In questo scritto vorremmo esaminare criticamente il valore oggettivo che ha l’attuale scienza della Religione (ed anche il ruolo che essa svolge) nella specifica forma che essa ha assunto negli ultimi decenni. Essa si è trasformata infatti in un intenso dibattito critico (svolto soprattutto per mezzo di articoli più che non di libri) che è del tutto simile a quello che da molti secoli ormai si svolge nel campo della scienza empirica, ossia la scienza della Natura. Anche in Religione è insorta quindi quella famosa «letteratura» (basata sul confronto critico tra autori per mezzo della produzione a ciclo continuo di articoli scientifici) dalla quale la Scienza si aspetta il continuo incremento delle conoscenze ed ancor più la verifica del loro valore per mezzo della costante verifica esercitata entro la cosiddetta «comunità scientifica».
Molto coerentemente, quindi, le questioni teologico-religiose vengono ormai dibattute unicamente su un piano scientifico-empirico e non più invece sul tradizionale piano filosofico e/o metafisico. In altre parole la Scienza ha assunto l’assoluto dominio in e sulla Teologia. Essa però si presenta in una forma ancora almeno apparentemente filosofica, e cioè quella della cosiddetta «filosofia analitica della religione», ossia una forma di Filosofia che intanto si è però ormai assimilata totalmente alla Scienza, tanto che anch’essa ne ha fatto totalmente propri i metodi. Infatti essa procede ormai per argomentazioni basate totalmente sulle evidenze scientifico-empiriche, che intanto vengono via via ottenute per via sperimentale. L’esperimento scientifico è dunque diventato di fatto la fonte stessa delle argomentazioni filosofiche, tanto che vengono considerate illegittime tutte le idee (e relative argomentazioni) che non hanno come base delle evidenze sperimentali. Non è difficile immaginarsi quale possa essere l’impatto devastante di tutto ciò sul piano della Teologia, dato che gli oggetti di conoscenza di quest’ultima sono per definizione privi di qualunque evidenza (non solo sperimentale, ma perfino sensibile). Eppure, ormai in preda ad un imbarazzo incoercibile di fronte alla potenza e dignità assunta dalla scienza empirica (simile a quello in quale da tempo è in preda anche la filosofia stessa), la Teologia ha accettato integralmente e senza remore questo approccio. E ciò avviene ormai appunto per mezzo di quella filosofia analitica della religione le cui evidenze provengono ormai quasi totalmente dalla scienza cognitiva, cioè la scienza sperimentale della mente (di fatto si tratta della neuro-fisiologia). Dunque la scienza cognitiva ha ormai preso totalmente il posto perfino di quella filosofia della mente (e relativa filosofia del linguaggio) che fino a non molto tempo fa era stata la base filosofico-scientifica della Teologia.
Ne consegue quindi che ormai la base critica della Teologia non sono più le argomentazioni filosofiche (ricadenti soprattutto nel campo della logica) ma invece sono appunto delle vere e proprie evidenze empirico-scientifiche. Sebbene bisogna dire che la logica occupi comunque ancora un posto in questo dibattito. Da tutto ciò è nata quella che indicheremo costantemente come «ricerca scientifico-religiosa».
E nella seconda sezione di questo scritto presenteremo diversi articoli che provengono dal suo ambito.
La questione che più ci interessa nel contesto del dibattito in corso in questa area non può che essere quella che è centrale nella Teologia e nella Religione stessa, e cioè la questione dell’esistenza di Dio.
Non a caso la filosofia analitica della religione è nata nel dopoguerra proprio sulla base delle sollecitazioni atee di un filosofo analitico, e cioè Bertrand Russell – il quale iniziò a negare molto violentemente l’esistenza di Dio ed anche la stessa idea di Dio. In tal modo si è sviluppata quindi una sorta di filosofia analitica religioso-cristiana che ha in qualche modo voluto combattere il moderno ateismo filosofico sul suo stesso piano. Alla fine però essa stessa è rimasta travolta da questo compito essendo costretta a rivedere totalmente (in senso scientifico e scientista) i suoi metodi di indagine conoscitiva. E non solo. Perché essa è rimasta travolta nel senso che è stata costretta ad accettare almeno in parte gli argomenti filosofo-scientifici contro l’esistenza di Dio, vedendosi così obbligata a rinunciare quasi completamente al proprio naturale teismo. Ecco che proprio sSu questa base sono insorte questioni che vertevano appunto intorno all’esistenza di Dio, ossia teismo, anti-teismo ed ateismo. Ed infine esse hanno trovato in ambito religioso-cristiano (ossia nel pieno della Teologia cristiana) una specie di sistematizzazione nel cosiddetto post-teismo. Il quale vuole essere una specie di risposta a questo complessivo dibattito nel senso dell’adattamento dell’idea di Dio (e delle affermazioni circa la Sua esistenza) al discorso scientifico. Non senza però un’estremamente significativa rinuncia ormai totale al teismo. Teismo che poi (lo diciamo qui solo come anticipazione) comporta il nucleo centrale della fede cristiana, ossia la fede nel Dio-Persona per eccellenza, ossia il Dio incarnato e Dio vivo, Gesù Cristo.
Naturalmente, comunque, il post-teimo è rimasto vincolato all’approccio conoscitivo prevalente nel dibattito che lo ha originato, ossia l’approccio scientifico-empirico. E quindi anche il post-teismo (che in fondo è la risposta religioso-cristiana alla messa in dubbio dell’esistenza di Dio per via scientifica, e quindi vorrebbe essere una specie di rimonta della Teologia su Filosofia e Scienza) si serve ormai di argomentazioni basate interamente sulle evidenze scientifico-empiriche, e quindi rientra pienamente nel campo della ricerca religioso-scientifica. Sebbene vedremo poi (specie con Gamberini) che essa conserva ancora una certa quota di molto sofisticate argomentazioni metafisiche ed in parte anche logico-filosofiche.
Diciamo quindi che in questo modo è insorta una sorta di estremamente nuova Teologia cristiana di tipo scientifico-empirico. Essa potrebbe in qualche modo venire considerata equivalente alle aspirazioni scientifico-naturalistiche che animarono la Scolastica medievale. Ma tale somiglianza è solo apparente dato che il post-teismo cristiano ha intanto accettato in pieno la distruzione totale della tradizionale metafisica cristiana, che già da molto tempo era iniziata in Filosofia, specie con pensatori come Nietzsche e Heidegger
Posto questo, ci è sembrato che la trattazione della questione relativa al valore e ruolo dell’attuale scienza della Religione potrebbe ben partire dalla critica di Berdjaev alla filosofia scientifica che poi a sua volta si associa anche ad una visione filosofico-religiosa molto intensa ed originale, che permette addirittura di rifondare l’esperienza religiosa. Abbiamo già parlato di questo in un nostro articolo [Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Insomma tanto la critica berdjaeviana alla filosofia scientifica quanto anche la sua idea specifica di Religione potrebbero essere utili ad un’analisi critica dell’attuale complessiva ricerca scientifico-religiosa. E questa analisi critica potrebbe in tal modo estendersi fino al post-teismo. Intanto ci sembra assolutamente fondamentale la critica berdjaeviana alla voluta scientificità della filosofia. Abbiamo infatti visto che quest’ultima è stata la radice stesa della trasformazione attuale della Teologia in una ricerca scientifico-religiosa. E quindi la critica alla scientificità della Filosofia deve necessariamente coinvolgere anche la stessa Teologia. Ed inoltre risiedono proprio in questo ambito le più profonde radici del post-teismo. E quindi la complessiva visione di Berdjaev si presta benissimo a fungere come base ad una critica a quest’ultimo.
Su queste basi il nostro scritto si muoverà attraverso una primaria esposizione delle tesi di Berdjaev (prima sezione), che sarà poi seguita dalla presentazione di diversi articoli provenienti dall’ambito della ricerca scientifico-religiosa (seconda sezione) – concernenti teismo, anti-teismo ed ateismo, e coinvolgenti anche il panenteismo − e culminerà infine nell’analisi del post-teismo (terza sezione) sostanzialmente per mezzo dell’analisi critica di un articolo di Paolo Gamberini. Naturalmente la riflessione di Berdjaev costituirà per noi il paradigma di un approccio filosofico-religioso che non intende cedere in alcun modo alla tentazione di trasfondersi in un approccio scientifico. Essa ci servirà quindi da fondamentale punto di riferimento e base per analizzare criticamente l’approccio scientifico alla Religione ed per pervenire infine a conclusioni definitive sulla complessiva tematica.
I- La filosofia religiosa anti-scientidica di Nikolaj Berdjaev
In questa sezione esamineremo le tesi esposte da Berdjaev in due dei suoi testi, e cioè in “Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO) ed “Il senso della creazione” (SC).
DIWO ci servirà come base per la trattazione svolta nella prima sotto-sezione (giustificazione della non-scientificità della Filosofia e sue conseguenze sul piano religioso), mentre SC ci servirà come base per la trattazione svolta nella seconda sotto-sezione (visione religiosa relativa ad una filosofia religiosa anti-scientifica)
I-1. La filosofia come scienza e il coglimento della realtà divina.
Berdjaev sostiene in particolare che la Filosofia è stata sempre intimamente unita alla Religione ed invece per nulla alla Scienza [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I p. 1-38]. E tuttavia sostiene questo nel contesto della costatazione della fondamentale solitudine del filosofo e quindi anche del conflitto esistente tra Filosofia e Religione da un lato e Filosofia e Scienza dall’altro lato. E quindi in sostanza egli sostiene che il filosofo dovrebbe essere indipendente sia dall’una che dall’altra disciplina per il semplice fatto che la Filosofia ha il pieno diritto di essere unicamente sé stessa; e quindi di essere totalmente autonoma non avendo alcun obbligo di sottomettersi ad istanze conoscitive diverse da quelle che le sono proprie.
Pertanto egli sottolinea fortemente che la Teologia ha sempre preteso che la Filosofia si sottomettesse ad essa in una maniera che appare molto simile all’attuale discorso svolto sul piano scientifico su questioni che una volta venivano trattate unicamente dalla metafisica. Il che è assolutamente paradossale perché il filosofo russo sottolinea che, se la collaborazione tra Filosofia e Teologia può comunque avere un ruolo e valore, ciò può avvenire proprio nel liberare la Teologia stessa da tutto quanto non riguarda la Rivelazione.
E questo è un compito che secondo lui spetta proprio alla Filosofia. In altre parole la collaborazione tra Filosofia e Teologia per lui ha di fatto il senso di liberare la Teologia dalla sua stessa aspirazione alla filosoficità. Attraverso il suo discorso si delinea quindi chiaramente quella che definiremo come «teologia filosofica», ossia un Teologia che di fatto rinuncia ad essere sé stessa per farsi unicamente Filosofia. E vedremo tra poco che Berdjaev non la ritiene affatto giustificata.
Egli precisa infatti che la Rivelazione non è affatto in sé pensante, ma diventa tale proprio per mezzo della Teologia. Intanto però la Teologia è unicamente conoscenza umana e quindi per definizione non dovrebbe avere alcuna relazione con quella Rivelazione che è in fondo soltanto puro pensiero divino (e proprio per questo non è affatto conoscenza, anche se lo sembra). Essa però, ciononostante, è Trascendenza che diviene immanente proprio nella Filosofia, e quindi ha un ruolo assolutamente naturale in essa. Cosa che invece per lui non dovrebbe affatto avvenire in Teologia; entro la quale bisognerebbe rinunciare in partenza ad una riflessione basata sulla Rivelazione che invece è compito della sola Filosofia (ma ovviamente solo di una filosofia religiosa). Ecco che la Teologia dovrebbe limitarsi ad esporre i contenuti della Rivelazione senza tentare in alcun modo di farlo in maniera pensante.
Il pensatore russo mette quindi molto acutamente in evidenza la tensione naturale ed inevitabile che vi è tra Filosofia e Teologia, e che implica anche una sorta di obbligata ed anche sana separazione tra di esse sia pure nella prossimità. Obbligo di separazione che viene violato tutte le volte che si configura una teologia filosofica – la quale è sempre e per definizione un’assimilazione totale tra le due discipline, laddove invece dovrebbe esserci solo una prossimità nella distanza. Questo è però ciò che è di fatto sempre accaduto nel Cristianesimo perfino allorquando la Religione si è prodotta nei suoi tipici (e non poco violenti) attacchi contro la Filosofia, la cui evidenza peraltro Berdjaev sottolinea con grande forza. Anzi il pensatore sottolinea che, per poter rispettare in pieno la Rivelazione, bisognerebbe eleminare dalla Religione proprio gli elementi filosofici che in essa si sono infiltrati per la via di una Teologia aspirante ad essere filosofica – come è avvenuto in tutta quella cosmologia, astronomica, geologica e biologica (evoluzione), che poi ha sempre teso ad organizzarsi in assurdi dogmi scientifici (oggi però divenuti oggettivamente insostenibili). Dall’altro lato egli deplora anche la forte tendenza di certa Filosofia a farsi integralmente Religione − com’è avvenuto nelle antiche teosofie (specie orientali), nel platonismo e nel neoplatonismo, e perfino più avanti nella filosofia moderna (Spinoza, Fichte, Hegel) ed infine nella Sofiologia russa (Solov’ëv). Ora, in tal modo la Filosofia invade decisamente il campo di una domanda che è in sé di fatto autenticamente religiosa, e quindi ricostituisce di fatto (dall’altro polo dello scenario) quella commistione (in principio illegittima) che sussiste nella teologia filosofica. Eppure in questo caso le cose stanno per lui in maniera molto meno grave ed innaturale, dato che in questo modo si delinea una filosofia religiosa che dal suo punto di vista è ben più giustificata di una filosofia a- o anti-religiosa. Ciò accade perché per davvero una parte della domanda religiosa (quella circa il senso dell’esistenza) riguarda così tanto la Filosofia da renderle impossibile essere ciò che essa è nel caso venga a mancare tutto questo. Infatti per Berdjaev la Filosofia non è tanto “amore della sapienza” ma è invece Sapienza stessa. Come del resto sostenne anche Schelling nel considerare luogo originario della Filosofia la stessa Sapienza custodita dai sacerdoti nei templi [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam Conn., Spring Publication, 2010, p. 7-10] e come ha sostenuto anche LMA Viola affermando che il vero pensatore non è affatto un “filo-sophos” ma invece un “sophos” − ossia uno che possiede già la Sapienza invece di cercarla incessantemente [LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 37-44]. Non solo, ma se la Filosofia rinuncia alla Sapienza, essa finisce per dover arrendersi totalmente alla Scienza; e ciò in quanto il proprio campo di conoscenza viene notevolmente distorto e ristretto.
Infatti il filosofo è chiamato a conoscere tutti gli aspetti dell’essenza umana e dell’esistere (e non solo alcuni di essi), ossia deve aspirare sempre alla Totalità dell’essere; inoltre deve tendere sempre verso l’oltre non accontentandosi mai del solo “aldiquà”. Ed infine il filosofo tende spontaneamente a toccare costantemente il “mistero dell’essere”. Soltanto in tal modo la Filosofia è davvero sé stessa, ed è chiaro che in questa forma essa è necessariamente metafisica. Quindi è essa è anche obbligatoriamente sempre anche filosofia religiosa. Sebbene ciò non può né deve implicare alcuna forma e grado di «teologia filosofica» − né sbilanciata verso una Teologia che pretenda di essere integralmente Filosofia né sbilanciata verso una Filosofia che pretende di essere integralmente Religione. Tuttavia, proprio una volta chiarito questo, risulta chiaro che in primo luogo la Filosofia non può essere in alcun modo scientifica; nemmeno alla lontana.
Essa infatti (ovviamente) né si occupa delle evidenze empiriche né costituisce una “filosofia sopra le essenze” − come ad esempio pretese di essere la Filosofia husserliana e steiniana in quanto ricerca sulle essenze mondane cosali [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, I, I, III, 10-11, p. 124-133 ; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, II, 1 p. 78-79, VII, I, 1 p. 93-96; Edith Stein, Potenza ed atto, Citta nuova, Roma 2003, II, 1-3 p. 72-90, III, 3-4 p. 123-132; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, IV, 2, 4-5 p. 123-126, ibd. IV, 3, 1-4 p. 139-157]. Essa invece è per Berdjaev semmai “una creativa autocoscienza (‘schöpferisches Sichbewußtsein’) dello Spirito sul senso della vista umana (‘des Geistes über den Sinn von menschlichen Lebens’)”. E questo suo status implica necessariamente una certa dose di religiosità della Filosofia. Ma comunque affatto nel senso di porsi come «teologia filosofica». In questo caso, infatti (come abbiamo detto), la riflessione sulla Rivelazione (che è legittima solo in Filosofia) si estende ad una disciplina (la Teologia) il cui compito è unicamente quello di esporre (e semmai anche chiarire nel loro significato profondo) i contenuti della Rivelazione. Compito che poi deve essere rivolto unicamente all’umile servizio svolto a favore dell’uomo comune in quanto credente. Per cui la Teologia tradisce sé stessa (ossia il suo compito naturale) tutte le volte in cui (per mezzo di sofisticate riflessioni metafisico-filosofiche) finisce per rendere la Rivelazione imperscrutabile per il credente. E questo accade esattamente laddove essa pretende di farsi Filosofia, o, peggio ancora, Scienza – come sta appunto accadendo nel campo dell’attuale ricerca scientifico-religiosa.
Dunque va preso atto del fatto che ciò che sta accadendo adesso non è in fondo affatto nuovo. Il problema resta infatti sempre quella tensione tra Filosofia e Rivelazione che da sempre tende a venire risolta nel trasformarsi della Filosofia in Teologia e della Teologia in Filosofia. Solo che quest’ultima tendenza è oggi divenuta davvero estrema. Oggi si verifica infatti un vero e proprio occultamento della Rivelazione (spesso per mezzo della sua radicale riforma e quindi della sua revisione) nel contesto di una Teologia ormai adeguatasi totalmente alla scienza analitico-cognitiva della Religione. Qui insomma la riflessione forgia letteralmente concetti religiosi totalmente nuovi, mettendoli esattamente nello stesso luogo nel quale prima si trovavano le argomentazioni puramente metafisiche che poi la Teologia usualmente dibatteva anche filosoficamente (ma sempre nel pieno rispetto dei contenuti oggettivi della Rivelazione). Argomentazioni metafisiche che ovviamente si basavano interamente sui materiali di riflessione (ossia le idee e relative entità) che intanto venivano messi a disposizione dalla Rivelazione; e quindi per definizione non erano alcun modo prodotti della Ragione umana. La conseguenza di ciò è che il campo delle argomentazioni analitico-cognitive si è totalmente sovrapposto a quello delle tradizionali argomentazioni metafisico-teologiche, anche se di fatto le questioni dibattute sono di fatto esattamente le stesse.
Ciò che è accaduto è insomma che ormai sembra proprio che vi sia un campo di riflessione del tutto nuovo (quello della scienza della Religione analitico-cognitiva) laddove invece in verità resta tuttora appena il vecchio. Ed è proprio per questa strada che nella stessa teologia cristiana si è ormai giunti alla fine addirittura a mettere in dubbio (o almeno a problematizzare e complicare insensatamente sul piano logico-filosofico) l’esistenza di fondamentali concetti ed anche entità religiose (come la stessa idea di Dio connessa alla Sua esistenza) sulla base del fatto che essi sarebbero sempre stati epistemicamente inappropriati.
In altre parole l’attuale scienza della Religione si è prodotta in un’opera davvero titanica di correzione in senso neo-logico dell’intera metafisica teologica, ed inoltre degli stessi contenuti scritturali oggettivi della Rivelazione. E quindi di fatto, secondo questa nuova scienza, la tradizionale metafisica teologica avrebbe sempre di fatto girato a vuoto muovendosi sul campo di concetti trattati senza alcun vero rigore logico.
Cosa che invece era assolutamente necessaria, dato che tale metafisica teologica rispettava pienamente la natura sovrannaturale (e quindi ultra-logica) delle entità delle quali essa trattava; e quindi non si sognava nemmeno lontanamente di sottometterle alla prova di realtà proveniente dalle evidenze scientifiche, e cioè meramente sensibili.
Non a caso la logica analitica moderna si è totalmente sostituita a quella antica come se fosse ormai l’unica legittima. Ma è significativo notare che in tal modo, in luogo dei misteri metafisico-religiosi esposti nelle Scritture, dominano orami le teorie di questo e di quell’autore (con il relativo protagonismo professorale di questi accademici), unitamente al delinearsi di una miriade di infinti di «-ismi» (che proliferano peraltro illimitatamente) i quali hanno preso totalmente il posto delle antiche dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Impressionante è al proposito il fatto che ogni autore propone la sua personale “soluzione” (“my solution”) alle infinite questioni logico-critiche per mezzo delle quali l’intera metafisica tradizionale viene intanto sezionata (ed anche straziata e profanata) come un misero cadavere gettato sul tavolo anatomico.
Emblematici per questo sono i moderni articoli che vengono sfornati a ciclo continuo su questi argomenti. Prima ancora di entrare nella sezione dedicata ad essi, ne citeremo solo due da noi appena letti: − l’articolo di Robinson contro quel cosiddetto “Debunking argument”, secondo il quale l’idea di Dio non sarebbe altro che un indesiderato ed inappropriato effetto collaterale della normale funzione cognitiva [Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-9] e l’articolo di Paolini Paoletti sulla Trinità riletta e rivista totalmente attraverso la moderna riflessione analitica sull’”ontologia delle relazioni” [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191]. Insomma è come se si affermasse che il porsi immediatamente di fronte alle verità metafisiche di fede (da parte del pensatore ed anche del credente) è ormai decisamente proibito, dato che solo la Ragione umana ha il diritto di riconoscere in esse qualcosa di davvero valido. In altre parole si è ormai affermato lo spirito erudito e protestante che da Erasmo in poi pretendeva che la “lettera” delle Scritture (in sé solo falsificante) deve venire totalmente presa in mano dalla Ragione umana perché essa assuma una forma degna dello “spirito”. Il che significa poi pretendere di sostituirsi totalmente al pensiero divino. Per la verità sull’analisi di articoli come questi bisognerebbe fare una ricerca a parte con la certezza di ritrovare in un sufficiente numero di essi esempi in abbondanza del distorto modo con il quale oggi si presenta quella ricerca filosofico-teologica di tipo sostanzialmente scientifico (analitico e cognitivista) che sta riformulando, umanizzando ed immanentizzando totalmente l’intero insieme delle verità rivelazionali. E proprio questo in effetti tenteremo di fare nella seconda sezione, ma limitandoci ad una indagine a campione e su scala estremamente ridotta, cioè senza alcuna pretesa di riportare l’estensione immensa di articoli (e relative questioni) che oggi vengono prodotti in questo campo.
Ma, intanto, va detto che, se Berdjaev trova in qualche modo accettabile la collaborazione tra Filosofia e Religione o Teologia (pur senza sacrificare l’autonomia della prima), egli non accetta assolutamente la collaborazione tra Filosofia e Scienza. Anzi egli ha disegnato in maniera davvero magistrale il percorso della collaborazione tra Filosofia e Scienza che è seguito alla ribellione della Filosofia alla Religione. La Scienza infatti ha inizialmente dato man forte alla Filosofia contro la Religione, per poi però non tardare a sottometterla ed asservirla completamente dopo averle concesso appena un brevissimo periodo di libertà. Ma la schiavitù che ne è seguita è stata ben peggiore di quella della Filosofia alla Teologia. Infatti essa è stata caratterizzata non più da una tensione dialettica (con tutte le sue fasi alterne ed anche le stesse contraddizioni) ma invece dall’annientamento totale della Filosofia stessa,; dovuto soprattutto al fatto che la Scienza ha iniziato ad avere essa stessa “pretese filosofiche”. Che sono andate avanti fino a fondare uno scientismo, in nome del quale addirittura il filosofo non ha più il diritto di parlare di filosofia ma invece è obbligato a parlare solo di scienza. E questo fatto – accettato ormai supinamente ed in pieno dalle Facoltà di Filosofia (soprattutto a causa del terrore folle di non contare più nulla in campo accademico) – è diventato ormai del tutto ordinario e perfino canonico. Tanto che nessun filosofo accademico oserebbe nemmeno lontanamente metterlo in discussione. Oltre a ciò è avvenuto che la Scienza con la pretesa di essere la Filosofia stessa ha iniziato a sfornare a ciclo continuo teorie globali addirittura sull’essere stesso.
E questo è assolutamente paradossale perché per definizione la scienza si occupa di fatti isolati e non invece di totalità.
In ogni caso va detto che Berdjaev deplora (sulla base soprattutto di Scheler) la totale inappropriatezza dell’attacco portato continuamente dalla Religione alla Filosofia; dato che invece questo ha proprio impedito che la Filosofia potesse dominare sulla Scienza.
