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SINTESI.
In questo saggio ci siamo sforzati di comprendere se l’esperienza religiosa (ER) sia per davvero quella che siamo abituati a vivere correntemente come cristiani (specialmente come cattolici). Il che è diventato un problema specie negli ultimi tempi, nei quali moltissimi teologi, predicatori, confessori e direttori spirituali negano ormai apertamente che Dio sia per davvero una Persona ed intervenga nel mondo oltre che nell’esistenza umana. Oltre al generale dilagare dell’agnosticismo scettico ed ateo (tra gli uomini comuni e tra scienziati e filosofi), si sta insomma verificando un fenomeno mai avvenuto finora, e cioè quello di teologi e sacerdoti i quali ritengono che sia ormai impossibile difendere l’esistenza reale di un Dio-Persona contro lo strapotente attacco della scienza naturale a questa idea. E per questo, nelle Facoltà di Teologia ed inoltre tra singoli studiosi, si va diffondendo la tesi del cosiddetto “post-teismo”, secondo la quale noi non avremmo a che fare con un vero Dio ma invece appena con una “deità”, ossia un dio totalmente impersonale. E così si inizia a pensare a Dio come una sorta di Forza senza volto che può anche venire considerata la Causa originaria dell’Universo (ossia il Creatore del mondo), ma comunque se ne sta ben lontano dal mondo nel quale intanto dominano totalmente incontrastate le sole leggi della Natura. Collateralmente a ciò si va diffondendo anche la tesi secondo la quale l’Incarnazione di Dio sarebbe stata nel tempo completamente fraintesa, e quindi avrebbe autorizzato la falsa idea di una completa equivalenza tra Cristo e Gesù. Che invece oggi inizia a venire fortemente messa in dubbio. E così si sta arrivando a considerare Gesù come appena una figura storica che sarebbe stata sempre slegata dalla persona del Cristo.
La conseguenza di tutta questa revisione della tradizionale dottrina cristiana ha fatto sì che si iniziasse a negare la realtà effettiva dei miracoli e delle guarigioni compiuti da Gesù nel corso della sua esistenza (così come viene narrata e descritta nei Vangeli). E quindi si tende ormai a negare recisamente anche che possa esistere un’ER che sia caratterizzata da una preghiera entro la quale l’uomo chiede aiuto a Dio quando si trova in circostanze esistenziali difficili. Questa è quella che viene chiamata «preghiera di richiesta».
Ed oggi ormai moltissimi teologi e sacerdoti la ritengono assolutamente irrealistica ed illecita, dato che essa del tutto invano chiede un aiuto divino che non può venire dato che è impossibile che Dio intervenga nel mondo interferendo con le leggi della Natura. Inoltre la «preghiera di richiesta» andrebbe considerata anche spregevole dato che sarebbe bassamente egocentrica ed utilitaristica. Bisognerebbe invece pregare Dio solo per pura lode e venerazione.
In sintesi insomma questa visione sostiene che l’ER cristiana non comporterebbe in alcun modo la tangibile «presenza divina». E questo in primo luogo perché Dio non esaudisce in alcun modo tangibilmente le invocazioni e richieste dell’uomo. Ne consegue che, nonostante la preghiera, Dio non fa mai sentire la sua presenza nella vita dell’uomo. Per cui al fedele cristiano non resta altro che vivere ritualmente (e quindi solo metaforicamente) la sua presenza in quella vita ecclesiale che si basa soprattutto sui Sacramenti.
Oltre a ciò viene vista molto male la vita religiosa vissuta singolarmente e non invece in maniera collettiva e comunitaria. Quindi l’ER non può basarsi in alcun modo in un rapporto personale del fedele con Dio.
Di fronte a questa visione abbiamo posto in evidenza due principali elementi: − 1) la Rivelazione cristiana (nel Vecchio ma soprattutto nel Nuovo Testamento) prevede espressamente l’«aiuto» offerto da Dio all’uomo proprio per mezzo dei miracoli e guarigioni compiuti da Gesù; 2) esistono nell’esistenza situazioni particolarmente estreme nelle quale l’uomo (abbandonato da tutti ed incapace di risolvere i problemi con le sue proprie forze) non può fare altro che invocare l’aiuto divino. E dall’altro lato è impossibile pensare che un Dio d’Amore – il Dio che ha donato il suo Figlio agli uomini decaduti perché venissero salvati venendo così resi suoi figli – si rifiuti di ascoltare ed esaudire per principio queste invocazioni.
Naturalmente fin dal primo momento ci siamo resi conto della estrema difficoltà della nostra investigazione. Tanto che l’abbiamo definita immediatamente come una sfida impossibile da affrontare vittoriosamente. E questo perché, dato che Dio è comunque un Ente sovrannaturale, è assolutamente impossibile intercettarlo sul piano sensibile, ossia nello spazio e nel tempo, cioè nella dimensione in cui noi uomini viviamo. Quindi è estremamente difficile definire cosa sia davvero la tangibilità della «presenza divina» nell’esistenza umana e nel mondo. Costantemente però l’unica risposta che siamo riusciti a trovare a questa domanda è stata proprio quella del reale esaudimento divino dell’umana «preghiera di richiesta».
Dunque ci è sembrato che la più autentica ER sia proprio quella che preveda la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta».
Per dimostrare questo siamo passati per diverse fasi e ci siamo serviti delle riflessioni di diversi autori – come Maritain, Guardini, Berdjaev, de Benoist, Bloy, Solov’ëv, Dostoevskij (indirettamente), Don Dolindo Ruotolo etc.
Innanzitutto abbiamo esaminato l’attuale (riduzionistica, scettica ed agnostica) interpretazione dell’ER attraverso i fenomeni di quella crisi moderna nella quale la separazione tra l’uomo e Dio è ormai arrivata la suo culmine, e che ormai si manifesta attraverso una vera e propria “desacralizzazione” del mondo.
Inoltre abbiamo sostenuto è che l’autentica ER corrisponde basicamente all’esperienza dionisiaca di «presenza divina» in quanto possessione del fedele da parte del dio. Qui infatti non appare di certo il dio in persona, ma esso comunque si manifesta almeno attraverso il corpo del fedele, ossia per mezzo delle modificazioni che esso subisce rispetto allo stato ordinario. E ci è sembrato che non via alcun’altra ER nella quale la «presenza divina» si manifesti in modo così tangibile. E quindi questo genere di ER ci è sembrato quello più universale in quanto basico ed elementare, ossia quello che qualunque homo religiosus (cristiano o pagano che sia) si immagine e desidera spontaneamente. Insomma esso ci è sembrato essere un vero e proprio eterno ed universale paradigma dell’autentica ER.
Abbiamo poi esaminato la condizione dell’uomo che secondo noi più indulge alla «preghiera di richiesta», e cioè quel tipo di uomo che fin dalla nascita soffre il dolore, è perseguitato dalla sventura, e vive in generale l’assenza di fortuna e felicità oltre che l’oscurità. Nello stesso tempo esso ci è sembrato il prototipo del «giusto», ossia colui che per tutta la sua vita segue vie di giustizia, innocenza ed amore, ma proprio per questo (paradossalmente paga col costante dolore). Egli insomma si rifiuta costantemente di accettare come valide le spietate leggi del mondo e della Natura, e quindi è colui che maggiormente crede nel Sovrannaturale. Abbiamo inoltre dimostrato che l’uomo vivente l’esperienza esattamente contraria (felicità, benessere, buona ventura e successo) di fatto è fortemente complice (e senza il minimo scrupolo) con le più spietate leggi del mondo. E questa sembra peraltro essere la radice stessa della sua fortuna nel contesto spesso di un vero e proprio «patto col diavoli». Proprio per questo esso tende a divenire il persecutore del primo tipo di uomo.
Il paradigma del primo tipo di uomo è chiaramente il personaggio biblico Giobbe.
Successivamente abbiamo esaminato a campione la vastissima letteratura entro la quale oggi viene affermata la visione agnostica e scettica dell’ER, ed abbiamo visto che essa consiste in una sorta di ricerca scientifico-religiosa, dato che la sua fonte principale è ormai unicamente la scienza empirica, specialmente la scienza ed anche filosofia cognitivista.
Su questa base abbiamo esaminato come si presenta l’ordinaria ER entro la vita ecclesiale, entro le pratiche pietistiche ed entro la mistica. Ed abbiamo constatato che qui domina incontrastata l’avversione contro l’ER in quanto «preghiera di richiesta». Successivamente abbiamo cercato di dare un volto il più possibile oggettivo all’ER probabilmente più autentica per mezzo dei contenuti delle Sacre Scritture ed inoltre per mezzo dell’esame di un testo di Don Dolindo Ruotolo. Di quest’ultimo abbiamo scoperto che egli fu fortemente favorevole alla «preghiera di richiesta» come invocazione di un tangibile «aiuto» divino.
Ma nello stesso tempo il suo discorso al proposito fu fortemente ambiguo.
Infine abbiamo tentato di descrivere autonomamente (sulla base delle nostre stesse esperienze personali) quelli che sono i caratteri oggettivi della più autentica ER. E ne abbiamo tratto la conclusione che essa è sostanzialmente individuale e singolare, ossia consiste in un dialogo diretto con Dio; in particolare con Gesù. Subito dopo abbiamo confrontato questo con i contenuti di diversi scritti che sostengono la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta» in quanto invocazione del tangibile «aiuto» divino.
E proprio qui ci ha colpito l’abbondanza di questi scritti, e quindi la costatazione che (aldilà della prevalente visione agnostico-scettica tra teologi e sacerdoti) vi sono ancora molti uomini di fede e religiosi (sia cattolici che non) che credono fermamente nella «preghiera di richiesta» così come noi la intendiamo. E tra costoro spicca il pastore evangelico tedesco George Müller (operante per tutta la sua via a Bristol), il quale è estremamente categorico nel sostenere proprio questo. Egli sostiene infatti che l’esaudimento divino della «preghiera di richiesta» è assolutamente certo. In ogni caso è emerso che coloro che oggi più sostengono questa visione (un tempo integralmente cattolica) sono proprio gli evangelici. Si oppone invece a tutto ciò la descrizione della preghiera da parte di Guardini, il quale (sebbene ammetta molto vagamente e debolmente la «preghiera di richiesta») ritiene che sostanzialmente la preghiera sia una presa di contatto con il puro “essere” divino. Entro di essa, quindi, non è ammissibile alcuna richiesta, ma invece è ammissibile solo la pura venerazione, oltre che la lode incondizionata.
Da tutto questo abbiamo tratto quindi la conclusione che – nonostante sia impossibile dimostrare che l’ER è caratterizzata da una tangibile «presenza divina» sul piano sensibile − la così diffusa convinzione che la «preghiera di richiesta» sia realistica e legittima (in quanto ci procura realmente l’esaudimento della nostra invocazione) rappresenta di fatto una prova indiretta della nostra tesi.
In ogni caso nel corso della nostra intera investigazione ci siamo costantemente scontrati con un secondo grande nemico dell’ER come «preghiera di richiesta», e cioè la tradizionale retorica (questa sì profondamente cattolica) che sostiene alternative del genere del cosiddetto «abbandono alla Volontà divina», della partecipazione alla croce ed alla Passione di Cristo, e della valorizzazione della prova esistenziale (ossia il dolore) come via verso il Cielo. Da questo punto di vista la «preghiera di richiesta» appare essere fortemente ingiustificata perché essa si oppone alla sofferenza che ci verrebbe inviata da Dio stesso allo scopo di diventare più forti e adulti nella fede. Ebbene questa retorica appare essere ormai datata entro la Chiesa, dato che è stata sostituita quasi completamente dalla visione agnostico-scettica dell’ER. Essa però si ritrova ancora in molti scritti (anche in quelli di Don Dolindo Ruotolo) ed assume comunque toni estremamente esasperati (se non francamente sadici) in coloro che parlano dal punto di vista della mistica monastica.

ATTENZIONE:
A chi volesse leggere il saggio nella sua interezza siamo pronti a fornire il file in pdf, con la preghiera però di considerarlo protetto dalle vigenti leggi del copyright, e quindi non passibile di venire riprodotto anche solo in parte senza menzionarne l’autore, ossia il sottoscritto.

In questo scritto vorremmo esaminare criticamente il valore oggettivo che ha l’attuale scienza della Religione (ed anche il ruolo che essa svolge) nella specifica forma che essa ha assunto negli ultimi decenni. Essa si è trasformata infatti in un intenso dibattito critico (svolto soprattutto per mezzo di articoli più che non di libri) che è del tutto simile a quello che da molti secoli ormai si svolge nel campo della scienza empirica, ossia la scienza della Natura. Anche in Religione è insorta quindi quella famosa «letteratura» (basata sul confronto critico tra autori per mezzo della produzione a ciclo continuo di articoli scientifici) dalla quale la Scienza si aspetta il continuo incremento delle conoscenze ed ancor più la verifica del loro valore per mezzo della costante verifica esercitata entro la cosiddetta «comunità scientifica».
Molto coerentemente, quindi, le questioni teologico-religiose vengono ormai dibattute unicamente su un piano scientifico-empirico e non più invece sul tradizionale piano filosofico e/o metafisico. In altre parole la Scienza ha assunto l’assoluto dominio in e sulla Teologia. Essa però si presenta in una forma ancora almeno apparentemente filosofica, e cioè quella della cosiddetta «filosofia analitica della religione», ossia una forma di Filosofia che intanto si è però ormai assimilata totalmente alla Scienza, tanto che anch’essa ne ha fatto totalmente propri i metodi. Infatti essa procede ormai per argomentazioni basate totalmente sulle evidenze scientifico-empiriche, che intanto vengono via via ottenute per via sperimentale. L’esperimento scientifico è dunque diventato di fatto la fonte stessa delle argomentazioni filosofiche, tanto che vengono considerate illegittime tutte le idee (e relative argomentazioni) che non hanno come base delle evidenze sperimentali. Non è difficile immaginarsi quale possa essere l’impatto devastante di tutto ciò sul piano della Teologia, dato che gli oggetti di conoscenza di quest’ultima sono per definizione privi di qualunque evidenza (non solo sperimentale, ma perfino sensibile). Eppure, ormai in preda ad un imbarazzo incoercibile di fronte alla potenza e dignità assunta dalla scienza empirica (simile a quello in quale da tempo è in preda anche la filosofia stessa), la Teologia ha accettato integralmente e senza remore questo approccio. E ciò avviene ormai appunto per mezzo di quella filosofia analitica della religione le cui evidenze provengono ormai quasi totalmente dalla scienza cognitiva, cioè la scienza sperimentale della mente (di fatto si tratta della neuro-fisiologia). Dunque la scienza cognitiva ha ormai preso totalmente il posto perfino di quella filosofia della mente (e relativa filosofia del linguaggio) che fino a non molto tempo fa era stata la base filosofico-scientifica della Teologia.
Ne consegue quindi che ormai la base critica della Teologia non sono più le argomentazioni filosofiche (ricadenti soprattutto nel campo della logica) ma invece sono appunto delle vere e proprie evidenze empirico-scientifiche. Sebbene bisogna dire che la logica occupi comunque ancora un posto in questo dibattito. Da tutto ciò è nata quella che indicheremo costantemente come «ricerca scientifico-religiosa».
E nella seconda sezione di questo scritto presenteremo diversi articoli che provengono dal suo ambito.
La questione che più ci interessa nel contesto del dibattito in corso in questa area non può che essere quella che è centrale nella Teologia e nella Religione stessa, e cioè la questione dell’esistenza di Dio.
Non a caso la filosofia analitica della religione è nata nel dopoguerra proprio sulla base delle sollecitazioni atee di un filosofo analitico, e cioè Bertrand Russell – il quale iniziò a negare molto violentemente l’esistenza di Dio ed anche la stessa idea di Dio. In tal modo si è sviluppata quindi una sorta di filosofia analitica religioso-cristiana che ha in qualche modo voluto combattere il moderno ateismo filosofico sul suo stesso piano. Alla fine però essa stessa è rimasta travolta da questo compito essendo costretta a rivedere totalmente (in senso scientifico e scientista) i suoi metodi di indagine conoscitiva. E non solo. Perché essa è rimasta travolta nel senso che è stata costretta ad accettare almeno in parte gli argomenti filosofo-scientifici contro l’esistenza di Dio, vedendosi così obbligata a rinunciare quasi completamente al proprio naturale teismo. Ecco che proprio sSu questa base sono insorte questioni che vertevano appunto intorno all’esistenza di Dio, ossia teismo, anti-teismo ed ateismo. Ed infine esse hanno trovato in ambito religioso-cristiano (ossia nel pieno della Teologia cristiana) una specie di sistematizzazione nel cosiddetto post-teismo. Il quale vuole essere una specie di risposta a questo complessivo dibattito nel senso dell’adattamento dell’idea di Dio (e delle affermazioni circa la Sua esistenza) al discorso scientifico. Non senza però un’estremamente significativa rinuncia ormai totale al teismo. Teismo che poi (lo diciamo qui solo come anticipazione) comporta il nucleo centrale della fede cristiana, ossia la fede nel Dio-Persona per eccellenza, ossia il Dio incarnato e Dio vivo, Gesù Cristo.
Naturalmente, comunque, il post-teimo è rimasto vincolato all’approccio conoscitivo prevalente nel dibattito che lo ha originato, ossia l’approccio scientifico-empirico. E quindi anche il post-teismo (che in fondo è la risposta religioso-cristiana alla messa in dubbio dell’esistenza di Dio per via scientifica, e quindi vorrebbe essere una specie di rimonta della Teologia su Filosofia e Scienza) si serve ormai di argomentazioni basate interamente sulle evidenze scientifico-empiriche, e quindi rientra pienamente nel campo della ricerca religioso-scientifica. Sebbene vedremo poi (specie con Gamberini) che essa conserva ancora una certa quota di molto sofisticate argomentazioni metafisiche ed in parte anche logico-filosofiche.
Diciamo quindi che in questo modo è insorta una sorta di estremamente nuova Teologia cristiana di tipo scientifico-empirico. Essa potrebbe in qualche modo venire considerata equivalente alle aspirazioni scientifico-naturalistiche che animarono la Scolastica medievale. Ma tale somiglianza è solo apparente dato che il post-teismo cristiano ha intanto accettato in pieno la distruzione totale della tradizionale metafisica cristiana, che già da molto tempo era iniziata in Filosofia, specie con pensatori come Nietzsche e Heidegger
Posto questo, ci è sembrato che la trattazione della questione relativa al valore e ruolo dell’attuale scienza della Religione potrebbe ben partire dalla critica di Berdjaev alla filosofia scientifica che poi a sua volta si associa anche ad una visione filosofico-religiosa molto intensa ed originale, che permette addirittura di rifondare l’esperienza religiosa. Abbiamo già parlato di questo in un nostro articolo [Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Insomma tanto la critica berdjaeviana alla filosofia scientifica quanto anche la sua idea specifica di Religione potrebbero essere utili ad un’analisi critica dell’attuale complessiva ricerca scientifico-religiosa. E questa analisi critica potrebbe in tal modo estendersi fino al post-teismo. Intanto ci sembra assolutamente fondamentale la critica berdjaeviana alla voluta scientificità della filosofia. Abbiamo infatti visto che quest’ultima è stata la radice stesa della trasformazione attuale della Teologia in una ricerca scientifico-religiosa. E quindi la critica alla scientificità della Filosofia deve necessariamente coinvolgere anche la stessa Teologia. Ed inoltre risiedono proprio in questo ambito le più profonde radici del post-teismo. E quindi la complessiva visione di Berdjaev si presta benissimo a fungere come base ad una critica a quest’ultimo.

Su queste basi il nostro scritto si muoverà attraverso una primaria esposizione delle tesi di Berdjaev (prima sezione), che sarà poi seguita dalla presentazione di diversi articoli provenienti dall’ambito della ricerca scientifico-religiosa (seconda sezione) – concernenti teismo, anti-teismo ed ateismo, e coinvolgenti anche il panenteismo − e culminerà infine nell’analisi del post-teismo (terza sezione) sostanzialmente per mezzo dell’analisi critica di un articolo di Paolo Gamberini. Naturalmente la riflessione di Berdjaev costituirà per noi il paradigma di un approccio filosofico-religioso che non intende cedere in alcun modo alla tentazione di trasfondersi in un approccio scientifico. Essa ci servirà quindi da fondamentale punto di riferimento e base per analizzare criticamente l’approccio scientifico alla Religione ed per pervenire infine a conclusioni definitive sulla complessiva tematica.

I- La filosofia religiosa anti-scientidica di Nikolaj Berdjaev
In questa sezione esamineremo le tesi esposte da Berdjaev in due dei suoi testi, e cioè in “Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO) ed “Il senso della creazione” (SC).
DIWO ci servirà come base per la trattazione svolta nella prima sotto-sezione (giustificazione della non-scientificità della Filosofia e sue conseguenze sul piano religioso), mentre SC ci servirà come base per la trattazione svolta nella seconda sotto-sezione (visione religiosa relativa ad una filosofia religiosa anti-scientifica)

