intimamente legato ad esso per tutto il corso dell’esistenza; divenendo poi totalmente libera solo dopo la morte del corpo fisico, ma intanto raggiungendo in tal modo la totale pienezza di essere.

IV.4 – La dottrina del sé (anima-spirito, io e persona).
Innanzitutto Radhakrishnan afferma a chiare lettere che il Buddhismo ha frainteso quel “problema del sé” che era stato inteso in maniera composita e problematica perfino nel pensiero vedantico successivo alle Upanishad (incluso Sankara) [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I, IV, 7 p. 150].
La dottrina dell’illusorietà del mondo immanente è presente, come abbiamo visto, sia nel Buddhismo che nelle Upanishad. Eppure in queste ultime essa non implica alcuna postulazione dell’inconsistenza del sé (“no-self”). Invece essa implica semmai l’esatto contrario, ossia comporta l’affermazione che il soggetto (in luogo dell’oggetto) costituisce l’unico e solo vero essere (la vera Realtà). Insomma il fatto che il sé sia (per sua costituzione ontologica) totalmente disconnesso dai sensi e dal corpo non implica affatto che esso debba venire considerato illusorio per definizione [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia… cit., I. IV, 7 p. 140-151].
Sul piano filosofico ciò accade chiaramente perché il pensiero vedantico è davvero uniformemente idealista, come invece il Buddhismo non riesce assolutamente ad essere (nonostante i piuttosto controversi tentativi in tal senso del mahayana). Ma oltre a ciò la dottrina upanishadica ci mostra anche che l’analisi buddhista del sé è tutt’altro che razionalmente ineccepibile (come viene invece presentata specie dalla filosofia occidentale post-moderna). Anzi forse è semmai ben più ideologica che non invece coerente e razionale. Più precisamente però (come suggeritoci da Radhakrishan) essa configura una sorta di curioso razionalismo materialista. Dato che l’affermazione secondo la quale il soggetto non è in alcun modo una mera oggettualità viene trasformata dal Buddhismo nell’affermazione della sua obbligata inconsistenza ontologica. E ciò presuppone proprio l’ammissione dell’immanenza mondano-corporale (materiale e naturale) come cogente criterio di realtà. Ciò che infatti viene affermato è in fondo questo: – «se il soggetto è spirito e non invece corpo, esso dunque è un nulla». Non a caso a tale proposito Radhakrishan sottolinea che il Buddhismo è “empirista” almeno quanto è materialista. È dunque in questo senso che (almeno per traslato) possiamo anche considerarlo realista.
In ogni caso, in termini squisitamente metafisici, la categorica affermazione upanishadica della realtà del sé (quale soggetto) punta a sostenere l’indubitabile esistenza non solo di ciò che è Io e persona (ossia interiorità cosciente e conoscente) ma anche di ciò che è anima e spirito.
Naturalmente però viene intanto istituita una differenza ben chiara (in rango ontologico ed in pienezza di essere) tra il supremo Sé (divino) ed il sé umano, ossia quell’Io empirico che prima abbiamo riconosciuto come mero Io esistente finito.

Conclusioni.
Quanto ho esposto e discusso in questo testo è senz’altro appena ciò che risulta dalla lettura ed analisi di un solo testo, e cioè quello di Radhakrishnan. Ora, è ovvio che il Buddhismo non può venire sottomesso a giudizio critico sulla base delle opinioni di un solo testo e di un solo Autore. Tuttavia innanzitutto la mia analisi critica del Buddhismo è stata sviluppata anche in altri testi e quindi sulla base delle opinioni di diversi Autori. Oltre a ciò, però, il testo di Radhakrishanan non solo espone la dottrina buddhista in maniera sistematica, articolata e molto esauriente, ma ha il grande merito di collocarla solidamente in un contesto davvero molto ampio (culturale, religioso e filosofico). E questo (come ho già detto nell’introduzione) ci fornisce la preziosa occasione di poter vedere con cosa in realtà tale dottrina è intimamente connessa – permettendoci in tal modo di evitare di prenderla in considerazione solo in modo assoluto e soggettivo. Questo tipo di approccio (che poi proviene da un Autore che non ha affatto pregiudiziali intenzioni critiche) permette quindi al lettore di potersi formare un’idea sufficientemente oggettiva di ciò che il Buddhismo davvero è o non è. Il che a mio avviso ha il grande vantaggio di riuscire a prescindere tanto da valutazioni unilateralmente critiche (com’è stata senz’altro la mia nel saggio che ho più volte menzionato) quanto anche da valutazioni di parte, ossia valutazioni provenienti da adepti del credo buddhista. E tali sono oggi coloro che in genere parlano di Buddhismo o riflettono su di esso.
Proprio su questa base assume pertanto grande importanza il fatto che, anche alla luce di una disamina molto imparziale ed oggettiva, il Buddhismo finisce per rivelare non pochi punti deboli.
Oltre a ciò, comunque, l’analisi del Buddhismo permette anche di chiarire ulteriormente quella fondamentale questione idealismo / realismo che ho finora discusso più volte (nel corso delle precedenti lezioni) come un tema di importanza filosofica non solo teorica ma anche estremamente pratica. E come il lettore avrà forse notato, appare abbastanza chiaro che il Buddhismo – pur con la straordinaria attenzione da esso rivolta agli aspetti pratici ed esistenziali della riflessione filosofica e filosofico-religiosa – finisce per dare risposte insufficienti esattamente perché esso non riesce ad essere sufficientemente idealista. Abbiamo visto infatti che la riflessione circa l’illusorietà della realtà (che proprio il Buddhismo propone come cardine di una via di redenzione dotata del coraggio di affrontare frontalmente le terribili realtà pratiche del dolore e della sventura) si presenta nella sua vera pienezza soltanto nell’idealismo metafisico e trascendentista delle Upanishad e del Vedanta. Invece entro il materialismo ed immanentismo buddhista (che per certi versi è perfino un realismo) tale riflessione (almeno nelle sue forme più autentiche, ossia quelle davvero originarie) si presenta come una dottrina che in verità sembra promettere molto più di quanto possa mantenere. Infatti, una volta presa nella sua autenticità, essa non ci offre alcuna via, per affrontare la dura realtà mondana ed umano-esistenziale, che non sia quella della fuga verso l’annientamento di sé, ossia di fatto verso la morte (ed inoltre verso una disperante visione nichilistica e pessimistica dell’uomo e del mondo). E abbiamo visto quanto pericolosamente questa visione ci distoglie dall’azione ed inoltre da un’etica davvero incentrata nell’amore altruistico.
Dunque, pur tenuto conto di tutte le difficoltà comportate dall’idealismo filosofico, ancor più se metafisico-religioso (in particolare il rinvio ad una realtà e ad una dimensione salvifica della cui esistenza non possiamo essere in alcun modo certi), dal suo confronto con la via buddhista emerge chiaramente che esso ci offre almeno gli strumenti per affrontare l’esistenza con spirito positivo, combattivo e costruttivo.
Ecco dunque che proprio per questo l’analisi critica del Buddhismo ci permette di comprendere meglio qual è il senso dell’idealismo filosofico quando esso viene applicato alla vita, ossia ai problemi ed ai crucci che l’uomo comune è chiamato ad affrontare nella sua esistenza.
Ed in questo modo allora noi avremo un quadro ancora più chiaro di cosa può essere una filosofia intesa come disciplina utile nell’esperienza comune e quotidiana.
Il senso di questa lezione è quindi in primo luogo questo, e solo secondariamente quello di una critica al Buddhismo.

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L’idealismo può ben venire considerato il tratto dominante della filosofia moderna. Esso inizia infatti con Cartesio e si protrae di fatto fino ai giorni nostri. Il che resta vero anche se tale percorso è stato comunque inframmezzato da non poche fasi di «realismo», ed inoltre sta proprio oggi culminando in uno dei realismi più estremistici che ci siano mai stati al mondo, ossia quello (in gran parte anglosassone) che intende ormai equiparare la filosofia alla scienza empirica della Natura. Eppure perfino quest’ultimo realismo è nato da una presa di posizione filosofica che senz’altro può venire definita un idealismo, ossia quella Filosofia Analitica entro la quale si è voluto far trionfare la «verità» per mezzo dello strumento di una logica (e relativa purissima epistemologia) tra le più sottili che mai siano state impiegate in filosofia; ossia una logica destinata a demolire senza mezzi termini qualunque verità che non abbia a che fare con la realtà esperienziale nuda e cruda (cioè solo e soltanto con il mondo degli oggetti effettivamente «reali» che noi sperimentiamo per mezzo dei sensi).
Ma cerchiamo innanzitutto di intenderci sui termini. Cosa intendiamo noi esattamente con «idealismo» e «realismo». Ebbene, forse una delle definizioni più pregnanti della natura di queste due prese di posizione filosofica ci venne fornita da Edith Stein nel suo “Potenza e atto”. Ella ci mostrò infatti che l’«idealismo» è quella presa di posizione filosofica che concepisce una «coscienza senza mondo», mentre il «realismo» è quella presa di posizione filosofica che concepisce un «mondo senza coscienza». Si tratta di una definizione molto sintetica e perfino sbrigativa; essa quindi porta senz’altro alle estreme conseguenze le affermazioni delle due prese di posizione (giungendo addirittura ad esagerarle). Ma comunque ci fa capire bene quale sia il loro nucleo più intimo. Intanto va però registrato che voi non udrete mai dire da un idealista che egli nega l’esistenza del mondo cosale (cioè dell’oggetto), e non udrete mai dire da un realista che egli nega l’esistenza della coscienza o dell’idea (cioè il soggetto).
Tuttavia sta di fatto che, al fondo di tutto, è esattamente questo che entrambi affermano.
Infatti l’idealismo postula una coscienza che può benissimo «esistere» senza un corrispondente mondo – volendo così sostenere che l’essere può venire riconosciuto solo interiormente, e quindi che la coscienza «sta» effettivamente per l’essere. Tale affermazione non è però affatto arbitraria, in quanto l’idealista vuole in definitiva dire con ciò che noi possiamo essere sicuri solo del mondo cosale conosciuto in quanto «vero», ossia sottomesso a quella verifica di realtà che può davvero avvenire solo entro la coscienza. Solo in questa sede infatti (per mezzo dell’infallibile intuizione della vera essenza della cosa, che caratterizza solo la mente sveglia, ossia cosciente ed auto-cosciente) io posso decidere se la cosa che sta davanti a me è un oggetto effettivo oppure è invece solo un’illusione dei sensi. E questo problema venne sollevato da uno dei capisaldi dell’idealismo filosofico occidentale, cioè Kant (poi vedremo l’efficacissimo esempio da lui addotto per questo). In altre parole l’idealista afferma che, senza volersi nemmeno pronunciare sull’esistenza oggettiva o meno di un mondo esteriore, quello che è certo intanto è che noi uomini (in quanto soggetti esistenti caratterizzati dall’essere coscienti-conoscenti-pensanti) il mondo esteriore possiamo solo conoscerlo. Dunque se noi smettiamo di conoscerlo, è davvero come se esso svanisse del tutto.
Questo fu del resto quanto venne sostenuto da Berkeley nel XVIII secolo (contro i realisti empiristi) con il suo principio dell’”esse est percipi”. Il che vuol dire che l’essere consiste nel venire percepito e quindi nel venire conosciuto (cosa che avviene per mezzo della rappresentazione ideale della cosa). Dunque, volendo di nuovo usare una formula molto sintetica, possiamo dire che se noi chiudiamo gli occhi (come avviene in sonno), di fatto il mondo esteriore svanisce; nel mentre intanto non resta altro che noi stessi come Io, e cioè come soggetto cosciente-conoscente-pensante. Come abbiamo visto nelle precedenti lezioni, la grande scoperta cartesiana del «cogito-sum» può ben venire riassunta proprio in questo – dopo aver cancellato per un attimo («messo tra parentesi») il così incerto essere mondano-esteriore, non resta altro esistente se non l’Io del quale noi intanto siamo consapevoli. Quindi deve essere necessariamente questo «il principio di ogni conoscenza».
Quanto poi al realismo, esso postula invece un mondo che può benissimo «esistere» senza una corrispondente coscienza – volendo così sostenere che l’essere non ha affatto bisogno di venir conosciuto perché ne possa venire ammessa l’esistenza. Ciò significa insomma che il mondo cosale è un’evidenza assolutamente inoppugnabile ed incontestabile – e ciò per il semplicissimo motivo che noi vi siamo immersi dentro, in quanto enti indubitabilmente «esistenti». Infatti, prima di ogni altra cosa, noi uomini (insieme al resto di tutte le altre cose, ossia gli altri) dobbiamo esistere per poter essere quello che siamo e fare quello che facciamo. In altre parole l’indubitabilità di esistenza si sposta dall’Io (soggetto e mondo interiore) al mondo (oggetto e spazio esteriore). E tale indubitabilità è del resto chiaramente attestata da ciò che i nostri sensi ci mettono davanti agli occhi (e senza la minima ombra di dubbio) ogni attimo del nostro esistere cosciente. In base a questo il realista considera assolutamente ridicolo sia il postulare una coscienza che possa esistere senza un corrispondente mondo, sia anche il ritenere che l’esistenza indubitabile della coscienza possa in alcun modo condizionare l’esistenza del mondo. Ecco che allora (volendo anche qui usare la nostra estremistica formula sintetica) bisogna dire che per il realismo è ridicolo anche il ritenere che il mondo possa (in qualunque misura) svanire se noi chiudiamo gli occhi. Infatti basta semplicemente allungare la mano ad occhi chiusi, e noi con la massima certezza possibile incontreremo intorno a noi il solito inoppugnabile mondo di cose.
L’esistenza del mondo è insomma per il realismo un dato di fatto incontrovertibile. E bisogna dire che questa presa di posizione è in fondo anche quella dell’uomo comune e dello scienziato della Natura.
Quindi il realismo filosofico si approssima molto a queste due ultime visioni. Ma qui arriviamo al punto. Perché intanto la filosofia moderna è stata (da Cartesio in poi quasi uniformemente idealistica) proprio perché essa ha sempre ritenuto insufficiente la visione del mondo propria dell’uomo comune ed anche dello scienziato della Natura. Tale visione è stata infatti sempre accusata di prendere semplicemente il mondo così com’è senza sottometterlo ad alcuna scrupolosa verifica conoscitiva – il che comporta poi il grande rischio di prendere per reali degli oggetti che sono appena frutto delle illusioni sensoriali.
E del resto sappiamo tutti quanto ciò sia vero. Ma Kant ci offre per questo un ottimo esempio, ossia quel bastoncino immerso a metà in un bicchiere d’acqua, che i nostri sensi vedono come piegato in due (al livello della superficie acquosa) mentre «in verità» esso è assolutamente dritto.
È esattamente per questo motivo che la filosofia idealistica moderna si è praticamente strutturata intorno alla teoria della conoscenza. Ed in fondo perfino i più realisti dei realisti (gli empiristi del XVIII secolo) tentarono di rispondere proprio alle fondamentali questioni poste da questa teoria.
Quanto ho appena detto ci mostra insomma perché in fondo la filosofia moderna è stata sempre più idealistica che realistica. Dunque essa ha sempre posto in primo piano la teoria della conoscenza, e quindi ha fatto decisamente prevalere l’«epistemologia» (la visione del mondo condizionata alla verità come criterio fondamentale della scienza) sull’«ontologia» (la visione del mondo che ritiene l’essere qualcosa di assolutamente incondizionato alla conoscenza). Su questa via si è giunti nella prima metà del XX a quella fenomenologia di Husserl che condannava molto esplicitamente l’”ingenuità” (nel guardare al mondo) sia dell’uomo comune che dello scienziato empirico.
Tuttavia a tutti sarà intanto apparso chiaro che idealisti e realisti hanno entrambi ragioni da vendere.
E quindi non può stupire nessuno sia il fatto che la questione idealismo / realismo non sia stata mai archiviata in filosofia, e sia il fatto che la filosofia idealistica moderna doveva per forza conoscere anche delle intensissime fasi realistiche. Una di questa fu quell’empirismo (anglo-francese del XVIII secolo: Hume, Locke, Condorcet etc.) che addirittura condizionò fortemente l’idealismo di Kant proprio per mezzo del valore attribuito all’esperienza (come criterio di realtà delle cose).
Volendo essere infine estremamente pratici, direi che la questione idealismo / realismo possa comunque interessare chiunque dato che essa tocca molto da vicino un problema che tutti incontriamo nella nostra esistenza, e cioè quello della relazione esistente tra il Possibile ed il Reale, ossia tra quello che vogliemo e desideriamo che sia e ciò che effettivamente può essere.
In qualche modo infatti l’idealismo si fa sostenitore di sorta di potenza illimitata del Possibile, ovvero della capacità del Possibile (la dimensione dell’idea come paradigma della cosa, e del soggetto come ordinatore intelligente-conoscente del caos mondano) di «creare» o «generare» letteralmente l’essere. Potremmo dunque definire questo atto come «onto-generazione». La spiegazione dell’essere come primariamente conoscibile fa in fondo riferimento proprio a questo – io, in quanto soggetto, genero un mondo di cose intelligibili, ossia perfettamente conosciute. E questo mondo di fatto si sostituisce al grezzo e caotico essere (immediato ed inintelligibile) del mondo esteriore percepito con i sensi. Ecco allora che, in una visione idealistica com’è stata la Fenomenologia di Husserl, il mondo degli oggetti interiori (tutti veri in quanto verificati) si sovrappone totalmente al mondo degli oggetti esteriori (non veri per definizione), configurando in tal modo una vera e propria «ontologia di coscienza». Non a caso tra questi oggetti ve ne sono alcuni che sono veri e reali anche se essi non hanno alcun riscontro nel mondo degli oggetti dell’esperienza concreta – tali oggetti sono infatti tanto immaginari quanto reali. Proprio questa ammissione ci fa dunque comprendere cosa intenda Husserl quando dice che la cosa deve venire concepita come “fenomeno” – essa è tale in quanto (una volta trasferita nella coscienza dall’atto conoscitivo) assume le caratteristiche specifiche di un “vissuto”, ossia di un oggetto interiore. La cosa in quanto “fenomeno” (ossia la cosa interiore) riesce quindi ad includere in sé tutti i possibili gradi di «realtà» di ciò che è «oggetto». Questo non accade invece affatto per la cosa lasciata alla sua esteriorità.
Pertanto l’oggetto interiore è reale in ogni caso – che esso sia soltanto immaginario o anche corrisponda ad un oggetto sperimentabile nel mondo esteriore. Anzi Husserl ritiene che la verità dell’oggetto possa essere (o non essere) affermata solo una volta che esso sia prima divenuto un oggetto interiore. Infatti solo l’analisi dell’essenza (che può avvenire solo entro la conoscenza auto-cosciente) ci potrà dire se l’esistenza di quell’oggetto (solo immaginario o anche sperimentabile) è o meno qualcosa di assolutamente impossibile. Tali sono le cose che Husserl (riferendosi alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, ma comunque richiamando anche i “paralogismi” kantiani della ragione) definì come “chimere”. E va notato che tra di esse rientrano gli oggetti che la tradizionale metafisica (almeno fino a Kant) aveva considerato come certamente esistenti. Tale è infatti ad esempio Dio.
Al contrario di tutto ciò il realismo si fa invece sostenitore dell’impotenza totale del Possibile rispetto a quel Reale che è esistente (e perfino vero) di per sé, ossia senza alcun bisogno di giustificazione conoscitiva. Pertanto per il realismo è un grave errore (ed anche una colpevolissima illusione) il ritenere che possa essere possibile ciò che sfida quanto abbiamo sotto gli occhi, e che obbedisce alle invariabili e ferree leggi che regolano la Natura. Quindi il realismo ci incoraggia ad essere estremamente sobri nelle nostre aspettative verso il mondo – dal suo punto di vista, insomma, avverrà solo quanto è conforme alle ferree leggi della Natura. Il che significa che buona parte delle nostre aspettative e speranze (in relazione al mondo) verranno spazzate via senza la benché minima pietà.
In buona sostanza possiamo quindi constatare che mentre l’idealismo allarga al massimo il campo del «reale», invece il realismo lo restringe al massimo possibile.
Dunque possiamo dire che in qualche modo l’idealismo ci autorizza a ritenere che «tutto è possibile» (solo a patto che sia razionale, ossia ragionevolmente reale anche se non necessariamente sperimentabile esteriormente), mentre invece il realismo ci autorizza a ritenere che «nulla è possibile» se non quello che abbiamo sotto gli occhi e a portata di mano (o che almeno domani, in piena conformità con le leggi della Natura, possiamo aspettarci di avere sotto gli occhi e a portata di mano). In qualche modo insomma il realismo sembra ben più pragmatista e perfino cinico. Sebbene vada comunque anche precisato che (almeno fino a Cartesio ed a partire dalla Scolastica medievale) era sempre esistito un realismo metafisico-religioso, ossia una visione che riteneva del tutto reale l’esistenza di oggetti intanto totalmente invisibili (come la famosa “sostanza” e ovviamente lo stesso Dio). È evidente che questo genere di realismo non aveva davanti a sé il mondo della Natura, ma invece il mondo creato da Dio. E quindi il suo sobrio pragmatismo veniva di molto mitigato da quell’etica religiosa che poteva ammettere nel mondo tutto tranne il male. In altre parole il realismo religioso non giungeva mai ad essere cinico, e quindi disinteressato ai destini del singolo umano. Anche per questo motivo esso riusciva ad essere metafisico.
Ma su questo non posso qui soffermarmi oltre.

Avendo già parlato già anche di Cartesio (nelle precedenti lezioni), non credo che sia necessario dire di più sull’idealismo come presa di posizione filosofica. Infatti non credo che al lettore (che non sia addentro negli studi filosofici) possano interessare né un’analisi più approfondita dell’idealismo né il ripercorrerne la storia entro il pensiero occidentale. Mi limiterò pertanto solo a ricordare che uno degli aspetti più tipici dell’intero idealismo è sempre stato la postulazione di un onnipotente Io che presiede in vari modi all’esistenza delle cose mondane esteriori, e come tale deve venire considerato come un «centro» dal quale tutto si diparte ed a partire dal quale tutto viene «controllato». Secondo quello che abbiamo già detto, dunque, questo Io veniva considerato in possesso di un potere dai due volti, ossia un potere centrifugo ed insieme centripeto: –
1) il potere di generare l’essere (cioè tutte le cose del mondo) per mezzo di un atto conoscitivo che sembrava avere la valenza di una vera e propria «creazione», ossia l’«onto-generazione»; 2) il potere di ricondurre a sé stesso l’essere (e cioè tutte le cose del mondo) in modo che esse acquistassero un’esistenza che si potesse riassumere nel suo «senso». La trasformazione husserliana della cosa esteriore in “fenomeno” ebbe proprio lo scopo di porre in evidenza il senso delle cose. Inoltre potremmo ricondurre proprio a due concetti husserliani le due azioni (centrifuga e centripeta) dell’Io appena delineate: –
1) l’azione centrifuga corrisponde alla “costituzione” (CO) dell’essere da parte dell’Io; 2) l’azione centripeta corrisponde alla “riduzione trascendentale” (RT) dell’essere all’Io, detta anche “riduzione fenomenologica”. Ma proprio in ragione di quest’ultimo concetto (che poi risale di fatto fino a Kant con la sua rivoluzionaria scoperta del livello “trascendentale” dell’essere) il così possente Io assunse entro l’Idealismo (del XIX e XX secolo) varie denominazioni che ne sottolineavano quell’importanza decisiva e quel potere onto-generativo i quali divengono evidenti proprio nella sua capacità di ricondurre a sé tutte le cose. Si tratta insomma del modo più radicalmente idealistico di intendere la questione conoscitiva (o teoria filosofica della conoscenza) – la conoscenza delle cose raggiunge il suo culmine solo laddove l’Io (e con esso la coscienza) costituisce l’ultimissimo momento del progredire di essa dall’esteriore all’interiore. In questo supremo luogo, dunque, la conoscenza delle cose trova la sua estrema sintesi, la sua estrema purificazione e la sua estrema verifica. Ecco quindi che l’Io finì per assumere nell’idealismo la valenza di una vera e propria entità trascendente (non a caso in Hegel esso finì per essere assimilata a Dio stesso, fondando così una curiosissima teologia laica). In ogni caso si basano su tutto questo le varie denominazioni che assunse l’Io quale entità finale e trascendente – “Io assoluto”, “Io puro”, “Io trascendentale” etc. Ed in particolare va notato che in tal modo si tendeva ad assolutizzare in maniera estrema quell’Io che era stato scoperto da Cartesio, e che però da lui veniva riconosciuto ancora come ciò che esso effettivamente è, ossia l’Io psichico umano, e quindi un’entità del tutto immanente e perfino naturale. Ebbene, almeno in una parte della filosofia idealistica (come ad esempio presso Edith Stein), questa entità veniva riconosciuta come un «Io-esistente», ossia un esistente tra gli esistenti ed un ente tra gli enti. Ed è chiaro che in tal modo ne veniva chiaramente (e del tutto giustamente) negata la così pleonastica e pochissimo convincente trascendenza.
L’effettiva trascendenza veniva infatti concessa solo all’Io divino. Sta di fatto che però nell’idealismo più oltranzista – non a caso rigorosamente laico (com’è senz’altro quello di Husserl o di Hegel) − l’Io assoluto era una specie di trasformazione universalizzante e depersonalizzante dell’Io psichico umano o anche Io-esistente.
Ebbene perché dico tutto questo? Un motivo c’è! Infatti, proprio perché (come ho detto prima) io non intendo estendere oltre la mia analisi dell’idealismo − volendo invece restringermi ad una soltanto delle problematiche che esso apre −, vorrei qui limitarmi a chiamare in causa soltanto la relazione che possiamo stabilire tra l’Idealismo occidentale e l’Idealismo orientale. E questo perché questo paragone ci permette di riconoscere nell’idealismo degli aspetti che a prima vista non emergono, e precisamente più degli aspetti negativi che non positivi. In primo luogo emerge infatti l’impressione che in Occidente l’idealismo abbia intuito (e solo tardivamente) una serie di cose che erano state in verità già intuite e pensate prima, e peraltro in maniera molto più completa, profonda e coerente. Esattamente questo era avvenuto entro quell’Idealismo orientale che è poi un pensiero nato forse già nel 6000 a. C. con la visione vedantica [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I, II, I p. 53]. L’Idealismo occidentale non può vantare in alcun modo questa così venerabile anzianità e maturità di pensiero. Esso infatti al massimo risale fino al IV secolo a.C. con Platone. E peraltro la straordinaria somiglianza esistente tra la dottrina platonica e il Vedanta lascia pensare che − come hanno sostenuti non pochi studiosi, tra i quali proprio Radhakrishnan [Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47] – forse (magari per mezzo dei misteri dionisiaci, eleusini ed orfici) Platone sia venuto a conoscenza (direttamente o indirettamente) di questa antichissima sapienza. Di questo tema ho trattato peraltro nel mio saggio su Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017].
In ogni caso devo dire qui di aver già affrontato questo tema in una serie di personali ricerche [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll XX, 2017, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164]. Quindi invito il lettore più addentro negli studi filosofici, a leggerli se vuole.
Ma alla fine a cosa può praticamente servirci questa costatazione? Secondo me può servirci a realizzare che molte delle buone ragioni che (come ho detto prima) sono obiettivamente da riconoscere all’idealismo, vanno revocate non a fronte del realismo (che, come ho detto, «ha ragione» almeno quanto l’idealismo) ma proprio a fronte di un idealismo ben più pieno com’è stato quello orientale, ossia vedantico.
Tuttavia con ciò avremo relativizzato anche un’altra cosa, e cioè quella tendenza idealistica della filosofia occidentale che non a caso è stato il fulcro dell’orgoglio con la quale modernamente la disciplina ha cominciato a guardare a sé stessa. Non a caso sia l’Autore che abbiamo appena citato sia quello il cui testo tra poco esamineremo a fondo [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909] sottolineano con quale del tutto immotivato disprezzo proprio questa filosofia idealistica occidentale abbia guardato a quel pensiero orientale che invece ad esso era ed è decisamente superiore. Ed a tale proposito dobbiamo suggerire al lettore interessato di consultare un altro grande studioso indiano di Vedantismo, e cioè Coomaraswamy [Ananda K., Coomaraswamy La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017; Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Adelphi Milano 2011].
Ma prima di entrare nel merito del testo di Batthacharyya, direi che va considerata una cosa abbastanza importante dal punto di vista storico-filosofico ed anche culturale. Infatti, come ho accennato poc’anzi (citando Edith Stein), l’Idealismo occidentale non è stato poi così univoco nella sua strampalata pretesa di assolutizzare l’Io umano. Vi sono stati infatti pensatori come la Stein i quali hanno sottolineato con forza che, se proprio vogliamo parlare di un Io trascendente, allora dobbiamo chiamare in causa quello divino e non invece quello umano. Ebbene, proprio questa è una delle istanze centrali dell’Idealismo vedantico che ora andremo ad esaminare. Ma bisogna anche osservare che non bisogna affatto essere religiosi per ammettere quanto ho appena sottolineato. Non a caso infatti il Vedanta non corrispose mai ad una religione strutturata (come sono stati invece tutti i Monoteismi occidentali). In altre parole è un’assoluta stupidaggine (oltre che blasfemia) ritenere che l’Io umano abbia le stesse caratteristiche dell’Io divino.
E credo che questo possa ammetterlo senza difficoltà anche un ateo.
Ma perché nell’Idealismo vedantico si configura una visione come quella alla quale ho appena accennato?
Ebbene ciò accade per due motivi che a noi occidentali possono apparire entrambi paradossali se non assurdi: – 1) la vera Realtà viene considerata quella del sonno, e non invece quella della veglia; 2) il “vero” e “puro sé”, ossia l’Io, viene considerato un soggetto che in realtà è un oggetto, ossia è la più piena Oggettualità che esista. Quest’ultimo è però il Brahman stesso, e cioè null’altro che Dio, ossia l’Io divino.
È dunque su questi due assi portanti che si articola l’intero Idealismo vedantico, del quale ora cercherò di delineare le più salienti differenze rispetto a quello occidentale, specie quello fenomenologico-husserliano.
Prima di tutto bisogna però rendere comprensibili le due affermazioni dalle quali siamo appena partiti.
E tutto ruota qui intorno alle scoperte fatte dalla davvero possente psicologia vedantica rispetto a ciò che avviene nel sonno rispetto a ciò che avviene nella veglia. Tutti noi possiamo prendere atto di questa dottrina leggendo le Upanishad [Bṛhadāṇyaka Upanișad, in: Raphael, Upaniṣad,, Bompiani Milano 2010 IV, III, 34-38 p. 187; Raphael, Note al Terzo Brāhmana e al Quarto Adhyāya, ibd., p. 188-189; Māṇḍukya Upaniṣad, ibd., I, 1.1-1.18, p. 1021-1029].
Ma bisogna inoltre dire che il principale protagonista di questa dottrina deve venire considerato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi (e non solo orientale) e cioè Śankara. Egli infatti (come viene ben chiarito da Radhakrishnan e da Bhattacharyya) fu il principale elaboratore filosofico dei testi sacri (tra i quali in particolare le Upanishad). Questo grande pensatore vedantico visse nel II secolo d.C. (contemporaneamente ai molti fondatori della dottrina buddhistica ed in profonda polemica con essi) ed elaborò la famosissima dottrina del “monismo assoluto” detto anche “advāita”, ossia la fondamentale e irriducibile non-dualità dell’intero Essere. In altre parole, insomma, secondo lui la Realtà è restata sempre avviluppata ed involuta nel seno dell’Uno divino, per cui il mondo che noi sperimentiamo non è altro che “illusione”, cioè una non-realtà. Nello stesso tempo si può dire quindi che per il Vedanta è reale la dimensione interiore (ossia quella della coscienza) e non invece quella esteriore. Rispetto a questo mi colpisce davvero molto l’esistenza nella cultura occidentale di un uomo che sembra avere colto in pieno questa verità sul piano letterario, e cioè il grande poeta e drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (“La vida es sueño”), non a caso citato spessissimo dal grandissimo poeta argentino Jorge Luís Borges.
Partendo da tutto questo si può dunque comprendere meglio perché mai noi nel corso del sonno sperimentiamo effettivamente la vera Realtà. Ciò avviene perché il sonno è la condizione in cui noi siamo disconnessi dalla percezione del mondo esteriore che è in verità solo illusoria. Ed infatti l’analisi vedantica della psicologia del sonno evidenzia lo stato del “sonno segna sogni” come quello in cui la mente è disconnessa dai sensi nella maniera più completa. Ciò non avviene invece nemmeno nel sogno stesso (sonno con sogni), nel quale noi viviamo invece una vera e propria esperienza percettiva, sebbene stranamente senza alcuna sensazione (in esso possiamo addirittura giungere a vedere il nostro corpo che giace addormentato). Il sonno senza sogni corrisponde pertanto all’esperienza dell’”estasi” (samadhi) nella sua pienezza, che per il Vedanta è poi l’esperienza conoscitiva nella sua maggiore integralità – proprio in essa noi cogliamo infatti l’unica vera Realtà, ossia quella interiore.
Ma cosa ne è dell’Io nel corso di queste esperienze oniriche? Ebbene, secondo il Vedanta, esso raggiunge in esse la sua maggiore pienezza ontologica. E, come ci mostra il sonno senza sogni, ciò avviene peraltro ben aldilà dello stesso ordinario e naturale stato di coscienza. Infatti nello stato finale del sonno l’Io non sperimenta altro oggetto se non sé stesso, e quindi si trova per davvero nel pieno dell’auto-coscienza.
La coscienza (ordinaria e naturale) si rivela quindi essere lo stato in cui solo apparentemente l’Io si trova nella sua pienezza di Io puro o assoluto (come riteneva invece Husserl); dato che lo stato cosciente non è in fondo altro che quello in cui l’Io stesso sta in relazione con il mondo esteriore. Il che significa che la mente non è affatto ancora disconnessa dai sensi.
Eccoci allora davanti alla vera definizione di ciò che è “io puro”. Non a caso il Vedanta considera come “vero sé” (dove il “sé” nel Vedanta sta per l’Io) proprio quello che sta in relazione solo con sé stesso, essendo in tal modo totalmente auto-cosciente. Ed infatti la riflessione vedantica ci mostra che, allorquando l’Io sta nel pieno dello stato di coscienza ordinaria e naturale (cioè sta in relazione con le cose per mezzo dei sensi), esso opera in maniera in verità “incosciente”. E lo stesso viene affermato anche per l’idea stessa quale entità che è protagonista interiore della conoscenza del mondo cosale. L’idea infatti è davvero attiva (e con essa anche l’Io stesso) solo quando è totalmente disconnessa dai sensi. Mentre invece è solo passiva quando è connessa ai sensi (subendo così il continuo bombardamento dei loro stimoli ed inoltre essendo sottomessa all’obbligo dell’”attenzione concentrata”). La pienezza dell’incoscienza come «coscienza-davvero-piena» (in quanto non più ordinaria e naturale ma invece già «ipr-coscienza») si lascia quindi cogliere anche come autentica attività dell’idea e dell’Io. Evidentemente, insomma, l’Idealismo occidentale (sebbene ai suoi massimi vertici, come avvenne in Husserl) aveva di certo intuito qualcosa di obiettivo, ma in fondo non sapeva bene nemmeno di cosa parlasse. Non a caso esso era riuscito appena a porre la coscienza (ordinaria e naturale) come ultimo livello dell’essere e della conoscenza. Ma intanto non aveva osato spingersi molto più oltre come fa invece il Vedanta.
Da questo possiamo dunque pervenire al secondo aspetto fondamentale della visione vedantica, e cioè quella dell’oggettualità del soggetto posto al culmine (in quanto Io) della sua pienezza ontologica.
Infatti, come abbiamo appena visto, l’Io che sta in relazione solo con sé stesso coglie in sé stesso l’unico oggetto che riempia tutto il campo della propria conoscenza. E quindi esso, in quanto soggetto, si fonde totalmente con sé stesso in quanto oggetto. Si tratta insomma di quella fusione integrale tra soggetto e oggetto che l’intera mistica planetaria (orientale e occidentale) ha sempre riconosciuto come la condizione per la cosiddetta “unio mystica”, cioè l’unione a Dio. Il Vedanta non fa affatto eccezione in questo, perché l’oggettualità assoluta appena identificata (cioè il “puro sé”, ossia l’Io puro) altro non è se non il Brahman stesso come fondamentale “sostanza” di tutto l’Essere. E nello stesso tempo tale Oggettualità suprema e fondamentale altro non è se non quell’oggetto metafisico invisibile ed inafferrabile (concepito con chiarezza estrema da Platone in quanto oggettualità ideale trascendente, ossia paradigma ideale di tutte le cose, o anche Logos) di cui Kant si vide invece costretto a decretare l’inconoscibilità in quanto “noumeno” o anche “cosa in sé”. Ebbene il Vedanta ci mostra che questo oggetto può invece davvero venire colto dalla nostra intelligenza. Ma ciò avviene solo a determinate condizioni. In primo luogo noi dobbiamo infatti trovarci in quello stato (insieme mentale ed ontologico) che è appunto lo stato iper-cosciente dell’estasi.
Ed in secondo luogo noi dobbiamo ammettere che in questo caso non vi è affatto una conoscenza attuale del “noumeno”, ma invece solo una sua conoscenza persistentemente potenziale, ossia virtuale, e cioè mai totalmente raggiunta. E questa è una vera e propria non-conoscenza. Intanto però è esattamente nel contesto di questa non-conoscenza che l’Io assume tutta la sua pienezza non solo ontologica (quella di “vero” e “puro sé”) ma anche epistemologica – perché esso corrisponde perfettamente a quella fondamentale ed ultima Oggettualità che per il Vedanta è la “verità” ultima. Come vedremo più avanti essa è per la precisione la Materia-Sostanza-Forma dalla quale inizia ogni cosa; e quindi è ancora più convincentemente un’Oggettualità.
Eppure (del tutto sorprendentemente per noi occidentali) in questa condizione non vi è alcun contenuto conoscitivo. Il che avviene perché la coscienza davvero ultima (costituita dall’Io che coglie solo sé stesso) è occupata unicamente dal “sé” e da nient’altro. Quindi, cogliendo solo sé stesso, l’Io coglie un oggetto che non è affatto un oggetto, in quanto in verità è solo un soggetto. Ecco allora che la pienezza dello stato iper-cosciente non consiste in null’altro se non nella pienezza dell’atto auto-conoscitivo e nello stesso tempo inevitabilmente auto-cosciente. Ma l’auto-coscienza va qui evidentemente di pari passo con l’assenza di conoscenza. Ed infatti la “coscienza pura” (e quindi davvero ultima) è per il Vedanta proprio quella che è del tutto vuota di conoscenza. Non a caso qui si configura per il Vedanta un “oblio del sé” da parte dello stesso “sé”, che evidentemente è equivalente alla sua disconnessione totale dalla mente. Tale disconnessione dalla mente (da parte dell’Io) porta quindi a compimento la disconnessione dell’Io solo dai sensi, che è presente nel sonno con sogni. In questo stato infatti noi abbiamo delle vere e proprie percezioni, sebbene i nostri sensi esteriori siano del tutto inattivi.
In questo stato quindi il sé (ossia l’Io) è realmente incosciente. Ma è proprio come tale che il Vedanta lo considera come il “soggetto” nella sua pienezza.

Ebbene proprio partendo da tutto questo noi abbiamo la possibilità di riconoscere tutte le incompletezze, inconsistenze ed anche incoerenze dell’intero Idealismo occidentale. Ma in questo noi potremo realizzare anche che l’idealismo può davvero stare nella sua pienezza solo e soltanto quando esso è estremistico come quello orientale. E questo discorso critico potrà incentrarsi proprio su quelle due azioni dell’Io che abbiamo visto prima prendendo a modello l’idealismo husserliano.
Prima di entrare nel merito va però sottolineata quella che è la cosa più importante ed insieme più semplice. L’Idealismo orientale conferma infatti in pieno il tratto più estremistico dell’idealismo in assoluto, e cioè quello costituito dall’affermazione secondo la quale pienamente possibile una «coscienza senza mondo». Questo è esattamente ciò che accade nel sonno, ossia quando la mente è disconnessa dai sensi. Conseguentemente l’Idealismo orientale afferma più che mai che non appena io chiudo gli occhi il mondo esteriore svanisce completamente. Inoltre a questo punto a nulla mi vale stendere le mani per toccare le cose che continuano a circondarmi. Su questo mi esprimerò comunque alla fine.
Veniamo quindi ai punti principali della critica all’Idealismo occidentale partendo dal punto di vista dell’estremistico Idealismo orientale.

Io puro ed assoluto:
Abbiamo già commentato a sufficienza ciò che riguarda i concetti di «coscienza», «coscienza pura» e «coscienza ultima». Ed abbiamo anche già visto che è assolutamente ridicolo ritenere che l’Io psichico umano possa davvero costituire un Io assoluto o un Io puro. Ed abbiamo appena visto perché – infatti per il Vedanta l’unico vero Io che esista è quello divino, ossia il “puro sé”, ovvero il Brahman ed insieme la suprema Oggettualità. A tale proposito vi è però ancora qualcosa da dire. Infatti, in quello stato iper-cosciente prima commentato (nel quale noi siamo al massimo dell’auto-conoscenza ed auto-coscienza) l’Io è disconnesso non solo dal corpo ma anche dalla mente stessa, e quindi è «puro» come invece prima non poteva assolutamente essere. Prima insomma esso non era puro perché, costituendo appena la «coscienza» semplice (cioè quella mentale), non era altro che l’Io psichico, ed affatto l’Io trascendentale.
Esso insomma (pur con tutte le pretese che gli hanno consentito gli idealisti occidentali) non era altro che il banalissimo Io-esistente. È quindi evidente che l’Idealismo occidentale (specie quello husserliano) non ha prodotto altro che un’operazione di maquillage dell’ordinario e naturale Io psichico.
Vedremo più avanti (a proposito della costituzione) che nel Vedanta questo supremo Io è però in primo luogo un Soggetto-Oggetto. Ebbene, come tale esso è il supremo Conoscente solo nella misura in cui esso costituisce intanto la massima negazione della conoscenza. Infatti esso è l’”indeterminato”, e quindi è “ignoto ed inconoscibile” per eccellenza. Ma proprio come tale esso è intanto esattamente ciò che deve venire inevitabilmente “presupposto” in ogni conoscenza, ossia il vero e più autentico soggetto. Per la precisione sta proprio in esso la sorgente di quel soggetto che (nella sua forma più riduttiva) si trova per definizione davanti ad un oggetto – e peraltro proprio a questo deve la sua presunta natura. Rispetto a tutto ciò, quanto viene invece dopo e più in basso (in corrispondenza dell’Io soggettuale umano), può secondo il Vedanta venire considerato conoscenza esattamente come avviene anche entro la teoria filosofica occidentale della conoscenza. Qui però ci troviamo appena davanti all’«Io empirico» o anche «Io psichico».