Ma comunque la totale e naturale divergenza tra Filosofia e Scienza dipende per il pensatore russo dal fatto che la prima usa ormai disinvoltamente (e senza alcuna vergogna) il metodo scientifico. Eppure alla fine la divergenza è assolutamente necessaria perché Filosofia e Scienza hanno due oggetti totalmente diversi – la prima si occupa dell’essere (e precisamente del suo senso) e la seconda si occupa invece delle mere cose (e precisamente della loro struttura), ossia si occupa appena degli oggetti dell’esperienza sensibile. Tuttavia vi è anche un altro aspetto (messo in luce da Berdjaev, e di nuovo per mezzo di Scheler); cioè la questione dell’oggettività della conoscenza. La Scienza pretende infatti che la Filosofia non possa essere soggettiva proprio per poter conoscere in modo rigorosamente oggettivo. Infatti per essa tutto è “oggetto” perfino il soggetto stesso, incluso lo stesso soggetto filosofante. E quindi la Filosofia scientifica di fatto impedisce alla Filosofia di esistere in quanto sopprime l’esistenza del filosofante. Ecco insorgere quindi quell’”obiettivazione” che Berdjaev condanna dappertutto nel suo pensiero come ciò che distorce totalmente la conoscenza (specie per la sua pretesa di sottomissione totale a quell’universale che viene considerato come garanzia massima di oggettività) [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 2 p. 221-231]. Tuttavia, a causa di questo, avviene infine una restrizione dell’ambito di conoscenza in generale, che è così penalizzante da obbligare il conoscente a ad andare oltre i limiti della Scienza nel campo delle famose teorie scientifiche.
E qui, nonostante le pretese avanzate in tal senso, la Scienza cessa decisamente di esistere per lasciare il posto alla Filosofia. sebbene essa di guardi bene dall’ammetterlo. Ma intanto ciò non può avvenire realmente per davvero sia perché la Scienza omette il dovere di non superare questo limite, sia perché la Filosofia non rivendica affatto il diritto di occupare questo campo del tutto da sola.
Orbene, abbiamo visto finora una serie di problematicità, delle quali le principali sembrano essere la totale trasformazione della Teologia in Filosofia («teologia filosofica») e la totale trasformazione in Scienza da parte della Filosofia. Berdjaev ci mostra chiaramente che si tratta di due forme gravi di asservimento e coartazione della Filosofia.
Ma successivamente (I p. 28-38) viene da parte sua l’indicazione delle soluzioni a tutta questa abnorme situazione. Le soluzioni sono sostanzialmente tre: − il riconoscimento che la Filosofia si basa su quell’”intuizione” che include anche l’emozione oltre che la Ragione, la centralità dell’uomo nell’esercizio della Filosofia (in quanto sostanziale vissuto esistente), la natura unicamente interiore dell’essere indagato dalla Filosofia in obbedienza al fatto che essa coincide totalmente con l’uomo.
Essendo “intuizione” (e precisamente “originaria”) la Filosofia coglie infatti in maniera assolutamente unica l’”ampiezza dell’esperienza vissuta”, e così anche la sua “pienezza”. Cosa possibile solo se la Ragione poggia interamente su quell’”ontologia” (onticità) del filosofo che è poi il suo stesso intenso e diretto vissuto, e quindi include strettamente le sue emozioni (amore, odio, sensibilità per i valori). Su questa base, quindi, è evidente che il campo della conoscenza umana (Ragione umana) diverge radicalmente dal campo della conoscenza divina (o Ragione divina) che è poi il campo della Rivelazione. E ciò conferma senz’altro la distanza che vi deve essere tra la conoscenza filosofica e quella teologica. Ma intanto proprio per questo la Rivelazione si impone sull’uomo che non può assolutamente impersonarla né possederla, e quindi ne viene sempre scosso e trasformato interiormente. Ecco dunque il timido germogliare del seme di una Filosofia religiosa, che consiste nell’avere la Rivelazione come contenuto “mistico” del proprio pensare. Si tratta in altre parole di quell’assumere la Rivelazione come materiale fondamentale per la riflessione filosofica.
E ciò è peraltro esattamente quanto è sempre avvenuto nella filosofia cristiana più prossima al platonismo e quindi più incline ad essere una filosofia religiosa entro la quale la Filosofia non si fonde affatto alla Teologia in una «teologia filosofica» che è solo filosofare logico-razionale [Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73]. Qui insomma lo sfondo del filosofare resta sempre «contro-razionale» o «iper-razionale», con la conseguenza che l’umana logica razionale non assume mai il predominio divenendo così assolutamente dirimente. Eppure questa valenza dirimente dell’umana logica razionale (con la svalutazione brutale della natura «contro-razionale» ed «iper-razionale» delle Verità rivelazionali) è esattamente ciò che è stato affermato nell’estrema evoluzione della «teologia filosofica» nell’attuale scienza analitico-cognitivista della Religione.
Resta comunque per Berdjaev assolutamente indispensabile la dimensione umana della conoscenza, la quale comporta perfino anche un’”umanizzazione” della conoscenza di Dio. Ma nello stesso tempo si verifica per lui una stupefacente continua “commensurabilità” tra conoscere umano e conoscere divino sulla base della intima somiglianza tra uomo e Dio – ossia umanità di Dio e divinità dell’uomo. E per questo alla fine la così decisivamente umana Filosofia diviene perfino piena conoscenza di Dio, ossia autentica filosofia religiosa. In tale contesto l’umanizzazione è dunque qualcosa di estremamente felice. E come vedremo questo entra in frontale conflitto con il discredito gettato dal post-teismo sull’antroporfizzazione del Dio manifestato nella Rivelazione.
Anzi Berdjaev afferma che, entro la conoscenza in generale, ci sono addirittura tre gradi di “umanizzazione” della conoscenza – massima nella Religione, media nella Filosofia e minima (se non inesistente) nella Scienza. Non a caso quest’ultima si allontana anni luce dal vero scopo della conoscenza e dalla sua dimensione, dato che si sposta nel campo della profondità degli enti. Insomma l’umanizzazione è massima proprio nella Religione, ossia nel vissuto (pratico e conoscitivo) dei contenuti della Rivelazione.
In altre parole l’umanizzazione della conoscenza di Dio è una risorsa e non un impedimento; e ciò per il semplicissimo fatto che la stessa Rivelazione cristiana la esige, dato che il suo nucleo è quell’umano-divinità che consegue ineluttabilmente all’Incarnazione.
In ogni caso sono secondo Berdjaev da riconoscere tre livelli e gradi (ed anche principi e dimensioni) della conoscenza: − uomo (Cultura), Dio (Grazia) e Natura (Necessità). E quindi sulla base di questo sono riconoscibili anche due estremizzazioni che pongono illegittimamente fuori gioco l’uomo: − unilaterale conoscenza di Dio e unilaterale conoscenza della Natura. È evidente quindi che l’autentica filosofia religiosa (dato che la Filosofia si incentra unicamente sull’uomo) non può essere assolutamente estremistica. Essa insomma non può affatto pretendere di rappresentare una conoscenza di Dio che bypassa totalmente l’uomo. Cosa che di nuovo riabilita totalmente l’antropomorfismo di Dio. Il che è peraltro anche estremamente plausibile, perché in questo caso vi è solo il pensiero divino (Rivelazione) e per nulla invece la ricezione della Rivelazione da parte del filosofare umano. E questo del resto contraddice in modo evidente lo scopo stesso della Rivelazione, che altro non è se non il desiderio divino di comunicarsi all’uomo proprio sul piano della conoscenza.
In altre parole la filosofia religiosa non può in alcun modo essere estremistica in quanto essa deve sempre passare per la conoscenza propria dell’uomo. Il che significa anche che l’uomo può conoscere Dio e la Natura solo attraverso sé stesso.
E deve anche essere pronto a riconoscerlo ed ammetterlo. Al di fuori di questo non vi può quindi essere altro che una filosofia religiosa fatalmente illegittima (in quanto pretesa assurda della dissociazione tra divino ed umano). E forse essa è proprio quella che Berdjaev riconosceva nella tradizione teosofica, platonica e neoplatonica. Ma, al cospetto di ciò, si delinea una dimensione estremamente complessa che alla fine ci riposta alla rigorosa distinzione istituita da Scheler tra Religione e metafisica [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018]. Infatti, dice il filosofo russo, a fronte (ad anche all’opposto) di una filosofia religiosa estremistica vi è la “naturalizzazione delle verità religiose”, e cioè di fatto quella cosmologia ingenua (oltre che in parte anche razionalistica) – che pretende poi dogmaticamente di essere fondata in una lettura letterale della Rivelazione – che secondo lui la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare integralmente. Ma non solo la Filosofia ha questo diritto. Forse invece lo ha ancora più la Religione. Dato che il Dio da essa venerato e pregato è il Dio Vivente (quello di Abramo, Isacco e Giacobbe), e non invece il puro Assoluto divino (che è solo puramente metafisico). Eppure esso pretende di essere tale proprio entro la cosmologia ingenua – la quale in definitiva, come sostenne Hessen, non è altro che un intellettualismo razionalistico assolutamente anti-realiste e quindi non descrivente affatto l’esistenza reale [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, I, I, 1 p. 15-19, II, VII p. 224-234]. E proprio per questo la Filosofia deve rigettare il cosmologismo ingenuo – ma non solo in nome di sé stessa bensì forse ancor più in nome della Religione. In questo senso, per Berdjaev, la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare la fede ingenua. Ebbene, del tutto paradossalmente, proprio entro la più rigorosamente filosofica scienza della Religione analitico-cognitivistica, noi ritroviamo affermazioni che di fatto si allineano perfettamente a questa così illegittima naturalizzazione delle verità religiose che porta infine a negare quel Dio Vivente che è tutt’altro che un puro Assoluto metafisico. Paolini Paoletti cita infatti moderne teorie della Trinità entro le quali viene negata espressamente proprio la realtà del Dio-Persona [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, p. 173]. E vedremo che lo stesso accade entro il post-teismo, dato che in esso il Dio-Persona viene negato (con il pretesto dell’antropomorfismo) proprio in nome invece di un Dio apofatico che null’altro è se non il puro Assoluto metafisico.
Il che è davvero paradossale, oltre che ridicolo. Ciò significa insomma che forse vi è un rischio ancora maggiore di quello dell’estremizzazione della filosofia religiosa (quella in generale platonica), e cioè quello rappresentato da una riflessione apparentemente rigorosissima (dal punto di vista logico-razionalistico) ma di fatto invece meramente naturalistica. In essa insomma si commette il fatale (ed anche banalissimo) errore di voler trattare di Dio alla stregua dell’esperienza naturale. Ma intanto proprio per questa via lo si trasforma nuovamente in un puro Assoluto metafisico, dato che intanto le evidenze naturali contraddicono il Dio antropomorfico che viene effettivamente presentato dalla Rivelazione. E così senz’altro non si va da nessuna parte.
Ma Berdjaev ci offre un contesto estremamente suggestivo ed illuminante di questo paradosso; che poi costituisce per lui un altro aspetto della solitudine tragica che tocca inevitabilmente al filosofo. Si tratta della dimensione in verità meramente sociale ed affatto autenticamente conoscitiva di questo genere di conoscenze. Il che avviene in Filosofia, in Religione ed anche in Scienza. Accade quindi che vengono affermati dottrine e metodi conoscitivi che hanno una mera valenza sociale pur pretendendo di presentarsi invece come oggettivi e cogenti dal puro punto di vista conoscitivo. E così, su questa base, viene violentemente attaccato il filosofo (ma anche il teologo o perfino il semplice credente) che osi contraddire le cogenze sociali così affermate. Accade pertanto che il filosofo religioso che si fa scrupolo di guardare in faccia a Dio (senza alcuna intermediazione canonico-sociale) resta non solo totalmente inascoltato e non riconosciuto nel proprio ruolo, ma viene anche violentemente aggredito. Ed ecco allora il fatale delinearsi di pensatori originali (davvero indipendenti e rinnovatori) così come anche di autentici santi e mistici che vengono sempre o trascurati o screditati e combattuti. Nel nostro Paese uno di questi è stato senz’altro quel Don Dolindo Ruotolo [Grazia Ruotolo, Luciano Regolo, Gesù, pensaci tu, Ares, Milano 2020] che ebbe il coraggio di affermare chiaramente che l’aiuto divino esiste realmente e che quindi Dio null’altro è se non Persona, ossia Gesù stesso ancora presente nel mondo come Spirito e peraltro concretamente agente.
Ed ecco che, come dice Berdjaev, nel campo della conoscenza l’uomo può prendere solo due posizioni radicalmente alternative tra loro (nel senso di un vero e proprio aut aut): − 1) o egli si pone incondizionatamente di fronte al mistero dell’essere, ed allora ne nasce la vera Filosofia, con la sua conseguente intuizione e partecipazione della Rivelazione; che rende l’uomo senz’altro indifeso ma anche lo arricchisce infinitamente; 2) oppure egli si pone di fronte agli altri, o società, con la sottomissione ad essa della conoscenza filosofica. E tutto questo significa per il filosofo russo che la Filosofia può essere solo intensamente personale e soggettiva in quanto richiedente la presenza vivente del filosofo [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Cosa che può benissimo venire estesa anche al semplice uomo comuno quale credente.
A causa di questo l’intera storia della filosofia è per lui storia delle visioni personali dei singoli pensatori, ed inoltre solo in esse (grazie ad un’intuizione che può essere solo soggettiva) si coglie per davvero la verità. Essa infatti viene colta solo interiormente e proprio come tale non è mai verità oggettiva ma invece solo trascendente; ossia luce proveniente dall’Origine della quale un riflesso viene colto dallo spirito individuale. Il che implica poi anche un limite ben preciso nel senso della ristrettezza – in tal modo infatti il filosofo non può cogliere mai l’intera verità ma appena alcuni dei suoi raggi che penetrano nel suo intimo. Il che comporta nuovamente l’importanza decisiva della dimensione umana in Filosofia, dato che essa conosce solo “nell’uomo e per mezzo dell’uomo”. Ne consegue che non vi può essere alcuna Filosofia in quanto disciplina autonoma nel senso dell’oggettività (specie se rigorosamente razionale e quindi scientifica).
Essa invece può essere solo vitale (oltre che pratica ed azionistica), ed affatto teoretica. Su questa base per Berdjaev non è giustificata né legittima alcuna Filosofia “accademica” e “di scuola” (“akademische Schulphilosophie”). Ne consegue inevitabilmente che per lui è una figura del tutto ridicola il metafisico ripiegato sui libri dietro la propria scrivania. Invece il mistero dell’essere può venire dischiuso solo nel corso di una vera e propria immersione del filosofo nel destino umano in quanto incondizionato esistere.
Ecco che c’è qui allora da chiedersi quanto dell’attuale riflessione scientifico-religiosa − così accademica, così professorale, così dipendente dagli unici dibattiti ammessi nelle Accademiche, così irrigidita nelle forme espressive che le Accademie ritengono valide, così marchiata dall’ossessione protagonistica (delle varie “la mia soluzione alla questione…”), così asetticamente sterilizzata da ogni forma di presunta “ingenuità” – possa davvero recare i tratti di questo pensare il cui protagonista è pienamente uomo e come tale è immerso nel pieno dell’esistenza e perfino nel proprio destino. E la domanda è ancora più legittima se si tiene conto del fatto che essa tratta verità di fede. Dunque dov’è qui l’esperienza di fede più viva? Dov’è qui l’esperienza religiosa più autentica, ossia quella che presume di stare ad immediato contatto con Dio?
Questo problema diviene però ancora più drammatico se teniamo conto della relazione tra soggetto e mondo che Berdjaev indaga susseguentemente [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 51-59]. Qui in generale il pensatore sostiene che lo spostamento avvenuto modernamente in Filosofia dall’oggetto all’oggetto aveva fatto sì che il soggetto stesso non si trovasse più realmente in relazione con l’essere ma invece si trovasse con esso in una relazione puramente conoscitiva. Tuttavia, allo scopo di garantire l’affidabilità di tale conoscenza (ossia il suo rigore) si tendeva intanto a trascendentalizzare il soggetto (Kant, Fichte, Hegel, Schelling) trasformandolo così in un Io assoluto che poi altro non voleva essere se non un Io divino di tipo impersonale. Cessava quindi così per sempre il personalismo della conoscenza in generale ed ancor più di quella filosofica. E così la conoscenza dell’oggetto non era più umana ma unicamente divina.
Nello stesso tempo si esigeva che l’oggetto conosciuto dovesse essere indipendente dal soggetto, con la conseguenza che cessava qualunque relazione tra i due termini. E quindi si affermava un concetto di “oggettività” che consisteva esattamente nella rigorosa separazione dell’oggetto dal soggetto, invece di essere “rivelazione” (“Enthüllung”), “visibilità” (“Sichtbarwerden”) e “corporizzarione” (“Verkörperung”) dell’oggetto stesso, e quindi dell’essere. Necessariamente iniziava così a manifestarsi un’“oggettivazione (Objektivierung) del senso”, negando così che invece il senso insorge solo “in me”, ossia in me come spirito umano, specie se filosofo. Ecco dunque – contro quest’ultima prospettiva − delinearsi il ruolo dirimente della coscienza (Husserl) ed ecco il delinearsi del concetto di “spirito oggettivo”.
Ora, a fronte di tutto ciò, è ancora più evidente evidente perché la Rivelazione ha iniziato da questo momento in poi ad essere un termine estremamente sospetto, ed è dunque chiaro perché si è iniziato ad operare contro di essa o almeno fuori di essa.
Ma se andiamo oltre nella riflessione di Bedjaev coglieremo altri aspetti di tale realtà. Perché la conseguenza di ciò che egli descrive è stato un intellettualismo − lo stesso intellettualismo criticato da Hessen ed in effetti presente già molto prima che nel moderno Idealismo − entro il quale il pensiero stesso veniva scambiato per l’essere.
Ed allora, se poniamo che (in termini tradizionalmente metafisico-religiosi l’Essere è Dio stesso) come possiamo meravigliarci dell’attuale tendenza scientifico-religiosa a sostituire la trattazione dell’essere divino (quello manifestato per misteri entro la Rivelazione) con il semplice dipanarsi di pensieri rigorosamente logici (nonché pure astrusi). In tale contesto insomma si ha davvero la sensazione di star trattando di Dio stesso (e perfino in modo infinitamente più pulito logicamente rispetto al passato).
Nel mentre invece ci si sta aggirando appena nel labirinto oscuro della propria mente, e più precisamente (oggi che la Scienza ha sostituito la Filosofia) in una quella specie di mente collettiva che è il mondo della comunità scientifica dibattente fino allo stremo questioni scientifiche (ancor più se in esso finisce per insorgere addirittura il tanto agognato «consenso»).
Il che poi è ancora più grave se si tiene conto del fatto che − entro la relazione soggetto-oggetto criticata da Berdjaev – i pensieri finiscono per essere appena riflesso dell’essere, e mai e poi mai invece coglimento diretto e pieno dell’essere. Che per Berdjaev è invece attivo per definizione e proprio per questo richiede un atto intellettuale di investimento dell’essere (che è sempre attivo ed assertivo per definizione), ossia quell’intuizione che è poi null’altro che visione. Era esattamente ciò che accadeva nell’antica metafisica (illuminata o meno dalla Rivelazione) – in essa l’intelletto umano si trasferiva letteralmente entro il proprio oggetto di riflessione, venendo così da esso impregnato ed illuminato da ogni parte. Ma questa attività del conoscere non è affatto l’attuale tendenza dei teologi- e filosofi-scienziati a forgiare letteralmente ex novo (per la via della pura argomentazione logica) teorie sull’essere divino che invece prima venivano invece ottenute unicamente per la via di una riflessione visionario-intuitiva. E questa era una riflessione sicuramente attiva, ma che intanto recepiva rispettosamente (e con venerazione) i contenuti della Rivelazione, invece di cercare di ricrearli ex novo.
E ciò del resto viene sottolineato da Berdjaev nel sottolineare che l’uomo conosce l’essere solo perché vi si trova immerso dentro. Il che significa poi intrattenere con l’essere (cioè con l’oggetto) una relazione che è strenuamente soggettiva, ossia è personale.
Ebbene questo atteggiamento distorto del soggetto conoscente verso l’essere configura ancora una volta un’”obiettivazione” Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-75]. L’oggettivazione causa insomma una presa di posizione verso l’oggetto (quella contrassegnata dallo stare «davanti» ad esso e non invece «in» esso) in forza della quale l’oggetto stesso cessa semplicemente di avere valenza di essere. Ed in tal modo mai e poi mai la conoscenza dischiuderà davanti a noi il “mistero dell’essere”.
Ecco di nuovo esattamente ciò che accade nella letteratura scientifico-religiosa – essa vede del Dio-Essere tutto il possibile (ed anche di più), tranne l’essenziale, e cioè il Suo mistero. E dunque essa è tale perché in definitiva non vuole essere più in alcun modo una filosofia dell’essere – ossia proprio quella che per Berdjaev è la più autentica e piena Filosofia. Essa invece semmai non è altro che la filosofia della conoscenza (quella dominata dalla sola «teoria della conoscenza») che intanto viene del tutto illegittimamente ed anche scompostamente applicata all’essere. Per di più in quanto essa pretende addirittura di essere non solo filosofia scientifica ma invece scienza vera e propria. Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un complessivo campo di conoscenza che manca completamente il proprio obiettivo, ossia il proprio oggetto, limitandosi così a girare del tutto a vuoto.
In ogni caso veniamo davvero al dunque (rispetto alla nostra questione) laddove Berdjaev stesso si occupa non più della Filosofia con pretese di scientificità ma della conoscenza scientifica stessa [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-117].
Qui egli afferma che non c’è nulla che possa separare di più il conoscente dal mistero dell’essere se non quella pretesa della validità conoscitiva (con tutto il suo pesante ed ingombrante corredo di leggi logiche in funzione rigidamente normante) che annienta letteralmente qualunque atto di intuizione ed inoltre anche la stessa dimensione soggettivo-personale della conoscenza, ossia la dimensione vitale ed immersiva del filosofare. E peraltro egli sottolinea anche che qui non ci troviamo più affatto per davvero sul piano della conoscenza, bensì invece sul piano di mere esigenze sociali (mascherate da conoscenza) – nelle quali non a caso domina una cogenza che pretende di sottomettere tutto e tutti (è insomma di nuovo il luogo del dominio dell’universale).
A questo seguono poi le considerazioni del pensatore sulla dimensione religiosa che insorge per via sociale di tipo comunionale allorquando l’Io supera la sua dimensione solipsistica per porsi in intima relazione con l’altro Io [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III p. 111-162]. Tali considerazioni non riguardano direttamente la nostra questione per cui non ne tratteremo. C’è da chiedersi però se l’attuale ricercatore scientifico-religioso non sia vittima proprio del solipsismo dell’Io che viene deplorato da Berdjaev, e quindi, proprio per questo, non abbia la benchè minima chance di porsi in connessione con un aspetto fondamentale della dimensione religiosa, ossia quella comunionale. Laddove poi il pensatore russo sottolinea che quest’ultima è davvero ecclesiale solo nella misura in cui è un’autentica “comunione spirituale” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. E quindi è estremamente lontana da quella dimensione ecclesiale meramente istituzionale entro la quale del tutto non a caso questi ricercatori si muovono perfettamente a loro agio e nel pieno consenso delle autorità, visto che in fondo sono dei teologi (e spesso anche sacerdoti e predicatori). Peraltro Berdjaev sottolinea che la tensione dell’Io verso l’altro tende del tutto naturalmente a Dio stesso. Anzi abbiamo un massimo tendere a Dio in quel “teoandrismo della conoscenza” che costituisce uno dei vertici della tensione dell’Io verso l’altro.
A ciò va solo aggiunto (sempre da DIWO) che per Berdjaev solo nella dimensione personale (dell’essere e necessariamente anche del conoscere, specie se filosofico) può esservi una relazione con Dio – che è esso stesso Persona ed inoltre proprio per questo è intimamente connesso all’uomo entro l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-43]. La dimensione personale è dunque sempre e per definizione partecipazione di Dio. Inoltre nella relazione con Dio si finisce per superare anche la stessa dimensione personale-immanente dell’uomo, dato che In ogni caso la personalità non sussisterebbe senza avere qualcosa di “sovrapersonale” (“Überpersönlich”) sopra di sé, e quindi qualcosa di alto che la determina [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 1 p. 205-220]. Si tratta ancora una volta dell’umano-divinità come carattere simultaneo della dimensione personale umana e divina. E quindi proprio in questa determinazione sovra-personale della persona consiste il mistero stesso della persona umana. Anzi il pensatore russo sottolinea che la dimensione della persona emerge in verità solo nella Rivelazione ed affatto invece mai né entro l’esperienza naturale né entro il pensiero umano. Infatti la persona, non essendo (come invece lo è l’individuo) un “fenomeno” (“Erscheinung”) naturale, esso è solo immagine di una “similitudine” (“Gleichnis”) dell’uomo a Dio.
Figuriamoci quindi come e quanto elucubrazioni scientifico-religiose di tipo logico come quelle sull’”ontologia della relazione” (Paolini Paoletti) possano restituirci il mistero centrale stesso della Trinità e cioè la rivelazione dell’ontologia più alta possibile della persona (tanto umano quanto divina).
I-2. L’umano-divinità e la realtà personale dell’umano-divino in quanto Spirito.