I-1. La filosofia come scienza e il coglimento della realtà divina.
Berdjaev sostiene in particolare che la Filosofia è stata sempre intimamente unita alla Religione ed invece per nulla alla Scienza [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I p. 1-38]. E tuttavia sostiene questo nel contesto della costatazione della fondamentale solitudine del filosofo e quindi anche del conflitto esistente tra Filosofia e Religione da un lato e Filosofia e Scienza dall’altro lato. E quindi in sostanza egli sostiene che il filosofo dovrebbe essere indipendente sia dall’una che dall’altra disciplina per il semplice fatto che la Filosofia ha il pieno diritto di essere unicamente sé stessa; e quindi di essere totalmente autonoma non avendo alcun obbligo di sottomettersi ad istanze conoscitive diverse da quelle che le sono proprie.
Pertanto egli sottolinea fortemente che la Teologia ha sempre preteso che la Filosofia si sottomettesse ad essa in una maniera che appare molto simile all’attuale discorso svolto sul piano scientifico su questioni che una volta venivano trattate unicamente dalla metafisica. Il che è assolutamente paradossale perché il filosofo russo sottolinea che, se la collaborazione tra Filosofia e Teologia può comunque avere un ruolo e valore, ciò può avvenire proprio nel liberare la Teologia stessa da tutto quanto non riguarda la Rivelazione.
E questo è un compito che secondo lui spetta proprio alla Filosofia. In altre parole la collaborazione tra Filosofia e Teologia per lui ha di fatto il senso di liberare la Teologia dalla sua stessa aspirazione alla filosoficità. Attraverso il suo discorso si delinea quindi chiaramente quella che definiremo come «teologia filosofica», ossia un Teologia che di fatto rinuncia ad essere sé stessa per farsi unicamente Filosofia. E vedremo tra poco che Berdjaev non la ritiene affatto giustificata.
Egli precisa infatti che la Rivelazione non è affatto in sé pensante, ma diventa tale proprio per mezzo della Teologia. Intanto però la Teologia è unicamente conoscenza umana e quindi per definizione non dovrebbe avere alcuna relazione con quella Rivelazione che è in fondo soltanto puro pensiero divino (e proprio per questo non è affatto conoscenza, anche se lo sembra). Essa però, ciononostante, è Trascendenza che diviene immanente proprio nella Filosofia, e quindi ha un ruolo assolutamente naturale in essa. Cosa che invece per lui non dovrebbe affatto avvenire in Teologia; entro la quale bisognerebbe rinunciare in partenza ad una riflessione basata sulla Rivelazione che invece è compito della sola Filosofia (ma ovviamente solo di una filosofia religiosa). Ecco che la Teologia dovrebbe limitarsi ad esporre i contenuti della Rivelazione senza tentare in alcun modo di farlo in maniera pensante.
Il pensatore russo mette quindi molto acutamente in evidenza la tensione naturale ed inevitabile che vi è tra Filosofia e Teologia, e che implica anche una sorta di obbligata ed anche sana separazione tra di esse sia pure nella prossimità. Obbligo di separazione che viene violato tutte le volte che si configura una teologia filosofica – la quale è sempre e per definizione un’assimilazione totale tra le due discipline, laddove invece dovrebbe esserci solo una prossimità nella distanza. Questo è però ciò che è di fatto sempre accaduto nel Cristianesimo perfino allorquando la Religione si è prodotta nei suoi tipici (e non poco violenti) attacchi contro la Filosofia, la cui evidenza peraltro Berdjaev sottolinea con grande forza. Anzi il pensatore sottolinea che, per poter rispettare in pieno la Rivelazione, bisognerebbe eleminare dalla Religione proprio gli elementi filosofici che in essa si sono infiltrati per la via di una Teologia aspirante ad essere filosofica – come è avvenuto in tutta quella cosmologia, astronomica, geologica e biologica (evoluzione), che poi ha sempre teso ad organizzarsi in assurdi dogmi scientifici (oggi però divenuti oggettivamente insostenibili). Dall’altro lato egli deplora anche la forte tendenza di certa Filosofia a farsi integralmente Religione − com’è avvenuto nelle antiche teosofie (specie orientali), nel platonismo e nel neoplatonismo, e perfino più avanti nella filosofia moderna (Spinoza, Fichte, Hegel) ed infine nella Sofiologia russa (Solov’ëv). Ora, in tal modo la Filosofia invade decisamente il campo di una domanda che è in sé di fatto autenticamente religiosa, e quindi ricostituisce di fatto (dall’altro polo dello scenario) quella commistione (in principio illegittima) che sussiste nella teologia filosofica. Eppure in questo caso le cose stanno per lui in maniera molto meno grave ed innaturale, dato che in questo modo si delinea una filosofia religiosa che dal suo punto di vista è ben più giustificata di una filosofia a- o anti-religiosa. Ciò accade perché per davvero una parte della domanda religiosa (quella circa il senso dell’esistenza) riguarda così tanto la Filosofia da renderle impossibile essere ciò che essa è nel caso venga a mancare tutto questo. Infatti per Berdjaev la Filosofia non è tanto “amore della sapienza” ma è invece Sapienza stessa. Come del resto sostenne anche Schelling nel considerare luogo originario della Filosofia la stessa Sapienza custodita dai sacerdoti nei templi [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam Conn., Spring Publication, 2010, p. 7-10] e come ha sostenuto anche LMA Viola affermando che il vero pensatore non è affatto un “filo-sophos” ma invece un “sophos” − ossia uno che possiede già la Sapienza invece di cercarla incessantemente [LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 37-44]. Non solo, ma se la Filosofia rinuncia alla Sapienza, essa finisce per dover arrendersi totalmente alla Scienza; e ciò in quanto il proprio campo di conoscenza viene notevolmente distorto e ristretto.
Infatti il filosofo è chiamato a conoscere tutti gli aspetti dell’essenza umana e dell’esistere (e non solo alcuni di essi), ossia deve aspirare sempre alla Totalità dell’essere; inoltre deve tendere sempre verso l’oltre non accontentandosi mai del solo “aldiquà”. Ed infine il filosofo tende spontaneamente a toccare costantemente il “mistero dell’essere”. Soltanto in tal modo la Filosofia è davvero sé stessa, ed è chiaro che in questa forma essa è necessariamente metafisica. Quindi è essa è anche obbligatoriamente sempre anche filosofia religiosa. Sebbene ciò non può né deve implicare alcuna forma e grado di «teologia filosofica» − né sbilanciata verso una Teologia che pretenda di essere integralmente Filosofia né sbilanciata verso una Filosofia che pretende di essere integralmente Religione. Tuttavia, proprio una volta chiarito questo, risulta chiaro che in primo luogo la Filosofia non può essere in alcun modo scientifica; nemmeno alla lontana.
Essa infatti (ovviamente) né si occupa delle evidenze empiriche né costituisce una “filosofia sopra le essenze” − come ad esempio pretese di essere la Filosofia husserliana e steiniana in quanto ricerca sulle essenze mondane cosali [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, I, I, III, 10-11, p. 124-133 ; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, II, 1 p. 78-79, VII, I, 1 p. 93-96; Edith Stein, Potenza ed atto, Citta nuova, Roma 2003, II, 1-3 p. 72-90, III, 3-4 p. 123-132; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, IV, 2, 4-5 p. 123-126, ibd. IV, 3, 1-4 p. 139-157]. Essa invece è per Berdjaev semmai “una creativa autocoscienza (‘schöpferisches Sichbewußtsein’) dello Spirito sul senso della vista umana (‘des Geistes über den Sinn von menschlichen Lebens’)”. E questo suo status implica necessariamente una certa dose di religiosità della Filosofia. Ma comunque affatto nel senso di porsi come «teologia filosofica». In questo caso, infatti (come abbiamo detto), la riflessione sulla Rivelazione (che è legittima solo in Filosofia) si estende ad una disciplina (la Teologia) il cui compito è unicamente quello di esporre (e semmai anche chiarire nel loro significato profondo) i contenuti della Rivelazione. Compito che poi deve essere rivolto unicamente all’umile servizio svolto a favore dell’uomo comune in quanto credente. Per cui la Teologia tradisce sé stessa (ossia il suo compito naturale) tutte le volte in cui (per mezzo di sofisticate riflessioni metafisico-filosofiche) finisce per rendere la Rivelazione imperscrutabile per il credente. E questo accade esattamente laddove essa pretende di farsi Filosofia, o, peggio ancora, Scienza – come sta appunto accadendo nel campo dell’attuale ricerca scientifico-religiosa.
Dunque va preso atto del fatto che ciò che sta accadendo adesso non è in fondo affatto nuovo. Il problema resta infatti sempre quella tensione tra Filosofia e Rivelazione che da sempre tende a venire risolta nel trasformarsi della Filosofia in Teologia e della Teologia in Filosofia. Solo che quest’ultima tendenza è oggi divenuta davvero estrema. Oggi si verifica infatti un vero e proprio occultamento della Rivelazione (spesso per mezzo della sua radicale riforma e quindi della sua revisione) nel contesto di una Teologia ormai adeguatasi totalmente alla scienza analitico-cognitiva della Religione. Qui insomma la riflessione forgia letteralmente concetti religiosi totalmente nuovi, mettendoli esattamente nello stesso luogo nel quale prima si trovavano le argomentazioni puramente metafisiche che poi la Teologia usualmente dibatteva anche filosoficamente (ma sempre nel pieno rispetto dei contenuti oggettivi della Rivelazione). Argomentazioni metafisiche che ovviamente si basavano interamente sui materiali di riflessione (ossia le idee e relative entità) che intanto venivano messi a disposizione dalla Rivelazione; e quindi per definizione non erano alcun modo prodotti della Ragione umana. La conseguenza di ciò è che il campo delle argomentazioni analitico-cognitive si è totalmente sovrapposto a quello delle tradizionali argomentazioni metafisico-teologiche, anche se di fatto le questioni dibattute sono di fatto esattamente le stesse.
Ciò che è accaduto è insomma che ormai sembra proprio che vi sia un campo di riflessione del tutto nuovo (quello della scienza della Religione analitico-cognitiva) laddove invece in verità resta tuttora appena il vecchio. Ed è proprio per questa strada che nella stessa teologia cristiana si è ormai giunti alla fine addirittura a mettere in dubbio (o almeno a problematizzare e complicare insensatamente sul piano logico-filosofico) l’esistenza di fondamentali concetti ed anche entità religiose (come la stessa idea di Dio connessa alla Sua esistenza) sulla base del fatto che essi sarebbero sempre stati epistemicamente inappropriati.
In altre parole l’attuale scienza della Religione si è prodotta in un’opera davvero titanica di correzione in senso neo-logico dell’intera metafisica teologica, ed inoltre degli stessi contenuti scritturali oggettivi della Rivelazione. E quindi di fatto, secondo questa nuova scienza, la tradizionale metafisica teologica avrebbe sempre di fatto girato a vuoto muovendosi sul campo di concetti trattati senza alcun vero rigore logico.
Cosa che invece era assolutamente necessaria, dato che tale metafisica teologica rispettava pienamente la natura sovrannaturale (e quindi ultra-logica) delle entità delle quali essa trattava; e quindi non si sognava nemmeno lontanamente di sottometterle alla prova di realtà proveniente dalle evidenze scientifiche, e cioè meramente sensibili.
Non a caso la logica analitica moderna si è totalmente sostituita a quella antica come se fosse ormai l’unica legittima. Ma è significativo notare che in tal modo, in luogo dei misteri metafisico-religiosi esposti nelle Scritture, dominano orami le teorie di questo e di quell’autore (con il relativo protagonismo professorale di questi accademici), unitamente al delinearsi di una miriade di infinti di «-ismi» (che proliferano peraltro illimitatamente) i quali hanno preso totalmente il posto delle antiche dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Impressionante è al proposito il fatto che ogni autore propone la sua personale “soluzione” (“my solution”) alle infinite questioni logico-critiche per mezzo delle quali l’intera metafisica tradizionale viene intanto sezionata (ed anche straziata e profanata) come un misero cadavere gettato sul tavolo anatomico.
Emblematici per questo sono i moderni articoli che vengono sfornati a ciclo continuo su questi argomenti. Prima ancora di entrare nella sezione dedicata ad essi, ne citeremo solo due da noi appena letti: − l’articolo di Robinson contro quel cosiddetto “Debunking argument”, secondo il quale l’idea di Dio non sarebbe altro che un indesiderato ed inappropriato effetto collaterale della normale funzione cognitiva [Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-9] e l’articolo di Paolini Paoletti sulla Trinità riletta e rivista totalmente attraverso la moderna riflessione analitica sull’”ontologia delle relazioni” [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191]. Insomma è come se si affermasse che il porsi immediatamente di fronte alle verità metafisiche di fede (da parte del pensatore ed anche del credente) è ormai decisamente proibito, dato che solo la Ragione umana ha il diritto di riconoscere in esse qualcosa di davvero valido. In altre parole si è ormai affermato lo spirito erudito e protestante che da Erasmo in poi pretendeva che la “lettera” delle Scritture (in sé solo falsificante) deve venire totalmente presa in mano dalla Ragione umana perché essa assuma una forma degna dello “spirito”. Il che significa poi pretendere di sostituirsi totalmente al pensiero divino. Per la verità sull’analisi di articoli come questi bisognerebbe fare una ricerca a parte con la certezza di ritrovare in un sufficiente numero di essi esempi in abbondanza del distorto modo con il quale oggi si presenta quella ricerca filosofico-teologica di tipo sostanzialmente scientifico (analitico e cognitivista) che sta riformulando, umanizzando ed immanentizzando totalmente l’intero insieme delle verità rivelazionali. E proprio questo in effetti tenteremo di fare nella seconda sezione, ma limitandoci ad una indagine a campione e su scala estremamente ridotta, cioè senza alcuna pretesa di riportare l’estensione immensa di articoli (e relative questioni) che oggi vengono prodotti in questo campo.
Ma, intanto, va detto che, se Berdjaev trova in qualche modo accettabile la collaborazione tra Filosofia e Religione o Teologia (pur senza sacrificare l’autonomia della prima), egli non accetta assolutamente la collaborazione tra Filosofia e Scienza. Anzi egli ha disegnato in maniera davvero magistrale il percorso della collaborazione tra Filosofia e Scienza che è seguito alla ribellione della Filosofia alla Religione. La Scienza infatti ha inizialmente dato man forte alla Filosofia contro la Religione, per poi però non tardare a sottometterla ed asservirla completamente dopo averle concesso appena un brevissimo periodo di libertà. Ma la schiavitù che ne è seguita è stata ben peggiore di quella della Filosofia alla Teologia. Infatti essa è stata caratterizzata non più da una tensione dialettica (con tutte le sue fasi alterne ed anche le stesse contraddizioni) ma invece dall’annientamento totale della Filosofia stessa,; dovuto soprattutto al fatto che la Scienza ha iniziato ad avere essa stessa “pretese filosofiche”. Che sono andate avanti fino a fondare uno scientismo, in nome del quale addirittura il filosofo non ha più il diritto di parlare di filosofia ma invece è obbligato a parlare solo di scienza. E questo fatto – accettato ormai supinamente ed in pieno dalle Facoltà di Filosofia (soprattutto a causa del terrore folle di non contare più nulla in campo accademico) – è diventato ormai del tutto ordinario e perfino canonico. Tanto che nessun filosofo accademico oserebbe nemmeno lontanamente metterlo in discussione. Oltre a ciò è avvenuto che la Scienza con la pretesa di essere la Filosofia stessa ha iniziato a sfornare a ciclo continuo teorie globali addirittura sull’essere stesso.
E questo è assolutamente paradossale perché per definizione la scienza si occupa di fatti isolati e non invece di totalità.
In ogni caso va detto che Berdjaev deplora (sulla base soprattutto di Scheler) la totale inappropriatezza dell’attacco portato continuamente dalla Religione alla Filosofia; dato che invece questo ha proprio impedito che la Filosofia potesse dominare sulla Scienza.
Ma comunque la totale e naturale divergenza tra Filosofia e Scienza dipende per il pensatore russo dal fatto che la prima usa ormai disinvoltamente (e senza alcuna vergogna) il metodo scientifico. Eppure alla fine la divergenza è assolutamente necessaria perché Filosofia e Scienza hanno due oggetti totalmente diversi – la prima si occupa dell’essere (e precisamente del suo senso) e la seconda si occupa invece delle mere cose (e precisamente della loro struttura), ossia si occupa appena degli oggetti dell’esperienza sensibile. Tuttavia vi è anche un altro aspetto (messo in luce da Berdjaev, e di nuovo per mezzo di Scheler); cioè la questione dell’oggettività della conoscenza. La Scienza pretende infatti che la Filosofia non possa essere soggettiva proprio per poter conoscere in modo rigorosamente oggettivo. Infatti per essa tutto è “oggetto” perfino il soggetto stesso, incluso lo stesso soggetto filosofante. E quindi la Filosofia scientifica di fatto impedisce alla Filosofia di esistere in quanto sopprime l’esistenza del filosofante. Ecco insorgere quindi quell’”obiettivazione” che Berdjaev condanna dappertutto nel suo pensiero come ciò che distorce totalmente la conoscenza (specie per la sua pretesa di sottomissione totale a quell’universale che viene considerato come garanzia massima di oggettività) [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 2 p. 221-231]. Tuttavia, a causa di questo, avviene infine una restrizione dell’ambito di conoscenza in generale, che è così penalizzante da obbligare il conoscente a ad andare oltre i limiti della Scienza nel campo delle famose teorie scientifiche.
E qui, nonostante le pretese avanzate in tal senso, la Scienza cessa decisamente di esistere per lasciare il posto alla Filosofia. sebbene essa di guardi bene dall’ammetterlo. Ma intanto ciò non può avvenire realmente per davvero sia perché la Scienza omette il dovere di non superare questo limite, sia perché la Filosofia non rivendica affatto il diritto di occupare questo campo del tutto da sola.
Orbene, abbiamo visto finora una serie di problematicità, delle quali le principali sembrano essere la totale trasformazione della Teologia in Filosofia («teologia filosofica») e la totale trasformazione in Scienza da parte della Filosofia. Berdjaev ci mostra chiaramente che si tratta di due forme gravi di asservimento e coartazione della Filosofia.
Ma successivamente (I p. 28-38) viene da parte sua l’indicazione delle soluzioni a tutta questa abnorme situazione. Le soluzioni sono sostanzialmente tre: − il riconoscimento che la Filosofia si basa su quell’”intuizione” che include anche l’emozione oltre che la Ragione, la centralità dell’uomo nell’esercizio della Filosofia (in quanto sostanziale vissuto esistente), la natura unicamente interiore dell’essere indagato dalla Filosofia in obbedienza al fatto che essa coincide totalmente con l’uomo.
Essendo “intuizione” (e precisamente “originaria”) la Filosofia coglie infatti in maniera assolutamente unica l’”ampiezza dell’esperienza vissuta”, e così anche la sua “pienezza”. Cosa possibile solo se la Ragione poggia interamente su quell’”ontologia” (onticità) del filosofo che è poi il suo stesso intenso e diretto vissuto, e quindi include strettamente le sue emozioni (amore, odio, sensibilità per i valori). Su questa base, quindi, è evidente che il campo della conoscenza umana (Ragione umana) diverge radicalmente dal campo della conoscenza divina (o Ragione divina) che è poi il campo della Rivelazione. E ciò conferma senz’altro la distanza che vi deve essere tra la conoscenza filosofica e quella teologica. Ma intanto proprio per questo la Rivelazione si impone sull’uomo che non può assolutamente impersonarla né possederla, e quindi ne viene sempre scosso e trasformato interiormente. Ecco dunque il timido germogliare del seme di una Filosofia religiosa, che consiste nell’avere la Rivelazione come contenuto “mistico” del proprio pensare. Si tratta in altre parole di quell’assumere la Rivelazione come materiale fondamentale per la riflessione filosofica.
E ciò è peraltro esattamente quanto è sempre avvenuto nella filosofia cristiana più prossima al platonismo e quindi più incline ad essere una filosofia religiosa entro la quale la Filosofia non si fonde affatto alla Teologia in una «teologia filosofica» che è solo filosofare logico-razionale [Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73]. Qui insomma lo sfondo del filosofare resta sempre «contro-razionale» o «iper-razionale», con la conseguenza che l’umana logica razionale non assume mai il predominio divenendo così assolutamente dirimente. Eppure questa valenza dirimente dell’umana logica razionale (con la svalutazione brutale della natura «contro-razionale» ed «iper-razionale» delle Verità rivelazionali) è esattamente ciò che è stato affermato nell’estrema evoluzione della «teologia filosofica» nell’attuale scienza analitico-cognitivista della Religione.
Resta comunque per Berdjaev assolutamente indispensabile la dimensione umana della conoscenza, la quale comporta perfino anche un’”umanizzazione” della conoscenza di Dio. Ma nello stesso tempo si verifica per lui una stupefacente continua “commensurabilità” tra conoscere umano e conoscere divino sulla base della intima somiglianza tra uomo e Dio – ossia umanità di Dio e divinità dell’uomo. E per questo alla fine la così decisivamente umana Filosofia diviene perfino piena conoscenza di Dio, ossia autentica filosofia religiosa. In tale contesto l’umanizzazione è dunque qualcosa di estremamente felice. E come vedremo questo entra in frontale conflitto con il discredito gettato dal post-teismo sull’antroporfizzazione del Dio manifestato nella Rivelazione.
Anzi Berdjaev afferma che, entro la conoscenza in generale, ci sono addirittura tre gradi di “umanizzazione” della conoscenza – massima nella Religione, media nella Filosofia e minima (se non inesistente) nella Scienza. Non a caso quest’ultima si allontana anni luce dal vero scopo della conoscenza e dalla sua dimensione, dato che si sposta nel campo della profondità degli enti. Insomma l’umanizzazione è massima proprio nella Religione, ossia nel vissuto (pratico e conoscitivo) dei contenuti della Rivelazione.
In altre parole l’umanizzazione della conoscenza di Dio è una risorsa e non un impedimento; e ciò per il semplicissimo fatto che la stessa Rivelazione cristiana la esige, dato che il suo nucleo è quell’umano-divinità che consegue ineluttabilmente all’Incarnazione.
In ogni caso sono secondo Berdjaev da riconoscere tre livelli e gradi (ed anche principi e dimensioni) della conoscenza: − uomo (Cultura), Dio (Grazia) e Natura (Necessità). E quindi sulla base di questo sono riconoscibili anche due estremizzazioni che pongono illegittimamente fuori gioco l’uomo: − unilaterale conoscenza di Dio e unilaterale conoscenza della Natura. È evidente quindi che l’autentica filosofia religiosa (dato che la Filosofia si incentra unicamente sull’uomo) non può essere assolutamente estremistica. Essa insomma non può affatto pretendere di rappresentare una conoscenza di Dio che bypassa totalmente l’uomo. Cosa che di nuovo riabilita totalmente l’antropomorfismo di Dio. Il che è peraltro anche estremamente plausibile, perché in questo caso vi è solo il pensiero divino (Rivelazione) e per nulla invece la ricezione della Rivelazione da parte del filosofare umano. E questo del resto contraddice in modo evidente lo scopo stesso della Rivelazione, che altro non è se non il desiderio divino di comunicarsi all’uomo proprio sul piano della conoscenza.
In altre parole la filosofia religiosa non può in alcun modo essere estremistica in quanto essa deve sempre passare per la conoscenza propria dell’uomo. Il che significa anche che l’uomo può conoscere Dio e la Natura solo attraverso sé stesso.
E deve anche essere pronto a riconoscerlo ed ammetterlo. Al di fuori di questo non vi può quindi essere altro che una filosofia religiosa fatalmente illegittima (in quanto pretesa assurda della dissociazione tra divino ed umano). E forse essa è proprio quella che Berdjaev riconosceva nella tradizione teosofica, platonica e neoplatonica. Ma, al cospetto di ciò, si delinea una dimensione estremamente complessa che alla fine ci riposta alla rigorosa distinzione istituita da Scheler tra Religione e metafisica [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018]. Infatti, dice il filosofo russo, a fronte (ad anche all’opposto) di una filosofia religiosa estremistica vi è la “naturalizzazione delle verità religiose”, e cioè di fatto quella cosmologia ingenua (oltre che in parte anche razionalistica) – che pretende poi dogmaticamente di essere fondata in una lettura letterale della Rivelazione – che secondo lui la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare integralmente. Ma non solo la Filosofia ha questo diritto. Forse invece lo ha ancora più la Religione. Dato che il Dio da essa venerato e pregato è il Dio Vivente (quello di Abramo, Isacco e Giacobbe), e non invece il puro Assoluto divino (che è solo puramente metafisico). Eppure esso pretende di essere tale proprio entro la cosmologia ingenua – la quale in definitiva, come sostenne Hessen, non è altro che un intellettualismo razionalistico assolutamente anti-realiste e quindi non descrivente affatto l’esistenza reale [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, I, I, 1 p. 15-19, II, VII p. 224-234]. E proprio per questo la Filosofia deve rigettare il cosmologismo ingenuo – ma non solo in nome di sé stessa bensì forse ancor più in nome della Religione. In questo senso, per Berdjaev, la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare la fede ingenua. Ebbene, del tutto paradossalmente, proprio entro la più rigorosamente filosofica scienza della Religione analitico-cognitivistica, noi ritroviamo affermazioni che di fatto si allineano perfettamente a questa così illegittima naturalizzazione delle verità religiose che porta infine a negare quel Dio Vivente che è tutt’altro che un puro Assoluto metafisico. Paolini Paoletti cita infatti moderne teorie della Trinità entro le quali viene negata espressamente proprio la realtà del Dio-Persona [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, p. 173]. E vedremo che lo stesso accade entro il post-teismo, dato che in esso il Dio-Persona viene negato (con il pretesto dell’antropomorfismo) proprio in nome invece di un Dio apofatico che null’altro è se non il puro Assoluto metafisico.
Il che è davvero paradossale, oltre che ridicolo. Ciò significa insomma che forse vi è un rischio ancora maggiore di quello dell’estremizzazione della filosofia religiosa (quella in generale platonica), e cioè quello rappresentato da una riflessione apparentemente rigorosissima (dal punto di vista logico-razionalistico) ma di fatto invece meramente naturalistica. In essa insomma si commette il fatale (ed anche banalissimo) errore di voler trattare di Dio alla stregua dell’esperienza naturale. Ma intanto proprio per questa via lo si trasforma nuovamente in un puro Assoluto metafisico, dato che intanto le evidenze naturali contraddicono il Dio antropomorfico che viene effettivamente presentato dalla Rivelazione. E così senz’altro non si va da nessuna parte.
Ma Berdjaev ci offre un contesto estremamente suggestivo ed illuminante di questo paradosso; che poi costituisce per lui un altro aspetto della solitudine tragica che tocca inevitabilmente al filosofo. Si tratta della dimensione in verità meramente sociale ed affatto autenticamente conoscitiva di questo genere di conoscenze. Il che avviene in Filosofia, in Religione ed anche in Scienza. Accade quindi che vengono affermati dottrine e metodi conoscitivi che hanno una mera valenza sociale pur pretendendo di presentarsi invece come oggettivi e cogenti dal puro punto di vista conoscitivo. E così, su questa base, viene violentemente attaccato il filosofo (ma anche il teologo o perfino il semplice credente) che osi contraddire le cogenze sociali così affermate. Accade pertanto che il filosofo religioso che si fa scrupolo di guardare in faccia a Dio (senza alcuna intermediazione canonico-sociale) resta non solo totalmente inascoltato e non riconosciuto nel proprio ruolo, ma viene anche violentemente aggredito. Ed ecco allora il fatale delinearsi di pensatori originali (davvero indipendenti e rinnovatori) così come anche di autentici santi e mistici che vengono sempre o trascurati o screditati e combattuti. Nel nostro Paese uno di questi è stato senz’altro quel Don Dolindo Ruotolo [Grazia Ruotolo, Luciano Regolo, Gesù, pensaci tu, Ares, Milano 2020] che ebbe il coraggio di affermare chiaramente che l’aiuto divino esiste realmente e che quindi Dio null’altro è se non Persona, ossia Gesù stesso ancora presente nel mondo come Spirito e peraltro concretamente agente.
Ed ecco che, come dice Berdjaev, nel campo della conoscenza l’uomo può prendere solo due posizioni radicalmente alternative tra loro (nel senso di un vero e proprio aut aut): − 1) o egli si pone incondizionatamente di fronte al mistero dell’essere, ed allora ne nasce la vera Filosofia, con la sua conseguente intuizione e partecipazione della Rivelazione; che rende l’uomo senz’altro indifeso ma anche lo arricchisce infinitamente; 2) oppure egli si pone di fronte agli altri, o società, con la sottomissione ad essa della conoscenza filosofica. E tutto questo significa per il filosofo russo che la Filosofia può essere solo intensamente personale e soggettiva in quanto richiedente la presenza vivente del filosofo [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Cosa che può benissimo venire estesa anche al semplice uomo comuno quale credente.
A causa di questo l’intera storia della filosofia è per lui storia delle visioni personali dei singoli pensatori, ed inoltre solo in esse (grazie ad un’intuizione che può essere solo soggettiva) si coglie per davvero la verità. Essa infatti viene colta solo interiormente e proprio come tale non è mai verità oggettiva ma invece solo trascendente; ossia luce proveniente dall’Origine della quale un riflesso viene colto dallo spirito individuale. Il che implica poi anche un limite ben preciso nel senso della ristrettezza – in tal modo infatti il filosofo non può cogliere mai l’intera verità ma appena alcuni dei suoi raggi che penetrano nel suo intimo. Il che comporta nuovamente l’importanza decisiva della dimensione umana in Filosofia, dato che essa conosce solo “nell’uomo e per mezzo dell’uomo”. Ne consegue che non vi può essere alcuna Filosofia in quanto disciplina autonoma nel senso dell’oggettività (specie se rigorosamente razionale e quindi scientifica).
Essa invece può essere solo vitale (oltre che pratica ed azionistica), ed affatto teoretica. Su questa base per Berdjaev non è giustificata né legittima alcuna Filosofia “accademica” e “di scuola” (“akademische Schulphilosophie”). Ne consegue inevitabilmente che per lui è una figura del tutto ridicola il metafisico ripiegato sui libri dietro la propria scrivania. Invece il mistero dell’essere può venire dischiuso solo nel corso di una vera e propria immersione del filosofo nel destino umano in quanto incondizionato esistere.
Ecco che c’è qui allora da chiedersi quanto dell’attuale riflessione scientifico-religiosa − così accademica, così professorale, così dipendente dagli unici dibattiti ammessi nelle Accademiche, così irrigidita nelle forme espressive che le Accademie ritengono valide, così marchiata dall’ossessione protagonistica (delle varie “la mia soluzione alla questione…”), così asetticamente sterilizzata da ogni forma di presunta “ingenuità” – possa davvero recare i tratti di questo pensare il cui protagonista è pienamente uomo e come tale è immerso nel pieno dell’esistenza e perfino nel proprio destino. E la domanda è ancora più legittima se si tiene conto del fatto che essa tratta verità di fede. Dunque dov’è qui l’esperienza di fede più viva? Dov’è qui l’esperienza religiosa più autentica, ossia quella che presume di stare ad immediato contatto con Dio?
Questo problema diviene però ancora più drammatico se teniamo conto della relazione tra soggetto e mondo che Berdjaev indaga susseguentemente [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 51-59]. Qui in generale il pensatore sostiene che lo spostamento avvenuto modernamente in Filosofia dall’oggetto all’oggetto aveva fatto sì che il soggetto stesso non si trovasse più realmente in relazione con l’essere ma invece si trovasse con esso in una relazione puramente conoscitiva. Tuttavia, allo scopo di garantire l’affidabilità di tale conoscenza (ossia il suo rigore) si tendeva intanto a trascendentalizzare il soggetto (Kant, Fichte, Hegel, Schelling) trasformandolo così in un Io assoluto che poi altro non voleva essere se non un Io divino di tipo impersonale. Cessava quindi così per sempre il personalismo della conoscenza in generale ed ancor più di quella filosofica. E così la conoscenza dell’oggetto non era più umana ma unicamente divina.
Nello stesso tempo si esigeva che l’oggetto conosciuto dovesse essere indipendente dal soggetto, con la conseguenza che cessava qualunque relazione tra i due termini. E quindi si affermava un concetto di “oggettività” che consisteva esattamente nella rigorosa separazione dell’oggetto dal soggetto, invece di essere “rivelazione” (“Enthüllung”), “visibilità” (“Sichtbarwerden”) e “corporizzarione” (“Verkörperung”) dell’oggetto stesso, e quindi dell’essere. Necessariamente iniziava così a manifestarsi un’“oggettivazione (Objektivierung) del senso”, negando così che invece il senso insorge solo “in me”, ossia in me come spirito umano, specie se filosofo. Ecco dunque – contro quest’ultima prospettiva − delinearsi il ruolo dirimente della coscienza (Husserl) ed ecco il delinearsi del concetto di “spirito oggettivo”.
Ora, a fronte di tutto ciò, è ancora più evidente evidente perché la Rivelazione ha iniziato da questo momento in poi ad essere un termine estremamente sospetto, ed è dunque chiaro perché si è iniziato ad operare contro di essa o almeno fuori di essa.
Ma se andiamo oltre nella riflessione di Bedjaev coglieremo altri aspetti di tale realtà. Perché la conseguenza di ciò che egli descrive è stato un intellettualismo − lo stesso intellettualismo criticato da Hessen ed in effetti presente già molto prima che nel moderno Idealismo − entro il quale il pensiero stesso veniva scambiato per l’essere.
Ed allora, se poniamo che (in termini tradizionalmente metafisico-religiosi l’Essere è Dio stesso) come possiamo meravigliarci dell’attuale tendenza scientifico-religiosa a sostituire la trattazione dell’essere divino (quello manifestato per misteri entro la Rivelazione) con il semplice dipanarsi di pensieri rigorosamente logici (nonché pure astrusi). In tale contesto insomma si ha davvero la sensazione di star trattando di Dio stesso (e perfino in modo infinitamente più pulito logicamente rispetto al passato).
Nel mentre invece ci si sta aggirando appena nel labirinto oscuro della propria mente, e più precisamente (oggi che la Scienza ha sostituito la Filosofia) in una quella specie di mente collettiva che è il mondo della comunità scientifica dibattente fino allo stremo questioni scientifiche (ancor più se in esso finisce per insorgere addirittura il tanto agognato «consenso»).
Il che poi è ancora più grave se si tiene conto del fatto che − entro la relazione soggetto-oggetto criticata da Berdjaev – i pensieri finiscono per essere appena riflesso dell’essere, e mai e poi mai invece coglimento diretto e pieno dell’essere. Che per Berdjaev è invece attivo per definizione e proprio per questo richiede un atto intellettuale di investimento dell’essere (che è sempre attivo ed assertivo per definizione), ossia quell’intuizione che è poi null’altro che visione. Era esattamente ciò che accadeva nell’antica metafisica (illuminata o meno dalla Rivelazione) – in essa l’intelletto umano si trasferiva letteralmente entro il proprio oggetto di riflessione, venendo così da esso impregnato ed illuminato da ogni parte. Ma questa attività del conoscere non è affatto l’attuale tendenza dei teologi- e filosofi-scienziati a forgiare letteralmente ex novo (per la via della pura argomentazione logica) teorie sull’essere divino che invece prima venivano invece ottenute unicamente per la via di una riflessione visionario-intuitiva. E questa era una riflessione sicuramente attiva, ma che intanto recepiva rispettosamente (e con venerazione) i contenuti della Rivelazione, invece di cercare di ricrearli ex novo.
E ciò del resto viene sottolineato da Berdjaev nel sottolineare che l’uomo conosce l’essere solo perché vi si trova immerso dentro. Il che significa poi intrattenere con l’essere (cioè con l’oggetto) una relazione che è strenuamente soggettiva, ossia è personale.
Ebbene questo atteggiamento distorto del soggetto conoscente verso l’essere configura ancora una volta un’”obiettivazione” Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-75]. L’oggettivazione causa insomma una presa di posizione verso l’oggetto (quella contrassegnata dallo stare «davanti» ad esso e non invece «in» esso) in forza della quale l’oggetto stesso cessa semplicemente di avere valenza di essere. Ed in tal modo mai e poi mai la conoscenza dischiuderà davanti a noi il “mistero dell’essere”.
Ecco di nuovo esattamente ciò che accade nella letteratura scientifico-religiosa – essa vede del Dio-Essere tutto il possibile (ed anche di più), tranne l’essenziale, e cioè il Suo mistero. E dunque essa è tale perché in definitiva non vuole essere più in alcun modo una filosofia dell’essere – ossia proprio quella che per Berdjaev è la più autentica e piena Filosofia. Essa invece semmai non è altro che la filosofia della conoscenza (quella dominata dalla sola «teoria della conoscenza») che intanto viene del tutto illegittimamente ed anche scompostamente applicata all’essere. Per di più in quanto essa pretende addirittura di essere non solo filosofia scientifica ma invece scienza vera e propria. Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un complessivo campo di conoscenza che manca completamente il proprio obiettivo, ossia il proprio oggetto, limitandosi così a girare del tutto a vuoto.
In ogni caso veniamo davvero al dunque (rispetto alla nostra questione) laddove Berdjaev stesso si occupa non più della Filosofia con pretese di scientificità ma della conoscenza scientifica stessa [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-117].
Qui egli afferma che non c’è nulla che possa separare di più il conoscente dal mistero dell’essere se non quella pretesa della validità conoscitiva (con tutto il suo pesante ed ingombrante corredo di leggi logiche in funzione rigidamente normante) che annienta letteralmente qualunque atto di intuizione ed inoltre anche la stessa dimensione soggettivo-personale della conoscenza, ossia la dimensione vitale ed immersiva del filosofare. E peraltro egli sottolinea anche che qui non ci troviamo più affatto per davvero sul piano della conoscenza, bensì invece sul piano di mere esigenze sociali (mascherate da conoscenza) – nelle quali non a caso domina una cogenza che pretende di sottomettere tutto e tutti (è insomma di nuovo il luogo del dominio dell’universale).
A questo seguono poi le considerazioni del pensatore sulla dimensione religiosa che insorge per via sociale di tipo comunionale allorquando l’Io supera la sua dimensione solipsistica per porsi in intima relazione con l’altro Io [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III p. 111-162]. Tali considerazioni non riguardano direttamente la nostra questione per cui non ne tratteremo. C’è da chiedersi però se l’attuale ricercatore scientifico-religioso non sia vittima proprio del solipsismo dell’Io che viene deplorato da Berdjaev, e quindi, proprio per questo, non abbia la benchè minima chance di porsi in connessione con un aspetto fondamentale della dimensione religiosa, ossia quella comunionale. Laddove poi il pensatore russo sottolinea che quest’ultima è davvero ecclesiale solo nella misura in cui è un’autentica “comunione spirituale” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. E quindi è estremamente lontana da quella dimensione ecclesiale meramente istituzionale entro la quale del tutto non a caso questi ricercatori si muovono perfettamente a loro agio e nel pieno consenso delle autorità, visto che in fondo sono dei teologi (e spesso anche sacerdoti e predicatori). Peraltro Berdjaev sottolinea che la tensione dell’Io verso l’altro tende del tutto naturalmente a Dio stesso. Anzi abbiamo un massimo tendere a Dio in quel “teoandrismo della conoscenza” che costituisce uno dei vertici della tensione dell’Io verso l’altro.
A ciò va solo aggiunto (sempre da DIWO) che per Berdjaev solo nella dimensione personale (dell’essere e necessariamente anche del conoscere, specie se filosofico) può esservi una relazione con Dio – che è esso stesso Persona ed inoltre proprio per questo è intimamente connesso all’uomo entro l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-43]. La dimensione personale è dunque sempre e per definizione partecipazione di Dio. Inoltre nella relazione con Dio si finisce per superare anche la stessa dimensione personale-immanente dell’uomo, dato che In ogni caso la personalità non sussisterebbe senza avere qualcosa di “sovrapersonale” (“Überpersönlich”) sopra di sé, e quindi qualcosa di alto che la determina [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 1 p. 205-220]. Si tratta ancora una volta dell’umano-divinità come carattere simultaneo della dimensione personale umana e divina. E quindi proprio in questa determinazione sovra-personale della persona consiste il mistero stesso della persona umana. Anzi il pensatore russo sottolinea che la dimensione della persona emerge in verità solo nella Rivelazione ed affatto invece mai né entro l’esperienza naturale né entro il pensiero umano. Infatti la persona, non essendo (come invece lo è l’individuo) un “fenomeno” (“Erscheinung”) naturale, esso è solo immagine di una “similitudine” (“Gleichnis”) dell’uomo a Dio.
Figuriamoci quindi come e quanto elucubrazioni scientifico-religiose di tipo logico come quelle sull’”ontologia della relazione” (Paolini Paoletti) possano restituirci il mistero centrale stesso della Trinità e cioè la rivelazione dell’ontologia più alta possibile della persona (tanto umano quanto divina).