Riduzione trascendentale (RT):
Lo stato iper-cosciente che abbiamo più volte commentato configura un totale “isolamento” dell’Io.
E qui ancora una volta l’Idealismo orientale intercetta il più estremistico Idealismo occidentale facendo emergere quel «solipsismo» che, entro il dibattito filosofico, era stato postulato solo come accusa, e cioè come costatazione detrattiva. Husserl si era infatti difeso accanitamente proprio contro l’accusa di solipsismo che fu rivolta al suo idealismo. Ma la ragione di ciò è davvero chiara solo tenendo presente l’Idealismo orientale – il solipsismo dell’Io rischiava infatti di configurare proprio una RT che finiva nel particolare e non invece nell’universale, e quindi non supportava affatto la verità oggettiva (in quanto sintesi inter-soggettiva di tutti i possibili punto di vista o giudizi). Ecco che la RT trova la sua pienezza ed anche la sua letteralità solo nell’Idealismo orientale. Solo qui, infatti, l’essere viene ricondotta ad un Io assoluto solo in quanto nucleare, nel quale pertanto l’essere stesso viene contratto (e fino al Nulla) invece di venire dilatato. Il problema principale della RT non appare essere dunque l’universalità (come presunto ultimo momento dell’atto di riduzione dell’essere alla verità) ma semmai invece la riduzione ad una radicale centralità nucleare (equivalente alla straordinaria concentrazione di essere) che di fatto è l’unica in grando di nullificare davvero l’essere nella sua illusoria molteplicità e relatività. Il problema principale della RT è insomma il suo alludere all’Uno come il luogo nel quale (attraverso la nullificazione di tutto il molteplice e relativo) non può che emergere quella che è la sola vera Realtà, ossia la Realtà trascendente. Del resto (come viene attestato da Radhakrishnan) questo fu esattamente quanto venne intuito da Platone e poi anche da Plotino – le cui visioni vanno considerate assolutamente sovrapponibili come invece pochi filosofi occidentali sono disposti ad ammettere [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014].
Va inoltre osservato anche che Bhattacharyya sottolinea che la fusione tra soggetto ed oggetto, che dovrebbe caratterizzare un Io assoluto e puro, avviene di fatto solo nello stato di estasi. E quindi è assolutamente impossibile che Hegel possa credibilmente attribuire al suo Io assoluto (concepito del tutto al di fuori di un’estremamente obiettiva scienza psicologico-metafisica come quella vedantica, e quindi come mera astrazione del pensiero) proprio questo carattere. In altre parole se l’Io puro di Husserl era il frutto di un abile maquillage, l’Io assoluto di Hegel fu il frutto di una vera e propria truffa filosofica.

Costituzione (CO):
Abbiamo già visto che la suprema Realtà (da noi colta solo nel sonno più avanzato) è per il Vedanta il “sé” come suprema Oggettualità. Ed in questo senso l’Io cessa davvero di essere appena un soggetto, divenendo invece l’Oggettualità suprema. Dato poi che essa è il Brahman stesso, può ben venire considerata come il Principio ed anche come la Forma autentica di tutte le cose. Solo essa insomma è il vero Io assoluto in possesso del potere di formazione dell’essere. E quindi tutte le “forme” ontologicamente inferiori ad essa (quelle che la filosofia occidentale è riuscita a concepire solo come entità puramente mentali, e quindi totalmente vuote di essere, ossia astratte «idee» che formano l’essere solo in quanto lo rendono conoscibile nel senso della risposta alla domanda «cos’è questo?») non sono per davvero delle forme.
Esse sono invece per il Vedanta appena le manifestazioni transitorie di un’unica originaria Sostanza-Materia che resta eternamente stabile, nel mentre da origine a tutte le forme possibili di essere – le quali insorgono solo per venire poi distrutte e tornare così al Fondamento che fa da loro sfondo e sostegno. Il Vedanta usa per questo una metafora formidabile, e cioè quella del mucchio di argilla come possibile causa di una sua possibile forma, il vaso d’argilla. A tale proposito viene infatti chiarito che la vera “causa” non è affatto il vaso né tanto meno il mucchio (ossia la cosiddetta “causa finale” di Aristotele), ma è invece proprio l’argilla. L’argilla è dunque la Sostanza-Materia che fa da Fondamento all’infinita evoluzione delle molteplici forme, dando così origine ora ad un vaso ora a tutt’altra cosa. Ecco allora che la forma è un’idea solo nella misura in cui essa venga considerata già di per sé come piena di essere, anzi coincidente con lo stesso Essere trascendente ed originario (l’argilla come idea guidante qualunque progetto formativo che trasformi il mucchio). La forma che sta invece al di sotto di questo stato dell’idea non è altro che una delle tante cose transitorie del mondo.
Ora, se si accoppia questa dottrina a quella dei “devata” − le molteplici idee o “sostanze” delle cose (l’oggettualità conoscibile più prossima a quella metafisica, il “noumeno”) −, e se si considera che tali entità procedono emanativamente dal Principio divino, noi ci troviamo in tal modo proprio davanti allo schema idealistico-occidentale della CO. Eppure essa assume qui un senso ed uno spessore molto diverso. Perché non procede affatto dalla soggettualità più alta (l’Io) verso l’oggettualità più infima (quella del caos mondano inintelligibile da ordinare nel renderlo intelligibile). Appare insomma evidente che la portata della CO è molto più ampia nell’Idealismo orientale. Ma il suo senso completamente diverso (il processo dalla suprema all’infima oggettualità) delinea intanto un orizzonte dottrinario ben più articolato e profondo. Infatti l’onto-metafisica vedantica non conosce altro che la Sostanza-Materia-Forma (quale unica realtà e suprema Oggettualità), la quale include poi in sé il soggetto-Io e l’oggetto-mondo. Cionondimeno questa Sostanza-Materia fondamentale, quale suprema Oggettualità, è e resta il soggetto per eccellenza, ossia una sorta di Soggetto-Oggetto.
Quindi (come abbiamo visto prima) tale entità corrisponde senz’altro anche al mondo ideale. Il quale non equivale però affatto al mondo mentale intra-soggettuale (l’idea come mera forma conoscitiva del «cos’è questo?»), ma si colloca invece molto prima di esso. L’idea, insomma, non equivale affatto al mondo ideale immanente, ma solo a quello trascendente, e quindi è del tutto pre-soggettuale. Così come è pre-soggettuale anche il supremo Soggetto-Oggetto del quale stiamo parlando. Ecco allora che il soggetto non è altro che una forma di manifestazione dell’idea-sostanza-materia, ed è pertanto ontologicamente del tutto pari in grado con l’oggetto esteriore. Eccoci insomma di nuovo davanti all’’Io-esistente colto nella sua solo riduttiva immanenza. Possiamo quindi ben dire che la Fenomenologia husserliana non ha affatto illustrato l’intero Essere, bensì solo il suo segmento ultimo (rappresentato dalla relazione soggetto-oggetto) nel quale poi non rientra affatto l’idea nella sua assolutezza, ossia l’Io puro. L’Io puro sta invece molto prima della coscienza. Ma nel Vedanta esso non è affatto un Dio ben delineato concettualmente, bensì è molo più l’Oggetto metafisico assoluto.
Intanto, comunque, in qualche modo la suprema Oggettualità quale Materia-Fondamento di ogni cosa (un’idea-sostanza-materia) è nel Vedanta anche il soggetto per eccellenza, ossia il sé come “puro soggetto”, ossia il Soggetto davvero nella sua pienezza ontologica, in quanto radicalmente pre-soggettuale e insieme pre-oggettuale. Esso è insomma quanto più pienamente esiste. E pertanto è solo questo l’Io-esistente concepito in maniera non immanente e riduttiva. E questo dunque il vero ”Io trascendentale”.
Pertanto solo ad esso può venire coerentemente attribuita la valenza di Io assoluto o Io puro quale ultimo termine della RT.

Epistemologia e/o ontologia:
Detto tutto questo, bisogna infine sottolineare quello che è uno dei tratti più fondamentali della visione vedantica, e cioè la strettissima ed estremamente coerente compenetrazione tra epistemologia ed ontologia.
Non bisogna dimenticare che questa dottrina si incentrò su un’autentica psicologia nello stesso tempo pratica, teorica e metafisico-contemplativa. Una disciplina che veniva costantemente praticata dagli yogi e che tendeva appunto al “samadhi”, ossia all’ultimissimo stadio di coscienza (iper-coscienza) nel quale si aveva la possibilità effettiva di cogliere la più vera Realtà. Questa psicologia scaturiva però intanto solo dalle verità rivelate nei testi sacri, e quindi era sostanzialmente appunto una metafisica contemplativa.
Inoltre era inevitabilmente anche un’onto-metafisica, dato che essa puntava alla comprensione profonda dell’essere (e del mondo esteriore in esso immerso). Tale psicologia metafisica, quindi, poteva senz’altro dare vita ad un’effettiva e rispettabilissima epistemologia, ossia ad una dottrina filosofica della conoscenza scientifica incentrata sul criterio della verità. Ma intanto non poteva in alcun modo concentrarsi unilateralmente sulla verità come qualcosa di necessariamente separato dall’essere. Quindi non poteva teorizzare in alcun modo una conoscenza rigorosamente «pura», e pertanto anch’essa unilaterale – cioè appunto una pura ed unilaterale epistemologia. Ed infatti nel Vedanta non a caso la verità emerge solo laddove la conoscenza diventa impura per eccellenza, ossia si rovescia addirittura nella non-conoscenza.
Questo è esattamente ciò che accade nell’estasi o “samadhi”, cioè nel sonno senza sogni.
Ebbene tutto questo significa allora che, se l’ontologia concepita dall’Idealismo occidentale mostra i chiari segni di un immenso sforzo intellettuale per tentare l’impossibile − e cioè per sovvertire quello che è l’assunto di fatto di ogni idealismo, ossia il principio della «coscienza senza mondo» −, tutto ciò non avviene assolutamente nell’Idealismo orientale semplicemente perché esso ebbe la capacità ed il coraggio di partire proprio da questo principio. Ed ebbe questa capacità e coraggio solo perché tali virtù vennero offerte ad esso dal Vedanta (cioè un pensiero basato sulla Rivelazione) ed inoltre dall’intera riflessione filosofico-metafisica che ad esso seguì (con vertice in Śankara) – una riflessione che non si tirò mai indietro davanti alla necessità di restare in linea con una mistica contemplativa, e con la relativa intensa prassi religiosa. Ecco allora che quanto riuscì facilissimamente all’Idealismo orientale (specie l’esporre una davvero ampia e coerente dottrina idealistica della costituzione della RT), riuscì invece malissimo all’Idealismo occidentale – costretto come fu ad arrabattarsi penosamente, arrampicandosi sugli specchi per fare in modo che l’ontologia alla quale si sentiva obbligato non sconfinasse in un realismo che avrebbe annullato rovinosamente tutte le premesse dalle esso partiva. E del resto nei fatti (tenendo presente quanto mostratoci dal Vedanta) l’Idealismo occidentale – proprio a causa del suo ostinato volersi concentrare soltanto su un’epistemologia dominante, la cui appendice è un’estremamente sobria e naturalistica teoria della conoscenza −, nel voler riassumere ogni essere ed ogni conoscenza entro la sola relazione soggetto-oggetto, condanna di fatto sé stesso proprio al realismo. Abbiamo visto infatti che in tal modo in fondo è esattamente l’oggetto (e non invece il soggetto) a prevalere ontologicamente e gnoseologicamente. Rispetto ad esso infatti il soggetto è solo passivo e perfino incosciente.
Inevitabilmente quindi questo penoso quanto improduttivo sforzo doveva andare di pari passo con la tenace postulazione di una totale astrattezza della verità. Mentre invece abbiamo visto che nel Vedanta la verità sta al suo vertice (solo tendenzialmente astratto) proprio laddove (in vari modi) l’Essere raggiunge intanto il suo culmine. Proprio per questo, quindi, il Vedanta riesce perfettamente nello scopo di postulare una «mentalità» dell’essere senza intanto in alcun modo sfociare in un epistemologismo unilaterale.
Del resto, laddove quest’ultimo comunque si profila nella dottrina vedantica, ciò avviene nella chiara consapevolezza che si tratta di un livello solo inferiore della conoscenza. Mi riferisco alla riflessione sulla relazione esistente tra “devata” e “loka”, cioè tra oggettualità assoluta trascendente ed oggettualità relativa immanente. L’ammissione di quest’ultima comporta infatti anche l’ammissione di una necessaria «localizzazione» dell’idea trascendente – nel senso della determinazione e fissazione a circostanze immanenti. Ebbene ciò configura un livello corporeo-spaziale-materiale di realtà che è senz’altro inintelligibile (come concepito anche dall’Idealismo occidentale). Ma non lo è affatto in quanto attenda ancora l’azione ordinatrice di intelligibilizzazione da parte dell’Io cosciente-conoscente. Lo è invece semplicemente perché tale livello di essere è e resta irrimediabilmente inintelligibile, e quindi è e resta molteplice e caotico. Tutto ciò corrisponde del resto esattamente a quella divisione soggetto-oggetto (della cui natura e delle cui conseguenze abbiamo parlato) con la quale effettivamente la pura epistemologia vige incontrastata. In questo senso dunque l’Idealismo occidentale (sia con la CO che con la RT) ha espresso immense ambizioni che però erano destinate a venire miserevolmente deluse. Ed inoltre ha costruito un edificio dottrinario estremamente ingombrante (nella sua ambizione) che in verità non aveva alcuna ragion d’essere.
A ciò bisogna aggiungere ancora che, laddove Bhattacharyya ci parla della sicuramente esistita logica vedantica (scienza filosofica dotata della stessa potenza argomentativa di quella occidentale), l’Autore ci mostra come i vari strumenti della logica vedantica non siano stati in fondo altro che una forma di contemplazione della Verità dal basso. Qui insomma si rinunciava in partenza a qualunque pretesa di cogliere la verità direttamente. Cosa che è invece veniva ritenuta possibile solo in quei supremi stati di essere che sfuggono anche completamente alla conoscenza ed all’epistemologia come teoria della conoscenza. In parole più semplici, insomma, l’epistemologia dell’Idealismo occidentale ebbe quella deferente umiltà tutta religiosa che invece l’epistemologia dell’Idealismo occidentale non volle né seppe mai avere.

Detto tutto questo, appare allora chiaro il motivo delle così tante insufficienze dell’Idealismo occidentale. Esso non si riposava affatto sulle Verità rivelate, anzi le aveva da tempo gettate dietro di sé con disprezzo.
E quindi la sua riflessione sui livelli più alti dell’essere (il Trascendente) non poggiava affatto su una metafisica. Ma come abbiamo visto solo la metafisica può offrire alla riflessione sul Trascendente quelle ampiezza, profondità, complessità e spessore, che sono capaci di restare nello stesso tempo semplicità tutta contemplativa, e quindi sono capaci di evitare mastodontici sistemi filosofici titanicamente forgiati dal nulla (come quelli di Hegel e Husserl) nei quali finisce per dominare solo l’inutile e vana complessità del vanaglorioso ingegno umano.

Con ciò mi sembra che sia stato chiarito a sufficienza perché l’Idealismo orientale è decisamente superiore a quello occidentale. Resta però il problema rappresentato dal fatto che esso è effettivamente molto estremistico. Esso insomma davvero sfida la nostra intelligenza nel volerci convincere che la vera Realtà sarebbe quella che a noi meno sembra tale, ossia quella del sogno. Ma oltre a ciò l’osservatore occidentale si pone a tale proposito una domanda ancora più provocatoria: − «Sarà mai possibile che, per poter cogliere la vera Realtà, noi dobbiamo passare il nostro tempo dormendo?». La domanda è davvero tremendamente provocatoria, almeno dal punto di vista specificamente occidentale. Essa peraltro rischia di giungere a mettere in dubbio perfino l’oggettiva verità delle conoscenze esposte nella psicologia metafisica vedantica. Pertanto a questa domanda non si può rispondere affrontandola frontalmente. Bisogna insomma ammettere che la dottrina vedantica della Realtà è e resta molto provocatoria per noi occidentali. E bisogna anche ammettere che, almeno da questo punto di vista, essa presta il fianco a critiche davvero demolitorie.
Tuttavia, nello stesso tempo, noi dobbiamo porci anche un’altra domanda: − «Siamo davvero certi che sia inappropriata (e perfino inutile) la pur così radicalmente posta questione della vera Realtà?».
Ed allora siamo obbligati a constatare che, se così fosse, essa non sarebbe stata posta anche dallo stesso pensiero occidentale. Ciò è testimoniato proprio da tutto quanto abbiamo detto circa la disputa tra idealismo e realismo. Infatti il primo poneva esattamente la questione del se davvero noi possiamo considerare reale ciò che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi ed a portata di mano. E questo comportava una ben precisa accusa rivolta alle effettive capacità di conoscenza offerteci dai sensi. Orbene, una volta posto (come afferma il pensiero vedantico) che la massima lontananza dall’illusorietà dei sensi sta proprio in quello stato mentale in cui essi non giocano alcun ruolo (ossia quello del sonno senza sogni, o estasi, o “samadhi”), non può né deve affatto stupirci il fatto che solo dormendo noi riusciamo a cogliere la vera Realtà. Del resto nemmeno il Vedanta osa considerare quest’ultima come qualcosa di davvero obiettivo – com’è effettivamente il mondo davanti al quale si trova il soggetto. Essa viene invece intesa come un mondo che non sta affatto in discontinuità con il soggetto, fino al punto di essere il prodotto della sua libera attività creativa. La vera Realtà appare dunque essere quella in cui il «reale oggettivo» non esercita alcuna coercizione restrittiva sull’«ideale soggettivo».
E così veniamo alla questione estremamente pratica ed esistenziale alla quale ho accennato all’inizio a proposito della questione idealismo / realismo. La vera Realtà propostaci dall’Idealismo vedantico è insomma quella in cui noi non dobbiamo in alcun modo temere che la realtà venga spietatamente a smentire le nostre speranzose aspettative. Essa è quindi una Realtà nella quale il nostro Spirito può spaziare senza alcuna limitazione, e certo in questo di poter davvero realizzare tutto ciò che gli sembra opportuno. Ma tutto ciò assume ancora più spessore se teniamo conto del fatto che – come dice Coomaraswamy [Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra… cit., 21 p. 374-382] – la psicologia vedantica non è affatto empirica (come invece potrebbe sembrare) bensì è metafisica e ancora più precisamente è religioso-trascendente. Essa insomma non riguarda affatto l’Io umano, ma invece semmai soltanto l’Io divino che pervade continuamente l’Io umano, conferendogli così tutti gli straordinari poteri che lo caratterizzano in quanto Spirito. E questi poteri sono propriamente onto-creativi – come viene testimoniato proprio dallo stesso Idealismo occidentale (per mezzo dei concetti di CO e RT). L’Io così concepito non è altro che il “sé” in quanto supremo Vedente o Osservatore del quale ci parla anche Bhattacharyya. Del resto questa concezione del potere creativo (di cui è in possesso la nostra mente in sogno) è stata esposta anche in Occidente dal pensatore tedesco noto con lo pseudonimo di Bô yin Râ [Bô yin Râ, Da Buch vom Jenseits, Kober’sche Verlagsbuchhandlung, Basel Leipzig 1929].
Dunque, se il conoscere la vera Realtà equivale al crearla liberamente da parte del nostro Io, ciò non significa altro che, quando giungiamo a questo potere, noi non abbiamo fatto altro che unirci all’Io divino, ossia a Dio stesso. E nessun occidentale oserebbe contestare che tra gli attributi di Dio vi è quello di essere creatore. Pertanto probabilmente è proprio questo il senso della questione della vera Realtà, così come viene posta dall’Idealismo vedantico. È vero che esso ci invita ad immergerci nel sonno per ritrovare ciò che ha più valore (oltre l’immediato esistere). Ma non ci invita a questo per estraniarci dall’azione alla quale siamo certamente obbligati ad attendere nel mondo (specie se essa è etica). Ci invita invece a questo solo e soltanto per ricordarci che noi non possiamo vivere senza tentare continuamente di entrare in intimo e reale contatto con Dio. Ed è dunque nel contesto di questo contatto che ci verrà anche rivelato cosa significa esattamente il nostro «esistere», e quale valore effettivo esso abbia.
Ecco insomma che la dottrina vedantica della vera Realtà non ci invita ad altro che all’atto davvero vitale della preghiera, per mezzo del quale noi cerchiamo Dio e nello stesso tempo cerchiamo una risposta alla drammatica domanda circa il senso della nostra esistenza. Inoltre in quale luogo dell’essere, se non in Dio, noi possiamo anche solo pensare che «tutti (dico tutti!) in nostri desideri possono trovare realizzazione»? Ebbene all’ateo più che a chiunque altro risulterà evidente che, se ciò non avviene al cospetto di Dio, non sarà certo al cospetto del mondo che questo potrà avvenire. Infine in qualche modo in ogni luogo del mondo l’uomo ha intuito che in sonno ci viene incontro Dio stesso. Lo Zohar ci dice questo usando concetti ed immagini davvero bellissimi, nel sostenere che “il Santo” comunica continuamente con gli uomini in sogno, e che inoltre l’Eden non è altro che la nostra anima (e mente) quale Giardino di Delizie nel quale Dio la notte si compiace di discendere [Giulio Busi (a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 39-42, 90-93, 115-116].
Insomma, al netto di tutto ciò che abbiamo detto finora, è evidente che un idealismo può davvero essere all’altezza delle sue immense promesse, solo e soltanto se esso è estremistico nel modo specifico del Vedanta, ossia come Idealismo metafisico-religioso.

ATT: si diffida dalla copia integrale di questo testo ed inoltre dalla sua riproduzione senza citarne l’autore in quanto protetto dalle leggi vigenti del copyright.

ABSTRACT.
In questo articolo ci siamo ricollegati ad una nostra lettura interpretativa dei due fondamentali testi di Cartesio dal titolo “Discorso sul metodo” e “Meditazioni sulla Filosofia Prima” [Cartesio, Discorso sul metodo, Mondadori, Milano 2019; René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976] nella quale ci siamo sforzati di porre in luce in particolare l’identità filosofico-religiosa cristiana del pensatore francese [Vincenzo Nuzzo, “Chi fu il vero Cartesio” < https://cieloeterra.wordpress.com/2019/11/18/chi-fu-il-vero-cartesio/ >].
In questa siamo partiti dalla costatazione dell’ingiustificazione delle interpretazioni critiche moderne di Cartesio – specie quelle che lo ritengono un pensatore anti-metafisico (Frithjof Schuon) ed inoltre quelle che ne condannano il “dualismo” come meramente ideologico e quindi falsificante l’intima relazione da riconoscere invece tra spirito e corporalità materiale (Wolfgang Smith e Antonio Damásio). Ma soprattutto siamo partiti dallo svuotamento del pensiero cartesiano di qualunque contenuto filosofico-religioso, che è stato attuato da Edmund Husserl nell’appropriarsi del metodo dell’”epochè”, dilatandone e modificandone in termini fino ad una dottrina della “riduzione trascendentale”, o anche “riduzione fenomenologica”. Con questa operazione Husserl ha infatti voluto considerare l’Io cartesiano insufficiente a costituire un autentico “Io trascendentale”; che è poi per lui il termine al quale bisogna riportare l’intero essere mondano (in quanto spazio della coscienza in cui le cose si presentano nella loro effettiva realtà veridica di “fenomeni”).
Su questa base abbiamo supposto che il pensiero fenomenologico ed insieme religioso di Edith Stein si presti molto meglio a venire accostato a quello di Cartesio. E abbiamo inoltre supposto che probabilmente la Stein è stata ben più appropriatamente «cartesiana» che non invece Husserl.
Per questi motivi abbiamo paragonato i testi cartesiani con quelli steiniani, affrontando in particolare alcuni aspetti specifici (rispetto ai quali le visioni dei pensatori appaiono sorprendentemente sovrapponibili): – 1) il dubbio come via verso l’assoluta certezza di verità; 2) l’onticità effettiva delle Idee (quali autentiche oggettualità interiori veridiche), includendo in esse l’idea dell’Io e l’idea di Dio; 3) la fondazione dell’epistemologia (incentrata idealisticamente nel «cogito-sum») in un’ontologia fondamentale che dall’interiore procede a ritroso fino all’esistenza indubitabile di Dio (quale fonte di Verità e di Essere); 4) la postulazione di un Idealismo moderato ed insieme profondamente religioso, entro il quale in particolare l’atto della riduzione trascendentale mette capo a Dio (come supremo Io e come sommo esistente) e non invece al meramente umano Io puro o Io assoluto (l’”Io trascendentale” di Husserl).
Questi stessi temi sono stati da noi trattati anche in un articolo più approfondito (dal titolo “È possibile pensare ad una Edith Stein cartesiana in quanto filosofa religiosa?”), nel quale abbiamo sostenuto che vi sono fondati motivi per considerare la Stein come cartesiana.

Il voler “tenere una lezione su Cartesio” mi sembra in sé piuttosto presuntuoso. Io sono infatti un semplice dottore di ricerca in Filosofia, e quindi non credo che il fatto di essermi occupato di Cartesio indirettamente per mezzo di Husserl (secondo oggetto della mia tesi di dottorato dedicata a Edith Stein) possa abilitarmi a parlare del pensatore francese come potrebbe farlo invece un suo specialista (e quindi profondo conoscitore). Pertanto prego in partenza di essere indulgenti verso di me tutti quei lettori che sono più acculturati in filosofia, oppure sono filosofi, oppure ancora vantano letture più vaste delle mie su Cartesio.
Intanto devo dichiarare la mia conoscenza di questo pensatore si riassume in quello che ho appena detto (ossia nei suoi riflessi entro il pensiero di Husserl), nelle conoscenze che acquisii al liceo per mezzo dei manuali di Filosofia ed infine (più recentemente) nella lettura di due suoi testi fondamentali, e cioè il “Discorso sul metodo” e “Le meditazioni sulla Filosofia Prima” [Cartesio, Discorso sul metodo, Mondadori, Milano 2019; René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976]. Ma comunque la “lezione” che ora terrò si basa principalmente su questi due testi, e precisamente su tutto ciò che essi mi hanno permesso di scoprire circa quella che molto probabilmente è la vera identità filosofica di questo pensatore. Confesso inoltre di avere avuto di lui fino a questo momento un’idea piuttosto distorta da una serie di letture indirette. E di queste menzionerò soprattutto tre: − 1) Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; 2) Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; 3) António Damásio, O livro da consciêcia, Temas e Debates, Lisboa 2010. E per inciso devo anche confessare che queste letture avevano confermato una spontanea antipatia che avevo sempre nutrito per Cartesio. In quanto egli mi sembrava il campione di un razionalismo miope, puntiglioso e dogmatico, ed inoltre il campione di un filosofare ossessionato da un «rigore» che alla fine portava alla totale negazione di un mondo invisibile e trascendente, e cioè divino. Anzi devo dire che mi era cordialmente e spontaneamente antipatico anche lo stesso faccione di Cartesio – i cui tratti mi sembravano esprimere una spocchia puntigliosa davvero intollerabile.
Dopo aver letto però i suoi due libri sopra menzionati, l’immagine che mi sono fatto di lui è completamente cambiata.
Ma veniamo ora all’analisi delle tesi critiche anti-cartesiane che ho appena menzionato.
Schuon − studioso appartenente al pensiero “tradizionalista” (ossia quello che critica severamente l’allontanarsi progressivo del pensiero moderno dall’antica metafisica) − sostiene la tesi secondo la quale Cartesio sarebbe stato uno dei principali nemici della metafisica, soprattutto nel mettere in ridicolo la tesi secondo la quale il possedere nella nostra mente un’idea di Dio è motivo sufficiente per fare di Lui un oggetto di conoscenza. Cartesio invece non sostiene affatto questo. Anzi quello menzionato da Schuon non è altro che il nucleo del famoso “argomento ontologico” di Anselmo d’Aosta, che poi si opponeva all’”argomento cosmologico” (di Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno) sostenendo che l’esistenza di Dio va affermata interiormente (come Sua presenza nella nostra mente-anima) e non invece esteriormente (nel mondo della Natura e nel cosmo). Sta di fatto che i testi di Cartesio mostrano che egli fu un deciso sostenitore proprio dell’argomento ontologico. Egli infatti (specie nelle Meditazioni) prova l’esistenza di Dio esattamente dimostrando l’evidenza indubitabile della sua idea nella nostra mente-anima, e più precisamente ancora in quel nostro spazio interiore che è Io esistente-pensante (il “cogito, ergo sum”) ed insieme “spirito”. È evidente insomma che decisamente Schuon prese fischi per fiaschi. E chissà se ciò non sia accaduto proprio perché nemmeno lui (come avevo fatto io stesso) aveva mai letto i testi originali di Cartesio.
Ma mi sembra che ancor più abbiano preso fischi per fiaschi i fierissimi critici moderni del “dualismo” cartesiano, tra i quali rientrano senz’altro Smith e Damásio. Il pensiero di Smith mi aveva per la verità davvero affascinato, tanto che ho intrattenuto con lui anche una serrata e calorosa corrispondenza. Egli è nello stesso tempo filosofo ed anche fisico ultra-particellare quantico. E (sull’ampia base di conoscenze dalla quale muove) la sua tesi critica anti-cartesiana consiste nel sostenere che il pensatore francese avrebbe istituito una “biforcazione” irrecuperabile tra soggetto conoscente e mondo conosciuto, in maniera tale da rendere “problematica” la conoscenza ordinaria dell’oggetto mondano. Che invece per Smith è da considerare non solo indiscutibilmente piena ma anche assolutamente ovvia. Cartesio viene insomma accusato di avere introdotto un’assurda incertezza (tutta filosofica) laddove invece le certezze sono talmente solide da essere patrimonio inalienabile tanto dello scienziato della Natura quanto dell’uomo comune. E questo sarebbe stato per Smith dovuto al fatto che il pensatore francese avrebbe scelto la “ragione”, e non invece l’”intelletto”, come strumento primario della conoscenza del mondo da parte del soggetto. Egli ritiene infatti che proprio la ragione implica necessariamente una scissione irrecuperabile tra soggetto e oggetto – dato che essi sono ontologicamente talmente diversi da non poter mai coincidere nel contesto della conoscenza. E la conseguenza di ciò sarebbe che la ragione sempre appena ospita un «oggetto interiore» (l’oggetto ideale corrispondente alla “rappresentazione”) mentre intanto il mondo sempre ospita appena l’«oggetto esteriore», ossia l’oggetto che esiste del tutto indipendentemente dalla nostra coscienza. In altre parole l’asse del soggetto e quello dell’oggetto – una volta posti sulla base della conoscenza razionale – sarebbero fatti in modo tale da non potersi incrociare mai. Ma sta di fatto che, secondo Smith, solo quello esteriore è il vero oggetto, ossia l’oggetto davvero reale. E quindi, se la ragione ne conosce appena il riflesso interiore, di fatto essa non sta conoscendo un bel nulla. L’”intelletto” possiederebbe invece per lui un potere misterioso e straordinario che lo rende capace di oltrepassare qualunque possibile jato soggetto-oggetto per penetrare così infallibilmente in maniera conoscitiva il mondo esteriore in modo da coglierne gli oggetti come invece la ragione non può fare. E questa facoltà non sarebbe altro che un’intuizione di carattere sostanzialmente “visivo” – essa coglie quindi come tale l’oggetto esteriore come esso effettivamente è. Anzi questa sua potenza giunge fino al punto di cogliere perfino gli aspetti nascosti dell’oggetto esteriore; che poi corrisponderebbero per lui all’oggetto invisibile concepito dall’antica metafisica naturalistica (aristotelica prima e tomista poi). E prova di questo sarebbe quella sorta di speculazione astratta delle profondità della materia, che è stata messa a disposizione della fisica ultra-particellare da parte dei rivoluzionari strumenti tecnologici moderni. Tale speculazione non è infatti di per sé già molto più di una percezione sensoriale, anzi è invece per Smith vera e propria «visione» dell’invisibile – è insomma un’autentica indagine metafisica del reale.
Ebbene questa inoppugnabile evidenza (tutta scientifico-empirica ma nello stesso tempo anche metafisica) avrebbe ormai fatto sì che il dualismo cartesiano (incentrato sulla ragione indipendente dai sensi) dovrebbe venire ormai per sempre archiviato.
La tesi di Smith è affascinante ed anche non poco convincente. Tuttavia sta di fatto che i testi di Cartesio mostrano che per lui la ragione ha esattamente lo stesso potere di infallibile penetrazione intellettuale che viene presupposto da Smith; soltanto che ciò avviene per lui unicamente entro lo spazio interiore, laddove la ragione è in grado di cogliere le idee delle cose (specie l’idea di Io e l’idea di Dio) con una “chiarezza” e “distinzione” che eliminano ogni dubbio, affermando così una “certezza” assolutamente “evidente” [Cartesio, Discorso… cit., p. 5-22, IV p. 31-38; Cartesio, Meditaçōes… cit., II, 11-16 p. 127-133, III, 17-22 p. 148-152, IV, 10-12 p. 174-175, V, 1-6 p. 181-185, V, 12-16 p. 191-195]. Ma non si tratta affatto solo di questo. Infatti, come vedremo più avanti (esponendo più in dettaglio quanto si può constatare nei testi cartesiani), al “dualismo” Cartesio non perviene affatto per pregiudizio ideologico, ma invece per la via di un aperto, scrupoloso e rigoroso ragionamento argomentativo che infine lo giustifica pienamente come esigenza assolutamente necessaria per la conoscenza.
Quanto poi a Damásio la sua tesi critica anti-cartesiana è ben più rudimentale, e quindi è ben più facile da confutare.
Il che non può poi sorprendere affatto, dato che, mentre Smith è un filosofo (oltre che uno scienziato della Natura), Damásio invece è solo un neuroscienziato che però (come oggi fanno spesso gli studiosi di questa disciplina) si è auto-attribuito la qualifica di filosofo. Pertanto egli non fa altro che ripetere pari pari la oggi molto diffusa tesi scientifico-empirica iper-realista, secondo la quale lo spirito (e conseguentemente la mente come anima) va ricondotto alla corporeità naturale e cioè al cervello, così come la corporeità stessa va assimilata (per gli stessi motivi) ad una dimensione spirituale che non ha intanto nulla di trascendente. Uno dei sostenitori più conosciuti di questa complessiva tesi della «mentalità» (ossia psichicità) della materia in generale è stato Gregory Bateson [Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1991]. Ma in verità Cartesio afferma il suo “dualismo” spirito-corpo proprio in quanto è preoccupato di riaffermare la visione metafisico-religiosa (cristiana) secondo la quale “spirito” e “corpo” sono sì due sostanze radicalmente diverse l’una dall’altra (anche se ovviamente, specie per quanto concerne l’uomo) e tuttavia comunque si presentano contemporaneamente nel contesto della Natura. Anche qui però egli non sostiene questo affatto in base ad un pregiudizio ideologico (specie di tipo fideistico-teologico). Egli giunge infatti a questa conclusione in quanto constata che la conoscenza fornitaci dai “sensi” (ossia dalla percezione) è talmente affetta da “illusioni” ed “errori” da non poter venire nemmeno considerata un’effettiva conoscenza. La conoscenza, dunque (ossia quella che permette di cogliere l’oggetto nella sua oggettiva “verità”), è solo quella che avviene allorquando lo spirito si libera totalmente dall’influsso corporeo-sensibile]. E questo avviene solo nel contesto di quella conoscenza interiore entro la quale la mera conoscenza esteriore (corporeo-sensibile) viene sottomessa ad attenta e scrupolosa verifica. Infatti, come poi vedremo, l’intera descrizione da parte di Cartesio del percorso che lo condusse ad elaborare il suo “metodo” di conoscenza, testimonia chiaramente lo scrupolo, l’umiltà e l’onestà che lo guidarono fino all’affermazione del “dualismo”.

Fatte queste premesse, cercherò ora di delineare meglio la figura filosofica di Cartesio esponendo il suo pensiero attraverso il commento ai testi del Discorso e delle Meditazioni.
Nel Discorso egli ci fa comprendere in dettaglio come e perché è pervenuto alla decisione di elaborare un metodo fondamentale di conoscenza. Egli si era accorto infatti che tutto l’edificio della conoscenza umana (ossia le discipline usualmente studiate nella formazione dell’uomo di cultura e dell’intellettuale impegnato in vari settori della scienza, oltre che in filosofia e teologia) è fatalmente minato alla base dalla costante possibilità di errore [Cartesio, Discorso… cit. I-III p. 5-30]. Per la verità, egli dice, il “senso comune” (in quanto “ragione”) potrebbe anche bastare da solo a raggiungere la verità, ma purtroppo non si può essere affatto sicuri che esso venga usato bene (virtuosamente) o male (viziosamente).
Ecco che immediatamente il problema «epistemologico» (problema della conoscenza scientifica) viene da lui posto in primo luogo su basi etiche – errare è vizio! E già questo approssima notevolmente Cartesio a Platone, cosa che poi viene riconfermata in diversi punti degli scritti che stiamo esaminando. Ma questo è anche il primo prezioso indizio del fatto che egli non pone affatto in modo assoluto la questione epistemologica (come tendono invece ad affermare i suoi interpreti), ma lo fa invece in maniera solo condizionata all’etica. Il che mostra poi sullo sfondo la sua piena accettazione della dottrina teologica della Caduta umana dovuta al Peccato originale. Questo catastrofico evento ha infatti ben precise conseguenze etico-conoscitive. E questo peraltro si ritrova anche nel Platone più pitagorico, laddove egli ci mostra come l’errore e l’ignoranza siano effetto della caduta dell’anima entro la prigione del corpo [Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 5 p. 149-150].
Comunque è in tal modo che Cartesio inizia a sospettare che solo sottoponendo al “dubbio” sistematico ogni possibile conoscenza, sarà poi possibile riformare la conoscenza stessa dall’errore naturale, in modo che essa possa produrre finalmente la certezza della verità. Appare quindi evidente che (contrariamente a quanto affermato da studiosi come Schuon) il dubbio sistematico di Cartesio non è affatto distruttivo, ma è invece costruttivo. E come tale esso non è affatto fine a sé stesso, anzi punta all’esatto contrario di sé stesso, ossia alla certezza ed alla verità. In questo senso, dunque, in pensatore francese non può essere considerato affatto il padre del “criticismo” come pensiero de-costruttivo radicalmente anti-metafisico. Semmai questo si può dire di Kant e di coloro che sono venuti dopo di lui. Prova ne sia il fatto che dal pensiero di Cartesio scaturì una vera e propria metafisica (definita “nuova scolastica”) che vide come protagonisti pensatori del calibro di Malebranche e Leibniz. E questo lo afferma un discepolo di Husserl, il pensatore russo-francese Alexandre Koyré, il quale ha studiato Cartesio proprio come pensatore profondamente religioso e cristiano [Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005].
Cartesio dichiara quindi di non aver ottenuto la certezza della verità da nessuna delle dottrine che ha studiato – nemmeno da quelle matematica e geometria alle quali egli si era sempre dedicato con passione. La stessa così orgogliosa “logica” (specie quella dei sillogismi scolastici) appare a lui chiusa (come del resto anche la matematica astratta) entro regole di coerenza meramente interne che rendono impossibile verificare davvero la verità delle sue proposizioni. Solo alla filosofia egli concede l’apprezzabile tendenza al dubbio come strumento di ricerca della verità.
Ma deplora intanto severamente il fatto che questa virtù viene completamente persa entro il costume delle controversie (che incessantemente oppongono un filosofo all’altro) ed inoltre in quel conformismo dei “discepoli” verso i “maestri” che tende a rendere i filosofi non solo dei “mediocri” ma anche molto più dei letterati (inclini ad accettare l’autorità dei “libri” e degli autori antecedenti) che non dei veri cercatori di verità. In altre parole costoro mostrano di non essere affatto disposti a “continuare a studiare” costantemente. Specie sulle controversie egli si esprime con parole troppo efficaci per non dover venire citate: − “E neppure ho mai notato che con le dispute che di solito si conducono nelle scuole, si sia scoperta una sola verità che prima si ignorava, perché cercando ciascuno di riportare vittoria, ci si esercita molto più a far prevalere la verosimiglianza che non a soppesare la ragione delle due parti in lizza, mentre coloro che per lungo tempo sono stati ottimi avvocati, non per questo divengono in seguito i migliori giudici” [Cartesio, Discorso… cit., VI p. 62].
Mi sembra comunque che nel complesso anche questa condanna della dimensione «letteraria» della conoscenza approssimi non poco Cartesio a quel Platone che condannava la “poesia” esattamente in nome della virtuosità della conoscenza [Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999, IV, XII-XVII, 436b-443a p. 269-289, VI, IV-IX, 488a-496a p. 391-411; María Zambrano, Filosofia e poesia, II p. 49-65; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano2008, IV p. 73-98, VI p. 121-141, XIII p. 269-287].
Ovviamente comunque Cartesio ritiene più in generale fonte di errore in primo luogo le conoscenze che ci derivano dai soli “sensi”, e quindi corrispondono alle certezze illusorie di cui costantemente vive l’uomo comune che è immerso totalmente nel mondo sensibile senza mai distaccarsi da esso per accedere ad una conoscenza più stabile e sicura.
Nei termini che poi avrebbe usato Husserl, si tratta della “conoscenza naturale” in quanto “ingenuità” [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, I, 31-32 p. 67-73, I, II, I, III, 52 p. 128-134; Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, III, A, 28-55, p. 133-215].
Su questa base Cartesio propone quindi una “riforma” della conoscenza più che una sua completa demolizione. Per la precisione ritiene che si debbano demolire solo le mal costruite fondamenta dell’edificio, per poi veder crollare giù ciò che non corrisponde alla verità. Ciò che invece resterà dopo questa caduta andrà invece considerato come vero. Ed in particolare si tratta di ciò che si dimostri conoscibile con indubitabili “chiarezza e distinzione”. Si tratta insomma di dedicarsi ad un’opera di riforma della conoscenza che sia basata sul costante principio della «verifica di verità» − non si deve quindi accettare nulla che comporti il benché minimo dubbio. Quindi su ciò che è incerto bisogna sempre sospendere il giudizio. Sono poste in tal modo le basi di quell’”epoché” della conoscenza, che poi Husserl avrebbe definito come l’atto del mettere “tra parentesi” tutto ciò che è appena conoscenza naturale ed ingenua..
Tuttavia prima di definire ciò che resta saldo e certo dopo questa riforma, Cartesio enuncia le regole etico-conoscitive alle quali egli si è sentito obbligato a sottomettersi (l’ossequio al senso comune a danno dell’orgoglioso personalismo, la ferma determinazione a raggiungere la verità, l’auto-dominio sul desiderio altrettanto orgoglioso ed onnipotente di considerare “possibile” ciò che noi vogliamo, e non invece ciò che è oggettivamente). Si tratta con ciò in definitiva delle regole basiche della stessa Filosofia; ma solo come ricerca della verità che sia caratterizzata dall’umiltà anti-personalistica e non invece dall’orgoglio autarchico. E ciò ci mostra ancora una volta quanto poco Cartesio sia stato un filosofo orgoglioso e, nello stesso tempo, quanto poco egli sia stato interessato al dubbio fine a sé stesso. In questo senso egli non può quindi essere stato in alcun modo il padre di una filosofia criticista impegnata nella distruzione di tutto ciò che fosse certo. Semmai fu invece l’esatto contrario, e cioè fu un pensatore per il quale la filosofia (in quanto ricerca della verità) non poteva che essere ciò che era sempre stata, e cioè metafisica. L’unica correzione di rotta che egli introduce è quella di cercare le verità certe interiormente e non invece esteriormente. Il che pone poi il pensatore francese chiaramente come «idealista» (ma di ciò parleremo alla fine). Questo però non era in fondo affatto nuovo, dato che pensatori del calibro di Platone ed Agostino avevano posto la conoscenza (e la filosofia metafisica) esattamente in questi termini. E quindi non si può dire nemmeno che Cartesio sia stato il padre di quel pensiero moderno che poi effettivamente (da Kant in poi) volle davvero essere criticista in modo demolitorio, giungendo infine ai giorni nostri ad un vero e proprio parossismo distruttivo di ogni possibile certezza. E a tale proposito io stesso devo fare ammenda, avendo condiviso pienamente (con studiosi come Schuon) questa definizione negativa (ma intanto completamente falsa) di Cartesio. Ed in verità bisogna dire che, allorquando si definisce Cartesio come il padre del pensiero moderno, si fa una gran confusione tra il Cartesio scienziato ed il Cartesio filosofo. Solo il primo, infatti (e cioè il Cartesio della matematica geometrica), può essere considerato l’iniziatore di una nuova conoscenza della natura (ma peraltro affatto galileiana, cioè affatto incentrata sull’esperimento ripetibile). Tuttavia questa conoscenza è unicamente scientifico-empirica ed affatto invece filosofica. Essa stessa va infatti assoggettata al metodo ideato dal pensatore francese.
Nella seconda parte del Discorso [Cartesio, Discorso… cit. III-VI p. 31-70] Cartesio ci dice cosa resta saldo e certo dopo l’epochè, e cioè l’Io esistente-pensante. È la “cosa pensante” (res cogitans) in quanto “spirito” umano (unito a sua volta all’anima) opposto a tutto ciò che è corporeo, materiale e sensibile (res extensa). Per la precisione egli afferma che il “cogito, ergo sum” (“penso, dunque sono”) è da considerare come la più certa e veridica delle proposizioni, e quindi può bene venire considerata anche come il “primo principio della filosofia”. Ed eccoci di nuovo di fronte al famoso “dualismo” cartesiano. Dalle stesse premesse al metodo finora esposte, possiamo chiaramente vedere ciò che abbiamo già detto prima. Cartesio infatti non è affatto un dualista per partito preso – e cioè perché (come suppongono molti suoi critici) egli avrebbe voluto artificiosamente e malignamente separare l’unità esistente tra spirito e corpo (e tra spirito e materia), puntando in tal modo ad un anti-materialismo ideologico, del quale poi noi uomini ci dovremmo lamentare perché avrebbe reso infame la materia ed irrealistico lo spirito. Queste sono solo congetture, ed esse sì sono ideologiche.
Cartesio invece giunge appena alla conclusione che, risiedendo l’unica possibilità di certezza di verità solo nello spirito conoscente (e quindi nell’Io e nell’interiorità soggettuale), bisogna separare nettamente quest’ambito di conoscenza da quello che invece si svolge ad immediato contatto con la dimensione corporea e materiale, ossia quello corrispondente ai sensi, e cioè alla percezione. Egli vuol dire insomma che la conoscenza deve essere unicamente intellettiva, e quindi mai inquinata da quei sensi che fin troppo spesso producono illusioni ed errori.
E bisogna dire che su questo assolutamente non ci piove. Quindi in questo senso non è giustificata alcuna critica al dualismo cartesiano. Di certo (nelle Meditazioni) egli applicherà questo dualismo alla giustificazione delle caratteristiche spirituali dell’anima ed anche alla giustificazione dell’immortalità di quest’ultima. Ma da questo si possono sentire offesi solo coloro che credono nel corpo e nella materia (cioè nella Natura immanente) quale unica ragionevole realtà, ossia coloro che pensano in modo naturalista, realista, materialista, immanentista, anti-metafisico ed anti-religioso. E costoro sono senz’altro mossi in questo da pregiudizi ideologici. Il paradosso è però che tra i critici di Cartesio vi sono molti che la pensano in maniera diametralmente opposta, e che cioè sono spiritualisti, intellettualisti e profondamente religiosi.
Uno di questi è infatti Wolfgang Smith.
Insomma il fatto è che generazioni e generazioni di professori di filosofia ci hanno propinato l’immagine di un Cartesio laico ed anti-religioso che invece non esiste affatto. E quindi credo che sia decisamente giunto il momento di correggere questo errore.
Il resto delle considerazioni fatte dal nostro pensatore (in questa seconda parte del Discorso) sul «cogito-sum» (ed anche sull’esistenza interiore certa dell’Io e di Dio in quanto Idee) ricalca quanto poi egli dirà nelle Meditazioni, e quindi non mi soffermerò su di esse. Ricorderò solo che – nel sottolineare il valore conoscitivo primario dell’”intelligibile” (oggetto ideale conosciuto interiormente) rispetto all’”immaginazione” (oggetto conosciuto per l’intermediazione dei sensi, e quindi sul modello dell’illusorio oggetto reale esteriore), e nel dedurne inoltre che l’idea di Dio rientra tra gli oggetti intelligibili (costituendo prova della sua esistenza secondo l’argomento ontologico e non secondo quello cosmologico) – Cartesio afferma sì la necessità assoluta del dualismo. Ma non afferma affatto (come invece sostiene Wolfgang Smith) la necessità di postulare uno jato incolmabile tra soggetto e oggetto. Né tanto meno afferma l’esistere di un gap conoscitivo irrecuperabile tra spirito (anima conoscente, o mente) e mondo-corpo (in base al quale si dovrebbe poi postulare una fatale «problematicità della conoscenza»). Egli afferma invece la differenza sostanziale ed oggettiva che vi è senz’altro tra spirito e corpo. Ma lo fa non per ridurre la portata della conoscenza soggettuale del mondo, bensì invece per riaffermarla e consolidarla allo scopo di metterla al sicuro dall’errore. Pertanto se ne può desumere che la conoscenza viene semmai compromessa quando si pretende di ri-assimilare la dimensione spirituale a quella corporea (e viceversa). E quindi (ancora una volta) il dualismo spirito-corpo non è affatto da considerare una presa di posizione pregiudiziale e ideologica da parte di Cartesio, ma esso invece riposa semmai su una necessità obiettiva della conoscenza.
Solo un altro momento del Discorso va ancora ricordato. Cartesio infatti giunge alle conclusioni circa il suo metodo dichiarando che egli alla fine scelse di intenderlo in primo luogo come solitario «dialogo con sé stesso» da parte del conoscitore (specie se filosofo), ossia come un costante «esame interiore» della verità (che di nuovo ricorda molto da vicino Agostino). Ed in questo egli svaluta senz’altro il confronto con l’”altro” che normalmente avviene in quella “comunità degli scienziati” alla quale oggi si attribuisce un valore assoluto e indiscutibile. Ma con ciò egli non intende né affermare un solipsismo né sopravvalutare il proprio ingegno (e questo egli lo dice esplicitamente). Vuole invece soltanto riaffermare il principio assolutamente fondamentale del «cogito-sum» nel senso di una egoicità personale totalmente responsabilizzata circa la veridicità della conoscenza; e quindi priva di qualunque scusante conformistica. Ecco allora che di nuovo l’identità di filosofo che compete a Cartesio appare ben diversa da quella che a prima vista si sarebbe portati ad attribuirgli (e che peraltro viene avvalorata dall’usuale critica) – egli intende infatti la filosofia come «rigore» non come puntiglio critico fine a sé stesso e non come orgoglioso isolamento, bensì invece come una ricerca che più umile, dimessa ed onesta non potrebbe proprio essere.