Ma veniamo ora al testo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018], nel quale potremo cogliere un altro aspetto delle riflessioni su Dio, e cioè quello ancora più legato ad un aspetto essenziale della divinità stessa, ossia quell’umano-divinità che è nello stesso tempo nucleo della dimensione personale e nucleo della dimensione spirituale. Si vedano per questo anche le considerazioni che abbiamo fatto nel nostro saggio sul Personalismo e nel nostro articolo sulle relazioni tra il pensiero di Edith Stein e lo Spiritualismo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/].
Qui in generale Berdjaev sostiene l’assoluta equivalenza esistente tra persona umana, spirito ed essere.
E quindi per definizione istituisce un’intima relazione tra l’uomo e Dio proprio sul piano della realtà personale. Quindi nulla come queste riflessioni possono sconfessare le attuali riflessioni scientifico-religiose sul post-teismo. Infatti se Dio è persona non può essere in alcun modo una generica deità. E va qui anticipato che in genere per “post-teismo” si intende senza ormai alcun imbarazzo qualcosa di simile ad una «religione senza Dio». Vedremo però poi quale multiforme e bizzarro campionario di idee è incluso in questa complessiva teoria, date le su dirette premesse anti-teistiche ed atee.
Vediamo ora se in Berdjaev riusciremo a trovare argomenti convincenti contro questa dottrina anche senza chiamare in causa la predisposizione della Filosofia ad essere religiosa. Si tratterebbe quindi di argomenti preventivi che possono fungere da paradigma per esprimere alla fine un giudizio sul post-teismo.
Bisogna peraltro premettere che il pensatore russo non è affatto incline ad un teismo di tipo dogmatico, ingenuo e addirittura cosmologico-naturalistico (come quello che è stato affermato nel Cristianesimo a partire dalla Scolastica per poi prolungarsi di fatto, sebbene in maniera sempre meno esplicita ed affermativa) fino ai giorni nostri.
Qui va detto però che evidentemente questo non fu altro che l’aspetto essoterico (e non esoterico) dell’onto-metafisica cristiana. Quindi è assolutamente certo che esso è stato affermato ed anche molto propagandato come articolo di fede. Ma intanto il vero motivo di tutto ciò non riguardò affatto la dottrina in sé (la cui natura era unicamente esoterica, e quindi affatto letterale, come di certo ben sapevano i suoi sostenitori) bensì riguardò unicamente quella esigenza sociale che non a caso anche Berdjaev sottolinea, ossia l’esigenza di affermare un Ordine cosmico che alla fine aveva una valenza meramente politica. Ed è ovvio che tale Ordine andava mantenuto con il terrore, ossia per mezzo del dogma. Anzi al proposito il pensatore russo sostiene che il Cristianesimo originario fu profondamente stravolto in questo senso dal prevalere in esso di uno spirito barbarico in fondo pagano, tutto germanico e tutto politico-teocratico che era ossessionato dalla violenza delle passioni, alle quali esso cercava appunto rifugio nell’ordine più inflessibile possibile [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 2 p. 8-16].
Berdjaev definisce tale tendenza come prevalre del “principio angelico”, indicando con ciò la presunzione che l’esistenza di Dio (e soprattutto l’esistenza di Dio nel mondo specie grazie all’umano-divinità, cioè all’Incarnazione nella sua pienezza) potesse venire affermata unicamente sulla base di un mero simbolismo che sosteneva la divinità integrale del mondo nel mentre intanto (contraddicendosi totalmente) svalutava totalmente quest’ultimo [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8, 3-4 p. 17-25]. Egli ritiene invece che la divinità del mondo debba venire affermata integralmente, ossia in modo realmente coerente, e ciò in forza del concetto di Incarnazione una volta affermato con estremo coraggio da parte della Chiesa cristiana. Cosa che per davvero non è mai accaduta, visto l’imbarazzo che essa ancora prova davanti a questo concetto (come peraltro evidente al massimo proprio nel post-teismo).
Eppure sta di fatto che (come egli constata) il dissolversi progressivo del principio angelico (sotto la spinta possente della sempre maggiore valorizzazione umanistica ed immanentista del mondo) ha portato al risultato per nulla desiderabile della separazione tra uomo-mondo e Dio. In altre parole possiamo dire che un teismo troppo estremistico (che poi è quello che vuole un mondo penetrato da Dio ma intanto solo nella Sua distanza incommensurabile dal mondo stesso) porta a risultati senz’altro controproducenti. E questo è senz’altro quel teismo trascendentista che poi (a causa delle sue oggettive colpe) può venire considerato il remoto punto di partenza dell’ultra-moderno post-teismo. Quest’ultimo affonda quindi senz’altro le sue radici nelle obiezioni che prima la Filosofia rinascimentale della Natura e poi l’Illuminismo (per culminare infine nel Positivismo) iniziarono a muovere proprio contro la credibilità (razionale ed esperienziale) di un Dio Trascendente; e ciò peraltro a fronte di un mondo che la scienza empirica iniziava a mostrare sempre più come un meccanismo perfetto. In altre parole fu proprio in questo modo che si iniziò a considerare l’esistenza di Dio come insostenibile alla luce dell’esperienza e della Ragione. Egli sottolinea peraltro che la teologia che si mosse in tal modo fu una teologia sostanzialmente apofatica (sebbene non sempre in modo letterale) che di fatto temeva fortemente un’antropomorfizzazione di Dio, e quindi una valorizzazione del mondo che si basasse proprio su quest’ultima. Sta di fatto comunque che, come vedremo in Gamberini, questo genere teologia (per moto tempo restata nascosta tra le pieghe della teologia razionale e naturale) si è alla fine manifestata pienamente proprio nel post-teismo. In esso infatti l’accusa all’antromorfismo è divenuta massima.
Non vi è quindi dubbio che questo genere di teismo non è affatto una via praticabile per opporsi al post-teismo. Anzi addirittura si può essere certi che ne rafforzi gli argomenti.
Contro questo approccio Berdjaev sostiene la necessità di una santificazione del mondo che abbia al suo centro un amore verso Dio che sia simultaneo all’amore verso il mondo. Proprio per questo egli propone la via di un’attività creativa umana (anch’essa assolutamente da santificare), che però gli sembra possibile solo se finalmente viene superato quel platonismo tendenzialmente gnostico che secondo lui è residuato nello stesso Cristianesimo nella forma di un dualismo (opponente radicalmente il Trascendente all’immanente) entro il quale si finisce per confondere fortemente Dio stesso con il Diavolo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43]. Infatti in tale contesto vi è da un lato un’identificazione strettissima del mondo con il male, ma anche una forte rassegnazione al mondo così com’è. Con la grave conseguenza che il male non viene combattuto. Laddove per lui la via per farlo è esattamente quella di una trasfigurazione creativa del mondo stesso, in modo che esso divenga ancora più divino di quanto non sia di per sé in forza della creazione. Egli postula infatti un’attiva collaborazione dell’uomo e del mondo alla creazione. E ciò implica il superamento di un pessimismo (senz’altro incentrato sull’ossessione cristiana per il Peccato) che di fatto equivale fortemente allo stesso “dubbio scettico”, ossia all’agnosticismo ateo. Esso insomma comporta la mancanza di una vera fede in Dio, e precisamente della fede in un Dio realmente presente nel mondo.
E invece secondo Lui Dio è presente indubitabilmente nel mondo, ma lo è per la precisione per mezzo dell’uomo stesso e della sua creatività; a sua volta (teologicamente) incentrata su quell’umano-divinità che poi ha le sue radici nell’Incarnazione accettata senza più alcuna riserva (né trascendentista né scettica).
Ed a questo scopo egli non esita a dichiara di chiedere in un “monismo quasi panteistico”. La cui natura deve però venire ben chiarita per non cadere in quella fatale “antinomia” dell’esperienza religiosa che non solo rende quest’ultima assimilabile ad una fede infantile, ma soprattutto la rende paralitica, e quindi incapace di opporsi davvero al male in forza di una (non dichiarata ma anche non del tutto consapevole) assuefazione ad un mondo che intanto si disprezza fortemente. Ebbene tale antinomia può secondo lui venire superata solo se si diviene consapevoli in primo luogo del fatto del fatto che Dio e mondo sono simultanei (Dio “è immanente al mondo e all’uomo”, così come però “il mondo è l’uomo sono immanenti a Dio”) ed in secondo luogo del fatto che il mondo deve venire considerato extra-divino solo nella misura in cui intanto è divino (“il mondo è totalmente extradivino” ma come tale è “totalmente divino”). A suo avviso un’esperienza religiosa può essere piena ed attiva (e dunque non antinomica) solo se si basa su questa fede estremamente forte. Forte soprattutto perché essa è capace di esporsi alle evidenze negative del mondo senza mai venire scossa.
Ed è evidente che il nucleo di questa fede è la ferma certezza che Dio è presente nel mondo. E nel nostro articolo sullo Spiritualismo abbiamo chiarito che ciò equivale a credere che Gesù Cristo è restato nel mondo come Spirito incessantemente trasfigurante (e quindi di realizzare l’impossibile qualora invocato) dopo essere nuovamente asceso al Padre.
Tutto ciò conserva comunque tutta la tensione cristiana verso il superamento del mondo, ma senza che mai essa si trasformi in paralisi dell’azione.
E qui egli finisce per sostenere che la relazione tra uomo e Dio deve essere assolutamente immediata e diretta in quanto essa si incentra proprio nel pieno impersonamento da parte dell’uomo della creatività che lo contraddistingue per dono divino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 75-82]. Il che implica la libertà da qualunque condizionamento, incluso quello della stessa teologia.
A questo punto le considerazioni del pensatore riprendono l’intera materia che abbiamo discusso nella sezione precedente rispetto alla dimensione religiosa della Filosofia. Il che significa che per lui la Filosofia stessa (una volta libera e ben intesa) è una risorsa posta a disposizione del vero credente. E ciò soprattutto perché essa ci pone in contatto con la Rivelazione esattamente così com’è, e quindi né riletta, né interpretata, né ridotta nella sua portata (ossia non distorta). Qui vi è già un fortissimo argomento anti-teistico proprio in quanto decisamente anti-teologico. Infatti cosa fanno gli ultra-moderni scientifico-religiosi (ossia i teologi stessi, specie se post-teisti) se non mettere fortemente in ridicolo la fede in Dio realmente presente nel mondo? È evidente quindi che, se si crede a quest’ultimo, non si può credere alle elucubrazioni post-teistiche nemmeno sulla base delle più rigorose e sofisticate argomentazioni logico-critiche. Infatti in questo caso il credente vivrà un’esperienza religiosa che è in primo luogo diretto contatto con Dio, e lo è in modo così intimo da costituire in tal modo uno spazio assolutamente inviolabile. Insomma nessun teologo, o predicatore, o apologeta, o chicchessia, avrà il minimo diritto di irrompere in questo spazio con quelle sue argomentazioni scettiche che oggi fin troppo stesso vengono considerate addirittura indiscutibile articolo di fede.
Tra l’altro a ciò si aggiungono anche fortissime considerazioni metafisico-filosofiche [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Infatti Berdjaev sostiene che l’uomo è di per sé consapevole di essere universo ed anche centro dell’universo, ossia autentico ”centro dell’essere”; ed inoltre proprio per questo esso è perfettamente in grado di conoscere l’universo, e dunque Dio, stesso, senza alcuna intermediazione (specie da parte di una teologia critica). Sostanzialmente perché esso sa di racchiudere in sé l’universo stesso. Ecco dunque che l’uomo è per definizione microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. E questa, dice il pensatore russo, costituisce la via complessiva per mezzo della quale sempre sono stati recepiti dall’uomo (per Rivelazione) gli stessi “misteri dell’universo”; come del resto la vera Filosofia ha sempre saputo.
Dunque perché mai questa via così breve, semplice e diretta a Dio dovrebbe venire resa immensamente lunga, tortuosa e complicata per mezzo di un’argomentazione scientifico-religiosa che nutre una profonda sfiducia proprio nella Rivelazione come fonte purissima ed incondizionata della verità circa Dio? Davvero non si riesce a comprendere la necessità di una simile inutile e pretenziosa complessità. L’unica sua spiegazione può quindi risiedere nell’irrefrenabile ansia di protagonismo intellettuale ed accademico di coloro che la rappresentano. Non a caso questo è il campo nel quale sono fiorite come funghi carriere e cattedre. E ciò proprio per mezzo di una rivivificazione teologica della Filosofia e di una rivivificazione filosofica della Teologia, che di fatto hanno rimesso in piedi delle discipline ormai morte sotto l’urto terribile di una scienza empirica che aveva occupato tutti i campi del sapere e anche tutti i luoghi accademici.
Peraltro proprio tutto questo sottolinea per Berdjaev che molto poco è stato detto finora dai teologi di tutti i tempi (specie nel contesto dell’antropologia della Patristica e dei Dottori della Chiesa) sulla vera natura della “cristologia”; la quale è realmente perfetta coincidenza di uomo e Dio nell’umano-divinità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Essa è stata semmai fortemente depotenziata per mezzo di una forte svalutazione dell’uomo nel suo contesto, che poi ha l’effetto paradossale di svalutare anche l’umano-divinità del Cristo. Con l’ulteriore conseguenza di sostenere una distanza infinita tra Dio e uomo.
Ecco dunque delinearsi nuovamente una remota via che già preannunciava il post-teismo. Vedremo infatti che quest’ultimo assegna all’uomo il ruolo di interprete unico della realtà divina proprio perché quest’ultima è in sé assolutamente ineffabile, e pertanto può essere solo ingenuo considerarla realmente presente nel mondo. E peraltro quanto Berdjaev qui deplora è avvenuto nuovamente per la svalutazione di quella natura personale di Dio che secondo lui va totalmente di pari passo con l’umano-divinità (divinità dell’uomo in quanto persona) e con la divino-umanità (umanità di Dio in quanto persona). Ed eccoci quindi di nuovo di fronte ad una del tutto inutile coartazione neo-teologica di quei misteri cristiani che non solo sono chiarissimi ma anche talmente profondi da permettere una riflessione interminabile su di essi senza alcun bisogno di modificare una sola virgola nel loro contenuto.
È vero che interferisce in questo quella dimensione del mistero che la logica dei teologi vede come il fumo negli occhi. Ma nemmeno questa è un ostacolo per chi decida, come Berdjaev, di guardare a queste cose rispettando in pieno la dimensione della Rivelazione, e proprio come filosofo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 127-133]. Egli afferma infatti che semplicemente “Dio attende dall’uomo la rivelazione antropologica della creatività avendogliene nascoste le vie…”. Ed è proprio su questa base che egli auspica ed anche profetizza una nuova “rivelazione antropologica” entro il Cristianesimo. Egli dice infatti che, una volta che noi abbiamo compreso questo senso specifico della Rivelazione, allora essa si presenterà a noi in forme storiche graduali che procedono inevitabilmente verso il futuro. Vi sono insomma epoche e gradi della Rivelazione cristiana: − dal più basso (Legge), che pone un limite al male insito nell’uomo nel metterlo a nudo; all’intermedio (Redenzione), che restaura la natura umana restituendole la sua libertà, in modo che avvenga una rinascita dell’uomo; fino all’ultimo (Creatività), che restaura davvero in pieno la natura umana.
Dunque per Berdjaev la creatività dell’uomo è qualcosa che riguarda integralmente l’uomo fatto a somiglianza, e quindi è la manifestazione più diretta dell’immagine del Creatore. Ma essa non è né nel Padre né nel Figlio bensì solo nello Spirito. Quindi non è legata al sacerdozio ma solo allo “spirito profetico”, che è poi libertà come quella dello Spirito che soffia dove vuole. Ne deriva che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano”.
E dunque l’uomo, essendo divino per definizione (e quindi in immediata relazione con Dio) ha addirittura in sé tutte le possibilità per rendere del tutto superflua quell’intera ricerca scientifico-religiosa che (almeno sulla carta) è stata messa su per porre rimedio alla distanza invalicabile che (in quanto esistente gettato nel mondo) gli renderebbe assolutamente impossibile toccare la realtà di Dio. Non a caso una delle più forti questioni insorte in questo ambito è stata ed è quella dell’incontestabile male del mondo al quale la teologia cristiana non sarebbe mai riuscita a trovare una soluzione davvero credibile. Ebbene la risposta a questa questione sta già qui in Berdjaev. Ed è la seguente: − l’uomo proprio in quanto ente divino è così prossimo a Dio, e precisamente al Dio-Persona (che non è in alcun modo un Dio Trascendente, ma è invece il Dio Vivo impregnante il mondo come Spirito) che esso ha per davvero la forza di combattere il male del mondo (specie attraverso la trasfigurazione dell’essere che è alla piena portata della propria natura) e quindi di fare come se non fosse mai esistito. Per questo è solo richiesto che l’uomo pronunci quel fatidico ”sì” grazie al quale il Dio Vivo (fino ad allora inattivo per scrupoloso rispetto della libertà umana) finalmente gli offrirà il Suo possente appoggio, manifestandogli così in modo davvero tangibile (sebbene comunque misterioso) la Sua presenza. Del resto proprio questo è il nucleo di una delle più profonde e provocatorie riflessioni sul male che Berdjaev deduce da Dostoevskij − «L’esistenza di Dio è certa proprio perché nel mondo esiste il male» [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, IV p. 67-81]. Il che significa che Dio ha da sempre tollerato il male nel mondo semplicemente perché aveva affidato già all’uomo (in quanto umano-divino e peraltro totalmente libero) il compito di eradicarlo. Pertanto, per risolvere una tale questione non vi era bisogno affatto di alcuna logica, ma invece bisognava solo guardare alla Rivelazione divina con il desiderio autentico di comprenderla.
Ma per questo, come dice Berdjaev, bisogna superare tutto quell’armamentario filosofico-gnoseologico (che egli vede culminare soprattutto nel neo-kantismo) grazie al quale, così come la conoscenza dell’essere è stata resa del tutto inaccessibile all’uomo (fino a considerarlo del tutto inesistente), così anche Dio è stato definitivamente dichiarato un Trascendente irraggiungibile ed anch’esso in forte odore di totale inesistenza [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 153-156]. E senz’altro va vista qui un’altra delle radici filosofiche dell’attuale ricerca scientifico-filosofica (così scettica, dubbiosa e puntigliosamente critica). La verità è invece un’altra ed è semplicissima – Dio è insieme trascendente ed immanente. E non caso per Berdjaev questa consapevolezza è stata del tutto alla portata della mistica e non della teologia.
Il che significa allora che, così come la filosofia ben intesa, anche la mistica rappresenta un potente antidoto all’ultra moderna ricerca scientifico-religiosa. Non a caso in nessun ambito come quello della mistica l’esperienza religiosa viene colta e vissuta nella sua autenticità e integralità, ossia come intima relazione personale con Dio. Eppure udremo Gamberini affermare il valore della mistica in senso diametralmente opposto a quello di un’esperienza religiosa intesa come intima relazione con Dio. Essa ha infatti per lui un valore proprio in quanto è radicale alternativa alla concezione antropomorfica di Dio, e quindi afferma un Dio non realmente presente ma solo ineffabile ed apofatico.
Quanto poi al decisivo concetto di creazione divina (cioè il più grande campo di battaglia entro la ricerca scientifico-religiosa), Berdjaev sottolinea che esso è stato sempre insufficiente proprio in quanto non è stato inteso come un’antropogonia ma invece come una cosmogonia, e quindi non ha mai previsto la creazione di un creatore [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-1775]. Questo significa che Dio invoca letteralmente la nascita divina nell’uomo prima ancora, forse, di pensare alla genesi dell’essere. Dunque tutta la problematicità della creazione di quest’ultimo svanisce di fatto a fronte di una prospettiva completamente diversa. E questa è stata poi la stessa rilettura eckhartiana della creazione come sostanziale nascita divina nell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Vedremo comunque nelle conclusioni come ciò introduca un elemento davvero dirimente entro la polemica post-teista contro l’antropomorfismo.
Ma tutte queste problematicità sono di non poco conto; visto che, come dice il pensatore russo esse sono strettamente connesse ad un razionalismo che è stato sempre connesso al concetto di creazione, lasciando così sospettare addirittura che gli eventi del Genesi compresi nella Rivelazione non siano poi così autentici come si può spontaneamente pensare. Naturalmente comunque il sospetto va rivolto non contro la Rivelazione davvero originaria, ossia quella esoterica, ma invece contro quella che era stata riletta dalla più antica metafisica razionalista (allo scopo di correggere le aporie delle remote teogonie), la quale evidentemente già era diventata unicamente essoterica. Queste problematiche sono infatti strettamente legate ad una creazione di tipo “creaturale” che a sua volta aveva sempre comportato (già entro la metafisica platonica e aristotelica) l’aporia di un essere «già stato», ossia preesistente, nel quale l’uomo fosse destinato a venire accolto. Ma, come si può vedere, entro la visione di Berdjaev la creazione dell’essere non sembra essere affatto necessariamente primaria. E questo genera una prospettiva entro la quale la Trascendenza divina perde molta della sua necessità, dato che di fatto sembra invece che Dio letteralmente accompagni personalmente l’uomo nel corso di tutti gli eventi creativi. Ecco allora che l’antropogonia finisce per manifestare l’Incarnazione già molto prima del Nuovo Testamento. E questo rende vane molte speculazioni critiche sulla creazione divina. Non solo quelle relative all’esistenza o meno di una Materia eterna antecedente o coeva alla creazione, ma anche quelle circa l’eventuale creazione del male da parte di Dio.
In ogni caso Berdjaev sottolinea che caratteristica tipica della creazione (a differenza dell’emanazione che è invece impersonale e involontaria) è l’attività volontaria che fa di essa qualcosa di tipicamente personale, specie nel senso della totale autonomia. E quest’ultima nega chiaramente un Dio Trascendente affermando invece un Dio personale che è necessariamente immanente, ossia presente nel mondo.
Qui però egli fa una precisamente decisamente anti-teistica, dato che per lui il Dio Trascendente ha le caratteristiche tipiche del classico Dio del teismo, cioè un Dio per definizione separato dal mondo. La sua soluzione a questo problema sta nel dinamismo creativo che è essenzialmente energia creativa incessantemente riversantesi nel mondo. Ma questo è per lui null’altro che la dottrina trinitaria (presa però così com’è senza alcuna correzione), ossia dinamismo della vita divina che è creazione nel mentre è amore tra le Persone divine. Ecco quindi che, almeno in via di principio, il concetto di Trinità non dovrebbe costituire alcuna problematicità logica. Anzi tutt’altro.
Tanto più che con ciò sta in relazione la creatività umana in quanto continuazione della creazione divina. Ma in tal modo si ripresenta nuovamente la sagoma davvero decisiva dell’umano-divinità, dato che quest’uomo condividente la creazione divina non può essere in alcun modo una creatura finita da Dio nel momento della sua messa al mondo. Esso invece è per definizione un ente creato come non finito, e, proprio come tale, è chiamato a completare il proprio essere attraverso la propria creatività. Esso allora è Signore dell’essere in quanto, a causa di tutto quanto finora illustrato, Dio stesso gli ha ceduto questo status per mezzo di una kenosis che è stata estremamente precoce. Ecco che si nuovo l’Incarnazione si presenta già nel bel mezzo del Genesi; dimostrando peraltro così che essa non è affatto “epistemicamente inappropriata” come sembra alla ricerca scientifico-religiosa. Anzi tale presenza dimostra proprio che gli eventi biblici vanno letti esotericamente e non essotericamente – e quindi in questo senso in modo non letterale.
Del resto Berdjaev afferma che in assenza della postulazione di tutto questo non vi è nemmeno un vero Cristianesimo. E questo nuovamente sgombera il campo da una grande serie di questioni sulle quali la ricerca scientifico-religiosa si appoggia nelle sue argomentazioni.
Ma in tutto ciò l’evidenza così forte della kenosis creativa (per di più in quanto unita intimamente all’Incarnazione) sottolinea l’importanza decisiva del Cristo in quanto Dio-Uomo ed anche Dio-Persona, ossia di quel Dio Vivo che non può in alcun modo venire posto in discussione da alcun anti-teismo o post-teismo. La Sua presenza comporta infatti la relazione con Dio, che a sua volta secondo Berdjaev è possibile solo da uomo a uomo, ossia solo se anche Dio è un uomo. in questo consiste l’esperienza religiosa nella sua pienezza. Essa, dice il pensatore russo, consiste nel fatto che “l’uomo inizia così una vita caratterizzata da un rapporto interiore, reciproco e profondo con Dio; inizia una sua partecipazione cosciente alla natura divina”. Ecco che per davvero, senza il Cristo, è impossibile relazionarsi con Dio, perché Egli altrimenti è lontano e spaventoso. E solo se fosse davvero così allora la discussione sul post-teismo avrebbe un senso. Ma non è così in quanto il Cristianesimo crede in Cristo e non nel Dio biblico.
Ecco allora che l’intera argomentazione scientifico-religioso si rivela del tutto superflua proprio perché essa esautora totalmente la pienezza dell’esperienza religiosa. È insomma una pur e vuota retorica che nemmeno sfiora la dimensione religiosa.