I-2. L’umano-divinità e la realtà personale dell’umano-divino in quanto Spirito.
Ma veniamo ora al testo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018], nel quale potremo cogliere un altro aspetto delle riflessioni su Dio, e cioè quello ancora più legato ad un aspetto essenziale della divinità stessa, ossia quell’umano-divinità che è nello stesso tempo nucleo della dimensione personale e nucleo della dimensione spirituale. Si vedano per questo anche le considerazioni che abbiamo fatto nel nostro saggio sul Personalismo e nel nostro articolo sulle relazioni tra il pensiero di Edith Stein e lo Spiritualismo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/].
Qui in generale Berdjaev sostiene l’assoluta equivalenza esistente tra persona umana, spirito ed essere.
E quindi per definizione istituisce un’intima relazione tra l’uomo e Dio proprio sul piano della realtà personale. Quindi nulla come queste riflessioni possono sconfessare le attuali riflessioni scientifico-religiose sul post-teismo. Infatti se Dio è persona non può essere in alcun modo una generica deità. E va qui anticipato che in genere per “post-teismo” si intende senza ormai alcun imbarazzo qualcosa di simile ad una «religione senza Dio». Vedremo però poi quale multiforme e bizzarro campionario di idee è incluso in questa complessiva teoria, date le su dirette premesse anti-teistiche ed atee.
Vediamo ora se in Berdjaev riusciremo a trovare argomenti convincenti contro questa dottrina anche senza chiamare in causa la predisposizione della Filosofia ad essere religiosa. Si tratterebbe quindi di argomenti preventivi che possono fungere da paradigma per esprimere alla fine un giudizio sul post-teismo.
Bisogna peraltro premettere che il pensatore russo non è affatto incline ad un teismo di tipo dogmatico, ingenuo e addirittura cosmologico-naturalistico (come quello che è stato affermato nel Cristianesimo a partire dalla Scolastica per poi prolungarsi di fatto, sebbene in maniera sempre meno esplicita ed affermativa) fino ai giorni nostri.
Qui va detto però che evidentemente questo non fu altro che l’aspetto essoterico (e non esoterico) dell’onto-metafisica cristiana. Quindi è assolutamente certo che esso è stato affermato ed anche molto propagandato come articolo di fede. Ma intanto il vero motivo di tutto ciò non riguardò affatto la dottrina in sé (la cui natura era unicamente esoterica, e quindi affatto letterale, come di certo ben sapevano i suoi sostenitori) bensì riguardò unicamente quella esigenza sociale che non a caso anche Berdjaev sottolinea, ossia l’esigenza di affermare un Ordine cosmico che alla fine aveva una valenza meramente politica. Ed è ovvio che tale Ordine andava mantenuto con il terrore, ossia per mezzo del dogma. Anzi al proposito il pensatore russo sostiene che il Cristianesimo originario fu profondamente stravolto in questo senso dal prevalere in esso di uno spirito barbarico in fondo pagano, tutto germanico e tutto politico-teocratico che era ossessionato dalla violenza delle passioni, alle quali esso cercava appunto rifugio nell’ordine più inflessibile possibile [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 2 p. 8-16].
Berdjaev definisce tale tendenza come prevalre del “principio angelico”, indicando con ciò la presunzione che l’esistenza di Dio (e soprattutto l’esistenza di Dio nel mondo specie grazie all’umano-divinità, cioè all’Incarnazione nella sua pienezza) potesse venire affermata unicamente sulla base di un mero simbolismo che sosteneva la divinità integrale del mondo nel mentre intanto (contraddicendosi totalmente) svalutava totalmente quest’ultimo [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8, 3-4 p. 17-25]. Egli ritiene invece che la divinità del mondo debba venire affermata integralmente, ossia in modo realmente coerente, e ciò in forza del concetto di Incarnazione una volta affermato con estremo coraggio da parte della Chiesa cristiana. Cosa che per davvero non è mai accaduta, visto l’imbarazzo che essa ancora prova davanti a questo concetto (come peraltro evidente al massimo proprio nel post-teismo).
Eppure sta di fatto che (come egli constata) il dissolversi progressivo del principio angelico (sotto la spinta possente della sempre maggiore valorizzazione umanistica ed immanentista del mondo) ha portato al risultato per nulla desiderabile della separazione tra uomo-mondo e Dio. In altre parole possiamo dire che un teismo troppo estremistico (che poi è quello che vuole un mondo penetrato da Dio ma intanto solo nella Sua distanza incommensurabile dal mondo stesso) porta a risultati senz’altro controproducenti. E questo è senz’altro quel teismo trascendentista che poi (a causa delle sue oggettive colpe) può venire considerato il remoto punto di partenza dell’ultra-moderno post-teismo. Quest’ultimo affonda quindi senz’altro le sue radici nelle obiezioni che prima la Filosofia rinascimentale della Natura e poi l’Illuminismo (per culminare infine nel Positivismo) iniziarono a muovere proprio contro la credibilità (razionale ed esperienziale) di un Dio Trascendente; e ciò peraltro a fronte di un mondo che la scienza empirica iniziava a mostrare sempre più come un meccanismo perfetto. In altre parole fu proprio in questo modo che si iniziò a considerare l’esistenza di Dio come insostenibile alla luce dell’esperienza e della Ragione. Egli sottolinea peraltro che la teologia che si mosse in tal modo fu una teologia sostanzialmente apofatica (sebbene non sempre in modo letterale) che di fatto temeva fortemente un’antropomorfizzazione di Dio, e quindi una valorizzazione del mondo che si basasse proprio su quest’ultima. Sta di fatto comunque che, come vedremo in Gamberini, questo genere teologia (per moto tempo restata nascosta tra le pieghe della teologia razionale e naturale) si è alla fine manifestata pienamente proprio nel post-teismo. In esso infatti l’accusa all’antromorfismo è divenuta massima.
Non vi è quindi dubbio che questo genere di teismo non è affatto una via praticabile per opporsi al post-teismo. Anzi addirittura si può essere certi che ne rafforzi gli argomenti.
Contro questo approccio Berdjaev sostiene la necessità di una santificazione del mondo che abbia al suo centro un amore verso Dio che sia simultaneo all’amore verso il mondo. Proprio per questo egli propone la via di un’attività creativa umana (anch’essa assolutamente da santificare), che però gli sembra possibile solo se finalmente viene superato quel platonismo tendenzialmente gnostico che secondo lui è residuato nello stesso Cristianesimo nella forma di un dualismo (opponente radicalmente il Trascendente all’immanente) entro il quale si finisce per confondere fortemente Dio stesso con il Diavolo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43]. Infatti in tale contesto vi è da un lato un’identificazione strettissima del mondo con il male, ma anche una forte rassegnazione al mondo così com’è. Con la grave conseguenza che il male non viene combattuto. Laddove per lui la via per farlo è esattamente quella di una trasfigurazione creativa del mondo stesso, in modo che esso divenga ancora più divino di quanto non sia di per sé in forza della creazione. Egli postula infatti un’attiva collaborazione dell’uomo e del mondo alla creazione. E ciò implica il superamento di un pessimismo (senz’altro incentrato sull’ossessione cristiana per il Peccato) che di fatto equivale fortemente allo stesso “dubbio scettico”, ossia all’agnosticismo ateo. Esso insomma comporta la mancanza di una vera fede in Dio, e precisamente della fede in un Dio realmente presente nel mondo.
E invece secondo Lui Dio è presente indubitabilmente nel mondo, ma lo è per la precisione per mezzo dell’uomo stesso e della sua creatività; a sua volta (teologicamente) incentrata su quell’umano-divinità che poi ha le sue radici nell’Incarnazione accettata senza più alcuna riserva (né trascendentista né scettica).
Ed a questo scopo egli non esita a dichiara di chiedere in un “monismo quasi panteistico”. La cui natura deve però venire ben chiarita per non cadere in quella fatale “antinomia” dell’esperienza religiosa che non solo rende quest’ultima assimilabile ad una fede infantile, ma soprattutto la rende paralitica, e quindi incapace di opporsi davvero al male in forza di una (non dichiarata ma anche non del tutto consapevole) assuefazione ad un mondo che intanto si disprezza fortemente. Ebbene tale antinomia può secondo lui venire superata solo se si diviene consapevoli in primo luogo del fatto del fatto che Dio e mondo sono simultanei (Dio “è immanente al mondo e all’uomo”, così come però “il mondo è l’uomo sono immanenti a Dio”) ed in secondo luogo del fatto che il mondo deve venire considerato extra-divino solo nella misura in cui intanto è divino (“il mondo è totalmente extradivino” ma come tale è “totalmente divino”). A suo avviso un’esperienza religiosa può essere piena ed attiva (e dunque non antinomica) solo se si basa su questa fede estremamente forte. Forte soprattutto perché essa è capace di esporsi alle evidenze negative del mondo senza mai venire scossa.
Ed è evidente che il nucleo di questa fede è la ferma certezza che Dio è presente nel mondo. E nel nostro articolo sullo Spiritualismo abbiamo chiarito che ciò equivale a credere che Gesù Cristo è restato nel mondo come Spirito incessantemente trasfigurante (e quindi di realizzare l’impossibile qualora invocato) dopo essere nuovamente asceso al Padre.
Tutto ciò conserva comunque tutta la tensione cristiana verso il superamento del mondo, ma senza che mai essa si trasformi in paralisi dell’azione.
E qui egli finisce per sostenere che la relazione tra uomo e Dio deve essere assolutamente immediata e diretta in quanto essa si incentra proprio nel pieno impersonamento da parte dell’uomo della creatività che lo contraddistingue per dono divino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 75-82]. Il che implica la libertà da qualunque condizionamento, incluso quello della stessa teologia.
A questo punto le considerazioni del pensatore riprendono l’intera materia che abbiamo discusso nella sezione precedente rispetto alla dimensione religiosa della Filosofia. Il che significa che per lui la Filosofia stessa (una volta libera e ben intesa) è una risorsa posta a disposizione del vero credente. E ciò soprattutto perché essa ci pone in contatto con la Rivelazione esattamente così com’è, e quindi né riletta, né interpretata, né ridotta nella sua portata (ossia non distorta). Qui vi è già un fortissimo argomento anti-teistico proprio in quanto decisamente anti-teologico. Infatti cosa fanno gli ultra-moderni scientifico-religiosi (ossia i teologi stessi, specie se post-teisti) se non mettere fortemente in ridicolo la fede in Dio realmente presente nel mondo? È evidente quindi che, se si crede a quest’ultimo, non si può credere alle elucubrazioni post-teistiche nemmeno sulla base delle più rigorose e sofisticate argomentazioni logico-critiche. Infatti in questo caso il credente vivrà un’esperienza religiosa che è in primo luogo diretto contatto con Dio, e lo è in modo così intimo da costituire in tal modo uno spazio assolutamente inviolabile. Insomma nessun teologo, o predicatore, o apologeta, o chicchessia, avrà il minimo diritto di irrompere in questo spazio con quelle sue argomentazioni scettiche che oggi fin troppo stesso vengono considerate addirittura indiscutibile articolo di fede.
Tra l’altro a ciò si aggiungono anche fortissime considerazioni metafisico-filosofiche [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Infatti Berdjaev sostiene che l’uomo è di per sé consapevole di essere universo ed anche centro dell’universo, ossia autentico ”centro dell’essere”; ed inoltre proprio per questo esso è perfettamente in grado di conoscere l’universo, e dunque Dio, stesso, senza alcuna intermediazione (specie da parte di una teologia critica). Sostanzialmente perché esso sa di racchiudere in sé l’universo stesso. Ecco dunque che l’uomo è per definizione microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. E questa, dice il pensatore russo, costituisce la via complessiva per mezzo della quale sempre sono stati recepiti dall’uomo (per Rivelazione) gli stessi “misteri dell’universo”; come del resto la vera Filosofia ha sempre saputo.
Dunque perché mai questa via così breve, semplice e diretta a Dio dovrebbe venire resa immensamente lunga, tortuosa e complicata per mezzo di un’argomentazione scientifico-religiosa che nutre una profonda sfiducia proprio nella Rivelazione come fonte purissima ed incondizionata della verità circa Dio? Davvero non si riesce a comprendere la necessità di una simile inutile e pretenziosa complessità. L’unica sua spiegazione può quindi risiedere nell’irrefrenabile ansia di protagonismo intellettuale ed accademico di coloro che la rappresentano. Non a caso questo è il campo nel quale sono fiorite come funghi carriere e cattedre. E ciò proprio per mezzo di una rivivificazione teologica della Filosofia e di una rivivificazione filosofica della Teologia, che di fatto hanno rimesso in piedi delle discipline ormai morte sotto l’urto terribile di una scienza empirica che aveva occupato tutti i campi del sapere e anche tutti i luoghi accademici.
Peraltro proprio tutto questo sottolinea per Berdjaev che molto poco è stato detto finora dai teologi di tutti i tempi (specie nel contesto dell’antropologia della Patristica e dei Dottori della Chiesa) sulla vera natura della “cristologia”; la quale è realmente perfetta coincidenza di uomo e Dio nell’umano-divinità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Essa è stata semmai fortemente depotenziata per mezzo di una forte svalutazione dell’uomo nel suo contesto, che poi ha l’effetto paradossale di svalutare anche l’umano-divinità del Cristo. Con l’ulteriore conseguenza di sostenere una distanza infinita tra Dio e uomo.
Ecco dunque delinearsi nuovamente una remota via che già preannunciava il post-teismo. Vedremo infatti che quest’ultimo assegna all’uomo il ruolo di interprete unico della realtà divina proprio perché quest’ultima è in sé assolutamente ineffabile, e pertanto può essere solo ingenuo considerarla realmente presente nel mondo. E peraltro quanto Berdjaev qui deplora è avvenuto nuovamente per la svalutazione di quella natura personale di Dio che secondo lui va totalmente di pari passo con l’umano-divinità (divinità dell’uomo in quanto persona) e con la divino-umanità (umanità di Dio in quanto persona). Ed eccoci quindi di nuovo di fronte ad una del tutto inutile coartazione neo-teologica di quei misteri cristiani che non solo sono chiarissimi ma anche talmente profondi da permettere una riflessione interminabile su di essi senza alcun bisogno di modificare una sola virgola nel loro contenuto.
È vero che interferisce in questo quella dimensione del mistero che la logica dei teologi vede come il fumo negli occhi. Ma nemmeno questa è un ostacolo per chi decida, come Berdjaev, di guardare a queste cose rispettando in pieno la dimensione della Rivelazione, e proprio come filosofo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 127-133]. Egli afferma infatti che semplicemente “Dio attende dall’uomo la rivelazione antropologica della creatività avendogliene nascoste le vie…”. Ed è proprio su questa base che egli auspica ed anche profetizza una nuova “rivelazione antropologica” entro il Cristianesimo. Egli dice infatti che, una volta che noi abbiamo compreso questo senso specifico della Rivelazione, allora essa si presenterà a noi in forme storiche graduali che procedono inevitabilmente verso il futuro. Vi sono insomma epoche e gradi della Rivelazione cristiana: − dal più basso (Legge), che pone un limite al male insito nell’uomo nel metterlo a nudo; all’intermedio (Redenzione), che restaura la natura umana restituendole la sua libertà, in modo che avvenga una rinascita dell’uomo; fino all’ultimo (Creatività), che restaura davvero in pieno la natura umana.
Dunque per Berdjaev la creatività dell’uomo è qualcosa che riguarda integralmente l’uomo fatto a somiglianza, e quindi è la manifestazione più diretta dell’immagine del Creatore. Ma essa non è né nel Padre né nel Figlio bensì solo nello Spirito. Quindi non è legata al sacerdozio ma solo allo “spirito profetico”, che è poi libertà come quella dello Spirito che soffia dove vuole. Ne deriva che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano”.
E dunque l’uomo, essendo divino per definizione (e quindi in immediata relazione con Dio) ha addirittura in sé tutte le possibilità per rendere del tutto superflua quell’intera ricerca scientifico-religiosa che (almeno sulla carta) è stata messa su per porre rimedio alla distanza invalicabile che (in quanto esistente gettato nel mondo) gli renderebbe assolutamente impossibile toccare la realtà di Dio. Non a caso una delle più forti questioni insorte in questo ambito è stata ed è quella dell’incontestabile male del mondo al quale la teologia cristiana non sarebbe mai riuscita a trovare una soluzione davvero credibile. Ebbene la risposta a questa questione sta già qui in Berdjaev. Ed è la seguente: − l’uomo proprio in quanto ente divino è così prossimo a Dio, e precisamente al Dio-Persona (che non è in alcun modo un Dio Trascendente, ma è invece il Dio Vivo impregnante il mondo come Spirito) che esso ha per davvero la forza di combattere il male del mondo (specie attraverso la trasfigurazione dell’essere che è alla piena portata della propria natura) e quindi di fare come se non fosse mai esistito. Per questo è solo richiesto che l’uomo pronunci quel fatidico ”sì” grazie al quale il Dio Vivo (fino ad allora inattivo per scrupoloso rispetto della libertà umana) finalmente gli offrirà il Suo possente appoggio, manifestandogli così in modo davvero tangibile (sebbene comunque misterioso) la Sua presenza. Del resto proprio questo è il nucleo di una delle più profonde e provocatorie riflessioni sul male che Berdjaev deduce da Dostoevskij − «L’esistenza di Dio è certa proprio perché nel mondo esiste il male» [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, IV p. 67-81]. Il che significa che Dio ha da sempre tollerato il male nel mondo semplicemente perché aveva affidato già all’uomo (in quanto umano-divino e peraltro totalmente libero) il compito di eradicarlo. Pertanto, per risolvere una tale questione non vi era bisogno affatto di alcuna logica, ma invece bisognava solo guardare alla Rivelazione divina con il desiderio autentico di comprenderla.
Ma per questo, come dice Berdjaev, bisogna superare tutto quell’armamentario filosofico-gnoseologico (che egli vede culminare soprattutto nel neo-kantismo) grazie al quale, così come la conoscenza dell’essere è stata resa del tutto inaccessibile all’uomo (fino a considerarlo del tutto inesistente), così anche Dio è stato definitivamente dichiarato un Trascendente irraggiungibile ed anch’esso in forte odore di totale inesistenza [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 153-156]. E senz’altro va vista qui un’altra delle radici filosofiche dell’attuale ricerca scientifico-filosofica (così scettica, dubbiosa e puntigliosamente critica). La verità è invece un’altra ed è semplicissima – Dio è insieme trascendente ed immanente. E non caso per Berdjaev questa consapevolezza è stata del tutto alla portata della mistica e non della teologia.
Il che significa allora che, così come la filosofia ben intesa, anche la mistica rappresenta un potente antidoto all’ultra moderna ricerca scientifico-religiosa. Non a caso in nessun ambito come quello della mistica l’esperienza religiosa viene colta e vissuta nella sua autenticità e integralità, ossia come intima relazione personale con Dio. Eppure udremo Gamberini affermare il valore della mistica in senso diametralmente opposto a quello di un’esperienza religiosa intesa come intima relazione con Dio. Essa ha infatti per lui un valore proprio in quanto è radicale alternativa alla concezione antropomorfica di Dio, e quindi afferma un Dio non realmente presente ma solo ineffabile ed apofatico.
Quanto poi al decisivo concetto di creazione divina (cioè il più grande campo di battaglia entro la ricerca scientifico-religiosa), Berdjaev sottolinea che esso è stato sempre insufficiente proprio in quanto non è stato inteso come un’antropogonia ma invece come una cosmogonia, e quindi non ha mai previsto la creazione di un creatore [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-1775]. Questo significa che Dio invoca letteralmente la nascita divina nell’uomo prima ancora, forse, di pensare alla genesi dell’essere. Dunque tutta la problematicità della creazione di quest’ultimo svanisce di fatto a fronte di una prospettiva completamente diversa. E questa è stata poi la stessa rilettura eckhartiana della creazione come sostanziale nascita divina nell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Vedremo comunque nelle conclusioni come ciò introduca un elemento davvero dirimente entro la polemica post-teista contro l’antropomorfismo.
Ma tutte queste problematicità sono di non poco conto; visto che, come dice il pensatore russo esse sono strettamente connesse ad un razionalismo che è stato sempre connesso al concetto di creazione, lasciando così sospettare addirittura che gli eventi del Genesi compresi nella Rivelazione non siano poi così autentici come si può spontaneamente pensare. Naturalmente comunque il sospetto va rivolto non contro la Rivelazione davvero originaria, ossia quella esoterica, ma invece contro quella che era stata riletta dalla più antica metafisica razionalista (allo scopo di correggere le aporie delle remote teogonie), la quale evidentemente già era diventata unicamente essoterica. Queste problematiche sono infatti strettamente legate ad una creazione di tipo “creaturale” che a sua volta aveva sempre comportato (già entro la metafisica platonica e aristotelica) l’aporia di un essere «già stato», ossia preesistente, nel quale l’uomo fosse destinato a venire accolto. Ma, come si può vedere, entro la visione di Berdjaev la creazione dell’essere non sembra essere affatto necessariamente primaria. E questo genera una prospettiva entro la quale la Trascendenza divina perde molta della sua necessità, dato che di fatto sembra invece che Dio letteralmente accompagni personalmente l’uomo nel corso di tutti gli eventi creativi. Ecco allora che l’antropogonia finisce per manifestare l’Incarnazione già molto prima del Nuovo Testamento. E questo rende vane molte speculazioni critiche sulla creazione divina. Non solo quelle relative all’esistenza o meno di una Materia eterna antecedente o coeva alla creazione, ma anche quelle circa l’eventuale creazione del male da parte di Dio.
In ogni caso Berdjaev sottolinea che caratteristica tipica della creazione (a differenza dell’emanazione che è invece impersonale e involontaria) è l’attività volontaria che fa di essa qualcosa di tipicamente personale, specie nel senso della totale autonomia. E quest’ultima nega chiaramente un Dio Trascendente affermando invece un Dio personale che è necessariamente immanente, ossia presente nel mondo.
Qui però egli fa una precisamente decisamente anti-teistica, dato che per lui il Dio Trascendente ha le caratteristiche tipiche del classico Dio del teismo, cioè un Dio per definizione separato dal mondo. La sua soluzione a questo problema sta nel dinamismo creativo che è essenzialmente energia creativa incessantemente riversantesi nel mondo. Ma questo è per lui null’altro che la dottrina trinitaria (presa però così com’è senza alcuna correzione), ossia dinamismo della vita divina che è creazione nel mentre è amore tra le Persone divine. Ecco quindi che, almeno in via di principio, il concetto di Trinità non dovrebbe costituire alcuna problematicità logica. Anzi tutt’altro.
Tanto più che con ciò sta in relazione la creatività umana in quanto continuazione della creazione divina. Ma in tal modo si ripresenta nuovamente la sagoma davvero decisiva dell’umano-divinità, dato che quest’uomo condividente la creazione divina non può essere in alcun modo una creatura finita da Dio nel momento della sua messa al mondo. Esso invece è per definizione un ente creato come non finito, e, proprio come tale, è chiamato a completare il proprio essere attraverso la propria creatività. Esso allora è Signore dell’essere in quanto, a causa di tutto quanto finora illustrato, Dio stesso gli ha ceduto questo status per mezzo di una kenosis che è stata estremamente precoce. Ecco che si nuovo l’Incarnazione si presenta già nel bel mezzo del Genesi; dimostrando peraltro così che essa non è affatto “epistemicamente inappropriata” come sembra alla ricerca scientifico-religiosa. Anzi tale presenza dimostra proprio che gli eventi biblici vanno letti esotericamente e non essotericamente – e quindi in questo senso in modo non letterale.
Del resto Berdjaev afferma che in assenza della postulazione di tutto questo non vi è nemmeno un vero Cristianesimo. E questo nuovamente sgombera il campo da una grande serie di questioni sulle quali la ricerca scientifico-religiosa si appoggia nelle sue argomentazioni.
Ma in tutto ciò l’evidenza così forte della kenosis creativa (per di più in quanto unita intimamente all’Incarnazione) sottolinea l’importanza decisiva del Cristo in quanto Dio-Uomo ed anche Dio-Persona, ossia di quel Dio Vivo che non può in alcun modo venire posto in discussione da alcun anti-teismo o post-teismo. La Sua presenza comporta infatti la relazione con Dio, che a sua volta secondo Berdjaev è possibile solo da uomo a uomo, ossia solo se anche Dio è un uomo. in questo consiste l’esperienza religiosa nella sua pienezza. Essa, dice il pensatore russo, consiste nel fatto che “l’uomo inizia così una vita caratterizzata da un rapporto interiore, reciproco e profondo con Dio; inizia una sua partecipazione cosciente alla natura divina”. Ecco che per davvero, senza il Cristo, è impossibile relazionarsi con Dio, perché Egli altrimenti è lontano e spaventoso. E solo se fosse davvero così allora la discussione sul post-teismo avrebbe un senso. Ma non è così in quanto il Cristianesimo crede in Cristo e non nel Dio biblico.
Ecco allora che l’intera argomentazione scientifico-religioso si rivela del tutto superflua proprio perché essa esautora totalmente la pienezza dell’esperienza religiosa. È insomma una pur e vuota retorica che nemmeno sfiora la dimensione religiosa.
A tutto ciò si aggiungono ulteriori considerazioni di Berdjaev che illuminano una serie di aspetti di davvero fondamentale importanza e che certamente costituiscono altrettante problematicità nel contesto della ricerca scientifico-religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VI p. 190-196]. Si tratta del tema della libertà umana connessa con i fenomeni del Peccato e della Caduta. La tesi del pensatore russo è estremamente originale e proprio per questo estremamente illuminante. Egli sostiene infatti che la libertà di Adamo era negativa per definizione in quanto divisa tra obbedienza assoluta ed arbitrio assoluto. E proprio questo ha giustificato infine in pieno la Caduta. Infatti quest’ultima aveva un già predestinato significato positivo (quello destinato alla creatività) in quanto solo dopo di essa sarebbe potuta insorgere la libertà positiva e cioè quella autentica. Il che avvenne esattamente attraverso l’esperienza critica della conoscenza del bene e del male. La libertà positiva, però, divenne possibile solo in quanto essa andò di pari passo con la piena genesi dell’Uomo-Dio, e quindi il vero primo Uomo, ossia Uomo assoluto e Cristo. E questo fu dunque il vero progenitore dell’uomo in quanto umano-divino. Questo genere di libertà viene comunque definita da Berdjaev come “materiale” diversamente da quella antecedente che era invece meramente “formale” e quindi vuota. Ecco che allora la prima presuppone un punto di vista immanentista, mentre la seconda presuppone un punto di vista trascendentista.
In tal modo si ricostituisce quindi la dimensione teistica nella forma specifica di una libertà intesa in termini radicalmente negativi mentre invece essa non lo è affatto. E questo configura in Berdjaev di nuovo un certo argomento anti-teistico, ma nello stesso tempo lo svuota di significato mostrando nell’umano-divinità la dimensione della stessa creatività umana. In tale prospettiva non vi è infatti in alcun modo un Dio Trascendente lontano dall’uomo e dal mondo.