Passiamo quindi ora all’esame delle Meditazioni.
Cartesio fa innanzitutto delle precisazioni esplicitamente teologiche nei due capitoli introduttivi alla sua indagine dal titolo “Ai sapientissimi signori decano e dottori della sacra Facoltà di Teologia di Parigi. Renato Des Cartes saluta” e “Prefazione al lettore” [René Descartes, Meditações… cit. p. 83-95]. Egli afferma cioè che la sua dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima non ha in alcun modo l’intenzione di sostituirsi al credere in questo per fede. Ha invece solo l’intenzione di rendere queste verità evidenti anche per coloro che non posseggono il dono della fede. Appare quindi evidente quanto assolutamente religioso-cristiano sia l’intero discorso di Cartesio in quest’opera.
In altre parole egli non si è nemmeno sognato di voler sostituire la Fede con la Ragione nell’esperienza religiosa.
Certo è però che egli intende parlarci del Dio della metafisica (ossia il Dio come Verità e come Ragione), e non invece del Dio vivo, ossia di Gesù Cristo in quanto Figlio del Padre. In altre parole nella sua argomentazione non vi è alcuna traccia di temi come quelli della Trinità, dell’Incarnazione e della Resurrezione. Cionondimeno però – come sostenuto da Koyré ed anche dall’autorevolissimo Gilson [Étienne Gilson, Études sur le róle de la pensée médievale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris 1951] – Cartesio può senz’altro venire annoverato tra i pensatori cristiani. E questo demolisce un altro pregiudizio da sempre diffuso circa la sua identità di pensatore.
In questi stessi capitoli introduttivi egli precisa anche che il suo intento è quello di condurre una ricerca specificamente metafisica, abbandonando in tal modo (almeno temporaneamente) le sue ricerche sul metodo della conoscenza.
In altre parole, se il metodo maturato da Cartesio gioca qui un ruolo decisivo nell’argomentazione, tuttavia l’intento della sua ricerca è comunque in primo luogo metafisico-religioso. Nella Prima Meditazione egli riaffronta comunque il tema del metodo (precisando peraltro che esso afferma la primarietà della conoscenza delle idee sulla conoscenza delle cose) spostandolo però sul piano appunto metafisico religioso, e cioè introducendo la famosissima ipotesi del “genio maligno”, ossia un malefico Dio ingannatore [René Descartes, Meditações… cit. I p. 105-115]. Tale ipotesi non è però altro che il corrispettivo del dubbio sistematico applicato alla conoscenza – egli insomma ipotizza qui l’esistenza (unicamente teorica) di un Dio malefico (dedito al proposito di ingannare l’uomo perfino sulle verità già da Cartesio riconosciute più certe, e cioè quelle interiori) allo scopo di giungere alla fine alla costatazione opposta, e cioè che Dio (in quanto indubitabilmente buono) è la fonte di tutte le verità certe. Ma lo è in primo luogo in quanto (grazie al metodo sviluppato dal pensatore) di Lui è possibile dimostrare pienamente l’esistenza; specie in quanto oggetto interiore di conoscenza, ossia “idea di Dio”. Eccoci dunque di nuovo di fronte alla tradizione filosofico-cristiana dell’argomento ontologico.
Tuttavia appare evidente che il Dio di Cartesio non è affatto solo un Dio filosofico-epistemologico, ossia un’astratta Idea, ma è invece anche un sommo Esistente (sebbene in primo luogo interiore). Solo come tale Egli è infatti la Verità stessa ed inoltre la fonte di tutte le verità (presenti nella nostra mente come idee delle cose in quanto Lui stesso ve le ha poste).
Detto questo, non ci sarebbe bisogno di commentare oltre le Meditazioni; dato che in tal modo viene smantellato un altro fondamentale pregiudizio interpretativo su Cartesio. Egli infatti di certo non ci parla del Dio vivo, e cioè di Gesù Cristo (come fa invece Pascale), eppure il Dio di cui ci parla è un Esistente, ossia un Ente.
In ogni caso qualcosa resta ancora da dire a proposito del «cogito-sum», e tuttavia non più solo quale principio di conoscenza, bensì anche (esattamente come Dio) quale primario «esistente». Questo è quello che viene chiarito nella Seconda Meditazione [René Descartes, Meditações… cit. II p. 117-133]. Cartesio ci fa notare infatti che esso è un principio in primo luogo in quanto appare a noi (nell’atto di un pensare che ci pone inevitabilmente davanti a noi stessi come «Io») come ciò che è “impossibile” che “non esista”. Esso rappresenta qui l’elemento di conoscenza più indubitabile che ci sia in quanto è un “qualcosa”. Questo è dunque l’Io come “sostanza pensante” o res cogitans. Cartesio insomma non sta affatto delineando le pure condizioni per la conoscenza in quanto «pensiero in atto», ossia non sta affatto delineando una pura epistemologia. Egli sta invece delineando una vera e propria ontologia interiore e fondamentale. Ma ciò non significa altro che egli (come dice espressamente nella Seconda Meditazione) sta parlando dello “spirito” (a sua volta congiunto all’anima) come una realtà assolutamente oggettiva. E dunque, se l’Io-Spirito ha la valenza di pensiero, la ha soltanto in quanto «pensante», ossia come un Io pensante in quanto esistente. Oltre a ciò però Cartesio chiarisce anche molto bene (ed appaiandosi in questo di nuovo a Platone) che l’Io esistente-pensante è anche sostanzialmente un «pensato» (in quanto “idea” presente anch’essa oggettivamente nella mente). Questo viene chiarito in particolare nella Terza Meditazione, nella quale egli affronta direttamente il problema dell’oggettività delle idee di cose che noi possediamo nella nostra mente. Così egli inizia anche a porre le premesse del discorso su Dio come reale presenza ideale nella nostra mente, e quindi come entità la cui esistenza può senza difficoltà venire provata [René Descartes, Meditações… cit., III p. 135-164]. Insomma ciò di cui egli intende parlarci non è affatto del «pensiero» nella sua funzione regolativa (come poi avrebbe fatto la filosofia da Kant in poi, rendendo così la filosofia una pura epistemologia), ma invece del «pensante» e del «pensato». La sua dottrina è quindi senz’altro primariamente onto-metafisica, e solo secondariamente epistemologica. Ancora una volta insomma Cartesio non può affatto venire considerato il padre del moderno unilaterale epistemologismo filosofico (ossia la Filosofia intesa unicamente come «teoria della conoscenza»).
In particolare comunque del «cogito-sum» cartesiano si può dire che esso scaturisce nel corso di un processo il cui elemento cruciale è il trovare in me stesso il punto di riferimento (Io), in quanto io sono spirito e non sensi-corpo.
Proprio in questo senso io esisto indubitabilmente riuscendo in tal modo a costituire il principio di esistenza di tutte le cose esistenti e conoscibili. Qui il dubbio, il pensare e l’esistere sono quindi intimamente ed inscindibilmente intrecciati tra loro. Perché, nel mentre io dubito io sto intanto certamente pensando. Ma questo non può avvenire se intanto «io» non esisto (se non esisto come «io pensante»).
Questo può insomma venire considerato il nucleo del metodo cartesiano una volta collocato nel contesto di un discorso non più solo epistemologico ma anche onto-metafisico. Infatti il nostro pensatore – nello sforzo strenuo di liberare anche questi concetti dalle imprecise fumosità dell’antica metafisica (specie quella aristotelica ponente l’”uomo” in quanto “animale razionale”, o quella vagamente platonico-gnostica che pone l’anima come Pneuma) – definisce l’Io esistente-pensante come (insieme) “spirito”, “anima”, “intelletto” e “ragione”. Come tale esso quindi non è affatto appena un puro «atto» di pensiero, ma è invece semmai un «atto» esistente. Ciò che però non è, è un mero «ente» esistente esteriore (ossia una cosa della Natura), come venne invece affermato nella metafisica tomistico-aristotelica. Cartesio vuole dirci insomma che l’Io esistente-pensante è una «cosa» solo nella misura in cui è tale interiormente e non invece esteriormente. E proprio con questa restrizione, allora (in quanto spirito trascendente i sensi), esso può davvro essere luogo di verità. Ecco quindi che di nuovo il dualismo cartesiano si mostra come in possesso di oggettive e possenti giustificazioni.
Ebbene, a partire dalla Quarta Meditazione quel discorso sull’esistenza di Dio che già trovava le sue premesse nella Terza Meditazione, inizia a diventare davvero diretto ed esplicito [René Descartes, Meditações… cit., IV p. 165-179].
Va però intanto premesso che nella Terza Meditazione Cartesio aveva insistito molto sul fatto che le idee intriori delle cose non ci provengono affatto dal mondo delle cose esteriori per mezzo dei sensi (come dopo circa un secolo avrebbero iniziato a sostenere gli empiristi specie anglosassoni). La loro onticità (ossia il fatto che sono delle effettive oggettualità e non invece appena delle astrazioni) consiste infatti solo nel fatto che le idee sono interiori, e quindi sussistono solo e soltanto “in me”. Indubbiamente quindi, dice Cartesio, esse devono avere una “causa” produttiva (che a sua volta deve costituire un «essere»), altrimenti effettivamente sarebbero solo un “nulla”. Ma allora questa causa deve stare dal lato dell’interiorità e non invece dal lato dell’esteriorità, ossia deve essere radicalmente trascendente tutto ciò che esiste. Proprio in tal modo inizia dunque a delinearsi nella sua argomentazione la presenza del Dio esistente quale causa produttiva delle nostre idee.
Ebbene, nella Quarta Meditazione questa argomentazione serve a sostenere la differenziazione tra “vero” e “falso” che ormai per Cartesio dipende non più affatto solo dal «cogito-sum» (ossia dall’Io esistente-pensante) ma dipende invece da quel Dio che è causa di qualunque genere di esistenza (esteriore o interiore che sia). Di Lui egli afferma infatti che è l’”esistente” dal quale “dipende tutta la mia esistenza”. E qui bisogna dire che Cartesio parla di un Dio così emozionalmente intimo che senz’atro esso si approssima non poco a quello concepito sia da Agostino che da Pascal.
Comunque il suo ragionamento potrebbe venire sintetizzato in tal modo: − io, che contengo (“in me”) l’idea di un Dio esistente quale origine di ogni cosa (ossia ciò che è sommamente indipendente), certamente esisto (in quanto Io che è origine di tutte le cose sensibile); e quindi posso e devo in tal modo pensare che da Dio dipende l’intera mia esistenza, insieme anche a quella di tutte le cose. Esattamente qui dunque Cartesio ammette l’esistenza inoppugnabile di un «mondo fuori di noi»; ma intanto solo come mondo creato da Dio. E vedremo poi cosa significa questo per l’idealismo cartesiano.
Ma comunque in tal modo nuovamente Cartesio concepisce Dio come il termine ultimo di tutto ciò che può venire concepito come «riduzione trascendentale», «epochè» e quindi «costituzione» del mondo-essere da parte dell’Io conoscente. E questo lo differenzia nettamente da Husserl, il quale invece pone l’Io puro-assoluto (impersonale ma intanto umano) come il termine ultimo di queste operazioni epistemologico-filosofiche (destinate a ricondurci alla verità ultima delle cose). Ma su queste differenze rispetto ad Husserl non possiamo qui soffermarci.
In ogni caso è ormai più che mai evidente che il Dio di Cartesio è certamente la fonte delle verità (e quindi è un Dio dalla valenza metafisico-epistemologica) ma nello stesso tempo è anche un Dio esplicitamente ontologico, ossia è il sommo Esistente che è l’Origine di ogni cosa.
In ogni caso, giunto a questo punto, il nostro pensatore si sente di poter liquidare definitivamente l’ipotesi dubbioso-negativa del Dio come “genio maligno” ingannatore, per sposare invece in pieno (per mezzo della Ragione) quella di un Dio che è fonte della verità certa proprio in quanto è buono (e quindi è causa produttiva diretta della facoltà di certezza che è propria dell’Io esistente-pensante). E in dipendenza da ciò egli sviluppa poi una dottrina dell’”errore” come deviazione quantitativa e qualitativa (“negazione”) della conoscenza umana dalla pienezza perfetta della Ragione che gli è stata conferita da Dio.
Nella Quinta Meditazione poi – dopo avere nuovamente riaffermato l’oggettualità delle idee interiori delle cose (“Perché è manifesto che tutto quello che è vero e un qualcosa”) – egli giunge quindi alle definitive conclusioni circa l’esistenza del Dio quale fonte di ogni verità certa: − “E così vedo chiaramente che la certezza e la verità di tutta la scienza dipendono unicamente dalla conoscenza del Dio vero, al punto che, prima di conoscere, io non potrei saper nulla, in maniera perfetta, di qualunque altra cosa. Però, ora possono venire da me conosciute perfettamente e certamente innumerevoli cose, sia di Dio che di altre cose intellettuali, sia anche la natura corporea che è oggetto della matematica pura” [René Descartes, Meditações… cit., V p. 191-195].
Infine con la Sesta Meditazione [René Descartes, Meditações… cit., VI p. 197-225] egli − sulla base metafisico-epistemologica-ontologica ormai solidissima che ha costruito fino a questo momento −, può pervenire alle conclusioni anche circa il secondo grande argomento della sua indagine, e cioè quello della sostanza animica e dell’immortalità dell’anima.
E parte in ciò dalle sue ultimissime costatazioni: − l’esistenza di Dio (specie in quanto idea interiore certissima) garantisce che esistano anche tutte le entità conoscibili (sia astratte che concrete). Di nuovo insomma qui egli ammette pienamente l’esistenza inoppugnabile di un «mondo fuori di noi». Ma a questo punto l’atto della conoscenza inizia a muovere dall’interiore per andare incontro all’esteriore. E proprio a metà di questo cammino noi incontriamo l’anima, la quale si trova appunto a metà tra lo spirito ed il corpo. Proprio in questa sede, infatti, Cartesio constata l’ovvietà dell’inscindibile compenetrazione dello spirito con il corpo e la materia per mezzo dell’anima, e quindi in fondo per mezzo anche dei sensi. Il che relativizza nuovamente il dogmatico dualismo che a lui viene attribuito.
Ma esattamente con l’anima iniziano così a delinearsi quelle “forme” conoscitive che sono indispensabili per la conoscenza delle cose corporee – nel senso che l’idea di essenza presente nell’anima permette di «ri-conoscere» la cosa (inizialmente indefinibile) alla quale ci troviamo davanti. Orbene, tutto questo è quanto Cartesio definisce come la facoltà dell’”immaginazione”. Tuttavia il livello immediatamente superiore a quest’ultimo resta quello dello “sguardo spirituale”, che (servendosi dell’immaginazione, ma sempre solo fino ad un certo punto) riesce a cogliere con indubitabile certezza le cose più astratte possibili. E questo è il livello dell’intellezione più pura. Però per lui l’ammissione di un’anima conoscente (e quindi anche di tutta la sua compromissione con la realtà corporeo-sensibile) non può né deve ricondurci alla dottrina secondo la quale le idee delle cose si formano a partire dalle cose esteriori stessi, ossia a partire dalla percezione. Cartesio ci mette insomma di nuovo severamente in guardia da questa visione. E così sottolinea la necessità di postulare una totale intangibilità dell’intellezione spirituale da parte dei sensi e della corporeità. In assenza di questa intangibilità svanisce infatti la possibilità della conoscenza vera, che continua ad essere presente solo a livello spirituale, ossia interiore. Il pensatore insiste quindi sulla necessità di un vero e proprio smantellamento della “fede” percettiva che ci lascia credere ad un mondo esteriore così come si presenta ai nostri sensi.
La necessità di netta separazione tra spirito e corpo (sebbene per la cruciale intermediazione dell’anima) trova quindi qui le sue piene ragioni. Ecco allora che la “sostanza pensante” (res cogitans), ossia lo spirito, non può che trascendere la dimensione corporea (“sostanza corporea”, o res extensa) proprio allo scopo di rendere possibile la vera conoscenza.
E di nuovo il garante di tutto ciò viene dichiarato essere Dio – il quale evidentemente ha creato la scissione tra spirito e corpo proprio allo scopo di renderci capaci di usare il dono della Ragione. Ecco allora che la stessa sostanza animica deve necessariamente essere immortale proprio in quanto essa (essendo assimilabile al solo spirito) trascende sempre radicalmente il corpo. Infine, tutto quello che Cartesio dice da questo punto in poi riguarda la netta condanna dell’illusione conoscitivo-naturale secondo la quale l’oggetto di conoscenza sarebbe davvero corporeo. Qui si parla insomma dell’errore inscindibilmente connesso con quella «conoscenza» sensibile che in verità non è affatto una conoscenza. È esattamente per questo motivo, dice Cartesio, che noi tendiamo fatalmente a localizzare nel corpo (sensazione) ciò che avviene in verità solo nello spirito. E questo è esattamente quanto verrà posto in luce anche da Husserl in quell’esposizione di una vera e propria antropologia spirito-animico-corporea che costituisce il nucleo della dottrina della costituzione trattata nel secondo volume delle sue Idee [Edmund Husserl, Idee… cit., II, I, I, 1-11 p. 439-463, II, I, I, 18, p. 491-523].
L’errore conoscitivo fondamentale del quale qui si parla avviene insomma evidentemente proprio perché le due dimensioni spirito – corpo non vengono distinte come invece dovrebbero. Ne risulta insomma che il dualismo spirito-corpo è qualcosa che va posto necessariamente ed oggettivamente, ossia al di fuori di qualunque istanza meramente ideologica. Cartesio dunque giunge a questa conclusione dopo una rigorosissima argomentazione. E quindi è letteralmente costretto a postulare il dualismo sulla base di un’esigenza di profonda onestà intellettuale. Non parte invece affatto da esso come da un pregiudizio. Anche se ovviamente in tutto ciò gioca un ruolo il suo osservante e scrupoloso riferirsi sia alla Rivelazione cristiana sia anche alla tradizione metafisica platonica.
A questo punto possiamo concluderne che l’idealismo cartesiano si basa in primo luogo sulla necessità di distinguere lo spirito dal corpo, e non invece propriamente tra soggetto ed oggetto. Egli non pone quindi in primo luogo affatto l’egoicità cosciente come fa invece Husserl. Insomma il suo idealismo è pienamente metafisico sul modello della tradizione filosofica platonico-cristiana.
Posto questo, decadono decisamente le obiezioni di Smith e Damásio che abbiamo prima menzionato.

E con ciò mi sembra che la definizione dell’identità filosofica di Cartesio possa venir considerata conclusa.
Resta però solo qualcosa da dire ancora circa la sua natura di filosofo «idealista», ed anzi (secondo l’opinione di moltissimi) addirittura padre del moderno idealismo; quindi anche padre dell’impostazione puramente epistemologica del moderno pensiero.
Abbiamo già visto quante obiezioni si possa sollevare contro questa tesi, ma intanto va ammesso che Cartesio è senz alcun dubbio un idealista. Egli infatti considera di fatto l’Io come l’origine dell’esistenza delle cose, almeno delle cose intese come conoscibili (ossia “intelligibili”). E non vi può essere dubbio circa il fatto che, se noi non conosciamo le cose, almeno dal nostro punto di vista (il famoso «quad nos») è come se le cose non esistessero.
Tuttavia non mi sembra che egli possa venire considerato un idealista nel senso più estremista e dogmatico (com’è per certi versi invece Husserl). Egli infatti non pone mai l’ipotesi di una coscienza che possa essere priva di un mondo esteriore. Anzi, come abbiamo visto, più volte ammette pienamente l’esistenza incontestabile di quest’ultimo.
Pertanto a me sembra che a Cartesio si possa e si debba attribuire un idealismo senz’altro estremamente moderato. E ciò peraltro è ancora più vero visto che (a differenza dell’’idealismo concepito da Kant ed Hegel in poi, e raggiungente il suo culmine in Husserl) egli riduce l’esistenza del mondo esteriore a Dio e non invece all’Io puro o Io assoluto (che è, per quanto impersonale, comunque un Io umano). Anche in questo senso quindi il suo idealismo è profondamente metafisico-religioso ed affatto invece laico o addirittura anti-religioso. In questo senso, insomma, il suo idealismo non è affatto riduzionista. Anzi si può dire anche che in tal modo egli non inclina per nulla all’eccesso ideologico tipicamente filosofico-moderno (presente certamente in Husserl) di voler considerare l’epochè come terminante per davvero nell’Io umano. Il suo porre invece Dio come ultimo termine dell’epochè (e quindi anche della connessa riduzione trascendentale) appare essere soprattutto un atto di umiltà filosofica.
Più precisamente si può ben dire che l’idealismo cartesiano si basa in primo luogo sulla necessità di distinguere lo spirito dal corpo; e non invece propriamente tra soggetto ed oggetto. Egli infatti non pone affatto in primo luogo l’egoicità cosciente come fa invece Husserl. Pertanto, come ho già detto, il suo idealismo sembra essere metafisico-religioso, specialmente sul modello platonico-cristiano. Questa è del resto la tesi anche di Koyré.
Infine vi sono due ulteriori aspetti dell’idealismo cartesiano che sono ancora da sottolineare. Ed essi riguardano specificamente il suo personale intendimento del metodo conoscitivo fondamentale (ossia quanto è oggetto del Discorso).
Come abbiamo visto infatti a tale proposito la sua aspirazione è quella di un pragmatismo umile e prudente nella sua scrupolosità conoscitivo-epistemologica. E di questa natura è quindi anche senz’altro la sua aspirazione idealistica.
Inoltre ci sembra sostanzialmente umile (ma qui più sul piano dell’atteggiamento filosofico) quell’idealismo che in Cartesio è tale solo nella misura in cui si tenga conto del fatto che esso resta fortemente ancorato all’oggettualità ultima, e quindi è in fondo un’ontologia prima che un’epistemologia. Tuttavia tale idealismo non costituisce affatto quella paradossale ontologia essenziale che Husserl intese delineare (ossia ontologia esteriore trasposta totalmente nella coscienza), ma costituisce invece in primo luogo la schiettissima ontologia interiore incentrata nell’Io-esistente.
Ossia è un’ontologia che riposa sull’Io umano come esso effettivamente è, e cioè un mero ente finito e limitato.

Anche in questo senso, insomma, la complessiva visione di Cartesio, pur essendo paradigmatica per il suo rigore filosofico, rifugge a quegli eccessi del pensiero moderno che alla fine ci hanno costretto a fare riferimento a dottrine tanto complesse e minuziose quanto lontanissime dal senso comune.

Questo è dunque (a mio modesto parere) il Cartesio così come effettivamente andrebbe considerato.
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In questo articolo abbiamo esaminato una serie di recenti articoli, entro i quali viene discusso il tema dell’attuale Buddhismo filosofico occidentale, unitamente alla serie di questioni entro le quali esso ha preso esplicitamente posizione oppure è stato chiamato in causa (criticamente oppure come pregevole punto di riferimento dottrinario) [Matthew T. Kapstein, “Collins e Parfit three decades on”, Sophia, 57 (2) 2018, 207-210; Oren Hanner, “Buddhism as reductionism: personal identity and ethics in parfitian readings of buddhist philosophy: from Steven Collins to the present”, Sophia, 57 (2) 2018, 211-231; Bobby Bingle, “Blaming Buddha: buddhism and moral responsibility”, Sophia, 57 (2) 2018, 295-313; Stephen E. Harris, “A Nirvana that is burning in hell: pain and flourishing in Mahayana buddhist moral thought”, Sophia, 58 (2) 2018, 333-347; Christian Coseru, On engaging Buddhism philosophy, Sophia, 57 (4) 2018, 535-545; Anita Avramides, “Engaging with Buddhism”, Sophia, 57 (4) 2018, 547-558; Eric Schwitzgebel, “Consciousness, Idealism, and Skepticism: Reflections on Jay Garfield’s Engaging Buddhism”, Sophia, 57 (4) 2018, 559-563; Evan Thompson, “Sellarsian Buddhism comments on Jay Garfield, Engaging Buddhism: Why it Matters to Philosophy”, Sophia, 57 (4) 2018, 565-579; Oren Hanner, “Moral agency and the paradox of self-interested concern for the future in Vasubandhu,s Abhindharmakośabhāsya”, Sophia, 57 (4) 2018, 591-609; Sonam Kachru, “Ratnakīrti and the extent of inner space: an essay on Yogacāra and the threat of genuine solipsism”, Sophia, 58 (1) 2019, 61-83; Roy Tzohar, “The buddhist philosophical conception of intersubjectivity: an introduction”, Sophia, 58 (1) 2019, 57-60; Jay L. Garfield, “I take refuge in the Sangha. But how? The puzzle of intersubjectivity in Buddhist philosophy. Comment on Tzohar, Pueitt and Kachru”, Sophia, 58 (1) 2019, 85-89]. Come si può notare, gli articoli da noi menzionati sono stati pubblicati unicamente nella rivista Sophia. Il che ovviamente significa che la nostra indagine si riferisce appena ad un piccolissimo campione di studi sull’attuale Buddhismo filosofico occidentale.
Essa non può quindi avere l’ambizione di risolvere l’intera questione in questo così ristretto ambito. E tuttavia, come abbiamo sostenuto nel nostro saggio dedicato al Buddhismo in generale [Vincenzo Nuzzo, Buddhismo o ateismo? Cassandra Books, Verona 2019], riteniamo che sia perfettamente lecita, legittima ed anche sensata una serrata critica al Buddhismo filosofico che provenga proprio «dall’esterno», e cioè da un ambito di studi non solo non «specialistico» ma anche non in linea con la fede religiosa professata dai pensatori che aderiscono (più o meno direttamente) a questo movimento filosofico di idee.
Partendo da questo abbiamo esaminato gli articoli citati alla luce dei segni di possibile inconsistenza dottrinaria che si erano delineati nel corso della loro lettura. E abbiamo diviso tali segni di inconsistenza dottrinaria in due gruppi: − quelli più generali e quelli invece relativi a specifici aspetti filosofici (e relative questioni).
Dal punto di vista più generale è emerso soprattutto che il Buddhismo filosofico occidentale è affetto dalla grande contraddizione che è rappresentata dal fatto di costituire una vera e propria filosofia religiosa appaiatasi però in particolare all’attuale Filosofia Analitica (FA), e cioè ad una disciplina filosofica che più a-religiosa (o addirittura anti-religiosa) non potrebbe essere. A ciò si aggiunge poi il fatto che sembra esservi un distacco piuttosto ampio e grave tra gli studi filosofico-buddhisti occidentali e la tradizione buddhistica orientale − specie nella forma di testi scritti in lingue totalmente inaccessibili ai nostri studiosi ed inoltre nella forma dei relativi dibattiti dottrinari succedutisi dal Buddha in poi.
Dal punto di vista più specifico è emersa poi soprattutto l’inconsistenza di una dottrina «positiva» dell’auto-conoscenza riflessiva la quale compare però entro una visione che nega totalmente l’esistenza del “sé” (self), e cioè l’esistenza della persona come sostanza, ovvero l’Io. Si tratta di un vero e proprio anti-personalismo che ha sempre dominato (sebbene comunque con alcune eccezioni) il pensiero buddhista e che è stato accolto ovviamente con molto favore dall’anti-personalismo post-moderno occidentale. Tale dottrina ci è apparsa fortemente inappropriata a fronte dei risultati davvero esemplari raggiunti a tale proposito in Occidente a partire da Cartesio e con culmine nella Fenomenologia di Husserl. Tenendo presente questo, ci è apparso poi filosoficamente poco appropriato anche l’atto buddhista di estensione della negazione dell’Io alla totale negazione delle cose esteriori, e cioè del mondo. In questo modo ci è sembrato che vengano gravemente minate le basi minime di una conoscenza del mondo, con il risultato di un’epistemologia davvero difficile sia da condividere che da impiegare. Ma comunque ciò che in tal modo risalta è una complessiva presa di posizione nichilistica, che (come abbiamo sottolineato nel nostro saggio) fa poi sentire le sue conseguenze specialmente a livello etico. Abbiamo discusso tale aspetto facendo notare le incongruenze ed inconsistenze della dottrina buddhista che, insieme alla persona, nega anche il sussistere di un effettivo agente etico.
Inoltre proprio in questo ambito è emersa la totale bizzarria e contraddizione intrinseca di una dottrina dell’”intersoggettività” (equiparata totalmente alla sola dimensione comunitaria immanente, e quindi spogliata di qualunque significato epistemologico, in quanto dimensione universale della conoscenza in comune), entro la quale tale elemento viene insieme (molto confusamente) sia affermato che negato.

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L’atto di ascesa al Bene per la via del Bello fu per Platone la quintessenza della cosiddetta «vita filosofica», e cioè un atto di sostanziale conoscenza – quella conoscenza tipica del filosofo, che (rifuggendo le mere opinioni) punta in modo inesausto alla Verità assoluta e stabile, e la ritrova ripercorrendo fino all’ultimo il percorso ascensivo che in realtà era iniziato già nell’Iperuranio cioè nella vita trascendente antecedente all’incarnazione dell’anima nel corpo, ovvero prima della nascita. Si tratta, come tutti sanno, di quella famosa «reminiscenza» (latente durante tutta la vita terrena dell’anima) – parallela alla realtà della reincarnazione o metempsicosi (dottrina originariamente orfico-pitagorica ed anche ermetico-egizia) − che è propria della conoscenza acquisita illo tempore nel contemplare le Idee o sommi Principi delle cose, e cioè i cosiddetti “in sé” (che sono poi le essenze delle cose, com’è «il Bello» rispetto a tutte le «cose belle»).
Per Plotino questo atto ha un significato più propriamente mistico, ossia consiste con l’ascesa (detta anche “ritorno” all’Uno) dell’anima individuale umana lungo tutti gli strati gerarchici dell’essere – Anima Mundi (l’anima cosmico-divina che impregna di sé tutte le cose e dà loro la vita intelligente), il Nous (l’Intelletto quale persona sovrumana e sovrannaturale, ossia la suprema Intelligenza divina creatrice) ed infine l’Uno, ovvero quella sintesi perfetta e simultanea di tutte le cose che rappresenta una vera e propria Realtà suprema e trascendente (cioè la più vera Realtà). Questo Uno corrisponde in Plotino di fatto a Dio stesso nella sua più alta concezione, ovvero un Dio Trascendente del quale non si può dire assolutamente nulla, dato che Egli si trova ben al di sopra di qualunque essere (e quindi al di sopra di qualunque attributo o qualità). È proprio a questo Uno-Dio che Plotino immagina ci si (ri-) unisca alla fine dell’ascesa filosofica come lui la intende [ascesa che non a caso prevede come primo passo la ri-unificazione dell’anima (ossia la Ragione) all’Intelletto, e cioè alla capacità conoscitiva più intuitiva e penetrante che mai possa venire concepita]. Questo Uno-Dio non è senz’altro quello cristiano (ossia il Dio incarnato), ma certamente è il Dio percepito dai mistici di tutte le religioni.
A prima vista tra le due concezioni dell’ascesa vi è una differenza quasi abissale – la prima sembra infatti conoscitiva e rigorosamente filosofica (e quindi razionale) mentre la seconda appare perdutamente mistico-irrazionale (e quindi emozionale). Ed in effetti i moderni critici (contestati da Yount) vedono proprio in questo la divergenza irrecuperabile esistente tra Platone e Plotino. Così si giunge perfino a pensare che il neoplatonismo (del quale Plotino fu capostipite) sarebbe una sorta di brutta e molto imperfetta copia della visione di Platone. Yount contesta però tutto questo sottolineando che di fatto tra le due visioni dell’ascesa non vi è alcuna sostanziale differenza. Anzi egli è convinto del fatto che Platone e Plotino la pensarono allo stesso identico modo proprio perché non solo concepirono l’ascesa in maniera sovrapponibile ma anche la vissero entrambi personalmente ed in maniera molto intensa. E ciò collima del resto con una letteratura piuttosto vasta che presuppone un misterioso viaggio di Platone al tempio di Eliopoli in Egitto, dove sarebbe stato ammesso ai riti di iniziazione a loro volta basati sulle dottrine orfico-pitagoriche e caldeo-ermetiche (menziono i relativi titoli nel mio saggio su Platone: Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017)
Su questo non posso dire qui nulla di più dato che ci addentreremmo in questioni filosofico-metafisiche molto complesse ed anche tediose. Rimando quindi chi fosse interessato alla mia recensione del libro di Yount ed anche ad una serie di articoli che ho scritto (e pubblicato) sui diversi aspetti del tema [“Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68; “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255; “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73; “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Ma una volta chiarito lo sfondo della tematica, dobbiamo passare ora alla trattazione del suo aspetto specifico, e cioè propriamente all’esperienza ascensiva di conoscenza del Bene per mezzo del Bello. Alcuni lettori sapranno che questo fu di fatto il tema centrale del famoso Simposio di Platone, dialogo in cui Socrate (assistito dalla sacerdotessa di Apollo, Diotima) esplora le varie possibilità di elevarsi dal godimento edonistico delle bellezze corporali e terrene al godimento filosofico della Bellezza eterna e trascendente. E non vi è dubbio che nello scrivere questo dialogo Platone ebbe davanti a sé il mito religioso del Dio bello per eccellenza, cioè appunto Apollo. Nello stesso tempo però è ben noto che Apollo fu questo in quanto «A-ploun», ossia l’opposto della molteplicità («polús»), e quindi il Uno e Trascendente per eccellenza. Ma Yount chiarisce tra l’altro proprio che Platone e Plotino la pensano allo stesso modo in quanto il Bene del primo corrisponde di fatto all’Uno del secondo. E queste due entità furono per l’uno e per l’altro pensatore quanto di più alto potesse mai venire concepito. Si potrebbe quindi venire indotti a pensare che Platone sia stato perfino al di sotto di Plotino, non essendo riuscito a concepire un’entità suprema come l’Uno. Ma Yount ci mostra che non è così per vari motivi. Soprattutto però non è così perché di fatto il Bene di Platone era nello stesso tempo anche l’Uno (del quale egli poi parlò molto direttamente nel dialogo detto Parmenide).
Bene. Per tutto quello che abbiamo detto finora, tutto ciò non costituisce affatto un astratto, inutile e tedioso cavillare metafisico – aggravato poi dal fatto che (come sostengono molti) in pratica in tal modo si parla del nulla, dato che proprio cose come l’«Uno» e il «Bene» rientrano tra le cose più inafferrabili (e magari anche del tuto inesistenti) che si possano mai immaginare. Le cose non stanno invece affatto così. Perché qui ci troviamo al cospetto di una delle più antiche, alte e sofisticate teorie (metafisiche) di ciò che noi tutti dobbiamo tenere presente quando pensiamo alla coppia bene-male, e soprattutto quando molto concretamente siamo chiamati a scegliere tra l’uno e l’altro nella nostra vita quotidiana.
E sfido chiunque di voi lettori − per quanto materialista, riduzionista ed a-moralista egli possa essere (e peraltro con suo pieno diritto!) −, a negare che, nel momento in cui si è trovato in uno di quei fatali e terribili bivii della nostra esistenza, non sia stato almeno sfiorato dal dubbio di stare scegliendo proprio tra il bene ed il male.
Ora noi sappiamo già di cosa si tratta quando Platone e Plotino parlano di questo come di un salire (ascesa), ma credo sia giunto il momento di comprenderne meglio il perché. In primo luogo proprio il Simposio è il luogo migliore per partire in questo sforzo di comprensione. Lo scenario del dialogo è infatti quello tipicamente ellenico-ateniese dei piaceri della tavola, uniti a quello dei bei corpi (specie maschili) e dei relativi roventi sentimenti amorosi – tra i quali la violenta passione provata da Socrate stesso per Alcibiade. Ma tutto ciò per Platone non fu altro che lo spunto per svolgere una minuziosa analisi conoscitiva per mezzo della quale elevarsi da tale scenario sensibile per approdare a quello ultra-sensibile, ossia quello del «bello-in-sè» − il Bello trascendente che resta eternamente invece di passare con il tempo e la corruzione dei corpi e delle cose.
Del resto, dato lo stato di vera e propria “follia” al quale (come dice Diotima) viene ridotto l’amante nel suo struggersi per il possesso dell’amato, non vi è a questo male altro rimedio che l’attaccarsi non al bello sensibile (che può addirittura negarsi, ma comunque certamente passa) bensì al Bello che non muta mai. E dopo quello che abbiamo detto dell’ascesa secondo Platone, è evidente di cosa si tratti con questo – si tratta della bellezza della Verità suprema, ultima ed assoluta, e quindi anche del piacere infinito che il filosofo prova nell’approdare ad essa dopo un lunghissimo difficilissimo cammino. Di questo autentico piacere della conoscenza Platone parlò diffusamente nel Filebo.