A tutto ciò si aggiungono ulteriori considerazioni di Berdjaev che illuminano una serie di aspetti di davvero fondamentale importanza e che certamente costituiscono altrettante problematicità nel contesto della ricerca scientifico-religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VI p. 190-196]. Si tratta del tema della libertà umana connessa con i fenomeni del Peccato e della Caduta. La tesi del pensatore russo è estremamente originale e proprio per questo estremamente illuminante. Egli sostiene infatti che la libertà di Adamo era negativa per definizione in quanto divisa tra obbedienza assoluta ed arbitrio assoluto. E proprio questo ha giustificato infine in pieno la Caduta. Infatti quest’ultima aveva un già predestinato significato positivo (quello destinato alla creatività) in quanto solo dopo di essa sarebbe potuta insorgere la libertà positiva e cioè quella autentica. Il che avvenne esattamente attraverso l’esperienza critica della conoscenza del bene e del male. La libertà positiva, però, divenne possibile solo in quanto essa andò di pari passo con la piena genesi dell’Uomo-Dio, e quindi il vero primo Uomo, ossia Uomo assoluto e Cristo. E questo fu dunque il vero progenitore dell’uomo in quanto umano-divino. Questo genere di libertà viene comunque definita da Berdjaev come “materiale” diversamente da quella antecedente che era invece meramente “formale” e quindi vuota. Ecco che allora la prima presuppone un punto di vista immanentista, mentre la seconda presuppone un punto di vista trascendentista.
In tal modo si ricostituisce quindi la dimensione teistica nella forma specifica di una libertà intesa in termini radicalmente negativi mentre invece essa non lo è affatto. E questo configura in Berdjaev di nuovo un certo argomento anti-teistico, ma nello stesso tempo lo svuota di significato mostrando nell’umano-divinità la dimensione della stessa creatività umana. In tale prospettiva non vi è infatti in alcun modo un Dio Trascendente lontano dall’uomo e dal mondo.
Ecco, questo è quanto possiamo desumere dalla trattazione della dimensione religiosa svolta da Berdjaev. E, come abbiamo potuto vedere, vi sono per davvero in essa dei significativi antidoti a tutto quello che vedremo esaminando l’attuale ricerca scientifico-religiosa. Quindi, grazie a Berdjaev, in qualche modo già disponiamo delle risposte alle questioni che ora vedremo poste dalla ricerca scientifici-religiosa. Tuttavia nelle conclusioni tireremo definitivamente le somme su questo confronto.
II- La ricerca scientifico-religiosa ed analitico-cognitiva: panenteismo, teismo, anti-teismo e ateismo.
Gli articoli che esamineremo qui sono estremamente eterogenei e comunque prenderemo in considerazione solo alcuni tra gli aspetti in essi trattati. Non nascondiamo comunque che essi contengono un genere di argomentazioni alle quali è davvero difficile attribuire un valore per chi condivide gli argomenti di Berdjaev, e quindi si sente autenticamente cristiano come lui stesso si sentiva. Tuttavia il loro esame è indispensabile per potere arrivare ad una conclusione cieca la questione che stiamo discutendo.
E la questione è, per la precisione se sia legittimo o meno spendere tanto tempo e versare tanti fiumi di inchiostro in una serie di argomentazioni che appaiono essere già superate in partenza nel loro valore e ruolo nonostante l’impressionante apparato logico messo in piedi per sostenerle.
Nel complesso di queste argomentazioni daremo comunque la preferenza alle tesi più prossime al post-teismo, dato che sarebbe impossibile trattare invece tutte le infinite questioni sfornate a ciclo continuo nella moderna letteratura scientifico-religiosa. E comunque tratteremo di tutte le posizioni implicate in questo contesto, incluse quelle francamente teiste. In generale comunque, anche di fronte alle tesi più ortodossamente teiste, si è portati a chiedersi a che serva tutto questo dibattito autoriale visto che tutto ciò che è contenuto in esso già esiste e viene perfettamente illustrato entro la Rivelazione ed in essa riceve anche estremamente convincenti risposte (sebbene solo contro-razionali e contemplative). E l’unica spiegazione è come al solito che la Modernità non sopporta l’anonimato intellettuale, e quindi desidera con tutte le sue forze porre dei protagonisti di pensiero laddove non ve ne sarebbe invece alcun bisogno.
Infatti constateremo con stupore il fenomeno davvero paradossale e ridicolo (oltre che inspiegabile) del proliferare di una vera sconfinata foresta di teorie con i relativi autori (ognuno con la sua personale “soluzione” ad annosi problemi religiosi) – inclusi perfino studiosi apertamente teisti – che sembra volersi sovrapporre (se non sostituire) bramosamente alle verità già presenti nella Rivelazione (ed in essa anche già perfettamente illustrate e risolte), ma che alla fine fa la misera figura di un’incrostazione parassitica che si accumula sul corpo della più pura e limpida verità. E mai come qui ricorre l’immagine platonica di Glauco marino [Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999, X, XI, 611d p. 685-687].
II-1. Panenteismo e panteismo.
Inizieremo però con il cosiddetto “panenteismo” [Benedikt Paul Göcke, Alles in Gott, Friedrich Pustet, Regensburg 2012; Patrick Hutchings, “Postlude: Panentheism”, Sophia, 49, 2010, 297-300; R.T. Mullins, “The Difficulty with Demarcating Panentheism”, Sophia, 55, 2016, 325-346; Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47], formula neo-teologica molto simile a quella del post-teismo e anzi spesso collegata a quest’ultima nelle argomentazioni e nei dibattiti. E faremo questo perché il concetto di panenteismo rappresenta il campo di un’ottima serie di esempi per comprendere le caratteristiche del dibattito scientifico-religioso.
Non a caso quello di panenteismo è un concetto che a prima vista seduce il metafisico di stampo tradizionale in quanto possibile soluzione alla condanna unilaterale e dogmatica del panteismo che sempre è stata pronunciata in ambito cristiano. Ma poi alla fine si rivela essere invece un’artificiosa argomentazione logica molto simile alle altre. Prima di entrare nel merito però bisogna dire che Göcke si riferisce ad un panenteismo già molto datato storico-filosoficamente, ossia quello di Karl Christian Friedrich Krause, che operò all’inizio del XIX secolo come filosofo post-kantiano. Ora anche in lui il panenteismo afferma di fatto il fatidico “tutto in Dio” (“Alles in Gott”), che a sua volta ha una quantità immensa di significati (risalendo addirittura fino al monismo plotiniano dell’Uno e al non-dualismo śankariano). Secondo una visione metafisica del tutto intuitiva (e quindi di per sé estremamente lineare, ossia semplice) esso implica comunque che Dio impregna tutte le cose presentandosi come essenza profonda e nucleare di esse, e pertanto rende il mondo integralmente divino. Si tratta in definitiva di quello Spiritualismo pneumatico (profondamente in comune tra metafisica occidentale ed orientale) del quale abbiamo parlato nel nostro già citato articolo (vedi “Edith Stein e lo Spiritualismo”). E bisogna dire che questo rende il panteismo una dottrina del tutto plausibile (ed affatto eretica) dal punto di vista metafisico-religioso; dato che (qualora esso sia bene inteso) non si tratta affatto né di immanentismo, né di politeismo né di una divinità impersonale identica alla Natura come quella di Spinoza. Si tratta invece semmai di quanto afferma anche Berdjaev, e cioè del fatto che Dio è trascendente ma anche immanente. E fin qui tutto bene. Dato anche che siamo del tutto fuori di sofisticate speculazioni logiche. Ma intanto si da il caso che Krause (commentato Göcke) non aveva affatto parlato di panenteismo in questo senso. Egli infatti (fedele alle idee dominanti dell’Idealismo tedesco in pieno corso) intendeva con ciò non l’omni-costituzione divina delle cose mondane, ma invece la loro omni-intelligibilità, ovvero la loro omni-esplicazione da parte di un Dio che era presente nel mondo non ontologicamente ma solo gnoseologicamente, ossia come il più sommo dei Principi di conoscenza.
Qualcosa di simile veniva affermato in quel periodo anche entro lo Spiritualismo di Maine de Biran [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, 17-19 p. 40-42, 61-67 p. 65-73, 83-90 p. 82-88].
Tuttavia neanche così ci troviamo entro il classico campo delle minuziose e contorte argomentazioni iper-logiche dell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Ci troviamo invece soltanto entro l’impiego sostanzialmente gnoseologico della metafisica che è stato sempre tipico della filosofia idealista o tendenzialmente idealista, e che non a caso ritroviamo anche in Cartesio e Leibniz. Si tratta insomma del famoso «razionalismo metafisico». Abbiamo già visto che esso è senz’altro una delle radici dell’attuale ricerca scientifico-religiosa, ma comunque non coincide affatto con essa.
Ma Göcke rincara la dose leggendo il pensiero di Krause nel contesto dei principi di una gnoseologia ancora più moderna, ossia quella che si sviluppò nel corso del XX secolo con la Fenomenologia di Husserl ed il neo-kantismo. Egli dice insomma che Dio è l’Assoluto capace di chiudere il regressum ad infinitum generato dalla postulazione di diversi livelli di Io trascendentale quale termine ultimo della conoscenza veridica, ed inoltre rappresenta anche il culmine del rapporto auto-conoscitivo che l’Io intrattiene con sé stesso sempre allo scopo di ritrovare in sé la verità. La differenza tra l’Io divino e i vari livelli più immanenti dell’Io stesso consiste intanto nel fatto che nel suo caso l’atto di relazione (auto-conoscitiva) dell’Io con sé stesso non comporta alcun conflitto tra totalità e singolarità dell’identità (che sempre si costituisce come termine dell’atto di relazione con sé stesso). E quindi in definitiva il “tutto in Dio” (“Alles in Gott”) ha un estremo significato gnoseologico, anzi più precisamente logico – esso significa che Dio null’altro è se non Dio (“außer Gott nichts ist”). Insomma Dio rappresenta la forma più incondizionata possibile dell’«è» predicativo, e quindi la massima espressione del principio logico di non-contraddizione applicato specificamente all’identità. Il che fa di Lui l’Io trascendentale per eccellenza, e quindi il vero principio ultimo della conoscenza.
In tal modo Egli è anche l’essenza dell’essenza (ossia la suprema categoria stessa di essenza). Ecco dunque definitivamente decifrato, secondo Göcke, l’insieme di proposizioni implicate dal panenteismo, e tutte sottolineanti il fatto che «Dio è in tutto» nel mentre intanto (senza alcuna contraddizione logica) «tutto è in Dio». Proposizioni che poi di fatto si riuniscono già di per sé nel «mondo in Dio» − «Dio-è-in-tutto», «tutto-è-in-Dio» e «tutto-è-Dio». Insomma Dio è tutto (e dunque allo stesso modo tutto è Dio) sostanzialmente perché Egli non ha bisogno di essere sottomesso ad alcuna forma immanente (ovvero non assoluta) di totalità (“tutto”) identitaria. E ciò a causa del fatto che è già di per sé “tutto”, e lo è così tanto da non ricadere in tal modo nemmeno in alcuna categoria di singolarità (che non sia assoluta, ma invece solo immanente). La conseguenza di ciò rientra per il pensatore nel pieno del classico tema dibattuto nell’Idealismo tedesco secondo l’aspirazione di rileggere gnoseologicamente la metafisica, ossia quel tema della relazione tra Ragione e Natura sul quale aveva riflettuto a fondo anche Schelling [Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ideen zur einer Philosophie der Natur, Holzinger, Berlin 2016]. Insomma per Göcke si tratta della fusione di quelli che per la Scienza sono due poli opposti tra loro (specie nei termini di quella Scienza della Natura della quale Schelling si occupò), ossia “Natura” e “Ragione” (“Vernunft”) – il primo polo (Natura) costituisce la “totalità” (“Ganzheit”) per eccellenza, mentre il secondo (Ragione) rappresenta invece la “seità” singolare (“Selbheit”) per eccellenza. Laddove questo secondo termine è in effetti l’Io conoscente in quanto soggetto e non oggetto. Ed è chiaro che qui sono rappresentati i due termini fondamentali della conoscenza. A Göcke non sfugge che in tal modo ricorrono anche i termini del non-dualismo śankariano, ma egli intanto non intende in alcun modo soffermarsi su questo significato intensamente metafisico-religioso del panenteismo. Per cui alla fine la sua intera argomentazione finisce per sostenere che il nucleo del panenteismo − cioè il concetto di «mondo in Dio» − ha l’unico significato di porre in Dio tutto quanto può essere conoscibile e conosciuto. E ciò secondo gli auspici più fervidi della Scienza. In altre parole nella realtà di Dio si realizza la forma più felice e piena di conciliazione conoscitiva tra Natura (oggetto) e Ragione (soggetto). E questo è tutto!
Ora va notato che Göcke è sostanzialmente un teologo e docente di storia delle religioni. E quindi ciò che egli argomenta sulla base di Krause sottolinea il significato sostanzialmente scientifico del panenteismo, ma intanto egli non sembra avere alcuna intenzione di dissociarlo dalla consistenza e veridicità dell’idea di Dio. Per cui la sua lettura del panenteismo resta entro i tradizionali limiti di quella visione idealistica che volle essere teologia nel mentre perseguiva l’obiettivo di riflettere sulle caratteristiche della scienza, affermandone anche fortemente il valore.
Con ciò non siamo quindi ancora affatto nel contesto della ricerca scientifico-religiosa. Anzi ci troviamo anche ancora nel pieno della Filosofia. Ma vediamo ora cosa accade provando a discutere le letture del panenteismo da parte di Hutchings e Mullins.
Hutching sembra a prima vista argomentare anche lui sostanzialmente come un filosofo, ma poi inserisce nel suo discorso anche elementi di tipo scientifico-religioso (simili a quello già commentato dello Spirito divino come energia cosmica) ed inoltre giunge alla fine a conclusioni critiche che sono decisamente anti-filosofiche. In ogni caso egli sembra avere due sostanziali intenzioni: − 1) quella di sottolineare le incongruenze logiche del panenteismo; 2) quella di correggerlo in senso ancora più riduzionistico di quanto accada entro la lettura di Göcke. E la sua critica si appunta in particolare su quella dimensione dell’”in” che domina l’intera argomentazione panenteistica – ossia quella relativa sia alla presenza di Dio nel mondo sia alla presenza del mondo in Dio.
Su questa base va notato che egli innanzitutto critica molto severamente il concetto di ubiquità affermato nel panenteismo (“God is Everywhere”) sottolineando che in esso il concetto del ”dove” (“where”) non viene affatto chiarito. Ed è evidente che in questo modo egli trascura totalmente una località concepita in termini integralmente metafisico-religiosi, e quindi al di fuori di qualunque spazialità mondano-sensibile. Oltre a ciò egli contesta che il panenteismo non fa affatto (come invece dovrebbe) una constatazione aggiuntiva rispetto a quella dell’ubiquitarietà di Dio, e precisamente nel senso del “ma” (“all is God, but we are all in God”). Esso insomma pretende di presentare come assimilazione (tra proposizioni) quella che invece, sul piano logico, resta appena una sostituzione – nel senso che o «tutto è in Dio», oppure invece «Dio è in tutto», e senza alcuna possibilità di risolvere tale contraddizione logica. Oltre a ciò il panenteismo pretende addirittura di rende le due proposizioni consequenziali (“’we are in God’ whatever this ‘in’ may mean”). In altre parole egli contesta radicalmente il concetto di «contenimento» intra-divino del mondo che il panenteismo vorrebbe rendere simultaneo al concetto di impregnazione divina del mondo stesso.
E quindi accusa in panentesimo di affermare e negare allo stesso tempo. Insomma lo demolisce logicamente nella forma in cui di fatto si presenta. E così – com’è tipico entro tali argomentazioni su concetti metafisici – inizia a pensare di doverlo correggere.
Per cui egli propone di eliminare il primo significato per lasciare in piedi solo il secondo. Ed in questo caso l’”in” andrebbe secondo lui inteso unicamente come la vitalità animica di tutte le cose in forza della presenza divina nel mondo. Ed ecco l’emergere del concetto di Spirito divino come energia cosmica vivificante affermata da Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571]. Ma soprattutto egli contesta al panenteismo degli errori logici che secondo lui sono tipicamente alla volontà di cercare nella Filosofia la soluzione a problemi che riguardano invece in definitiva la sola Natura (anche quando vengono intesi in senso religioso). Ed è evidente che dietro questa accusa alla Filosofia vi è l’accusa ai resti di metafisica che ancora nel XX secolo si facevano sentire in essa. Egli ne conclude quindi che, dato ormai il sussistere di una cosmologia scientifica assolutamente vincolante, bisognerebbe smettere una buona volta di cercare soluzioni alle questioni ontologiche ricorrendo a libri come il Genesi ed il Timeo.
E con ciò egli assume quindi alla fine la classica posizione scientifico-religiosa.
Ma vediamo cosa dice al proposito invece Mullins. Egli sostiene più o meno la stessa tesi critica di Hutching (vaghezza ed illogicità dottrinaria, infondatezza della sua differenziazione tra teismo e panteismo, assente giustificazione dell’aspirazione a mediare tra teismo e panteismo ecc.), ma comunque rincara la dose perché accusa direttamente la stessa teologia. Egli dice infatti che il panenteismo ricade in quelle artificiose soluzioni che oggi i teologi ricercano per offrire all’uomo moderno un’immagine di Dio ancora “più teologicamente adeguata”. E nel caso specifico sarebbe quella di una divinità intesa come “relazionale e dinamica”. Ed eccoci quindi all’interpretazione della Trinità secondo la moderna “ontologia relazionale” che ci viene proposta da Paolini Paoletti, così come anche alle linee guida del post-teismo che poi vedremo esposto da Gamberini. Possiamo insomma qui constatare quanto vero sia che il post-teismo si è presentato come uno sforzo di rispondere a tutte queste obiezioni senza però mai abbandonare il terreno dell’approccio scientifico.
Insomma, sebbene questa non sia affatto la sua intenzione, quella di Mullins è un critica molto pesante a quella ricerca scientifico-religiosa che vede come protagonisti proprio i moderni teologi (specie post-teisti), angosciati come sono dall’imbarazzo che essi provano verso l’immagine di Dio proposta nella Rivelazione in quanto in lampante conflitto con la moderna scienza (e specialmente l’ormai così sofisticata se non para-teologica fisica cosmologica). In ogni caso egli prende atto del fatto che vi è anche un panenteismo decisamente anti-teistico, e che quindi esso si pone decisamente fuori della moderna teologia scientifica.
In ogni caso Mullins legge il panteismo come la postulazione di una sostanza unica divino-mondana (e che quindi chiaramente parla di un Dio impersonale); e quindi lo ritiene una visione decisamente non teistica.
In ogni caso lo studioso si fa comunque sostenitore di una sorta di teismo post-teistico, dato che secondo lui gli oggettivi ed eterni attributi di Dio (concepiti entro la tradizione teologico-metafisica) devono ormai venire posti decisamente in discussione. In ogni caso egli attribuisce al panenteismo il valore e ruolo di ponte tra panteismo (secondo lui indubitabilmente anti-teistico) e il teismo. E questo potrebbe avere anche molto senso perché in fondo il panteismo nella sua versione panenteista rappresenta l’immanenza di Dio, mentre il teismo rappresenta la sua trascendenza. E sappiamo ormai bene che queste due dimensioni divine sono in verità simultanee. Ciò è però sostenibile unicamente sul piano autenticamente metafisico-religioso, e quindi contro-razionale e contemplativo. Non certo invece su un piano rigorosamente logico. Ma è esattamente quest’ultimo quello che interessa a Mullins (così come ad Hutchins). Per cui alla fine egli condanna senza appello il panenteismo affermando che la più lampante contraddizione di questa visione consiste nel fatto che essa pretende di porre sullo stesso piano (assimilandole e rendendole perfino conseguenti logicamente), due affermazioni che costituiscono invece degli inconciliabili opposti logici: –
Dio non è identico al mondo, e quindi è “più” del mondo / Dio non è distinto dal mondo, e quindi è esteso quanto il mondo. A ciò si aggiunge poi che ci si aspetta che il mondo sia “in” Dio anche se Dio è “più” (maggiore) del mondo. Ecco insomma che di nuovo l’”in” diviene l’autentico perno intorno al quale effettivamente gira l’intera visione panenteista. Proprio su questa base egli critica sistematicamente le idee di diversi pensatori panenteisti moderni (Oord, Clayton, Winters, Barua, Lataster, Peacocke ecc.).
A questo punto vale però la pena di prendere in considerazione anche il discorso condotto sul panenteismo da parte di un autore indù e cioè Purushottama Bilimoria. Questo articolo è di estrema importanza perché esso riporta la visione panenteista alle sue fortissime implicazioni metafisico-religiose, e cioè il non-dualismo śankariano ed il connesso idealismo di stampo vedantico-upanishadico. Ma più in particolare egli intende discutere il tentativo di Radhakrishnan di ricondurre le Upanishad all’idealismo occidentale.
Radhakrishnan sostenne infatti che l’Uno (non finito / non infinito) ha tutte le caratteristiche per partecipare del mondo (come le ha lo stesso Io assoluto hegeliano). E questo per lui sarebbe platonico (nel senso specifico dell’Uno-Molti) in quanto affermazione però del valore e non disvalore del cosmo. Sarebbe insomma l’affermazione che il mondo è pieno di senso. Ma ancora più in particolare egli finisce per sostenere che all’Assoluto divino spettano entrambi gli attributi dell’“essere” (“being”) e del “divenire” (“becoming”), e quindi quelli dell’”immanenza” e della “trascendenza”. Pertanto (in forza di questo legame all’essere) egli ritiene di avere evidenziato la “non impersonalità” dell’Assoluto divino delle Scritture indù. Cosa che poi implica per lui il “panenteismo”.
Il che ci conferma quindi che questa visione è tutt’altro che l’affermazione dell’impersonalità del Dio trascendente; cosa che non era però affatto emersa nella riflessione occidentale su di essa. Bilimoria precisa quindi che proprio su questa base si sviluppò il progetto di Radhakrishnan di “salvare le apparenze” compromesse da una lettura non filosofica dei testi sacri. E così egli finisce per avvalorare l’ipotesi che i “veggenti” (”seers”) delle Upanishad (ossia coloro che più hanno incarnato l’intuizione visionaria che permette di penetrare intellettualmente al metafisico le verità della Rivelazione) abbiano concepito un mondo e soprattutto un mondo “pieno di senso” (“meaningful”). In altre parole il Vedanta upanishadico non avrebbe affatto svalutato il mondo.
Su questa base Radhakrishnan sostiene infine che il Brahman è un Assoluto per varie vie compromesso con l’essere – come suprema origine di ogni cosa, come Bene-Verità della cose (al modo di Platone), come effettivo motore immobile del cosmo (per quanto trascendente). E tutto ciò si basa secondo lui sui supposti paralleli tra le Scritture indiane e Platone, così con l’intera cultura greca specie ateniese.
Ecco. Appare evidente che solo in questo modo noi ci approssimiamo al pieno significato e valore che può avere il panenteismo. Ciò può accadere insomma solo quando il relativo concetto non viene sottoposto alla devastante dissezione analitico-logica che la moderna ricerca scientifico-religiosa occidentale gli ha inflitto. E questo è esattamente ciò che non accade in Bilimoria, il quale non a caso si limita ad argomentare in maniera unicamente filosofico-metafisica e metafisico-religiosa, e senza fare uso di alcuna rigorosa logica né di alcun approccio sicentifico. Ecco che a questo punto il panenteismo può davvero soddisfare il pensatore tradizionalmente metafisico-religioso, dato che esso si lascia intendere come una moderna rilettura dello Spiritualismo pneumatico. Ma naturalmente, messe così le cose, il panenteismo cessa definitivamente di essere assimilabile al post-teismo.
II-2. Teismo, anti-teismo e ateismo.
Uno degli studiosi che oggi più si è impegnato a sostenere il post-teismo è senz’altro l’italiano Paolo Gamberini. Tuttavia, prima di giungere a discutere il suo articolo, prenderemo prima in considerazione altri temi ed autori, anche se essi a volte non si producono in affermazioni ed argomentazioni direttamente post-teiste (e cioè semplicemente anti-teiste) ma invece in affermazioni ed argomentazioni avverse al concetto tradizionale di Dio e per varie vie, come quella della negazione di un Dio-Persona [Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338]. Insomma vogliamo in tal modo premettere al post-teismo la trattazione di teismo, anti-teismo ed ateismo così come si presentano nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. E quindi in questo modo potremo vedere qual è il percorso di pensiero che ha portato al post-teismo come necessità di risposta ai così abbondanti argomenti anti-teisti che nel tempo sono stati apportati nella scienza della Religione.
Chastain menziona una buona fetta di letteratura anti-teista a proposito del tradizionale concetto della vita come dono divino. Concetto che recentemente è stato riaffermato da teista Solomon (The psychology of gratitude) nel sottolineare la necessità della gratitudine umana verso un Dio personale. L’esatto contrario accade invece nella fede areligiosa che viene qui sostenuta, entro la quale la gratitudine per la vita sussiste egualmente ma senza alcun riferimento ad un benefattore personale. Ma la critica al concetto integralmente religioso di gratitudine per il dono della vita è anche un’altra, e cioè è l’accusa di insostenibile astrattezza rivolta ad essa. Specie sulla base dello scritto “Philosophy of flesh” (Lakoff e Johnson, 1999), viene infatti sostenuto che non si può parlare in astratto di ciò che invece è intensamente concreto. Ed estremamente concreti sono sia il dono che la stessa gratitudine.