Ecco, questo è quanto possiamo desumere dalla trattazione della dimensione religiosa svolta da Berdjaev. E, come abbiamo potuto vedere, vi sono per davvero in essa dei significativi antidoti a tutto quello che vedremo esaminando l’attuale ricerca scientifico-religiosa. Quindi, grazie a Berdjaev, in qualche modo già disponiamo delle risposte alle questioni che ora vedremo poste dalla ricerca scientifici-religiosa. Tuttavia nelle conclusioni tireremo definitivamente le somme su questo confronto.

II- La ricerca scientifico-religiosa ed analitico-cognitiva: panenteismo, teismo, anti-teismo e ateismo.
Gli articoli che esamineremo qui sono estremamente eterogenei e comunque prenderemo in considerazione solo alcuni tra gli aspetti in essi trattati. Non nascondiamo comunque che essi contengono un genere di argomentazioni alle quali è davvero difficile attribuire un valore per chi condivide gli argomenti di Berdjaev, e quindi si sente autenticamente cristiano come lui stesso si sentiva. Tuttavia il loro esame è indispensabile per potere arrivare ad una conclusione cieca la questione che stiamo discutendo.
E la questione è, per la precisione se sia legittimo o meno spendere tanto tempo e versare tanti fiumi di inchiostro in una serie di argomentazioni che appaiono essere già superate in partenza nel loro valore e ruolo nonostante l’impressionante apparato logico messo in piedi per sostenerle.
Nel complesso di queste argomentazioni daremo comunque la preferenza alle tesi più prossime al post-teismo, dato che sarebbe impossibile trattare invece tutte le infinite questioni sfornate a ciclo continuo nella moderna letteratura scientifico-religiosa. E comunque tratteremo di tutte le posizioni implicate in questo contesto, incluse quelle francamente teiste. In generale comunque, anche di fronte alle tesi più ortodossamente teiste, si è portati a chiedersi a che serva tutto questo dibattito autoriale visto che tutto ciò che è contenuto in esso già esiste e viene perfettamente illustrato entro la Rivelazione ed in essa riceve anche estremamente convincenti risposte (sebbene solo contro-razionali e contemplative). E l’unica spiegazione è come al solito che la Modernità non sopporta l’anonimato intellettuale, e quindi desidera con tutte le sue forze porre dei protagonisti di pensiero laddove non ve ne sarebbe invece alcun bisogno.
Infatti constateremo con stupore il fenomeno davvero paradossale e ridicolo (oltre che inspiegabile) del proliferare di una vera sconfinata foresta di teorie con i relativi autori (ognuno con la sua personale “soluzione” ad annosi problemi religiosi) – inclusi perfino studiosi apertamente teisti – che sembra volersi sovrapporre (se non sostituire) bramosamente alle verità già presenti nella Rivelazione (ed in essa anche già perfettamente illustrate e risolte), ma che alla fine fa la misera figura di un’incrostazione parassitica che si accumula sul corpo della più pura e limpida verità. E mai come qui ricorre l’immagine platonica di Glauco marino [Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999, X, XI, 611d p. 685-687].

II-1. Panenteismo e panteismo.
Inizieremo però con il cosiddetto “panenteismo” [Benedikt Paul Göcke, Alles in Gott, Friedrich Pustet, Regensburg 2012; Patrick Hutchings, “Postlude: Panentheism”, Sophia, 49, 2010, 297-300; R.T. Mullins, “The Difficulty with Demarcating Panentheism”, Sophia, 55, 2016, 325-346; Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47], formula neo-teologica molto simile a quella del post-teismo e anzi spesso collegata a quest’ultima nelle argomentazioni e nei dibattiti. E faremo questo perché il concetto di panenteismo rappresenta il campo di un’ottima serie di esempi per comprendere le caratteristiche del dibattito scientifico-religioso.
Non a caso quello di panenteismo è un concetto che a prima vista seduce il metafisico di stampo tradizionale in quanto possibile soluzione alla condanna unilaterale e dogmatica del panteismo che sempre è stata pronunciata in ambito cristiano. Ma poi alla fine si rivela essere invece un’artificiosa argomentazione logica molto simile alle altre. Prima di entrare nel merito però bisogna dire che Göcke si riferisce ad un panenteismo già molto datato storico-filosoficamente, ossia quello di Karl Christian Friedrich Krause, che operò all’inizio del XIX secolo come filosofo post-kantiano. Ora anche in lui il panenteismo afferma di fatto il fatidico “tutto in Dio” (“Alles in Gott”), che a sua volta ha una quantità immensa di significati (risalendo addirittura fino al monismo plotiniano dell’Uno e al non-dualismo śankariano). Secondo una visione metafisica del tutto intuitiva (e quindi di per sé estremamente lineare, ossia semplice) esso implica comunque che Dio impregna tutte le cose presentandosi come essenza profonda e nucleare di esse, e pertanto rende il mondo integralmente divino. Si tratta in definitiva di quello Spiritualismo pneumatico (profondamente in comune tra metafisica occidentale ed orientale) del quale abbiamo parlato nel nostro già citato articolo (vedi “Edith Stein e lo Spiritualismo”). E bisogna dire che questo rende il panteismo una dottrina del tutto plausibile (ed affatto eretica) dal punto di vista metafisico-religioso; dato che (qualora esso sia bene inteso) non si tratta affatto né di immanentismo, né di politeismo né di una divinità impersonale identica alla Natura come quella di Spinoza. Si tratta invece semmai di quanto afferma anche Berdjaev, e cioè del fatto che Dio è trascendente ma anche immanente. E fin qui tutto bene. Dato anche che siamo del tutto fuori di sofisticate speculazioni logiche. Ma intanto si da il caso che Krause (commentato Göcke) non aveva affatto parlato di panenteismo in questo senso. Egli infatti (fedele alle idee dominanti dell’Idealismo tedesco in pieno corso) intendeva con ciò non l’omni-costituzione divina delle cose mondane, ma invece la loro omni-intelligibilità, ovvero la loro omni-esplicazione da parte di un Dio che era presente nel mondo non ontologicamente ma solo gnoseologicamente, ossia come il più sommo dei Principi di conoscenza.
Qualcosa di simile veniva affermato in quel periodo anche entro lo Spiritualismo di Maine de Biran [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, 17-19 p. 40-42, 61-67 p. 65-73, 83-90 p. 82-88].
Tuttavia neanche così ci troviamo entro il classico campo delle minuziose e contorte argomentazioni iper-logiche dell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Ci troviamo invece soltanto entro l’impiego sostanzialmente gnoseologico della metafisica che è stato sempre tipico della filosofia idealista o tendenzialmente idealista, e che non a caso ritroviamo anche in Cartesio e Leibniz. Si tratta insomma del famoso «razionalismo metafisico». Abbiamo già visto che esso è senz’altro una delle radici dell’attuale ricerca scientifico-religiosa, ma comunque non coincide affatto con essa.
Ma Göcke rincara la dose leggendo il pensiero di Krause nel contesto dei principi di una gnoseologia ancora più moderna, ossia quella che si sviluppò nel corso del XX secolo con la Fenomenologia di Husserl ed il neo-kantismo. Egli dice insomma che Dio è l’Assoluto capace di chiudere il regressum ad infinitum generato dalla postulazione di diversi livelli di Io trascendentale quale termine ultimo della conoscenza veridica, ed inoltre rappresenta anche il culmine del rapporto auto-conoscitivo che l’Io intrattiene con sé stesso sempre allo scopo di ritrovare in sé la verità. La differenza tra l’Io divino e i vari livelli più immanenti dell’Io stesso consiste intanto nel fatto che nel suo caso l’atto di relazione (auto-conoscitiva) dell’Io con sé stesso non comporta alcun conflitto tra totalità e singolarità dell’identità (che sempre si costituisce come termine dell’atto di relazione con sé stesso). E quindi in definitiva il “tutto in Dio” (“Alles in Gott”) ha un estremo significato gnoseologico, anzi più precisamente logico – esso significa che Dio null’altro è se non Dio (“außer Gott nichts ist”). Insomma Dio rappresenta la forma più incondizionata possibile dell’«è» predicativo, e quindi la massima espressione del principio logico di non-contraddizione applicato specificamente all’identità. Il che fa di Lui l’Io trascendentale per eccellenza, e quindi il vero principio ultimo della conoscenza.
In tal modo Egli è anche l’essenza dell’essenza (ossia la suprema categoria stessa di essenza). Ecco dunque definitivamente decifrato, secondo Göcke, l’insieme di proposizioni implicate dal panenteismo, e tutte sottolineanti il fatto che «Dio è in tutto» nel mentre intanto (senza alcuna contraddizione logica) «tutto è in Dio». Proposizioni che poi di fatto si riuniscono già di per sé nel «mondo in Dio» − «Dio-è-in-tutto», «tutto-è-in-Dio» e «tutto-è-Dio». Insomma Dio è tutto (e dunque allo stesso modo tutto è Dio) sostanzialmente perché Egli non ha bisogno di essere sottomesso ad alcuna forma immanente (ovvero non assoluta) di totalità (“tutto”) identitaria. E ciò a causa del fatto che è già di per sé “tutto”, e lo è così tanto da non ricadere in tal modo nemmeno in alcuna categoria di singolarità (che non sia assoluta, ma invece solo immanente). La conseguenza di ciò rientra per il pensatore nel pieno del classico tema dibattuto nell’Idealismo tedesco secondo l’aspirazione di rileggere gnoseologicamente la metafisica, ossia quel tema della relazione tra Ragione e Natura sul quale aveva riflettuto a fondo anche Schelling [Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ideen zur einer Philosophie der Natur, Holzinger, Berlin 2016]. Insomma per Göcke si tratta della fusione di quelli che per la Scienza sono due poli opposti tra loro (specie nei termini di quella Scienza della Natura della quale Schelling si occupò), ossia “Natura” e “Ragione” (“Vernunft”) – il primo polo (Natura) costituisce la “totalità” (“Ganzheit”) per eccellenza, mentre il secondo (Ragione) rappresenta invece la “seità” singolare (“Selbheit”) per eccellenza. Laddove questo secondo termine è in effetti l’Io conoscente in quanto soggetto e non oggetto. Ed è chiaro che qui sono rappresentati i due termini fondamentali della conoscenza. A Göcke non sfugge che in tal modo ricorrono anche i termini del non-dualismo śankariano, ma egli intanto non intende in alcun modo soffermarsi su questo significato intensamente metafisico-religioso del panenteismo. Per cui alla fine la sua intera argomentazione finisce per sostenere che il nucleo del panenteismo − cioè il concetto di «mondo in Dio» − ha l’unico significato di porre in Dio tutto quanto può essere conoscibile e conosciuto. E ciò secondo gli auspici più fervidi della Scienza. In altre parole nella realtà di Dio si realizza la forma più felice e piena di conciliazione conoscitiva tra Natura (oggetto) e Ragione (soggetto). E questo è tutto!
Ora va notato che Göcke è sostanzialmente un teologo e docente di storia delle religioni. E quindi ciò che egli argomenta sulla base di Krause sottolinea il significato sostanzialmente scientifico del panenteismo, ma intanto egli non sembra avere alcuna intenzione di dissociarlo dalla consistenza e veridicità dell’idea di Dio. Per cui la sua lettura del panenteismo resta entro i tradizionali limiti di quella visione idealistica che volle essere teologia nel mentre perseguiva l’obiettivo di riflettere sulle caratteristiche della scienza, affermandone anche fortemente il valore.
Con ciò non siamo quindi ancora affatto nel contesto della ricerca scientifico-religiosa. Anzi ci troviamo anche ancora nel pieno della Filosofia. Ma vediamo ora cosa accade provando a discutere le letture del panenteismo da parte di Hutchings e Mullins.
Hutching sembra a prima vista argomentare anche lui sostanzialmente come un filosofo, ma poi inserisce nel suo discorso anche elementi di tipo scientifico-religioso (simili a quello già commentato dello Spirito divino come energia cosmica) ed inoltre giunge alla fine a conclusioni critiche che sono decisamente anti-filosofiche. In ogni caso egli sembra avere due sostanziali intenzioni: − 1) quella di sottolineare le incongruenze logiche del panenteismo; 2) quella di correggerlo in senso ancora più riduzionistico di quanto accada entro la lettura di Göcke. E la sua critica si appunta in particolare su quella dimensione dell’”in” che domina l’intera argomentazione panenteistica – ossia quella relativa sia alla presenza di Dio nel mondo sia alla presenza del mondo in Dio.
Su questa base va notato che egli innanzitutto critica molto severamente il concetto di ubiquità affermato nel panenteismo (“God is Everywhere”) sottolineando che in esso il concetto del ”dove” (“where”) non viene affatto chiarito. Ed è evidente che in questo modo egli trascura totalmente una località concepita in termini integralmente metafisico-religiosi, e quindi al di fuori di qualunque spazialità mondano-sensibile. Oltre a ciò egli contesta che il panenteismo non fa affatto (come invece dovrebbe) una constatazione aggiuntiva rispetto a quella dell’ubiquitarietà di Dio, e precisamente nel senso del “ma” (“all is God, but we are all in God”). Esso insomma pretende di presentare come assimilazione (tra proposizioni) quella che invece, sul piano logico, resta appena una sostituzione – nel senso che o «tutto è in Dio», oppure invece «Dio è in tutto», e senza alcuna possibilità di risolvere tale contraddizione logica. Oltre a ciò il panenteismo pretende addirittura di rende le due proposizioni consequenziali (“’we are in God’ whatever this ‘in’ may mean”). In altre parole egli contesta radicalmente il concetto di «contenimento» intra-divino del mondo che il panenteismo vorrebbe rendere simultaneo al concetto di impregnazione divina del mondo stesso.
E quindi accusa in panentesimo di affermare e negare allo stesso tempo. Insomma lo demolisce logicamente nella forma in cui di fatto si presenta. E così – com’è tipico entro tali argomentazioni su concetti metafisici – inizia a pensare di doverlo correggere.
Per cui egli propone di eliminare il primo significato per lasciare in piedi solo il secondo. Ed in questo caso l’”in” andrebbe secondo lui inteso unicamente come la vitalità animica di tutte le cose in forza della presenza divina nel mondo. Ed ecco l’emergere del concetto di Spirito divino come energia cosmica vivificante affermata da Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571]. Ma soprattutto egli contesta al panenteismo degli errori logici che secondo lui sono tipicamente alla volontà di cercare nella Filosofia la soluzione a problemi che riguardano invece in definitiva la sola Natura (anche quando vengono intesi in senso religioso). Ed è evidente che dietro questa accusa alla Filosofia vi è l’accusa ai resti di metafisica che ancora nel XX secolo si facevano sentire in essa. Egli ne conclude quindi che, dato ormai il sussistere di una cosmologia scientifica assolutamente vincolante, bisognerebbe smettere una buona volta di cercare soluzioni alle questioni ontologiche ricorrendo a libri come il Genesi ed il Timeo.
E con ciò egli assume quindi alla fine la classica posizione scientifico-religiosa.
Ma vediamo cosa dice al proposito invece Mullins. Egli sostiene più o meno la stessa tesi critica di Hutching (vaghezza ed illogicità dottrinaria, infondatezza della sua differenziazione tra teismo e panteismo, assente giustificazione dell’aspirazione a mediare tra teismo e panteismo ecc.), ma comunque rincara la dose perché accusa direttamente la stessa teologia. Egli dice infatti che il panenteismo ricade in quelle artificiose soluzioni che oggi i teologi ricercano per offrire all’uomo moderno un’immagine di Dio ancora “più teologicamente adeguata”. E nel caso specifico sarebbe quella di una divinità intesa come “relazionale e dinamica”. Ed eccoci quindi all’interpretazione della Trinità secondo la moderna “ontologia relazionale” che ci viene proposta da Paolini Paoletti, così come anche alle linee guida del post-teismo che poi vedremo esposto da Gamberini. Possiamo insomma qui constatare quanto vero sia che il post-teismo si è presentato come uno sforzo di rispondere a tutte queste obiezioni senza però mai abbandonare il terreno dell’approccio scientifico.
Insomma, sebbene questa non sia affatto la sua intenzione, quella di Mullins è un critica molto pesante a quella ricerca scientifico-religiosa che vede come protagonisti proprio i moderni teologi (specie post-teisti), angosciati come sono dall’imbarazzo che essi provano verso l’immagine di Dio proposta nella Rivelazione in quanto in lampante conflitto con la moderna scienza (e specialmente l’ormai così sofisticata se non para-teologica fisica cosmologica). In ogni caso egli prende atto del fatto che vi è anche un panenteismo decisamente anti-teistico, e che quindi esso si pone decisamente fuori della moderna teologia scientifica.
In ogni caso Mullins legge il panteismo come la postulazione di una sostanza unica divino-mondana (e che quindi chiaramente parla di un Dio impersonale); e quindi lo ritiene una visione decisamente non teistica.
In ogni caso lo studioso si fa comunque sostenitore di una sorta di teismo post-teistico, dato che secondo lui gli oggettivi ed eterni attributi di Dio (concepiti entro la tradizione teologico-metafisica) devono ormai venire posti decisamente in discussione. In ogni caso egli attribuisce al panenteismo il valore e ruolo di ponte tra panteismo (secondo lui indubitabilmente anti-teistico) e il teismo. E questo potrebbe avere anche molto senso perché in fondo il panteismo nella sua versione panenteista rappresenta l’immanenza di Dio, mentre il teismo rappresenta la sua trascendenza. E sappiamo ormai bene che queste due dimensioni divine sono in verità simultanee. Ciò è però sostenibile unicamente sul piano autenticamente metafisico-religioso, e quindi contro-razionale e contemplativo. Non certo invece su un piano rigorosamente logico. Ma è esattamente quest’ultimo quello che interessa a Mullins (così come ad Hutchins). Per cui alla fine egli condanna senza appello il panenteismo affermando che la più lampante contraddizione di questa visione consiste nel fatto che essa pretende di porre sullo stesso piano (assimilandole e rendendole perfino conseguenti logicamente), due affermazioni che costituiscono invece degli inconciliabili opposti logici: –
Dio non è identico al mondo, e quindi è “più” del mondo / Dio non è distinto dal mondo, e quindi è esteso quanto il mondo. A ciò si aggiunge poi che ci si aspetta che il mondo sia “in” Dio anche se Dio è “più” (maggiore) del mondo. Ecco insomma che di nuovo l’”in” diviene l’autentico perno intorno al quale effettivamente gira l’intera visione panenteista. Proprio su questa base egli critica sistematicamente le idee di diversi pensatori panenteisti moderni (Oord, Clayton, Winters, Barua, Lataster, Peacocke ecc.).

A questo punto vale però la pena di prendere in considerazione anche il discorso condotto sul panenteismo da parte di un autore indù e cioè Purushottama Bilimoria. Questo articolo è di estrema importanza perché esso riporta la visione panenteista alle sue fortissime implicazioni metafisico-religiose, e cioè il non-dualismo śankariano ed il connesso idealismo di stampo vedantico-upanishadico. Ma più in particolare egli intende discutere il tentativo di Radhakrishnan di ricondurre le Upanishad all’idealismo occidentale.
Radhakrishnan sostenne infatti che l’Uno (non finito / non infinito) ha tutte le caratteristiche per partecipare del mondo (come le ha lo stesso Io assoluto hegeliano). E questo per lui sarebbe platonico (nel senso specifico dell’Uno-Molti) in quanto affermazione però del valore e non disvalore del cosmo. Sarebbe insomma l’affermazione che il mondo è pieno di senso. Ma ancora più in particolare egli finisce per sostenere che all’Assoluto divino spettano entrambi gli attributi dell’“essere” (“being”) e del “divenire” (“becoming”), e quindi quelli dell’”immanenza” e della “trascendenza”. Pertanto (in forza di questo legame all’essere) egli ritiene di avere evidenziato la “non impersonalità” dell’Assoluto divino delle Scritture indù. Cosa che poi implica per lui il “panenteismo”.
Il che ci conferma quindi che questa visione è tutt’altro che l’affermazione dell’impersonalità del Dio trascendente; cosa che non era però affatto emersa nella riflessione occidentale su di essa. Bilimoria precisa quindi che proprio su questa base si sviluppò il progetto di Radhakrishnan di “salvare le apparenze” compromesse da una lettura non filosofica dei testi sacri. E così egli finisce per avvalorare l’ipotesi che i “veggenti” (”seers”) delle Upanishad (ossia coloro che più hanno incarnato l’intuizione visionaria che permette di penetrare intellettualmente al metafisico le verità della Rivelazione) abbiano concepito un mondo e soprattutto un mondo “pieno di senso” (“meaningful”). In altre parole il Vedanta upanishadico non avrebbe affatto svalutato il mondo.
Su questa base Radhakrishnan sostiene infine che il Brahman è un Assoluto per varie vie compromesso con l’essere – come suprema origine di ogni cosa, come Bene-Verità della cose (al modo di Platone), come effettivo motore immobile del cosmo (per quanto trascendente). E tutto ciò si basa secondo lui sui supposti paralleli tra le Scritture indiane e Platone, così con l’intera cultura greca specie ateniese.

Ecco. Appare evidente che solo in questo modo noi ci approssimiamo al pieno significato e valore che può avere il panenteismo. Ciò può accadere insomma solo quando il relativo concetto non viene sottoposto alla devastante dissezione analitico-logica che la moderna ricerca scientifico-religiosa occidentale gli ha inflitto. E questo è esattamente ciò che non accade in Bilimoria, il quale non a caso si limita ad argomentare in maniera unicamente filosofico-metafisica e metafisico-religiosa, e senza fare uso di alcuna rigorosa logica né di alcun approccio sicentifico. Ecco che a questo punto il panenteismo può davvero soddisfare il pensatore tradizionalmente metafisico-religioso, dato che esso si lascia intendere come una moderna rilettura dello Spiritualismo pneumatico. Ma naturalmente, messe così le cose, il panenteismo cessa definitivamente di essere assimilabile al post-teismo.