Già da questo è evidente che (nel contesto di questa dottrina metafisica) il Bello equivale a quello che per Platone è il Bene davvero supremo, ossia la Verità.
Ma ci sono altri due aspetti da esaminare per arrivare a comprendere ancora meglio la questione: − 1) il ruolo preciso che occupa il Bello nell’ascesa conoscitiva al Bene e nel tradursi poi del Bene in Verità evidente; 2) il criterio pratico ed anche effetto finale dell’applicazione di questa intera teoria, e cioè l’azione ispirata al Bene, ossia il «ben agire».
Ebbene, Yount dedica davvero molto spazio al primo aspetto della questione. Egli ci mostra infatti che il Bello (o meglio «il-Bello-in-sè») costituisce un’entità metafisica e trascendente che però reca in sé in maniera evidente le vestigia del sensibile per eccellenza. Esso incarna infatti tutto quanto attrae irresistibilmente lo sguardo dell’uomo infiammayo d’amore (il cui nome in Platone è estremamente esplicito come in Freud: “eros”): – proporzione, armonia, misura, simmetria, perfetto ritmo. Come tutti noi ben sappiamo, queste qualità furono le vere e proprie ossessioni che caratterizzarono l’intero spirito ellenico. Dunque da ciò discende che non vi è via migliore per ascendere al Trascendente, ossia al Bene, che quella contrassegnata dal Bello, ossia un’entità trascendente che però possiede tutti i requisiti per attirare l’attenzione delle menti e dei cuori umano-terreni.
Ma più precisamente qual è la funzione psichica che viene coinvolta primariamente in questo irresistibile volgersi della nostra attenzione verso ciò che è bello? È chiaramente la “visione”, ossia quella forma di coglimento dell’oggetto da parte del soggetto (conoscenza) che coinvolge il sensibile, ossia il coglimento di una «forma» in quanto vera e propria «sagoma» (shape) di un intero corporeo, ossia un’unità. Sta di fatto però che la funzione dell’Intelletto creante – il Nous, o Intelletto fatto entità metafisica, o anche mondo intelligibile (mondo delle idee), corrispondente più in basso alle «forme vuote» per mezzo delle quali la nostra mente conosce le cose (se si vuole le «categorie» di Aristotele) – consiste proprio nel «mettere in forma» il caos delle impressioni sensibili. Infatti già a livello meramente naturalistico e psicologico (quello della funzione della nostra mente) noi non conosceremmo mai alcun «oggetto» se cogliessimo appena un insieme non coordinato di impressioni sensibili. Noi insomma cogliamo un oggetto solo come un’unità coordinata (e soprattutto sensata) di impressioni sensibili, o qualità. È esattamente con questo che il mondo caotico delle cose diviene «intelligibile», ossia conoscibile, e cioè diviene accessibile alla facoltà intellettuale. Ed è per questa via che noi siamo in grado di dire con assoluta certezza: − «Questa cosa qui è un tavolo!».
Con ciò noi abbiamo di fatto già gettato uno sguardo su quella «teoria della conoscenza» della quale parleremo in una delle prossime lezioni. Ma non è questo che ora immediatamente ci interessa. Ci interessa il fatto che ciò che è formato (ossia ciò che, agli occhi del nostro intelletto, compare come «messo in forma») è sempre almeno tendenzialmente anche bello. Dunque è proprio questo che coglie quella nostra privilegiata facoltà che chiamiamo “visione”.
Tuttavia per Platone il discorso non si ferma affatto qui. Perché questa bellezza che è proporzione deve necessariamente tradire un’antecedente sapienza costitutiva e costruttiva, ossia un’autentica Intelligenza creativa.
E questo mette allo scoperto proprio il significato cosmico di ciò che è «intelletto», ossia l’agire conoscitivo di un’entità metafisico-trascendente che forma l’essere (il Mondo e la Materia) nel contesto di un atto creativo. Se questa entità-forza non agisse il mondo sarebbe oggettivamente quello stesso caos che si delinea davanti ai nostri occhi prima che agisca il nostro intelletto – immanente e soggettivo, invece che trascendente e oggettivo com’è quello cosmico.
L’intera filosofia (fin quasi ai giorni nostri) ha equiparato questa azione a quella dell’artigiano e dell’artista che misteriosamente «vedono» nella materia bruta da formare l’Idea o Forma alla quale la loro opera creativa si ispirerà come costante guida. Era insomma ciò che Michelangelo «vedeva» infallibilmente nel blocco di pietra da trasformare in statua. Si tratta quindi esattamente dell’Idea come Forma, al modo in cui essa veniva intesa da Platone – essa si colloca «davanti» allo «sguardo intellettuale» (intelletto come visione intuitiva) dell’artista quale “scopo” (telos) ultimo del suo agire creante.

Ma in fondo a cosa esattamente questa Sapienza cosmica permette di esistere? Per Platone e per Plotino essa permette che esista qualcosa che, nella sua perfezione (da noi colta come «bellezza»), mette definitivamente allo scoperto proprio l’agire di quell’Intelligenza cosmica che è giunta ormai a compimento nel suo prodotto. Tale prodotto splende infatti ormai davanti al nostro sguardo nella piena luce diurna della schiacciante evidenza (ben evidenziata nei netti ed armoniosi contorni della sagoma bella) senza che più alcuna oscurità (il caos del bruto e cieco sensibile in-intelligibile) possa nasconderla e quindi di fatto cancellarla dall’esistenza. Non vi è infatti esistenza più piena che questa.
E cosa ci testimonia tutto questo entro la dottrina metafisica di Platone e Plotino (strettamente dipendente dall’Uno-Bene, a sua volta equivalente allo più alta ed assoluta Verità)? Ci testimonia il venire allo scoperto di quell’”unità” (la cosa esistente stessa) la cui perfetta proporzione (bellezza) tradisce un’Intelligenza costitutiva la quale non può che essere stata ispirata a sua volta da una necessità positiva, ossia il dover venire ad essere di qualcosa, l’esistere effettivo e finale di qualcosa. Questo è l’«essere» nella sua pienezza. Si tratta insomma di ciò che molto più tardi Leibniz (Monadologia) – ripreso poi ancora più tardi da un Heidegger ispirato ed affascinato proprio dalla cultura greca – avrebbe definito come il principio del “perché qualcosa e non nulla”. Davanti a noi c’è infatti l’«essere» laddove un attimo prima vi era il «nulla», e ciò con la stessa identica indiscutibile giustificazione. È dunque in questo senso che l’Essere non può costituire altro che il Bene. L’Essere quindi rivela il Bene. E proprio per questo, pertanto, il Bello (che è più che mai «essere» in quanto tangibile sia a livello immanente che trascendente) non è altro che la manifestazione del Bene – ne è di fatto la manifestazione tangibilmente sensibile. Laddove poi il Bene si ispira all’”unità” come criterio di esistere, ossia all’Uno.
In tal modo noi necessariamente dobbiamo avere davanti a noi la «verità dell’essere» stessa; ossia quell’essere totalmente “aperto” (Heidegger) che è tale in quanto manifesta la bellezza inevitabile di tutto ciò che esiste in quanto «vero», ossia davvero totalmente giustificato ad esistere. Il mondo delle Idee di Platone è costituito infatti proprio da questo genere di cose, e cioè le «cose più belle in quanto vere»; che poi sono anche le cose «giuste» in un senso di nuovo molto prossimo alla bellezza, e cioè quello della “misura” costruttiva (orthos).
Ecco insomma ricostituiti i termini dell’intera dottrina che Yount riconosce in Plotino, ritrovandone poi gli stessi aspetti anche in Platone – il Bene contempla l’Uno per produrre l’Intelletto (o Nous), e l’Intelletto si ispira all’Uno-Bene per produrre tutto ciò che anima vivente (dall’Anima Mundi divina a quella individuale umana, animale e vegetale).
Eccoci dunque davanti alla cosmo-genesi così come venne immaginata dallo spirito greco.
Ma, ancora una volta, perché tutto ciò non è affatto una mera ed inutile divagazione fantasiosa su inesistenti entità metafisiche?
La risposta sta proprio nel doppio senso che ha l’ascesa all’Uno-Bene sia per Platone che per Plotino.
Quanto abbiamo infatti appena mostrato (cioè la fenomenologia completa della manifestazione dell’Uno-Bene con l’intermediazione del Bello) non è altro che la branca discensiva di un complessivo movimento la cui altra branca è quella ascensiva – quella in cui (come abbiamo visto prima) noi per mezzo del Bello perveniamo alla conoscenza dell’Uno-Bene. E con ciò noi approdiamo esattamente a quella Verità suprema che immanentemente avevamo già colto come «verità dell’essere». In questo luogo noi contempliamo proprio quelle «cose più belle in quanto vere» che Platone non a caso definì con in termine molto specifico di “idea”, ossia “eidos”, cioè qualcosa che si può cogliere solo per mezzo di un atto intellettuale che è sostanzialmente visivo (Friedländer). Insomma per Platone l’”idea” è tutt’altro che un astratto concetto della mente.

Bisogna però ammettere che tutto questo non oltrepasserebbe comunque una dottrina affascinante e poetica, se essa non avesse al contempo (per Platone più esplicitamente che per Plotino) una ben concreta ricaduta pratica.
E così veniamo al secondo aspetto della questione alla quale abbiamo accennato prima, ossia quello dell’azione in quanto «ben agire». In un certo senso ciò fu quanto contò di più per un pensatore come Platone, che iniziò a riflettere (abbandonando così la mera prassi) proprio in quanto sollecitato da preoccupazioni etico-politiche, e poi condusse tutta la sua riflessione esattamente su questo registro. Il famosissimo mito della Caverna (del quale Yount parla diffusamente) vuole in definitiva esprimere proprio questo, e cioè l’importanza che ha la conoscenza etica nel contesto di un’azione individuale che resta sempre incompleta se non si traduce nel sociale, cioè se non diviene concretamente politica.
E dunque proprio a tale proposito noi ci troviamo davanti all’aspetto più rilevante del momento discensivo dell’ascesa, ossia quello per mezzo del quale il Bene si manifesta nel mondo. Accade insomma che, soltanto una volta che noi siamo assurti alla conoscenza dell’Uno-Bene (quale Principio omni-valente di «ben-essere») – come accade all’uomo divenuto «filosofo» per il fatto di essersi ormai liberato dalle catene e dall’oscurità della Caverna −, noi siamo davvero capaci di agire bene; ossia siamo capaci di agire in obbedienza ad un Bene che inevitabilmente renderà attraente la nostra azione, cioè la renderà oggettivamente bella (e quindi desiderabile per noi e per tutti). Si tratta insomma di una bellezza etica. Così come la conoscenza qui implicata è chiaramente una conoscenza etica.
Il mito della Caverna, quindi, ci parla esattamente di un’ascesa conoscitiva (quella propria del «filosofo») che resta monca ed anche del tutto inutile se non viene seguita da una discesa del filosofo nel mondo della prassi (Montoneri).
È proprio su questa base che Platone concepì nella Repubblica il governo dei filosofi. In tutto questo è pertanto di importanza capitale una conoscenza che non si limita mai affatto ad essere «pura» (e quindi astratta), ma invece, nell’essere conoscenza inevitabilmente etica, indulge sempre a sporcarsi le mani con la realtà concreta.

Ebbene in tutto questo consiste il versante teorico-pratico di quella dottrina platonico-plotiniana che noi certamente possiamo invocare quando vogliamo fare uso della Filosofia nel pieno del nostro esistere quotidiano e collettivo.
Come si può ben vedere (in obbedienza a quanto ho scritto nella presentazione di questa pagina), noi non ci ritroviamo in tal modo tra le mani alcuna facile ricetta da applicare nella nostra vita per renderla più facile e piacevole, ossia (come si suol dire) “più felice” (in senso edonistico). Semmai ci ritroviamo invece tra le mani una ricetta che ci sollecita ad una profonda riflessione (unita anche alla dovuta auto-critica) per fare in modo che la nostra vita divenga “più felice” in quanto essa abbia finalmente più senso, ossia serva davvero a qualcosa (e cioè ad uno scopo che ci trascende come individui centrati unicamente in sé stessi). Ma questa nostra vita avrà più senso solo se noi, avendo interiorizzato ed impersonato la ricetta filosofica, saremo divenuti capaci di agire in una maniera che è tanto più difficile quanto più presuppone una costante, profonda, serissima e scrupolosissima riflessione. Non si tratta quindi per nulla di una teoria da apprendere e poi da dimenticare per darsi alla pura prassi. La filosofia applicata alla vita è semmai una teoria che inizia ad accompagnare per sempre la prassi, senza mai più abbandonarla. Questo è del resto il senso che lo stesso Yount attribuisce all’esperienza ascensiva del filosofo all’Uno-Bene – per essere davvero ciò che è, essa deve essere “trasfiguratrice”, ossia deve modificare per sempre il nostro essere ed esistere.
E ciò pone in evidenza l’importanza capitale e primaria del criterio etico quale punto di riferimento dell’azione individuale ed ancor più collettiva (cioè socio-politica). Cosa che presuppone poi nuovamente uno sforzo praticamente inesausto; dato che le sollecitazioni fortissime del mondo sensibile (dominato da criteri ben diversi da quello dell’etica, anzi spesso diametralmente opposti ad esso) tenderanno continuamente a farci deviare da questo cammino.
Ecco allora che la cosiddetta «filosofia di vita» non consiste affatto in una sorta di spionaggio utilitaristico (mediato dal filosofo-venditore di turno, elettosi a prestigiosa star del web) delle argomentazioni filosofiche allo scopo di ridurle ad una psicologia pratica di facile consumo. Al contrario essa consiste nel portare l’attitudine filosofica nel bel mezzo del nostro (irriflesso e cieco) esistere immediato, e ciò nella forma di un costante e faticoso atto di profonda riflessione (continuamente reso instabile dalla sottomissione al dovere della verità più ultima ed assoluta, e quindi aperto in una ricerca infinita) sulle cose esteriori ed ancor più sui nostri vissuti.
E bisogna dire che Platone va considerato un vero maestro della filosofia così intesa – visto che egli raffigurò sempre Socrate nell’atto di filosofare per strada, nei mercati, negli agorà, davanti e dentro i tribunali, nei porti, ed insomma sempre in mezzo alla gente e nel pieno dell’esistere.
Ma tutto questo ci serve anche a capire quanto poco la metafisica sia distante dalla stessa filosofia − in quanto presumibilmente ancora più astratta ed inutile di questa disciplina. Come abbiamo visto, infatti, la dottrina di Platone e Plotino tocca senz’altro vertici altissimi di riflessione (sia nella conoscenza pura che nella stessa mistica). Eppure in questa riflessione risiedono le radici per un altro livello di riflessione, che sicuramente è situato a livello più basso ma intanto non per questo è di importanza minore.

In altre parole, per mezzo di questa “lezione” sul pensiero di Platone e Plotino noi abbiamo potuto realizzare che anche la stessa più alta metafisica può e deve rientrare in una filosofia che possa e debba venire dibattuta vivacemente e costruttivamente; ossia molto lontano dagli interessi e dalle intenzioni delle spocchiose ed autarchiche Accademie.

Introduzione.
La revisione critica di David Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014] è estremamente utile affatto solo per dirimere una questione tuttora aperta, e cioè quella della relazione tra Platone ed il platonismo (includente poi anche il problema rappresentato dall’effettiva «platonicità» del neoplatonismo e dello stesso Plotino). Tale revisione è invece altresì utile a comprendere chi sia stato davvero Platone come pensatore. E Yount ci mostra che è possibile rispondere molto bene a questa domanda discostandosi dalle prevalenti interpretazioni moderne del pensiero di Platone nel considerarlo del tutto equivalente a quello di Plotino. Il riconoscimento di quest’equivalenza viene poi motivata dall’Autore sia attraverso un’approfondita ed ampia analisi testuale sia attraverso l’enunciazione del cosiddetto “principio di compatibilità” [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., IV p. XXVIII-XXXII]; il quale consiste nel fatto che la pura somiglianza dottrinaria tra due pensatori è criterio pienamente sufficiente di approssimazione allorquando tale somiglianza stessa è talmente suggestiva da divenire addirittura assolutamente ovvia. Tuttavia sta di fatto che questa è esattamente l’impressione che colpisce di più il lettore indipendente dei testi platonici e plotiniani; il che rende inevitabilmente molto artificiose ed arbitrarie le costruzioni di tesi interpretative, quasi sempre riduzioniste, che oggi dominano entro la critica a Platone ed al platonismo. Possiamo quindi anche definire il nostro lettore come deplorevolmente «ingenuo». Ma intanto (se riusciamo ad essere davvero onesti) non potremo sottrarci alla sgradevole impressione che le motivazioni prevalenti nella moderna critica sono non solo meramente retorico-ideologiche ma sono in fondo anche bizzarre e perfino spesso incomprensibili.
Esse si scontrano infatti in maniera spesso frontale tanto con le evidenze testuali quanto anche (e soprattutto) con le evidenze dottrinarie molto oggettive che Yount pone in luce enunciando il suo principio di compatibilità.
Del resto la natura retorico-ideologica di tali interpretazioni risulta immediatamente chiara a tutti. Si vuole infatti presentare Platone come il paradigma indiscutibile del più rigoroso razionalismo filosofico immanentista (tutto concentrato sull’uomo e sulla moderna teoria della conoscenza), nel mentre invece si vuole presentare Plotino come modello di un misticismo metafisico che nulla avrebbe a che fare né con Platone né con le più autentiche istanze della filosofia moderna.
Ma la tesi centrale di Yount (quella della perfetta equivalenza Platone-Plotino) si scontra frontalmente con queste interpretazioni, facendocele pertanto riconoscere come mere illazioni. Esse quindi, oltre che falsificanti, appaiono in fondo anche inutili e dannose, dato che ci precludono la comprensione della vera visione dei due pensatori e soprattutto della vera natura del pensiero di Platone.
Più precisamente l’Autore sostiene che per entrambi i pensatori l’Uno e il Bene sono di fatto la stessa identica entità; e cioè la fonte delle Forme, e quindi infine l’Origine di ogni essere e di ogni ente, così come anche la Realtà stessa una volta colta nella sua trascendenza. Entrambe le entità stanno quindi radicalmente al di sopra dell’essere, con il configurarsi in tal modo di un trascendentismo ontologico molto deciso. Ed in tal modo non si può più assolutamente sostenere che la visione di Platone (diversamente da quella di Plotino) sarebbe appena un’epistemologia e gnoseologia immanentista.
La mera retoricità ideologica di tale interpretazione emerge poi in maniera ancora più chiara se teniamo presente che (sulla base di quanto afferma Yount) Platone pare abbia esposto la sua dottrina metafisica già nei dialoghi − non solo invece nell’esoterico insegnamento orale, come viene sostenuto dalla Scuola di Tübingen –, e peraltro (nonostante le apparenze) lo abbia fatto perfino in una maniera altrettanto sistematica di quella plotiniana [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., I-II p. XV-XX]. Proprio questo lascia pertanto emergere, entro la sua visione, una dottrina metafisica sistematica entro la quale devono rientrare allo stesso titolo un’ontologia, un’epistemologia e perfino anche una mistica. Ed infatti, secondo Yount, al centro di questa dottrina non vi è affatto il Logos tipicamente filosofico e gnoseologico (come ritengono i moderni interpreti riduzionisti) ma vi è invece quel Bene che a sua volta è perfettamente equivalente all’Uno. Le conseguenze di tutto ciò sono dunque sostanzialmente due: − 1) la collocazione radicalmente sovra-essenziale di questa suprema entità, il Bene, fa sì che per Platone valga lo stesso apofatismo che viene applicato da Plotino all’Uno; 2) in quanto trascendente, l’Uno-Bene di Platone corrisponde ad una ben delineata ontologia suprema, che consiste poi nel «vero essere», cioè quello rappresentato dalle sole «cose buone» (le cose che sono tanto buone quanto vere, e viceversa). Ecco allora che, illustrandoci cosa sono l’Uno e il Bene (allo stesso modo di Plotino), Platone vuole soprattutto spiegarci qual è l’Essere più autentico e più pieno. Ed è evidente che per lui questo Essere consiste in quello radicalmente trascendente, ossia quello che siamo costretti di fatto a considerare un «Sovra-Essere», e cioè qualcosa che è sostanzialmente è «più-che-essere» (e non invece «meno-che-essere» in quanto meramente epistemologico, ossia «essere ideale» o anche «essere mentale»).
Ma esattamente questo Sovra-Essere, coincidente con l’Uno-Bene, è per Platone il supremo oggetto della conoscenza filosofica, e quindi è qualcosa di molto più alto delle forme vuote che governano la conoscenza umana (le quale sono invece totalmente immanenti alla mente e costituiscono quindi esattamente il mero «essere mentale»). Yount ci mostra quindi che il trait-d’union delle visioni di Platone e Plotino è molto coerentemente proprio l’esperienza intellettuale-visiva dell’Uno-Bene. In ogni caso va comunque ammesso che ad essa Platone offre una veste più esplicitamente filosofica mentre Plotino offre ad essa una veste più esplicitamente mistica. Ma a questo punto, data la radicale trascendenza dell’Uno-Bene, bisogna ammettere anche per Platone una dottrina della conoscenza suprema che sconfina nel sublime e nel contro-razionale o iper-razionale, ossia in una dimensione mistica o almeno molto prossima alla mistica.
A tale proposito bisogna tuttavia considerare quella che resta una lieve differenza tra Plotino e Platone. Il primo infatti ammette pienamente la conoscenza del Bene (mentre Platone invece la condiziona fortemente al raggiungimento effettivo di un livello estremamente trascendente), nel mentre però attribuisce all’Uno le stesse caratteristiche sovra-essenziali e trascendenti che Platone attribuisce all’Uno-Bene. In questo senso si può dire quindi che, nella sua visionarietà, Platone è stato ben più preciso e differenziato di Plotino. La sua è pertanto forse una filosofia sublime e contemplativa anche senza arrivare ad essere esplicitamente mistica, e quindi conservando tutto il suo rigore.
E ciò resta in linea con quanto affermato da Friedländer [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, III p. 80], e cioè che l’ascesa filosofica postulata da Platone mantiene costantemente la lucidità tutta razionale che invece si perde completamente entro l’esperienza mistico-unitiva postulata da Plotino. Questa tesi interpretativa diverge non poso da quella di Yount. E tuttavia (in base a quello che abbiamo costatato poc’anzi) sembra possibile che, pur nel conservare per intero il rigore razionalistico del suo pensare, Platone non abbia affatto voluto mantenersi lontano da un’esperienza conoscitiva di tipo mistico-unitivo.

Chiarito tutto questo ci sembra utile menzionare quali sono almeno alcuni dei critici le cui tesi vengono controbattute da Yount: − R. E. Allen, John Anton, Hilary Armstrong, John Armstrong, G. S. Bowe, Harold Cherniss, Roman Ciapolo, E. R. Dodds, Daniel Dombrowsky, Cynthia Hampton, David Hitchcock, Hans Georg Gadamer, Andrew Louth, William Lynch, Deepa Majumdar, Margareth Miles, Richard Mohr, John Rist, Glenn Rawson, Paul Shorey, W. T. Stace.
Egli è invece sostanzialmente d’accordo con uno dei più autorevoli specialisti di platonismo, cioè Lloyd Gerson, ed inoltre con E. N. Tigerstedt.
Va quindi fatto notare che sono davvero molte le voci critiche che oggi sostengono la necessità di una lettura riduzionistica di Platone.

Ebbene queste sono le linee più generali della tesi esposta da Yount. Ma crediamo che valga la pena di approfondire il discorso entrando nel dettaglio dei diversi aspetti da lui trattati

1- La questione critica globale − Platone, Plotino, il platonismo ed il neoplatonismo.
Abbiamo già commentato diversi aspetti di questa problematica, ma ve ne sono anche altri che vale la pena di prendere in considerazione.
Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., I-II p. XV-XX] sottolinea che (tenendo presente quanto affermato da Tigerstedt) le tesi oggi sostenute dalla critica rischiano fortemente di configurare dei veri e propri “errori” – nel tentativo di avvalorare unilateralmente aspetti del pensiero di Platone che o stanno in conflitto con le effettive e evidenze oppure si pongono come coppie di opposti che ci forniscono entrambi immagini pochissimo credibili della natura di tale pensiero
(ed ecco allora un Platone rigorosamente laico ed a-religioso, un Platone puramente razionalista e dialettico, un Platone che è protagonista di un pensiero meramente discorsivo e quindi è un pensatore non sistematico e mai conclusivo, un Platone libertario o invece al contrario totalitario, etc.).
Tigerstedt sottolinea anche che a prima vista queste riletture del pensiero di Platone si presentano come lodevoli sforzi di ricostruirne l’autenticità, dato che (secondo i moderni interpreti) il suo vero pensiero sarebbe stato coartato e corrotto dalla vera e propria “caricatura” operata su di esso dai suoi successori, ossia platonici e neo-platonici. Ecco che allora la moderna critica tende a leggere come discontinua e falsificante la relazione esistente tra Platone e platonismo. E naturalmente ciò mira (come già abbiamo visto) a ricondurre Platone all’immagine di lui e del suo pensiero che i moderni più preferiscono, ossia quella di un pensatore rigorosamente razionalista, immanentista, interessato alla sola epistemologia e totalmente laico.
Quanto poi alla questione della sistematicità o meno del pensiero di Platone, Yount la sostiene in pieno affermando che i dialoghi aporetici (ossia privi di una dottrina conclusiva) sono quelli in cui il pensatore si è semplicemente limitato ad esporre dottrine che non solo non erano le sue ma che soprattutto venivano da lui considerate non valide. In altre parole egli avrebbe presentato tali dottrine al solo scopo di porle in discussione; e ciò perfino rinunciando a trarne conclusioni definitive corrispondenti alla sua visione. L’evidenza dei dialoghi aporetici (privi sempre di qualunque conclusione, e quindi aperti) non contraddice affatto l’altra evidenza (non meno forte) dell’esposizione da parte di Platone di un vero e proprio pensiero sistematico. E ciò riguarda del resto i dialoghi più fondamentali, ossia Repubblica, Fedone, Fedro, Simposio, Parmenide e Timeo.
Su questa base Yount si schiera decisamente a favore della tesi critica da lui definita “unitarismo”, e della quale viene dichiarato protagonista Gerson. Secondo tale tesi il pensiero di Platone è sistematico in primo luogo in quanto è assolutamente unitario, e quindi è caratterizzato da una dottrina completa e coerente in tutte le sue parti. In particolare tale dottrina avrebbe incluso sia la postulazione delle Idee sia anche la postulazione di sommi Principi dell’essere che trascendono le Idee e che trovano infine la loro sintesi nell’Uno. Come abbiamo già visto, comunque, l’Autore (diversamente dalla Scuola di Tübingen) sostiene che la dottrina dei Principi sarebbe stata esposta da Platone già nei dialoghi (cioè in sede ampiamente pubblica), e non invece solo nel contesto del suo insegnamento orale (largamente esoterico, in quanto svolto nel corso delle lezioni tenute nell’Accademia davanti a pochissimi discepoli scelti).
In ogni caso Yount si schiera con veemenza contro la oggi molto diffusa tesi critica, secondo la quale il neoplatonismo (con Plotino in testa) sia stato molto differente dal vero pensiero di Platone [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit.,III-IV p. XXI-XXXII]. E bisogna dire a tale proposito che le tesi dei moderni interpreti giungono ad essere così fantasiose (nel loro negazionismo) da divenire addirittura paradossali (se non ridicole nella loro ostinazione riduzionista). Si sostiene infatti che il neoplatonismo abbia voluto a tutti i costi essere a tal punto una “nuova scuola” platonica (pur senza averne i titoli), da non esitare ad attribuire a Platone una mistica che in lui invece era del tutto inesistente. Ma a tale proposito l’Autore obietta che quello di Plotino è in verità un “idealismo razionalista” del tutto sovrapponibile a quello di Platone, al quale poi si aggiunge una metafisica molto esplicita senza che però questo crei alcuna contraddizione con il predecessore.
Oggi si tende a sostenere inoltre che il pensiero di Plotino sia stato appena il frutto delle tendenze del suo tempo (incluse quelle imposte dal Cristianesimo nascente e già prossimo al trionfo), ed infine che addirittura questo pensiero non sia altro che il frutto delle esigenze avvertite dai suoi lettori postumi (in primo luogo i platonistici cristiani). Ed in tutto questo si postula pertanto che a Plotino non può venire concessa alcuna “originalità” di pensatore (e tanto meno alcun “genio”); così che egli non avrebbe alcuna vera ragione per considerarsi davvero un platonico (semmai invece sarebbe stato un aristotelico ed uno stoico). Infine si giunge a sostenere che la sua interpretazione di Platone sarebbe stata del tutto errata (introducendo in particolare nel pensiero del predecessore un trascendentismo invece in esso del tutto assente).
A fronte di tutto ciò Yount ribadisce il nucleo della sua tesi critica, e cioè che la perfetta equivalenza Platone-Plotino consiste comunque nella condivisione della stessa dottrina ed anche dello stesso vissuto personale dell’esperienza di visione intellettuale dell’Uno-Bene. E su questa base egli solleva convincenti obiezioni contro ciascuna delle tesi critiche prima illustrate − soprattutto nel sostenere che, anche prendendo atto delle ovvie differenze che esistono (nei testi e nelle dottrine) tra Platone e Plotino, bisogna tenere presente che essi non possono venire considerate “essenziali”, ossia non possono venire considerate sufficienti a contraddire la tesi dell’equivalenza. Nulla infatti può essere sufficiente a fronte del fatto che (per entrambi i pensatori) l’esperienza visiva dell’Uno-Bene è fondamentale nella formazione del filosofo, e lo è in quanto profondamente trasfiguratrice di colui che la vive. Quindi essa non può che essere un’esperienza conoscitiva ed insieme mistica. É per questo che essa non può che venire considerata centrale da entrambi i pensatori. E ciò archivia secondo Yount qualunque tesi della differenza tra Platone e Plotino.
Da tutto ciò l’Autore egli deduce quindi che si possono capire bene le cose solo se si ammette che Plotino è “il platonista” (per eccellenza), mentre non è invece affatto appena “un platonista” (qualsiasi).

2- La comune dottrina dell’Uno-Bene.
Sostanzialmente Platone e Plotino condividono secondo Yount la stessa identica dottrina dell’Uno e del Bene, e quindi le due entità praticamente si equivalgono nei due pensieri configurando di fatto una sola entità e cioè l’Uno-Bene [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 1 p. 2-18]. Infatti, sottolinea l’Autore, questa dottrina compare effettivamente in Platone nella Repubblica e nel Filebo. Intanto è intuitivo a qualunque lettore che l’Uno e il Bene non costituiscono esattamente la stessa identica entità metafisica, e che questo certamente vale sia per Platone che per Plotino. Le due entità però non si differenziano in nessuno dei due pensatori per il fatto che esse occupano di fatto lo stesso luogo radicalmente trascendente, e cioè quello delle supreme «Forme di Essere». Ovviamente va da sé che all’Uno (in quanto totalmente ineffabile e indeterminato, come poi vedremo) non può venire attribuita la stessa valenza di «forma» che invece può senz’altro venire attribuita al Bene in quanto certamente già ben più determinato (anche se esso stesso non poco ineffabile). Le osservazioni di Yount ci rendono quindi perfettamente consapevoli anche di queste (per così dire) sottili differenze interne all’Uno-Bene.
Sta di fatto comunque che, non appena iniziamo a mettere in discussione la radicale trascendenza del Bene (sia per Platone che per Plotino), immediatamente emerge una delle principali tesi interpretative riduzionistiche oggi comuni presso la critica – ossia quella secondo la quale, nel sostenere l’equivalenza Uno-Bene (e con essa l’equivalenza tra i due pensatori), si delinea fatalmente l’aporia di una «Forma delle Forme» (il Bene) che è compromessa con l’Essere fino al punto da rischiare di essere immersa in esso come le forme comuni e molteplici. In altre parole il Bene finisce per divenire assimilabile ad una qualunque Idea (quale Forma delle cose molteplici). Ed eccoci immediatamente davanti alla diffusa tesi critica secondo la quale Platone non concepirebbe dei Principi dell’Essere (come fa Plotino), ma invece concepirebbe solo il mondo delle Idee quale supremo livello ontico della Realtà. Conseguentemente si tende a sostenere che, mentre Plotino concepirebbe un Uno trascendente posto assolutamente oltre l’Essere, Platone invece concepirebbe non l’Uno ma invece appena il Bene quale somma entità ed in quanto immanente all’Essere (e proprio come tale accessibile realmente alla conoscenza umana). Questa tesi vuole pertanto che Platone non concepirebbe affatto l’Uno (come Plotino) ma invece solo il Bene. Vedremo però più avanti con quanta chiarezza e decisione Yount dimostra che il Parmenide di Platone non fa altro che descrivere lo stesso Uno concepito anche da Plotino.
In relazione a questa serie di tesi sta pertanto inevitabilmente anche la tesi critica secondo la quale, mentre a Plotino spetterebbe l’effettiva postulazione di un’ontologia trascendente (corrispondente all’Uno come sintesi dell’essere posto molto al di sopra delle forme), a Platone spetterebbe invece al massimo la postulazione di un’epistemologia. Il che implicherebbe poi che a Plotino si può attribuire un’effettiva onto-metafisica, mentre invece a Platone si può attribuire al massimo una teoria della conoscenza che con la metafisica ha molto poco a che fare. Yount si oppone a tutto questo sottolineando che, secondo i critici da lui confutati, Platone concepirebbe il Bene come “forma” e non invece (al modo di Plotino) come “sorgente di tutte le cose”, ossia come effettiva entità creatrice. Ecco allora che la forma del Bene sarebbe per Platone una sorgente appena metaforica delle cose; in quanto essa avrebbe una valenza puramente epistemologico-gnoseologica e non invece ontologica (e conseguentemente onto-generativa). Essa sarebbe dunque appena ciò che permette la conoscenza delle cose e non la loro esistenza; ossia sarebbe null’altro che quella «forma vuota» mentale per mezzo della quale le cose possono divenire intelligibili. Ancora una volta insomma ci troviamo di fronte alla tesi secondo la quale Platone ci parlerebbe appena delle idee presenti nella nostra mente come strumenti funzionali per la conoscenza delle cose.
Ebbene, come abbiamo detto, il criterio dirimente è qui quello della trascendenza. Infatti Yount rigetta questa complessiva tesi critica sostenendo che invece il Bene di Platone è trascendente quanto lo è l’Uno di Plotino, e quindi è anch’esso origine tanto della conoscenza quanto dell’esistenza delle cose. Più precisamente esso rappresenta la «Possibilità» ultima di qualunque genere di cosa. Proprio a tale proposito l’Autore sottolinea poi che per Platone la dimensione dell’“oltre l’essere”, caratterizzante il Bene (così come l’Uno di Plotino), va intesa come un «più che essere» e non invece appena come un «non-essere». Esso infatti «non è propriamente essere», ed è tale perché (come viene sostenuto nel Sofista) è superiore all’essere in dignità e valore. Qui è più che mai evidente, quindi, che Platone è ben lungi dal negare un’effettiva ontologia trascendente. Ma intanto, siccome il Bene resta la suprema Forma dell’Essere (e quindi è inevitabilmente compromesso con l’Essere stesso), tutto ciò significa anche che il concetto platonico di “oltre l’essere” va inteso come fortemente contemplativo e iper-razionale. Il che ancora una volta rischia seriamente (ma intanto con forti ragioni) di risucchiare Platone in quella mistica che invece i moderni critici sono disposti ad attribuire solo a Plotino.
A supporto di tutto ciò bisogna poi considerare che (come dimostra Yount) il fatto che il Bene sia “forma delle forme” − e quindi qualcosa di ben superiore alle forme comuni − evidenzia chiaramente che esso non è affatto qualcosa di ontologicamente inconsistente qual’è invece l’essenza; ossia un’entità che in filosofia equivale alla più pura onticità epistemologica, e cioè a quanto potremmo definire l’«essere ideale» (il quale è di fatto un non-essere). Si delinea così nuovamente il concetto di «forma vuota». Anche questo viene considerato dall’Autore appena un riduzionismo una volta che si attribuisca a Platone una visione contemplativa e sublime dell’essere. Infatti il Bene-Forma è per lui semmai la quintessenza di qualunque essere.
Proprio per questo nella Repubblica, con grande stupore di Glaucone, esso viene presentato come ubiquitario in quanto immanente, o sensibile, e nello stesso tempo trascendente, o ultra-sensibile. Ed in questo pochissimo cambia per il fatto che il Bene-Forma equivale in qualche modo (anche se in verità sovrastandolo) al livello intelligibile dell’essere, ossia il mondo delle Forme- Idee, e cioè null’altro che il Nous di Plotino. Appare dunque chiarissimo (già nella Repubblica) come Platone con il Bene alluda al livello ontologico dei sommi Principi. Infatti se esso non trascendesse ontologicamente il livello delle Idee (che resta in qualche modo sempre immanente) non potrebbe esercitare il ruolo di Causa e quindi di Forma delle Forme.
Proprio a tale proposito possiamo constatare come in questo modo decada una delle principali parti della complessiva tesi riduzionistica applicata a Platone – per lui infatti la suprema entità non è affatto il Logos (che corrisponde semmai al mondo delle Idee e cioè allo strato intelligibile dell’Essere) ma è invece semmai il Bene, ossia un Principio e nello stesso tempo un’entità metafisica vera e propria. Platone quindi non si limita affatto a condure un discorso circa la conoscenza umana (entro la quale il livello del logos rigorosamente filosofico costituisce quello più alto, completo e perfetto), né si limita a parlarci delle strutture ideali della nostra mente. Egli invece, allo stesso modo di Plotino, ci parla di vere e proprie «persone» metafisiche. Il che significa poi che egli prende alla lettera il concetto di Forma come Causa dell’Essere; invece di illustrarlo solo metaforicamente entro una sostanziale teoria della conoscenza.
In ogni caso – specifica molto scrupolosamente Yount −, nel confrontare Platone con Plotino si pone effettivamente il problema del se il primo davvero concepisca il Bene come il creatore degli esistenti (specie nella funzione di Dio), cosa che il secondo davvero fa. L’Autore ammette che ciò è difficile da provare in base ai testi di Platone, ma suggerisce anche che possa venire postulato almeno in base ad un’”inferenza”. Quello che è certo è che Platone considera il Bene come un’entità trascendente il Dio inteso come Idea (“Idea di Dio”), ossia il Nous colto nella funzione di protagonista di effettivo creatore in quanto Intelligenza creativa (che poi al livello ontologico animico corrisponde al Demiurgo quale Anima Mundi). Nella continuità tra queste due entità (l’una totalmente al di sopra dell’Essere e l’altra invece più immanente) si può dunque comunque postulare che il Bene sia per Platone davvero il creatore degli esistenti. Più precisamente il Bene appare essere in lui il creatore delle cose (esistenti) in quanto in primo luogo (quale Forma delle Forme) esso crea le forme delle cose, ossia genera il mondo intelligibile.
Naturalmente tutto ciò comporta un certo grado di continuo superamento del concetto di «essere» sia a proposito del Bene (Platone) sia a proposito dell’Uno (Plotino). E Yount menziona a tale proposito come modello il discorso apofatico (incentrato sulle negazioni) che Plotino svolge a proposito dell’Uno − nel negare che ad esso sia applicabile qualunque «è» (predicazione). In conclusione si può bene affermare che per Platone (Bene) così come per Plotino (Uno) l’Uno-Bene è tanto più «essere» (ossia ultima pienezza di essere) quanto più si trova al di sopra dell’essere.
Ovviamente, dopo tutti i chiarimenti offertici da Yount, appare davvero poco comprensibile come una sostanziosa parte della critica moderna possa sostenere che Platone non sarebbe in alcun modo prossimo al neoplatonismo in quanto per lui il livello supremo dell’Essere sarebbe quello del mondo intelligibile e non invece quello dei Principi. È pertanto proprio in relazione a tale difficoltà che può venire giudicata un’altra delle oggi più diffuse tesi interpretative dei critici, e cioè quella secondo la quale Platone ammeterebbe il contenimento del Principio (in questo caso il Bene) entro le cose immanenti ed inoltre anche nelle loro forme-idee (cosa che invece Plotino non farebbe). In questo modo si configurerebbe pertanto nel primo un dualismo e nel secondo invece un monismo – nel senso dell’ammissione o meno di due livelli di realtà, negata da Plotino nel sostenere che il Principio riassume in sé tutto l’essere non lasciando fuori altro che non-essere, ossia l’immanenza corporeo-materiale. Naturalmente tutta questa distinzione viene a decadere se (come fa Yount) si postula che per Platone il Bene equivale per davvero al Principio stesso posto radicalmente al di sopra dell’essere quale Forma delle Forme e Causa delle Forme così come di ogni altra cosa. È evidente che in tal modo si delinea un monismo trascendentista e di vertice, in forza del quale (anche per Platone) il Principio rappresenta la Totalità di Realtà stessa.

L’appena discussa tesi interpretativa riduzionistica fa poi sentire il suo effetto entro il dibattito che oggi si svolge circa ulteriori aspetti dell’Uno e del Bene in Platone ed in Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 2-4 p. 18-25].
Si tratta di una serie di questioni sollevate intorno alla rilettura plotiniana del mito platonico della Caverna.
Uno dei punti più rilevanti è a tale proposito quella del se Platone consideri le ombre della caverna come appena ombre delle Idee (cioè appena le cose ideali) o invece come vere e proprie cose immanenti ed effettivamente esistenti (come fa Plotino). E ciò ripropone ovviamente la questione della possibile creazione di essere da parte del Bene. Ma Yount ci fa notare che, proprio in tale contesto, Plotino sostiene che il Bene stesso (così come anche l’Uno) è il creatore delle cose. Ecco che il Bene si trova in Plotino nella stessa posizione dell’Uno emanante il Nous, il quale poi a sua volta emana l’Anima Mundi, fino a pervenire infine alle cose esistenti. E peraltro il pensatore illustra qui il Bene allo stesso modo di Platone, ossia come un Sole emanante la Luce (l’Intelletto) che infine porta allo scoperto l’essere in quanto veridico (si tratta delle cose tanto più vere in quanto «buone», ossia emanazione del Bene e come tali intelligibili). Ancora una volta dunque il Bene e l’Uno appaiono una sola cosa per entrambi i pensatori. Ed ancora una volta appare evidente che Platone non si limita affatto (nemmeno in questo caso) a voler esporre una dottrina unicamente gnoseologica. Egli parla invece esattamente della creazione dell’essere. Sebbene sia chiaro che quest’ultima si presenti strettamente intrecciata alla dottrina gnoseologica incentrata in ciò che potremmo definire come la «verità dell’essere»; laddove appare poi di importanza critica la dimensione etica di quella conoscenza previa (reminiscenza) entro la quale l’anima contempla un’autentica ontologia trascendente e sovrannaturale, ossia il Bene come entità metafisica. Dunque questo discorso unifica inscindibilmente in Platone la dimensione gnoseologica con quella etica ed anche ontologica. E ciò è vero soprattutto perché nel Bene c’è la radice delle forme stesse delle cose in tutti i loro più decisivi aspetti. E poiché il Bello è Ragione stessa delle cose, esso giustifica anche tutto ciò che nelle cose è proporzione ossia Bellezza. Yount conclude sottolineando l’equivalenza Bene-Bello in Platone, che però non si ritroverebbe con la stessa chiarezza e decisione in Plotino.
Nel complesso, quindi, la sola differenza di Platone rispetto a Plotino sta solo nel fatto che quest’ultimo pone ben più esplicitamente il concetto di “emanazione”.
È pertanto evidente (a proposito della valenza gnoseologico-epistemologica del Bene, ossia a proposito del Bene come fonte della Verità) che per Platone l’entità costituita dal Bene è insieme metafisica, etica ed epistemologica in maniera assolutamente inscindibile. Ma il motivo principale di tutto ciò sta nell’importanza decisiva che per il pensatore ateniese ha la ricaduta pratica (etico-individuale ed etico-sociale, ossia etico-politica) di tutto questo, ossia il tema dell’azione.
Ciò che conta è infatti la possibilità di quel «ben agire» che non è possibile in assenza della conoscenza piena di qualcosa che è appunto il Bene. Ecco allora che, con la fusione inevitabile ed inestricabile delle tre dimensioni, il Bene costituisce per Platone il luogo di una conoscenza (coglimento della verità) che è inevitabilmente etica, nel mentre è comunque da mettere continuamente alla prova nell’azione.
Sta di fatto però che (com’era prevedibile) questo discorso viene scisso e ridotto dai critici nel porre in primo piano soprattutto la dimensione epistemologico-gnoseologica. Per essi infatti in Platone verrebbe postulato solo che l’”Idea del Bene” è il punto di riferimento di un agire che comunque è e resta in primo luogo conoscitivo (rendendo così secondaria la dimensione etica e quella metafisica). La sua sarebbe insomma appena una metaforica «etica della conoscenza», entro la quale la dimensione metafisica assumerebbe appunto la natura di una mera metafora poetica. Anche su questa base viene pertanto di nuovo postulato che Platone non avrebbe mai potuto parlare di un’effettiva ascesa conoscitiva al Bene trascendente (così come fa Plotino), dato che in tal modo l’oggetto di conoscenza starebbe del tutto al di fuori della portata umano-immanente.
Bisogna però intanto riconoscere che (almeno tendenzialmente) sussiste qui per davvero un’almeno tendenziale aporia. Ebbene è realmente possibile superarla sul piano rigorosamente filosofico? Sembra proprio di no. Perché (come abbiamo già visto altre volte) bisogna a tale proposito di nuovo invocare necessariamente la dimensione contemplativ a ed iper-razionale del pensiero di Platone. Infatti, se si vuole sostenere (come fa Yount) che il pensatore concepisce una conoscenza effettiva di ciò che è in sé irraggiungibile ed ineffabile (il Bene come Verità), allora bisogna anche riconoscere che Platone ammette letteralmente la possibilità di ciò che è in sé impossibile in termini umano-terreni.
E vedremo più avanti che per questo è fondamentale l’intermediazione dell’esperienza del Bello. In ogni caso sta di fatto che, rispetto a tutto ciò, Yount dichiara che il riduzionismo della moderna critica è da considerare come una vera e propria “distorsione” del pensiero di Platone.
L’Autore ritiene infine che lo stesso Plotino si allinei su queste posizioni; nel sostenere soprattutto il ruolo di intermediario svolto dall’Intelletto (Nous) nell’ascesa conoscitiva al Bene. Più in particolare si tratta qui della relazione tra due entità metafisiche sovraumane ed universali ma intanto anche ontologico-personali (il Nous e il Bene). E si tratta intanto però inoltre della conoscenza del Bene da parte dell’uomo per mezzo della sua partecipazione attiva del Nous.
Interviene qui nuovamente il problema della possibile differenza tra Platone e Plotino nel livello ontologico concesso all’Intelletto – laddove secondo i critici il primo collocherebbe l’Intelletto a livello trascendente assoluto (in quanto Bene), mentre il secondo invece non potrebbe in alcun modo concepire la presenza a livello trascendente di Bene e Intelletto (nel loro reciproco rapporto). Sulla base di questa possibile aporia i critici (qui Ciapolo) ipotizzano che Plotino in effetti non concepisca affatto (come Platone) un’ascesa conoscitiva dell’uomo al Bene (così come invece egli concepisce un’ascesa mistica all’Uno). Egli invece considererebbe la conoscenza umana su un piano meramente immanente privo di qualunque relazione con il trascendente, e quindi (nel suo discorso sulla conoscenza) si limiterebbe ad allinearsi ad Aristotele (e non a Platone) nel concepire l’uomo appena come animale razionale.
Insomma questa presa di posizione critica giunge fino al paradosso di supporre in Plotino una visione unicamente umano-immanente dello stesso Nous. Il che appare francamente assurdo per un pensatore così esplicitamente mistico-contemplativo.
In ogni caso (in relazione alla serie di questioni critiche appena discusse) va sottolineato che il riduzionismo critico nega sia a Platone che a Plotino un’effettiva dottrina dell’ascesa conoscitiva fino al livello più trascendente di essere, cioè al Bene.