Quindi non si può attribuire a Dio un concetto letterale di dono, senza con ciò cadere in un grave errore logico, e quindi in una falsità. In particolare si impiega qui una metafora corporea a proposito di un atto divino. Ma non vi è solo questo, perché anche lo stesso concetto di «dono della vita» è del tutto improprio, dato che il dono è per definizione utile, e quindi deve produrre qualcosa di tangibile, ossia la felicità. Non può quindi essere un dono quello che pone l’uomo in una posizione esistenziale entro la quale nella maggioranza dei casi vi è l’esatto contrario della felicità.
Ecco insomma un anti-teismo che si presenta nella forma di denuncia della retorica mistificatoria impiegata tradizionalmente nel conferire a Dio attributi rientranti nell’idea umana della bontà. Da questa critica non può scaturire pertanto altro che a Dio questo carattere va negato nel contesto della necessaria negazione ad esso della stessa realtà personale. Dato che quest’ultima sarebbe in realtà solo umana e mondana, ossia integralmente materiale e carnale. Ne risulta quindi che l’anti-teismo qui in causa si oppone frontalmente ai contenuti della Rivelazione, ossia li nega letteralmente. E questo delinea una particolare area di ricerca della attuale scienza della Religione dato che Chastain è un’esponente di quel pensiero che definisce sé stesso come “spiritualità” non religiosa, quindi di fatto una sorta di religiosità atea. Eccoci insomma nel campo di un anti-teismo che è anche espressamente ateo. Non a caso lo studioso colloca le sue riflessioni nel concetto di “postsecular age” coniato da Habermas. Siamo insomma così nel pieno della paradossale religiosità atea post-moderna.
Una tesi relativa allo stesso tema è poi quella di Dealey, il quale si interroga sulla gratitudine verso Dio rispetto alla questione del migliore dei mondi possibili e quindi anche della Grazia. In quanto teista, la presa di posizione di Dealey è però diametralmente opposta a quella di Chastain in quanto essa ci mostra come l’impiego di corrette argomentazioni teologiche spazzi via come del tutto superfluo l’intero campo delle argomentazioni logico-teologiche; tra le quali le davvero assurde riflessioni moderne (in gran parte peraltro nemmeno religiose) sui molteplici mondi possibili. Peraltro egli si schiera anche decisamente da parte della presa di posizione dell’uomo comune, ossia il semplice credente e uomo di fede. Dealey parte dalla principale obiezione anti-teistica dei filosofi analitici sulla base dell’argomento dei “mondi possibili” − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. Insomma – sempre sulla base di un’inflessibile logica rigorosa – essi pongono in questione il fatto che ci sarebbe una mancanza di “consistenza” tra la gratitudine e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Soprattutto a causa del fatto che questo atto divino era assolutamente necessario.
Ma egli ritiene che entro la Rivelazione vi siano sufficienti argomenti per rintuzzare questa obiezione specie sulla base di una Grazia che appartiene totalmente ed incondizionatamente all’azione divina in quanto puro “atto grazioso”. In particolare egli difende qui un “teismo dell’essere perfetto” sostanzialmente sulla base del primario argomento del rispetto divino della libertà umana (che abbiamo visto sostenuto anche da Berdjaev). Più precisamente si tratta del fatto che vi è una perfetta compatibilità tra la necessità dell’azione divina e la dimensione della libertà. E questo (secondo l’attuale piuttosto ridicola moda filosofica di generare “neo-ismi” a ciclo continuo) costituirebbe il cosiddetto “compatibilismo”. Questa teoria consiste semplicemente nel fatto che è perfettamente è compatibile compiere un atto necessario senza contraddire la libertà.
Una volta poste queste premesse più astrattamente teoriche, le argomentazioni successive di Dealey sono così condivisibili nella loro ovvietà (almeno per il credente anche solo poco edotto nel contenuto delle Scritture ed inoltre nella consuetudine diretta con Dio) che la loro discussione potrebbe anche venire omessa. Eppure siamo costretti a discuterle a causa di quel velenoso spirito critico (che vive e vegeta nell’approccio filosofico-analitico alla religione) che tende ad insinuare dubbi anche laddove essi non sono assolutamente giustificati.
In ogni caso l’autore chiarisce che l’invocazione del compatibilismo serve soprattutto ad evitare quell’”accusa” che sostiene l’impossibilità di conciliare la perfetta “bontà” (“goodness”) divina – a sua volta determinante necessariamente Dio a creare − con la sua libertà. Ed egli si rifà particolarmente in questo alle riflessioni di Wierenga [Wierenga E, “The freedom of God”, Faith and Philosophy, 19, 2002, 425-436; Wierenga E., “Perfect goodness and divine freedom”, Philosophical Books, 48, 2007, 207-216].
Insomma la cosa è estremamente semplice – dei buoni desideri (non inquinati dalla brama e dall’irresistibile spinta istintiva, come accade nel consumo di droghe o nella dipendenza patologica dal potere) non possono che generare un’azione buona, cioè invariabilmente rivolta al Bene. Ed a questo punto il fatto che essa sia necessaria (come avviene nell’azione creativa di Dio) non cambia assolutamente nulla nella bontà dell’atto. In altre parole, una volta sottomessa all’etica, la necessità dell’azione divina è per definizione compatibile con la libertà. Si tratta insomma in definitiva di dover compiere necessariamente delle azioni libere rivolte al bene. E ci sembra che ciò trovi del resto una perfetta rispondenza nella teologia di Dostoevskij commentata da Berdjaev – la libertà è un valore supremo ed inviolabile, eppure essa è all’altezza di questo suo valore assoluto solo se è rivolta al bene; altrimenti si trasforma addirittura nel suo opposto (la schiavitù) per mezzo dell’arbitrio che prende fatalmente il suo posto nell’azione rivolta al male
[Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57, III p. 62-66, IV p. 75-81].
In altre parole la logica dei filosofi analitici (nonostante tutta la sua supponenza) – secondo la quale Dio non può cercare altro che il migliore dei mondi possibili, e quindi non è affatto libero bè buono nel suo agire − non ha il benché minimo potere su questa complessiva questione. E peraltro non ha alcun potere su di essa in base a considerazioni che qualunque uomo della strada (ammesso solo che sia credente) potrebbe fare. Eppure lo stesso Dealey cita importanti studiosi che hanno puntato tutto su questa teoria critica ed anti-teista − Adams (ne suo commento dei Salmi), Laura Garcia, William Rowe.
Ma comunque (per restare comunque sul piano filosofico) lo studioso sostiene che l’inconsistenza non sussiste affatto se si punta l’attenzione sull’atto divino stesso, e cioè sulla sua natura di atto invariabilmente “grazioso”. Il che è poi la stessa identica cosa che sostenere che un desiderio buono può produrre solo un’azione rivolta al Bene. Per il resto (ed anche questo è assolutamente ovvio per l’uomo comune credente) la Grazia divina non ha alcuna relazione con il “merito” del recipiente dell’azione graziosa divina. Altrimenti non sarebbe ciò che è. La Grazia dipende solo quindi dalla qualità (amorosa) della disposizione divina all’azione e da assolutamente niente altro. E qui Dealey chiama in causa le riflessioni di Feinberg [Feinberg J., No one like Him: the doctrine of God, Cossway Books, Wheaton 2001].
Quindi l’invocazione dell’umana gratitudine finisce per essere quindi un mero pretesto (e non poco volgare) che la logica filosofica-analitica (screditando così non poco sé stessa) ha escogitato con il del tutto scoperto intento di infamare Dio. E questo getta sull’intera ricerca scientifico-filosofica un’ombra davvero infamante.
Per questo Dealey chiama in causa le Scritture stesse – Genesi, 6:8 8 (Noè che ha trovato grazia…), Salmo 145:8, Esodo 34:6, Pietro, 5:10 (la Grazia ci associa alla Gloria di Cristo).
Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo, dato che il nucleo della questione è semplicemente la totale gratuità dell’amore divino, il quale per definizione non può in alcun modo essere utilitaristico e quindi non può aspettarsi alcun effetto. Meno che mai la gratitudine umana.
Una volta chiarito questo non c’è bisogno di dire di più delle argomentazioni di Dealey che si approfondiscono poi in ulteriori aspetti della faccenda ed anche su ulteriori prese di posizione di studiosi.
Qualcosa di ancora più estremo in senso critico si ritrova poi in Trakakis, il quale inizia contestando alla Religione il diritto di controllare totalmente la fede. E qui peraltro egli avvalora la dissociazione totale della Filosofia dalla Religione che è stata sostenuta da pensatori come Heidegger e Bertrand Russell. Insomma siamo in un campo di riflessione diametralmente opposto a quello delineato da Berdjaev.
Il tema qui, comunque, è ancora più scottante perché è quello del male. In tale contesto lo studioso non intende nemmeno prendere posizione nella sconfinata querelle che secondo lui si è scatenata nel tempo tra teisti ed anti-teisti. E così prende atto del proclama di Plantinga (1980) nel quale si chiedeva ai pensatori cristiani di argomentare unicamente in circoli cristiani evitando qualunque confronto con pensatori agnostici e atei. In altre parole per lui la filosofia religiosa (che sia credente o atea) è comunque inaccettabilmente ideologica, e quindi da essa non vi è da aspettarsi assolutamente nulla. Ed ovviamente, se questo è il giudizio sul pensiero cristiano, figuriamoci quale può essere quello sulla Rivelazione.
Un panorama un po’ più ampio ci viene offerto da Breul. Egli però appare rappresentare perfettamente l’attuale ricerca scientifico-religiosa propria dei teologi che si sforzano di affermare l’idea di Dio senza ricorrere al teismo. Ci troviamo così di fronte ad una posizione intermedia tra teismo ed anti-teismo (o ateismo), e cioè di fronte ad una sorta di non-teismo dell’idea di Dio. Una posizione questa assolutamente emblematica, dato che essa esprimere l’inspiegabile imbarazzo oggi provato dai teologi specie davanti ad un Dio personale. Ed ovviamente, a questo punto, la visione di Berdjaev si presenta al proposito come un’alternativa davvero tangibile. Questo non-teismo appare comunque essere già molto prossimo al post-teismo.
Breul presenta comunque un vasto scenario di autori in cui possiamo farci un’idea molto precisa delle diverse tendenze attualmente all’opera, ed anche, comunque, della vera e propria astrusità paradossale di alcune prese di posizione. C’è Schnädelbach che sostiene apertamente l’assenza di Dio senza che ciò abolisca per lui la necessità di una Religione – postulando così una religiosità del tutto naturale dell’uomo la quale non richiederebbe né il supporto di alcuna Istituzione né tanto meno una Persona divina nella quale credere. Inoltre proprio in tale contesto egli sostiene la necessità che la fede (“faith”) sia essenzialmente “fiducia” (“fides”), e non invece “credenza” (“belief”); e quindi sia spogliata di qualunque natura cognitiva. Ma intanto la fiducia presuppone molto esplicitamente il dubbio, per cui la fede convive naturalmente con quest’ultimo. La sua posizione definisce comunque sé stessa come “ateismo pio” e quindi assomiglia molto alla spiritualità non religiosa di Chastain. Davvero però non è possibile capire in cosa consista una religione che sussiste in assenza di Dio. In ogni caso (come abbiamo detto) nel caso di Schnädelbach ci sembra che così siamo già piuttosto prossimi al post-teismo.
C’è poi Dworkin, il quale addirittura sostiene l’inconciliabilità della Religione con Dio, ossia con l’idea di Dio; ma precisamente con l’idea più esplicitamente teistica di Dio, ossia quella di un Dio personale che poi impregna di sé perfino il mondo senza perdere la propria identità e trascendenza. Così egli (alla Spinoza) sostiene di fatto un mondo divino assolutamente impersonale, nel senso di buono, bello e pieno di senso anche in assenza di un Dio personale. È evidente qui l’opposizione nettissima alla Rivelazione nel pensare un mondo divino.
La posizione di Nagel (Thomas Nagel, “Geist und Kosmos”) è chiaramente teistica sebbene egli sostenga di fatto il classico “intelligent design” della tradizione tomista-aristotelica in assenza però di qualunque azione volontario-personale, e quindi come universo pieno di senso in quanto chiaramente diretto da un Piano verso un preciso scopo (che si manifesta pienamente nell’intelligenza della Natura). In questo egli si oppone peraltro molto nettamente al concetto scientifico di caso. A ciò anch’egli aggiunge che la fede comporta il dubbio perché essa non è affatto fede nella verità bensì in una persona. Non si vede però dove sia la persona nella sua complessiva visione di un mondo impregnato dal divino in maniera del tutto impersonale. Una traccia di comprensione di questa curiosa assenza si può però ritrovare laddove egli critica apertamente il teismo in quanto tentativo di presentarsi come spiegazione scientifica del mondo. Infatti la Religione teistica include per lui ineluttabilmente la metafisica dell’essere, e quest’ultima non è affatto una spiegazione del mondo. Infatti l’ordine mondano può essere presupposto anche in totale assenza dell’esistenza di Dio. E la scienza basta quindi pienamente per darne ragione. Ecco allora che per lui la questione di Dio è puramente e pienamente etica, così come anche il Piano intelligente e la fede in esso.
A questo punto possiamo quindi solo pensare che per Nagel la fede in una Persona divina si limiti ad un campo estremamente ristretto ed anche riduttivo della dimensione religiosa, e cioè quello appunto etico (che può ben costituire una sorta di ipo-religione). Ora, è ovvio che la fede nella Persona divina non può comportare anche una letterale cosmologia di stampo religioso (come quella dell’antica onto-metafisica), ma comunque deve poter andare oltre il piano dell’etica comportando almeno la presenza di un essere, e cioè la dimensione ontologica (ossia ciò che soggiace a qualunque cosmologia). E questo è esattamente ciò che avviene in Berdjaev, secondo il quale la Persona divina equivale esattamente all’essere nella sua più radicale concezione. Ma di questo non vi è alcuna traccia in Nagel, e quindi di nuovo ci troviamo di fronte ad un riduzionismo. Nella sua visione infatti sembrano venire addirittura affermate le ragioni di un certo teismo (sebbene fortemente razionalizzato), ma intanto anch’esso appare comunque fortemente dissociato ad un’ontologia autentica e forte della Persona divina. E quindi di fatto esso si pone come una specie di post-teismo, sebbene senz’altro non corrisponda ad una posizione non-teistica.
Krummel discute poi una neo-metafisica nichilistico-buddhistica oggi molto in voga, e cioè quella di Nishida, la quale ha peraltro addirittura l’intenzione di appaiare la teologia buddhistica con quella cristiana per mezzo del concetto di kenosis divina. E qui ci troviamo di fronte ad una presa di posizione tra le più astruse nella sua straordinaria tensione alla complessizzazione estrema di concetti teo-metafisici ed anche semplicemente onto-metafisici. E vedremo infatti che i suoi risultati vanno ben oltre tutti i termini che finora abbiamo preso in considerazione – teismo, anti-teismo (o ateismo), non-teismo, post-teismo.
In via di principio egli dichiara di credere in un Dio totalmente “nascosto” in quanto allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma comunque del tutto invisibile quando è immanente. In quest’ultima posizione esso corrisponde al mondo divino e precisamente a quello che lo shintoismo ritiene abitato dalle “deità” per eccellenza, ossia quegli spiriti divini che vengono definiti “kami”. E qui ci troviamo comunque di fronte ad un deciso post-teismo in quanto affermazione della deità in luogo della Persona divina. E Nishida infatti afferma che il teismo non è altro che una distorsione linguistica dell’idea di Dio in quanto illegittimamente del tutto dominata dalla dimensione abusiva dell’”is”, ossia dell’”è”. E qui egli chiama in causa direttamente Eckhart come protagonista di questa critica al teismo. Ma egli va anche oltre questo nel postulare come sostanza fondamentale un Nulla entro il quale l’essere si limita ad apparire e scomparire continuamente, in modo tale che il non-essere stesso vi ha pieno diritto di domicilio. E questo Nulla equivale quindi per lui anche a Dio stesso. Con ciò però viene comunque postulata una presenza. Motivo per cui anche in caso di negazione di Dio (anti-teismo) la sua presenza non può venire davvero negata. Ecco allora che Nishida ritiene non validi sia il teismo che l’anti-teismo. Per tale motivo, come dice Krummel, nel suo caso si delinea una “teologia atea” o meglio una “A/teologia” (secondo la definizione di Taylor) e quindi di fatto una teologia senza Dio. Qui insomma siamo messi molto peggio che con Schnädelbach e Dworkin, dato che la teologia stessa nega l’esistenza di Dio senza nemmeno dove essere anti-teistica o ateistica o infine anche post-teistica. In questo genere di teologia insomma Dio viene identificato con il Nulla stesso.
E quindi è evidente che esso è più che mai un’entità purissimamente metafisica, della quale non si può nemmeno pensare che mai possa divenire oggetto di fede da parte dell’uomo. Questo Dio insomma non è altro che l’essere nella sua più radicale formulazione. Ma non in quanto infinitamente creatore come quello di Berdjaev, bensì invece come il Nulla stesso. E qui davvero quindi ci troviamo in un campo in cui all’uomo non viene lasciata altra scelta che la totale disperazione. A molto poco serve quindi che Nishida si sforzi di postulare in questo contesto quella kenosis divina che poi in Bedjaev abbiamo visto molto prossima al Dio-Persona. Anche questa kenosis sarà infatti nichilistica e molto puramente metafisica. E quindi non potrà servire ad alcuna vera fede. Per cui non perderemo nemmeno tempo a descriverne i dettagli estremamente complessi.
A questo ateismo teologico di Nishida merita di venire appaiato anche quello di Ueda Shizuteru e precisamente la visione della Scuola di Kyoto (ateismo teologico definito qui come “mistica del nulla”) − che si incentra anch’esso nella ricerca di assonanze tra il Buddhismo e il presunto tendenziale post-teismo di Eckhart basato sul concetto di “deità” (“Gottheit”) −, che viene discusso da Vianello. Ma preferiamo rinunciare a questa discussione per non prolungare troppo la nostra esposizione. Anche perché l’articolo in questione sconfina in un campo in fondo lontano dalla disputa tra teismo ed anti-teismo.
Larmer (che è sostanzialmente un teista) addirittura riconosce l’anti-teismo nel pieno della dottrina neo-tomista più scettica che oggi esista. Ed egli fa nomi e cognomi: − Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz. Il che è estremamente interessante perché ci mostra in questi studiosi i prototipi stessi dei moderni teologi che, nell’essere anti-teisti, si affidano totalmente non solo alla logica ma anche alla scienza empirica in tutta la sua attuale vigenza. Ed è significativo che essi vengano definiti come “scettici”. Questi neo-tomisti rigettano infatti il teismo in quanto negano in Tommaso una dottrina dell’”intelligent design” (ID) intrinseco alla Natura, dato che al loro avviso l’Aquinate presupponeva la totale dipendenze dall’esistenza primaria di Dio del potere in possesso degli esistenti.
Il che contraddice in modo lampante la dottrina dell’evoluzione, e quindi la spiegazione scientifica della creazione di essere. In luogo di quest’ultima infatti Tommaso avrebbe lasciato vigere unicamente la spiegazione “metafisica” della creazione e dell’essere. A ciò si aggiunge inoltre il solito impiego implacabile della logica da parte di questi così singolari anti-teisti, e cioè il rimprovero a Tommaso di avvalorare il “Dio dei vuoti” (“God of gaps”), ossia il Dio che avalla i vuoti nella spiegazione delle cose. Ma oltre ciò i neo-tomisti scettici sollevano forti obiezioni alla postulazione dello stesso intervento diretto di Dio nel mondo da parte di Tommaso. Con la conseguenza, secondo loro molto grave, della confusione tra Dio come Causa primaria e Dio come causa secondaria. Essi ammettono infatti Dio come Causa primaria, ma unicamente sul piano teologico. E quindi ritengono un errore epistemologico considerarlo tale anche fuori dell’ambito teologico. Perché così di fatto si passa dalla teologia alla cosmologia naturalista. E su questo non c’è molto fa obiettare. Ma intanto l’obiezione di Larmer va menzionata perché è molto acuta ed inoltre molto utile ai nostri scopi. Infatti egli dice che colui che in generale ha fede nell’intervento diretto di Dio nel mondo è anche molto più aperto alla dottrina dell’ID. E tuttavia essi sono aperti alla versione integrale di questa dottrina e non a quella unilateralmente scientista e scientifico-empirica, per cui vedono l’azione di Dio anche dietro all’intrinseca intelligenza della Natura. Di conseguenza essi sono convintamente teisti.
Ma cosa può significare questo per i nostri scopi? Può significare che, sebbene l’intervento di Dio nel mondo sia da intendere ovviamente in modo primariamente etico – come nel contesto di quella fede nell’«aiuto divino» che non si illude affatto circa la necessità di accettare la prova dolorosa anche nel contesto della più intensa prossimità divina −, ciò si presta molto bene a travalicare questo ambito (che potrebbe anche essere solo vuotamente retorico-teologico e pietistico) verso l’ambito della piena fede nella presenza reale della Persona divina.
E questo di nuovo ci riporta alla complessiva teoria filosofico-religiosa di Berdjaev. Dato che evidentemente il teismo può avere tutti i difetti logici che si vuole, ma perlomeno preserva quella fede nel Dio-Persona in assenza della quale davvero non sapremmo dire più cosa significa concretamente essere religiosi e soprattutto cristiani.
Una volta posto in evidenza questo, il resto delle argomentazioni pro-teiste di Larmer può essere anche trascurato, dato che esso non concerne direttamente i nostri scopi. Va solo ricordato che egli ci informa che il genere di anti-teismo da lui contestato (che afferma il non intervento di Dio nel mondo) affonda le propre radici addirittura nel XVIII secolo, e quindi nell’empirismo e nell’Illuminismo. Il che conferma quanto già abbiamo visto, e cioè che la complessiva teoria del post-teismo ha le sue radici abbastanza lontano nel tempo entro la storia della filosofia e della teologia.
Platzer va poi direttamente (e perfino brutalmente) al dunque chiedendosi se per davvero si può pensare che esista un Dio. E questo la dice del resto molto lunga sullo spirito che domina nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Essa infatti nutre dei dubbi davvero così radicali da obbligarci a chiederci se per davvero essa si collochi ancora nell’ambito religioso. Per la verità egli pone la questione molto più sul piano metafisico che non su quello teologico, ed inoltre si produce in un’argomentazione che è in realtà alla fine pro-teistica. Si chiede infatti se il presupporre un livello ontologico costituito da entità oggettuali altamente metafisiche non contraddica l’esistenza di Dio. E la sua risposta è decisamente sì. E per di più egli riconosce in questo una vera e propria grave “aporia” filosofica. Evidentemente perché l’astratto viene considerato più reale dell’esistente. Egli ripropone insomma l’antica querelle tra metafisica cristiana e pagano-platonica circa la possibilità di concepire somme entità onto-ideali che addirittura sarebbero ad un livello più alto di quello sul quale esiste Dio. Ma intanto si pone in particolare il problema della postulazione di somme entità metafisiche soprattutto in quanto supremamente “vere”. Ed è inoltre molto significativo che egli proponga come soluzione all’aporia la dottrina cartesiana ed ancor più quella neo-cartesiana. Il che significa che egli non ha la minima intenzione di argomentare su un piano autenticamente metafisico-religioso. E tuttavia restiamo non poco sorpresi nel constatare che egli intende però procedere comunque sul piano teologico. Egli infatti sostiene che la postulazione cartesiana di somme entità in quanto verità divine di fatto supporta un teismo puramente epistemologico (cioè gnoseologico) in quanto invece quello basato sull’esistenza di Dio (che fa di Dio un’oggettualità trascendente) comporta insuperabili aporie. In altre parole la dottrina teistica di Platzer rientra di fatto in quella gnoseologia filosofica che abbiamo avuto presente in tutto questo scritto (oltre che in altri), e che abbiamo visto severamente criticata da Berdjaev.
Ma le cose si aggravano ulteriormente quando lo studioso dichiara di volersi rifare al “neocartesianismo” e non invece a Cartesio in persona. A quest’ultimo infatti egli rimprovera severamente l’idea (secondo lui solo “bizzarra”) secondo la quale le verità divine presenti nella mente umana sarebbero state letteralmente “create” da Dio; laddove invece (secondo il neocartesianismo) esse sono appena il prodotto della volontà divina. E ciò comporta una visione relativa della necessità invece che assoluta, la quale pone di nuovo in evidenza l’epistemologia contro l’ontologia. In altre parole non è assolutamente vero che “ogni realtà è fondata in Dio” in termini ontologici (cioè secondo una “necessità metafisica” e quindi assoluta), ma è semmai vero invece che tutte le realtà vengono spiegate in Dio. E per sostenere questo egli menziona l’Eutifrone di Platone nel quale si dimostra che le cose non hanno valore in sé ma solo perché Dio le ama. Non ci sembra però necessario soffermarci su questo, se non per il fatto che questa presa di posizione platonica rafforza il teismo nel sottolineare la primarietà di Dio rispetto a qualunque cosa, include le cose di valore in quanto sommamente vere.