II-2. Teismo, anti-teismo e ateismo.
Uno degli studiosi che oggi più si è impegnato a sostenere il post-teismo è senz’altro l’italiano Paolo Gamberini. Tuttavia, prima di giungere a discutere il suo articolo, prenderemo prima in considerazione altri temi ed autori, anche se essi a volte non si producono in affermazioni ed argomentazioni direttamente post-teiste (e cioè semplicemente anti-teiste) ma invece in affermazioni ed argomentazioni avverse al concetto tradizionale di Dio e per varie vie, come quella della negazione di un Dio-Persona [Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338]. Insomma vogliamo in tal modo premettere al post-teismo la trattazione di teismo, anti-teismo ed ateismo così come si presentano nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. E quindi in questo modo potremo vedere qual è il percorso di pensiero che ha portato al post-teismo come necessità di risposta ai così abbondanti argomenti anti-teisti che nel tempo sono stati apportati nella scienza della Religione.
Chastain menziona una buona fetta di letteratura anti-teista a proposito del tradizionale concetto della vita come dono divino. Concetto che recentemente è stato riaffermato da teista Solomon (The psychology of gratitude) nel sottolineare la necessità della gratitudine umana verso un Dio personale. L’esatto contrario accade invece nella fede areligiosa che viene qui sostenuta, entro la quale la gratitudine per la vita sussiste egualmente ma senza alcun riferimento ad un benefattore personale. Ma la critica al concetto integralmente religioso di gratitudine per il dono della vita è anche un’altra, e cioè è l’accusa di insostenibile astrattezza rivolta ad essa. Specie sulla base dello scritto “Philosophy of flesh” (Lakoff e Johnson, 1999), viene infatti sostenuto che non si può parlare in astratto di ciò che invece è intensamente concreto. Ed estremamente concreti sono sia il dono che la stessa gratitudine.
Quindi non si può attribuire a Dio un concetto letterale di dono, senza con ciò cadere in un grave errore logico, e quindi in una falsità. In particolare si impiega qui una metafora corporea a proposito di un atto divino. Ma non vi è solo questo, perché anche lo stesso concetto di «dono della vita» è del tutto improprio, dato che il dono è per definizione utile, e quindi deve produrre qualcosa di tangibile, ossia la felicità. Non può quindi essere un dono quello che pone l’uomo in una posizione esistenziale entro la quale nella maggioranza dei casi vi è l’esatto contrario della felicità.
Ecco insomma un anti-teismo che si presenta nella forma di denuncia della retorica mistificatoria impiegata tradizionalmente nel conferire a Dio attributi rientranti nell’idea umana della bontà. Da questa critica non può scaturire pertanto altro che a Dio questo carattere va negato nel contesto della necessaria negazione ad esso della stessa realtà personale. Dato che quest’ultima sarebbe in realtà solo umana e mondana, ossia integralmente materiale e carnale. Ne risulta quindi che l’anti-teismo qui in causa si oppone frontalmente ai contenuti della Rivelazione, ossia li nega letteralmente. E questo delinea una particolare area di ricerca della attuale scienza della Religione dato che Chastain è un’esponente di quel pensiero che definisce sé stesso come “spiritualità” non religiosa, quindi di fatto una sorta di religiosità atea. Eccoci insomma nel campo di un anti-teismo che è anche espressamente ateo. Non a caso lo studioso colloca le sue riflessioni nel concetto di “postsecular age” coniato da Habermas. Siamo insomma così nel pieno della paradossale religiosità atea post-moderna.
Una tesi relativa allo stesso tema è poi quella di Dealey, il quale si interroga sulla gratitudine verso Dio rispetto alla questione del migliore dei mondi possibili e quindi anche della Grazia. In quanto teista, la presa di posizione di Dealey è però diametralmente opposta a quella di Chastain in quanto essa ci mostra come l’impiego di corrette argomentazioni teologiche spazzi via come del tutto superfluo l’intero campo delle argomentazioni logico-teologiche; tra le quali le davvero assurde riflessioni moderne (in gran parte peraltro nemmeno religiose) sui molteplici mondi possibili. Peraltro egli si schiera anche decisamente da parte della presa di posizione dell’uomo comune, ossia il semplice credente e uomo di fede. Dealey parte dalla principale obiezione anti-teistica dei filosofi analitici sulla base dell’argomento dei “mondi possibili” − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. Insomma – sempre sulla base di un’inflessibile logica rigorosa – essi pongono in questione il fatto che ci sarebbe una mancanza di “consistenza” tra la gratitudine e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Soprattutto a causa del fatto che questo atto divino era assolutamente necessario.
Ma egli ritiene che entro la Rivelazione vi siano sufficienti argomenti per rintuzzare questa obiezione specie sulla base di una Grazia che appartiene totalmente ed incondizionatamente all’azione divina in quanto puro “atto grazioso”. In particolare egli difende qui un “teismo dell’essere perfetto” sostanzialmente sulla base del primario argomento del rispetto divino della libertà umana (che abbiamo visto sostenuto anche da Berdjaev). Più precisamente si tratta del fatto che vi è una perfetta compatibilità tra la necessità dell’azione divina e la dimensione della libertà. E questo (secondo l’attuale piuttosto ridicola moda filosofica di generare “neo-ismi” a ciclo continuo) costituirebbe il cosiddetto “compatibilismo”. Questa teoria consiste semplicemente nel fatto che è perfettamente è compatibile compiere un atto necessario senza contraddire la libertà.
Una volta poste queste premesse più astrattamente teoriche, le argomentazioni successive di Dealey sono così condivisibili nella loro ovvietà (almeno per il credente anche solo poco edotto nel contenuto delle Scritture ed inoltre nella consuetudine diretta con Dio) che la loro discussione potrebbe anche venire omessa. Eppure siamo costretti a discuterle a causa di quel velenoso spirito critico (che vive e vegeta nell’approccio filosofico-analitico alla religione) che tende ad insinuare dubbi anche laddove essi non sono assolutamente giustificati.
In ogni caso l’autore chiarisce che l’invocazione del compatibilismo serve soprattutto ad evitare quell’”accusa” che sostiene l’impossibilità di conciliare la perfetta “bontà” (“goodness”) divina – a sua volta determinante necessariamente Dio a creare − con la sua libertà. Ed egli si rifà particolarmente in questo alle riflessioni di Wierenga [Wierenga E, “The freedom of God”, Faith and Philosophy, 19, 2002, 425-436; Wierenga E., “Perfect goodness and divine freedom”, Philosophical Books, 48, 2007, 207-216].
Insomma la cosa è estremamente semplice – dei buoni desideri (non inquinati dalla brama e dall’irresistibile spinta istintiva, come accade nel consumo di droghe o nella dipendenza patologica dal potere) non possono che generare un’azione buona, cioè invariabilmente rivolta al Bene. Ed a questo punto il fatto che essa sia necessaria (come avviene nell’azione creativa di Dio) non cambia assolutamente nulla nella bontà dell’atto. In altre parole, una volta sottomessa all’etica, la necessità dell’azione divina è per definizione compatibile con la libertà. Si tratta insomma in definitiva di dover compiere necessariamente delle azioni libere rivolte al bene. E ci sembra che ciò trovi del resto una perfetta rispondenza nella teologia di Dostoevskij commentata da Berdjaev – la libertà è un valore supremo ed inviolabile, eppure essa è all’altezza di questo suo valore assoluto solo se è rivolta al bene; altrimenti si trasforma addirittura nel suo opposto (la schiavitù) per mezzo dell’arbitrio che prende fatalmente il suo posto nell’azione rivolta al male
[Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57, III p. 62-66, IV p. 75-81].
In altre parole la logica dei filosofi analitici (nonostante tutta la sua supponenza) – secondo la quale Dio non può cercare altro che il migliore dei mondi possibili, e quindi non è affatto libero bè buono nel suo agire − non ha il benché minimo potere su questa complessiva questione. E peraltro non ha alcun potere su di essa in base a considerazioni che qualunque uomo della strada (ammesso solo che sia credente) potrebbe fare. Eppure lo stesso Dealey cita importanti studiosi che hanno puntato tutto su questa teoria critica ed anti-teista − Adams (ne suo commento dei Salmi), Laura Garcia, William Rowe.
Ma comunque (per restare comunque sul piano filosofico) lo studioso sostiene che l’inconsistenza non sussiste affatto se si punta l’attenzione sull’atto divino stesso, e cioè sulla sua natura di atto invariabilmente “grazioso”. Il che è poi la stessa identica cosa che sostenere che un desiderio buono può produrre solo un’azione rivolta al Bene. Per il resto (ed anche questo è assolutamente ovvio per l’uomo comune credente) la Grazia divina non ha alcuna relazione con il “merito” del recipiente dell’azione graziosa divina. Altrimenti non sarebbe ciò che è. La Grazia dipende solo quindi dalla qualità (amorosa) della disposizione divina all’azione e da assolutamente niente altro. E qui Dealey chiama in causa le riflessioni di Feinberg [Feinberg J., No one like Him: the doctrine of God, Cossway Books, Wheaton 2001].
Quindi l’invocazione dell’umana gratitudine finisce per essere quindi un mero pretesto (e non poco volgare) che la logica filosofica-analitica (screditando così non poco sé stessa) ha escogitato con il del tutto scoperto intento di infamare Dio. E questo getta sull’intera ricerca scientifico-filosofica un’ombra davvero infamante.
Per questo Dealey chiama in causa le Scritture stesse – Genesi, 6:8 8 (Noè che ha trovato grazia…), Salmo 145:8, Esodo 34:6, Pietro, 5:10 (la Grazia ci associa alla Gloria di Cristo).
Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo, dato che il nucleo della questione è semplicemente la totale gratuità dell’amore divino, il quale per definizione non può in alcun modo essere utilitaristico e quindi non può aspettarsi alcun effetto. Meno che mai la gratitudine umana.
Una volta chiarito questo non c’è bisogno di dire di più delle argomentazioni di Dealey che si approfondiscono poi in ulteriori aspetti della faccenda ed anche su ulteriori prese di posizione di studiosi.
Qualcosa di ancora più estremo in senso critico si ritrova poi in Trakakis, il quale inizia contestando alla Religione il diritto di controllare totalmente la fede. E qui peraltro egli avvalora la dissociazione totale della Filosofia dalla Religione che è stata sostenuta da pensatori come Heidegger e Bertrand Russell. Insomma siamo in un campo di riflessione diametralmente opposto a quello delineato da Berdjaev.
Il tema qui, comunque, è ancora più scottante perché è quello del male. In tale contesto lo studioso non intende nemmeno prendere posizione nella sconfinata querelle che secondo lui si è scatenata nel tempo tra teisti ed anti-teisti. E così prende atto del proclama di Plantinga (1980) nel quale si chiedeva ai pensatori cristiani di argomentare unicamente in circoli cristiani evitando qualunque confronto con pensatori agnostici e atei. In altre parole per lui la filosofia religiosa (che sia credente o atea) è comunque inaccettabilmente ideologica, e quindi da essa non vi è da aspettarsi assolutamente nulla. Ed ovviamente, se questo è il giudizio sul pensiero cristiano, figuriamoci quale può essere quello sulla Rivelazione.
Un panorama un po’ più ampio ci viene offerto da Breul. Egli però appare rappresentare perfettamente l’attuale ricerca scientifico-religiosa propria dei teologi che si sforzano di affermare l’idea di Dio senza ricorrere al teismo. Ci troviamo così di fronte ad una posizione intermedia tra teismo ed anti-teismo (o ateismo), e cioè di fronte ad una sorta di non-teismo dell’idea di Dio. Una posizione questa assolutamente emblematica, dato che essa esprimere l’inspiegabile imbarazzo oggi provato dai teologi specie davanti ad un Dio personale. Ed ovviamente, a questo punto, la visione di Berdjaev si presenta al proposito come un’alternativa davvero tangibile. Questo non-teismo appare comunque essere già molto prossimo al post-teismo.
Breul presenta comunque un vasto scenario di autori in cui possiamo farci un’idea molto precisa delle diverse tendenze attualmente all’opera, ed anche, comunque, della vera e propria astrusità paradossale di alcune prese di posizione. C’è Schnädelbach che sostiene apertamente l’assenza di Dio senza che ciò abolisca per lui la necessità di una Religione – postulando così una religiosità del tutto naturale dell’uomo la quale non richiederebbe né il supporto di alcuna Istituzione né tanto meno una Persona divina nella quale credere. Inoltre proprio in tale contesto egli sostiene la necessità che la fede (“faith”) sia essenzialmente “fiducia” (“fides”), e non invece “credenza” (“belief”); e quindi sia spogliata di qualunque natura cognitiva. Ma intanto la fiducia presuppone molto esplicitamente il dubbio, per cui la fede convive naturalmente con quest’ultimo. La sua posizione definisce comunque sé stessa come “ateismo pio” e quindi assomiglia molto alla spiritualità non religiosa di Chastain. Davvero però non è possibile capire in cosa consista una religione che sussiste in assenza di Dio. In ogni caso (come abbiamo detto) nel caso di Schnädelbach ci sembra che così siamo già piuttosto prossimi al post-teismo.
C’è poi Dworkin, il quale addirittura sostiene l’inconciliabilità della Religione con Dio, ossia con l’idea di Dio; ma precisamente con l’idea più esplicitamente teistica di Dio, ossia quella di un Dio personale che poi impregna di sé perfino il mondo senza perdere la propria identità e trascendenza. Così egli (alla Spinoza) sostiene di fatto un mondo divino assolutamente impersonale, nel senso di buono, bello e pieno di senso anche in assenza di un Dio personale. È evidente qui l’opposizione nettissima alla Rivelazione nel pensare un mondo divino.
La posizione di Nagel (Thomas Nagel, “Geist und Kosmos”) è chiaramente teistica sebbene egli sostenga di fatto il classico “intelligent design” della tradizione tomista-aristotelica in assenza però di qualunque azione volontario-personale, e quindi come universo pieno di senso in quanto chiaramente diretto da un Piano verso un preciso scopo (che si manifesta pienamente nell’intelligenza della Natura). In questo egli si oppone peraltro molto nettamente al concetto scientifico di caso. A ciò anch’egli aggiunge che la fede comporta il dubbio perché essa non è affatto fede nella verità bensì in una persona. Non si vede però dove sia la persona nella sua complessiva visione di un mondo impregnato dal divino in maniera del tutto impersonale. Una traccia di comprensione di questa curiosa assenza si può però ritrovare laddove egli critica apertamente il teismo in quanto tentativo di presentarsi come spiegazione scientifica del mondo. Infatti la Religione teistica include per lui ineluttabilmente la metafisica dell’essere, e quest’ultima non è affatto una spiegazione del mondo. Infatti l’ordine mondano può essere presupposto anche in totale assenza dell’esistenza di Dio. E la scienza basta quindi pienamente per darne ragione. Ecco allora che per lui la questione di Dio è puramente e pienamente etica, così come anche il Piano intelligente e la fede in esso.
A questo punto possiamo quindi solo pensare che per Nagel la fede in una Persona divina si limiti ad un campo estremamente ristretto ed anche riduttivo della dimensione religiosa, e cioè quello appunto etico (che può ben costituire una sorta di ipo-religione). Ora, è ovvio che la fede nella Persona divina non può comportare anche una letterale cosmologia di stampo religioso (come quella dell’antica onto-metafisica), ma comunque deve poter andare oltre il piano dell’etica comportando almeno la presenza di un essere, e cioè la dimensione ontologica (ossia ciò che soggiace a qualunque cosmologia). E questo è esattamente ciò che avviene in Berdjaev, secondo il quale la Persona divina equivale esattamente all’essere nella sua più radicale concezione. Ma di questo non vi è alcuna traccia in Nagel, e quindi di nuovo ci troviamo di fronte ad un riduzionismo. Nella sua visione infatti sembrano venire addirittura affermate le ragioni di un certo teismo (sebbene fortemente razionalizzato), ma intanto anch’esso appare comunque fortemente dissociato ad un’ontologia autentica e forte della Persona divina. E quindi di fatto esso si pone come una specie di post-teismo, sebbene senz’altro non corrisponda ad una posizione non-teistica.
Krummel discute poi una neo-metafisica nichilistico-buddhistica oggi molto in voga, e cioè quella di Nishida, la quale ha peraltro addirittura l’intenzione di appaiare la teologia buddhistica con quella cristiana per mezzo del concetto di kenosis divina. E qui ci troviamo di fronte ad una presa di posizione tra le più astruse nella sua straordinaria tensione alla complessizzazione estrema di concetti teo-metafisici ed anche semplicemente onto-metafisici. E vedremo infatti che i suoi risultati vanno ben oltre tutti i termini che finora abbiamo preso in considerazione – teismo, anti-teismo (o ateismo), non-teismo, post-teismo.
In via di principio egli dichiara di credere in un Dio totalmente “nascosto” in quanto allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma comunque del tutto invisibile quando è immanente. In quest’ultima posizione esso corrisponde al mondo divino e precisamente a quello che lo shintoismo ritiene abitato dalle “deità” per eccellenza, ossia quegli spiriti divini che vengono definiti “kami”. E qui ci troviamo comunque di fronte ad un deciso post-teismo in quanto affermazione della deità in luogo della Persona divina. E Nishida infatti afferma che il teismo non è altro che una distorsione linguistica dell’idea di Dio in quanto illegittimamente del tutto dominata dalla dimensione abusiva dell’”is”, ossia dell’”è”. E qui egli chiama in causa direttamente Eckhart come protagonista di questa critica al teismo. Ma egli va anche oltre questo nel postulare come sostanza fondamentale un Nulla entro il quale l’essere si limita ad apparire e scomparire continuamente, in modo tale che il non-essere stesso vi ha pieno diritto di domicilio. E questo Nulla equivale quindi per lui anche a Dio stesso. Con ciò però viene comunque postulata una presenza. Motivo per cui anche in caso di negazione di Dio (anti-teismo) la sua presenza non può venire davvero negata. Ecco allora che Nishida ritiene non validi sia il teismo che l’anti-teismo. Per tale motivo, come dice Krummel, nel suo caso si delinea una “teologia atea” o meglio una “A/teologia” (secondo la definizione di Taylor) e quindi di fatto una teologia senza Dio. Qui insomma siamo messi molto peggio che con Schnädelbach e Dworkin, dato che la teologia stessa nega l’esistenza di Dio senza nemmeno dove essere anti-teistica o ateistica o infine anche post-teistica. In questo genere di teologia insomma Dio viene identificato con il Nulla stesso.
E quindi è evidente che esso è più che mai un’entità purissimamente metafisica, della quale non si può nemmeno pensare che mai possa divenire oggetto di fede da parte dell’uomo. Questo Dio insomma non è altro che l’essere nella sua più radicale formulazione. Ma non in quanto infinitamente creatore come quello di Berdjaev, bensì invece come il Nulla stesso. E qui davvero quindi ci troviamo in un campo in cui all’uomo non viene lasciata altra scelta che la totale disperazione. A molto poco serve quindi che Nishida si sforzi di postulare in questo contesto quella kenosis divina che poi in Bedjaev abbiamo visto molto prossima al Dio-Persona. Anche questa kenosis sarà infatti nichilistica e molto puramente metafisica. E quindi non potrà servire ad alcuna vera fede. Per cui non perderemo nemmeno tempo a descriverne i dettagli estremamente complessi.
A questo ateismo teologico di Nishida merita di venire appaiato anche quello di Ueda Shizuteru e precisamente la visione della Scuola di Kyoto (ateismo teologico definito qui come “mistica del nulla”) − che si incentra anch’esso nella ricerca di assonanze tra il Buddhismo e il presunto tendenziale post-teismo di Eckhart basato sul concetto di “deità” (“Gottheit”) −, che viene discusso da Vianello. Ma preferiamo rinunciare a questa discussione per non prolungare troppo la nostra esposizione. Anche perché l’articolo in questione sconfina in un campo in fondo lontano dalla disputa tra teismo ed anti-teismo.
Larmer (che è sostanzialmente un teista) addirittura riconosce l’anti-teismo nel pieno della dottrina neo-tomista più scettica che oggi esista. Ed egli fa nomi e cognomi: − Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz. Il che è estremamente interessante perché ci mostra in questi studiosi i prototipi stessi dei moderni teologi che, nell’essere anti-teisti, si affidano totalmente non solo alla logica ma anche alla scienza empirica in tutta la sua attuale vigenza. Ed è significativo che essi vengano definiti come “scettici”. Questi neo-tomisti rigettano infatti il teismo in quanto negano in Tommaso una dottrina dell’”intelligent design” (ID) intrinseco alla Natura, dato che al loro avviso l’Aquinate presupponeva la totale dipendenze dall’esistenza primaria di Dio del potere in possesso degli esistenti.
Il che contraddice in modo lampante la dottrina dell’evoluzione, e quindi la spiegazione scientifica della creazione di essere. In luogo di quest’ultima infatti Tommaso avrebbe lasciato vigere unicamente la spiegazione “metafisica” della creazione e dell’essere. A ciò si aggiunge inoltre il solito impiego implacabile della logica da parte di questi così singolari anti-teisti, e cioè il rimprovero a Tommaso di avvalorare il “Dio dei vuoti” (“God of gaps”), ossia il Dio che avalla i vuoti nella spiegazione delle cose. Ma oltre ciò i neo-tomisti scettici sollevano forti obiezioni alla postulazione dello stesso intervento diretto di Dio nel mondo da parte di Tommaso. Con la conseguenza, secondo loro molto grave, della confusione tra Dio come Causa primaria e Dio come causa secondaria. Essi ammettono infatti Dio come Causa primaria, ma unicamente sul piano teologico. E quindi ritengono un errore epistemologico considerarlo tale anche fuori dell’ambito teologico. Perché così di fatto si passa dalla teologia alla cosmologia naturalista. E su questo non c’è molto fa obiettare. Ma intanto l’obiezione di Larmer va menzionata perché è molto acuta ed inoltre molto utile ai nostri scopi. Infatti egli dice che colui che in generale ha fede nell’intervento diretto di Dio nel mondo è anche molto più aperto alla dottrina dell’ID. E tuttavia essi sono aperti alla versione integrale di questa dottrina e non a quella unilateralmente scientista e scientifico-empirica, per cui vedono l’azione di Dio anche dietro all’intrinseca intelligenza della Natura. Di conseguenza essi sono convintamente teisti.
Ma cosa può significare questo per i nostri scopi? Può significare che, sebbene l’intervento di Dio nel mondo sia da intendere ovviamente in modo primariamente etico – come nel contesto di quella fede nell’«aiuto divino» che non si illude affatto circa la necessità di accettare la prova dolorosa anche nel contesto della più intensa prossimità divina −, ciò si presta molto bene a travalicare questo ambito (che potrebbe anche essere solo vuotamente retorico-teologico e pietistico) verso l’ambito della piena fede nella presenza reale della Persona divina.
E questo di nuovo ci riporta alla complessiva teoria filosofico-religiosa di Berdjaev. Dato che evidentemente il teismo può avere tutti i difetti logici che si vuole, ma perlomeno preserva quella fede nel Dio-Persona in assenza della quale davvero non sapremmo dire più cosa significa concretamente essere religiosi e soprattutto cristiani.
Una volta posto in evidenza questo, il resto delle argomentazioni pro-teiste di Larmer può essere anche trascurato, dato che esso non concerne direttamente i nostri scopi. Va solo ricordato che egli ci informa che il genere di anti-teismo da lui contestato (che afferma il non intervento di Dio nel mondo) affonda le propre radici addirittura nel XVIII secolo, e quindi nell’empirismo e nell’Illuminismo. Il che conferma quanto già abbiamo visto, e cioè che la complessiva teoria del post-teismo ha le sue radici abbastanza lontano nel tempo entro la storia della filosofia e della teologia.
Platzer va poi direttamente (e perfino brutalmente) al dunque chiedendosi se per davvero si può pensare che esista un Dio. E questo la dice del resto molto lunga sullo spirito che domina nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Essa infatti nutre dei dubbi davvero così radicali da obbligarci a chiederci se per davvero essa si collochi ancora nell’ambito religioso. Per la verità egli pone la questione molto più sul piano metafisico che non su quello teologico, ed inoltre si produce in un’argomentazione che è in realtà alla fine pro-teistica. Si chiede infatti se il presupporre un livello ontologico costituito da entità oggettuali altamente metafisiche non contraddica l’esistenza di Dio. E la sua risposta è decisamente sì. E per di più egli riconosce in questo una vera e propria grave “aporia” filosofica. Evidentemente perché l’astratto viene considerato più reale dell’esistente. Egli ripropone insomma l’antica querelle tra metafisica cristiana e pagano-platonica circa la possibilità di concepire somme entità onto-ideali che addirittura sarebbero ad un livello più alto di quello sul quale esiste Dio. Ma intanto si pone in particolare il problema della postulazione di somme entità metafisiche soprattutto in quanto supremamente “vere”. Ed è inoltre molto significativo che egli proponga come soluzione all’aporia la dottrina cartesiana ed ancor più quella neo-cartesiana. Il che significa che egli non ha la minima intenzione di argomentare su un piano autenticamente metafisico-religioso. E tuttavia restiamo non poco sorpresi nel constatare che egli intende però procedere comunque sul piano teologico. Egli infatti sostiene che la postulazione cartesiana di somme entità in quanto verità divine di fatto supporta un teismo puramente epistemologico (cioè gnoseologico) in quanto invece quello basato sull’esistenza di Dio (che fa di Dio un’oggettualità trascendente) comporta insuperabili aporie. In altre parole la dottrina teistica di Platzer rientra di fatto in quella gnoseologia filosofica che abbiamo avuto presente in tutto questo scritto (oltre che in altri), e che abbiamo visto severamente criticata da Berdjaev.
Ma le cose si aggravano ulteriormente quando lo studioso dichiara di volersi rifare al “neocartesianismo” e non invece a Cartesio in persona. A quest’ultimo infatti egli rimprovera severamente l’idea (secondo lui solo “bizzarra”) secondo la quale le verità divine presenti nella mente umana sarebbero state letteralmente “create” da Dio; laddove invece (secondo il neocartesianismo) esse sono appena il prodotto della volontà divina. E ciò comporta una visione relativa della necessità invece che assoluta, la quale pone di nuovo in evidenza l’epistemologia contro l’ontologia. In altre parole non è assolutamente vero che “ogni realtà è fondata in Dio” in termini ontologici (cioè secondo una “necessità metafisica” e quindi assoluta), ma è semmai vero invece che tutte le realtà vengono spiegate in Dio. E per sostenere questo egli menziona l’Eutifrone di Platone nel quale si dimostra che le cose non hanno valore in sé ma solo perché Dio le ama. Non ci sembra però necessario soffermarci su questo, se non per il fatto che questa presa di posizione platonica rafforza il teismo nel sottolineare la primarietà di Dio rispetto a qualunque cosa, include le cose di valore in quanto sommamente vere.
In ogni caso va detto che egli non si sogna nemmeno di negare che per Platone il “vero” sta al di sopra di tutto, e cioè al di sopra di Dio stesso. Esso rappresenta pertanto una necessità gnoseologica e non ontologica. Per cui, pur posta la primarietà di Dio (rispetto alle cose di valore in quanto da lui amate) quale esistenza, resta comunque la Sua sottomissione al “vero” in quanto autentica necessità assoluta. Il problema a questo punto è per lui solo quello di sottrarre alle somme entità (corrispondenti al “vero”) la natura di effettive oggettualità. Cosa per lui possibile considerandole così delle entità appena “modali”, ossia puramente ideali. E qui egli afferma il teismo nel difenderlo dalle aporie che insorgono quando si sostiene che Dio avrebbe creato le verità stesse invece si essere Egli stesso sottomesso ad esse. Si tratta insomma dell’affermazione della sottomissione di Dio alle supreme leggi della logica. E questo è ancora una volta un ben strano teismo, dato che limita fortemente la realtà di Dio e quindi anche la sua potenza, prestandosi così molto poco a fondare una fede entro la quale da Dio ci si aspetta tutto, anche ciò che è del tutto contrario alla logica stessa. E questo ancora una volta è quel Dio del «tutto è possibile» che si presenta soltanto nello Spiritualismo pneumatico (vedi articolo “Edith Stein e lo Spiritualismo”).
Detto questo non si sembra opportuno prolungarci ulteriormente nella discussione dell’articolo di Platzer se non per il fatto che egli assolve il teismo di Cartesio in quanto esso è in gran parte epistemologico (cioè gnoseologistico), mentre invece condanna quello di Leibniz che sarebbe invece intensivamente ontologico. Esso sostiene infatti che secondo il pensatore tedesco Dio è l’ente fondamentale nel quale è fondato tutto ciò che Lui non è, ossia le mere oggettualità mondane ed immanenti. Leibniz insomma afferma la necessità di Dio in termini ontologici e non gnoseologici. Tuttavia anche queste così sofisticate considerazioni metafisiche non si prestano affatto a fondare un’autentica fede.
Per cui, con Platzer, noi possiamo constatare l’esistenza di un teismo puramente metafisico che, a fronte delle necessità religiose del teismo stesso (equivalenti alla necessità si porre un Dio-Persona), appare in verità del tutto superfluo. In altre parole non mette affatto conto difendere questo genere di visione religiosa. Che peraltro intende obbedire più che mai alla logica ed inoltre alla più esigente e rigorosa epistemologia. Non a caso l’autore non nasconde che Cartesio gli sembra estremamente importante per contrastare ed anche correggere il teismo più “mainstream” ossia quello più letterale e forse (almeno dal suo punto di vista) anche ingenuo e volgare.
Di nuovo estremamente esplicita e diretta è la tesi di Cockayne, il quale intende addirittura difendere il pieno diritto all’ateismo, ossia all’anti-teismo (cioè l’inviolabile “diritto a non credere”). Non senza però difendere anche le ragioni del teismo ed inoltre non senza dichiarare del tutto inappropriato l’ateismo puramente epistemologico del quel finora abbiamo visto tanti esempi. La sua conclusione è che è giustificato in definitiva solo un ateismo morbido (cioè né dogmatico né aggressivo) il quale si basa semplicemente sulla constatazione che non vi sono elementi decisivi a favore o a sfavore della fede. Naturalmente questa presa di posizione svaluta la natura più autentica della fede che (sia per non teisti come Schnädelbach e Nagel) implica necessariamente il dubbio, e quindi è sempre rischio, e pertanto decisione. Ma questo per il momento non importa. Infine va sottolineato che Cockayne smantella letteralmente forti argomenti anti-teistici come quello del famosissimo Quine.
In definitiva comunque l’autore intende sostenere una tesi esattamente simile alla tesi dello psicologo della religione Henry James (“The will to believe”) secondo la quale la fede si giustifica unicamente su un piano volontario ed ancor più passionale, con il conseguente delinearsi di una vera e propria «volontà di fede». Cockayne (che durante la sua intera esposizione segue passo passo la falsariga delle tesi di James) sulla stessa identica base sostiene la piena legittimità di una volontà esattamente contraria. E ciò si basa peraltro sulla radicale discrepanza tra “fede“ e “credenza” che appunto James aveva sostenuto. Egli sostenne infatti che una credenza non ha affatto la forza di giustificare un’autentica “verità” (“truth”) oggettiva (“truth that p”). Dunque la fede manca naturalmente di “evidenza”, così come anche la stessa esistenza di Dio manca di evidenza. Ma intanto una vera credenza esige inflessibilmente proprio l’evidenza. La fede è pertanto semplicemente una fede priva di evidenza.
Su questa base Cockayne sostiene quindi che teismo ed ateismo hanno lo stesso identico diritto ad esistere. Motivo per cui può e soprattutto deve venire concepito [Rowe W. L., “The problem of evil and some varieties of atheism”, Am. Philosophical Quarterly, 16 (4) 1979, 335-341] un’”ateismo amichevole” (“friendly atheism”).
Posto questo sembra proprio che l’intera (densissima e complessissima) querelle tra teismo ed anti-teismo non abbia in verità alcuna giustificazione. Ma il suo sussistere appare allora unicamente il frutto dell’intervento velleitario e ideologico (quindi del tutto arbitrario) nel contesto della Religione da parte di un anti-teismo logicamente giustificato. Ma quest’ultimo non è altro che il puro prodotto di quella ricerca scientifico-religiosa la quale a sua volta in fondo non è altro che il figlio degenere (e anch’esso del tutto arbitrario) della filosofia analitica applicata alla Religione, ossia delle idee di Bertrand Russell. Idee che vengono presentate come oggettive necessità conoscitive ma invece sono solo pretese, e peraltro puramente ideologiche. In altre parole (nonostante la pompa con la quale lo si sostiene ed impone) l’anti-teismo non ha alcuna vera ragione di essere e quindi avrebbe anche potuto non esserci affatto. Dunque non è affatto vero che esso sarebbe inevitabile a causa del patrimonio di conoscenze apportate dalla Scienza all’umanità. Infatti la verità è semplicemente che si ha il pieno diritto di essere credenti o atei unicamente in forza di una volontà passionale che con l’epistemologia, con la gnoseologia e con la logica non ha assolutamente nulla a che fare. E tale volontà passionale si traduce in fede unicamente in relazione alla scelta arbitraria, e quindi alla coraggiosa decisione, di affrontare a viso aperto il rischio tremendo della fede.
Vale qui insomma, oggi come allora, ciò che aveva già perfettamente compreso Pascal, come vedremo alla fine. E del resto Pascal viene invocato anche dallo stesso James nel guardare alla fede esattamente in questo modo. Sta di fatto è che la razionalità (e quindi anche logica e gnoseologia) appare essere quanto fonda la fede nel modo più debole possibile, con la conseguenza che solo la volontà riesce invece a fondarla in modo forte. Ma quindi ciò vale anche per la decisione a non credere e quindi per l’ateismo. Anch’esso è una specie di fede e come tale è una scelta forte. Diversamente stanno le cose per l’agnosticismo che invece è un restare sospesi tra due decisioni. Per Bishop si tratta in questo caso di un di “ateismo pratico” [Bishop J., Believing by faith: an essay in epistemology and ethics of religious belief, Clarendon University Press, Oxford 2007]. Intanto la dimensione razionale della fede (e quindi la sua dimensione epistemologica e cognitiva) corrisponde per James ad un “prendere per vero”, mentre invece la dimensione volontaria della fede, la vera decisione, corrisponde ad un “accettare per vero”. Ed esattamente lo stesso vale anche per l’ateismo. In altre parole, come dice Bishop, si tratta del credere in qualcosa per fede – fatto che ci mostra un’altra volta la grande differenza esistente tra credenza e fede. La credenza è infatti per davvero un fatto cognitivo, e quindi relativo integralmente al vero, alla verità di qualcosa. Pertanto la fede non è mai diretta (immediata) relazione con la verità, ma semmai relazione appena mediata con essa. Proprio per questo essa può sussistere solo in relazione con una Persona, nel senso pieno dell’«io credo in te!».
E precisamente essa è mediata da una volontà che, per essere davvero forte, non può essere altro che amore. Ed è ovvio che l’amore può stare solo in relazione con una persona, ossia la Persona divina.
Dall’altro lato – ci fa osservare Cockayne – vi è un ateismo fondato nell’affermazione tutta cognitiva che l’inesistenza di Dio possa effettivamente essere vera – come sostenuto da Adams e Robson (2016).
E precisamente essa si basa sull’evidenza di un universo “inospitale”. La conseguenza affermazione è la seguente: − «Dio non esiste e basta!». Questa affermazione si ritiene basata su un’evidenza, e quindi pretende di fondare un ateismo è che “vero” esattamente quanto sarebbe “vera” l’inesistenza di Dio.
Sta di fatto però che quella invocata non affatto un’evidenza della non esistenza di Dio, in quanto è semplicemente un’evidenza indiretta. E quindi l’ateismo che ne risulta non può essere vero. Ecco insomma di nuovo un ateismo affatto fondato sulla volontà. Ma in verità – come riportato da Clifford (1999) − James ci fa osservare che la preoccupazione epistemologica (quella verità) è in verità appena il paravento di uno “scetticismo” sostanzialmente pavido, nel senso che esso si sottrae al rischio della fede e quindi non perviene mai ad una vera volontà di non credere.
Tutto questo riduce di molto l’importanza dell’accusa rivolta sia alla fede (o teismo) che all’ateismo in nome della verità, ossia in quanto “errori” logici. Ed infatti a tale proposito all’opinione appena citata di James si aggiunge quella di Nagel [Nagel T., The last world, Oxford University Press, Oxford 1997]. Egli ritiene infatti che la fede in Dio sia sostanzialmente e primariamente speranza. E ad essa non oppone assolutamente nulla, dato che per definizione la speranza può essere solo speranza nell’esistenza di Dio, e non invece speranza nella sua inesistenza oppure speranza nell’esistenza di un ente spirituale opposto a Dio, ossia il Demonio. Su questa base quindi l’ateismo cessa di essere giustificato anche se è volontà e decisione. Ecco che, come dice Nagel, l’ateismo è assurdo in sé, e non invece in quanto opposizione alla fede (teismo) in quanto presunto errore. Dall’altro lato quindi – in forza della sua natura di legittima speranza − lo stesso teismo non ha alcun bisogno di difendersi dall’ateismo o anti-teismo, sia in quanto espresse volontà sua in quanto presuntamente veri.
Posto questo noi aggiungeremmo che quindi, se la fede è speranza, essa deve necessariamente postulare l’intervento di Dio nelle circostanze esistenziali, cioè un concreto «aiuto divino». Altrimenti questa speranza si trasforma in mera menzogna retorica.
Ma vi è un’ulteriore osservazione di Nagel che completa la sua analisi dell’ateismo. Egli dice infatti che ne esiste uno che addirittura ammette l’esistenza di Dio (esercitando così la sua volontà in senso opposto a quello del classico ateismo) ma intanto ne desidererebbe la non esistenza in quanto lo accusa del male del mondo. Si tratta secondo lui di un ateismo su basi morali che senz’altro è molto più forte e giustificato di quello fondato epistemologicamente. Ma qui diremmo che ci troviamo nell’ambito di un ateismo decisamente di tipo gnostico.
Infine Cockayne menziona l’argomento ateistico di Quine. Laddove bisogna dire che questo filosofo (anche lui fortemente incline allo scientismo) è stato ed è un autentico protagonista del pensiero moderno di tipo analitico. Quindi la sua tesi ha senz’altro una grande rilevanza. Stranemente però si tratta appena di una sorta di poetizzazione della gnoseologia, dato che Quine parla dell’ateismo in nome di una “parsimonia” razionalistica che si oppone legittimanente alla passione, a sua volta caratterizzata dal desiderio di un universo non “deserto”. L’argomento del nostro pensatore sembra quindi basato (come del resto quelli di Russell) si una specie di sdegnosa compassione per coloro che, nel credere in Dio, rinunciano ad una Ragione che non ammette alcun sentimentalismo, ossia una Ragione del tutto gelida. E ci sembra che qui non sia necessario assolutamente alcun commento.
In conclusione Cockayne sottolinea che – a fronte della debolezza dell’ateismo epistemologicamente fondato e della forza oggettiva dell’ateismo eticamente fondato, e sullo sfondo generale poi della forza dello stesso ateismo volontario – bisogna ammettere che la presa di posizione più legittima è in fondo quella “riflessiva”, che è poi comune al teismo ed all’ateismo. Si tratta insomma dell’ammissione della grande difficoltà che c’è tanto nel mantenere la fede che nel rigettarla. Il che sottolinea poi l’assoluta necessità del dubbio entro una fede autentica e ben fondata. Necessità del dubbio nella fede che mette piuttosto facilmente fuori gioco l’ateismo più classico. Posto questo l’autore riconosce che è vero che l’ateismo basato sull’evidenza del male del mondo è tendenzialmente più forte del teismo. Sebbene sottolinea che non mancano oggi le teodicee che mettono fortemente in discussione questa evidenza – come in Rowe e Stump (2010). Queste moderne teodicee vengono quindi ad aggiungersi a quelle tradizionali (di grandissime proporzioni ed integralmente filosofiche oltre che metafisico-religiose) di Agostino e Leibniz.
Ciononostante per l’autore la disponibilità di evidenze concrete per l’ateismo è ben lungi dalla sua oggettiva giustificazione come vero.
In conclusione, quindi, l’ottima e chiarissima esposizione di Cockayne ci offre argomenti in abbondanza non solo per guardare criticamente all’ateismo (riconoscendo in esso le forme forti e le forme deboli, e quindi sottraendoci alla sua attuale presunzione di onnipotenza) ma anche per esautorare (in quanto ateismo non volontario e passionale) tutti i tentativi di annientare il teismo per via epistemologico-gnoseologica.
E questi tentativi rappresentano di fatto in blocco l’intera ricerca scientifico-religiosa. La quale quindi, alla luce delle estremamente lineari e ragionevoli argomentazioni di Cockayne, finisce per presentarsi come un immenso e pesantissimo apparato logico-argomentativo che però serve e vale davvero molto poco.
A causa della rilevanza del pensatore, un ultimo cenno va fatto soltanto al tendenziale ateismo di Heidegger, che viene presentato da Solari nel sostenere che il pensatore tedesco sarebbe stato in effetti uno gnostico. In effetti la problematica discussa dall’autore è di estrema importanza proprio perché essa in effetti concerne molto da vicino il post-teismo come possibile (ma solo presunta) risorsa dell’ultima teologia cristiana. Ed inoltre ci rivela anche che questa presunzione deve avere le sue radici (tra l’altro) proprio in Heidegger. Ebbene, dice Solari, Heidegger si limitò semplicemente a presentare appunto una mera “deità” (ossia un Dio assolutamente non personale) che assume poi il suo senso vero nel contesto della sua fortissima contestazione dell’intera tradizionale onto-teologia cristiana. E lo fece in particolare mostrandoci un dio (“ultimo dio”) presente nella “radura” del bosco dell’essere (“Lichtung”) in maniera in gran parte occulta (quindi totalmente diverso dal Dio di tutte le religioni) e comunque unicamente storico-temporale. Esso garantisce per Heidegger comunque una forma di salvezza (anche se non si capisce assolutamente quale) specie come potente fattore di opposizione alla tecnica. E questo Dio, evidentemente, non vuole essere altro che una semplice “deità”. Esso infatti è appena un “theos”.
Ebbene Solari contesta molto giustificatamente la possibilità che questo possa costituire il punto di partenza per una nuova teologia cristiana, ed inoltre per una rivivificazione del Cristianesimo stesso per mezzo di essa. Ed è evidente che con ciò si tratta di nient’altro se non della moderna teologia post-teistica. Ciò per l’autore è impossibile proprio perché intanto Heidegger − nell’espressa volontà di distruggere la metafisica e con essa l’intera onto-teologia cristiana [Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127 ; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194] – aveva voluto assumere una posizione evidentemente agnostica (massimamente evidente in “Lettera sull’umanesimo” e ”Tempo ed essere”) che alla fine ha una chiara valenza pagana (perfettamente espressa nella postulazione di una “deità”). Dunque nel complesso non ha alcun senso l’operazione (molto diffusa tra i teologi moderni) di trasformare Heidegger in pensatore cristiano, e peraltro uno tra i maggiori. La sua presa di posizione è invece decisamente anti-teistica ed anche in forte odore di post-teismo.
Resta a questo punto solo da accennare alla già citata riflessione da Robinson sul cosiddetto “Debunking argument” in quanto forte contestazione del teismo sulla diretta base della scienza cognitiva. Entro tale argomento si sostiene infatti che la fede in un “agente invisibile” (divino) non sarebbe altro che un indesiderato effetto collaterale del sistema cognitivo nel contesto della sua sana capacità di cogliere la causalità sulla base di solide evidenze naturali (ossia una specie di indesiderato deragliamento del funzionamento normale del sistema cognitivo). È evidente che l’applicazione di un tale argomento demolisce in un solo colpo l’intero teismo considerandolo non solo puramente fantasioso ma addirittura una forma di insania mentale (nel senso di un malfunzionamento del sistema cognitivo). A questo punto (per mezzo del suo “Reply argument”) Robinson risponde che invece è pienamente plausibile l’ipotesi pienamente naturalistico-razionale di un Dio che abbia predisposto l’evoluzione umana in modo da includere nel sistema cognitivo la possibilità di supporre legittimamente un agente invisibile. È evidente però che la stessa replica pro-teistica di Robinson intende muoversi esattamente sul piano della tipica ricerca scientifico-religiosa. E questo ci mostra bene quanto disperata sia oggi la situazione anche del settore di ricerca entro il quale si è intenzionati a difendere a spada tratta il teismo. I protagonisti di tale settore sembrano infatti essersi essi stessi sbarazzati totalmente di riflessioni altamente metafisico-religiose (anche se assolutamente moderne) come quelle di Berdjaev; le quali giustificano pienamente il teismo e peraltro senza assolutamente far ricorso ad alcuna ingenua metafisica naturalistica (come quella della tradizionale cosmologia dogmatica incentrata sulla presenza di Dio per mezzo della creazione).