3- L’analisi platonica dell’Uno nel Parmenide.
Come abbiamo già anticipato Yount sostiene la tesi secondo la quale l’Uno è equivalente al Bene poggia primariamente sul fatto che nel Parmenide Platone illustra le caratteristiche di un Uno che, in quanto Bene, equivale totalmente all’Uno di Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 5 p. 26-48].
Più in particolare si tratta però nuovamente della dottrina del Bene come Forma, e precisamente quale trascendente Forma delle Forme. Essa è infatti una forma trascendente collocata oltre l’essere (alla radice di ogni cosa) e quindi è radicalmente superiore alle forme comuni per definizione immerse nell’essere. In quanto immateriale (e quindi diversa da qualunque cosa immersa nell’essere, dalle cose fisiche alle oggettualità ideali stesse), questa Forma è pertanto eterna e immutabile. Essa è cioè del tutto svincolata dal tempo.
Ebbene tali caratteristiche sono per l’Autore anche le caratteristiche dell’Uno di Plotino. Proprio a tale proposito si può e si deve quindi parlare di quell’Uno-Bene che viene postulato da entrambi i pensatori. Tuttavia, poiché Platone qui parla esplicitamente dell’Uno, nel discorso che segue definiremo per convenzione questa entità come Uno (-Bene).
Vi sono comunque alcuni aspetti specifici dell’Uno (-Bene) platonico-plotiniano che vale la pena di esaminare più in dettaglio.
A) rispetto al criterio dell’infinità (corrispondente al concetto di “apeiron”) esso è in primo luogo di un “illimitato” in quanto non costituisce assolutamente un determinato o definito, ossia una cosalità (un «cos’è?» definito da un’essenza) – in tal modo esso non è delimitato da alcun’altra cosa. L’ Uno (-Bene) è quindi null’altro che l’”informale” in quanto per definizione «non formato» bensì invece uicamente «formante». Per tali motivi: − a) esso non può conoscere alcuna definizione predicativa (o attributo), e quindi è per definizione ineffabile ed inconoscibile; b) esso è produttore infinito in quanto alcun essere statico (determinato) può limitarlo e quindi esaurirne la produttività. Esso si conferma essere quindi un creatore sia in Plotino che in Platone. In ogni caso Yount sottolinea la sovra-essenzialità trascendente di questa entità, dato che essa non corrisponde affatto all’apeiron quale Materia Prima.
B) il principio di identità (in relazione al criterio della possibile differenza tra enti) vale in maniera raddoppiata per questo Uno (-Bene); in quanto esso non può essere diverso da nulla che sia «altro», e quindi proprio per questo è talmente identico a sé stesso da annullare anche il sé stesso quale «altro». E questo sussistere in maniera totalmente incondizionata a qualunque genere di alterità lo rende il sommo indipendente per eccellenza. Il che pone pertanto un’assoluta e radicale condizione ontologica, la quale non può che costituire l’antecedenza assoluta di essere per eccellenza. In forza di questo l’Uno (-Bene) è la fonte di tutte le cose pur non avendo assolutamente nulla a che fare con l’Essere. Il che però, dice Yount, genera un inevitabile paradosso che non è assolutamente solvibile filosoficamente, e del quale Platone era ben consapevole proprio per il fatto che credeva nella radicale trascendenza dell’Uno. Eccoci dunque di nuovo di fronte all’evidenza in Platone di un discorso contro-razionale o iper-razionale. Su questa base bisogna pertanto affermare che (sia in Platone che in Plotino) a questo radicale assoluto, trascendente ogni cosa, non si addice alcun attributo (ineffabile).
C) il precedente discorso vale anche in relazione al criterio della similitudine-dissimilitudine tra gli enti. Infatti l’Uno di Platone è “self-identical” (totalmente identico a sé stesso) in quanto non è né dissimile né simile a sé stesso (cioè di nuovo non si configura qui alcun «altro»). Tuttavia Yount chiarisce che ciò sta in connessione in particolare con la valenza di unità che (almeno in via di principio) la cosa immanente stessa potrebbe avere sul modello dell’Uno. Cosa che però non accade, dato che le cose immanenti sono molteplici per definizione. Ed alcuna molteplicità di entità (per quanto esse siano in sé unitarie) può configurare davvero l’unità. Quest’ultima costituisce pertanto sempre un Uno-Tutto, ovvero una Totalità di Essere sublimemente concentrata.
D) dai due principi antecedenti discende poi che l’Uno (-Bene) non può essere altro che Uno e solo l’Uno, in quanto esso non è in alcun modo molteplice. E Yount precisa che (laddove Plotino parla qui dell’Uno) in tal modo Platone indica il Bene come Origine assoluta di tutte le cose.
E) rispetto a criterio dell’eguaglianza-disuguaglianza, l’Uno (-Bene) si delinea come la suprema delle Forme dato che nulla può assomigliare ad esso totalmente in quanto ente fatalmente formato. Ciò significa però soprattutto − una volta esaminato non il versante di essere del «formato», ma invece quello opposto del «formante», ossia il versante di essere che eventualmente precede l’Uno come Forma) − che non può esservi alcuna forma dell’Uno (-Bene) stesso. Per questo esso è Forma delle Forme. Il che lo pone di nuovo radicalmente aldilà dell’essere.
F) a causa di tutto ciò l’Uno (-Bene) non partecipa dell’essere immanente in alcun modo. In particolare − in quanto esso non può essere altro che ciò che è, ossia l’Uno (-Bene) stesso – tale entità non è in alcun modo «essere» in modo predicativo, e cioè un «è» (e proprio per questo è ineffabile e non equivale alle generiche forme immerse nell’essere).
Ed in particolare ciò avviene perché il suo stare “oltre l’essere” (proprio come avviene per il Bene di Platone) consiste nel fatto che esso costituisce un’entità onto-etica, ossia è superiore all’essere in quanto a “dignità” e “valore”, ovvero in termini sostanzialmente qualitativi.
G) ecco che l’Uno (-Bene) è inevitabilmente ineffabile e pertanto non può essere oggetto né di conoscenza né di discorso. Ma proprio qui emerge la principale aporia del discorso di Yount circa la perfetta equivalenza tra Uno plotiniano e il Bene platonico. Infatti, egli dice, in molti luoghi (tra i quali la Repubblica, VI 507b, X 596a-b) Platone parla esplicitamente della conoscenza del Bene. Tuttavia ad un’analisi più approfondita (che lascia emergere nuovamente i paradossi inevitabili di un discorso contro-razionale e iper-razionale) appare evidente che Platone intende con ciò un sommo esistente che però sta del tutto oltre i sensi (invisibile), ossia è qualcosa che esiste nella massima pienezza proprio in quanto si trova del tutto “oltre l’essere”. In particolare si tratta del fatto che esso è sottratto totalmente al divenire. Ma proprio in quanto esistente intanto esso può e deve venire conosciuto, sebbene in maniera totalmente diversa dagli altri oggetti di conoscenza (tutti immersi più o meno nel divenire). Quella qui in causa è pertanto la conoscenza intuitivo-visiva che avviene per mezzo dell’Intelletto. Quest’ultimo è infatti l’unico che sia davvero in grado di cogliere l’Invisibile in un’esperienza che (per definizione) avviene sempre come se in verità non fosse mai realmente avvenuta (ossia del tutto al di fuori delle condizioni sensibili, tra le quali in particolare la temporalità). Il che ci lascia allora intravvedere un atto fulmineo per mezzo del quale si coglie qualcosa con indubitabile certezza ma intanto senza in alcun modo poterne parlare. È esattamente quanto avviene nel mondo iperuranio nel contesto della rotazione delle anime intorno alle supreme Forme-Idee dell’Essere.
Quello che è certo è comunque che tutto ciò viene senz’altro espresso in maniera ben più esplicita da Plotino nel tentare di descrivere l’Uno e l’esperienza di conoscenza che lo caratterizza. Tuttavia è in questi complessivi termini che in particolare si pone anche la conoscenza del Bene in Platone. A tale proposito Yount parla di esso come quell’“Idea del Bene” che è anche “Forma del Bene” (per Plotino); e pertanto non è “tecnicamente conoscibile” per il semplice fatto che è stata vista di sfuggita (come l’ultima entità contemplata nel corso della contemplazione rotatoria dell’Uno) entro l’esperienza (visivo-intellettuale) che fonda la conoscenza come scienza previa, ossia la reminiscenza.
Ma, come abbiamo già visto, il problema sollevato dai critici sta a tale proposito nel fatto che Plotino avrebbe considerato il Bene perfettamente conoscibile (a differenza dell’Uno), mentre invece Platone lo avrebbe di fatto considerato inconoscibile. Per l’Autore però tale differenza sparisce allorquando si considera che per Plotino (come abbiamo visto poc’anzi) l’Uno altro non è se non la “Forma del Bene” e quindi ad esso equivale quasi perfettamente.
Ed eccoci con ciò in maniera chiara davanti a quell’Uno (-Bene), il quale costituisce evidentemente un’entità metafisica quasi del tutto priva di fratture interne.

4- Il Bene e il Bello per Platone e Plotino.
Tutto quanto abbiamo visto finora influenza direttamente la dottrina del Bello (o Bellezza) sia di Platone che di Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 2 p. 49-68]. Insomma, proprio in quanto entrambi i pensatori considerano l’Uno-Bene come inconoscibile ma anche (nello stesso tempo) conoscibile per mezzo di un’esperienza visiva, allora il Bello deve essere indispensabile intermediario in questo processo conoscitivo. In qualche modo, cioè, esso costituisce (sebbene ad un livello ancora radicalmente trascendente) l’apparenza primaria del Bene.
Ne discende quindi che esso costituisce una Forma suprema (nel senso che è un’entità formante un oggetto conoscibile) ma lo è occupando un livello comunque inferiore rispetto a quello dell’Uno-Bene. Ma oltre a ciò – a livello immanente − esso è forma delle cose belle per mezzo delle quali ascensivamente ci si approssima alla conoscenza del Bene. In ogni caso comunque il Bello assume la valenza inevitabilmente etica, dato che la sua conoscenza approssima inevitabilmente al Bene. Pertanto si può anche dire che (per converso) in assenza del Bene (come intermediario) noi non conosciamo il Bello (oppure lo conosciamo solo nella sua forma distorta, cioè appena nelle sue forme sensibili).
Precisato tutto questo, l’analisi del Bello ci permette dunque di capire molto meglio come avviene quella paradossale conoscenza dell’Uno-Bene della quale abbiamo finora parlato. Si tratta infatti di una conoscenza ultra-sensibile che però implica per l’uomo la necessità di servirsi di mezzi sensibili. E la Bellezza è esattamente questo in quanto è di per sé (come Idea) molto prossima al Bene. Come illustrato da Yount, insomma, l’Idea del Bene è sempre inevitabilmente anche bella. Quindi si può e si deve affermare che Bene e Bello sono quasi equivalenti, anche se non del tutto. Più precisamente il Bello è prossimo al Bene per mezzo della proporzione ed armonia che esso proietta sulle cose conosciute (che però, come dice l’Autore, non è affatto l’elementare “simmetria”).
Tuttavia ciò non potrebbe avvenire senza una trascendenza, in assenza della quale il Bello ricadrebbe tra le forme immanenti e sensibili di bellezza Su questa complessiva base si può dire allora che la Forma-Idea (“eidos”) corrispondente al Bello è una “forma” che è “senza forma” (shapeless), e quindi manca paradossalmente proprio di quella dimensione che è più indispensabile per cogliere ciò che è bello, ossia l’involucro esteriore.
Ebbene ciò ci riporta inevitabilmente di nuovo alla problematica del Bene come possibile entità creante. Infatti, attraverso la partecipazione di tutto questo «sensibile», noi possiamo comprendere meglio la valenza onto-generativa o creativa del Bene in quanto Forma. Esso infatti fa in modo che venga alla luce la verità dell’essere proprio per mezzo del Bello, ossia ciò che più lascia apparire come «in forma» quanto è destinato a venire conosciuto. E che pertanto si presenta a noi come «vero» proprio perché splende in tutta la sua evidenza, pienezza e completezza alla luce del sole. Ma in questo modo si rende in fondo a noi visibile il Bene stesso, ossia quel radicale Trascendente per la cui conoscenza il Bello funge da indispensabile intermediario. Ecco allora che continuamente l’esperienza immanente della conoscenza della verità dell’essere (in quanto immancabilmente bella) ci rinvia ad una sorta di discesa del Bene verso il mondo, che poi a sua volta si rivela essere null’altro che l’esperienza ascensivo-conoscitiva più incommensurabile che si possa concepire. E proprio in tal contesto, allora, il Bene si manifesta a noi come quel Sole il quale rende tutto visibile per mezzo della sua Luce. Si tratta insomma di null’altro che di quanto è solo vagamente intuibile a coloro che sono immersi nell’oscurità della Caverna.
Nell’analizzare però a fondo l’equivalenza tra Platone e Plotino, Yount sottolinea ancora una volta che non deve sfuggirci nemmeno la sostanziale diversità esistente tra Bene e Bello. Proprio in quanto compromesso inevitabilmente con il sensibile, il Bello è infatti una Forma ben inferiore rispetto al Bene. Ed a tale proposito emerge un’ulteriore maniera per intendere ciò che abbiamo detto poc’anzi, ossia la dimensione intellettuale dell’atto visivo. Infatti esattamente perché Plotino la pensa come Platone, egli considera l’Intelletto equivalente al Bello in quanto entrambi sono compromessi con l’essere e con il sensibile. Ciò che abbiamo descritto prima è insomma null’altro che l’atto dell’intelletto per mezzo del quale viene colto ciò che si presenta come «in forma». Quindi nulla viene conosciuto veramente se non è formato (illuminato) dalla bellezza in quanto bene; e come tale costituisce un essere per definizione sempre visibile in quanto in forma. Pertanto il Bello è forma universale ed eterna dell’Essere.
Ebbene su tutto questo si basa quell’atto che per Yount è di importanza centrale entro l’equivalenza dottrinaria tra Platone e Plotino, e cioè l’esperienza trasfiguratrice dell’Uno-Bene. La quale pertanto non può che avvenire se non per mezzo del Bello. E qui l’Autore chiarisce un aspetto fondamentale dell’intera questione: − il Bello costituisce senz’altro un’entità in qualche modo immanente (in quanto compromessa con l’essere e con il sensibile), ma intanto è e resta nello stesso tempo un’entità radicalmente trascendente (cioè il Bello che soprastà e soprassiede a tutto «ciò-che-è-bello», ossia le «cose belle» in forza della partecipazione del Bello). Quindi si tratta comunque di un “in sé” che non equivale né all’essere né alla stessa (unilaterale e pura) conoscenza, ossia non è ancora una pura Idea. Proprio non essendo tale, il Bello risulta inestricabilmente connesso al sensibile, e pertanto può venire colto solo per mezzo di un’esperienza visiva e non invece per mezzo di un’esperienza puramente conoscitiva. Ciò non significa però affatto che si tratti di un’esperienza fisica, dato che essa ha comunque un’inevitabile valenza ascensiva in quanto è destinata a recare dalla molteplicità sensibile all’unità ultrasensibile.

5- L’Intelletto o Nous per Platone e Plotino.
Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 3, 1-3 p. 68-90] chiarisce che anche l’Intelletto, in quanto corrispondente alla “mente divina” (nella sua totalità ed in tutti i suoi aspetti), può venire considerato nella sua dimensione oggettivo-oggettuale e soggettivo-personale. E ciò avviene non solo in Plotino (presso il quale la cosa, come abbiamo visto, non sorprende affatto i critici) ma invece anche in Platone.
La prima dimensione corrisponde ai contenuti della mente divina, ossia agli oggetti di conoscenza da parte dell’Intelletto, e cioè le Forme-Idee che nel loro complesso configrano il «mondo» (o «essere»), “realm”, che Dio e la mente divina costituiscono (il “mondo delle Forme”). Questo è null’altro che il mondo intelligibile, ovvero il mondo delle Idee così come viene concepito da Platone. Ma a ciò aggiungiamo che esso costituisce inoltre anche il mondo delle Forme-Idee presenti nella mente divina creativa così come venne concepito poi dalla metafisica cristiana, cioè il mondo delle Idee creative delle quale si serve Dio in funzione di Intelletto ed Architetto dell’universo. Ebbene tutto ciò corrisponde a ciò di cui il Nous “ha conoscenza”.
La seconda dimensione corrisponde poi al Nous stesso in quanto entità personale soggettuale (con tutti i suoi tipici attributi).
È evidente che, nella sua prima dimensione, l’Intelletto corrisponde al primario e più alto strato dell’Essere, ossia a quell’essere ideale che è così incorporeo e sottile (pienezza di essere corrispondente al complesso degli “in sé” di tutte le cose) da poter venir colto solo da una facoltà conoscitiva estremamente acuta e penetrante esattamente in quanto essa stessa è sommamente incorporea e sottile, ossia appunto l’Intelletto stesso. Esattamente questo è il mondo di Forme-Idee che viene contemplato dal corteo delle anime divine (guidato da Zeus) nel mondo iperuranio. È dunque il mondo intelligibile che assomma in sé l’intero essere possibile e precisamente nella sua pienezza, ossia come essere sommamente “vero” (quindi per questo anche inalienabilmente esistente, ovvero equivalente in maniera perfetta al “what it is?”, o «cos’è?» della cosa). Esso è insomma il mondo delle somme entità intelligibili (Giustizia, Temperanza etc.) alle quali sono sotto-ordinate tutte le cose, a loro volta raggruppabili in generi. Tutto questo però rientra nell’unità connotata eticamente, e cioè nell’Uno-Bene.
Quindi ciò che onticamente costituisce l’«Intelletto» sta in relazione con tale somma Unità, e pertanto ne “ha conoscenza” così come del resto (costituendo esso la conoscenza stessa) ha conoscenza di sé stesso, ossia dei contenuti onto-ideali tutti poi rifluenti nella somma Unità. Pertanto, nell’avere conoscenza di sé stesso (dei propri stessi contenuti), l’Intelletto ha conoscenza di tutti gli “esseri reali” (real beeings) che rientrano nella somma Unità dell’Essere – ed a quel livello tali esseri altro non sono se non le Forme delle cose immanenti. Essi appartengono tutti all’Uno in quanto Bene, e quindi vengono conosciuti per mezzo della dimensione visiva che abbiamo illustrato sopra.
Da ciò Yount trae la conclusione secondo la quale (in forza tutto di quanto abbiamo detto della visione intellettuale del Bene) l’Intelletto è di fatto l’immagine del Bene. In altre parole l’Intelletto da un lato equivale (in qualche modo) al Bello stesso (in quanto intermedio sensibile della conoscenza del Bene), e dall’altro lato costituisce una sorta di contemporanea seconda presenza metafisica (oltre il Bello) che funge da protagonista soggettuale dell’atto di visione. Esso incarna insomma quel colui che, una volta uscito dalla Caverna − non più abbagliato dalla Luce (della Verità intelligibile), e quindi è ormai perfettamente in grado di guardare oltre le ombre-apparenze (generate dalla Luce nell’oscurità) −, è capace di giungere alla visione delle “cose in sé stesse”.
È pertanto in questo senso, dice Yount, che Platone intende il “viaggio” ascensivo dell’anima verso il mondo intelligibile. Ed in relazione a tutto questo egli suggerisce che (anche presso Platone, oltre che presso Plotino) il Bene “genera” l’Intelletto (la dimensione intelligibile), in modo tale che avviene un vero e proprio “ritorno” dell’Intelletto stesso “al Bene”.
Ebbene il riconoscere questa relazione ontologica tra Bene ed Intelletto implica per l’Autore che anche per Platone (così come per Plotino) l’Intelletto è il Nous, ossia è un’effettiva entità onto-metafisica (per così dire personale anche se sovrumana e iper-soggettuale), nel mentre esso è intanto l’Essere stesso in quanto “mondo” (realm) “delle forme”.
Proprio in questo senso (in quanto persona agente) si può dunque dire che esso “ha conoscenza”.
Ne consegue pertanto che (come abbiamo già visto) per Platone l’Intelletto non è affatto un astratto concetto metaforico che stia appena in relazione alla teoria della conoscenza nel suo rigore fattuale ed immanentistico, ovvero non è affatto una mera struttura mentale di tipo funzionale.
Ecco allora che (ancora una volta) il riconoscimento della perfetta equivalenza tra Platone e Plotino esige che si attribuisca ad entrambi un trascendentismo onto-metafisico. Ma è esattamente questo che i moderni critici contestano cercando di fare emergere l’aporia che scardinerebbe quest’intera interpretazione qui illustrata, ossia la possibilità effettiva dell’ascesa filosofica una volta posto questo trascendentismo. Proprio in forza di questo viene postulato che Platone avrebbe appena concepito un’immanenza delle Forme conoscitive alla mente umana, ed affatto invece una loro trascendenza metafisica – dottrina in assenza della quale (secondo i critici) Platone non avrebbe mai potuto concepire la possibilità effettiva dell’ascesa filosofica. Ebbene Yount considera tutto questo null’altro che una profonda “misinterpretazione” del pensiero di Platone. Ed inoltre precisa che proprio l’assimilabilità di esso al pensiero di Plotino (Intelletto come Nous, ossia persona onto-metafisica) permette di concepire in maniera ineccepibilmente metafisica quell’immanenza delle Forme conoscitive all’Intelletto che effettivamente (egli ammette) nei testi platonici appare effettivamente poco chiara (le Forme si trovano fuori o dentro l’intelletto?).
Questa trascendenza non toglie però che sia Platone che Plotino ammettano il “cambiamento” entro la dimensione onto-metafisica dell’Intelletto, e quindi ammettano la sua vitalità in senso animico. È pertanto esattamente in questo senso che secondo Yount va intesa la relazione onto-generativa e creativa intrattenuta dall’Intelletto con l’essere e con il mondo. In Platone si tratta della rotazione delle anime divine intorno all’Intelletto (a sua volta in connessione conoscitiva con l’Uno-Bene), mentre in Plotino si tratta della relazione esistente tra l’Intelletto (Nous) e l’Anima Mundi (nel mentre dall’altro polo l’Intelletto contempla l’Uno). In entrambi i casi viene così giustificata la relazione tra il paradigmatico mondo ideale ed il mondo cosa, e cioè la creazione.
Ed è su questa base che sia in Platone che in Plotino si possono ritrovare le dottrine di Dio e del Demiurgo che vengono analizzate criticamente da Yount nel confutare le moderne tesi critiche riduzionistiche. Non commenteremo comunque queste parti del libro, così non commenteremo la parte del libro in cui l’Autore descrive la profonda comunanza del concetto di Anima Mundi tra Platone e Plotino (chiamando in causa soprattutto il Timeo).

Conclusioni.
A noi sembra che l’opera critica di David Yount offra elementi di grande rilevanza entro uno scenario che (come abbiamo visto) è oggi totalmente dominato da un’interpretazione critica radicalmente riduzionistica di Platone. E va pertanto segnalato che nelle conclusioni al suo libro l’Autore elenca sinteticamente i punti dominanti di questo genere di interpretazione confutandoli uno per uno [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., p. 123-131]. Egli per la verità si riferisce qui al solo Plotino, sforzandosi di sottrarne il pensiero ai pregiudizi e luoghi comuni dei critici che non solo negano la sua perfetta equivalenza a Platone, ma anche ne mortificano l’immenso valore. In particolare l’Autore afferma che il pensiero di Plotino non è affatto riducibile a quello di Aristotele e degli Stoici, che esso è totalmente platonico ma intanto non è assolutamente una ripetizione di Platone (cosa che renderebbe Plotino non solo un pensatore non originale ma anche quasi addirittura un non-pensatore), che esso non sostiene alcun monismo in conflitto con il supposto dualismo di Platone (che per l’Autore è in verità del tutto inesistente o almeno totalmente malinteso), che egli parla di un’unione mistica all’Uno che trova perfetta rispondenza in Platone. Non ci soffermeremo sulla giustificazione di queste tesi, ma intanto va detto che esse, nel rivendicare a Plotino il posto che effettivamente a lui spetta nella storia della filosofia e soprattutto nel platonismo, ci mostrano chiaramente (in trasparenza) quale deve essere stato il vero pensiero di Platone. Personalmente abbiamo tentato anche noi di ricostruire l’effettiva natura di questo pensiero per mezzo delle nostre letture dei testi del pensatore ateniese e per mezzo del ricorso ad alcune opere critiche non in linea con le interpretazioni oggi dominanti [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. E tuttavia in questo nostro sforzo di rilettura ci riferimmo in particolare alle tesi della Scuola di Tübingen − rappresentata in Italia specialmente dal Prof. Giovanni Reale [Giovanni Reale (a cura di), Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008]. Yount però ci mostra che anche questa tesi rischia di costituire una misinterpretazione di Platone; sebbene in eccesso e non invece in difetto, ossia in senso diametralmente opposto a quello riduzionistico. Nel contesto di essa si sostiene infatti che la dottrina esposta da Platone nei dialoghi non sarebbe che una minima parte del suo insegnamento (in gran parte esoterico), e senz’altro quindi la meno rilevante. Yount invece crede di poter ritrovare una suprema dottrina dei Principi (travalicante effettivamente la dottrina delle Idee, come sostenuto dal Prof. Reale) anche dei dialoghi, e quindi nel pieno di un discorso che da un lato è ineccepibilmente filosofico (in quanto a rigore, specie di tipo dialettico) e dall’altro lato non manca nemmeno di essere sublime, contemplativo e contro- o iper-razionale.
Ebbene in tal modo noi veniamo messi di fronte ad un altro rischio che esiste nell’interpretazione di Platone, e cioè quello che vorrebbe fare del suo pensiero qualcosa di riconducibile incondizionatamente alla categoria (spesso molto abusata, tendenziale ed estremistica, e quindi non meno retorico-ideologica di quella riduzionistico-immanentista) del cosiddetto «esoterico». Se ne può avere un’idea consultando alcune opere che abbiamo citato anche nel nostro saggio [Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008; Carmelo Muscato, La questione delle dottrine non scritte e l’esoterismo di Platone, Asram Vidya, Roma 1996]. Peraltro in questo stesso saggio non abbiamo esitato a deplorare questa tendenza sottolineando come sia esagerato tentare di fare di Platone soltanto un “divino” pensatore o anche “maestro di misteri” (come viene definito appunto in queste opere). Semmai, come posto in luce da Friedländer [Paul Friedländer, Platone… op. cit., I, I p. 33-35, I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104], Platone fu un filosofo a tutti gli effetti proprio perché il suo essere tale giunse ad essere paradigmatico per l’intera filosofia in quanto egli ebbe accesso alla disciplina per mezzo di profondissime intuizioni visionarie che non sono affatto comuni tra i pensatori di tutti i tempi (specie quelli moderni) e che quindi sono restate uniche e mai più ripetute. E ciò peraltro sottolinea fortemente la centralità di quell’esperienza trasfiguratrice dell’Uno-Bene che lo stesso Yount pone in primo piano.
Pertanto, così come è un far ingiustamente torto a Platone il volerlo ridurre ad una sorte di campione del rigore filosofico razionalistico e laico (peraltro unilateralmente moderno), è senz’altro un far torto ingiustamente al suo pensiero anche il pretendere di riassorbirlo in una letteratura esoterista che è troppo eterogenea, vasta, confusa e spesso anche falsificante per poter rappresentare l’insuperabile genio filosofico del nostro pensatore.
È dunque in questo senso complessivo che, a nostro modesto parere, l’opera di Yount è di importanza davvero capitale nel contesto della moderna critica interpretativa al pensiero di Platone.

ABSTRACT.
A noi sembra che possa essere molto fruttuoso il confronto tra il Logos presentatoci da Filone Alessandrino e quello presentatoci da Edith Stein. E per questo ci siamo dedicati a quest’indagine, che è comunque basata soprattutto su una nostra antecedente analisi dei testi del pensatore ebraico [Vincenzo Nuzzo, “Filone Alessandrino. Un paradigma di filosofia religiosa” < https://cieloeterra.wordpress.com/2019/06/04/filone-alessandrino-un-paradigma-di-filosofia-religiosa/ >], a sua volta basata poi sulla traduzione italiana dei principali testi del pensatore [Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011].
Naturalmente si tratta di due forme di Logos che sono molto diverse tra di esse dal punto di vista teologico-metafisico, dato che la pensatrice ebreo-tedesca ci parla sostanzialmente del Logos cristico. Inoltre sono molto diversi anche i due diversi approcci al Logos preso in sé, sebbene entrambi i discorsi ambiscano ad essere filosofici. Infatti il discorso di Filone si incentra unicamente sulle Sacre Scritture ebraiche (Vecchio Testamento). Ed esso si avvale per di più di un impianto filosofico (quello platonico) unicamente come strumento; non invece con l’intenzione espressa di condurre un’argomentazione filosofica fine a sé stessa. Il primario scopo del pensatore è pertanto unicamente teologico-esegetico. Invece il discorso della Stein si rifà primariamente alla filosofia fenomenologico-husserliana, arricchita successivamente dall’onto-metafisica tomista e quella agostiniana, nel mentre si avvale anche degli apporti della riflessione cristiana sulle Scritture (ossia sul Nuovo Testamento). Il suo ricorso alle Scritture è quindi non solo diverso in relazione al testo ma anche per due fondamentali motivi: − 1) perché è solo indiretto, in quanto mediato dal pensiero cristiano; 2) perché ha lo scopo di arricchire il discorso filosofico, ma non certo invece di fondarlo e soprattutto di costituirne l’obbligato punto di partenza (come avviene invece in Filone). Il primario scopo della pensatrice è pertanto genuinamente filosofico. Mentre nella nostra riflessione prima citata abbiamo visto che il pensiero di Filone costituisce un paradigma filosofico-religioso in primo luogo perché esso prende le Scritture sia come punto di partenza sia come unico piano sul quale sviluppare l’argomentazione filosofica. La Stein non sembra invece affatto guidata da questo intento.
Di tutto questo ci ha poi dato conferma l’analisi testuale che abbiamo condotto in quest’indagine.
Dobbiamo però menzionare anche un altro elemento che ci ha molto colpito durante la lettura dei testi di Filone, e cioè l’ipotetica approssimabilità di alcuni tipici luoghi della metafisica religiosa steiniana ad alcuni luoghi dell’esegesi biblica condotta dal nostro pensatore. Si sarebbe insomma indotti ad avanzare addirittura l’ipotesi (però estremamente arrischiata) di una lettura dei testi filoniani da parte della pensatrice, e quindi di una sua intenzione (per quanto occultata) di riferirsi alla dottrina metafisico-religiosa propria della sua cultura di provenienza, e cioè quella ebraica. Abbiamo già lavorato su un’ipotesi del genere in un nostro precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95]. E nel corso della lettura di Filone si è presentata a noi la stessa identica suggestione. Per cui l’abbiamo poi saggiata analiticamente alla luce dei testi filoniani, ottenendo anche qui molto suggestivi elementi di conferma. Anche in tale contesto bisogna però precisare che non vi è la benché minima prova documentale di uno studio steiniano dei testi religiosi ebraici allo scopo di sostenere la sua riflessione metafisico-religiosa per mezzo di essi.
L’unica prova documentale di tale prossimità (ma molto indiretta) potrebbe risiedere nei momenti in cui il suo pensiero si avvicina di più alla riflessione di Paolo, che notoriamente fu impregnato di Sapienza ebraica prima di divenire il vertice della metafisica cristiana. E tali momenti paolini possono venire riscontrati solo in alcuni luoghi molto ristretti dell’opera steiniana [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9 p. 387-389].
Nel complesso ci sembra che la nostra investigazione abbia posto in evidenza quella differenza tra la dottrina steiniana e la dottrina filoniana del Logos, che sarebbe impossibile negare. Ed abbiamo anche spiegato per quanti e quali motivi ciò sia impossibile. Il motivo più ovvio è quello dottrinario in senso storico-filosofico, in quanto le due dottrine sono maturate in ambiti di idee totalmente diversi. Il secondo motivo sta poi nella differenza esistente tra le esigenze dei due pensatori nel formulare la dottrina del Logos – che in Filone sono primariamente teologiche (per quanto mediate dalla filosofia) mentre nella Stein sono primariamente filosofiche (per quanto mediate dalla teologia).
Attenendosi a questi così impositivi criteri differenzianti, si finisce però per rendere inspiegabili le straordinarie assonanze che sussistono tra i due pensieri tanto per la dottrina del Logos, quanto anche per rilevanti aspetti teoretico-conoscitivi (in particolare per quanto attiene la dottrina fenomenologica della «costituzione»). Tali assonanze risultano invece spiegabili facendo ricorso al criterio dell’Ebraismo religioso, quale ipotetico punto di riferimento della riflessione steiniana.
Come abbiamo visto questa tesi manca purtroppo totalmente di basi documentali. Ma non per questo cessa di essere estremamente suggestiva. Nel corso dell’indagine abbiamo tentato di presentare delle ipotesi che spieghino questa contraddizione. Ebbene, sintetizzando queste ipotesi, diremmo che molto probabilmente la Stein si sia nutrita (più o meno direttamente) della Sapienza religiosa ebraica nel corso della sua educazione e formazione in una famiglia giudaica ed in un ambiente giudaico. Ma il così decisivo evento della sua conversione al Cristianesimo deve aver costituito un momento di brusca rottura nel suo contatto con questa Sapienza. E qui le ipotesi circa le forme di tale rottura possono essere le più disparate – rifiuto, imbarazzo (per il timore di incoerenza), occultamento dovuto ai doveri di religiosa etc.
È però difficile dire se, successivamente a tale rottura (avvenuta magari solo sul piano formale e quindi esteriore) la Stein abbia continuato comunque a tener presente la Sapienza ebraica (facendo così indiretto riferimento ad essa sullo sfondo delle sue riflessioni intanto incentrate sulla sola metafisica e teologia cristiana), o invece magari abbia addirittura continuato a studiarla segretamente.
È evidente che a tutte queste domande si potrebbe definitivamente rispondere solo avendo la certezza che non siano mai stati trovati documenti che provino quanto noi sosteniamo. A noi personalmente risulta davvero difficile credere che ciò sia vero. Ma naturalmente non possiamo avere alcuna certezza in questo senso.

NB. L’autore sarà lieto di mettere a disposizione, a chi ne faccia richiesta scritta, la copia cartacea dell’articolo consistente in circa 13 cartelle Word

ABSTRACT.
In questo scritto abbiamo esaminato unicamente il volume che raccoglie tuti gli scritti più rilevanti di Filone nella loro traduzione italiana [Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011] ed inoltre accoglie anche il saggio introduttivo del Prof. Reale e del Prof. Radice [Giovanni Reale, Roberto Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica]. Ci ripromettiamo comunque nel futuro di allargare ulteriormente la nostra conoscenza della letteratura critica esistente su questo pensatore.
Comunque ci siamo sentiti spinti a questa riflessione sui testi soprattutto dall’impressione (ricavata dalla loro lettura) che la complessiva visione filoniana possa costituire uno dei paradigmi più rilevanti (entro il pensiero occidentale) per una filosofia religiosa davvero integrale.
E tale impressione si basa soprattutto sul fatto che il pensatore impiega la sua dottrina del Logos principalmente allo scopo di poter condurre un’argomentazione filosofica su quel Dio che egli intanto incentra unicamente nelle Sacre Scritture ebraiche, ossia sul Vecchio Testamento. Pertanto l’impianto certamente platonico del suo pensiero rappresenta per lui molto più uno strumento che non un fine. Ed in questo rientra senz’altro l’assimilazione (da parte sua) delle principali figure bibliche (storico-naturali e sovrannaturali) al paradigma ontologico dell’intelletto.
Sulla base di tali criteri abbiamo dunque condotto la nostra analisi testuale e la relativa riflessione, giungendo così alla conferma della nostra ipotesi di partenza. Filone appare essere infatti per davvero un paradigma per la più integrale filosofia religiosa. E ciò è vero per una serie di motivi: − 1) perché la sua riflessione prende le mosse unicamente dalla Scrittura, e poi si muove solo sul piano da essa configurato; 2) perché egli pone decisamente l’ontologia divino-spirituale al di sopra di quella intellettuale; 3) perché egli avvalora come suprema forma di conoscenza solo quella che ha una valenza etica ed etico-religiosa.
Proprio per questa serie di motivi è emersa chiaramente la nettissima linea divisoria che separa la metafisica intellettualistico-platonica filoniana da quella di ispirazione «onto-intelletualistica» (prossima al platonismo gnostico), secondo la quale l’Idea rappresenta l’unico vero essere (senz’altro in competizione con Dio) ed inoltre l’onticità spirituale rientra totalmente in quella intellettuale.
Oltre a ciò abbiamo anche potuto porre in evidenza il fatto che la dottrina filoniana del Logos ha impressionanti assonanze con quella del Logos cristico; e che quindi quest’ultimo si pone con le caratteristiche di un Dio Immanente, sebbene non certo con le caratteristiche di un Dio Incarnato.
Quanto poi al concetto di Dio presentatoci da Filone, è emerso chiaramente che egli tenne presente in primo luogo un Dio Trascendente ineffabile ed irraggiungibile che molto simile a quello presentatoci anche dalla Cabbala come En-Sof. E non è certo questo il Dio del quale egli intende parlarci sul piano filosofico. Nello stesso tempo però esso non è nemmeno il Dio-Essere che è andato progressivamente prevalendo nel pensiero cristiano. È invece un Dio che può venire colto e discusso solo in quanto Logos. E questo ci ha indotto a riconoscere una non trascurabile affinità tra il pensiero filoniano e quello della Tradizione filosofico-religiosa platonico-cristiana.

NB. L’autore sarà lieto di mettere a disposizione, a chi ne faccia richiesta scritta, la copia cartacea dell’articolo consistente in circa 29 cartelle Word

ABSTRACT.
In questa indagine abbiamo cercato di condurre una riflessione sulle suggestioni provenuteci dalla lettura dello splendido libro di Guardini dal titolo “Der Herr” [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016], nel quale il pensatore fa un’esegesi filosofica della figura e vicenda di Gesù.
Siamo stati indotti a svolgere questa indagine dalla sensazione (per la verità piuttosto imbarazzante) che il Gesù raccontato da Guardini entrasse fortemente in concorrenza con il Logos cristico sul quale aveva riflettuto la Stein (specie alla fine della fase matura della sua opera).
E tale sensazione si è poi confermata realmente nel corso dell’analisi della serie di aspetti del pensiero steiniano ai quali riconduce il testo guardiniano – l’ontologia cristica (che presso la Stein si presenta come “ontologia cristo-centrica”), la morale incentrata nell’interiorità, la relazione tra Amore e Verità, la natura di ciò che è «spirito», il concetto di Dio-Essere. Il primo di questi aspetti è per noi quello senz’altro più significativo. Dato che Guardini sostiene con forza che l’umano-divinità di Gesù è tanto più piena quanto più essa è concretamente tangibile non solo nel corso della Sua esistenza terrena ma ancora oggi, dopo la Sua Morte e Resurrezione.
Nel corso di tale analisi – al di là degli elementi rispetti ai quali il discorso steiniano coincide piuttosto bene con quello guardiniano – è emerso quindi sostanzialmente il fatto che la Stein si produce in una riflessione così dominata dalla primaria preoccupazione filosofica, da discostarsi effettivamente da quella dimensione teologico-fideistica che invece prevale nettamente nella riflessione di Guardini. Ed il fattore più decisivo in questo senso si rileva stare nel fatto che la pensatrice non accetta per davvero la Rivelazione (e cioè le Scritture) come il punto di partenza privilegiato delle sue riflessioni. Questo è invece ciò che fa senz’altro Guardini, offrendoci in tal modo un’immagine di Gesù e del Suo insegnamento che resta in stretta e diretta relazione con la Rivelazione. E ciò fino al punto da non esitare a contraddire quanto può venire delucidato per mezzo della sola argomentazione filosofica. Il pensatore, infatti, afferma piuttosto esplicitamente che quest’ultima è un ostacolo spesso davvero formidabile alla comprensione profonda dell’ontologia di Gesù, e soprattutto alla comprensione ed all’impersonamento pieno del suo insegnamento.
Dopo aver costatato tutto questo, però, nell’esaminare l’ultimo elemento (il concetto di Dio-Essere) – che in un nostro precedente lavoro [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D avevamo riconosciuto essere il più intimo nucleo del pensiero steiniano −, siamo giunti ad ipotizzare che la pensatrice stessa sia restata così sorpresa nel prendere atto della primarietà metafisico-religiosa di questo concetto, da tentare prima di mitigarlo per poi invece farlo definitivamente proprio nell’ultimissima fase mistica della sua opera. Ecco dunque che l’attenuazione del concetto binomiale di Dio-Essere per mezzo del concetto trinomiale Dio-Essere-Verità finisce per trapassare una conoscenza mistica la cui essenza è proprio l’immersione totale della pensatrice nel mistero che è proprio del Dio-Essere.
In base a tutte queste considerazioni ci siamo in conclusione sentiti obbligati a precisare che la Stein deve in ogni caso venire annoverata tra i più pregevoli pensatori religiosi e cristiani del nostro tempo. Resta però comunque la spiacevole evidenza costituita dal fatto che la dimensione primariamente filosofica della sua riflessione costituisce effettivamente un ostacolo sulla via della piena presa d’atto (filosofico- e metafisico-religiosa) di quel “mysterium fidei” con il quale invece Guardini pienamente si confronta. E nella riflessione di questo pensatore esattamente il mistero si rivela pertanto essere la fonte più appropriata di una conoscenza che voglia essere per davvero in sintonia con la Verità nella sua pienezza.

N.B. Il testo in cartaceo dell’articolo (consistente in 20 cartelle) verrà volentieri messo a disposizione di chi ne faccia richiesta all’autore per iscritto.