In ogni caso va detto che egli non si sogna nemmeno di negare che per Platone il “vero” sta al di sopra di tutto, e cioè al di sopra di Dio stesso. Esso rappresenta pertanto una necessità gnoseologica e non ontologica. Per cui, pur posta la primarietà di Dio (rispetto alle cose di valore in quanto da lui amate) quale esistenza, resta comunque la Sua sottomissione al “vero” in quanto autentica necessità assoluta. Il problema a questo punto è per lui solo quello di sottrarre alle somme entità (corrispondenti al “vero”) la natura di effettive oggettualità. Cosa per lui possibile considerandole così delle entità appena “modali”, ossia puramente ideali. E qui egli afferma il teismo nel difenderlo dalle aporie che insorgono quando si sostiene che Dio avrebbe creato le verità stesse invece si essere Egli stesso sottomesso ad esse. Si tratta insomma dell’affermazione della sottomissione di Dio alle supreme leggi della logica. E questo è ancora una volta un ben strano teismo, dato che limita fortemente la realtà di Dio e quindi anche la sua potenza, prestandosi così molto poco a fondare una fede entro la quale da Dio ci si aspetta tutto, anche ciò che è del tutto contrario alla logica stessa. E questo ancora una volta è quel Dio del «tutto è possibile» che si presenta soltanto nello Spiritualismo pneumatico (vedi articolo “Edith Stein e lo Spiritualismo”).
Detto questo non si sembra opportuno prolungarci ulteriormente nella discussione dell’articolo di Platzer se non per il fatto che egli assolve il teismo di Cartesio in quanto esso è in gran parte epistemologico (cioè gnoseologistico), mentre invece condanna quello di Leibniz che sarebbe invece intensivamente ontologico. Esso sostiene infatti che secondo il pensatore tedesco Dio è l’ente fondamentale nel quale è fondato tutto ciò che Lui non è, ossia le mere oggettualità mondane ed immanenti. Leibniz insomma afferma la necessità di Dio in termini ontologici e non gnoseologici. Tuttavia anche queste così sofisticate considerazioni metafisiche non si prestano affatto a fondare un’autentica fede.
Per cui, con Platzer, noi possiamo constatare l’esistenza di un teismo puramente metafisico che, a fronte delle necessità religiose del teismo stesso (equivalenti alla necessità si porre un Dio-Persona), appare in verità del tutto superfluo. In altre parole non mette affatto conto difendere questo genere di visione religiosa. Che peraltro intende obbedire più che mai alla logica ed inoltre alla più esigente e rigorosa epistemologia. Non a caso l’autore non nasconde che Cartesio gli sembra estremamente importante per contrastare ed anche correggere il teismo più “mainstream” ossia quello più letterale e forse (almeno dal suo punto di vista) anche ingenuo e volgare.
Di nuovo estremamente esplicita e diretta è la tesi di Cockayne, il quale intende addirittura difendere il pieno diritto all’ateismo, ossia all’anti-teismo (cioè l’inviolabile “diritto a non credere”). Non senza però difendere anche le ragioni del teismo ed inoltre non senza dichiarare del tutto inappropriato l’ateismo puramente epistemologico del quel finora abbiamo visto tanti esempi. La sua conclusione è che è giustificato in definitiva solo un ateismo morbido (cioè né dogmatico né aggressivo) il quale si basa semplicemente sulla constatazione che non vi sono elementi decisivi a favore o a sfavore della fede. Naturalmente questa presa di posizione svaluta la natura più autentica della fede che (sia per non teisti come Schnädelbach e Nagel) implica necessariamente il dubbio, e quindi è sempre rischio, e pertanto decisione. Ma questo per il momento non importa. Infine va sottolineato che Cockayne smantella letteralmente forti argomenti anti-teistici come quello del famosissimo Quine.
In definitiva comunque l’autore intende sostenere una tesi esattamente simile alla tesi dello psicologo della religione Henry James (“The will to believe”) secondo la quale la fede si giustifica unicamente su un piano volontario ed ancor più passionale, con il conseguente delinearsi di una vera e propria «volontà di fede». Cockayne (che durante la sua intera esposizione segue passo passo la falsariga delle tesi di James) sulla stessa identica base sostiene la piena legittimità di una volontà esattamente contraria. E ciò si basa peraltro sulla radicale discrepanza tra “fede“ e “credenza” che appunto James aveva sostenuto. Egli sostenne infatti che una credenza non ha affatto la forza di giustificare un’autentica “verità” (“truth”) oggettiva (“truth that p”). Dunque la fede manca naturalmente di “evidenza”, così come anche la stessa esistenza di Dio manca di evidenza. Ma intanto una vera credenza esige inflessibilmente proprio l’evidenza. La fede è pertanto semplicemente una fede priva di evidenza.
Su questa base Cockayne sostiene quindi che teismo ed ateismo hanno lo stesso identico diritto ad esistere. Motivo per cui può e soprattutto deve venire concepito [Rowe W. L., “The problem of evil and some varieties of atheism”, Am. Philosophical Quarterly, 16 (4) 1979, 335-341] un’”ateismo amichevole” (“friendly atheism”).
Posto questo sembra proprio che l’intera (densissima e complessissima) querelle tra teismo ed anti-teismo non abbia in verità alcuna giustificazione. Ma il suo sussistere appare allora unicamente il frutto dell’intervento velleitario e ideologico (quindi del tutto arbitrario) nel contesto della Religione da parte di un anti-teismo logicamente giustificato. Ma quest’ultimo non è altro che il puro prodotto di quella ricerca scientifico-religiosa la quale a sua volta in fondo non è altro che il figlio degenere (e anch’esso del tutto arbitrario) della filosofia analitica applicata alla Religione, ossia delle idee di Bertrand Russell. Idee che vengono presentate come oggettive necessità conoscitive ma invece sono solo pretese, e peraltro puramente ideologiche. In altre parole (nonostante la pompa con la quale lo si sostiene ed impone) l’anti-teismo non ha alcuna vera ragione di essere e quindi avrebbe anche potuto non esserci affatto. Dunque non è affatto vero che esso sarebbe inevitabile a causa del patrimonio di conoscenze apportate dalla Scienza all’umanità. Infatti la verità è semplicemente che si ha il pieno diritto di essere credenti o atei unicamente in forza di una volontà passionale che con l’epistemologia, con la gnoseologia e con la logica non ha assolutamente nulla a che fare. E tale volontà passionale si traduce in fede unicamente in relazione alla scelta arbitraria, e quindi alla coraggiosa decisione, di affrontare a viso aperto il rischio tremendo della fede.
Vale qui insomma, oggi come allora, ciò che aveva già perfettamente compreso Pascal, come vedremo alla fine. E del resto Pascal viene invocato anche dallo stesso James nel guardare alla fede esattamente in questo modo. Sta di fatto è che la razionalità (e quindi anche logica e gnoseologia) appare essere quanto fonda la fede nel modo più debole possibile, con la conseguenza che solo la volontà riesce invece a fondarla in modo forte. Ma quindi ciò vale anche per la decisione a non credere e quindi per l’ateismo. Anch’esso è una specie di fede e come tale è una scelta forte. Diversamente stanno le cose per l’agnosticismo che invece è un restare sospesi tra due decisioni. Per Bishop si tratta in questo caso di un di “ateismo pratico” [Bishop J., Believing by faith: an essay in epistemology and ethics of religious belief, Clarendon University Press, Oxford 2007]. Intanto la dimensione razionale della fede (e quindi la sua dimensione epistemologica e cognitiva) corrisponde per James ad un “prendere per vero”, mentre invece la dimensione volontaria della fede, la vera decisione, corrisponde ad un “accettare per vero”. Ed esattamente lo stesso vale anche per l’ateismo. In altre parole, come dice Bishop, si tratta del credere in qualcosa per fede – fatto che ci mostra un’altra volta la grande differenza esistente tra credenza e fede. La credenza è infatti per davvero un fatto cognitivo, e quindi relativo integralmente al vero, alla verità di qualcosa. Pertanto la fede non è mai diretta (immediata) relazione con la verità, ma semmai relazione appena mediata con essa. Proprio per questo essa può sussistere solo in relazione con una Persona, nel senso pieno dell’«io credo in te!».
E precisamente essa è mediata da una volontà che, per essere davvero forte, non può essere altro che amore. Ed è ovvio che l’amore può stare solo in relazione con una persona, ossia la Persona divina.
Dall’altro lato – ci fa osservare Cockayne – vi è un ateismo fondato nell’affermazione tutta cognitiva che l’inesistenza di Dio possa effettivamente essere vera – come sostenuto da Adams e Robson (2016).
E precisamente essa si basa sull’evidenza di un universo “inospitale”. La conseguenza affermazione è la seguente: − «Dio non esiste e basta!». Questa affermazione si ritiene basata su un’evidenza, e quindi pretende di fondare un ateismo è che “vero” esattamente quanto sarebbe “vera” l’inesistenza di Dio.
Sta di fatto però che quella invocata non affatto un’evidenza della non esistenza di Dio, in quanto è semplicemente un’evidenza indiretta. E quindi l’ateismo che ne risulta non può essere vero. Ecco insomma di nuovo un ateismo affatto fondato sulla volontà. Ma in verità – come riportato da Clifford (1999) − James ci fa osservare che la preoccupazione epistemologica (quella verità) è in verità appena il paravento di uno “scetticismo” sostanzialmente pavido, nel senso che esso si sottrae al rischio della fede e quindi non perviene mai ad una vera volontà di non credere.
Tutto questo riduce di molto l’importanza dell’accusa rivolta sia alla fede (o teismo) che all’ateismo in nome della verità, ossia in quanto “errori” logici. Ed infatti a tale proposito all’opinione appena citata di James si aggiunge quella di Nagel [Nagel T., The last world, Oxford University Press, Oxford 1997]. Egli ritiene infatti che la fede in Dio sia sostanzialmente e primariamente speranza. E ad essa non oppone assolutamente nulla, dato che per definizione la speranza può essere solo speranza nell’esistenza di Dio, e non invece speranza nella sua inesistenza oppure speranza nell’esistenza di un ente spirituale opposto a Dio, ossia il Demonio. Su questa base quindi l’ateismo cessa di essere giustificato anche se è volontà e decisione. Ecco che, come dice Nagel, l’ateismo è assurdo in sé, e non invece in quanto opposizione alla fede (teismo) in quanto presunto errore. Dall’altro lato quindi – in forza della sua natura di legittima speranza − lo stesso teismo non ha alcun bisogno di difendersi dall’ateismo o anti-teismo, sia in quanto espresse volontà sua in quanto presuntamente veri.
Posto questo noi aggiungeremmo che quindi, se la fede è speranza, essa deve necessariamente postulare l’intervento di Dio nelle circostanze esistenziali, cioè un concreto «aiuto divino». Altrimenti questa speranza si trasforma in mera menzogna retorica.
Ma vi è un’ulteriore osservazione di Nagel che completa la sua analisi dell’ateismo. Egli dice infatti che ne esiste uno che addirittura ammette l’esistenza di Dio (esercitando così la sua volontà in senso opposto a quello del classico ateismo) ma intanto ne desidererebbe la non esistenza in quanto lo accusa del male del mondo. Si tratta secondo lui di un ateismo su basi morali che senz’altro è molto più forte e giustificato di quello fondato epistemologicamente. Ma qui diremmo che ci troviamo nell’ambito di un ateismo decisamente di tipo gnostico.
Infine Cockayne menziona l’argomento ateistico di Quine. Laddove bisogna dire che questo filosofo (anche lui fortemente incline allo scientismo) è stato ed è un autentico protagonista del pensiero moderno di tipo analitico. Quindi la sua tesi ha senz’altro una grande rilevanza. Stranemente però si tratta appena di una sorta di poetizzazione della gnoseologia, dato che Quine parla dell’ateismo in nome di una “parsimonia” razionalistica che si oppone legittimanente alla passione, a sua volta caratterizzata dal desiderio di un universo non “deserto”. L’argomento del nostro pensatore sembra quindi basato (come del resto quelli di Russell) si una specie di sdegnosa compassione per coloro che, nel credere in Dio, rinunciano ad una Ragione che non ammette alcun sentimentalismo, ossia una Ragione del tutto gelida. E ci sembra che qui non sia necessario assolutamente alcun commento.
In conclusione Cockayne sottolinea che – a fronte della debolezza dell’ateismo epistemologicamente fondato e della forza oggettiva dell’ateismo eticamente fondato, e sullo sfondo generale poi della forza dello stesso ateismo volontario – bisogna ammettere che la presa di posizione più legittima è in fondo quella “riflessiva”, che è poi comune al teismo ed all’ateismo. Si tratta insomma dell’ammissione della grande difficoltà che c’è tanto nel mantenere la fede che nel rigettarla. Il che sottolinea poi l’assoluta necessità del dubbio entro una fede autentica e ben fondata. Necessità del dubbio nella fede che mette piuttosto facilmente fuori gioco l’ateismo più classico. Posto questo l’autore riconosce che è vero che l’ateismo basato sull’evidenza del male del mondo è tendenzialmente più forte del teismo. Sebbene sottolinea che non mancano oggi le teodicee che mettono fortemente in discussione questa evidenza – come in Rowe e Stump (2010). Queste moderne teodicee vengono quindi ad aggiungersi a quelle tradizionali (di grandissime proporzioni ed integralmente filosofiche oltre che metafisico-religiose) di Agostino e Leibniz.
Ciononostante per l’autore la disponibilità di evidenze concrete per l’ateismo è ben lungi dalla sua oggettiva giustificazione come vero.
In conclusione, quindi, l’ottima e chiarissima esposizione di Cockayne ci offre argomenti in abbondanza non solo per guardare criticamente all’ateismo (riconoscendo in esso le forme forti e le forme deboli, e quindi sottraendoci alla sua attuale presunzione di onnipotenza) ma anche per esautorare (in quanto ateismo non volontario e passionale) tutti i tentativi di annientare il teismo per via epistemologico-gnoseologica.
E questi tentativi rappresentano di fatto in blocco l’intera ricerca scientifico-religiosa. La quale quindi, alla luce delle estremamente lineari e ragionevoli argomentazioni di Cockayne, finisce per presentarsi come un immenso e pesantissimo apparato logico-argomentativo che però serve e vale davvero molto poco.
A causa della rilevanza del pensatore, un ultimo cenno va fatto soltanto al tendenziale ateismo di Heidegger, che viene presentato da Solari nel sostenere che il pensatore tedesco sarebbe stato in effetti uno gnostico. In effetti la problematica discussa dall’autore è di estrema importanza proprio perché essa in effetti concerne molto da vicino il post-teismo come possibile (ma solo presunta) risorsa dell’ultima teologia cristiana. Ed inoltre ci rivela anche che questa presunzione deve avere le sue radici (tra l’altro) proprio in Heidegger. Ebbene, dice Solari, Heidegger si limitò semplicemente a presentare appunto una mera “deità” (ossia un Dio assolutamente non personale) che assume poi il suo senso vero nel contesto della sua fortissima contestazione dell’intera tradizionale onto-teologia cristiana. E lo fece in particolare mostrandoci un dio (“ultimo dio”) presente nella “radura” del bosco dell’essere (“Lichtung”) in maniera in gran parte occulta (quindi totalmente diverso dal Dio di tutte le religioni) e comunque unicamente storico-temporale. Esso garantisce per Heidegger comunque una forma di salvezza (anche se non si capisce assolutamente quale) specie come potente fattore di opposizione alla tecnica. E questo Dio, evidentemente, non vuole essere altro che una semplice “deità”. Esso infatti è appena un “theos”.
Ebbene Solari contesta molto giustificatamente la possibilità che questo possa costituire il punto di partenza per una nuova teologia cristiana, ed inoltre per una rivivificazione del Cristianesimo stesso per mezzo di essa. Ed è evidente che con ciò si tratta di nient’altro se non della moderna teologia post-teistica. Ciò per l’autore è impossibile proprio perché intanto Heidegger − nell’espressa volontà di distruggere la metafisica e con essa l’intera onto-teologia cristiana [Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127 ; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194] – aveva voluto assumere una posizione evidentemente agnostica (massimamente evidente in “Lettera sull’umanesimo” e ”Tempo ed essere”) che alla fine ha una chiara valenza pagana (perfettamente espressa nella postulazione di una “deità”). Dunque nel complesso non ha alcun senso l’operazione (molto diffusa tra i teologi moderni) di trasformare Heidegger in pensatore cristiano, e peraltro uno tra i maggiori. La sua presa di posizione è invece decisamente anti-teistica ed anche in forte odore di post-teismo.
Resta a questo punto solo da accennare alla già citata riflessione da Robinson sul cosiddetto “Debunking argument” in quanto forte contestazione del teismo sulla diretta base della scienza cognitiva. Entro tale argomento si sostiene infatti che la fede in un “agente invisibile” (divino) non sarebbe altro che un indesiderato effetto collaterale del sistema cognitivo nel contesto della sua sana capacità di cogliere la causalità sulla base di solide evidenze naturali (ossia una specie di indesiderato deragliamento del funzionamento normale del sistema cognitivo). È evidente che l’applicazione di un tale argomento demolisce in un solo colpo l’intero teismo considerandolo non solo puramente fantasioso ma addirittura una forma di insania mentale (nel senso di un malfunzionamento del sistema cognitivo). A questo punto (per mezzo del suo “Reply argument”) Robinson risponde che invece è pienamente plausibile l’ipotesi pienamente naturalistico-razionale di un Dio che abbia predisposto l’evoluzione umana in modo da includere nel sistema cognitivo la possibilità di supporre legittimamente un agente invisibile. È evidente però che la stessa replica pro-teistica di Robinson intende muoversi esattamente sul piano della tipica ricerca scientifico-religiosa. E questo ci mostra bene quanto disperata sia oggi la situazione anche del settore di ricerca entro il quale si è intenzionati a difendere a spada tratta il teismo. I protagonisti di tale settore sembrano infatti essersi essi stessi sbarazzati totalmente di riflessioni altamente metafisico-religiose (anche se assolutamente moderne) come quelle di Berdjaev; le quali giustificano pienamente il teismo e peraltro senza assolutamente far ricorso ad alcuna ingenua metafisica naturalistica (come quella della tradizionale cosmologia dogmatica incentrata sulla presenza di Dio per mezzo della creazione).
Per completezza bisognerebbe discutere qui anche l’ormai piuttosto abbondante ricerca neuro-fisiologica che giustifica la fede in Dio almeno in quanto tendenza assolutamente naturale della mente umana (quindi in fondo del tutto indipendentemente dalla realtà effettiva dell’esistenza di Dio). Si tratta insomma di un argomento a favore del teismo, anche se solo molto vago, indiretto ed anche in qualche modo abbastanza pilatesco. Non c’è però lo spazio per trattare di questo, per cui ci limiteremo a citare la letteratura esistente su questo aspetto, incluso anche un nostro articolo [Franco Fabbro, “Il paradigma neuropsicologico nello studio della Bibbia”, RivB, 2015, 63 (1-2) 181-207; Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, Roma 2012; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018
< http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].
III- Il post-teismo (Gamberini)
Ecco. Abbiamo finora illustrato uno scenario di ricerca che comprende diversi punti di vista sia teistici che anti-teistici e francamente ateistici. Tra questi ultimi si sono delineati alcuni tra i maggiori argomenti impiegati per combattere il teismo entro l’attuale ricerca scientifico-religiosa: − la contestazione della Bontà divina (specie per mezzo della messa in discussione dell’obbligata gratitudine umana verso il dono della vita), l’evidenza inoppugnabile del male nel mondo, la logico-razionale giustificazione della sola “deità” in luogo del Dio personale teistico (e ciò perfino attraverso l’affermazione di una valenza ateistica della kenosis divina), la contestazione del concetto di un intelligente Piano divino, l’affermazione di varie precisazioni rispetto alla vera natura di un ateismo perfettamente giustificato. Ed inoltre abbiamo anche accennato (ma parte dedicata al panenteismo) alla messa in discussione scientifico-religiosa (ed anti-teistica) di altri elementi metafisico-religiosi e teologici come ad esempio la realtà trinitaria (Paolini Paoletti).
Abbiamo quindi un quadro abbastanza completo del complessivo anti-teismo; anche se quella da noi presentata non è altro che una miscellanea di ricerche che non può avere assolutamente l’ambizione di rappresentare l’intero dibattito attualmente in corso. Cosa che peraltro sarebbe impossibile a causa dell’estensione davvero sconfinata di un dibattito che peraltro ogni giorno cresce sempre più davvero a dismisura. È evidente quindi che è possibile prenderlo in considerazione solo a campione.
Ma è dunque finalmente arrivato il momento di affrontare direttamente la tesi post-teistica, rappresentata qui da un articolo del gesuita Paolo Gamberini [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417].
In effetti già nell’abstract dell’articolo Gamberini affronta tutte le tematiche che già abbiamo presentato e discusso in questo nostro scritto. Egli sostiene infatti che è divenuto ormai urgente, per la fede cristiana, confrontarsi con la modernità (e soprattutto con la scienza empirica) nell’obbligo di mettere in discussione il “teismo personale” specie nelle forme costituite dall’intervento diretto di Dio nel mondo e dalla sovrannaturalità della natura ed azione divina. Ed egli definisce tutto questo l’introduzione di un “nuovo paradigma” nella fede e dottrina cristiana (affermazione in cui si rifà alla ben nota teoria di Thomas Kuhn delle rivoluzioni scientifiche). L’effetto finale di questa operazione non dovrebbe però essere per lui una negazione del Dio-Persona bensì una sua postulazione non più ontica bensì invece “dinamica e relazionale”. Insomma, almeno a prima vista, non sembra che egli voglia giungere ad abolire del tutto il concetto di Dio-Persona. Infatti più avanti dirà anche che il “teismo classico” (da lui direttamente avversato) non si identifica affatto con il “teismo personale”, e quindi proprio in questo è difettivo. Certo è però che egli intende svuotare non poco il concetto di Dio-Persona e proprio per la via dell’anti-teismo. Non a caso afferma che il Dio-Persona non può venire accettato solo come posto del tutto al di fuori dell’”ordine del creato”. Ed inoltre (menzionando il vescovo episcopaliano John Schelby Spong) egli afferma l’impossibilità di accettare il Dio-Persona come “dotato di attributi sovrannaturali”. Insomma in definitiva egli nega il Dio-Persona anche se dice di accettarlo. E vedremo poi infatti alla fine con quale forza lo nega.
In altre parole lo studioso rimprovera al teismo tutti gli aspetti che invece con Berdjaev abbiamo visto essere rilevanti per la comprensione di Dio in quanto Persona, ossia la sua onticità addirittura carnale (umano-divinità), la sua azione concreta nel mondo (sia per mezzo dell’uomo sia come Spirito) e la sua ricongiunzione di naturale e Sovrannaturale, ossia la sua riunificazione di Terra e Cielo. E se si intende qui impiegare (anche solo alla lontana) Eckhart per gli scopi di un siffatto post-teismo, bisognerà obiettare a ciò che la principale intenzione del pensatore (proprio nel sostenere la dimensione relazionale della presenza di Dio nel mondo) fu quella di riunificare (fino alla totale fusione) la dimensione naturale (Natura) con quella sovrannaturale (Grazia) [Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., I, 1 p. 25-37].
Estremamente significativo ci sembra il fatto che – nel ricorrere a Kuhn per sostenere un obbligato e naturale cambio di paradigma anche nella metafisica e nella teologia oltre che nella scienza (che ovviamente adombra la messa in discussione delle verità intuibili da parte della metafisica entro la Rivelazione in modo del tutto immediato, e quindi indipendente dalla scienza empirica) – Gamberini da un lato si rifà al moderno idealismo filosofico (in quanto anti-realismo che pone in primo piano il soggetto cosciente-conoscente in quanto autentico luogo della verità), ma dall’altro lato si rifà addirittura anche ad una sorta di tradizione apofatica (anch’essa decisamente anti-realistica), in forza della quale la negazione dell’antropomorfismo divino sarebbe non solo del tutto legittima ma anche doverosa. In sua presenza, infatti, secondo lui perdiamo qualunque capacità di comprendere la vera natura di Dio e soprattutto la natura della Sua azione. Peraltro più avanti egli dirà anche quali sono i suoi diretti punti di riferimento filosofico-idealistici, cioè Hegel, Fichte e Schelling.