Per completezza bisognerebbe discutere qui anche l’ormai piuttosto abbondante ricerca neuro-fisiologica che giustifica la fede in Dio almeno in quanto tendenza assolutamente naturale della mente umana (quindi in fondo del tutto indipendentemente dalla realtà effettiva dell’esistenza di Dio). Si tratta insomma di un argomento a favore del teismo, anche se solo molto vago, indiretto ed anche in qualche modo abbastanza pilatesco. Non c’è però lo spazio per trattare di questo, per cui ci limiteremo a citare la letteratura esistente su questo aspetto, incluso anche un nostro articolo [Franco Fabbro, “Il paradigma neuropsicologico nello studio della Bibbia”, RivB, 2015, 63 (1-2) 181-207; Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, Roma 2012; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018
< http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].

III- Il post-teismo (Gamberini)
Ecco. Abbiamo finora illustrato uno scenario di ricerca che comprende diversi punti di vista sia teistici che anti-teistici e francamente ateistici. Tra questi ultimi si sono delineati alcuni tra i maggiori argomenti impiegati per combattere il teismo entro l’attuale ricerca scientifico-religiosa: − la contestazione della Bontà divina (specie per mezzo della messa in discussione dell’obbligata gratitudine umana verso il dono della vita), l’evidenza inoppugnabile del male nel mondo, la logico-razionale giustificazione della sola “deità” in luogo del Dio personale teistico (e ciò perfino attraverso l’affermazione di una valenza ateistica della kenosis divina), la contestazione del concetto di un intelligente Piano divino, l’affermazione di varie precisazioni rispetto alla vera natura di un ateismo perfettamente giustificato. Ed inoltre abbiamo anche accennato (ma parte dedicata al panenteismo) alla messa in discussione scientifico-religiosa (ed anti-teistica) di altri elementi metafisico-religiosi e teologici come ad esempio la realtà trinitaria (Paolini Paoletti).
Abbiamo quindi un quadro abbastanza completo del complessivo anti-teismo; anche se quella da noi presentata non è altro che una miscellanea di ricerche che non può avere assolutamente l’ambizione di rappresentare l’intero dibattito attualmente in corso. Cosa che peraltro sarebbe impossibile a causa dell’estensione davvero sconfinata di un dibattito che peraltro ogni giorno cresce sempre più davvero a dismisura. È evidente quindi che è possibile prenderlo in considerazione solo a campione.
Ma è dunque finalmente arrivato il momento di affrontare direttamente la tesi post-teistica, rappresentata qui da un articolo del gesuita Paolo Gamberini [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417].
In effetti già nell’abstract dell’articolo Gamberini affronta tutte le tematiche che già abbiamo presentato e discusso in questo nostro scritto. Egli sostiene infatti che è divenuto ormai urgente, per la fede cristiana, confrontarsi con la modernità (e soprattutto con la scienza empirica) nell’obbligo di mettere in discussione il “teismo personale” specie nelle forme costituite dall’intervento diretto di Dio nel mondo e dalla sovrannaturalità della natura ed azione divina. Ed egli definisce tutto questo l’introduzione di un “nuovo paradigma” nella fede e dottrina cristiana (affermazione in cui si rifà alla ben nota teoria di Thomas Kuhn delle rivoluzioni scientifiche). L’effetto finale di questa operazione non dovrebbe però essere per lui una negazione del Dio-Persona bensì una sua postulazione non più ontica bensì invece “dinamica e relazionale”. Insomma, almeno a prima vista, non sembra che egli voglia giungere ad abolire del tutto il concetto di Dio-Persona. Infatti più avanti dirà anche che il “teismo classico” (da lui direttamente avversato) non si identifica affatto con il “teismo personale”, e quindi proprio in questo è difettivo. Certo è però che egli intende svuotare non poco il concetto di Dio-Persona e proprio per la via dell’anti-teismo. Non a caso afferma che il Dio-Persona non può venire accettato solo come posto del tutto al di fuori dell’”ordine del creato”. Ed inoltre (menzionando il vescovo episcopaliano John Schelby Spong) egli afferma l’impossibilità di accettare il Dio-Persona come “dotato di attributi sovrannaturali”. Insomma in definitiva egli nega il Dio-Persona anche se dice di accettarlo. E vedremo poi infatti alla fine con quale forza lo nega.
In altre parole lo studioso rimprovera al teismo tutti gli aspetti che invece con Berdjaev abbiamo visto essere rilevanti per la comprensione di Dio in quanto Persona, ossia la sua onticità addirittura carnale (umano-divinità), la sua azione concreta nel mondo (sia per mezzo dell’uomo sia come Spirito) e la sua ricongiunzione di naturale e Sovrannaturale, ossia la sua riunificazione di Terra e Cielo. E se si intende qui impiegare (anche solo alla lontana) Eckhart per gli scopi di un siffatto post-teismo, bisognerà obiettare a ciò che la principale intenzione del pensatore (proprio nel sostenere la dimensione relazionale della presenza di Dio nel mondo) fu quella di riunificare (fino alla totale fusione) la dimensione naturale (Natura) con quella sovrannaturale (Grazia) [Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., I, 1 p. 25-37].
Estremamente significativo ci sembra il fatto che – nel ricorrere a Kuhn per sostenere un obbligato e naturale cambio di paradigma anche nella metafisica e nella teologia oltre che nella scienza (che ovviamente adombra la messa in discussione delle verità intuibili da parte della metafisica entro la Rivelazione in modo del tutto immediato, e quindi indipendente dalla scienza empirica) – Gamberini da un lato si rifà al moderno idealismo filosofico (in quanto anti-realismo che pone in primo piano il soggetto cosciente-conoscente in quanto autentico luogo della verità), ma dall’altro lato si rifà addirittura anche ad una sorta di tradizione apofatica (anch’essa decisamente anti-realistica), in forza della quale la negazione dell’antropomorfismo divino sarebbe non solo del tutto legittima ma anche doverosa. In sua presenza, infatti, secondo lui perdiamo qualunque capacità di comprendere la vera natura di Dio e soprattutto la natura della Sua azione. Peraltro più avanti egli dirà anche quali sono i suoi diretti punti di riferimento filosofico-idealistici, cioè Hegel, Fichte e Schelling.
Ed ecco dunque il suo primo diretto attacco al concetto di Dio-Persona, in quanto realtà che sfugge all’onticità ordinaria esperienziale costituendo invece sostanzialmente sovrannaturale, e quindi del tutto inafferrabile. Per lui infatti l’antica tendenza della metafisica a trasformare Dio e la sua azione nell’essere mondano stesso, ossia l’universo (cosmologia dogmatica) corrisponde esattamente all’attribuzione a Dio (per la via di una visione antropomorfica) di caratteristiche personali che sono sostanzialmente straordinarie, ossia sono caratterizzate dalla perfezione. Conseguentemente proprio questa viene considerata la realtà di Dio di fronte alla quale l’uomo si trova. Ma in tal modo noi ci troviamo di fronte ad un concetto unicamente antropomorfico di Dio-Persona. Infatti la perfezione è un attributo che noi associamo a Dio in base all’esperienza di noi stessi. Ed a questo punto (pur accettando almeno in parte questa sua tesi) dobbiamo ricordare che Berdjaev afferma il concetto di Dio-Persona proprio sulla base di un suo intendimento intensamente antropologico. Egli afferma insomma che l’antropomorfizzazione di Dio non è affatto un ostacolo per la comprensione del Dio-Persona ma è semmai invece una risorsa in tal senso. Il che significa sostenere che l’umano-divinità non è altro che (sic et simpliciter) l’affermazione della perfetta identità (pienamente ontica) tra Dio e uomo. il che comporta poi l’accettazione finalmente incondizionata del concetto di Incarnazione divina. Laddove vedremo che invece Gamberini si adopera fattivamente per la profonda revisione critica di tale concetto.
In tutto questo consiste insomma l’attacco idealistico dello studioso al classico realismo filosofico che era stato sempre dominato dal concetto tomista di “adaequatio rei et intellectus”; che comporta a suo avviso una reificazione di Dio (trasformazione di Dio in “cosa”, “res”, e quindi anche mondo) con la conseguenza di rendere del tutto superflui la presenza e il giudizio del soggetto. Ebbene, ecco che la sua obiezione al teismo si presenta immediatamente nella forma dell’equiparazione di esso con una reificazione di Dio che metterebbe fuori gioco il credente (in quanto soggetto) trasformando in tal modo Dio in una cosa reale. Intanto comunque dobbiamo dire che Dio, anche se inteso come cosa reale, non può essere altro che un’entità che è presente ed agisce nel mondo pur non appartenendo ad esso in alcun modo in forza della Sua natura sovrannaturale. Si tratta insomma di quel Dio insieme trascendente ed immanente che abbiamo visto affermare a Berdjaev, e che poi costituisce la forma più autentica del Dio-Persona.
Gamberini però naturalmente non crede ad una sola parola di quest’ultima dottrina del Dio-Persona. Infatti egli la definisce come “comprensione mitica” di Dio. E nello stesso tempo equipara la dimensione mitica di Dio a quella antropomorfica. Con il deplorevole effetto (secondo lui) che il soggetto non ha più nulla da dire su Dio, dato che in suo luogo si pretende che invece già parli la sola Rivelazione (e precisamente con un linguaggio che non è affatto umano). Cosa per lui assolutamente inaccettabile. Invece per lui proprio il soggetto è fondamentale in un atto religioso che è fondamentale ed assolutamente propedeutico alla fede, ossia la “ricezione della Rivelazione”. Ora poco importa che a tale proposito Gamberini indichi nella mancata ricezione umano-soggettiva della Rivelazione il deplorevole effetto della sua letteralizzazione; con la conseguente credenza ingenua in espressioni come “Dio agisce” e “Dio parla”. Il problema principale della sua visione non è affatto questo (dato che la lettura letterale della Rivelazioone è di per sé più che condannabile). Il problema sta invece nel fatto che − nel trasferire al soggetto il diritto e dovere di parlare in nome della Rivelazione (e quindi letteralmente riscriverla e ri-dettarla) − egli sostiene letteralmente che l’unica accettabile verità è che “Dio si rivela con e attraverso le parole umane”. Ed ecco il già evidente totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, cioè ecco la fondazione della ricerca scientifico-religiosa da parte dello stesso post-teismo. Anche questo è dunque un atto tipico del post-teismo. Ebbene, con “le parole umane” sono da intendere le affermazioni ordinarie e mondane dell’uomo, ossia quelle che compaiono entro l’ordinaria conoscenza, ossia nella Scienza. In tal modo, dunque, la Rivelazione non ha più assolutamente nulla da rivelarci nell’illuminarci laddove invece la nostra Ragione (per sua natura) è e resta totalmente all’oscuro; e quindi non può in alcun modo sorprenderci con le sue trascendenti verità. Ma sta di fatto che ciò è esattamente quanto avviene allorquando nella Rivelazione parla lo stesso Spirito pneumatico, ossia la Sapienza divina. Secondo il post-teismo invece il linguaggio proprio della Rivelazione (ossia il linguaggio di Dio stesso) deve venire di fatto rigettato nella forma in cui si presenta, in quanto esso non è mediato dall’uomo.
In luogo di questo, invece, per Gamberini è l’uomo che fa tutto; e nel caso specifico è l’uomo in funzione di neo-teologo e moderno filosofo decostruzionista. E su questo secondo lui non c’è da discutere. Naturalmente egli si appella in questo a quell’“ermeneutica” che (dopo Heidegger) è ormai omnipresente dovunque oggi si intenda screditare la metafisica e soprattutto la metafisica religiosa. E sostiene infatti che proprio essa (ad opera dei nuovi teologi) ha ormai esautorato totalmente l’uso “letterale” del linguaggio biblico. Il che è poi è falso ed in mala fede, dato che (come poi vedremo) una lettura letterale della Rivelazione non è mai stata giustificata.
Ma possiamo toccare con mano per davvero la gravità devastante di tali convinzioni allorquando lo studioso avvalora totalmente l’ormai totale avversione dei teologi alla “preghiera di richiesta”, che a sua volta poi riposa poi su una deplorevole di nuovo letterale interpretazione dell’Incarnazione divina (in quanto evento presuntamente puntuale, e non invece continuo e quindi storico). E qui egli menziona come protagonisti di tale idea Queiruga e Hick [Andrés Torres Queiruga, Io credo in un Dio fatto così. Risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede, EDB, Bologna 2017; John Hick, The Metaphor of God Incarnate: Christology in a Pluralistic Age, Westminster, John Knox Press, Louisville 1993]. In particolare Hick avrebbe riletto l’Incarnazione divina come non più puntuale (questa sarebbe infatti appena una “metafora”), ma invece “graduale e differenziata rivelazione di Dio all’umanità”.
Insomma è evidente che qui non ci troviamo solo di fronte ad un post-teismo, ma invece anche ad un vero e proprio anti-teismo e perfino ateismo. E peraltro ci chiediamo cosa mai resti ancora di cristiano una volta eliminati del tutto questi atti e concetti, specie in quanto oggetti di fede vissuta; e peraltro anche fede molto coraggiosa nell’Invisibile (in quanto reale presenza divina) nel contesto della tremenda sfida rappresentata dall’esistenza.
Viste queste premesse (cioè soprattutto la totale negazione della dimensione sovrannaturale di Dio che persiste nella sua concreta ed attiva presenza del mondo come Spirito pneumatico), diventano del tutto poco credibili se non ridicole le petizioni di principio che Gamberini fa seguire a queste sue riflessioni preliminari. Egli sostiene infatti che l’assoluta urgenza di eliminare totalmente dalla teologia il Dio Trascendente della tradizionale metafisica religiosa cristiana (quello caratterizzato dall’”aseità”, ossia assoluta libertà nei confronti del creato con una conseguente Sua relazione unicamente “accidentale” con il creato stesso) avrà come conseguenza l’affermazione di una relazione di Dio con il mondo che ha il carattere specifico dell’Amore unito intimamente a sua volta alla Sua totale “libertà creatrice”. Costateremo però più avanti quanto riduttivamente ed astrattamente egli intenda questo primario Amore creativo divino. E tutto ciò corrisponderebbe poi ad un atto di “autodeterminazione” divina nel mondo, ossia di fatto ad una sorta kenosis che però addirittura nasconderebbe Dio nella ordinaria fattualità mondana – rendendolo così invisibile nel senso peggiore del termine e cioè come totalmente non tangibile. Non solo, ma ciò corrisponderebbe per lui addirittura ad una nuova “mistica” incentrata nell’idea che Dio è Spirito che impregna di sé totalmente il mondo.
Ma intanto la negazione da parte di Gamberini di atti religiosi come la preghiera di richiesta indica chiaramente che tale impregnazione non è invece altro che un letterale sprofondare e sparire di Dio nel mondo, ossia una Sua totale immanentizzazione che alla fine non può che sottometterlo alle Leggi della Natura. E dopo questo sprofondamento evidentemente non si ammette che di Dio resti alcuna vera traccia.
Il che tra l’altro cancella di un sol colpo la dimensione della Potenza proprio in quanto massima espressione dell’impregnazione divina del mondo. In tal modo, insomma, Dio non è più affatto lo Spirito pneumatico che è presente nel mondo nel «rendere nuove tutte le cose». Invece non è altro che una vaga ed anche dubbiosa presenza sulla quale l’azione umana eserciterebbe peraltro un controllo totale, fino al punto da poterla rappresentare pienamente. Ed è evidente che ciò accade a causa della soggettualità conoscente in quanto ispirata totalmente ad evidenze scientifico-empiriche.
Posto questo, Gamberini riafferma la necessità storica urgente di superare totalmente il teismo in quanto affermazione di un Dio come “necessario, onnipotente, sovrannaturale” e perfino anche “personale” (in quanto come tale situato fuori dell’”ordine del creato”). Ed egli giustifica questo sulla base della sua insostenibilità alla luce della scienza empirica più moderna ed inoltre anche a fronte delle possenti sfide del moderno ateismo. Il che ci mostra quindi che post-teismo e ricerca scientifico-religiosa sono in effetti una sola ed unica cosa. In altre parole il post-teismo non è altro che una vergognosa ritirata della teologia cristiana di fronte a forze storiche che in sé nulla hanno a che fare con la Religione né con il Cristianesimo.
Nel frattempo però egli si rifà nuovamente ai protagonisti dell’idealismo tedesco (già prima menzionati) considerandoli come gli apri-pista della (secondo lui) perfettamente legittima affermazione della “morte di Dio” (e peraltro per la via della significativa intermediazione di Böhme). Si tratterebbe in definitiva della doverosa dichiarazione della morte del Dio Trascendente, ma in obbedienza alla stessa scelta divina di negare sé stesso (entro la kenosis) come “infinito” nel “finito” rappresentato dal Dio umano, ossia Gesù.
E lo studioso menziona al proposito la totale accettazione di tutto questo da parte dei teologi in figure come Jürgen Moltmann e Eberhard Jüngel; specificamente nel contesto di un atto di decostruzione della stessa tradizionale teologia cristiana. Laddove va notato che costoro sono dei teologi protestanti e non cattolici.
Ma aldilà di tutto questo Gamberini viene davvero allo scoperto con la seguente (secondo noi assolutamente scandalosa) affermazione: − “Il teismo classico non è più in grado di dar ragione della presenza di Dio davanti alla scienza: non è più plausibile la fede nei miracoli e tale credenza è qualcosa di mitologico e superstizioso, così come non si è più in grado di conciliare la presenza del male con la fede nella bontà di Dio”. Personalmente ci chiediamo se la negazione dei miracoli non sia una vera e propria negazione del Vangelo stesso, dato che la presenza di Gesù nel mondo è stata costellata continuamente dai miracoli stessi. E sarebbe davvero troppo dover pensare che essi non siano stati atti reali ma invece solo metaforici. Sia qui insomma molto probabilmente di fronte ad una resa incondizionata di quella metafisica religiosa cristiana, che a sua volta un tempo era invece intimamente legata alla Rivelazione (per mezzo delle intuizioni visionarie dei suoi protagonisti) quale contesto per descrivere la natura di Dio ed affermarne l’azione nel mondo.
A questo punto Gamberini precisa che la premessa del post-teismo risiede nei pregevoli approcci “non teistici” o “ana-teistici” di teologi come il vescovo Spong [John Schelby Spong, Why Christianity Must Change or Die: A Bishop Speaks to Believers in Exile (1998); A New Christianity for a New World. Why Traditional Faith is Dying and a New Faith is Being Born (2000)] e Richard Kearney [Richard Kearney, Anatheism. Returning to God after God, Columbia University Press, New York 2010]. Laddove va notato che il primo è di nuovo un protestante ed il secondo è un filosofo della Religione totalmente agnostico.
Posto questo, allo scopo di una radicale riforma della teologia cristiana, egli ritiene indispensabile in primo luogo un colloquio con altre tradizioni religiose per comprendere se Dio sia “personale, impersonale o transpersonale”. E questo è a nostro avviso un altro vergognoso atto di rinuncia alla specifica identità cristiana (che andrebbe sempre mantenuta anche se nel ieno rispetto di altre tradizioni religiose), in quanto essa è incardinata nella natura personale di Dio. Ed è evidente che qui si allude alla presa in considerazione di argomenti di stampo buddhistico del genere di quelli che abbiamo discusso nella sezione precedente. Inoltre Gamberini ritiene indispensabile la rinuncia definitiva alla concezione di un Dio che non includa in sé il creato fin dall’inizio (invece di averlo fuori di sé). Inoltre ritiene indispensabile il superamento di una “visione interventistica e sopra-naturalistica della presenza attiva di Dio nell’universo e in particolare nella storia umana”. Ora, come abbiamo già detto, è del tutto evidente che interpretazioni letterali di Dio come queste non sono per definizione giustificate. Ma per questo non vi era affatto bisogno del post-teismo, che peraltro in definitiva nega la stessa onticità di Dio. La Rivelazione cristiana offre infatti elementi in abbondanza per non soggiacere a tali interpretazioni riduttive; a patto solo che essa non venga intesa in termini volgarmente letterali, ossia unicamente essoterici. E questo crediamo che nessun vero teologo cristiano lo abbia mai fatto. Eppure Gamberini attribuisce questa inaccettabile concezione “mitologica” di Dio non all’interpretazione errata del teologo (o del credente), bensì invece allo stesso linguaggio oggettivo presente nella Bibbia (ossia di fatto quel linguaggio divino che prima abbiamo constatato essere inaccettabile per il post-teismo). Il che comporta poi non una revisione della lettura della Rivelazione, ma invece un suo vero e proprio rigetto. Sta di fatto che proprio da questo rigetto egli si aspetta la definitiva “trasformazione post-teistica della teologia cristiana”.
Questi erano gli elementi decisivi per comprendere la natura ed in senso del post-teismo di Gamberini, ed anche (per la sua intermediazione) dell’intera teologia cristiana attuale. Tutto quello che viene dopo nel suo articolo sono estremamente complesse e sofisticate riflessioni metafisico-teologiche che non possiamo discutere certo in dettaglio perché ci allontanerebbero del nostro tema. Qualcosa su di esse va comunque detto.
Nel suo lungo paragrafo dedicato al Dio da intendere come puro amore (2 p. 398-405) Gamberini si sente obbligato a premettere a quello che è per lui il più autentico intendimento di Dio la messa in discussione dell’intera onto-metafisica tomista incentrata nell’”atto puro” (e nella quale egli include anche Bonaventura e perfino Eckhart). Infatti per lui l’intendimento di Dio come “atto puro” (e quindi come assoluta perfezione ed assoluta attualità non bisognevole di alcuna aggiunta di essere così come di nessuna relazione) istituisce una invalicabile distanza tra Lui stesso e l’uomo inteso come “creatura”, e quindi anche con il mondo stesso. In altre parole in tal modo viene affermato che l’essere dell’uomo e del mondo (in quanto creati) non ha alcuna realtà al di fuori della relazione con Dio in quanto unico atto di essere perfettamente compiuto (ossia davvero primario atto di esistere). E quindi uomo e mondo costituiscono in vero e proprio nulla ontico. È ovvio comunque che per lui si tratta con ciò del teismo fondato unicamente sul Dio Trascendente; che egli intende decisamente rigettare (nonostante con Berdjaev abbiamo visto che, entro un ben inteso Cristianesimo, il Dio trascendente sia assolutamente simultaneo a quello immanente).
Ebbene, secondo Gamberini, sulla base di questo genere di relazione, Dio non può stabilire con l’uomo e il mondo alcun vero rapporto, specie se lo si intende come autenticamente amoroso. Il che è provato, secondo lo studioso, dal fatto che per Tommaso la relazione esistente tra Dio e uomo-mondo non è affatto “reale”. Se infatti lo fosse, “Dio muterebbe nella sua sostanza” (invece di essere assolutamente immutabile, com’è l’”atto puro”), ed inoltre intanto “il mondo aggiungerebbe qualcosa di reale al suo essere”.
Pertanto entro la relazione tra Dio e uomo-mondo (secondo la tradizionale onto-metafisica tomista) non è mai davvero Dio a mutare, ma invece solo l’uomo. Il che di fatto rende inesistente la relazione tra i due termini – specie perché Dio è un essere stabile mentre invece solo l’uomo è un essere dinamico. Entro questo contesto è peraltro per lui spiegabile anche quella assai poco credibile “preghiera di richiesta” che secondo Tommaso non era affatto reale (proprio a causa dell’immutabilità divina), ma era appena un ricordarsi dell’uomo di avere assolutamente bisogno della relazione di Dio per non essere ciò che è, ossia un non-essere. Quindi per Gamberini già in Tommaso con questa preghiera l’uomo per definizione non riceveva un bel nulla da Dio, ossia non riceveva un reale «aiuto divino». Dunque per lui la negazione della preghiera di richiesta è giustificata non solo entro il post-teismo.
Comunque, secondo Gamberini, è urgentemente necessario superare questa complessiva visione per concepire la perfezione divina (ossia l’”atto puro”) come includente pienamente in sé (ed in partenza) una relazione con l’uomo ed il mondo che semplicemente consiste nella rinuncia pregiudiziale di Dio alla propria perfetta compiutezza e quindi all’assenza di qualunque bisogno di aggiunta di essere da parte Sua.
Il che significa che bisognerebbe intendere Dio come un essere unicamente relazionale e non invece staticamente ontico. Gamberini dimentica però di dire che quell’Eckhart che lui condanna (come affermatore di un Dio radicalmente trascendente) afferma proprio la natura sostanzialmente relazionale e dinamica di Dio [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., Prol. 14-17 p. 71-74; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., II, 142-149 p. 231-237; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, I, 5 p. 63-73, IV, 16 p. 153-163]. In ogni caso, secondo lo studioso, bisogna pensare che Dio semplicemente si pone (per propria scelta) in relazione con ciò che in sé non è altro che nulla, ossia l’uomo ed il mondo (specie in quanto radicale alterità rispetto a Lui). Ma per fare questo bisogna pensare che Dio contenga nella sua essenza già in partenza il dinamismo della relazione con l’uomo ed il mondo creati. Insomma è come se questa relazione avvenisse già all’interno di Dio (e soprattutto entro la sua assoluta perfezione) e non invece fuori di Lui. Essa non richiederebbe insomma alcun riversarsi di Dio fuori di sé stesso. Ma, una volta posto questo, c’è da chiedersi cosa si intenda quando si concepisce la Trinità proprio come un flusso d’amore nel quale Dio si riversa fuori di sé stesso.
Ecco quindi delinearsi per Gamberini un “libero atto creativo” di Dio che è già parte del Suo stesso essere (e non invece mero accidente, e quindi per nulla necessario). È da intendersi dunque in questo modo, secondo lui, il fondamentale atto di “auto-determinazione” di Dio nel mondo. E qui egli menziona come punti di riferimento dottrinari i teologi Jüngel e Rahner. Insomma Dio non è propriamente l’Essere per eccellenza, ma invece semmai è Colui che determina il proprio essere nella relazione con ciò che è totalmente «altro» rispetto a Lui stesso. E così andrebbe intesa anche la creazione divina.
In questo consisterebbe dunque per Gamberini l’intendimento di Dio come Amore, e quindi non come Essere statico, ma invece come Essere dinamico e fondamentalmente relazionale. Insomma, egli ne conclude citando di nuovo Jüngel, “Dio è Creatore per amore e in questo senso creatore dal nulla. Questo atto creativo di Dio non è però altro che l’essere di Dio, che come tale è essere che crea”.
Orbene sinceramente ci sfugge totalmente perché, per poter sostenere questo, si debba concepire una teologia post-teista. Infatti, innanzitutto le due dimensioni divine, solo apparentemente in contradizione tra loro (quella statica e quella dinamica), sono entrambe contemplate in una Rivelazione che non venga intesa in maniera supinamente letterale (anche nel contesto di una riflessione propriamente metafisica); ed in secondo luogo, una volta concepito un Dio-Persona in tutta la sua piena onticità (e non invece come mera metafora), la dimensione amoroso-relazionale della creazione è già di per sé assolutamente evidente. Soprattutto se essa si associa ad un intendimento dell’Incarnazione come kenosis. Infatti la dimensione del Dio-Persona corrisponde esattamente a quella del Dio incarnata, e precisamente al Dio incarnato una volta per tutte. E questo Dio-Persona in quanto incarnato per definizione è in relazione con l’uomo e con il mondo. Del resto questo è il nucleo stesso del Cristianesimo (e quindi anche la sua specifica e preziosa identità). Quindi non vediamo assolutamente cosa mai ci sia da riformare in questo. Ma intanto il post-teismo condanna di fatto il concetto di Dio-Persona. E questo è un fatto.
Ed emblematica in tal senso è la riflessione di un grande teologo cattolico come Erich Przywara, il quale non a caso non sentì alcuna esigenza di dare vita ad un post-teismo [Erich Przywara, Analogia entis, Johannes-Verlag, Einsiedeln 1996]. Egli infatti sostenne che non vi è alcuna contraddizione tra “ontica” e “noetica” nella concezione di Dio. Per cui l’affermare che Dio è il paradigma ideale (noetico) e trascendente di ogni oggettualità (cioè l’Idea di cosa nella sua eterna staticità) non comporta alcuna contraddizione con il considerarlo come l’esistente per definizione, ossia il Dio incarnato. E lo stesso vale per la riflessione di Romano Guardini [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, II, 12 p. 166-174, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531, VI, 14 p. 579-585], il quale affermò che lo Spirito divino (entro gli eventi dell’Ascensione al Padre da parte di Gesù) andò di fatto a impregnare di sé il mondo stesso, riproducendo così l’Incarnazione dopo l’evento decisivo della Resurrezione.
Insomma la riflessione cristiana contiene da molto tempo in sé tutti gli elementi per rendere del tutto superflua la pretesa del post-teismo di essere il primo ad aver riconosciuto la natura creativo-relazionale di Dio. Come abbiamo detto questa consapevolezza risale fino ad Eckhart.
Ed allora, considerato tutto questo, non è vero forse che in fondo il post-teismo non consiste in altro che nell’invito (rivolto dal teologo al credente) a non leggere letteralmente la Rivelazione? Sarà insomma che non si tratti solo di questo? Ma se così fosse ciò renderebbe di nuovo del tutto inutile un apparato dottrinario pesantissimo ed ingombrantissimo che forse ha il solo scopo narcisistico di delineare sempre nuovi protagonisti del pensiero teologico. Inoltre non è forse vero che il più semplice credente vive concretamente tutto quello che Gamberini presenta come radicale novità teologica (e peraltro senza alcuna riflessione teologica e metafisica) nel credere fermamente nella propria intima relazione con un Dio assolutamente presente ed amante anche se del tutto invisibile?
E veniamo ora al secondo ed al terzo paragrafo di riflessione teo-metafisica di Gamberini (3-4 p. 406-413) che sono dedicati alla “presenza di Dio come creaturalità”. E qui (di nuovo entro una riflessione onto-metafisica estremamente sofisticata, dettagliata e complessa, che non può ovviamente venire riportata integralmente), lo studioso sostiene sostanzialmente che la presenza divina in quanto volontaria auto-determinazione nel mondo da parte di Dio va intesa come qualcosa che intanto è assolutamente reale (tanto che essa nega frontalmente la trascendenza divina). Eppure però è tale solo in quanto per definizione è costante e ordinaria (nel senso della totale inapparenza), dato che essa non è assolutamente coinvolta negli eventi, ossia nella dimensione spazio-temporale. Cioè nel concreto essa è totalmente invisibile ed intangibile. In particolare essa non si manifesta mai in quella maniera “puntuale” che la renderebbe presenza straordinaria invece che ordinaria. Ed è evidente che il tal modo si sta parlando dell’insostenibilità dell’irruzione del Sovrannaturale divino nel naturale. Infatti pensare questo significa per Gamberini ricadere in una visione “mitologica” (ossia deplorevolmente ingenua) della presenza divina. Infatti è proprio in tale contesto che secondo lui viene concepito quel “miracolo” nel quale il cristiano non ha alcun diritto di credere. Ed evidentemente questo avviene anche nell’«aiuto divino» che ci si aspetta nella preghiera di richiesta.
Possiamo quindi dire che, pur con tutta l’insistenza di Gamberini sulla presenza divina nel mondo come espressione più autentica della Sua stessa natura (e quindi decisa negazione della Sua remota trascendenza, per definizione infinitamente distante dal mondo), egli impiega tutta la cura possibile per evitare che essa venga intesa in modo reale e quindi tangibile.
A questo punto, a fronte dell’impossibilità di comprendere cosa sia nei fatti questa «reale» presenza divina (oltre che rappresentare appena il frutto di una sofisticata ed ambiziosa neo-riflessione teo-metafisica), non resta che pensare che essa non è altro che un’affermazione puramente retorica; che poi non solo è vuota ma è anche non poco cinica. Essa quindi deve venire intesa come una presenza da considerare puramente formale e rituale dal punto di vista religioso. Si tratterebbe insomma di una cosa che c’è e nello stesso tempo non c’è. Ed in pratica ciò significa che Dio (per quanto definito unicamente come amore creativo e perfino come totale immanenza nella realtà “creaturale” alla quale Egli non esita ad abbassarsi) di fatto non è per nulla presente nel mondo. Di certo infatti, una volta ammesso tutto questo, non lo sarà per il credente che, totalmente «gettato» in situazioni esistenziali estreme e senza alcuna via di uscita, non ha altra scelta che credere incondizionatamente nell’Amore divino come presenza sì, ma come presenza davvero tangibile. Non invece come presenza vuota e formale, in quanto vagamente ed incomprensibilmente metafisica.
Ebbene, se questo è il frutto più pregevole del post-teismo per la consapevolezza religiosa (cristiana e non), c’è da chiedersi veramente in cosa consista mai il prodigioso rinnovamento da esso apportato. Esso infatti sottrae al credente perfino il più minuscolo conforto ed appoggio che finora la teologia tradizionale (anche la più irrazionale e superstiziosa) gli aveva comunque procurato. Esso sottrae insomma al credente la fede nella presenza reale di Gesù nella propria vita e nella propria interiorità. E questo significa allora che il post-teismo può essere semmai vantaggioso per il sussiegoso e narcisista professore di teologia, ma non certo per il credente. Proprio per questo esso si rivela in definitiva essere null’altro che una sofisticata ed ambiziosa neo-metafisica (e di certo non meno controproducente di quella che intanto viene demolita senza il minimo scrupolo) che serve semmai appunto ai professori di teologia (e correlati filosofi innamorati del loro protagonismo) come campo per sviluppare a josa teorie sempre più astruse in quanto totalmente distanti dalla realtà (specie da quella di fede). E come tale esso non serve in alcun modo la fede vissuta.
Del resto di tutto questo possiamo comunque avere la prova tangibile nel quinto ed ultimo paragrafo dell’articolo di Gamberini (5 p. 413-417), nel quale il suo discorso viene al dunque sia rispetto alla presenza divina sia anche ai concetti correlati di “persona divina” e perfino di “spirito divino”. Emblematico è il titolo scelto per questo paragrafo: − “Dio come essere ineffabile e transpersonale”. Questa definizione dice infatti già tutto ciò che si deve sapere dell’intendimento post-teista della presenza divina, della persona divina ed anche dello spirito divino.
Del resto lo studioso è qui estremamente esplicito in primo luogo circa la presenza divina. Egli dice infatti che, pur nella sua auto-determinazione mondana, che poi anche “auto-comunicazione” amoroso-relazionale, Dio rimane comunque costantemente “incomprensibile ed ineffabile”. E ciò ha una ricaduta fatale su ciò che si intende come esperienza religiosa in termini appunto di presenza divina. Essa andrebbe infatti intesa unicamente come “esperienza originaria di Dio”, ossia un’esperienza tutt’altro che tangibile, e quindi per nulla una vera esperienza. Con il termine “originario” si intende qui infatti una dimensione del tutto estranea allo spazio-tempo, alla località, alla storia, alle circostanze concrete, all’esistenza; ossia ancora una volta qualcosa di puramente formale e quindi totalmente astratto (se non addirittura irreale).
Quindi essa è meno che mai un’esperienza del divino che possa venire realmente vissuta dall’uomo comune nel bel mezzo della propria esistenza. Il che significa allora che la presenza divina non può né deve venire intesa come “qualcosa che si aggiunge dall’esterno alla nostra creaturalità, come qualcosa di meraviglioso e straordinario”. Essa deve invece venire intesa appunto come “presenza di Dio” che è solo “ineffabile e indicibile”. E ciò ha una ricaduta poi anche sullo stesso concetto di persona divina. La quale per Gamberini andrebbe compresa unicamente come realtà trinitaria; e come tale nel senso di una dimensione “relazionale” di Dio che però si muove ad un livello altissimo e quindi del tutto inafferrabile. Il che significa che, quando noi riteniamo Dio una Persona, intanto “ogni forma di individualità e limitazione Gli deve essere negata”. Qui lo studioso cita dal testo fondamentale del teologo Schoonenberg [P. Schoonenberg, «Gott als Person und Gott als das unpersönlich Göttliche», in G. Oberhammer (ed.), Transzendenzerfahrung, Vollzugshorizont des Heils. Das Problem in indischer und christlicher Tradition, Indological Institute University of Vienna, Wien 1978, 207-234, p. 230-231] ed inoltre nuovamente anche a Rahner e Barth. Insomma (riferendosi addirittura alla dottrina del non-dualismo śankariano) Gamberini dice che si può parlare di persona divina solo nei termini di quella Sua “presenza alla creaturalità” che è amoroso-relazionale ma senza alcuna reale tangibilità. Il che significa quindi che il Dio-Persona è il “tu” al quale noi ci rivolgiamo (nel mentre Egli prende contatto con noi stessi come il proprio “tu”) solo nella misura in cui siamo consapevoli che esso intanto ci trascende totalmente. E ci trascende perché Dio non può assumere alcuna forma determinata, inclusa quella di una persona intesa in termini antropomorfici.
In parole povere Egli non sta affatto davvero in relazione con noi.
Insomma dov’è qui Gesù? In altre parole a nostro avviso vi sono qui i termini di quell’altra dottrina che si associa spesso al post-teismo, ossia quella che larvatamente postula la totale irrealtà dell’umano-divinità di Cristo appunto nella persona umana di Gesù. Il quale non sarebbe stato altro che una figura storica, rispetto alla quale (secondo questa teoria) ha competenza unicamente la ricerca storico-critica. Ma a questo punto, una volta preso atto di ciò che dice Gamberini rispetto alla persona divina (in quanto unicamente trinitaria), c’è da dubitare fortemente anche nella persistente presenza di Gesù nel mondo non più come essere storico ma come Spirito.
Non a caso proprio qui veniamo davvero al dunque nel definire anche come “Spirito” il Dio definito nei modi finora illustrati. Secondo Gamberini Egli infatti è tale proprio in quanto assolutamente non determinabile; e quindi anche come entità di natura unicamente amoroso-relazionale ma solo in termini molto astrattamente metafisici.
Secondo lo studioso ciò esprime esattamente il fatto che lo Spirito “non ha limiti e può diventare tutte le cose”. E qui è davvero lampante la differenza esistente tra questo intendimento dello Spirito e quello che abbiamo visto in Berdjaev; il quale identifica totalmente lo Spirito divino sia con la Persona divina che con la persona umana (senza alcuna differenza ontica tra di essi) ed inoltre attribuisce alla collaborazione tra di essi la totale e fattuale trasfigurazione del mondo. E naturalmente siamo qui distanti anni luce dall’intendimento di Spirito pneumatico che abbiamo illustrato nel nostro già citato articolo sullo Spiritualismo. Quest’ultimo infatti, pur nella sua assoluta inafferrabilità ontica, si rende così tanto presente nel mondo da entrare perfino nella storia stessa (oltre che nell’esistenza personale di ognuno di noi) come una Forza che tutto trasfigura per il fatto che ad essa «nulla è impossibile». E questo poi corrisponde esattamente all’intendimento guardiniano dello Spirito pneumatico come Forza che spinge addirittura verso l’attualizzazione storica del Regno dei Cieli.
In ogni caso (riferendosi al proposito ovviamente ad Agostino) Gamberini approfitta di questa occasione per riaffermare nuovamente l’insostenibilità della postulazione dell’intervento di Dio nel mondo e nell’essere. In particolare si tratta infatti per lui dello Spirito divino che sarebbe presente nella nostra interiorità in maniera unicamente trascendente (dunque di nuovo del tutto non percepibile), e che quindi in generale non è altro che “la presenza silenziosa del mistero di Dio”. Il che, tenuto conto di ciò che egli ha detto finora, significa che questo silenzioso Dio interiore è in verità più che mai assente. Quindi non si può nemmeno lontanamente pensare di entrare in dialogo con Lui.