ABSTRACT.
In un nostro saggio del 2017, dal titolo “Il giudizio sul mondo. Un’etica della sventura” (ancora non pubblicato ma presentato al link: https://cieloeterra.wordpress.com/2017/10/18/l-giudizio-sul-mondo-unetica-della-sventura/), ci eravamo sforzati di porre in luce gli aspetti che caratterizzano l’esperienza del dolore e della sventura presso coloro che la vivono quasi come una stabile condizione esistenziale, e cioè coloro che avevamo definito come i «mal-venturati». Nello stesso tempo avevamo tentato di ricavare da ciò una complessiva etica del dolore-sventura, che metteva in luce il sostanziale disvalore del ben-venturato (l’uomo ricco, felice e di successo) rispetto al valore del mal-venturato.
Tuttavia, dopo aver letto uno dei libri di Romano Guardini [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016], l’intera riflessione che avevamo svolto in questi termini, ci è sembrata carente di un elemento di importanza fondamentale, e cioè quel «fattore Gesù» (o fattore G) che in questo articolo abbiamo eletto criterio di revisione di quanto avevamo antecedentemente sostenuto.
Sintetizzeremo qui quindi i principali risultati di questa revisione.
In primo luogo va detto che i termini generali delle costatazioni, che avevamo fatto nell’antecedente indagine, restano in qualche modo anche al cospetto del fattore G; ossia al cospetto della figura di Gesù, e del suo complessivo progetto di salvezza, e con particolare attenzione all’atteggiamento da lui tenuto rispetto all’esperienza umana di dolore-sventura.
Gesù si rivela essere infatti il mal-venturato per antonomasia (specie nella forma di Agnello), anche se da questa sua specifica ontologia (che è umano-divina e non invece meramente umana) scaturisce una prospettiva completamente diversa dall’etica che noi precedentemente avevamo ricavato. Ciò che ne nasce, infatti, non è affatto una cupa e remissiva accettazione della condizione mal-venturata. Ma soprattutto non è affatto quel surrogato moralistico-consolatorio di tale accettazione − nella forma di un’affermazione della superiorità della condizione del mal-venturato rispetto quella del ben-venturato) − che emerge impietosamente al cospetto del fattore G. Tale atteggiamento finisce infatti per apparire ben poco autentico, e quindi fortemente problematico in termini oggettivamente etici. Semmai dall’intervento del fattore G entro la questione dolore-sventura scaturisce invece una prospettiva in cui in essa si delinea addirittura lo svanire della condizione del mal-venturato. E questo ci apparso evidente sia al cospetto dei vari aspetti di Gesù come Agnello (in particolare la possente portata salvifica che ha la sua morte auto-sacrificale), sia anche al cospetto della dimensione più apertamente positiva introdotta dal fattore G, e cioè il vissuto costruttivo della tribolazione come prova.
Nonostante tutto questo, però, tentando di giungere ad una conclusione ultima su tutto quanto viene modificato dall’intervento del fattore G, ci siamo sentiti costretti a ridurre all’osso l’entusiasmo verso il quale esso indubbiamente spinge. Infatti, aldilà dell’immenso fascino dello scenario aperto dall’analisi guardiniana della figura ed opera di Gesù, resta il fatto inoppugnabile che si tratta di qualcosa che noi non vediamo, non sentiamo e non tocchiamo. E questo resta inoppugnabile anche in un atteggiamento di fede davvero convinto ed intenso. Ma soprattutto ciò resta inoppugnabile davanti a quella vera e propria altissima parete rocciosa che è l’esperienza di dolore-sventura.
In questo senso la sua tremenda provocazione non svanisce per l’uomo nemmeno al cospetto di Gesù. Tale parete infatti, almeno sul piano dell’immanenza mondano-terrena, è impossibile da valicare anche nel contesto dell’adesione totale al messaggio di Gesù. Ed anzi per alcuni versi viene anche addirittura rafforzata; sebbene in un senso totalmente rinnovato, e cioè unilateralmente positivo. A fronte di tutto questo, quindi − non intendendo intanto in alcun modo rinunciare ai risultati ottenuti per mezzo della presa in considerazione del fattore G − siamo giunti ad una davvero estrema conclusione. Che poi sta in linea con il fattore dell’ontologia umano-divina di Gesù, che anche Guardini elegge a primario criterio di riferimento.
L’intervento di questo fattore cambia insomma davvero le cose in un solo ed unico senso, e cioè nella consapevolezza di essere in presenza di Gesù in carne ed ossa tutte le volte che ci si trova nel pieno dell’esperienza di dolore-sventura. E specialmente quando essa diviene davvero estrema e radicale.
Questo ci è sembrato l’unico appiglio davvero saldo e inamovibile per trattare il tema dal punto di vista intensamente cristiano che ci viene proposto nel complesso dal Guardini. Non attenendosi a questo, infatti, ci è sembrato che il rischio di una vuota e sterile retorica (senza alcuna vera ricaduta concreta) sia troppo prossimo (e continuamente in agguato) per poter venire corso.
E questo conferma almeno una parte dello spirito che ci aveva animato nell’antecedente trattazione del dolore-sventura – tale esperienza rappresenta forse quanto di più autenticamente reale vi è in quel contesto che noi tutti (con diversi significati) designiamo come «mondo».
In questo senso, dunque, se è vero che l’introduzione del fattore G esautora quasi completamente il pessimismo di stampo gnostico rispetto al mondo (che, entro la trattazione del tema dolore-sventura, conduce alle conclusioni alle quali eravamo pervenuti antecedentemente), tuttavia qualcosa di esso resta comunque anche nel più autentico vissuto cristiano di questa condizione.
Non a caso una delle suggestioni che si possono ricavare dalla lettura del Guardini è che l’esperienza più intensa del dolore-sventura − quando vissuta al cospetto della presenza di un Gesù ormai invisibile − ci rinvia ad una sorta di mondo ideale parallelo che dal credente va considerato come in vero piano degli eventi. Ed è evidente che questo mondo è totalmente trascendente. Anche se la sua vaga ombra si lascia chiaramente intravvedere esattamente nel luogo in cui noi più crudamente cadiamo vittima della sventura.

NB. Il testo completo dell’articolo può venire consultato nella rivista web Il Nuovo Monitore Napoletano (presente anche su Facebook).

ABSTRACT
In questo lavoro abbiamo esaminato le conseguenze che è possibile trarre circa il pensiero di Edith Stein qualora si prenda a metro di giudizio l’interpretazione di Platone fornita da un suo profondo e sensibile studioso, e cioè Romano Guardini. Ci riferiamo in particolare ad un suo testo specifico [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013], ossia quello nel quale egli commenta i quattro dialoghi dedicati da Platone al processo, condanna e morte del suo maestro Socrate (Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone e Fedone)
Guardini è però anche un pensatore inequivocabilmente cristiano. E quindi, per quanto egli si sforzi di porre in evidenza in maniera estremamente obiettiva quelli che sono i tratti davvero più autentici del pensiero di Platone, non si può certo dire che egli ne sposi il pensiero fino al punto di porsi in una posizione filosofico-metafisica che in fin troppi aspetti differisce da quella tipicamente cristiana. Si può però allo stesso tempo affermare che egli assume in questo testo una posizione che potrebbe ben venire definita come platonico-cristiana. E questo rende davvero prezioso il contributo che egli può dare ad una definizione il più precisa possibile del platonismo riscontrabile entro la visione di una pensatrice altrettanto inequivocabilmente cristiana com’è Edith Stein. Coerentemente con questo il principale risultato al quale ci ha condotto l’esame testuale è stata la costatazione che la visione steiniana va considerata «platonica» solo nel contesto specifico della tradizione platonico-cristiana. E questo collima con quanto avevamo constatato anche in altri nostri precedenti lavori sulla pensatrice [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), IX, 2016, p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016; Vincenzo Nuzzo, “L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain”, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/la-fondamentalita-dellatto-di-esistere-per-una-filosofia-dellessere-edith-stein-e-jacques-maritain/; Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/; Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D.
Ebbene uno dei contributi più rilevanti e originali della lettura guardiniana ci è sembrato la sua sconfessione molto netta della complessiva interpretazione di Platone come un pensatore unilateralmente interessato all’epistemologia ed alla pura teoresi (e quindi alla teoria della conoscenza nella sua accezione più moderna) ed inoltre un pensatore affatto religioso. E l’elemento più centrale di tale inappropriata interpretazione moderna è poi quella che considera l’idea come un “concetto” o anche come una mera “astrazione” della cosa reale.
Proprio in relazione a questo, quindi, assume uno straordinario rilievo il fatto che Guardini ci autorizza a pensare che effettivamente il nucleo più autentico del pensiero di Platone consiste nella totale equiparazione da parte sua dell’idea con la cosa. E ciò è vero specie nel senso che l’idea rappresenta per lui la cosa nella sua maggiore pienezza, ossia la Realtà trascendente stessa. Quest’ultima può pertanto venire considerata come l’«essere» stesso nella sua maggiore autenticità, e cioè l’«essere ideale». Abbiamo però anche potuto verificare che questa complessiva visione rende impossibile riscontrare in Platone un concetto di «essere» com’è quello presente nell’onto-metafisica più esplicita; ossia quella che è sempre stata di stampo aristotelico, e come tale è stata fatta propria anche dal pensiero cristiano predominante (inclusa almeno in parte anche Edith Stein). Si tratta insomma dell’essere concepito nella sua dimensione primariamente esterioristica, e quindi decisamente anti-essenzialista e anche anti-idealista. Si configura pertanto in tal modo un realismo dogmatico che è lontano davvero anni-luce dall’onto-metafisica di Platone.
L’altra decisiva costatazione fatta da Guardini riguardo a Platone è che il suo incontestabile trascendentismo (espresso perfettamente nell’essere ideale inteso come la più autentica Realtà, e cioè unicamente quella di vertice) non configura mai un effettivo dualismo. E ciò collima con l’opinione di diversi altri interpreti del pensatore ateniese, tra i quali diversi di matrice cristiana [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I-II p. 959-1151; Gregorio di Nissa, Dell’anima e della resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, I, 7, 44-48 p. 381-387, III, 72-77 p. 417-423, V, 5, 121-128 p. 473-481; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 45-64; Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 6 p. 155-158, II, I, V, I p. 170-183]. Questo non collima però affatto con l’opinione discordante di altri pensatori di matrice cristiana e non, ed inoltre spesso decisamente anti-platonici [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, II, I p. 141-157; Paulina Remes, Neoplatonism, University of California Press, Berkeley Los Angeles 2008, 1 p. 7-10, 2 p. 51-59, 2 p. 65-75; Moshe Idel, Eros e Qabbalah, Adelphi, Milano 2007, 4, 1-4 p. 207- 216].
Sta di fatto che tutto ciò sta in concordanza con un’altra significativa osservazione di Guardini, e cioè quella secondo cui a Platone non può venire attribuito un «idealismo». Ne deriva quindi a nostro avviso che (specie in forza della continuità ontologica ininterrotta tra idea e cosa istituita dal pensatore, a sua volta in stretta connessione poi con il suo trascendentismo) la sua visione potrebbe venire considerata come il paradigma di ogni autentico «idealismo realista». E tale elemento pone in stretta connessione il suo pensiero con quello di Edith Stein; entro il quale (come abbiamo dimostrato nella nostra tesi di dottorato) si può riscontrare proprio un idealismo realista.
Su tale base abbiamo tentato di extrapolare tutta questa serie di elementi con gli aspetti più suggestivamente platonici del pensiero di Edith Stein, e cioè in particolare la sua concezione dell’essere ideale come trascendente oggettualità cosale (l’insieme delle “Wesenheiten”, o “essenzità”, che costituisce il “wesenhaftes Sein”, ossia appunto l’essere ideale nel senso di essenziale). Con ciò la pensatrice sta pensando effettivamente ad un’equivalenza tra idea e cosa, ovvero ad un’idea che si presenta come oggettualità cosale. Ma la nostra indagine ha posto in luce che in realtà essa è estremamente più debole di quella invece sostenuta da Platone. Per questo essa giunge fino a quasi negare la concessione di onticità all’idea (che invece in Platone è davvero esplicita). Cosa che avviene soprattutto laddove la Stein (nel contesto di una teoria della conoscenza da un lato moderno e dall’altro lato in linea con i principi aristotelici accettati da Tommaso d’Aquino) sostiene che di fatto l’idea è un nulla in assenza della cosa reale che è destinata ad incarnarla. E qui (come abbiamo sostenuto nell’articolo dedicato al suo confronto con Maritain) la sua visione finisce per configurare la cosa come un effettivo «atto di esistere». Sebbene ella non abbia mai rinunciato a porre l’accento sulla costituzione fondamentalmente essenziale dell’oggettualità cosale. In ogni caso abbiamo verificato che laddove la Stein sostiene più esplicitamente l’onticità dell’idea (e cioè nel contesto della sua riflessione sui Trascendentali ed Universali) ciò avviene soprattutto in relazione ad una preoccupazione teologico-metafisica, e cioè in relazione con la dottrina cristiana (specialmente agostiniana e paolina) del Logos.
In base a tutti questi elementi − e grazie al davvero prezioso apporto del Guardini − abbiamo quindi potuto verificare che effettivamente (come avevamo posto in luce nei nostri antecedenti lavori), il platonismo steiniano può venire ammesso solo entro ben precisi limiti. E qui è emerso soprattutto l’elemento filosofico-metafisico rappresentato dall’estremamente debole dottrina, da lei sostenuta, dell’onticità ideale, ossia l’equivalenza tra idea e cosa. Pertanto, tenendo conto di questo, è evidente che − sebbene la complessiva visione steiniana configuri un’ontologia decisamente essenzialista – almeno in una certa misura la sua onto-metafisica va considerata ben più prossima al tradizionale realismo cristiano che non invece all’almeno tendenziale idealismo di stampo platonico. In particolare, inoltre, dato che abbiamo constatato come l’onto-metafisica di Platone non può davvero venire considerata idealistica, bisogna registrare il fatto che quella steiniana non si inquadra affatto nel così radicale trascendentismo sostenuto dal pensatore ateniese. E ciò trova conferma proprio nello stesso Guardini. Il quale non manca di rilevare il “pericolo” rappresentato da tale trascendentismo in particolare in relazione alla possibilità di concepire un’effettiva relazione tra divino ed umano; riuscendo così ad ammettere (sul piano filosofico-metafisico) il concetto di Incarnazione.
Su questo elemento possiamo quindi dire che il cerchio della complessiva questione si chiude in corrispondenza di una profonda e felice convergenza tra i due pensatori cristiani (Guardini e Stein) circa l’importanza decisiva che ha, entro una filosofia metafisico-religiosa, la possibilità di concepire proprio una relazione tra il divino e l’umano.

ABSTRACT.
Questo nostro studio si riferisce in particolare all’ultimissima fase dell’opera di Edith Stein, e cioè quella che fu contrassegnata da un lato dallo studio di autori mistici (Teresa d’Avila, Juan de la Cruz) e pensatori dell’apofatismo cristiano neoplatonico (Dionigi l’Areopagita), e dall’altro lato da una vita religiosa personale estremamente intensa.
Ebbene il platonismo della pensatrice, che nelle antecedentemente era stato estremamente sfumato – come abbiamo dimostrato nella nostra tesi di dottorato [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tesi di dottorato in Filosofia, FLUL, Lisbona 2018] –, si presenta invece in questa fase con caratteri piuttosto espliciti. E l’elemento di punta di tale assetto è senz’altro l’interesse molto intenso rivolto dalla Stein al pensiero di Dionigi l’Areopagita. Tale interesse si mosse però nel contesto di una ricerca filosofico-metafisica che fu rivolta in primo luogo alla mistica. Pertanto indubbiamente il platonismo fu presente in tale contesto in relazione specifica con il problema della conoscenza intellettuale dell’Assoluto divino (CIAD). Esso si presenta pertanto con due caratteri distintivi estremamente specifici, e cioè quello mistico e quello apofatico.
La nostra ricerca si è mossa sostanzialmente sulla falsariga di tale costatazione – tentando prima di porre la questione in modo realistico (in relazione ai caratteri effettivi della visione steiniana), e dedicandosi poi ad una verifica testuale delle ipotesi di lavoro delineate preliminarmente (nell’introduzione). Essa tenta quindi di chiarire i modi e l’intensità con i quali la CIAD è stata presa in considerazione dalla pensatrice. Il problema principale in tal senso è stato comunque quello di verificare se ella si sia appena limitata ad osservare dall’esterno la prassi della CIAD (con l’interesse scientifico e distaccato che è tipico del «filosofo della religione»), oppure invece si sia sentita direttamente coinvolta in essa (specie sul piano dell’esperienza mistica). E la nostra indagine ha evidenziato molti motivi favorevoli alla seconda ipotesi.
Quello che è comunque emerso con sufficiente chiarezza è che (nonostante le forti suggestioni in tal senso) vi sono elementi troppo insufficienti per pensare che la Stein abbia impersonato il platonismo metafisico-religioso e mistico che è più prossimo all’onto-intellettualismo di tipo gnostico – e cioè quella presa di posizione filosofico-metafisica che è stata fatta propria oltre che dagli gnostici stessi, anche da diversi studiosi di Tradizione. In particolare costoro si sono fatti portatori di una visione sostanzialmente estranea al Cristianesimo (se non perfino esplicitamente neo-pagana). In relazione a ciò abbiamo quindi distinto la CIAD dalla conoscenza dell’Assoluto divino (CAD) – laddove la prima è nettamente sbilanciata in senso onto-intellettualistico, e quindi intende l’ascesa a Dio come un fenomeno puramente intellettuale e quasi per nulla invece amoroso. Abbastanza insufficienti (se non nulli) ci sono sembrati anche gli elementi per ricollegare il platonismo steiniano di questa fase a quello proprio di un certo «spiritualismo» metafisico- e filosofico-religioso – al cui centro vi è lo sforzo di sottrarre l’esperienza di Dio come Spirito dal sequestro operato su di essa da parte della teologia cristiana istituzionale e dogmatica (con le conseguenti forti limitazioni alla stessa natura puramente spirituale dell’esperienza stessa).
Per tutti questi motivi il platonismo steiniano, presente nell’ultimissima fase della sua opera, ci è sembrato perfettamente in linea con la postulazione di una prassi mistica, entro la quale la dimensione dell’Amore è di importanza decisiva per lo sviluppo di un’esperienza di conoscenza dell’Assoluto divino. E ciò non ci è sembrato in alcun modo in contraddizione con l’idea della prassi mistica che ebbero alcuni degli autori specificamente studiati dalla pensatrice, e cioè Teresa d’Avila e Juan de la Cruz. Più variegato e meno univoco ci è sembrato però il discorso da circa l’idea di mistica sviluppata invece da Dionigi l’Areopagita. Date le ben note tendenze platonico-gnostiche di tale autore, ci è sembrato che la Stein abbia mantenuto un atteggiamento molto prudente nell’abbracciare totalmente la di lui visione della CIAD. E tuttavia ci è parso anche nel complesso ingiustificata (specie sulla base dell’analisi dei testi prodotti dalla pensatrice a commento dei testi dionisiani) l’interpretazione estremamente riduttiva prevalente nella critica a tale proposito. Secondo tale interpretazione, infatti, la pensatrice avrebbe mantenuto verso la complessiva visione di Dionigi lo stesso atteggiamento di prudente scetticismo, che è proprio della cosiddetta «teologia razionale» (o anche «teologia naturale»); e che assegna alla «teologia negativa» (ossia all’apofatismo mistico-contemplativo) un ruolo unicamente secondario ed ancillare rispetto alla «teologia positiva» (catafatica). Secondo questa interpretazione, insomma – nello studiare in maniera asetticamente filosofico-religiosa la mistica ascensiva dionisiana –, la Stein avrebbe condiviso pienamente l’impossibilità di superare intellettualmente i rigorosissimi limiti assegnati dalla teologia positiva alla conoscenza di Dio. Ma questo ci sembra contradetto da fin troppi elementi emergenti nell’analisi testuale.
Nel complesso, quindi, da tutto ciò abbiamo tratto la conclusione che la pensatrice abbia non solo studiato (da filosofa) ma anche fatta propria (da mistica) una CAD che non ha la minima intenzione di porsi in maniera gnostico-intellettualistica (configurando in tal modo una CIAD), ma intanto non ha nemmeno la minima intenzione di rinunziare ad una prassi ascensiva il cui aspetto distintivo è senz’altro la conoscenza di Dio.
In questa complessiva maniera ci è parso pertanto che sia possibile dare un volto concreto e realistico ad una vera e propria visione platonica (o anche neoplatonica), che la pensatrice avrebbe effettivamente abbracciato in questa fase del suo pensiero e della sua opera. Si tratta però di un platonismo decisamente religioso, ed inoltre si tratta (come anche nella fase matura della sua opera) di un platonismo esplicitamente cristiano.

N.B.: Una copia cartacea di questo scritto può venire richiesta per mail all’autore.

Ho appena ultimato un saggio dedicato al Personalismo che si è andato sviluppando in Occidente tra il XVIII e il XX secolo. E nell’allestirlo sono partito in particolare dal pensiero personalista di Edith Stein e Nikolaj Berdjaev. Il saggio vuole essere però anche un’ampia panoramica del pensiero personalista che discute a fondo le visioni di alcuni tra i maggiori esponenti di questa visione – in particolare Jacques Maritain, Paul Ricoeur, Nikolaj Berdjaev, Gertrud von Le Fort, Karl Jaspers, Max Scheler, Emmanuel Mounier, Romano Guardini, León Bloy, Fëdor Dostoevskij e Giacomo Leopardi. Altri non meno importanti pensatori personalisti vengono discussi indirettamente, mentre altri ancora non vengono discussi dato che ho escluso pensatori dei quali non possedessi letture sufficienti.
Il saggio si sforza comunque di chiarire tutti i caratteri della persona ed inoltre di chiarire la struttura la dinamica interne dell’intero Personalismo.
Questo saggio è destinato a venire pubblicato. Ma poiché non mi è stato ancora possibile farlo ne ho comunque allestito un sunto dal titolo «Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”» [ Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”. | cielo e terra (wordpress.com)] che è stato da me pubblicato in questo stesso blog. In questo sunto il lettore potrà trovare una larga sintesi dei contenuti del saggio.

(ATTENZIONE: questo articolo è stato accettato per la prossima pubblicazione su una rivista di filosofia; per cui (in linea con le vigenti leggi sul copyright) si diffida dalla sua riproduzione integrale e dalla sua citazione senza menzionarne l’autore)

Introduzione
Nikolaj Berdjaev, in tutti i suoi libri, ci suggerisce una prospettiva religiosa del tutto nuova (e di certo in parte rivoluzionaria), nel contesto della quale finiscono per sembrare estremamente inadeguate diverse idee e prassi esemplari che usualmente fanno da guida ai fedeli cristiani nell’affrontare l’esperienza religiosa in tutti i suoi aspetti (individuali ed ecclesiali), ma soprattutto nel contesto della personale esperienza della Presenza divina. Ci riferiamo comunque in particolare alla preghiera, ed ancora più particolare alla cosiddetta preghiera «di richiesta», ossia quella preghiera che invoca il concreto aiuto divino in situazioni esistenziali così difficili da essere ai limiti dell’impossibile ed esigere prestazioni quasi sovrumane (specialmente in quelle così difficili da non autorizzare, almeno sul piano naturale, alcuna forma di speranza). Preghiera che intanto oggi viene guardata con estremo sospetto da predicatori, apologeti e teologi cristiani. E peraltro senza alcuna eccezione.
Va detto comunque che il pensatore si riferisce qui unicamente alla religione cristiana. E quindi su questa linea rimarremo anche noi nel corso nella nostra indagine.
Entreremo più avanti nel merito delle parti del suo pensiero che fanno direttamente riferimento all’esperienza religiosa, oppure dalle quali sono deducibili elementi relativi a quest’ultima. Ma comunque, volendo fare una larga sintesi preliminare della presa di posizione berdjaeviana, si può dire che essa si rifiuta di concedere qualunque valore ai tradizionali valori dell’obbedienza, della contrizione e della mortificazione personale, in quanto a loro volta secondo lui basati su una concezione dell’esperienza religiosa che guarda unicamente al Peccato e alla Caduta (e quindi non è affatto attiva, dato che essa si limita a reagire passivamente a tali elementi). Ma proprio in tal modo l’esperienza religiosa viene vincolata alla realtà negativa di un mondo e di un uomo che vengono considerati decaduti e irrimediabilmente corrotti (in quanto peccaminosi), e che pertanto, così come sono, non hanno ovviamente la benché minima chance né di entrare in contatto con Dio né di chiedergli alcunché.
Egli prende intanto atto del fatto che, nella prospettiva della Redenzione, a tutto questo viene previsto il potente rimedio della Grazia o Misericordia divina. Ma intanto registra anche il fatto che tale atteggiamento corrisponde più fondamentalmente e realisticamente ad un’insana ossessione per la sola salvezza. La quale poi, nonostante il suo porsi entro la logica della Redenzione umano-mondana (ad opera di Cristo), tende a tradursi di fatto in un mero egocentrismo, che è inoltre malinconico, sfiduciato e perfino terrorizzato (e che poi ha sempre trovato il suo culmine nell’ascetismo monastico); entro il quale l’uomo persegue meno che mai l’attiva e produttiva presa di contatto con la Presenza divina. Qui infatti la preoccupazione e passione che domina nell’uomo non è affatto quella di entrare in relazione con Dio, ma invece unicamente di salvare sé stesso dalle terrificanti conseguenze del Peccato. Si tratta quindi di un complessivo atteggiamento negativo e tutto remissivo (specie in quanto passivo), che si presenta a sua volta come attitudine al pessimismo, alla disperazione preoccupata, al devastante senso di colpa e di indegnità (il quale in principio rende impossibile che si venga ascoltati da Dio), all’incapacità di coltivare alcuna forma speranza, ed insomma alla totale oscurità dello spirito. Più in generale egli definisce una simile presa di posizione come una passiva e sterile “adequazione alla necessità” che è propria del mondo naturale [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018I p. 48-82, IV p. 153-156, IV p. 161-164, VII p. 206-209] – adequazione che coinvolge a sua volta con la religione, anche le stesse filosofia e scienza –, la quale comporta poi necessariamente l’accettazione passiva delle cose come sono nella loro forma più negativa ed irreversibile.
Qui stiamo insomma parlando di quel mondo naturale con le sue ferree e spietate leggi entro le quali domina totalmente l’indifferente Caso (se non addirittura una sorta di impietoso karma punitivo), ed in assenza totale, quindi, di etica, di giustizia e soprattutto di amore. Ma inoltre, per di più, nel mondo così retto domina anche totalmente la legge del più forte, ossia la legge della salvezza raggiungibile unicamente per la via della sopraffazione dell’altro (secondo la spietata logica del «mors tua, vita mea!»). È dunque del tutto ovvio che, su queste basi, Berdjaev affermi che il Cristianesimo ha fallito miseramente nell’essere una “religione dell’amore” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 307-310].
Ebbene, sulla base di tutto ciò ci sembra che non si possa concepire in alcun modo un’esperienza religiosa cristiana entro la quale si possano supporre alcuni pregevoli aspetti in particolare – che essa ponga una diretta relazione con quella che è la «positività» dell’essere per eccellenza, e cioè Dio ed in particolare il Dio vivo immanente (Gesù Cristo e/o lo Spirito divino); che essa procuri gioia o almeno una profonda e rasserenante consolazione; e che infine essa procuri soprattutto una reale speranza. Speranza che, per noi esseri storici e di carne, non può non coinvolgere anche aspetti estremamente concreti (sia pure nella complessiva esperienza di fede che pone l’obiettivo finale e più alto in quella vita ultraterrena che è senz’altro integralmente spirituale). Ma sta di fatto che proprio per la speranza non può esservi assolutamente alcun posto in un’esperienza religiosa che sia concepita negativamente al modo che abbiamo visto. Specie una speranza nei suoi aspetti più concreti. Il che rende necessariamente del tutto retorica (se non menzognera e perfino truffaldina) quella che usualmente viene concepita come «gioia cristiana».
Ebbene Berdjaev sostiene che tale complessiva obbedienza passiva all’irremovibile e gelida necessità del mondo proibisca assolutamente qualunque forma e grado di atteggiamento creativo. Ed a questo punto possiamo allora assumere che, nel contesto dell’esperienza religiosa (specie nelle forme in cui essa viene qui da noi esaminata), la creatività possa venire vista proprio come l’esatto contrario dell’atteggiamento che abbiamo appena descritto. Pariamo cioè di un atteggiamento religioso positivo (soprattutto in quanto attivo ed assertivo) che comporti l’attitudine all’ottimismo, alla serenità d’animo, alla fiducia, alla riconciliazione con sé stessi unita al senso del proprio valore (che faccia sentire degni di venire ascoltati da Dio), alla capacità di forgiare letteralmente potenti speranze, ed insomma alla totale luminosità dello spirito. Tutte attitudini queste che in questo caso si sposano con la «gioia cristiana» in una maniera sì autentica e realistica: in quanto essa è del tutto al riparo dalle ombre inquietanti gettate su di essa da qualunque mera e vuota retorica. In questo modo infatti la fede cristiana diviene realmente una vera e propria entusiastica fede nella Vita. Ed in tal modo la presenza immanente e storica nel mondo da parte di Cristo come Spirito Santo diviene qualcosa in cui si può credere senza alcuna difficoltà; ed alla quale quindi ci si può affidare con la massima serenità.
Per esprimere tutto in una formula sintetica (nel proporre la quale noi ci ispiriamo agli insegnamenti del nostro compianto Padre spirituale Prof. e Sac. Vincenzo Romano) diremmo che ciò comporta l’assoluta impossibilità di rivolgersi a Dio dicendo: − «Padre abbi pietà di me». Infatti è impossibile e perfino ridicolo che ad un padre amoroso si chieda pietà. Si può di certo chiedere a Lui perdono per i propri errori, peccati e nefandezze varie. Ma intanto a tale richiesta un padre amoroso non risponderà mai con la pietà; laddove la pietà si prova solo verso colui che è oggettivamente disprezzabile. Risponderà invece semmai con la gioia entusiasta e pienamente soddisfatta, con la simpatia e perfino con l’orgoglio (e con il travolgente ed attivo affetto collegato a tali emozioni) di colui che vede il figlio tornare sulla retta via e così tornare essere quello che era sempre stato. Questo padre infatti era sempre stato certissimo in cuor suo dell’incontrovertibile dignità e valore del proprio figlio, e ciò perfino ad onta di qualunque cosa negativa gli fosse accaduta o lui avesse fatta. E di tutto questo troviamo un’eco perfettamente corrispondente nella Parabola del Figliuol prodigo – entro la quale (ancora una volta in contraddizione con la dominante retorica dell’esperienza religiosa) l’aspetto primario non è affatto il pentimento, ma invece l’amore incondizionato che il Padre aveva sempre provato per lui, che è esattamente l’atteggiamento con il quale lo riaccoglie in casa.
Dunque un’esperienza religiosa che in qualunque modo si conformi a questa così insana e disperata richiesta di pietà (e tale è certamente quella dominata totalmente dalla consapevolezza del peccato e dall’ossessione per la salvezza, con l’aggravante dell’inevitabile umiliante obbedienza cieca alla ferrea necessità del mondo, ossia alle sue spietate leggi naturali) non può essere né autentica né credibile né realistica. E ciò appunto per il semplice fatto che essa non si rivolge affatto ad un Padre. Si rivolge invece semmai a qualcun altro, divinità o meno che sia.
Ma allora, se le cose stanno davvero in questo modo, tutto può essere proibito entro l’esperienza religiosa, tranne il fatto di chiedere al Padre ciò che nessun padre negherebbe mai al proprio figlio, ossia il suo aiuto. Ed un aiuto che non può essere tale se non è concreto, cioè tangibile. Infatti entro l’esperienza religiosa negativamente connotata (che abbiamo descritto prima) tutto si può fare tranne che chiedere aiuto. Il che trova nuovamente riscontro nel passo evangelico nel quale viene affermato che mai il Padre darebbe ai propri figli pietre, e non pane; oltre che nell’affermazione evangelica che invita espressamente al “chiedete e vi sarà dato”. Che peraltro proprio Edith Stein menziona espressamente [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988I p. 59-66]. E anticipiamo qui che tale affermazione rientra in quelle sorprendenti oscillazioni del discorso steiniano delle quali parleremo poi analizzando i suoi testi.
Dobbiamo comunque precisare che da ora in poi parleremo a tale proposito dell’aiuto in quanto «aiuto divino». Ma, ancora una volta, di quale genere e grado di aiuto divino si tratta entro la usuale retorica omiletico-teologica? E con questa domanda veniamo al nucleo più intimo dell’intera problematica che stiamo discutendo. Si tratta forse di un aiuto concreto e tangibile, ossia un aiuto nel quale Dio – per dirlo proprio con le parole di Edith Stein nè “ll Mistero del Natale” (testo che poi riprenderemo in esame) – provvede alle nostre necessità esistenziali concrete (ma ovviamente solo a quelle davvero urgenti, gravi e senza possibilità reale di soluzione) per mezzo di vere e proprie soluzioni pratiche? Ebbene no! Purtroppo no! Infatti la più tradizionale e canonica definizione dell’esperienza religiosa (smascherando così sé stessa come una mera e vuota retorica) afferma invece che sì l’aiuto divino deve venire considerato più che certo (tanto che bisogna restare incrollabilmente certi che «Dio non ci abbandona mai!»), ma intanto deve venire considerato nel modo riduttivo e pochissimo credibile che segue: − 1) aiuto in effetti del tutto invisibile e soprattutto intangibile (addirittura fino al punto che esso potrebbe non manifestarsi mai, ossia solo dopo che noi abbiamo già disincarnato, e quindi di fatto dopo aver passato l’intera nostra vita a soffrire senza mai aver ricevuto il benché minimo soccorso divino); 2) aiuto inteso come un agire di Dio «sempre-e-solo-per-il-nostro-bene-qualunque-cosa-accada-e-qualunque-forma-assuma» (corrispondente poi all’esortazione di Teresa d’Avila ad accettare qualunque evento come «proveniente dalla Mano di Dio», e con per di più la terribile minaccia che, se non lo facciamo, “Dio ci abbandonerà ad ogni passo”; 3) aiuto nella forma dello Spirito Santo stesso, che agisce però in tempi immensamente lunghi, e quindi produrrà dei frutti solo dopo una sofferenza che intanto ci porterà certamente allo sfinimento o alla distruzione della nostra sostanza umana (e probabilmente anche animico-spirituale). Ma le spietate finali conclusioni di questa serie negazioni le tira proprio Edith Stein dice senza peli sulla lingua che ha decisamente “fatto male i suoi conti” chi crede (ossia si illude) che Dio ci aiuti provvedendo ai nostri bisogni concreti. Insomma una negazione più frontale ed esplicita dell’auto divino concreto non ci sarebbe potuta essere.
E si tenga conto anche del fatto che l’inquietante affermazione di Teresa è stata tratta dal suo “Il castello interiore”, testo che Edith Stein tradusse, amò e considerò inoltre punto di riferimento fondamentale della sua prassi mistica [Edith Stein, Die Seelenburg, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, Anhang p. 501-525]
Più avanti esporremo comunque le nostre obiezioni a tale retorica. Ma intanto va preso atto del fatto che essa, nel negare esplicitamente (sebbene per mezzo di sottili argomenti retorici) l’aiuto divino concreto, di fatto in definitiva lo nega in assoluto ed alla radice. Non a caso tutto ciò rientra poi nell’idea (per la quale viene preso spessissimo ad esempio emblematico Giobbe) secondo la quale sventura, dolore e problemi senza via di uscita né soluzione, non sarebbero altro che l’esame al quale Dio ci sottopone per mettere alla prova la nostra fede in una sua Presenza inderogabilmente invisibile. Il che configura poi letteralmente un Dio che ci usa letteralmente violenza, sebbene (come si sostiene) «solo-a-fin-di-bene». Il che di fatto ci invita ad aver fede in un Dio della cui esistenza non potremo mai e poi mai essere minimamente certi.
E questo è certamente l’inquietante “Deus absconditus” del quale la più raffinata mistica cristiana ha sempre parlato (vedi Agostino e Cusano). Ma, almeno a partire dal nostro ristretto e debole punto di vista umano (per quanto possiamo essere convinti uomini di fede o almeno per quanto ci sforziamo di esserlo in tutti i modi possibili), questo rischia fortemente di equivalere all’idea che Dio non esista affatto. Del resto, se non fosse così, Gesù non avrebbe operato quella serie infinita di miracoli che evidentemente servivano lo scopo di sostenere la fede nell’esistenza di Dio da parte di uomini di carne che sono costantemente esposti alle ferocissime evidenze imposte dal mondo naturale. Naturalmente anche questo discorso viene sempre rovesciato in termini sostanzialmente retorici. Per cui si sostiene che il miracolo non supporta la fede, ma invece, al contrario, esso proviene dalla fede. E ciò può essere anche vero. Ma intanto, nel caso che non sia nemmeno pensabile un aiuto divino concreto (quello che però, entro la prassi evangelica, guariva letteralmente paralitici, lebbrosi, muti, sordi, pazzi etc.), anche la fede più fervida e cieca non avrà la benché minima speranza di produrre alcun frutto tangibile.
Del resto l’evidente contraddittorietà e scarsa autenticità di tutta questa retorica − esposta peraltro ultimamente del tutto indifesa all’attacco possente di quell’agguerritissima «scienza cognitiva» (in sé in principio atea), che ormai spadroneggia nelle dispute teologiche, esigendo inflessibilmente di venire tenuta in debito conto – ha finito per imporsi con forza ai moderni teologi, spingendoli in tal modo ad elaborare dottrine praticamente atee ed agnostiche dell’esperienza religiosa (entro le quali si sono ormai sviluppate le famose dottrine che sostengono il cosiddetto “post-teismo” ed inoltre la totale storicità della figura di Gesù, ossia la sua non umano-divinità). E così, senza volere entrare nel merito questo immenso campo di discussione – del quale ho molto parzialmente discusso in un mio precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >] −, i teologi oggi semplicemente considerano insostenibile ed anche ridicola l’idea di un aiuto divino concreto. E ciò soprattutto sulla base dell’idea secondo la quale, molto in generale, sarebbe razionalmente impensabile (anche nel contesto di dottrine religiose) l’intervento del Sovrannaturale (Trascendente) nel naturale (immanente). In altre parole secondo questi teologi non può essere attribuibile all’insegnamento di Cristo alcuna intenzione di trasfigurare il mondo (storico, naturale ed immanente) così com’è. Si assume pertanto che Cristo avrebbe avuto fin dall’inizio l’intenzione di lasciare il mondo così com’è dopo la Sua venuta, in modo tale che l’esperienza religiosa cristiana sarebbe destinata a muoversi su un piano totalmente diverso da quello storico e naturale. Laddove a questo punto diviene assolutamente incomprensibile su quale piano l’esperienza religiosa cristiana effettivamente si muova. Ed ecco che a questo punto il campo resta aperto alle più strampalate ipotesi e teorie dei moderni teologi, ormai trafitti a morte e sconfitti in partenza dall’implacabile logica analitica delle scienze cognitive (si veda per questo il nostro già citato articolo sul moderno realismo filosofico). Di conseguenza, se pure fosse possibile concepire una sorta di trasfigurazione del mondo, essa dovrebbe venire intesa in maniera assolutamente metaforica ed affatto letterale, ossia nei termini di quella pura e non pragmatica etica religiosa che la Chiesa rappresenta in primo luogo nell’osservanza del primario comandamento dell’amore dovuto al prossimo (ossia la carità).
Il che implica quindi una dimensione unicamente collettiva, comunitaria e sociale dell’esperienza religiosa, escludendo così da essa qualunque dimensione singolare. E non a caso l’ormai dominante dottrina della Chiesa si muove esattamente su questo registro – affermando in tal modo (sebbene scaltramente negandolo) che la Chiesa di Cristo in fondo altro non è se non un’immanente istituzione sociale.
Eppure va già qui fatto notare che Berdjaev invece vede come centrale nel profondo rinnovamento del Cristianesimo (da lui auspicato) proprio la decisione alla trasfigurazione reale del mondo. Ed inoltre precisa in più sedi che la “comunione” spirituale (che dovrebbe essere il frutto di tale trasfigurazione) è tutt’altro che mera socialità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-75, V p. 172-175, XI p. 318-326, XII p. 331-346]. Ma entreremo più avanti nel merito di questo importante aspetto. Inoltre parlano contro questo le predicazioni di alcuni veri e propri espliciti sostenitori dell’aiuto divino concreto, come ad esempio il napoletano Don Dolindo Ruotolo (al cui fondamentale aiuto ricorreremo alla fine).
Ed ecco quindi che, nel contesto dell’omiletica cristiana ed ancor più della relativa prassi di guida spirituale all’esistenza, si apre una frattura che appare essere davvero molto grave. Soprattutto perché essa disorienta totalmente il credente. In particolare si delineano a fronte dell’esperienza religiosa sostanzialmente due prese di posizioni canoniche: − 1) quella della retorica religiosa prima descritta, che continua ad affermare l’aiuto divino nel mentre di fatto lo nega e peraltro con molta forza (e tale presa di posizione include predicatori ed apologeti, con l’aggiunta anche delle prese di posizione, dirette o indirette, di monaci e santi di ieri e di oggi); 2) quelle della teologia, che spazza via totalmente tale intera retorica per mezzo di argomentazioni razionalistiche spesso sconfinanti nell’ateismo agnostico e nel totale immanentismo anti-spiritualista. Ma − lo ripeto − a queste due prese di posizione canoniche si contrappongono poi le affermazioni di predicatori (tra i quali anche santi o religiosi in odore di santità), i quali senza alcuna inibizione parlano esplicitamente di un aiuto divino concreto. E tra costoro spicca senz’altro Don Dolindo Ruotolo.
Detto questo, la posizione assunta da Edith Stein in “Il mistero del Natale” appare essere schierata decisamente dal lato della prima posizione canonica, ossia quella che è sostanzialmente retorica e nega con forza l’aiuto divino concreto.
Questo è il quadro generale nel quale si muove la nostra indagine. Ora passeremo ad un’analisi testuale che ci permetterà di allargare queste considerazioni e magari anche tentare di ottenere forse perfino qualche certezza e risposta.
Dobbiamo comunque ancora precisare che, aldilà dei testi di Berdjaev (che sono emblematici per le riflessioni fondamentali che contengono), la scelta degli altri due testi (di Edith Stein e di Getrud von Le Fort) va considerata in qualche modo arbitraria. Dato che esse rappresentano un’apologetica cristiana la cui estensione è sconfinata, e che quindi non è in alcun modo possibile prendere in considerazione integralmente in questa sede. Infine dobbiamo aggiungere che di fatto di Berdjaev analizzeremo qui “Il senso della creazione” (SC) ed alcuni brevi passi di “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], dato che invece “Das Ich und die Welt der Objekte” (DIWO) si occupa dell’esperienza religiosa solo nei termini di una possibile nuova filosofia religiosa. E questo richiederebbe un’altra trattazione a parte, anche se abbiamo già affrontato il tema abbastanza ampiamente nel secondo dei due articoli che abbiamo dedicato alle relazioni tra il pensiero di Berdjaev e quello di Edith Stein [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/%5D.