Ed ecco dunque il suo primo diretto attacco al concetto di Dio-Persona, in quanto realtà che sfugge all’onticità ordinaria esperienziale costituendo invece sostanzialmente sovrannaturale, e quindi del tutto inafferrabile. Per lui infatti l’antica tendenza della metafisica a trasformare Dio e la sua azione nell’essere mondano stesso, ossia l’universo (cosmologia dogmatica) corrisponde esattamente all’attribuzione a Dio (per la via di una visione antropomorfica) di caratteristiche personali che sono sostanzialmente straordinarie, ossia sono caratterizzate dalla perfezione. Conseguentemente proprio questa viene considerata la realtà di Dio di fronte alla quale l’uomo si trova. Ma in tal modo noi ci troviamo di fronte ad un concetto unicamente antropomorfico di Dio-Persona. Infatti la perfezione è un attributo che noi associamo a Dio in base all’esperienza di noi stessi. Ed a questo punto (pur accettando almeno in parte questa sua tesi) dobbiamo ricordare che Berdjaev afferma il concetto di Dio-Persona proprio sulla base di un suo intendimento intensamente antropologico. Egli afferma insomma che l’antropomorfizzazione di Dio non è affatto un ostacolo per la comprensione del Dio-Persona ma è semmai invece una risorsa in tal senso. Il che significa sostenere che l’umano-divinità non è altro che (sic et simpliciter) l’affermazione della perfetta identità (pienamente ontica) tra Dio e uomo. il che comporta poi l’accettazione finalmente incondizionata del concetto di Incarnazione divina. Laddove vedremo che invece Gamberini si adopera fattivamente per la profonda revisione critica di tale concetto.
In tutto questo consiste insomma l’attacco idealistico dello studioso al classico realismo filosofico che era stato sempre dominato dal concetto tomista di “adaequatio rei et intellectus”; che comporta a suo avviso una reificazione di Dio (trasformazione di Dio in “cosa”, “res”, e quindi anche mondo) con la conseguenza di rendere del tutto superflui la presenza e il giudizio del soggetto. Ebbene, ecco che la sua obiezione al teismo si presenta immediatamente nella forma dell’equiparazione di esso con una reificazione di Dio che metterebbe fuori gioco il credente (in quanto soggetto) trasformando in tal modo Dio in una cosa reale. Intanto comunque dobbiamo dire che Dio, anche se inteso come cosa reale, non può essere altro che un’entità che è presente ed agisce nel mondo pur non appartenendo ad esso in alcun modo in forza della Sua natura sovrannaturale. Si tratta insomma di quel Dio insieme trascendente ed immanente che abbiamo visto affermare a Berdjaev, e che poi costituisce la forma più autentica del Dio-Persona.
Gamberini però naturalmente non crede ad una sola parola di quest’ultima dottrina del Dio-Persona. Infatti egli la definisce come “comprensione mitica” di Dio. E nello stesso tempo equipara la dimensione mitica di Dio a quella antropomorfica. Con il deplorevole effetto (secondo lui) che il soggetto non ha più nulla da dire su Dio, dato che in suo luogo si pretende che invece già parli la sola Rivelazione (e precisamente con un linguaggio che non è affatto umano). Cosa per lui assolutamente inaccettabile. Invece per lui proprio il soggetto è fondamentale in un atto religioso che è fondamentale ed assolutamente propedeutico alla fede, ossia la “ricezione della Rivelazione”. Ora poco importa che a tale proposito Gamberini indichi nella mancata ricezione umano-soggettiva della Rivelazione il deplorevole effetto della sua letteralizzazione; con la conseguente credenza ingenua in espressioni come “Dio agisce” e “Dio parla”. Il problema principale della sua visione non è affatto questo (dato che la lettura letterale della Rivelazioone è di per sé più che condannabile). Il problema sta invece nel fatto che − nel trasferire al soggetto il diritto e dovere di parlare in nome della Rivelazione (e quindi letteralmente riscriverla e ri-dettarla) − egli sostiene letteralmente che l’unica accettabile verità è che “Dio si rivela con e attraverso le parole umane”. Ed ecco il già evidente totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, cioè ecco la fondazione della ricerca scientifico-religiosa da parte dello stesso post-teismo. Anche questo è dunque un atto tipico del post-teismo. Ebbene, con “le parole umane” sono da intendere le affermazioni ordinarie e mondane dell’uomo, ossia quelle che compaiono entro l’ordinaria conoscenza, ossia nella Scienza. In tal modo, dunque, la Rivelazione non ha più assolutamente nulla da rivelarci nell’illuminarci laddove invece la nostra Ragione (per sua natura) è e resta totalmente all’oscuro; e quindi non può in alcun modo sorprenderci con le sue trascendenti verità. Ma sta di fatto che ciò è esattamente quanto avviene allorquando nella Rivelazione parla lo stesso Spirito pneumatico, ossia la Sapienza divina. Secondo il post-teismo invece il linguaggio proprio della Rivelazione (ossia il linguaggio di Dio stesso) deve venire di fatto rigettato nella forma in cui si presenta, in quanto esso non è mediato dall’uomo.
In luogo di questo, invece, per Gamberini è l’uomo che fa tutto; e nel caso specifico è l’uomo in funzione di neo-teologo e moderno filosofo decostruzionista. E su questo secondo lui non c’è da discutere. Naturalmente egli si appella in questo a quell’“ermeneutica” che (dopo Heidegger) è ormai omnipresente dovunque oggi si intenda screditare la metafisica e soprattutto la metafisica religiosa. E sostiene infatti che proprio essa (ad opera dei nuovi teologi) ha ormai esautorato totalmente l’uso “letterale” del linguaggio biblico. Il che è poi è falso ed in mala fede, dato che (come poi vedremo) una lettura letterale della Rivelazione non è mai stata giustificata.
Ma possiamo toccare con mano per davvero la gravità devastante di tali convinzioni allorquando lo studioso avvalora totalmente l’ormai totale avversione dei teologi alla “preghiera di richiesta”, che a sua volta poi riposa poi su una deplorevole di nuovo letterale interpretazione dell’Incarnazione divina (in quanto evento presuntamente puntuale, e non invece continuo e quindi storico). E qui egli menziona come protagonisti di tale idea Queiruga e Hick [Andrés Torres Queiruga, Io credo in un Dio fatto così. Risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede, EDB, Bologna 2017; John Hick, The Metaphor of God Incarnate: Christology in a Pluralistic Age, Westminster, John Knox Press, Louisville 1993]. In particolare Hick avrebbe riletto l’Incarnazione divina come non più puntuale (questa sarebbe infatti appena una “metafora”), ma invece “graduale e differenziata rivelazione di Dio all’umanità”.
Insomma è evidente che qui non ci troviamo solo di fronte ad un post-teismo, ma invece anche ad un vero e proprio anti-teismo e perfino ateismo. E peraltro ci chiediamo cosa mai resti ancora di cristiano una volta eliminati del tutto questi atti e concetti, specie in quanto oggetti di fede vissuta; e peraltro anche fede molto coraggiosa nell’Invisibile (in quanto reale presenza divina) nel contesto della tremenda sfida rappresentata dall’esistenza.
Viste queste premesse (cioè soprattutto la totale negazione della dimensione sovrannaturale di Dio che persiste nella sua concreta ed attiva presenza del mondo come Spirito pneumatico), diventano del tutto poco credibili se non ridicole le petizioni di principio che Gamberini fa seguire a queste sue riflessioni preliminari. Egli sostiene infatti che l’assoluta urgenza di eliminare totalmente dalla teologia il Dio Trascendente della tradizionale metafisica religiosa cristiana (quello caratterizzato dall’”aseità”, ossia assoluta libertà nei confronti del creato con una conseguente Sua relazione unicamente “accidentale” con il creato stesso) avrà come conseguenza l’affermazione di una relazione di Dio con il mondo che ha il carattere specifico dell’Amore unito intimamente a sua volta alla Sua totale “libertà creatrice”. Costateremo però più avanti quanto riduttivamente ed astrattamente egli intenda questo primario Amore creativo divino. E tutto ciò corrisponderebbe poi ad un atto di “autodeterminazione” divina nel mondo, ossia di fatto ad una sorta kenosis che però addirittura nasconderebbe Dio nella ordinaria fattualità mondana – rendendolo così invisibile nel senso peggiore del termine e cioè come totalmente non tangibile. Non solo, ma ciò corrisponderebbe per lui addirittura ad una nuova “mistica” incentrata nell’idea che Dio è Spirito che impregna di sé totalmente il mondo.
Ma intanto la negazione da parte di Gamberini di atti religiosi come la preghiera di richiesta indica chiaramente che tale impregnazione non è invece altro che un letterale sprofondare e sparire di Dio nel mondo, ossia una Sua totale immanentizzazione che alla fine non può che sottometterlo alle Leggi della Natura. E dopo questo sprofondamento evidentemente non si ammette che di Dio resti alcuna vera traccia.
Il che tra l’altro cancella di un sol colpo la dimensione della Potenza proprio in quanto massima espressione dell’impregnazione divina del mondo. In tal modo, insomma, Dio non è più affatto lo Spirito pneumatico che è presente nel mondo nel «rendere nuove tutte le cose». Invece non è altro che una vaga ed anche dubbiosa presenza sulla quale l’azione umana eserciterebbe peraltro un controllo totale, fino al punto da poterla rappresentare pienamente. Ed è evidente che ciò accade a causa della soggettualità conoscente in quanto ispirata totalmente ad evidenze scientifico-empiriche.
Posto questo, Gamberini riafferma la necessità storica urgente di superare totalmente il teismo in quanto affermazione di un Dio come “necessario, onnipotente, sovrannaturale” e perfino anche “personale” (in quanto come tale situato fuori dell’”ordine del creato”). Ed egli giustifica questo sulla base della sua insostenibilità alla luce della scienza empirica più moderna ed inoltre anche a fronte delle possenti sfide del moderno ateismo. Il che ci mostra quindi che post-teismo e ricerca scientifico-religiosa sono in effetti una sola ed unica cosa. In altre parole il post-teismo non è altro che una vergognosa ritirata della teologia cristiana di fronte a forze storiche che in sé nulla hanno a che fare con la Religione né con il Cristianesimo.
Nel frattempo però egli si rifà nuovamente ai protagonisti dell’idealismo tedesco (già prima menzionati) considerandoli come gli apri-pista della (secondo lui) perfettamente legittima affermazione della “morte di Dio” (e peraltro per la via della significativa intermediazione di Böhme). Si tratterebbe in definitiva della doverosa dichiarazione della morte del Dio Trascendente, ma in obbedienza alla stessa scelta divina di negare sé stesso (entro la kenosis) come “infinito” nel “finito” rappresentato dal Dio umano, ossia Gesù.
E lo studioso menziona al proposito la totale accettazione di tutto questo da parte dei teologi in figure come Jürgen Moltmann e Eberhard Jüngel; specificamente nel contesto di un atto di decostruzione della stessa tradizionale teologia cristiana. Laddove va notato che costoro sono dei teologi protestanti e non cattolici.
Ma aldilà di tutto questo Gamberini viene davvero allo scoperto con la seguente (secondo noi assolutamente scandalosa) affermazione: − “Il teismo classico non è più in grado di dar ragione della presenza di Dio davanti alla scienza: non è più plausibile la fede nei miracoli e tale credenza è qualcosa di mitologico e superstizioso, così come non si è più in grado di conciliare la presenza del male con la fede nella bontà di Dio”. Personalmente ci chiediamo se la negazione dei miracoli non sia una vera e propria negazione del Vangelo stesso, dato che la presenza di Gesù nel mondo è stata costellata continuamente dai miracoli stessi. E sarebbe davvero troppo dover pensare che essi non siano stati atti reali ma invece solo metaforici. Sia qui insomma molto probabilmente di fronte ad una resa incondizionata di quella metafisica religiosa cristiana, che a sua volta un tempo era invece intimamente legata alla Rivelazione (per mezzo delle intuizioni visionarie dei suoi protagonisti) quale contesto per descrivere la natura di Dio ed affermarne l’azione nel mondo.
A questo punto Gamberini precisa che la premessa del post-teismo risiede nei pregevoli approcci “non teistici” o “ana-teistici” di teologi come il vescovo Spong [John Schelby Spong, Why Christianity Must Change or Die: A Bishop Speaks to Believers in Exile (1998); A New Christianity for a New World. Why Traditional Faith is Dying and a New Faith is Being Born (2000)] e Richard Kearney [Richard Kearney, Anatheism. Returning to God after God, Columbia University Press, New York 2010]. Laddove va notato che il primo è di nuovo un protestante ed il secondo è un filosofo della Religione totalmente agnostico.
Posto questo, allo scopo di una radicale riforma della teologia cristiana, egli ritiene indispensabile in primo luogo un colloquio con altre tradizioni religiose per comprendere se Dio sia “personale, impersonale o transpersonale”. E questo è a nostro avviso un altro vergognoso atto di rinuncia alla specifica identità cristiana (che andrebbe sempre mantenuta anche se nel ieno rispetto di altre tradizioni religiose), in quanto essa è incardinata nella natura personale di Dio. Ed è evidente che qui si allude alla presa in considerazione di argomenti di stampo buddhistico del genere di quelli che abbiamo discusso nella sezione precedente. Inoltre Gamberini ritiene indispensabile la rinuncia definitiva alla concezione di un Dio che non includa in sé il creato fin dall’inizio (invece di averlo fuori di sé). Inoltre ritiene indispensabile il superamento di una “visione interventistica e sopra-naturalistica della presenza attiva di Dio nell’universo e in particolare nella storia umana”. Ora, come abbiamo già detto, è del tutto evidente che interpretazioni letterali di Dio come queste non sono per definizione giustificate. Ma per questo non vi era affatto bisogno del post-teismo, che peraltro in definitiva nega la stessa onticità di Dio. La Rivelazione cristiana offre infatti elementi in abbondanza per non soggiacere a tali interpretazioni riduttive; a patto solo che essa non venga intesa in termini volgarmente letterali, ossia unicamente essoterici. E questo crediamo che nessun vero teologo cristiano lo abbia mai fatto. Eppure Gamberini attribuisce questa inaccettabile concezione “mitologica” di Dio non all’interpretazione errata del teologo (o del credente), bensì invece allo stesso linguaggio oggettivo presente nella Bibbia (ossia di fatto quel linguaggio divino che prima abbiamo constatato essere inaccettabile per il post-teismo). Il che comporta poi non una revisione della lettura della Rivelazione, ma invece un suo vero e proprio rigetto. Sta di fatto che proprio da questo rigetto egli si aspetta la definitiva “trasformazione post-teistica della teologia cristiana”.
Questi erano gli elementi decisivi per comprendere la natura ed in senso del post-teismo di Gamberini, ed anche (per la sua intermediazione) dell’intera teologia cristiana attuale. Tutto quello che viene dopo nel suo articolo sono estremamente complesse e sofisticate riflessioni metafisico-teologiche che non possiamo discutere certo in dettaglio perché ci allontanerebbero del nostro tema. Qualcosa su di esse va comunque detto.
Nel suo lungo paragrafo dedicato al Dio da intendere come puro amore (2 p. 398-405) Gamberini si sente obbligato a premettere a quello che è per lui il più autentico intendimento di Dio la messa in discussione dell’intera onto-metafisica tomista incentrata nell’”atto puro” (e nella quale egli include anche Bonaventura e perfino Eckhart). Infatti per lui l’intendimento di Dio come “atto puro” (e quindi come assoluta perfezione ed assoluta attualità non bisognevole di alcuna aggiunta di essere così come di nessuna relazione) istituisce una invalicabile distanza tra Lui stesso e l’uomo inteso come “creatura”, e quindi anche con il mondo stesso. In altre parole in tal modo viene affermato che l’essere dell’uomo e del mondo (in quanto creati) non ha alcuna realtà al di fuori della relazione con Dio in quanto unico atto di essere perfettamente compiuto (ossia davvero primario atto di esistere). E quindi uomo e mondo costituiscono in vero e proprio nulla ontico. È ovvio comunque che per lui si tratta con ciò del teismo fondato unicamente sul Dio Trascendente; che egli intende decisamente rigettare (nonostante con Berdjaev abbiamo visto che, entro un ben inteso Cristianesimo, il Dio trascendente sia assolutamente simultaneo a quello immanente).
Ebbene, secondo Gamberini, sulla base di questo genere di relazione, Dio non può stabilire con l’uomo e il mondo alcun vero rapporto, specie se lo si intende come autenticamente amoroso. Il che è provato, secondo lo studioso, dal fatto che per Tommaso la relazione esistente tra Dio e uomo-mondo non è affatto “reale”. Se infatti lo fosse, “Dio muterebbe nella sua sostanza” (invece di essere assolutamente immutabile, com’è l’”atto puro”), ed inoltre intanto “il mondo aggiungerebbe qualcosa di reale al suo essere”.
Pertanto entro la relazione tra Dio e uomo-mondo (secondo la tradizionale onto-metafisica tomista) non è mai davvero Dio a mutare, ma invece solo l’uomo. Il che di fatto rende inesistente la relazione tra i due termini – specie perché Dio è un essere stabile mentre invece solo l’uomo è un essere dinamico. Entro questo contesto è peraltro per lui spiegabile anche quella assai poco credibile “preghiera di richiesta” che secondo Tommaso non era affatto reale (proprio a causa dell’immutabilità divina), ma era appena un ricordarsi dell’uomo di avere assolutamente bisogno della relazione di Dio per non essere ciò che è, ossia un non-essere. Quindi per Gamberini già in Tommaso con questa preghiera l’uomo per definizione non riceveva un bel nulla da Dio, ossia non riceveva un reale «aiuto divino». Dunque per lui la negazione della preghiera di richiesta è giustificata non solo entro il post-teismo.
Comunque, secondo Gamberini, è urgentemente necessario superare questa complessiva visione per concepire la perfezione divina (ossia l’”atto puro”) come includente pienamente in sé (ed in partenza) una relazione con l’uomo ed il mondo che semplicemente consiste nella rinuncia pregiudiziale di Dio alla propria perfetta compiutezza e quindi all’assenza di qualunque bisogno di aggiunta di essere da parte Sua.
Il che significa che bisognerebbe intendere Dio come un essere unicamente relazionale e non invece staticamente ontico. Gamberini dimentica però di dire che quell’Eckhart che lui condanna (come affermatore di un Dio radicalmente trascendente) afferma proprio la natura sostanzialmente relazionale e dinamica di Dio [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., Prol. 14-17 p. 71-74; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., II, 142-149 p. 231-237; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, I, 5 p. 63-73, IV, 16 p. 153-163]. In ogni caso, secondo lo studioso, bisogna pensare che Dio semplicemente si pone (per propria scelta) in relazione con ciò che in sé non è altro che nulla, ossia l’uomo ed il mondo (specie in quanto radicale alterità rispetto a Lui). Ma per fare questo bisogna pensare che Dio contenga nella sua essenza già in partenza il dinamismo della relazione con l’uomo ed il mondo creati. Insomma è come se questa relazione avvenisse già all’interno di Dio (e soprattutto entro la sua assoluta perfezione) e non invece fuori di Lui. Essa non richiederebbe insomma alcun riversarsi di Dio fuori di sé stesso. Ma, una volta posto questo, c’è da chiedersi cosa si intenda quando si concepisce la Trinità proprio come un flusso d’amore nel quale Dio si riversa fuori di sé stesso.
Ecco quindi delinearsi per Gamberini un “libero atto creativo” di Dio che è già parte del Suo stesso essere (e non invece mero accidente, e quindi per nulla necessario). È da intendersi dunque in questo modo, secondo lui, il fondamentale atto di “auto-determinazione” di Dio nel mondo. E qui egli menziona come punti di riferimento dottrinari i teologi Jüngel e Rahner. Insomma Dio non è propriamente l’Essere per eccellenza, ma invece semmai è Colui che determina il proprio essere nella relazione con ciò che è totalmente «altro» rispetto a Lui stesso. E così andrebbe intesa anche la creazione divina.
In questo consisterebbe dunque per Gamberini l’intendimento di Dio come Amore, e quindi non come Essere statico, ma invece come Essere dinamico e fondamentalmente relazionale. Insomma, egli ne conclude citando di nuovo Jüngel, “Dio è Creatore per amore e in questo senso creatore dal nulla. Questo atto creativo di Dio non è però altro che l’essere di Dio, che come tale è essere che crea”.
Orbene sinceramente ci sfugge totalmente perché, per poter sostenere questo, si debba concepire una teologia post-teista. Infatti, innanzitutto le due dimensioni divine, solo apparentemente in contradizione tra loro (quella statica e quella dinamica), sono entrambe contemplate in una Rivelazione che non venga intesa in maniera supinamente letterale (anche nel contesto di una riflessione propriamente metafisica); ed in secondo luogo, una volta concepito un Dio-Persona in tutta la sua piena onticità (e non invece come mera metafora), la dimensione amoroso-relazionale della creazione è già di per sé assolutamente evidente. Soprattutto se essa si associa ad un intendimento dell’Incarnazione come kenosis. Infatti la dimensione del Dio-Persona corrisponde esattamente a quella del Dio incarnata, e precisamente al Dio incarnato una volta per tutte. E questo Dio-Persona in quanto incarnato per definizione è in relazione con l’uomo e con il mondo. Del resto questo è il nucleo stesso del Cristianesimo (e quindi anche la sua specifica e preziosa identità). Quindi non vediamo assolutamente cosa mai ci sia da riformare in questo. Ma intanto il post-teismo condanna di fatto il concetto di Dio-Persona. E questo è un fatto.
Ed emblematica in tal senso è la riflessione di un grande teologo cattolico come Erich Przywara, il quale non a caso non sentì alcuna esigenza di dare vita ad un post-teismo [Erich Przywara, Analogia entis, Johannes-Verlag, Einsiedeln 1996]. Egli infatti sostenne che non vi è alcuna contraddizione tra “ontica” e “noetica” nella concezione di Dio. Per cui l’affermare che Dio è il paradigma ideale (noetico) e trascendente di ogni oggettualità (cioè l’Idea di cosa nella sua eterna staticità) non comporta alcuna contraddizione con il considerarlo come l’esistente per definizione, ossia il Dio incarnato. E lo stesso vale per la riflessione di Romano Guardini [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, II, 12 p. 166-174, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531, VI, 14 p. 579-585], il quale affermò che lo Spirito divino (entro gli eventi dell’Ascensione al Padre da parte di Gesù) andò di fatto a impregnare di sé il mondo stesso, riproducendo così l’Incarnazione dopo l’evento decisivo della Resurrezione.
Insomma la riflessione cristiana contiene da molto tempo in sé tutti gli elementi per rendere del tutto superflua la pretesa del post-teismo di essere il primo ad aver riconosciuto la natura creativo-relazionale di Dio. Come abbiamo detto questa consapevolezza risale fino ad Eckhart.
Ed allora, considerato tutto questo, non è vero forse che in fondo il post-teismo non consiste in altro che nell’invito (rivolto dal teologo al credente) a non leggere letteralmente la Rivelazione? Sarà insomma che non si tratti solo di questo? Ma se così fosse ciò renderebbe di nuovo del tutto inutile un apparato dottrinario pesantissimo ed ingombrantissimo che forse ha il solo scopo narcisistico di delineare sempre nuovi protagonisti del pensiero teologico. Inoltre non è forse vero che il più semplice credente vive concretamente tutto quello che Gamberini presenta come radicale novità teologica (e peraltro senza alcuna riflessione teologica e metafisica) nel credere fermamente nella propria intima relazione con un Dio assolutamente presente ed amante anche se del tutto invisibile?
E veniamo ora al secondo ed al terzo paragrafo di riflessione teo-metafisica di Gamberini (3-4 p. 406-413) che sono dedicati alla “presenza di Dio come creaturalità”. E qui (di nuovo entro una riflessione onto-metafisica estremamente sofisticata, dettagliata e complessa, che non può ovviamente venire riportata integralmente), lo studioso sostiene sostanzialmente che la presenza divina in quanto volontaria auto-determinazione nel mondo da parte di Dio va intesa come qualcosa che intanto è assolutamente reale (tanto che essa nega frontalmente la trascendenza divina). Eppure però è tale solo in quanto per definizione è costante e ordinaria (nel senso della totale inapparenza), dato che essa non è assolutamente coinvolta negli eventi, ossia nella dimensione spazio-temporale. Cioè nel concreto essa è totalmente invisibile ed intangibile. In particolare essa non si manifesta mai in quella maniera “puntuale” che la renderebbe presenza straordinaria invece che ordinaria. Ed è evidente che il tal modo si sta parlando dell’insostenibilità dell’irruzione del Sovrannaturale divino nel naturale. Infatti pensare questo significa per Gamberini ricadere in una visione “mitologica” (ossia deplorevolmente ingenua) della presenza divina. Infatti è proprio in tale contesto che secondo lui viene concepito quel “miracolo” nel quale il cristiano non ha alcun diritto di credere. Ed evidentemente questo avviene anche nell’«aiuto divino» che ci si aspetta nella preghiera di richiesta.
Possiamo quindi dire che, pur con tutta l’insistenza di Gamberini sulla presenza divina nel mondo come espressione più autentica della Sua stessa natura (e quindi decisa negazione della Sua remota trascendenza, per definizione infinitamente distante dal mondo), egli impiega tutta la cura possibile per evitare che essa venga intesa in modo reale e quindi tangibile.