Ecco dunque co’sè il post-teismo almeno così come ci viene illustrato da Gamberini.
Abbiamo visto che esso è diverse cose, e tutte purtroppo solo negative. È nei fatti un sostanziale anti-teismo e perfino ateismo. È immanentizzazione di Dio specie nel contesto di una vergognosa resa della teologia e della metafisica cristiane alla critica religioso-scientifica alla Religione ed al Cristianesimo stesso. Quindi è una consegna integrale di questi ultimi a quella ricerca scientifico-religiosa che è tendenzialmente in primo luogo agnostica se non atea. Ed è evidente qui il totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, con la conseguente fondazione della ricerca scientifico-religiosa proprio da parte del post-teismo. Il che significa poi che il post-teismo non è affatto (come pretende di essere) una difesa del teismo per la via della scienza della Religione. È invece semmai la consegna del teismo nelle mani rapaci, aggressive e blasfeme di una ricerca scientifico-religiosa che sostanzialmente è anti-teistica ed atea.
E questo l’abbiamo visto chiaramente nella precedente sezione.
Inoltre per la via dell’acritica assunzione di metafisiche religiose aliene (come quella impersonalistica e trans-personalistica) il post-teismo è di fatto rinuncia all’identità cristiana stessa.
È recisa negazione (nonostante le sue stesse affermazioni in tal senso) della relazione esistente tra Soprannaturale divino e naturale. Quindi è spocchiosa negazione scientista della realtà dell’intervento divino nell’esistenza personale e nella storia (con la totale messa in ridicolo di atti religiosi come la “preghiera di richiesta” e la fede nei miracoli).
È proibizione del riferimento alla Rivelazione come ambito in cui sussistano verità fondamentali ed oggettive alle quali il pensatore religioso e cristiano si riferisce nelle sue argomentazioni, conservando intanto il pieno ossequio nella loro oggettività e nel loro paradigmatico valore (e quindi sottomettendosi ad esse invece di farsene interprete privilegiato). Infatti in luogo di tutto ciò il post-teismo sostiene la perfetta liceità di un’interpretazione soggettiva della Rivelazione stessa che ha peraltro un fortissimo sapore protestante. È paradossale al proposito l’affermazione dell’immanenza divina, nel mentre però viene affermata la Sua Trascendenza nel modo più radicale possibile. In modo tale che la presenza divina viene svuotata di qualunque significato e di fatto viene negata anche la realtà personale di Dio. E ciò fino al punto di spazzare via elementi fondamentali della fede cristiana fino a giungere a svuotarla totalmente dei suoi tipici contenuti. Tra questi un intendimento autentico (in quanto fedele alla Rivelazione) dell’Incarnazione divina e perfino dell’impregnazione divina del mondo. Ed a questo punto salta peraltro all’occhio la costante citazione da parte di Gamberini di teologi protestanti (come Barth, Jüngel, Moltmann, Spong ed altri); cosa che poi è abbastanza diffusa nella neo-teologia cattolica animata dalla ricerca scientifico-religiosa.
È un’ulteriore ed estrema complessizzazione della metafisica posta alla base della teologia (proprio nel mentre si ambisce invece a smantellare totalmente la tradizionale metafisica cristiana), in maniera tale da essere anni luce lontana dall’esperienza religiosa vissuta e perfino contraddirla in molti suoi pregevoli aspetti (specie nella postulazione di una tangibile presenza divina). Come tale il post-teismo è di fatto la revisione totale e radicale della teologia e metafisica cristiana in modo che essa venga strappata al credente e venga data invece in pasto ai professori di teologia e di filosofia per la forgia continua ed illimitata di teorie personali il cui unico scopo è l’affermazione del loro protagonismo intellettuale.
Ed oltre a tutto ciò, per di più, una volta ridotto all’osso, il post-teismo si rivela consistere quasi unicamente nell’invito a non prendere alla lettera la Rivelazione. Cosa di cui ogni serio teologo e filosofo religioso era già perfettamente consapevole, senza alcun bisogno che il post-teismo venisse a ricordarglielo.
Posto tutto questo, chi si aspetta dal post-teismo davvero qualcosa di nuovo e ri-vitalizzante nel contesto della dottrina e fede cristiana, dovrebbe pensarci molto bene prima di persistere in questa convinzione.
Insomma, in estrema sintesi, il post-teismo altro non è se non un pesante, ingombrante e pleonastico apparato argomentativo, che, pur essendo del tutto inutile oltre che controproducente, viene ad aggiungersi alla già non poco ingombrante tradizionale metafisica cristiana senza apportare non solo alcun vantaggio ma inoltre anche nuocendo non poco all’esperienza religiosa vissuta.

IV- Pascal
Ed infine confrontiamo tutto quello che abbiamo finora visto con quanto aveva già detto Pascal nel XVII secolo. Ecco cosa egli ha detto nei suoi “Pensieri”: −
“Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all’altro […] Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra si apre in abissi” [Blaise Pascal, I pensieri, Paoline, Milano 1963, 72 p. 67] ”Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista” [ibd. 230 p. 242]; “Parliamo ora secondo i lumi naturali. Se c’è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non possedendo né parti né limiti, non ha nessuna proporzione con noi. Noi dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è, ma anche se è. Ciò posto, chi oserebbe accingersi a risolvere questo problema? […] Chi dunque biasimerà i cristiani di non poter dare ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? […] Esaminiamo allora questo punto e cominciamo col dire: «Dio esiste oppure non esiste». Da che parte ci decideremo? La ragione non può decidere nulla; c’è di mezzo un caos infinito: si giuoca una partita, all’estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su cosa puntate? […] Si ma bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine […] La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro […] Ma la vostra beatitudine?…” [ibd. 232 p. 245-247]; “Esistono tre mezzi per credere: la ragione, l’abitudine e l’ispirazione […] bisogna aprire il proprio intelletto alle prove, fortificarvisi con l’abitudine e soprattutto col sottomettersi umilmente alle ispirazioni” [ibd. 245 p. 257]; “L’esteriore deve essere congiunto all’interiore se si vuole ottenere qualcosa da Dio; vale a dire bisogna mettersi in ginocchio, pregare con le labbra ecc. […] Attendere da questo esteriore il soccorso significa essere superstizioso; non volerlo significa essere superbo” [ibd. 250 p. 259]; “Timore, non quello che viene dal credere in Dio, ma dal dubitar se esiste o no. Il buon timore viene dalla fede, − il falso timore viene dal dubbio. Il buon timore è unito alla speranza in Dio in cui crediamo; − il cattivo timore è unito alla disperazione, perché si teme il Dio nel quale non si crede. Gli uni temono di perderlo, − gli altri di trovarlo” [ibd. 262 p. 264]; “Sottomissione e uso della ragione: in questo consiste il vero Cristianesimo” [ibd. 269 p. 267]; “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. E questa è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione” [ibd. 278 p. 269]; “L’uomo senza la fede non può conoscere né il vero bene né la giustizia […] Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità, di cui adesso non gli resta che il segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle presenti , ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso?” [ibd. 425 p. 327-329]; “Se è un segno di debolezza dimostrare l’esistenza di Dio per mezzo della natura, non disprezzate la Scrittura; se è un segno di forza aver conosciuto questi contrasti apprezzate per questo la Scrittura” [ibd. 428 p- 330]; “Noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è impossibile ogni comunicazione con Dio […] Ma nel medesimo tempo noi conosciamo la nostra miseria, perché Dio non altro che il Riparatore della nostra miseria. Perciò non possiamo ben conoscere Dio senza conoscere le nostre iniquità. Perciò quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la loro miseria non lo hanno glorificato” [ibd. 547 p. 383-384]; “La religione cristiana consiste in due punti, che per gli uomini è tanto importante conoscere quanto è dannoso ignorare; e si deve alla misericordia di Dio l’avere concesso dei segni di quei due punti […] E su questo fondamento essi traggono motivo di bestemmiare la religione cristiana, perché la conoscono male. Immaginano che essa consista semplicemente nell’adorazione di un Dio considerato grande, potente ed eterno; e questo è propriamente il deismo, che è tanto lontano dalla religione cristiana quanto lo è l’ateismo che ne è tutto l’opposto […] Ma pur concludendo quello che vogliono contro il deismo, non ne concluderanno mai nulla contro la religione cristiana, a quale consiste nel mistero del Redentore, che unendo in sé le due nature, la umana e la divina, ha sottratto gli uomini alla corruzione del peccato per riconciliarli con Dio nella sua divina persona [ibd. 556 p. 39].
Insomma Pascal aveva già tematizzato davvero tutto – la necessità del teismo e la sua problematicità in quanto oggettivamente disdicevole (rispetto ad un Dio Trascendente del quale non possiamo sapere nulla); il rischio della fede come decisione e scelta specie a fronte della prospettiva della salvezza; la totale inutilità dell’impiego della Ragione nel decidere circa l’esistenza o inesistenza di Dio; l’importanza fondamentale della dimensione del “cuore” e quindi dell’amore, unita a sua volta alla primarietà di Dio come Cristo, ossia come Redentore.
Ebbene allora il fatto che oggi esista una così ingente ricerca scientifico-religiosa (includente la discussione su teismo, anti-teismo ed ateismo) ed il fatto che essa abbia reso necessario addirittura una del tutto nuova teologia post-teista, sono due fatti che dimostrano che o tutto ciò stato dimenticato (se non cancellato) oppure non è mai stato conosciuto. Infatti i “Pensieri” di Pascal rendono tutto ciò che abbiamo finora illustrato ancora più inutile di quanto sia in sè