I- L’aiuto divino sullo sfondo dell’esperienza religiosa in generale secondo Berdjaev.
Berdjaev – entro una parte di suo “Il senso della creazione” (SC) che è un saggio dal titolo molto significativo ed inoltre è dedicato alla memoria di Solov’ëv (grande sostenitore della riforma religiosa in senso anti-immanentista), cioè “Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo” − afferma esplicitamente che la prospettiva unilaterale della salvezza si oppone inconciliabilmente a quella della creatività.
E ciò ha come conseguenza che la prima è in realtà tutta mondana e quindi rende puramente metaforica l’esperienza religiosa proprio in quanto rende non attuale la presenza divina e quindi anche l’aiuto divino, ossia esclude radicalmente l’incidere del Sovrannaturale nel mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1-5 p. 3-30]. In particolare, nel porre appena la possibilità di “opere” mondane per definizione non santificate, in tal modo viene affermato un insuperabile dualismo tra spirito e mondo; specie nel senso che la prospettiva della salvezza apparterrebbe solo al primo ed affatto al secondo. In altre parole (come abbiamo già detto) la dimensione divino-spirituale si presenterebbe come qualcosa che con il mondo non ha assolutamente nulla a che fare. Intanto, comunque, va per lui preso atto del fatto che la mistica cristiana (unitamente ai santi stessi) ha invece sempre postulato esplicitamente l’unione a Dio nell’amore, ossia di fatto la piena possibilità dell’esperienza personale di Dio. E questo significa per il pensatore russo che il tradizionale discorso sulla salvezza è in realtà appena una mistificazione del vero cammino religioso (mistificazione tutta incentrata sulla punizione e non invece sull’amore divino) ed anche una sua profonda corruzione. A tale proposito egli precisa che la prospettiva tradizionalmente cristiana della salvezza non è altro che un “giuridismo” dell’esperienza religiosa (a sua volta erede pieno della religione ebraica in quanto Legge). E tale giuridismo trova peraltro espressione nell’intendimento dell’esperienza religiosa appena come formale vita ecclesiale incentrata nel vissuto dei Sacramenti, con l’esclusione pertanto di qualunque vissuto personale della Presenza divina. E con ciò possiamo certamente intendere l’intervento del Sovrannaturale divino nella vita personale, che a sua volta può poi venire considerato coincidente con il concreto aiuto divino.
In ogni caso tutto ciò comporta anche una serie di altri aspetti che sono secondari rispetto al nostro tema, ma intanto possono contribuire non poco a chiarirlo.
Per Berdjaev infatti la prospettiva della salvezza esprime la totale non-gratuità dell’amore verso Dio, che comporta a sua volta una rinuncia che si aspetta un tornaconto. Al contrario una rinuncia senza aspettativa di tornaconto sembra consistere proprio in quella creatività che trasfigura il mondo. Il che intanto, però, può avvenire solo al prezzo del proprio dolore come espiazione. In altre parole la nuova concezione dell’esperienza religiosa (una volta sottratta all’unilaterale ossessione egocentrica per la salvezza) non esclude affatto l’ammissione della necessità del dolore entro di essa. Anzi addirittura la esige. Ma intanto ciò non esclude affatto la dimensione della relazione personale con Dio da parte del credente. E qui può essere intravista la postulazione di un aiuto divino che si manifesta in particolare nell’affidamento all’uomo singolo di un mandato che consiste nella trasfigurazione del mondo. Non a caso Berdjaev parla continuamente della creatività umana come continuazione della creazione divina [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 135-136, V p. 175-179, V p. 182-185 X p. 303-305].
Quindi il mondo così trasfigurato non sarà più assolutamente quello al quale l’usuale retorica della salvezza (e dell’inautentico aiuto divino) esige che noi ci adeguiamo senza pretendere da esso alcunché di buono, giusto ed amorevole. Questo significa pertanto che l’ammissione dell’aiuto divino non esclude affatto l’accettazione virile e coraggiosa del dolore connesso all’esistere nel mondo in quanto cristiani. Ed il nucleo di tale attitudine sembra essere un amore dell’uomo verso Dio che non esige alcun tornaconto. Pertanto, se l’aiuto divino concreto viene richiesto con la più piena convinzione, ciò significa che nel farlo si mette in contro la necessità di dover intanto soffrire affinché il mondo venga trasfigurato. Il che corrisponde poi ancora una volta al concetto tipicamente berdjaeviano della creatività umana come collaborazione attiva alla creazione, ossia alla sua continuazione. Ma proprio a questo punto possiamo comprendere cos’è esattamente la creatività per Berdjaev. Essa è sostanzialmente amore, soprattutto totalmente disinteressato (e proprio per questo capace di giungere ad essere eroico e sacrificale). Infatti è amore tutto ciò che genera essere (“affermazione dell’essere”), come nell’arte e nella conoscenza. Ma soprattutto è amore l’accettazione dell’altro in quanto essere. Il che avviene però soprattutto su base sovrannaturale e non naturale − io nell’altro riconosco sostanzialmente l’umano-divinità. Si tratta quindi di amore per l’uomo. Questo però comporta un concetto di salvezza molto allargato e riformato in modo da includere tutto ciò che è «altro» (uomo e mondo) − nel senso che io mi salvo solo insieme a te e a tutto il mondo.
E Berdjaev vede il contrario di tutto questo in quell’ascetismo monastico che è invece fatalmente egocentrico. A suo avviso, quindi, sulla base di tutto ciò, il Cristianesimo non è più tale se non aspira alla trasfigurazione del mondo insieme a quella dell’uomo; il che implica poi una crescita spirituale personale che va molto oltre la mera e formale partecipazione alla vita ecclesiale. Ancora una volta ciò corrisponde ad una collaborazione della creatura alla creazione del mondo che però deve implicare qualcosa di letterale, concreto ed attivo, cioè la trasfigurazione spirituale del mondo in forza dell’Incarnazione di Cristo che è lo Spirito stesso. Eccoci quindi di nuovo di fronte all’ammissione del concreto aiuto divino.
In particolare Berdjaev spiega il distacco della Chiesa dal mondo con il suo rifiuto di ammettere l’esistenza reale (ontologica) di una società oltre le anime individuali (singolarità). In particolare la prima viene considerata qualcosa di ontologicamente secondario, ossia una mera creazione umana. E qui va precisato che il pensatore vede nella società il campo di esplicazione della creatività umana per eccellenza.
Ecco che invece, una volta che venga ri-connessa al concetto di salvezza, la piena ammissione della società (ossia della creatività umana) implica per Berdjaev la “cattolicità” (“sobornost’”) della salvezza stessa (nel senso che non ci si salva da soli, ma invece solo entro l’ordinaria esperienza creativa collettiva). Il che poi esige l’ecclesialità ma in una maniera che però non sacrifica affatto la dimensione singolare dell’esperienza di Dio. Infatti la creatività operante nella società privilegia per lui proprio la singolarità in quanto dimensione personale in tutto il suo valore.
Il pensatore denuncia qui l’aderenza della dottrina cristiana ad un piatto e utilitaristico quetismo piccolo-borghese che addirittura finisce per sconfinare in qualcosa di buddhista. E proprio a tale proposito afferma che è ormai indispensabile una consacrazione religiosa del “principio umano” e quindi anche “nuovo monachesimo dentro il mondo”. È insomma il chiaro avallo offerto alla piena legittimità di una prassi dell’esperienza religiosa che sfugga agli angusti limiti della formale esperienza ecclesiale. Non solo, ma questo implica anche la postulazione di un tangibile intervento del Sovrannaturale nel mondo immanente. Dato che Berdjaev ritiene che, affinché tutto ciò sia possibile, bisogna ammettere che “le energie divine” agiscono ovunque nel mondo e che quindi il Cristo è presente (specie “nel suo popolo spirituale”) anche se la sua azione resta invisibile. Ne consegue allora che la dimensione ecclesiale-sociale significa qui tutt’altro che una formalizzazione dell’esperienza religiosa. Essa semmai implica invece espressamente la presenza tangibile del Sovrannaturale nel mondo. E questo non ci sembra affatto lontano dall’ammissione dell’aiuto divino.
Il pensatore precisa a tale proposito che la necessità dello spazio ecclesiale non può venire negata nel contesto religioso (dato che esso circoscrive la creatività umana da quella meramente profana ed atea, che a sua volta è solo distruttiva). Ma accanto a questa presenza è assolutamente necessario postulare anche l’esistere di una creatività deve venire considerata “teofanica”, e precisamente in accordo perfetto con l’umano-divinità quale centro della dottrina cristiana. Tuttavia sta di fatto che l’umano-divinità significa inevitabilmente mondanità e sacralità del mondo, quindi impegno in esso; e specialmente nello sforzo di salvarlo. Scopo che spetta alla Chiesa ma anche ai singoli indipendentemente da essa. E soprattutto non bisogna assolutamente rassegnarsi all’idea che ciò sia impossibile.
Berdjaev sottolinea in tale contesto che anche qui resta senz’altro un elemento di opposizione al mondo, ma non invece al mondo come “cosmo creato”. Con il quale egli intende il mondo trasfigurato dall’azione umana.
Successivamente poi, nell’Introduzione al suo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., p. 39-43] sottolinea ancora una volta l’esperienza religiosa non può venire scissa dalla prova del dolore. Si tratta in particolare di una lotta al male, entro la quale il vissuto di quest’ultimo non può venire né negato né relativizzato. Ma perché questo sia possibile è intanto necessario ammettere che l’esperienza di Dio è necessariamente immanente.
Cosa che impone poi una coraggiosa e rivoluzionaria conciliazione di immanente e trascendente. Quindi l’esperienza del dolore come prova viene calata in questo modo in una certezza di fede che pone il monismo e non invece il dualismo. Ma sta di fatto che è fatalmente dualista proprio quella retorica dell’esperienza religiosa che nega l’aiuto divino nel mentre formalmente lo afferma. E per monismo Berdjaev intende in particolare l’assenza di dualismo tra spirito e carne; il quale va assolutamente negato pur fatto salvo il tradizionale (ma molto astratto) dualismo metafisico spirito-materia. In altre parole insomma il Cristianesimo deve ammettere che la dimensione spirituale può e deve venire vissuta nella carne. E, sebbene il nostro pensatore non arrivi ad affermare questo, è evidente che per questo motivo la carnalità umana va tenuta in debito conto nel concepire l’esperienza religiosa stessa. Il che significa che non è assolutamente possibile intendere la necessità del dolore come prova nei termini di un’ipotetica necessaria ed inoltre integrale partecipazione dell’uomo alla Croce di Cristo; soprattutto se la si intende addirittura come la prova più tangibile che ci sia della presenza e dell’amore di Dio. Ma sta di fatto che proprio questo sostiene la retorica prima menzionata – e lo vedremo in particolare commentando “Il mistero del Natale” di Edith Stein.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che Berdjaev chiarisce che in verità qualunque Trascendentismo rinuncia per definizione alla lotta al male, e pertanto (aldilà di qualunque retorica, per quanto raffinata possa essere in termini omiletici e/o teologici) di fatto si rassegna ad esso. Il che significa allora che il non credere in alcun modo nell’intervento del Sovrannaturale nel mondo implica l’affermazione (però sempre accuratamente occultata) che il male del mondo deve venire semplicemente accettato e sopportato.
Cosa che naturalmente impedisce poi di affermare che Dio starebbe sempre con noi e ci manifesterebbe quindi il suo amore proprio associandoci al suo dolore in quanto Cristo. Tutto questo può invece venire legittimamente affermato solo se si postula che Dio è realmente immanente. E questo Berdjaev lo afferma precisando che Dio è con noi in quanto è presente nella nostra interiorità. Proprio come tale Egli ci concede le forze per superare qualunque esperienza. Nello stesso tempo però questo primato assoluto dell’interiore significa che un Dio esteriore non può venire in alcun modo concepito, pena la necessità di dover ammettere la sua impotenza.
Ciò implica allora che l’aiuto divino potrebbe (sulla base di Berdjaev) venire concepito come quella spiritualizzazione del mondo che consiste esattamente in ciò che l’uomo fa con l’aiuto di Dio – lasciar passare lo Spirito attraverso di sé affinché il mondo venga trasfigurato. Orbene questo comporta senz’altro una lotta eroica (che poi è esattamente la lotta al male). Per cui su questa base si può anche dire che Dio permette la prova affinché noi diveniamo consapevoli di essere capaci di questa sovrumana opera; per mezzo della quale peraltro la nostra esistenza assume un senso, invece di restare insensata per inerzia.
Questo però comporta dei frutti tangibili, ossia mette capo ad una pienezza, e non avviene invece appena in un confuso vuoto retorico pieno di omissioni e contraddizioni. Il dolore come prova, insomma, modifica qualcosa nel mondo invece di lasciare il mondo esattamente com’è. Ma questo è invece esattamente ciò che abbiamo visto accadere entro la retorica prima commentata. Ecco che il dolore come prova, qualora inteso come partecipazione dell’uomo alla Croce (a sua volta supposta prova incontrovertibile di amore divino), implica una totale non produttività dell’esperienza religiosa (in quanto fede nella prossimità divina e nell’aiuto da parte di Dio) che può venire accettata solo se ci si rassegna alla retorica. Il che non può significare altro che lo si dice (ripetendo pappagallescamente una mera e vuota formula retorica) ma in verità non ci si crede affatto.
A tutto ciò va aggiunto anche che Berdjaev sottolinea che la vita spirituale si rivela dinamica per definizione in quanto è invariabile messa in relazione di immanente e Trascendente. Il che implica che la fede è sempre e giocoforza “nascita di Dio nell’uomo” − “Infatti non è solo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma è anche Dio ad avere bisogno dell’uomo”. Ed è evidente che ciò comporta una prossimità tra Dio e uomo che tutto può essere tranne che vuotamente retorica. Infatti, se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo, Egli non può non essere intanto consapevole che l’uomo è un essere di carne. E quindi non può esigere in alcun modo da lui una condizione sovrumana esattamente coincidente con la propria. Il che ancora una volta rende inevitabile che Dio soccorra fattivamente l’uomo (laddove ciò sia davvero necessario) proprio nel contesto del bisogno che Egli ha dell’uomo stesso.
L’ulteriore sviluppo di questo concetto di Berdjaev postula il generarsi di un vero e proprio vuoto entro la realtà creatrice divina originaria, che a sua volta è per lui da considerare come una “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e perfino di bisogno [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. Egli afferma peraltro che proprio il rifiuto delle Scritture cristiane di ammettere una così imbarazzante realtà ha fatto sì che esse configurassero semmai una cosmogonia, ma mai invece una vera antropogonia. Esse insomma non avrebbero mai dato all’uomo il valore che esso meritava proprio in forza della Volontà divina. In ogni caso proprio su questa base noi possiamo postulare la più intima e tangibile possibile prossimità tra Dio e uomo entro l’esperienza religiosa. Infatti quel Dio che ha un disperato bisogno dell’uomo, e quindi ne evoca espressamente la nascita, non può essere altro che quel Gesù che ogni giorno (e nel mondo!) cerca spasmodicamente l’uomo chiamandolo incessantemente da dentro.
Non a caso tutto questo Berdjaev lo sostiene nel contesto di un suo atto di vincolamento dell’esperienza religiosa all’intima relazione tra uomo e Dio nel contesto specifico dell’umano-divinità che il secondo dona al primo nel renderlo a Lui totalmente somigliante. Ed anche in tale contesto vanno ricercati elementi di supporto alla necessità dell’aiuto divino concreto.
Il pensatore russo afferma infatti che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III, p. 127-145]. È evidente quindi che con ciò l’esperienza religiosa si mantiene entro l’ambito del rapporto personale tra l’uomo e Gesù in quanto condivisione dell’umano-divinità nell’amore.
Ma sta di fatto che per Berdjaev la postulazione dell’umano-divinità resta del tutto monca senza l’affermazione davvero piena dell’Incarnazione divina. Ed egli con molte ragioni osserva che quest’ultima è stata sempre molto timida (se non assente) nella dottrina cristiana. Il motivo di ciò è secondo lui che quest’ultima di fatto si è fermata all’affermazione della Redenzione soprattutto in rapporto alla Passione.
Il che poi rende del tutto plausibile e coerente tutta quella retorica pessimistica dell’esperienza religiosa della quale abbiamo parlato. Infatti il pensatore sottolinea che La prospettiva della Redenzione ha evidenziato un solo “aspetto” del Dio incarnato, e cioè appunto quello della Passione. Laddove però ce n’è un altro ben più importante e decisivo, ossia quello della Gloria e della Potenza – è precisamente quello del Dio “che viene e che si manifesterà nella sua gloria”. E si tratta peraltro dello stesso ed unico Cristo, come Uomo assoluto che rivela all’uomo il suo mistero, cioè appunto la divino-umanità quale centro assoluto e primario del credo cristiano ed anche della relativa esperienza religiosa.
Ora, è evidente che questo ci suggerisce un’esperienza religiosa del tutto diversa da quella supposta entro l’usuale retorica omiletico-teologica. Ma a questo punto la prospettiva introdotta da Berdjaev può venire anche ulteriormente riveduta e corretta. È possibile infatti che nell’esperienza religiosa siano inscindibilmente fusi due aspetti, e cioè quella della Redenzione in negativo (Passione) e quella della Redenzione in positivo (Gloria-Potenza). Personalmente siamo infatti convinti del fatto che il Dio incarnato (Gesù Cristo) può mostrarsi pienamente succube della Passione (Croce) solo in quanto sa già di essere l’unico al mondo (in assoluto e senza eccezioni) a poterla sopportare e soprattutto superare (dato che è consapevole di essere integralmente vero uomo e vero Dio). Ed è a nostro avviso proprio quest’ultimo aspetto quello che noi sperimentiamo nella relazione intima con Gesù nella quale l’esperienza religiosa appare essere ciò che davvero deve essere. Quindi non deve essere affatto vero che quando noi soffriamo Gesù se ne sta crocifisso insieme a noi limitandosi in tal modo a sperimentare la nostra stessa impotenza, e assumendo così quell’atteggiamento kenotico che così tanta teologia mistica valorizza al massimo. Evidentemente, invece, nel mentre Egli molto amorosamente non ci umilia nemmeno nel venire in nostro soccorso – e quindi fa mostra di essere paralizzato nella crocifissione esattamente come lo siamo noi uomini di carne −, e nel mentre in tal modo non viola in alcun modo la nostra libertà di accettare o non accettare il nostro aiuto, però scatena silenziosamente ed invisibilmente la Sua Potenza (e quindi Gloria).
E così dispone i mezzi attraverso i quali la nostra eventuale preghiera «di richiesta» venga esaudita – sempre che naturalmente le nostri intenzioni siano pure e la nostra richiesta sia sufficientemente appassionata. È ovvio a questo punto che in via di principio può venire esaudita solo un’invocazione sostenuta da una fede intensa e pura (cosa che ovviamente esclude qualunque strumentalizzazione utilitaristica della Potenza divina); ed è inoltre ovvio che anche questo è rispetto da parte di Dio della nostra libertà. Però ce ne corre molto dal supporre questo al supporre invece che, pur con la fede più intensa e pura possibile, l’esaudimento divino della nostra richiesta sarebbe indiscernibile per definizione (e quindi di fatto non percepibile sensibilmente, laddove nulla vieta poi che esso non ci sia affatto); e questo magari perché lo Spirito divino agirebbe in un tempo incalcolabile ed inoltre prevederebbe perfino un nostro mancato esaudimento nel caso (senza che noi ce ne avvediamo) esso non corrisponderebbe al «nostro vero bene». Ribadiamo ancora una volta che l’uomo è un ente di carne, e quindi non ci si può aspettare che prescinda così facilmente dalla tangibilità dei frutti del suo fedele e fervido affidamento a Dio. E Dio nella sua infinita Sapienza e nel suo infinito Amore non può non essere consapevole di questo. Cosa per cui il Dio del quale si parla nella retorica agente in questi casi non può essere in alcun modo il vero Dio. Esso è semmai ancora una volta un Dio antropomorfizzato, e precisamente un Dio nei cui pensiero viene messa dall’uomo la propria stessa retorica.
Infine noi riteniamo che non si abbia alcun diritto di prendere poco sul serio il dolore umano nella sua massima intensità (se non prendersi addirittura letteralmente gioco di esso). Noi infatti non stiamo parlando qui della preghiera «di richiesta» come qualcosa a cui l’uomo ricorra per puro capriccio, per desiderio di beni terreni, per idolatria, per superstizione o per cose simili. Si tratta invece di un atto che viene spontaneo all’uomo allorquando esso si trova in situazioni terrificanti e senza alcuna via di uscita; situazioni nelle quali con le sue sole forze non potrebbe raggiungere alcun risultato dato che si trova invischiato in circoli viziosi davvero diabolici nel contesto dei quali qualunque azione umana finisce per apportare più male che bene, o almeno non ha alcuna possibilità di incidere positivamente sugli eventi.
Il che è tanto più vero allorquando l’uomo che è vittima di queste situazioni di vero e proprio martirio è un «giusto» proprio in quanto è deciso fermamente ad evitare quegli atti che offrirebbero una facile soluzione al prezzo del dolore delle persone con le quali si trova a che fare. Pertanto queste sono tipicamente quelle situazioni nelle quali l’essere umano in questione ha scelto previamente quella strada dell’etica, della giustizia, dell’amore, della non violenza e della totale dedizione di sé, le quali, escludendo qualunque senz’altro facilissima soluzione egoistica, configurano esattamente i termini di quella radicale scelta libera del bene che sicuramente comporta inevitabilmente il dolore.
E del resto tutto questo Berdjaev lo sottolinea peraltro più volte nel suo commento alla visione di Dostoevskij, ossia il testo CD [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Infatti dallo scrittore russo il nostro desume che la prova della necessità del dolore (entro la vita religiosa e la crescita spirituale) sta proprio nella libertà. Essa infatti determina il destino dell’uomo, e quindi il suo (per definizione) “doloroso errare”. Ecco dunque il (per definizione) tragico ”destino dell’uomo lasciato in libertà”. Questo è il “pathos” della libertà di Dostoevskij. In ogni caso quest’ultimo ritiene anche che esattamente questa è la strada verso Cristo che ci rende liberi. È insomma esattamente ciò che avvertiamo come Presenza divina nell’esperienza religiosa più intensa. E questa è una via incerta e piena di rischi, quindi pienamente esposta all’insuccesso e al dolore (come abisso, tragedia, tenebre). Essa infatti implica il male stesso. In tal modo colui che la percorre, prima di arrivare all’intimità con Dio, “deve provare disillusioni amare e insuccessi nell’amore per gli oggetti corruttibili e indegni”. Questo è allora il motivo per il quale sono necessariamente “cari a Dio” proprio coloro che sono chiamati a percorrere questa terribile strada.
Insomma, almeno in questo senso, bisogna ammettere che in una certa misura entro la più autentica esperienza religiosa si viene chiamati da Dio anche al vissuto certamente severo di una certa astinenza dal suo concreto aiuto. E tuttavia anche per questo è evidente che le situazioni estreme delle quali stiamo parlando, unite alle relative scelte, fanno correre seriamente il rischio di giungere al totale sfinimento, con la conseguenza realistica del definitivo crollo psicologico e spirituale, e forse anche della malattia e morte fisica. A questo essere umano rimangono quindi solo tre vie: − credere disperatamente (e contro ogni evidenza, perfino teologica ed omiletica) nel concreto aiuto divino, oppore rifugiarsi in un egoismo senz’altro sano dal punto di vista terreno-naturale (che con certezza assoluta lo salverà dal deperire e dal perire), oppure infine gettare via la fede in Dio come un orpello non solo inutile ma anche dannoso (specie come un inutile e tormentoso dispendio di preziose energie).
È evidente che qui ci troviamo al cospetto della vicenda di Giobbe, e sappiamo bene quali sono gli eventi ed insegnamenti finali di tale vicenda. Ma, visto come stanno le cose su un piano davvero sobrio e realistico (per quanto comunque animato dalla scelta incrollabile della fede), non è possibile che anche in Giobbe l’agiografo abbia (di suo) aggiunto una certa dose di retorica umana alla più autentica lectio divina (che a questo punto sarebbe ancora tutta da scoprire)? Ebbene forse tutto ciò non è affatto improbabile se prendiamo in considerazione episodi del Vecchio e Nuovo Testamento nei quali invece le cose sono andate ben diversamente, e cioè l’aiuto divino più concreto possibile è arrivato come non accade affatto entro la vicenda di Giobbe. Si pensi dunque alla vicenda dei tre fanciulli nella fornace ardente o addirittura all’episodio ben più storico della liberazione di Pietro dal Carcere Mamertino. Si pensi al grandioso scenario dell’attraversamento del Mar Rosso. Si pensi al concepimento di donne attempate e sterili come Elisabetta moglie di Zaccaria, Sara moglie di Abramo, Rachele moglie di Giacobbe, Rebecca moglie di Isacco, l’innominata moglie di Manoa, Ana moglie di Elcana. Sei donne sterili, dico sei. E che dire dell’assolutamente portentoso concepimento di Maria? E che dire infine dell’infinita serie di malati irreversibili che i miracoli di Gesù guarirono per sempre?
Vogliamo dire che tutto questo è solo agiografia, cioè leggenda, ossia invenzione e bugia? Ma, anche se fosse così, perché mai di punto in bianco la negazione omiletico-teologica dell’aiuto divino dovrebbe essere giustificata ad onta del fatto che le Scritture pongono così tanto l’accento su di essa?
In ogni caso, a proposito di tutto ciò, Berdjaev sta a testimoniare che il fermarsi alla sola Redenzione (con la inscindibilmente connessa unilaterale Passione è del tutto insufficiente proprio perché impedisce di sperimentare la Gloria e la Potenza divine. È vero anche che egli precisa che tuttavia per fare questo occorre comunque l’azione libera dell’uomo, la quale per decreto divino (in omaggio alla creatività umana in quanto sua dignità ed inviolabile libertà) deve essere per definizione rischiosa e cioè aperta a tutti gli esiti. Dunque è vero senz’altro che questa possibilità deve venire attivamente scoperta da ciascuno di noi in sé stesso. Ma dove altro ciò può accadere se non in quelle tremende situazioni senza uscita che abbiamo appena descritto? E dove mai l’uomo potrebbe mai arrivare da solo in queste situazioni se agisse sì in maniera liberamente creativa ma comunque in assenza dell’intervento tangibile della Potenza divina, ossia in assenza del concreto aiuto divino? È evidente insomma che la stessa libera creatività umana (alla quale Berdjaev giustamente attribuisce un valore capitale) è efficace solo nella misura in cui ad essa viene incontro quello che è il più rilevante effetto dell’Incarnazione (una volta presa sul serio davvero fino in fondo), e cioè il fatto che − nel nascere, vivere, farsi martirizzare, morire e poi immancabilmente risorgere – Gesù Cristo ci ha offerto sé stesso non per farci soffrire come Lui (associazione alla Croce) oppure per rendere credibile un mero atto rituale (l’Eucaristia), ma invece solo e soltanto per donarci la Sua Potenza, ossia appunto il più concreto possibile aiuto divino. Dunque, se è vero (in un certo senso) che noi veniamo messi alla prova da Dio in parte in maniera davvero crudele, ciò significa che Egli vuole portarci a riconoscere proprio questo. Tuttavia, perché ciò sia possibile noi dobbiamo divenire sovrumani non nel riuscire a saper soffrire esattamente come Lui, ma invece nel percorrere un cammino di conoscenza ed esperienza che all’uomo di carne è assolutamente impossibile. Dobbiamo cioè superare non solo lo scetticismo del mondo (che include senz’altro le Tenebre che si rifiutarono di accoglierLo, ossia gli uomini che servono Satana), non solo lo scetticismo degli scienziati e dei filosofi, ma perfino anche lo scetticismo dei religiosi. E non i religiosi come seguaci della Legge, ma invece i religiosi come seguaci della Redenzione, ossia quelli cristiani.
Ecco allora che la grande prova alla quale Dio permette che noi soggiaciamo nel dolore e nella sventura mira proprio al fatto che noi giungiamo a credere fino in fondo alla «follia della Croce», ossia alla costatazione secondo la quale «a Dio tutto è possibile». Il che equivale al credere nella possibilità del più concreto possibile aiuto divino.
Getrud von Le Fort ci lascia intravvedere questo laddove parla dell’azione divina come di un “plus” che viene ad aggiungersi all’azione creativa umana; come sarebbe avvenuto tipicamente nell’edificazione della grandi cattedrali gotiche [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934, p. 55-95]
In altre parole possiamo da tutto ciò dedurre che il fermarsi della dottrina cristiana tradizionale alla sola realtà della Redenzione (con l’inevitabile esclusione di quella della Gloria e Potenza) è altrettanto monca (e forse addirittura omissiva, mendace ed ipocrita) quanto lo è quella retorica che nega di fatto la possibilità di un concreto aiuto divino.
Ebbene cosa esattamente Berdjaev contrappone a tutto questo nel suo sforzo di indicare un nuovo genere di esperienza religiosa?
Senz’altro una delle vie è per lui quella di ricorrere alla tradizionale mistica in luogo della teologia, e, aggiungeremmo, della tradizionale omiletica. Egli sostiene infatti che non a caso i vari tipi planetari di esperienza religiosa sono tra loro uguali (pur nella diversità) perché pongono in evidenza la mistica come elemento primario e fondamentale dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 203-209]. Tuttavia egli sostiene che anche la tradizionale mistica deve arricchirsi della creatività. Cosa che pure in questo caso tende a non accadere affatto, dato che la creatività viene dal Cristianesimo considerata attività sacrilega in quanto mondana e legata alle passioni. E quale atto umano può essere considerato più passionale di quello che invoca Dio affinché Egli trasfiguri concretamente la propria esistenza, conducendolo fuori da situazioni senza la minima vita di uscita? Cosa insomma può venire considerato più passionale di questa speranza che non solo il mondo, non solo gli atei, ma perfino anche predicatori e teologi considerano idolatra e blasfemo? E quindi assolutamente indegno di un vero cristiano.
Bisogna insomma far entrare la creatività a pieno diritto nell’esperienza religiosa. Il che è possibile se si ammette l’assoluta originarietà appunto religiosa di essa. Insomma l’esperienza creativa va considerata “spirituale” nel senso pienamente religioso del termine. In effetti solo l’attività porta ad un “radicale mutamento” dell’uomo, senza il quale l’esperienza religiosa è vuota e non ha effetto. Ciò che secondo lui va auspicato è dunque un’”estasi creativa”. Ma a questo punto possiamo ritrovare proprio qui la giustificazione della preghiera come invocazione dell’aiuto divino che trasfigura il mondo per mezzo dello Spirito. Tuttavia, come abbiamo già visto, ciò deve avvenire in modo tangibile, e cioè mondano, carnale ed immanente.
Ancora una volta Berdjaev ci mostra però che, pur nell’ammettere tutto questo, noi non possiamo negare in alcun modo che l’esperienza del dolore sia necessaria nel contesto di una vera e propria prova alla quale veniamo sottomessi da Dio. Infatti la creatività implica un superamento attivo del mondo che come tale tende prepotentemente ad un vero e proprio “altro mondo”, nel mentre intanto si contrappone al quel solo falso superamento passivo che è unicamente deplorevole adequazione al mondo del peccato e della necessità. Con la creatività si configura quindi un effettivo “non amare il mondo” che però è decisamente positivo ed affermativo, ossia è fortemente assertivo. In altre parole esso non è affatto così lontano dal concetto nietzschiano di volontà di potenza. Ma intanto è innegabile che, per com’è il mondo oggettivamente, non può non trattarsi di un dare senso al dolore del mondo. E eccoci dunque nuovamente di fronte a quelle tremende situazioni senza uscita, nelle quali la vittima si sente come un uccello rinchiuso una gabbia di vetro che quindi continua a non far altro che a fracassarsi il cranio nel tentativo inutile di sfondarne le pareti. L’altra metafora valida in questo caso è inoltre quella che vede la vittima di queste situazioni affannarsi per scardinare la serratura di una delle porte chiuse all’unico scopo di poi ritrovarsi nuovamente di nuovo di fronte ad un’altra porta ermeticamente sbarrata. E tutto questo significa allora che l’inesorabilità del karma (di stampo induista-buddhista) è senz’altro reale. Ma non nel contesto di un’esperienza religiosa autenticamente cristiana; il che è però vero solo perché in essa può e deve venire considerato possibile il concreto aiuto divino. E vedremo subito meglio il perché di questo.
Infatti quanto dice Berdjaev ci dice che l’unica soluzione possibile sta nel rifiutarsi semplicemente di restare nel disperante edificio minotaurico del quale si è prigionieri. Cosa a sua volta possibile solo se lo si fa saltare in aria con un unico e possente impeto creativo, il quale di colpo non vuole altro che qualcosa di radicalmente diverso; e lo vuole con volontà inflessibile. Ma intanto la distruzione dell’edificio non può essere meramente fisica. Perché altrimenti essa sarebbe solo una hybris (ingiusta per definizione agli occhi di Dio) e quindi un solo vano annullamento provvisorio del relativo karma, che quindi senz’altro porterebbe alla crescita intorno a sè di un altro labirinto minotaurico. Essa deve invece essere spirituale, e quindi deve consistere nel riconoscere l’illusorietà delle impenetrabili pareti che ci circondano e delle porte sbarrate che si disegnano in esse.
Ed eccoci dunque di fronte a ciò che Berdjaev definisce come la “purificazione per fuoco”. Essa è per la precisione quell’atto che alla fine lascia emergere un’altra natura, o altro mondo, il quale come tale è il contrario esatto dell’adequazione a ciò che c’è già (e che non è affatto “superamento creativo”). Quindi è evidente che tutto questo per definizione richiede un coraggio che consiste esattamente nell’accettazione della purificazione, oltre che naturalmente nella fede incrollabile nel risultato positivo.
Ma ancora una volta a che porterebbe tutto questo in sé così remissivo sforzo eroico-ascetico se intanto ad esso non venisse incontro la Potenza divina in forma di aiuto concreto? Sarebbe appunto anch’esso solo attitudine remissiva, ossia adequazione, e quindi tutto il suo eroismo ascetico non otterrebbe altro scopo che lasciarci nella stessa identica situazione di prima. Accresciuta quindi soltanto della mera illusione di aver superato ciò che invece nei fatti non abbiamo affatto superato. E ciò non è altro che quella banale rassegnazione al dolore che la retorica prima menzionata traveste delle forme totalmente inautentiche che poi rinviano tutte al supposto amore divino che ci manterrebbe apposta entro la prova dolorosa (e senza alcuna prospettiva di soluzione). Ecco allora che anche il dolore come prova in quanto “purificazione” non può venire concepito senza che sia intanto possibile una sua produttività tangibile. Cosa che può avvenire solo per mezzo dell’aiuto divino per il semplicissimo fatto che un essere umano si trova racchiuso in situazioni senza uscita esattamente perché è solo un essere umano, ossia è appena un essere di carne che da solo non potrà mai (in alcun modo) venire fuori da quella situazione. Nemmeno per mezzo della purificazione per fuoco.
Questo discorso di Berdjaev diviene comunque ancora più radicale laddove egli avanza l’ipotesi della genialità del santo e, viceversa, della santità del genio. Cosa che però apre anch’essa una prospettiva del tutto nuova dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 223-227]. Egli ritiene infatti che il genio sia l’uomo creativo per definizione e che inoltre lo sia ancora di più nell’essere santo. Ma intanto registra che
lo spirito vetero-cristiano si è sempre opposto ed ancora si oppone veementemente a questo.
Ebbene per lui in questo genere di santità va riconosciuto il nuovo monachesimo per eccellenza.
E a questo punto diremmo che questa condizione si attaglia perfettamente a quegli uomini che oggi tendono a vivere molto intensamente la relazione con Dio, in uno stato però di totale oscurità ed isolamento, ossia di fatto al di fuori dell’esperienza ecclesiale (anche se essi non la rigettano affatto e non mancano nemmeno di partecipare ad essa nei limiti del possibile). Tanto è vero che quando essi presentano la loro esperienza religiosa agli ecclesiastici tendono a venire snobbati e presi per pazzi, con l’aggravante di dover subire umilianti quanto inutili sermoni. Ma intanto costoro possono vivere questo genere di estrema esperienza religiosa solo se essa produce i suoi frutti per mezzo del concreto aiuto divino.
Altrimenti, a fronte della sterilità della loro esperienza, essi sarebbe fatalmente costretti a ripiegare nuovamente sull’esperienza religiosa più formale, ossia su quella liturgico-precettuale della più esteriore
realtà ecclesiale. Oppure, come abbiamo detto, sarebbero costretti a gettare la fede nel cestino.
Ed infatti non a caso Berdjaev si esprime molto criticamente contro l’esperienza religiosa che resta entro i limiti della più esteriore realtà ecclesiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Egli denuncia infatti che tale realtà è inficiata dal fatto che in essa non vi è stata mai per davvero una piena Rivelazione, dato che ha invece sempre dominato la tensione verso la “città terrena”. Ecco allora che il rinnovamento religioso-cristiano implica ciò che nella storia nemmeno ha mai iniziato ad esistere. Ma intanto, nella sua ardente aspirazione al potere terreno, la Chiesa si è sempre opposta allo spirito creativo difendendo così molto ipocritamente “il pathos della pace eterna”; espressione a sua volta di mera obbedienza che degenera sempre in schiavitù. Bisogna quindi considerare colpevole e superata la stessa dimensione ecclesiale, che nei fatti ha costituito il principale ostacolo all’unione libera dell’uomo con Dio o umano-divinità.
Ed ecco dunque di nuovo giustificata pienamente quell’esperienza religiosa quale relazione diretta con Gesù entro la quale abbiamo poi constato che è indispensabile concepire l’aiuto divino concreto.
Berdjaev denuncia però il fatto che la creatività è venuta a mancare ed ancora manca anche nelle forme non ortodosse di esperienza religiosa, come in quella mistica spuria e popolare che ora è divenuta molto di moda specie nella forma di nuove forme di teosofia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-370]. In particolare, egli dice, ad essa manca del tutto la purificazione. Per questo essa è panteistica e come tale non conosce affatto l’umano-divinità – e così concepisce solo un’unione d Dio in cui la persona umana (in quanto peccatrice) viene annullata (insomma per fare manifestare Dio essa deve svanire totalmente). Qui si assume insomma più che mai che l’uomo possa unirsi a Dio solo scomparendo ossia uscendo di scena. Ebbene certamente anche questo elimina l’esperienza religiosa come contatto con Gesù. Soprattutto perché qui c’è uno svuotamento e sterilizzazione dell’esperienza religiosa, nel senso che ad essa vengono tolti tutti gli aspetti esaltanti dell’incontro con Dio. E tra questi ultimi non può non mancare lo sperimentare il concreto aiuto divino.
Ma sta di fatto che, secondo Berdjaev, le cose non cambiano nemmeno nelle mistiche più tradizionali e ortodosse (che esse siano cristiane o pagane, occidentali o orientali). In particolare egli denuncia il fatto che la mistica occidentale cattolica è assolutamente gelida, non prevedendo in alcun modo la Presenza divina (e teorizzando quindi di fatto l’incolmabile distanza di Dio dall’uomo). La mistica orientale ortodossa, per contro, adombra una tangibile presenza divina ma in una maniera tutto sommato solo timida e tiepida in quanto scontata e formale nel contesto di una pura ritualità. Ecco allora che anche qui noi non troviamo per nulla la pienezza dell’esperienza religiosa. Dunque per lui si può e si deve immaginare una nuova mistica alternativa con non propriamente ecclesiale (almeno sul piano esteriore), e quindi una mistica della davvero diretta relazione con Dio.