A questo punto, a fronte dell’impossibilità di comprendere cosa sia nei fatti questa «reale» presenza divina (oltre che rappresentare appena il frutto di una sofisticata ed ambiziosa neo-riflessione teo-metafisica), non resta che pensare che essa non è altro che un’affermazione puramente retorica; che poi non solo è vuota ma è anche non poco cinica. Essa quindi deve venire intesa come una presenza da considerare puramente formale e rituale dal punto di vista religioso. Si tratterebbe insomma di una cosa che c’è e nello stesso tempo non c’è. Ed in pratica ciò significa che Dio (per quanto definito unicamente come amore creativo e perfino come totale immanenza nella realtà “creaturale” alla quale Egli non esita ad abbassarsi) di fatto non è per nulla presente nel mondo. Di certo infatti, una volta ammesso tutto questo, non lo sarà per il credente che, totalmente «gettato» in situazioni esistenziali estreme e senza alcuna via di uscita, non ha altra scelta che credere incondizionatamente nell’Amore divino come presenza sì, ma come presenza davvero tangibile. Non invece come presenza vuota e formale, in quanto vagamente ed incomprensibilmente metafisica.
Ebbene, se questo è il frutto più pregevole del post-teismo per la consapevolezza religiosa (cristiana e non), c’è da chiedersi veramente in cosa consista mai il prodigioso rinnovamento da esso apportato. Esso infatti sottrae al credente perfino il più minuscolo conforto ed appoggio che finora la teologia tradizionale (anche la più irrazionale e superstiziosa) gli aveva comunque procurato. Esso sottrae insomma al credente la fede nella presenza reale di Gesù nella propria vita e nella propria interiorità. E questo significa allora che il post-teismo può essere semmai vantaggioso per il sussiegoso e narcisista professore di teologia, ma non certo per il credente. Proprio per questo esso si rivela in definitiva essere null’altro che una sofisticata ed ambiziosa neo-metafisica (e di certo non meno controproducente di quella che intanto viene demolita senza il minimo scrupolo) che serve semmai appunto ai professori di teologia (e correlati filosofi innamorati del loro protagonismo) come campo per sviluppare a josa teorie sempre più astruse in quanto totalmente distanti dalla realtà (specie da quella di fede). E come tale esso non serve in alcun modo la fede vissuta.
Del resto di tutto questo possiamo comunque avere la prova tangibile nel quinto ed ultimo paragrafo dell’articolo di Gamberini (5 p. 413-417), nel quale il suo discorso viene al dunque sia rispetto alla presenza divina sia anche ai concetti correlati di “persona divina” e perfino di “spirito divino”. Emblematico è il titolo scelto per questo paragrafo: − “Dio come essere ineffabile e transpersonale”. Questa definizione dice infatti già tutto ciò che si deve sapere dell’intendimento post-teista della presenza divina, della persona divina ed anche dello spirito divino.
Del resto lo studioso è qui estremamente esplicito in primo luogo circa la presenza divina. Egli dice infatti che, pur nella sua auto-determinazione mondana, che poi anche “auto-comunicazione” amoroso-relazionale, Dio rimane comunque costantemente “incomprensibile ed ineffabile”. E ciò ha una ricaduta fatale su ciò che si intende come esperienza religiosa in termini appunto di presenza divina. Essa andrebbe infatti intesa unicamente come “esperienza originaria di Dio”, ossia un’esperienza tutt’altro che tangibile, e quindi per nulla una vera esperienza. Con il termine “originario” si intende qui infatti una dimensione del tutto estranea allo spazio-tempo, alla località, alla storia, alle circostanze concrete, all’esistenza; ossia ancora una volta qualcosa di puramente formale e quindi totalmente astratto (se non addirittura irreale).
Quindi essa è meno che mai un’esperienza del divino che possa venire realmente vissuta dall’uomo comune nel bel mezzo della propria esistenza. Il che significa allora che la presenza divina non può né deve venire intesa come “qualcosa che si aggiunge dall’esterno alla nostra creaturalità, come qualcosa di meraviglioso e straordinario”. Essa deve invece venire intesa appunto come “presenza di Dio” che è solo “ineffabile e indicibile”. E ciò ha una ricaduta poi anche sullo stesso concetto di persona divina. La quale per Gamberini andrebbe compresa unicamente come realtà trinitaria; e come tale nel senso di una dimensione “relazionale” di Dio che però si muove ad un livello altissimo e quindi del tutto inafferrabile. Il che significa che, quando noi riteniamo Dio una Persona, intanto “ogni forma di individualità e limitazione Gli deve essere negata”. Qui lo studioso cita dal testo fondamentale del teologo Schoonenberg [P. Schoonenberg, «Gott als Person und Gott als das unpersönlich Göttliche», in G. Oberhammer (ed.), Transzendenzerfahrung, Vollzugshorizont des Heils. Das Problem in indischer und christlicher Tradition, Indological Institute University of Vienna, Wien 1978, 207-234, p. 230-231] ed inoltre nuovamente anche a Rahner e Barth. Insomma (riferendosi addirittura alla dottrina del non-dualismo śankariano) Gamberini dice che si può parlare di persona divina solo nei termini di quella Sua “presenza alla creaturalità” che è amoroso-relazionale ma senza alcuna reale tangibilità. Il che significa quindi che il Dio-Persona è il “tu” al quale noi ci rivolgiamo (nel mentre Egli prende contatto con noi stessi come il proprio “tu”) solo nella misura in cui siamo consapevoli che esso intanto ci trascende totalmente. E ci trascende perché Dio non può assumere alcuna forma determinata, inclusa quella di una persona intesa in termini antropomorfici.
In parole povere Egli non sta affatto davvero in relazione con noi.
Insomma dov’è qui Gesù? In altre parole a nostro avviso vi sono qui i termini di quell’altra dottrina che si associa spesso al post-teismo, ossia quella che larvatamente postula la totale irrealtà dell’umano-divinità di Cristo appunto nella persona umana di Gesù. Il quale non sarebbe stato altro che una figura storica, rispetto alla quale (secondo questa teoria) ha competenza unicamente la ricerca storico-critica. Ma a questo punto, una volta preso atto di ciò che dice Gamberini rispetto alla persona divina (in quanto unicamente trinitaria), c’è da dubitare fortemente anche nella persistente presenza di Gesù nel mondo non più come essere storico ma come Spirito.
Non a caso proprio qui veniamo davvero al dunque nel definire anche come “Spirito” il Dio definito nei modi finora illustrati. Secondo Gamberini Egli infatti è tale proprio in quanto assolutamente non determinabile; e quindi anche come entità di natura unicamente amoroso-relazionale ma solo in termini molto astrattamente metafisici.
Secondo lo studioso ciò esprime esattamente il fatto che lo Spirito “non ha limiti e può diventare tutte le cose”. E qui è davvero lampante la differenza esistente tra questo intendimento dello Spirito e quello che abbiamo visto in Berdjaev; il quale identifica totalmente lo Spirito divino sia con la Persona divina che con la persona umana (senza alcuna differenza ontica tra di essi) ed inoltre attribuisce alla collaborazione tra di essi la totale e fattuale trasfigurazione del mondo. E naturalmente siamo qui distanti anni luce dall’intendimento di Spirito pneumatico che abbiamo illustrato nel nostro già citato articolo sullo Spiritualismo. Quest’ultimo infatti, pur nella sua assoluta inafferrabilità ontica, si rende così tanto presente nel mondo da entrare perfino nella storia stessa (oltre che nell’esistenza personale di ognuno di noi) come una Forza che tutto trasfigura per il fatto che ad essa «nulla è impossibile». E questo poi corrisponde esattamente all’intendimento guardiniano dello Spirito pneumatico come Forza che spinge addirittura verso l’attualizzazione storica del Regno dei Cieli.
In ogni caso (riferendosi al proposito ovviamente ad Agostino) Gamberini approfitta di questa occasione per riaffermare nuovamente l’insostenibilità della postulazione dell’intervento di Dio nel mondo e nell’essere. In particolare si tratta infatti per lui dello Spirito divino che sarebbe presente nella nostra interiorità in maniera unicamente trascendente (dunque di nuovo del tutto non percepibile), e che quindi in generale non è altro che “la presenza silenziosa del mistero di Dio”. Il che, tenuto conto di ciò che egli ha detto finora, significa che questo silenzioso Dio interiore è in verità più che mai assente. Quindi non si può nemmeno lontanamente pensare di entrare in dialogo con Lui.
Ecco dunque co’sè il post-teismo almeno così come ci viene illustrato da Gamberini.
Abbiamo visto che esso è diverse cose, e tutte purtroppo solo negative. È nei fatti un sostanziale anti-teismo e perfino ateismo. È immanentizzazione di Dio specie nel contesto di una vergognosa resa della teologia e della metafisica cristiane alla critica religioso-scientifica alla Religione ed al Cristianesimo stesso. Quindi è una consegna integrale di questi ultimi a quella ricerca scientifico-religiosa che è tendenzialmente in primo luogo agnostica se non atea. Ed è evidente qui il totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, con la conseguente fondazione della ricerca scientifico-religiosa proprio da parte del post-teismo. Il che significa poi che il post-teismo non è affatto (come pretende di essere) una difesa del teismo per la via della scienza della Religione. È invece semmai la consegna del teismo nelle mani rapaci, aggressive e blasfeme di una ricerca scientifico-religiosa che sostanzialmente è anti-teistica ed atea.
E questo l’abbiamo visto chiaramente nella precedente sezione.
Inoltre per la via dell’acritica assunzione di metafisiche religiose aliene (come quella impersonalistica e trans-personalistica) il post-teismo è di fatto rinuncia all’identità cristiana stessa.
È recisa negazione (nonostante le sue stesse affermazioni in tal senso) della relazione esistente tra Soprannaturale divino e naturale. Quindi è spocchiosa negazione scientista della realtà dell’intervento divino nell’esistenza personale e nella storia (con la totale messa in ridicolo di atti religiosi come la “preghiera di richiesta” e la fede nei miracoli).
È proibizione del riferimento alla Rivelazione come ambito in cui sussistano verità fondamentali ed oggettive alle quali il pensatore religioso e cristiano si riferisce nelle sue argomentazioni, conservando intanto il pieno ossequio nella loro oggettività e nel loro paradigmatico valore (e quindi sottomettendosi ad esse invece di farsene interprete privilegiato). Infatti in luogo di tutto ciò il post-teismo sostiene la perfetta liceità di un’interpretazione soggettiva della Rivelazione stessa che ha peraltro un fortissimo sapore protestante. È paradossale al proposito l’affermazione dell’immanenza divina, nel mentre però viene affermata la Sua Trascendenza nel modo più radicale possibile. In modo tale che la presenza divina viene svuotata di qualunque significato e di fatto viene negata anche la realtà personale di Dio. E ciò fino al punto di spazzare via elementi fondamentali della fede cristiana fino a giungere a svuotarla totalmente dei suoi tipici contenuti. Tra questi un intendimento autentico (in quanto fedele alla Rivelazione) dell’Incarnazione divina e perfino dell’impregnazione divina del mondo. Ed a questo punto salta peraltro all’occhio la costante citazione da parte di Gamberini di teologi protestanti (come Barth, Jüngel, Moltmann, Spong ed altri); cosa che poi è abbastanza diffusa nella neo-teologia cattolica animata dalla ricerca scientifico-religiosa.
È un’ulteriore ed estrema complessizzazione della metafisica posta alla base della teologia (proprio nel mentre si ambisce invece a smantellare totalmente la tradizionale metafisica cristiana), in maniera tale da essere anni luce lontana dall’esperienza religiosa vissuta e perfino contraddirla in molti suoi pregevoli aspetti (specie nella postulazione di una tangibile presenza divina). Come tale il post-teismo è di fatto la revisione totale e radicale della teologia e metafisica cristiana in modo che essa venga strappata al credente e venga data invece in pasto ai professori di teologia e di filosofia per la forgia continua ed illimitata di teorie personali il cui unico scopo è l’affermazione del loro protagonismo intellettuale.
Ed oltre a tutto ciò, per di più, una volta ridotto all’osso, il post-teismo si rivela consistere quasi unicamente nell’invito a non prendere alla lettera la Rivelazione. Cosa di cui ogni serio teologo e filosofo religioso era già perfettamente consapevole, senza alcun bisogno che il post-teismo venisse a ricordarglielo.
Posto tutto questo, chi si aspetta dal post-teismo davvero qualcosa di nuovo e ri-vitalizzante nel contesto della dottrina e fede cristiana, dovrebbe pensarci molto bene prima di persistere in questa convinzione.
Insomma, in estrema sintesi, il post-teismo altro non è se non un pesante, ingombrante e pleonastico apparato argomentativo, che, pur essendo del tutto inutile oltre che controproducente, viene ad aggiungersi alla già non poco ingombrante tradizionale metafisica cristiana senza apportare non solo alcun vantaggio ma inoltre anche nuocendo non poco all’esperienza religiosa vissuta.
IV- Pascal
Ed infine confrontiamo tutto quello che abbiamo finora visto con quanto aveva già detto Pascal nel XVII secolo. Ecco cosa egli ha detto nei suoi “Pensieri”: −
“Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all’altro […] Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra si apre in abissi” [Blaise Pascal, I pensieri, Paoline, Milano 1963, 72 p. 67] ”Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista” [ibd. 230 p. 242]; “Parliamo ora secondo i lumi naturali. Se c’è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non possedendo né parti né limiti, non ha nessuna proporzione con noi. Noi dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è, ma anche se è. Ciò posto, chi oserebbe accingersi a risolvere questo problema? […] Chi dunque biasimerà i cristiani di non poter dare ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? […] Esaminiamo allora questo punto e cominciamo col dire: «Dio esiste oppure non esiste». Da che parte ci decideremo? La ragione non può decidere nulla; c’è di mezzo un caos infinito: si giuoca una partita, all’estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su cosa puntate? […] Si ma bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine […] La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro […] Ma la vostra beatitudine?…” [ibd. 232 p. 245-247]; “Esistono tre mezzi per credere: la ragione, l’abitudine e l’ispirazione […] bisogna aprire il proprio intelletto alle prove, fortificarvisi con l’abitudine e soprattutto col sottomettersi umilmente alle ispirazioni” [ibd. 245 p. 257]; “L’esteriore deve essere congiunto all’interiore se si vuole ottenere qualcosa da Dio; vale a dire bisogna mettersi in ginocchio, pregare con le labbra ecc. […] Attendere da questo esteriore il soccorso significa essere superstizioso; non volerlo significa essere superbo” [ibd. 250 p. 259]; “Timore, non quello che viene dal credere in Dio, ma dal dubitar se esiste o no. Il buon timore viene dalla fede, − il falso timore viene dal dubbio. Il buon timore è unito alla speranza in Dio in cui crediamo; − il cattivo timore è unito alla disperazione, perché si teme il Dio nel quale non si crede. Gli uni temono di perderlo, − gli altri di trovarlo” [ibd. 262 p. 264]; “Sottomissione e uso della ragione: in questo consiste il vero Cristianesimo” [ibd. 269 p. 267]; “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. E questa è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione” [ibd. 278 p. 269]; “L’uomo senza la fede non può conoscere né il vero bene né la giustizia […] Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità, di cui adesso non gli resta che il segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle presenti , ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso?” [ibd. 425 p. 327-329]; “Se è un segno di debolezza dimostrare l’esistenza di Dio per mezzo della natura, non disprezzate la Scrittura; se è un segno di forza aver conosciuto questi contrasti apprezzate per questo la Scrittura” [ibd. 428 p- 330]; “Noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è impossibile ogni comunicazione con Dio […] Ma nel medesimo tempo noi conosciamo la nostra miseria, perché Dio non altro che il Riparatore della nostra miseria. Perciò non possiamo ben conoscere Dio senza conoscere le nostre iniquità. Perciò quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la loro miseria non lo hanno glorificato” [ibd. 547 p. 383-384]; “La religione cristiana consiste in due punti, che per gli uomini è tanto importante conoscere quanto è dannoso ignorare; e si deve alla misericordia di Dio l’avere concesso dei segni di quei due punti […] E su questo fondamento essi traggono motivo di bestemmiare la religione cristiana, perché la conoscono male. Immaginano che essa consista semplicemente nell’adorazione di un Dio considerato grande, potente ed eterno; e questo è propriamente il deismo, che è tanto lontano dalla religione cristiana quanto lo è l’ateismo che ne è tutto l’opposto […] Ma pur concludendo quello che vogliono contro il deismo, non ne concluderanno mai nulla contro la religione cristiana, a quale consiste nel mistero del Redentore, che unendo in sé le due nature, la umana e la divina, ha sottratto gli uomini alla corruzione del peccato per riconciliarli con Dio nella sua divina persona [ibd. 556 p. 39].
Insomma Pascal aveva già tematizzato davvero tutto – la necessità del teismo e la sua problematicità in quanto oggettivamente disdicevole (rispetto ad un Dio Trascendente del quale non possiamo sapere nulla); il rischio della fede come decisione e scelta specie a fronte della prospettiva della salvezza; la totale inutilità dell’impiego della Ragione nel decidere circa l’esistenza o inesistenza di Dio; l’importanza fondamentale della dimensione del “cuore” e quindi dell’amore, unita a sua volta alla primarietà di Dio come Cristo, ossia come Redentore.
Ebbene allora il fatto che oggi esista una così ingente ricerca scientifico-religiosa (includente la discussione su teismo, anti-teismo ed ateismo) ed il fatto che essa abbia reso necessario addirittura una del tutto nuova teologia post-teista, sono due fatti che dimostrano che o tutto ciò stato dimenticato (se non cancellato) oppure non è mai stato conosciuto. Infatti i “Pensieri” di Pascal rendono tutto ciò che abbiamo finora illustrato ancora più inutile di quanto sia in sè
Conclusioni.
Vediamo ora di integrare e riassumere tutto ciò che abbiamo visto e detto finora.
Partiamo da un’estrema sintesi di quanto sostiene Berdjaev. Bisogna innanzitutto osservare che egli non si esprime affatto nei termini del teismo classico che viene criticato così aspramente dall’anti-teismo e superato dal post-teismo. Egli infatti deplora (e proprio alla luce della scienza moderna) la naturalizzazione delle verità religiose (specie la cosmologia ingenua e dogmatica dell’antica metafisica); in relazione a questo condanna l’antico teismo medievale (in quanto “spirito angelico” avverso al mondo); ritiene inaccettabile una lettura davvero volgarmente ingenua della presenza di Dio nel mondo; infine auspica un’estrema valorizzazione del mondo (contro ogni Trascendentismo divino) considerandolo peraltro luogo della presenza divina. Tuttavia queste sue affinità con l’anti-teismo cessano non appena entriamo nei particolari. Infatti egli non accetta che il rifiuto della naturalizzazione delle verità religiose si traduca in una svalutazione della dimensione antropologica (come avviene nella condanna post-teista dell’antroporfismo).
E motiva questa sua presa di posizione affermando che il Dio presentato nella Rivelazione cristiana è per definizione antropomorfico proprio in virtù della sua primaria umano-divinità; ritiene inaccettabilmente apofatica una teologia che si opponga all’antroporfismo (e questo è esattamente quanto invece Gamberini auspica in nome del post-teismo); ritiene che la filosofia stessa (essendo primariamente umana) comporti un’”umanizzazione” di Dio stesso; pensa che il classico concetto di creazione divina sia stato insufficiente proprio perché cosmogonico (ossia intellettualista nella sua ingenuità) e non antropogonico (il che significa che la causa dell’ingenuità è l’intellettualismo e non l’antropomorfismo); a causa dell’intima relazione esistente per lui tra persona umano-divina, spirito ed essere, deve susistere necessariamente un Dio-Persona e peraltro in tutta la sua piena onticità; infine (nel contesto dell’umano-divinità) ritiene l’esperienza religiosa come intima relazione con Dio che è “uomo a uomo”.
In ogni caso proprio questa sua insistenza sulla dimensione umana lo porta anche ad affermare in modo forte e concreto la realtà del Dio-Persona. Infatti sostiene che la filosofia, essendo personale (e quindi anche personalista) può e deve stare in relazione solo con un Dio-Persona. E siccome esattamente questo è il Dio presentato nella Rivelazione, la filosofia (che a suo avviso è naturalmente religiosa, condividendo con la Religione la primaria “domanda metafisica”) per lui deve stare necessariamente in relazione con quest’ultima esattamente così com’è per vari motivi: − perchè essa (non essendo affatto pensiero) coglie l’essere stesso, perchè essa coglie per definizione il mistero dell’essere, perché essendo esso stesso universo (microcosmo), l’uomo sta in naturale relazione con il microcosmo.
Egli però nega totalmente alla teologia il compito e diritto di porsi in relazione con la Rivelazione allo stesso modo pensante della filosofia. Perché, così facendo, può solo deformarne i contenuti invece di limitarsi a presentarli. E questo è esattamente quanto accade nel post-teismo.
In ogni caso per lui la Rivelazione assumerà una pienezza storia nell’era dello Spirito (susseguita a quelle antecedenti del Padre e del Figlio) manifestando proprio in tal modo anche la pienezza dell’umano-divinità.
Particolarmente importante è l’accento posto da Berdjaev su una presenza davvero reale e concreta di Dio nel mondo. La fede in tale presenza è secondo lui un tratto tipico del Cristianesimo (così che in sua assenza resta solo l’agnosticismo). Essa di certo si manifesta attraverso la creatività umana, ma alla fine quest’ultima poggia sull’umano-divinità e quindi sull’Incarnazione. Quindi l’uomo impersona esplicitamente e consapevolmente Dio nella sua creatività. E questo non è affatto sostituzione ma è invece diretta manifestazione di Dio proprio perché uomo e Dio sono per lui la stessa identica cosa. Proprio per questo per lui Dio è insieme trascendente e immanente.
Infine c’è da dire che la da lui concepita perfetta identità esistente tra uomo e Dio annulla in partenza tutte le obiezioni (anti-teistiche ed ateistiche) sollevate contro l’esistenza di Dio a causa del male del mondo.
7Da questa base siamo partiti per poi arrivare a trattare della ricerca scientifico-religiosa. E nel contesto di quest’ultima sono emerse le teorie più varie, la maggior parte delle quali non poco astruse, include quelle teiste.
Intanto (nella sezione di questo paragrafo che abbiamo dedicato al panenteismo) abbiamo visto con Bilimoria che le idee e relative entità metafisiche possono restare esattamente come sono (senza alcuna necessità di venire rivedute e corrette) se vengono trattate sul piano della metafisica invece di venire ricondotte alla logica-filosofica ed all’approccio scientifico-empirico.
Tra le questioni emerse in questa sezione abbiamo visto comunque tutto il possibile.
Nel campo anti-teistico ed ateistico abbiamo visto: − la radicale messa in discussione della realtà metafisica della persona umana (Chastain, Schnädelbach, Dworkin, Nagel), con la conseguente negazione di una persona divina e quindi l’abolizione di una vera Religione; la trasformazione della Religione in uno spiritualismo del tutto a-religioso oppure in curiose religioni naturali senza Dio (Breul, Dealeay, Schnädelbach), con la conseguenza della netta negazione di ogni teismo; una teologia addirittura neo-tomista ma scettica che nega la presenza divina nel mondo attraverso il rigetto dell’”intelligent design”; un anti-teismo puramente gnoseologico e neo-cartesiano (Platzer) che ritiene Dio non esistenza ma solo verità, o meglio Principio di verità ma esso stesso sottomesso alla trascendenza del “vero” (e quindi della logica); un anti-teismo incentrato sull’idea buddhista di Dio come Nulla, e che quindi costituisce una davvero astrusa teologia, ossia l’”A/teologia”. Abbiamo anche visto che spesso gli argomenti logico-critici anti-teistici sono basati su meri velenosi pretesti per iniziare una del tutto infondatamente polemiche infamanti Dio.
La tesi più equilibrata in questo ambito è risultata comunque essere quella di Cockayne (a sua volta rifacentesi ad Henry James) secondo la quale sua teismo (fede) che ateismo si basano unicamente sulla volontà e sulla decisione e quindi non possono essere in alcun modo epistemologicamente fondati.
Sul piano pro-teistico abbiamo visto la convergenza con Berdjaev da parte di diversi autori (Dealey, Wierenga, Feinberg) sul tema del rispetto da parte di Dio della libertà umana.
In generale è emerso comunque in questa sezione l’importanza del dubbio per la fede – cosa sulla quale sono d’accordo sia teisti che anti-teisti (Schnädelbach, Nagel, Cockayne). Ed allora, se a questo punto teniamo conto di tutto ciò che Pascal aveva detto già nel XVII secolo, appare evidente che non ci sarebbe stato alcun bisogno di mettere su un apparato di pensiero così pesante come quello che difende teismo, anti-teismo ed ateismo ed alla fine addirittura si organizza in un nuovo paradigma religioso detto “post-teismo”. In Pascal era stata infatti detto tutto ciò che era necessario a tale proposito, e quindi il suo pensiero comprendeva già tutte le prese di posizione qui discusse.
Queste ultime costatazioni ci mostrano quindi che la querelle tra teismo e anti-teismo non è affatto oggettivamente giustificata ed è pertanto unicamente surrettizia, ossia puramente ideologica. Essa è stata dunque voluta e sicuramente per scopi che ci sfuggono. La cosa grave è che però la stessa teologia cristiana (insieme alla Chiesa che la nutre e la sostiene) si è fatta complice si questo progetto tanto scellerato quanto occulto. Deve trattarsi insomma dello spirito anti-cristico che Berdjaev riconosce in tutte le forze storiche che si oppongono alla fede cristiana [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., VI p. 101-116, VIII p. 147-160].