II- L’esperienza religiosa vista attraverso la mistica dell’incondizionata “dedizione” (“Hingabe) di Edith Stein e Gertrud von Le Fort. Possibili riflessi sulla possibilità dell’aiuto divino.
È giunto ora il momento di esaminare il testo già citato dal titolo “Das Weihnachsgeheimnis” (DWG), o “Il mistero del Natale”, di Edith Stein, ed inoltre il testo anch’esso già citato dal titolo “Die ewige Frau” (DEF), o “La Donna eterna”, di Gertrud von Le Fort. Pur essendo tematicamente molto diversi, i due libri sono profondamente accomunati da un elemento, e cioè dall’atto di incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che secondo entrambe le pensatrici connota di sé l’esperienza religiosa in maniera quasi essenziale. E più precisamente Le Fort ritiene che questo atto, in quanto tipico dell’essenza spirituale femminile, renda la donna l’essere più religioso che esista. Questa posizione del resto venne in gran parte condivisa anche da Stein nel discorso da lei sviluppato in una serie di conferenze sulla donna che poi è diventato un suo libro postumo dal titolo “Die Frau” (DF), o “La Donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Tuttavia in DWG Stein non tocca questo tema.
Ora si tratta comunque di vedere in che modo il discorso sviluppato in DWG si raccorda con la retorica omiletico-teologica dell’esperienza religiosa che abbiamo descritto introduttivamente. E certamente troveremo specialmente in questo testo degli elementi probanti per questo. Per cui l’analisi di DEF, di Le Fort, sarà sicuramente secondaria.
Conviene partire in questo dall’Introduzione al testo che è stata curata dalla Prof. Hanna-Barbara Gerl.
Qui infatti già ritroviamo in partenza un elemento molto negativo che caratterizza essenzialmente l’esperienza religiosa così come intesa da Stein [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., Einführung, p. 10-40]. Ella dice cioè che uno dei nuclei del discorso steiniano sul mistero del Natale è la “rinuncia alla volontà” (“Willensübergang”), ossia esattamente quanto, entro la classica retorica omiletico-teologica, si presenta come valorizzazione del «fare la volontà del Padre», ossia di Dio. Ebbene ciò avrebbe per Gerl un aspetto chiaro (la deposizione di ogni preoccupazione) ed un aspetto oscuro (la totale perdita di orientamento). In altre parole, se in via di principio la cessione della propria volontà è un cammino chiaro (e quindi configura un aspetto positivo dell’esperienza religiosa), nello stesso tempo però essa fa perdere l’orientamento e quindi precipita nelle tenebre di un Dio totalmente invisibile. Ed in tal modo sfocia fatalmente in un’esperienza religiosa totalmente negativa. Ma sta di fatto che proprio questo costituirebbe per Stein la più piena e tipica partecipazione alla Croce di Gesù, il quale del resto allo stesso identico modo sperimentò un Dio assente.
Comunque, nonostante questa agghiacciante negatività, tutto ciò implica per Stein una
pienezza di senso che viene colta proprio nell’abbandono – e precisamente sia nella piacevolezza che nella spiacevolezza. Ci troviamo insomma qui immediatamente al cospetto di affermazioni che allo stesso tempo negano ed affermano la positività dell’esperienza religiosa, ossia l’effettivo incontro con Dio.
E tutto ciò è ancora più tangibile se si prende atto di un altro fatto messo in luce da Gerl, e cioè che, siccome l’Incarnazione dell’Uno nei molti è totalmente corporale e carnale, e quindi quotidiana, essa implica un restare esposti persistentemente alla Presenza divina (a partire dalla nascita divina in poi).
Ma in che modo? Per mezzo della “luce impietosa” (“unerbittliches Licht”), cioè spietata, che è poi la Presenza divina stessa. Essa è infatti tale perché non accetta in alcun modo che noi restiamo come siamo. Ed eccoci allora di fronte alla tremenda serietà che per Stein è costituita dalla Passione sempre inscindibilmente unita all’Incarnazione.
Dunque impietosità e serietà dell’esperienza religiosa al cospetto della Presenza divina.
E si tenga contro che l’espressione “unerbittliches Licht” fu scelta da Gerl (nel suo relativo saggio) come il lemma che secondo lei descrive sinteticamente in maniera perfetta l’intera vita ed opera di Edith Stein [Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald Mainz 1998]. Questo fu dunque il tono della spiritualità mistica della pensatrice. E questo deve essere stato anche il tono della spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito in maniera totalmente incondizionata. Ebbene dov’è qui la libertà (concessa in dono da Dio all’uomo) che invece Berdjaev ritiene così tanto importante nel contesto dell’esperienza religiosa da rendere necessario affermare (sulla scorta di Dostoevskij) che un bene senza libertà equivale al male? Ed allora queste impietosità e serietà dell’esperienza religiosa devono indurci a pensare che Dio intende essere volontariamente malefico nei nostri confronti – tanto che la Sua Presenza accanto a noi si risolve di fatto nel suo forzarci ogni giorno ad andare oltre i limiti che noi abbiamo per natura (e che non possiamo superare nemmeno volendolo con tutte le nostre forze)? Pur tenendo conto della supposta bontà dello scopo (la perfezione sovrumana dell’umano-divino) ci riesce davvero difficile pensare questo. Tanto che infatti Berdjaev considera la libertà un dono assolutamente incondizionato di Dio all’uomo, e peraltro fatto in modo che Dio tutto può fare tranne che violare la libertà umana (perfino a fin di bene). Non a caso il pensatore russo – come del resto anche Simone Weil [Simone Weil, L’ombra e la grazia, p. 61-63, Bompiani, Milano 2022; Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016] – ritiene che Dio lascia che nel mondo esista il male pur di non violare la libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Dunque le uniche spiegazioni che riusciamo a trovare a queste terrificanti affermazioni sono da un lato la già commentata retorica omiletico-teologica, e dall’altro lato l’antropomorfizzazione di Dio, ossia l’attribuzione a Dio di atti, pensieri, emozioni e scopi che sono unicamente umani (e peraltro nel contesto di un discorso lampantemente lacunoso a causa di una logica sgangherata e piena di contraddizioni).
Ma la cosa diviene ancora più inquietante al cospetto dell’emergere in Stein (qui sempre attraverso il commento di Gerl) di affermazioni di segno totalmente opposto, e precisamente nel senso di una formulazione decisamente positiva dell’esperienza religiosa. E dobbiamo dire, dagli annosi studiosi steiniani da noi condotti, che questa è un’esperienza costante nella lettura dei suoi testi, specie quando essi toccano temi religiosi di grande intensità, profondità ed altezza – all’improvviso, dopo pagine e pagine di affermazioni rigidamente ortodosse, si delineano all’improvviso affermazioni che aprono al nostro sguardo scenari dottrinari assolutamente non convenzionali e perfino molto arditi. Ciò avviene qui (p. 35 della Introduzione) laddove la commentatrice si sofferma sull’espressione “non confessionale” che Stein attribuisce alla Chiesa invisibile, che secondo sarebbe lei insorta già con i primi progenitori umani (Adamo ed Eva) e prolungatasi poi nei primi uomini ed infine nei Patriarchi, culminando infine nei pastori che circondano il Presepe e nei Re Magi. È chiaro comunque che Stein non considera questa Chiesa invisibile come qualcosa a sé, e soprattutto qualcosa che possa sostituire la Chiesa visibile (anzi essa è appena una forma di passaggio verso quest’ultima). Ma poi ella registra un interessante aspetto specifico dell’esperienza religiosa così come si compie nel contesto della Chiesa invisibile – in essa vi è una profonda relazione tra l’anima e Dio (che addirittura nel crescere fa crescere la Chiesa stessa) ed essa esclude specificamente la “struttura visibile” (“sichtbare Struktur”) della Chiesa, da lei definita come mera “amministrazione del religioso” (“Verwaltung des Religiösen”). Ciò che dunque resta è solo e soltanto la presenza di Dio nel singolo. Ma, precisa la pensatrice, quest’ultima comporta l’”istruzione” (“Einweisung”) costante dell’anima che sta in intima relazione con Dio, ossia un vero e proprio aperto «parlare» di Dio all’uomo, e precisamente all’uomo singolo. Non alla Chiesa. Peraltro ella aggiunge che in tale contesto “in gran parte” (“zum grossen Teil”) il “flusso formante” (“gestaltender Strom”) della mistica resta totalmente “invisibile” (“unsichtbar”). E questo tra l’altro ci dà precise informazioni su quella che fu la mistica di Stein stessa, ossia una mistica dimessa, oscura, silenziosa, discreta, non eclatante e quindi molto sottile.
Ma che significa tutto questo? Significa forse che vi è quindi un’appartenenza alla Chiesa (perfino volontaria ed esteriore) che però non rientra formalmente nell’esperienza ecclesiale più istituzionale (confessionale) e quindi esteriore? Ed essa è forse la Chiesa occulta di coloro che hanno un’intima relazione con Dio, ossia quelli che ci sentiremmo di definire come dei veri e propri «santi occulti» e del tutto laici? Realtà che corrisponde poi bene al nuovo monachesimo auspicato da Berdjaev. Ma costoro sono coloro che sono ciò che sono molto spesso proprio perché sono stati sospinti in questa condizione da un acuto e dilaniante bisogno, e quindi si trovano esattamente in quelle situazioni senza uscita che abbiamo costantemente descritto. La loro santità scaturisce intanto dalla scelta rigorosamente etica che essi hanno fatto rispetto al dolore da vivere e rispetto alle altre persone coinvolte in tali situazioni. Cosa che fa di essi chiaramente dei veri e propri martiri. Non ci sarebbe alcun bisogno di dire che proprio costoro dipendono vitalmente dall’aiuto divino per trovare una via di uscita (in sé impossibile) alla situazione in cui si trovano.
Ma, aldilà di questo aspetto, tutto questo significa anche che in verità la Chiesa più autentica sussiste solo e soltanto nella profondità del rapporto personale con Dio. Per cui in verità non è affatto il cristiano a porsi nella Chiesa, ma è invece semmai la Chiesa a porsi nel cristiano. Ecco che la Chiesa esteriore appare essere assolutamente secondaria (in quanto mera struttura, per quanto terrenamente necessaria, ma solo relativamente) rispetto a all’intensità dell’esperienza religiosa che si manifesta nella singolarità. Per cui il Cristianesimo è molto probabilmente primariamente relazione personale con Dio. Cosa del resto provata dalla mistica in larga parte invisibile della quale qui Stein prende debitamente atto. A fronte di ciò osiamo quindi avanzare l’ipotesi che si debba ritornare a questa forma originaria di Cristianesimo ogni volta che storicamente la Chiesa visibile entra in crisi minacciando addirittura di disfarsi totalmente per svuotamento dall’interno. Ed ecco quindi spiegata la sofferenza dei martiri e santi occulti, i quali nella prova del dolore (la purificazione per fuoco della quale parla Berdjaev, ma in questo caso espiazione di peccati non propri) partoriscono una nuova Chiesa.
In sintesi, insomma, potremmo dire che il discorso steiniano apre qui alla possibilità di un’esperienza religiosa incentrata sull’aiuto divino concreto. Ma ciò avviene comunque molto ma molto alla lontana. Come testimoniato dal fatto che le riflessioni da noi fatte al proposito sono in realtà appena delle extrapolazioni ed ipotesi. Restano comunque le ulteriori parti del suo discorso che sono di segno totalmente opposto.
E tali affermazioni vengono immediatamente (sempre nel commento di Gerl) a proposito del prototipo di esperienza religiosa che secondo Stein si ritrova nei Re Magi. In via di principio essi vivono l’esperienza religiosa nella sua massima intensità ed intimità, in quanto chiamati ad uno scambio davvero carnale tra i loro doni (deponendo i quali ai piedi del Bambino, essi si spogliano della loro intera umanità) e la Presenza viva di Dio (che offre sé stesso in cambio di tale atto di rinuncia). Tuttavia, dice Stein (qui ancora per bocca di Gerl) che si esige ancora un successivo ritorno al quotidiano, con l’inevitabile perdita di tutto quanto appena si era conquistato, ossia la prossimità della Presenza divina stessa. Il che dovrebbe significare che l’esperienza religiosa è connotata dal fatto che tale Presenza non è mai durevole, anzi per lunghi periodi di tempo resta totalmente inaccessibile. E su questo non c’è nulla da dire. Chiunque vive l’esperienza religiosa nel modo più intenso possibile (ossia personalmente e non al riparo della tranquillizzante ritualità formale ecclesiale) sa che Dio svanisce per lunghissimi periodi di tempo lasciandolo così totalmente solo.
Perché mai questo? Se lo chiede perfino Stein e ne conclude sbrigativamente che si tratta di un mistero insolubile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 57). E questo dunque può e deve venire accettato. Ma la retorica no! Ed è solo retorica quella che Gerl ci propone qui facendo da portavoce a Stein. Per lei infatti l’evidenza dell’occultamento divino esige da noi la sempre rinnovata fiducia e disponibilità. E questo implica un continuo “errare” (“Wanderung”) nella perenne ed inesausta ricerca di Dio. Intanto, comunque, quello che non ci si può assolutamente aspettare è la “consapevolezza dell’efficacia” (“Bewußtsein des Wirkens”), per cui bisogna semplicemente essere capaci di lasciare tutto nelle mani di chi intanto agisce. E ne conclude addirittura che non è affatto detto che noi dobbiamo sperimentare l’epifania nella nostra vita. Sebbene “la strada maestra” (la prossimità immediata della Presenza divina) è sia e resti lì nonostante del tutto invisibile.
Di fronte a tali affermazioni viene sempre la voglia irresistibile di dire: − «Molto bello! Ma facilissimo a dirsi però difficilissimo a farsi!». E ci riferiamo di nuovo in particolare alle esperienze senza uscita dell’esistenza. Non invece alle frustrazioni ordinarie, per le quali sarebbe follia e blasfemia invocare l’aiuto divino. Ma, aldilà di questo, la domanda pressante è semmai un’altra − «Quello del quale si parla qui è il Dio vero, oppure è appena quello inventato dalla nostra retorica antropomorfizzante?». Insomma, come si può pensare che Dio, nel suo inspiegabile occultarsi, esiga intanto da noi esseri di carne l’incondizionata “fiducia e disponibilità”, esattamente come verrebbe chiesto di fare ai soldati nella caserma in cui si addestrano alla guerra? Come si può pensare che questo Dio esiga da noi addirittura un continuo “errare” senza la benché minima certezza non solo di sperimentare di nuovo un giorno la sua Presenza ma perfino nel totale digiuno di ogni frutto del nostro affidamento a Lui entro le tempeste della nostra esistenza (mancata consapevolezza dell’efficacia)? E come, in tale contesto, si può chiedere a noi esseri mortali addirittura la somma virtù dell’affidamento cieco e totalmente privo di risultati, nel “lasciare tutto nelle mani” di Colui del quale dobbiamo essere fermamente certi che continua intanto invisibilmente ad agire? Siamo insomma di nuovo al teresiano «accettare tutto dalle mani di Dio», pena il dover accettare che altrimenti Egli «ci abbandonerà ad ogni passo». Ma il sommo della provocazione di tali affermazioni sta nella richiesta rivolta a noi (poveri esseri di carne) di essere pronti ad accettare che mai e poi mai vi sarà un’”epifania” divina nella nostra esistenza.
Orbene, è davvero un Padre il Dio che pensa ed agisce così? Costui è davvero Colui che ha detto che un Padre mai e poi mai darebbe ai propri figli pietre in luogo del pane? Sinceramente ci viene spontaneo rispondere di no. E quindi non possiamo concluderne altro che nuovamente qui è all’opera quella insidiosa, arrogante e prepotente retorica (la retorica di predicatori, apologeti e teologi, che pretende a noi comuni mortali di dare saccenti lezioni sulla natura di Dio e sul suo agire), la quale pretende di riconoscere in Dio aspetti che invece sono unicamente umani.
Ed è evidente allora che qui è all’opera un sadismo molto ben mascherato (e peraltro anche questo con sadismo), il quale a sua volta pretende che il masochismo divenga in noi altissima virtù religiosa. Insomma molto meglio sarebbe che costoro semplicemente affermassero che non sanno assolutamente nulla di Dio – come del resto richiesto espressamente da Gesù stesso nell’esortazione severissima a non “scandalizzare” i piccoli. E sinceramente ci dispiace dover coinvolgere in questa accusa anche la nostra carissima Edith Stein. Rispetto alla quale dobbiamo riconfermare quello che abbiamo detto anche per Dio – è davvero possibile che una persona così profonda, sensibile, colta, umile, visionaria, ferventemente religiosa abbia aderito ad una retorica così violenta, becera e falsificante? Come si spiega tutto questo?
Lo vedremo più avanti.
Ma veniamo ora ai suoi testi originali, nei quali è possibile che possiamo anche trovare risposta a queste angosciose domande.
Ed iniziamo dal primo dei testi contenuti in DWG, e cioè “Menschenwerdun und Menscheit”.
Qui Stein sottolinea il fatto che Cristo è da considerate il Capo del Corpo Mistico del quale noi siamo membra [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 50-59]. E come tale esso si comunica a noi come vita divina esattamente come il Bambino fa con le sue mani protese verso chi lo circonda nel Presepe. Attenzione però, ella precisa − questo è solo l’inizio della “vita eterna”, ma non è affatto la “visione di Dio nella Luce della Gloria” (“Gottschauen im Glorienlicht”). Non possiamo dedurne altro che questo – la pur intimissima (addirittura carnale) esperienza religiosa che viene illustrata esattamente nel Presepe non è mai e poi mai piena relazione con Dio. Del resto Stein stessa sottolinea al proposito che nel Presepe il Deus absconditus diviene per la prima volta immediatamente tangibile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 31-40]. A ciò Stein stessa aggiunge però che si tratta con tutto ciò di un’evidente “oscurità della fede” (“Dunkel des Glaubens”), anche se già non è più uno stare in questo mondo, bensì invece nel “regno di Dio” (“Gottesreich”). E precisa che esso è in effetti iniziato immediatamente già con il “fiat” di Maria [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17, p. 33-95, p. 97-157]. Insomma la pur immediata prossimità a noi di Dio nel Bambino, e quindi ormai tangibile Presenza divina, non andrebbe affatto considerata unione a Dio. Ma intanto dovremmo consolarci con il fatto che essa è comunque fede (per quanto oscura) ed inoltre è anche perfino uno stare nel Regno di Dio.
Ma come? Proprio laddove la volontà divina ha voluto rendere possibile l’impossibile, ossia rendere tangibile la sua Presenza, proprio lì non si può nemmeno parlare di intimità immediata con Lui entro l’esperienza religiosa? Ed inoltre dovremmo soddisfare questa fame insoddisfatta accontentandoci di una meramente formale fede (peraltro totalmente oscura) entro la quale dovremmo per di più credere di stare già di fatto nel Regno di Dio? In altre parole in tal modo veniamo rilanciati di nuovo impietosamente entro l’esperienza straziante dell’Invisibile proprio nel mentre ci trovavamo già nel pieno dell’esperienza del Dio visibile. È pensabile un tale sadismo della retorica omiletico-teologica? Ed è pensabile esso che sia frutto dell’amorosa Volontà divina? Ma, oltre a ciò, è possibile affermare tutto questo con totale disinvoltura?
Ed inoltre è possibile affermarlo proprio nella forma deteriore che è stata scelta, ossia nel contesto di una logica che (sebbene applicata ad ineffabili realtà religiose) in effetti fa acqua davvero da tutte le parti?
E si badi bene che qui parla Edith Stein, ossia una che per tutta la vita si era preoccupata dell’inflessibile rigore del pensiero. Come si spiega dunque questo suo improvviso inclinare ad una logica così tanto sgangherata?
Ma le cose divengono ancora più gravi più avanti, laddove Stein perviene al centrale discorso sul «fare la volontà divina» (p. 55-59). In particolare ella considera tale atto il “terzo segno” della filialità divina, laddove i primi due segni sono la filialità stessa in sé (essere “uno con Dio”), la fraternità o carità (essere “uno in Dio”). Questi sono insomma gli aspetti più fondamentali della fede cristiana.
Ebbene, per lei l’essere integralmente figlio di Dio significa andare con Lui mano nella mano, e quindi “fare il volere divino e non il proprio”. Ciò significa in particolare deporre ogni preoccupazione e speranza nelle mani di Dio non preoccupandosi così mai più assolutamente né di sé e del proprio futuro. E questo sarebbe per lei libertà e felicità. Ella riconosce però che queste due attitudini le posseggono davvero pochi, escludendo così perfino coloro che hanno una forte disposizione al sacrificio, ossia coloro che sono pienamente disposti ad offrire sé stessi come olocausto vivente. Anche costoro, insomma, rientrano nell’assoluta maggioranza di coloro che per tutta la vita non fanno altro che camminare curvi sotto i loro pesi. E chiaramente sono coloro che non mostrano la famosa «gioia cristiana».
Sì abbiamo sentito bene – non sono da considerare pienamente cristiani anche coloro che di fatto offrono la propria vita nel contesto di situazioni esistenziali impossibili (senza uscita) affrontando ogni giorno un vero e proprio martirio e peraltro non pensando nemmeno lontanamente a sottrarsi egoisticamente a tali situazioni. E perché? Perché essi non dimostrano l’altra virtù cristiana inscindibilmente legata al «fare la volontà», cioè la gioia nel fare la volontà. Tale virtù conferma infatti pienamente quell’eroismo che a sua volta configura anche in Berdjaev l’elezione aristocratica che contrassegna il vero cristiano [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-326, XII p. 346-349, XIII p. 355-358]. Ma intanto (cristiano o non cristiano) essa mostra i tratti tipici di un vero e proprio ebetismo; peraltro anche nauseante e sdolcinato. E si badi bene che non stiamo affatto affermando questo sulla base del mero senso comune o anche buon senso (la famosa ragionevolezza), bensì sulla base di una fede cristiana che sente il dovere di rigettare con sdegno ogni retorica che osi mettere in scherzo la serietà del dolore che le persone provano nel corso della loro esistenza. Ma quali libertà e felicità nel consegnare la propria volontà a quella divina? Come si può pensare infatti che l’essere cristiano obblighi a sorridere sempre anche se ci si trova costantemente in situazioni che rischiano continuamente di portarci sull’orlo della follia, della malattia, e perfino della morte?
Ebbene, cos’è questo se non sadismo? E come questo sadismo può venire spiegato se non come una mera retorica che necessariamente può avere pochissimo a che fare con il Cristianesimo come religione dell’amore, e quindi con gli stessi insegnamenti di Cristo?
Del resto la Stein appare perfettamente consapevole di questo. E così, nell’invitarci ad essere come “gigli del campo” (secondo l’esortazione di Gesù), prende atto del fatto che per l’usuale buon senso del mondo questa appare come una “follia”, di fronte alla quale si scuote la testa. Eppure la pensatrice conferma pienamente l’ammissibilità di tale follia, dato che proprio qui ella afferma che “deve aver sbagliato i suoi calcoli” (“könnte sich schwer verrechnet haben”), ossia si sbaglia di grosso, colui che ha osato pensare che Dio che provveda davvero ad ogni sua necessità. Vi è forse una smentita più violenta e frontale della possibilità del concreto aiuto divino? E dunque, secondo Stein, predicatori e santi come Don Dolindo Ruotolo (che invece parlava apertamente di tale aiuto e peraltro invitava tutti noi a crederci ciecamente) si sbagliavano anche loro di grosso?
C’è da restare davvero sconcertati di fronte alla così profonda frattura che in tal modo emerge nel cuore dell’intera omiletica e teologia cristiana. E pertanto si è portati a chiedersi da che lato si trovi la verità.
Insomma siamo così di fronte al punto e momento più cruciale (il suo fulcro stesso) della definizione cristiana dell’esperienza religiosa. Ed è evidente che esso consiste nell’ammissione o meno del concreto aiuto divino.
Intanto qui (proprio come fece Teresa d’Avila) Stein ci esorta ad essere pronti a prendere dalla mano di Dio qualunque cosa venga. E questo perché solo Lui “sa cosa è bene per noi”, incluso bisogno, spoliazione e insuccesso. Eccoci insomma di fronte alla più aperta e chiara forma della retorica che abbiamo descritto e deplorato all’inizio. Ma di nuovo si è spinti a chiedersi se davvero si può pensare e dire una cosa simile in nome di Gesù. Appare invece molto più probabile che Gesù non c’entri nulla con questo, e che quindi si tratti appena di una retorica umana mimetizzata da ispirato discorso religioso.
Tanto più per il fatto che qui Stein impietosamente continua a rincarare la dose. Ella dice infatti che in
questo senso il “sia fatta la Tua volontà” deve venire considerata una regola generale, ubiquitaria e persistente di comportamento per il cristiano: − essa deve regolare la sua intera vita. Dunque questa deve essere l’”…unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre se le prende il Signore su di sé. Ma intanto questa unica resta a noi per la vita intera”. Il che significa che, anche come cristiani, noi non siamo affatto “assicurati per sempre”. E quindi ognuno di noi cammina sempre sul “filo di rasoio (“Messers Schneide”) tra il “nulla” (“Nichts”) e la “pienezza” (“Fülle”) della vita divina.
Ciò significa insomma che l’esperienza religiosa andrebbe intesa proprio come vissuto contemporaneo e misto di nulla e pienezza.
È di nuovo insomma una frontale smentita del concreto aiuto divino; unita peraltro al solito insopportabile (logicamente sgangherato e pochissimo autentico e credibile) dire e non dire, affermare e negare. Ma intanto, posto che abbiamo già chiarito che è ammissibile invocare l’aiuto divino solo in situazioni estreme e quindi serissime, dove sarà allora la “pienezza” della quale qui Stein blatera? Evidentemente da nessuna parte per il santo martire che si trova in quelle condizioni. E quindi – pur con tutto questo florilegio omiletico-retorico – a questo poveraccio non resterà altro che rassegnarsi al solo “nulla”. Dato che qui della pienezza non vi è alcuna traccia. Ecco di nuovo che la montagna partorisce il topolino, e così l’intera retorica finisce per risolversi nell’esortazione a rassegnarsi al dolore senza via di uscita, senza poter più nemmeno lamentarsi di questo.
Eppure Stein precisa che sta esattamente qui il punto di passaggio tra la fede infantile a quella adulta. Infatti per lei solo nella prima ni sperimentiamo almeno per un po’ una mano sicura e forte. Ma poi, come lei dice, “non sarà sempre così”. E dire che proprio lei aveva visto in Dio quel Fondamento di essere che funge da forte “braccio” che immancabilmente salva noi enti finiti dalla minaccia costante di sprofondare nel nulla [Edith Stein, Endliches…cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113]. Ma qui ella sostiene che, nel contesto di una fede adulta, noi dobbiamo invece rinunciare a questo Braccio forte in quanto mano che guida, e quindi dobbiamo accettare che la nostra fede implica inevitabilmente l’associazione all’esperienza della Croce.
E qui ci troviamo di fronte ad un altro tipico elemento della retorica introduttivamente commentata – quello secondo il quale l’esperienza religiosa cristiana implichi necessariamente la nostra associazione all’integrale esperienza della Croce. Laddove in questa idea si trascura la lapalissiana constatazione che Dio non avrebbe mai scelto volontariamente di sottomettersi allo strazio infinito dell’essere «uomo» se avesse saputo che l’uomo sarebbe stato capace per definizione di sopportare la stessa incommensurabile dose di dolore che egli ha sopportato come Cristo, ossia come pieno Dio-Uomo. È evidente inoltre che Dio in quanto Gesù Cristo è stato capace di sopportare questo insopportabile ed immane strazio solo perché in fondo a sé stesso sapeva di essere un dio, e che quindi tutta quella che Lui ha vissuto sullo sfondo non era che una pantomima, sebbene con tutti i caratteri della realtà (nessun escluso). Ma Egli intanto sapeva esattamente che a questa pantomima (che poi è l’illusoria commedia della morte che viene messa costantemente in atto da Satana) invariabilmente sarebbe seguita la Sua Resurrezione dai morti e il Suo ritorno alla Gloria della condizione divino-celeste.
Pertanto, nel contesto di una logica di tipo religioso, è assolutamente ridicolo pensare che l’uomo possa davvero condividere integralmente la realtà della Croce – per quanto santo possa essere! E pertanto è evidente che chi lo pensa (inclusa purtroppo la nostra carissima Stein) non è altro che uno psicotico (oltre che un indegno antropomorfizzatore).
Ebbene noi riteniamo che stiano proprio qui le risposte alle domande che spontaneamente sorgono di fronte alle affermazioni di tutta questa retorica della necessaria associazione dell’uomo all’esperienza della Croce − è davvero possibile pensare che il partecipare alla vita divina coincida con il vivere solo soffrendo?
È davvero possibile e sano sostenere questo? E queste domande senz’altro ci riconducono all’insidioso rischio insito nella condizione mistica, ossia quello di scambiare i propri deliri per sublimi pensieri religiosi.
Cosa che, a quanto pare, non ha escluso nemmeno Stein ed inoltre l’intera spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito, e che mostra le sue forme proprio in queste affermazioni.
A quanto prima detto la pensatrice aggiunge comunque qui la costatazione che il dolore non è nulla di fronte all’esperienza terrificante della notte oscura. Ma, ella precisa, sta di fatto che la notte oscura è un altro (ed ancora più fondamentale) momento della nostra partecipazione alla vita divina; in particolare della divinità come liberazione, cosa che avviene solo attraverso il dolore. E questo perché la partecipazione alla vita divina è (dopo l’Incarnazione) anche partecipazione alla vita umana di Dio, nella quale Egli ebbe la possibilità di “soffrire e morire”.
Eccoci insomma di fronte ad un’altra affermazione inaccettabile per l’uomo che si trova pienamente immerso nell’esperienza del dolore come prova (in quanto situazione seria, straordinaria e senza uscita).
Ed ancora una volta Stein sembra pienamente consapevole di questo. Ella afferma infatti che naturalmente per la “ragione naturale” questa è chiaramente “perversione”. Ma aggiunge che invece non è così nella “luce della Liberazione”, nella quale tutto questo si rivela come la “più alta ragione” (“höchste Vernunft”).
Ebbene questo ci dimostra che, nel corso della fase mistico-monastica e contemplativa della sua opera,
ella non seguiva già più la ragione naturale ma invece solo una ragione superiore, ossia un discorso chiaramente iper-razionale. E di questo va preso atto nel corso della comprensione del suo pensiero in fase mistica.
Ma intanto la più alta Ragione divina sarebbe quella che avrebbe spinto Dio ad incarnarsi e soffrire solo a condizione che anche noi soffrissimo insieme a Lui? Inoltre ciò sembra voler implicare anche il dovere di resistere perfino nella sensazione di essere stati totalmente abbandonati da Dio. E questa sarebbe liberazione? Ed inoltre addirittura liberazione dall’assolutamente irresistibile pressione del bisogno e da quello dell’istinto di sopravvivenza? Tutti elementi che Dio sa perfettamente essere così profondamente insiti nella natura umana da non poter venire in alcun modo ignorati o eliminati. E forse la “preveggenza divina” (della quale qui Stein parla espressamente) aveva previsto il proprio martirio nel mentre intanto sapeva che questo sarebbe stato liberante soltanto con tutta la zavorra di questi così gravi limiti?
No! È davvero impossibile pensare tutto questo. Perché questo contraddice davvero frontalmente la logica unilateralmente amorosa ed unicamente auto-sacrificale dell’Incarnazione. Pertanto non si può concluderne altro che, entro questo ragionamento, vi devono essere delle gravi lacune logiche che (volutamente o non volutamente) ci si rifiuta di riempire. E questo a sua volta non può essere spiegato da altro che dal fatto di aver abbracciato acriticamente una retorica preformata e rigidamente canonica.
Cosa che per Stein è così sorprendente da lasciare il suo studioso davvero di stucco.
Ma passiamo ora al secondo testo steiniano presente in DWG, ossia “Verborgenes Leben und Epiphanie” (“Vita nascosta ed epifania”) [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., II p. 67-77].
E qui emergono nuovamente in Stein (in maniera di nuovo sorprendente, visti anche i passi appena commentati) dei possibili elementi positivi nella concezione dell’esperienza religiosa – specie come intima relazione personale con Dio.
La pensatrice constata infatti che tutte le persone coinvolte (direttamente o indirettamente) nello scenario del Presepe (Maria, Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, i Re Magi) avevano vite separate, e precisamente nel contesto di una relazione assolutamente solitaria con Dio. Solo che non sapevano di rientrare anche così in una realtà comune, che poi corrisponde al piano divino; elemento che è stato del resto sempre presente nel pensiero steiniano. Per questo, ella dice, al cospetto del Presepe noi ci troviamo davanti ad uno scenario davvero grandioso: − caratterizzato soprattutto dai Pagani (Re Magi) per i quali da Giuda doveva venire la salvezza. Ed essi rappresentano così “i cercatori” di Dio che sono ovunque nel mondo, aldilà di tutte le specifiche religioni e relative Chiese istituzionali.
Ma ciò significa che costoro sono il prototipo di coloro che sperimentano una del tutto pura ed incondizionata “aspirazione” (“Verlangen”) alla verità. La quale evidentemente non conosce confini né limiti di sorta. E questo accade perché “Dio è la Verità e vuole farsi trovare da coloro che la cercano con tutto il cuore”. Questo è insomma, entro la simbologia del Presepe, ciò che accade per mezzo della Stella che mostra la strada.
Ebbene di nuovo ci ritroviamo in tal modo al cospetto di una concezione dell’esperienza religiosa che è caratterizzata dalla singolarità (dell’esperienza di Dio) e che inoltre è di altissimo livello non solo religioso ma anche filosofico, dato che ne va dell’incontro con la Verità per eccellenza. Ma esattamente in tale contesto emerge la constatazione che Dio vuole a tutti i costi venire trovato; il che richiama l’idea berdjaeviana secondo la quale Dio ha un bisogno spasmodico dell’uomo. Ora, una volta posto questo, si può ancora per davvero sostenere che Dio esiga dall’uomo una fede che consiste unicamente nell’esperienza dell’Invisibile, e quindi escluda rigorosamente qualunque frutto tangibile dell’esperienza religiosa, ossia ancora una volta il concreto aiuto divino?
Ma con ciò abbiamo ultimato l’analisi di DWG.

Giunti a questo punto il testo di Le Fort (DEF) ci offrirà solo pochi contributi, dato che, come abbiamo detto, esso si occupa solo marginalmente dell’esperienza religiosa. Cosa che peraltro può venire ridotta entro i termini di quella incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che è tipicamente femminile, ma nello stesso tempo fa da paradigma per la corretta relazione con Dio per qualunque essere umano.
Infatti Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17] afferma che Maria è da considerate il «religioso» stesso per eccellenza, specie in quanto primaria manifestazione del religioso, attraverso il quale Dio viene venerato.
Il che si giustifica con il fatto che solo il femminile (in quanto capace di illimitata ricezione) può esprimere in pieno la dimensione religiosa in quanto esperienza umana del divino.
A ciò Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 95] aggiunge che i moderni deplorevoli fenomeni del distacco del femminile dalla propria simbologia intensamente religiosa (ossia dalla propria vera natura) vanno di pari passo con il fenomeno della separazione tra uomo e Dio che è avvenuto nella società (in gran parte per il prevalere di unilaterali valori maschili sulla invece necessaria stretta collaborazione tra uomo e donna). E la tragica conseguenza di ciò è stato secondo lei lo spostamento della relazione tra uomo e Dio (ossia la stessa esperienza religiosa) in direzione della Fine dei Tempi. Il che equivale poi all’intendimento dell’esperienza religiosa unicamente nel contesto di una prospettiva apocalittica. Infatti quest’ultima si è di fatto sostituita a quella pienezza dei tempi che invece è sempre solo attuale ossia storica. In definitiva, dunque, la relazione con Dio è stata spostata alla fine, e quindi non viene più vissuta attualmente, come invece si potrebbe e si dovrebbe. Ciò significa allora che – come del resto ha sostenuto Guardini [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585] – se nella storia non vi è traccia del Regno dei Cielo questo è solo frutto della nostra responsabilità, ed inoltre significa anche che tutto ciò non sarebbe avvenuto se la Donna non solo avesse continuato ad essere fedele alla sua vera natura, ma inoltre, proprio su questa base, avesse continuato a costituire il paradigma massimo dell’esperienza religiosa per mezzo della figura della Vergine Maria.
A ciò va comunque aggiunto che Le Fort considera il “si” (o “fiat”) tipicamente femminile-mariano come una forma di collaborazione dell’uomo alla creazione che ci ricorda quanto abbiamo già visto in Berdjaev [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 18-29, p. 33-95, p. 97-157].
Tutto questo non ha certo relazione con il nostro specifico tema dell’aiuto divino. Ma comunque l’attualità storica del Regno dei Cieli contraddice anch’essa un’esperienza religiosa che (nel contesto della retorica introduttivamente commentata) si incentra unicamente su un vissuto totalmente negativo del divino, sia pur mascherato sotto confuse, contraddittorie ed inautentiche (se non menzognere) formule omiletico-teologiche che vorrebbero convincerci della sua positività.

Conclusioni.
Giunti a questo punto è ormai necessario trarre delle conclusioni dall’intero discorso.
Abbiamo davanti a noi due parti di un unico discorso, ossia il discorso che (direttamente o indirettamente) concerne l’esperienza religiosa in quanto relazione tra uomo e Dio. Abbiamo visto che essa può venire intesa in diversi modi, ed abbiamo però anche visto che, nel contesto della tradizionale dottrina cristiana, si rilutta fortemente (e per vari motivi) in primo luogo a considerarla un’esperienza anche strettamente personale e quindi intima (oltre che collettiva ed ecclesiale) ed in secondo luogo a considerarla un’esperienza produttiva, ossia capace di mettere capo ad un concreto aiuto divino.
Intanto il pensiero di Berdjaev ci ha fornito molti elementi per considerare l’esperienza religiosa in una maniera che renda plausibili entrambi questi due intendimenti. Ma abbiamo anche visto che ciò a suo avviso non può avvenire se prima non vi è un profondo rinnovamento della dottrina e prassi cristiana, che egli sintetizza come “nuova Rivelazione” e che consiste in definitiva in una sorta di finora mai avvenuta “rivelazione antropologica” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Quest’ultima consiste a sua volta nella dichiarazione dell’inalienabile dignità dell’uomo in quanto ente pienamente umano-divino, e quindi necessariamente in intima relazione con Dio. Ed è evidente che tale scenario non solo è tutto di là da venire, ma inoltre non si può assolutamente essere certi che esso un giorno davvero si delineerà davanti al nostro sguardo. Questo significa allora che attualmente abbiamo solo alcune possibilità a disposizione, e tutte peraltro estremamente negative, rispetto alla concezione cristiana dell’esperienza religiosa: − rassegnarci tristemente al dominio della retorica omiletico-teologica che prima abbiamo descritto e deplorato, abbracciare l’immanentismo scettico e tendenzialmente ateo dei nuovi teologi cristiani, oppure addirittura dire addio alla fede cristiana più canonica nella costatazione che essa non intende in alcun modo permetterci un’autentica esperienza di Dio. E a questo punto ci resteranno solo altre due alternative: − professare una fede cristiana tutta nostra, oppure abbandonarla del tutto.
Ma, per l’uomo che ci trova in quelle tremende soluzioni senza uscita delle quali abbiamo parlato, questa ultima possibilità equivale ad abbandonare ogni speranza di uscirne nella giustizia e nell’amore, essendo così costretto ad uscirne solo nell’egoismo e nella violenza, oppure essendo costretto a gettare la spugna ed abbandonarsi del tutto alle soverchianti forze negative che gli si oppongono, offrendo così il capo alla loro affilata scure.
Tuttavia tale scenario diviene ancora più oscuro se teniamo conto del fatto che una pensatrice intensamente religiosa e mistica come Edith Stein sembra aver accettato senza troppe difficoltà la prima tra le soluzioni negative che abbiamo poc’anzi indicato, ossia la via della mera retorica. Ed in essa abbiamo constatato in particolare il sussistere di un discorso che non regge assolutamente nel contesto di una logica del tutto sgangherata (lacunosa, piena di contraddizioni e fortemente sospetta di omissioni, reticenza e mendacia) sia pure molto attenta alle caratteristiche specifiche della fenomenologia religiosa. Proprio a causa di quest’ultima noi veniamo costretti ad accettare un’esperienza religiosa che può venire considerata positiva solo con un immenso sforzo di immaginazione, e peraltro non senza una cieca obbedienza. Il che poi, una volta trasportato sul piano di quelle tremende situazioni senza uscita (delle quali abbiamo più volte parlato), ci obbliga di fatto a rinunciare a qualunque possibilità di un concreto aiuto divino in quanto mera illusione. Cosa che poi (come abbiamo detto poc’anzi) ci precipita nel profondo di un’esperienza religiosa nel contesto della quale, nel mentre siamo totalmente abbandonati alla solitudine ed all’impotenza, o abbracciamo anche noi la retorica omiletico-teologica per pura disperazione (e quindi senza la benché minima speranza) oppure ci rassegniamo all’ineluttabilità dell’esperienza che stiamo vivendo in tutta la sua crudezza. Cosa che ovviamente ci renderà molto difficile, se non impossibile, conservare la fede.
Ebbene, di fronte ad uno scenario così oscuro e desolante ci possono venire in soccorso solo due elementi – la speranza che gli auspici di Berdjaev davvero un giorno trovino realizzazione, e la costatazione che forse una pensatrice come Stein (nello scrivere un’opera come DWG) non ci abbia detto tutto quello che pensava, sentiva e sapeva. Ed abbiamo visto che nel contesto del suo discorso non mancano (per quanto siano molto flebili e timidi) dei segnali che suggeriscono tale ipotesi.
Dunque cosa può essere mai accaduto nel pieno della retorica omiletico-teologica così com’è stata vissuta e pensata da una pensatrice e mistica come Stein – sulla cui onestà, purezza, profondità spirituale e potenza intellettuale è davvero difficile nutrire dei dubbi?
Può essere solo accaduto che, così come ella si era sottomessa di fatto ad una necessaria rinuncia sacrificale pressoché completa all’atteggiamento attivo-assertivo che la filosofia avrebbe potuto consentirle, allo stesso modo ella si sia sottomessa ad un altro atto di rinuncia, che probabilmente è consistito nella scelta (profondamente motivata) di abbracciare in maniera davvero radicalmente incondizionato la spiritualità carmelitana alla quale ella dovette aderire nel varcare per sempre la soglia del Carmelo di Köln; ed ancor più la soglia di quel Carmelo di Echt che poi la condusse al pieno compimento della sua decisione di offrirsi come vittima per l’espiazione dei peccati del mondo. È solo pensando questo che le sue affermazioni riconducibili alla natura dell’esperienza religiosa cessano di essere scandalose ed inaccettabili, e cessano quindi di indurre in noi un moto di profonda indignazione. Ciò significa dunque che probabilmente noi non dobbiamo guardare tanto ai contenuti del suo discorso, ma dobbiamo invece guardare al loro sfondo profondo e nascosto. Che corrisponde esattamente poi a quelle sue radicali scelte che furono insieme religiose ed esistenziali.
Ma quali possono essere state le motivazioni profonde di una scelta di rinuncia così dura?
Ebbene possiamo comprenderlo nel mentre ricolleghiamo la sua scelta monastica al quella che fu la natura più autentica della sua mistica. Esaminando infatti DWG abbiamo constatato che in esso la mistica steiniana si presenta in un aspetto molto dimesso, discreto, poco ambizioso che quindi fa di essa una mistica per nulla rigogliosa (come lo fu invece quella di Teresa d’Avila e Juan de la Cruz, i quali pure furono per lei punti di riferimento esemplari). E questo potrebbe significare allora che, così come la sua stessa scelta monastica, anche perfino la prassi mistica restò per lei sempre sottomessa (e quindi del tutto secondaria) al ben più primario aspetto della sua previa e primaria scelta di offrire sé stessa in olocausto. Il che spiegherebbe per un’altra via anche il perché della sua sottomissione incondizionata alla spiritualità carmelitana con tutto il suo inflessibile rigore quasi militare. A mo’ di esempio ricordo al proposito al lettore un fatto del quale veniamo a sapere mediante le sue lettere, e cioè che al tempo in cui ella entrò in convento la Regola carmelitana proibiva severamente qualunque forma di riscaldamento degli spazi, motivo per cui tutte le monache andavano soggette a malattie respiratorie anche gravi [Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015, lettere 299, 300, 334, 572, 654, 684, 692). Questa assurda prescrizione fu poi abolita, ma pare che intanto Stein ne abbia sofferto moltissimo, essendo costretta nella sua cella a correre ai ripari coprendosi e riscaldandosi con mezzi di fortuna.
Dunque tutto ciò getta una luce non indifferente sulla retorica alla quale ella si rifà nel descrivere i tratti fondamentali dell’esperienza religiosa. Sembra quasi, insomma, che ella si sia volontariamente sottomessa al compito di affermare cose (ed anche di farle) nelle quali però molto probabilmente nemmeno credeva fino in fondo – e tuttavia con fini che abbiamo visto essere non solo nobili ma perfino sublimi. Sta di fatto che però tali fini erano, dal suo specifico punto di vista, inconfessabili per pudore e discrezione, dato che ella aveva fatto le sue così radicali scelte unicamente nel segreto del proprio intimo ed in privata relazione con Dio. Ciò può venire dimostrato dalla frase, citata da Gerl, che ella pronunciò quando le fu chiesto come si sentisse mentre veniva trasportata verso Borken e poi verso Auschwitz: − “Mein Geheimniss gehört mir”, o “Il mio segreto appartiene solo a me” [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 7-19]. E questo spiegherebbe bene anche le oscillazioni del suo discorso, tra l’affermazione della rigorosità tutta negativa dell’esperienza religiosa ed invece l’apertura ad i suoi aspetti positivi. In sintesi il rigore negativo dell’esperienza religiosa descritta e raccomandata da Stein appare essere molto più relativo che non assoluto – e più precisamente relativo alla sua tutta personale via al divino, via che lei stessa aveva autonomamente scelto e che evidentemente le era stata concessa da Dio. Senza però alcuna intenzione (da parte di entrambi!) di farne un modello obbligatorio e valido per tutti. E questo senz’altro vale anche per la così rigorosa e spietata spiritualità carmelitana di tipo senz’auto-mortificante se non (da un certo punto di vista) sado-masochista.
Essa può essere effettivamente così in termini oggettivi. Ma evidentemente esistono anime che non possono arrivare a Dio se non per questa via. Il che però non significa affatto che tale via a Dio debba venire descritta come l’unica possibile.
Ma comunque tutto ciò significa allora che le così possenti ed autorevoli esortazioni steiniane ad un’esperienza religiosa integralmente sacrificale (fino al punto di renderla totalmente negativa, una volta che essa venga spogliata di ogni retorica) vanno prese appena come rinvio alla decisione auto-sacrificale che ella intanto aveva preso. Il che però significa che esse sono valide solo relativamente a questo, e non invece in assoluto.
In definitiva insomma sembra che noi non siamo affatto chiamati a prendere come insegnamenti vincolanti le indicazioni che Stein ci da circa ciò che dovrebbe essere un’autentica esperienza religiosa. Il che poi esautora totalmente, ma per una via alternativa, la tradizionale retorica omiletico-teologica.
E dunque, su questa base – sebbene restando comunque orfani di una guida autorevole che ci possa confortare nel nostro intendimento dell’esperienza religiosa (dato che le inattuali considerazioni di Berdjaev restano comunque insufficienti in quanto assolutamente non attuali) – noi potremmo ora ritornare a percorrere da soli il cammino che speriamo possa portare alla concezione di un’esperienza religiosa entro la quale sia pienamente lecito aspettarsi il concreto aiuto divino.
A questo punto, dunque, non ci resta che rivolgere la nostra attenzione agli scritti di Don Dolindo Ruotolo, che abbiamo in questa indagine solo vagamente menzionato senza però poterne trattare per il semplice fatto che conosciamo solo alcune sue isolate affermazioni, ma non invece tutto ciò che ha scritto. Ma sta di fatto che questi libri ci sono, e quindi possiamo citarne anche i titoli: − “Gesù pensaci tu”; “Don Dolindo Ruotolo e gli spiriti celesti” (a cura di Marcello Stanzione e Carmine Alvino); “Atto di abbandono. Mio Dio confido in te!”; “L’Immacolata nella vita di Don Dolindo Ruotolo”; “Don Dolindo sull’altura delle beatitudini” (a cura di Pasquale Rea); “Don Dolindo Ruotolo nei piani di Dio” (a cura di Pasquale Rea).
E quindi l’esame di questi scritti potrebbe essere l’oggetto di una nostra prossima indagine.
Restano comunque intanto lo sconcerto e l’amarezza del credente al cospetto di uno scenario religioso-cristiano nel quale sembra che si tenda a fare (e peraltro con ostinazione e forse perfino con protervia) l’esatto contrario del supportare l’uomo comune nella sua fede vissuta. In altre parole, nell’esortarlo alla fede in Dio, intanto si fa di tutto per togliergli il pane, ossia la speranza in un concreto aiuto divino entro le più gravi avversità. Ed abbiamo visto quanto forte possa essere il contributo di questa prassi all’abbandono della fede da parte di un numero sempre più grande di persone. Infatti, per come siamo fatti noi uomini, l’esperienza di Dio o è tangibile, concreta, realistica, credibile e trasparente (sebbene nel rispetto della sua natura spirituale e non materiale), oppure finisce per diventare una favola se non addirittura una barzelletta. E ci sembra che questo sia esattamente quanto è accaduto nelle nuove generazioni. Le quali ormai, smaliziate come sono, guardano alla fede solo con un atteggiamento di divertita commiserazione piena di scherno.
Che sia anche questo un altro segno dell’odierno potente operare dell’Anticristo non solo nel mondo ma anche nella Chiesa stessa?