Conclusioni.
Vediamo ora di integrare e riassumere tutto ciò che abbiamo visto e detto finora.
Partiamo da un’estrema sintesi di quanto sostiene Berdjaev. Bisogna innanzitutto osservare che egli non si esprime affatto nei termini del teismo classico che viene criticato così aspramente dall’anti-teismo e superato dal post-teismo. Egli infatti deplora (e proprio alla luce della scienza moderna) la naturalizzazione delle verità religiose (specie la cosmologia ingenua e dogmatica dell’antica metafisica); in relazione a questo condanna l’antico teismo medievale (in quanto “spirito angelico” avverso al mondo); ritiene inaccettabile una lettura davvero volgarmente ingenua della presenza di Dio nel mondo; infine auspica un’estrema valorizzazione del mondo (contro ogni Trascendentismo divino) considerandolo peraltro luogo della presenza divina. Tuttavia queste sue affinità con l’anti-teismo cessano non appena entriamo nei particolari. Infatti egli non accetta che il rifiuto della naturalizzazione delle verità religiose si traduca in una svalutazione della dimensione antropologica (come avviene nella condanna post-teista dell’antroporfismo).
E motiva questa sua presa di posizione affermando che il Dio presentato nella Rivelazione cristiana è per definizione antropomorfico proprio in virtù della sua primaria umano-divinità; ritiene inaccettabilmente apofatica una teologia che si opponga all’antroporfismo (e questo è esattamente quanto invece Gamberini auspica in nome del post-teismo); ritiene che la filosofia stessa (essendo primariamente umana) comporti un’”umanizzazione” di Dio stesso; pensa che il classico concetto di creazione divina sia stato insufficiente proprio perché cosmogonico (ossia intellettualista nella sua ingenuità) e non antropogonico (il che significa che la causa dell’ingenuità è l’intellettualismo e non l’antropomorfismo); a causa dell’intima relazione esistente per lui tra persona umano-divina, spirito ed essere, deve susistere necessariamente un Dio-Persona e peraltro in tutta la sua piena onticità; infine (nel contesto dell’umano-divinità) ritiene l’esperienza religiosa come intima relazione con Dio che è “uomo a uomo”.
In ogni caso proprio questa sua insistenza sulla dimensione umana lo porta anche ad affermare in modo forte e concreto la realtà del Dio-Persona. Infatti sostiene che la filosofia, essendo personale (e quindi anche personalista) può e deve stare in relazione solo con un Dio-Persona. E siccome esattamente questo è il Dio presentato nella Rivelazione, la filosofia (che a suo avviso è naturalmente religiosa, condividendo con la Religione la primaria “domanda metafisica”) per lui deve stare necessariamente in relazione con quest’ultima esattamente così com’è per vari motivi: − perchè essa (non essendo affatto pensiero) coglie l’essere stesso, perchè essa coglie per definizione il mistero dell’essere, perché essendo esso stesso universo (microcosmo), l’uomo sta in naturale relazione con il microcosmo.
Egli però nega totalmente alla teologia il compito e diritto di porsi in relazione con la Rivelazione allo stesso modo pensante della filosofia. Perché, così facendo, può solo deformarne i contenuti invece di limitarsi a presentarli. E questo è esattamente quanto accade nel post-teismo.
In ogni caso per lui la Rivelazione assumerà una pienezza storia nell’era dello Spirito (susseguita a quelle antecedenti del Padre e del Figlio) manifestando proprio in tal modo anche la pienezza dell’umano-divinità.
Particolarmente importante è l’accento posto da Berdjaev su una presenza davvero reale e concreta di Dio nel mondo. La fede in tale presenza è secondo lui un tratto tipico del Cristianesimo (così che in sua assenza resta solo l’agnosticismo). Essa di certo si manifesta attraverso la creatività umana, ma alla fine quest’ultima poggia sull’umano-divinità e quindi sull’Incarnazione. Quindi l’uomo impersona esplicitamente e consapevolmente Dio nella sua creatività. E questo non è affatto sostituzione ma è invece diretta manifestazione di Dio proprio perché uomo e Dio sono per lui la stessa identica cosa. Proprio per questo per lui Dio è insieme trascendente e immanente.
Infine c’è da dire che la da lui concepita perfetta identità esistente tra uomo e Dio annulla in partenza tutte le obiezioni (anti-teistiche ed ateistiche) sollevate contro l’esistenza di Dio a causa del male del mondo.
7Da questa base siamo partiti per poi arrivare a trattare della ricerca scientifico-religiosa. E nel contesto di quest’ultima sono emerse le teorie più varie, la maggior parte delle quali non poco astruse, include quelle teiste.
Intanto (nella sezione di questo paragrafo che abbiamo dedicato al panenteismo) abbiamo visto con Bilimoria che le idee e relative entità metafisiche possono restare esattamente come sono (senza alcuna necessità di venire rivedute e corrette) se vengono trattate sul piano della metafisica invece di venire ricondotte alla logica-filosofica ed all’approccio scientifico-empirico.
Tra le questioni emerse in questa sezione abbiamo visto comunque tutto il possibile.
Nel campo anti-teistico ed ateistico abbiamo visto: − la radicale messa in discussione della realtà metafisica della persona umana (Chastain, Schnädelbach, Dworkin, Nagel), con la conseguente negazione di una persona divina e quindi l’abolizione di una vera Religione; la trasformazione della Religione in uno spiritualismo del tutto a-religioso oppure in curiose religioni naturali senza Dio (Breul, Dealeay, Schnädelbach), con la conseguenza della netta negazione di ogni teismo; una teologia addirittura neo-tomista ma scettica che nega la presenza divina nel mondo attraverso il rigetto dell’”intelligent design”; un anti-teismo puramente gnoseologico e neo-cartesiano (Platzer) che ritiene Dio non esistenza ma solo verità, o meglio Principio di verità ma esso stesso sottomesso alla trascendenza del “vero” (e quindi della logica); un anti-teismo incentrato sull’idea buddhista di Dio come Nulla, e che quindi costituisce una davvero astrusa teologia, ossia l’”A/teologia”. Abbiamo anche visto che spesso gli argomenti logico-critici anti-teistici sono basati su meri velenosi pretesti per iniziare una del tutto infondatamente polemiche infamanti Dio.
La tesi più equilibrata in questo ambito è risultata comunque essere quella di Cockayne (a sua volta rifacentesi ad Henry James) secondo la quale sua teismo (fede) che ateismo si basano unicamente sulla volontà e sulla decisione e quindi non possono essere in alcun modo epistemologicamente fondati.
Sul piano pro-teistico abbiamo visto la convergenza con Berdjaev da parte di diversi autori (Dealey, Wierenga, Feinberg) sul tema del rispetto da parte di Dio della libertà umana.
In generale è emerso comunque in questa sezione l’importanza del dubbio per la fede – cosa sulla quale sono d’accordo sia teisti che anti-teisti (Schnädelbach, Nagel, Cockayne). Ed allora, se a questo punto teniamo conto di tutto ciò che Pascal aveva detto già nel XVII secolo, appare evidente che non ci sarebbe stato alcun bisogno di mettere su un apparato di pensiero così pesante come quello che difende teismo, anti-teismo ed ateismo ed alla fine addirittura si organizza in un nuovo paradigma religioso detto “post-teismo”. In Pascal era stata infatti detto tutto ciò che era necessario a tale proposito, e quindi il suo pensiero comprendeva già tutte le prese di posizione qui discusse.
Queste ultime costatazioni ci mostrano quindi che la querelle tra teismo e anti-teismo non è affatto oggettivamente giustificata ed è pertanto unicamente surrettizia, ossia puramente ideologica. Essa è stata dunque voluta e sicuramente per scopi che ci sfuggono. La cosa grave è che però la stessa teologia cristiana (insieme alla Chiesa che la nutre e la sostiene) si è fatta complice si questo progetto tanto scellerato quanto occulto. Deve trattarsi insomma dello spirito anti-cristico che Berdjaev riconosce in tutte le forze storiche che si oppongono alla fede cristiana [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., VI p. 101-116, VIII p. 147-160].

I motivi per ricollegare Edith Stein allo Spiritualismo sono davvero molti. Innanzitutto esso stesso emerge in vari modi nel di lei pensiero. Infatti già dalla lettura delle sue prime opere la sua forte insistenza sulla natura spirituale dell’anima, ed anche dello stesso Io, ci suggerisce che la sua intera visione dell’interiorità umana sia stata sempre dominata dalla primarietà dell’elemento spirituale, e peraltro prima ancora che interferisse in questo in maniera significativa la fede cristiana [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, IIA, 6 p. 169-170, IIB, 1-7 p. 171-196, III, 1 p. 197-206; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 3, 1-4 p. 72-92, II, 1, 2-3 p. 173-216; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23 p. 237-386; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9-11 p. 360-396]. Abbiamo sostenuto questo in alcune nostre passate ricerche, non senza sottolineare che questo tendenziale e già precoce spiritualismo riduce sensibilmente la portata della natura fenomenologico-husserliana del pensiero steiniano, presentandosi quindi come un suo tratto caratteriale ben più di quest’ultima [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima, in: Prospettiva Persona, 95-96 (Gennaio-Giugno), 2016 p. 92-95; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170]. In questa sede avevamo supposto che questo suo spiritualismo fosse di natura platonica. Abbiamo poi sostenuto questo in maniera ancora più sistematica in un saggio (ancora non pubblicato, ma presentato nel nostro blog) che abbiamo dedicato alla natura neoplatonica del pensiero da lei sviluppato nell’ultima fase mistica della sua opera [Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/%5D ed inoltre anche nel nostro tentativo di accostare il suo pensiero a quello di Eckhart [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >]. Tuttavia, però, poco a poco abbiamo dovuto ammettere che questi nostri argomenti erano troppo estremistici per vari motivi.
Il primo motivo è che la stessa Fenomenologia di Husserl era più o meno impregnata di uno Spiritualismo che era sempre stato presente già da Cartesio in poi e si era notevolmente accentuato dopo l’Idealismo tedesco (contenendo peraltro anche alcune tracce di platonismo, sebbene però ridotto a sola teoria della conoscenza). E ciò in Husserl si tradusse in una chiara postulazione dell’Io puro quale “spirituale”, così come anche l’atto intellettuale stesso – di fatto venne da lui considerato spirituale l’Io rivolto (auto-conoscitivamente) verso sé stesso, ossi verso il flusso di vissuti che lo costituisce [Edmund Husserl, Idee per una Fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541]. Il secondo motivo è che il platonismo steiniano esiste in maniera solo molto tendenziale, e cioè né esplicita né voluta. Per cui, se − com’è molto probabile [Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 1 p. 78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 p. 149-155, II, I, V, I p. 174-183; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014 I, III p. 77-87; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236 (p. 219-225; Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017] − a Platone è attribuibile uno Spiritualismo, non è affatto detto che sia stato proprio questo quello professato da Stein. Anzi (ed ecco il terzo motivo) lo Spiritualismo platonico ha sempre avuto i caratteri di un «onto-spiritualismo», ossia di una visione (trascendentista, dualista e molto prossima alla Gnosi) secondo la quale l’unica e vera realtà (quella radicalmente trascendente) è quella spirituale, e lo è in forte conflitto con tutto ciò che è immanente, ossia mondo, materia e corpo [Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255]. Inoltre, propria a causa di queste sue caratteristiche, lo Spiritualismo platonico è stato sempre fortemente imparentato con quello Spiritualismo delle metafisiche religiose orientali che in alcune nostre ricerche abbiamo indicato come «idealismo vedantico» [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164; Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78]. Va però anche detto che tale Spiritualismo si lascia fortemente appaiare anche a quello che poi indicheremo come Spiritualismo pneumatico. Infatti esso ha voluto vedere lo Spirito stesso soprattutto come essenza profonda ed occulta di tutte le cose mondane − “jīvātman” (nucleo essenziale della cosa), parola o “udgïta” (vibrazione acustica profonda e centrale), “prāna” (essenza della funzione sensoriale), “etere”, o “iod” o “ākāśa” (essenza dell’anima incarnata, o cuore, equivalente a sua volta all’evangelico “granello di senape”) [René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, 57 p. 300-304, 69-75 p. 355-396; Chāndogya Upaniṣad, in: Raphael (a cura di), Upaniṣad, Bompiani, Milano 2010, I, I, 1-10, p. 293-295; Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, ibd., IV, IV, 1-3, p. 191-192; Māṇdūkya Upaniṣad, ibd., III, 3, 1-48, p. 1059-1073]. Inoltre questo pensiero ha inteso lo Spirito divino trascendente esattamente come un Pneuma (“vāyu”, o “soffio” o ancora semplicemente “aria”), ossia come una sostanza aerea, mobile, onticamente inconsistente ed inafferrabile, ossia come un vento o meglio ancora come l’aria stessa [Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, in: Raphael, Upaniṣad…cit., III, VII, 1-23 p. 130-137; Chāndogya Upaniṣad, ibd., IV, III, 1-8 p. 418-421; René Guénon, Simboli…cit., 42 p 234-237; René Guénon, L’uomo ed il suo divenire secondo il Vêdanta, Adelphi, Milano 1982, 5 p. 49-52, 8-9 p. 63-72, 18 p. 117-121, 21 p. 135-145]. E peraltro viene anche riconosciuta la sua presenza non solo nel mondo ma perfino entro le funzioni del corpo e dell’anima umani. In Platone potremmo riconoscere qualcosa del genere nell’intendimento dello Spirito come “eros”, ossia come forza ascensiva che eleva materia e corpo verso il mondo trascendente dell’essenze ideali divine [Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136; Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77, II, II, 20 p. 738-749].
Ecco quindi che emerge uno Spiritualismo antico (di tipo prevalentemente orientale, ma anche occidentale) che è caratterizzato da un versante «onto-spiritualista» e da un versante «penumatico». Ma questi due aspetti appaiono piuttosto contraddittori tra loro; dato che il primo pone lo Spirito come solida realtà ontica (sebbene trascendente ed immateriale, ossia ideale) ed il secondo invece lo pone appena come essenza estremamente sottile della realtà, e cioè di fatto come una non-realtà; ossia come una sorta di vuoto pregno di energia (molto prossimo al Nulla) che starebbe nelle profondità abissali di ogni cosa. E ciò corrisponde poi abbastanza bene al simbolismo universale del “cuore” quale autentico centro dell’uomo ed anche del cosmo – è insomma un centro in cui tutto converge, ossia una sorta di centro dei centri.
La contraddizione tra i due intendimenti di Spirito forse però cessa se consideriamo che il primo si interroga sul «dove» si trovi la realtà più autentica in quanto spirituale (se a livello trascendente-ideale oppure immanente-mondana e reale), mentre il secondo si interroga sul «come» è internamente ed ultimamente costituita la realtà spirituale.
Tuttavia sta di fatto che questo genere di Spiritualismo non è mai appartenuto alla tradizione del pensiero moderno (prevalentemente occidentale), il quale più che altro si limitava a identificare lo Spirito con la Ragione umana e anche divina, oltre che con l’Intelletto ed in generale, con l’interiorità e con la coscienza. Quest’ultimo è quindi semmai un «onto-intellettualismo» (secondo il quale il vero essere è quello interiore) ma ancor più precisamente si è sempre trattato di un idealismo fortemente gnoseologistico – entro il quale la questione prevalente era quella della conoscenza («teoria della conoscenza», o Erkenntnistheorie) e non certo invece l’essere o la realtà. Esso insomma non si preoccupava affatto né del luogo (ideale o reale) dove risiedeva la più autentica e piena realtà, né della possibile costituzione metafisica più intima, e cioè spirituale (ossia immateriale) della realtà stessa. Entro questa visione, quindi, lo Spirito viene invocato solo a fini conoscitivi.
Ebbene molto probabilmente proprio questo è stato lo Spiritualismo al quale si è costantemente rifatta Stein. Infatti mediamente è proprio questo che ritroviamo nel suo pensiero. Eppure però vi sono comunque piuttosto sorprendenti suggestioni che lasciano pensare ad una sua sottostante visione ben più ampia e profonda dello Spiritualismo. Se ne può avere il sentore sia esaminando le idee che ella ebbe in comune con Gerda Walther – la quale professò uno Spiritualismo davvero estremo che addirittura sconfinava nello spiritismo [Vincenzo Nuzzo, “La filosofia religiosa di Gerda Walther e di Edith Stein”, Prospettiva Persona, 103, 2018, 49-52]−, sia esaminando le idee che ella condivise con Hedwig Conrad-Martius – dalla quale attinse il materiale di quei “Metaphysische Gespräche” che furono di così decisiva importanza nella sua opera [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018; Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < Vincenzo Nuzzo, L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein. | cielo e terra (wordpress.com)>] –, sia infine tenendo conto anche delle possibili assonanze giudaico-esoteriche della sua complessiva visione metafisico-religiosa e soprattutto della concezione dell’anima spirituale [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95]. Ma l’argomento più convincente per sospettare in lei questo genere di Spiritualismo è certamente quello delle sue stesse argomentazioni, riflessioni e menzioni di elementi metafisici di tipo spiritualista.
Entro i suoi testi vi sono sostanzialmente due luoghi dottrinari che giustificano questo. Il primo luogo dottrinario compare nel testo “Der Aufbau der menschlichen Person” (AMP), e consiste nella sua decisa scelta del significato di “spiritus” per concepire ciò che è Spirito, in radicale alternativa con gli altri significati rappresentati da “mens”, “intellectus” e “ratio” [Edith Stein, Der Aufbau …cit., V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129]. Laddove ella chiarisce che lo Spirito in quanto “spiritus“ non è altro che il “Pneuma“ divino della tradizione cristiana ed anche il “Ruah“ della tradizione ebraica (equivalente pienamente al “vāyu“ in quanto “soffio“ o “alito“); elementi che compaiono entrambi nel Genesi per indicare lo Spirito divino come quel sottilissimo e mobilissimo elemento aereo che ha il potere di andare «dove vuole». E come vediamo qui ella fuoriesce molto decisamente dal moderno Spiritualismo filosofico-gnoseologista ed «onto-intellettualista».
Il secondo luogo dottrinario compare verso la fine della seconda parte del suo “Endliches und ewiges Sein” (EES) e consiste nel concetto paolino di “Soma pneumatikon”, ossia di fatto la corporalità spirituale [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9 p. 387-389]. Orbene rispetto a tutto ciò diviene di nuovo estremamente prossima la riflessione esoterico-religiosa giudaica, dato che Stein stessa non esitò a menzionare il termine ebraico per il Pneuma, e cioè “Ruah”. Termine e concetto che si ritrova poi sia nella riflessione ebraica più ortodossa, come in quella di Maimonide [Mosè Maimonide, Il libro dei perplessi, UTET, Torino 2009, II,XXX, 244,20-252,15 p. 431-443], sia in quella più eterodossa di natura cabbalistica [James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, 72-86 p. 99-100]. Ma oltre a ciò in particolare il concetto di “Soma pneumatikon” ci approssima in modo straordinario alle caratteristiche dello Spirito pneumatico che poi illustreremo più iin dettaglio grazie a Guardini.
Insomma al cospetto di tutti questi elementi si potrebbe ben pensare che Stein abbia professato una sorta di secondo Spiritualismo (incentrato soprattutto nelle realtà spirituali superiori, o “spiriti puri”, ed inoltre nello Spirito visto soprattutto come Vita divina, e peraltro nel suo significato chiaramente pneumatico).
Eppure questa visione spiritualista ha sempre giocato un ruolo soltanto di secondo piano nel suo complessivo pensiero. Il che è davvero sorprendente, come poi vedremo più approfonditamente nelle conclusioni.
In ogni caso (sia in generale sia rispetto al pensiero steiniano) le cose divengono piuttosto chiare solo quando ci si confronta con il moderno Spiritualismo che è strettamente intrecciato a quel Personalismo del quale Stein è stata senz’altro una dei principali esponenti. È insomma quello che abbiamo constatato nel riflettere sul materiale che ha dato vita al nostro recente saggio sullo Spiritualismo. Questo saggio non è stato pubblicato ma ne abbiamo presentato un’ampia sintesi nel nostro blog [Vincenzo Nuzzo, “Riassunto del saggio dell’autore dal titolo ‘Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo’”. In: Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”. | cielo e terra (wordpress.com)]. Qui ci si confronta infatti con uno Spiritualismo moderno che ha senz’altro molti volti, ma certamente non coincide né con l’«onto-spiritualismo» platonico-gnostico e vedantico né con quel generico Spiritualismo (che si approssima addirittura ad un certo spiritismo) per il fatto di concepire una serie di entità spirituali sovrannaturali delle quali gli “spiriti puri” angelici rappresentano certamente il livello più alto. Anche questo è una sorta di Spiritualismo, e peraltro Stein stessa se ne occupò sia nelle riflessioni che ebbe in comune con Conrad-Martius sia anche nelle sue ponderose traduzioni dei testi di Tommaso di Aquino [Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 1. Übersetzung III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008 II p. 43-98, IV p. 118-134, VIII p. 191-242, X p. 259-306; Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 2. Übersetzung III, ESGA 24, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, XXII p. 568-612]. Tuttavia questo Spiritualismo si pone molto poco la questione di cosa sia lo Spirito (in assoluto ed oggettivamente), e quindi appena si limita a prendere atto del fatto che nell’universo esistono delle entità spirituali. In ogni caso va detto che comunque Stein si servì non poco di questa dottrina nel sostenere che la persona umana è anch’esse spirito in maniera molto simile a queste entità (specie agli spiriti angelici) [Edith Stein, Excursus sull’idealismo trascendentale, in: Edith Stein, Potenza… cit., g, p. 367-369; Edith Stein, Potenza… cit., p. 387-389; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9-11 p. 360-396]. Quello che è certo è che questo complessivo Spiritualismo fu dottrinariamente molto estremo come invece quello personalista non fu affatto (a parte forse in Guardini). Va tuttavia anche precisato che lo Spiritualismo legato intimamente al Personalismo non si negò ad un unico elemento dello Spiritualismo più estremo, e cioè all’identificazione (spesso strettissima) tra Dio e Spirito. E questo senz’altro accadde anche in Stein.

Ebbene nello scenario di questo Spiritualismo personalista domina senz’altro la visione di Nikolaj Berdjaev.
Secondo il quale al Dio in quanto Essere ed in quanto Spirito corrisponde perfettamente l’uomo in quanto persona ed anche quale entità sostanzialmente spirituale; dunque per lui il Dio-Spirito equivale all’Essere nella sua più radicale originarietà. Il suo è senz’altro (almeno in questo senso) lo Spiritualismo più estremista che ritroviamo in tale contesto di pensiero. Lo è però in quanto (almeno in una certa misura) è «onto-spiritualista», dato che identifica il Dio-Spirito con l’Essere stesso. Vi è però (come vedremo) anche un altro Spiritualismo estremista nel contesto del pensiero personalista, ed è quello di Romano Guardini.
Il quale sostiene invece che il Dio-Spirito è l’esatto contrario dell’Essere, cioè è il Pneuma.
Nell’universo personalista vi sono però anche spiritualismi ben più moderati.
Ebbene esamineremo in questo articolo in maniera sistematica tutte queste visioni spiritualiste per mezzo di un’analisi testuale che costantemente terrà presente lo Spiritualismo steiniano come primario termine di confronto. Per una trattazione completa dell’intero panorama di pensiero qui implicato rimandiamo ovviamente al nostro saggio, dato che comunque in questo articolo considereremo solo alcuni pensatori personalisti. In particolare prenderemo in considerazione Berdjaev, Guardini, Maine de Biran e Mounier. Siamo consapevoli che lo scenario dello Spiritualismo non può essere affatto esaurito nel trattare questi autori; e tuttavia, data l’importanza decisiva (già giustificata) che ha lo Spiritualismo personalista, ci sembra che per il momento sia sufficiente questo. Per esempio va fatto notare che in questa nostra indagine c’è un grande assente, e cioè Blondel, ossia il massimo teorico dell’intendimento azionistico dello Spirito. Ed un altro grande assente in questa trattazione sarà anche Bergson (senz’altro esponente di uno Spiritualismo estremamente moderno e quindi vitalistico-materialistico). Ebbene, il motivo di tale assenza è semplicemente il fatto che non abbiamo letto un numero sufficiente di testi di questi autori. Intanto, comunque, è nostra norma trattare solo degli autori dei quali abbiamo letto e meditato i testi in modo ampio e profondo. Comunque vedremo delinearsi la presenza di questi pensatori entro la discussione del pensiero di Mounier.
Nel corso della nostra trattazione accenneremo soltanto molto brevemente alla possibile portata spiritualistica della visione metafisico-religiosa di Eckhart (ma senza poterci in alcun modo approfondire nella sua discussione). Per la precisione va detto però che egli concepì soprattutto un fortissimo «onto-intellettualismo», secondo il quale il Dio-Spirito è in primo luogo una suprema sostanza intellettuale (e tuttavia una sostanza assolutamente non ontica, e quindi molto prossima al concetto di Spirito pneumatico). Non a caso il suo Dio-Intelletto è decisamente apofatico. Ovviamente, a causa di tutto ciò, questo «onto-intellettualismo» non può coincidere in alcun modo a quello che abbiamo riconosciuto nel convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico.
Aggiungeremo comunque (con Steinhart) anche una del tutto moderna riflessione sullo Spirito in modo da poter comprendere alla fine in che modo questa lunghissima tradizione di pensiero si sia tradotta oggi in una riflessione sostanzialmente riduzionistica e di vedute anche estremamente ristrette
In ogni caso va detto in partenza che lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più moderato, pragmatico e meno estremista. Ma comunque esso ha un’estrema importanza storica dato che il pensatore francese dedicò tutte le sue energie a quella rivista “Esprít” nella quale di fatto lo Spiritualismo moderno trovò la sede privilegiata della sua esposizione (dato che alla rivista presero parti attiva pensatori insieme personalisti e spiritualisti, come in particolare Lavelle e Le Senne).
E con ciò risulta chiaro che nel corso della nostra investigazione vedremo chiaramente che la concezione dello Spirito si allontana gradualmente dalla più radicale Trascendenza e contro-razionalità per divenire sempre più immanentistica e razionalista. Anzi forse possiamo considerare Berdjaev e Guardini come ricadenti in una sorta prima parte (o primo versante) della concezione dello Spirito, ed invece Maine de Biran e Mounier come ricadenti decisamente nella sua seconda parte (o secondo versante). Steinhart si pone poi decisamente fuori di entrambe le parti del moderno Spiritualismo.
In conclusione va da sé che qui stiamo trattando unicamente di uno Spiritualismo moderno assolutamente non convenzionale, dato che esso molto spesso si sovrappone (fino a cancellarla) a quella visione solo vagamente e tiepidamente spiritualista che intanto (senza assumere alcuna forma personalista) aveva vissuto e prosperato entro il pensiero moderno (da Cartesio in poi).
E veniamo quindi all’analisi testuale dei vari autori

I- Nikolaj Berdjaev
Lo Spiritualismo di questo autore si lascia riconoscere ed analizzare per mezzo di tre tra le sue opere: −
“Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO), “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (SC)
In generale Berdjaev sostiene che l’Io è spirito nella misura in cui è persona. Il che significa che è trascendente non solo rispetto al mondo, ma in particolare rispetto a quell’irreale mondo che si costituisce per via filosofico-gnoseologica specie per mezzo di quel ricorso all’universale (come norma assoluta) che obiettiva qualunque realtà ideale (rendendola così solo apparente mondana e quindi esistente) al solo scopo di renderla rigorosamente conoscibile. In altre parole l’obiettivazione in nome dell’universale ricostituisce un mondo di soli oggetti conoscibili, e non invece il reale mondo degli esistenti.
Ma intanto per lui l’Io in quanto persona non può sottomettersi a questa dimensione oggettivo-oggettuale senza perdere la propria natura spirituale. Dato che, se ciò accade, esso risulterà separata invalicabilmente dagli oggetti (conosciuti e conoscibili, ossia intelligibili) con la conseguenza principale di perdere la sua possibilità di comunicazione con le entità spirituali che le sono affini, ossia gli altri Io in quanto persone. Oltre a ciò l’Io in quanto persona perderà in tal modo uno dei suoi caratteri ontici primari, e cioè quella sua trascendenza rispetto al mondo che fa di esso qualcosa di radicalmente diverso da una cosa. Trascendenza che poi risale addirittura all’equivalenza assoluta che esiste tra persona umana ed essere in quanto creativo, e quindi radicalmente originario.
Ecco allora che lo Spiritualismo di Berdjaev si lascia in tale complesso comprendere in primo luogo nei termini della trascendenza dell’Io personale-spirituale rispetto a qualunque oggettività-oggettualità mondana. Orbene (come abbiamo già detto) l’equivalenza da lui istituita tra persona, essere e spirito (in particolare divino) fa sì che qui si possa ritrovare una certa dose di «onto-spiritualismo» − specie nel senso che lo spirito personale equivale all’essere per eccellenza. Tuttavia Berdjaev non scade però mai da questa convinzione nel tipico dualismo trascendentista (di stampo platonico) che caratterizza il vero «onto-spiritualismo», secondo l’idea che l’unica realtà sarebbe quella trascendente ossia essenziale-ideale.
Anzi al contrario egli si esprime decisamente contro qualunque dualismo spirito-carne, ed in questo è decisamente anti-platonico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43].
Naturalmente comunque risulta evidente che egli è totalmente avverso ad uno Spiritualismo in qualunque modo e misura assimilabile all’intellettualismo gnoseologistico. Egli infatti non concede alcun potere né alcun diritto all’universale come istanza dirimente di obiettivazione delle entità astratto-ideali, anzi si oppone radicalmente a questa visione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-122, III, 2 p. 143-147, III, 3 p. 148-162, V, 2-3 p. 221-249; Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI-XII p. 323-349]. In particolare egli rimprovera all’universalismo gnoseologistico l’impossibilità che da esso possa scaturire una vera e propria “comunione spirituale” tra persone a loro volta spirituali, ossia una società autentica ed intesa secondo il lemma primario dell’amore unitivo (e peraltro autenticamente cristiana). Insomma per lui la prospettiva unicamente gnoseologistica (che è introdotta dal ricorso all’universale) impedisce quella dimensione comunitario-spirituale della società che prevede per davvero una relazione tra “io” e “tu”, ed inoltre rende impossibile qualunque individualismo egocentrista.
E tutto questo quindi pone il suo Spiritualismo decisamente in conflitto con quello steiniano, entro il quale per varie vie la dimensione spirituale coincide invece esattamente con quella intellettualistico-gnoseologistica – essa si incentra soprattutto nell’atto sostanzialmente intellettuale (sebbene dalla valenza vagamente spirituale) per mezzo del quale l’Io rivolto a sé stesso (cioè ai propri vissuti) assume il pieno possesso di sé stesso [Edith Stein, Der Aufbau… cit., VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza… cit., V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches… cit., V, 5, 1 p. 239-241 ,VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2-4 p. 362-374]. E va detto che questo approccio finì per permanere anche laddove la sua riflessione investì dimensioni decisamente metafisico-religiose, teologiche (ed in parte ultra-filosofiche) come quelle relative all’«Io sono» biblico, al Logos cristico ed alla dinamica trinitarie. Si tratta insomma di quella seconda parte di EES entro la quale ella di fatto si stava apprestando a passare alla filosofia alla mistica. In altre parole il suo Spiritualismo non riuscì mai a liberarsi dell’ipoteca filosofico-gnoseologistica (il cui interesse primario era la teoria della conoscenza) che la Fenomenologia husserliana aveva gettato sul suo pensiero.
Ma vediamo se in Berdjaev a livello testuale esistono ulteriori elementi che siano a supporto di queste nostre affermazioni e permettano anche di allargarle.
Iniziamo da DIWO. Un aspetto particolare delle sue riflessioni al proposito è quello che riguarda la società in quanto “comunione spirituale” e quindi comunione di persone [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. Qui egli chiarisce infatti che il tendere verso la comunione implica l’uscita da sé stesso dell’Io (apertura) per andare verso l’altro, per cui alla fine ciò comporta l’unione perfetta tra le persone spirituali. Ma ciò avviene puramente sul piano dell’esistenza e non invece della gnoseologia, quindi è totalmente indipendente dal rapporto tra universale e particolare. Peraltro in SC Berdjaev chiarisce che in una comunità di vere persone (com’è quella che dovrebbe insorgere in una società cristiana), ossia una vera comunione spirituale, tutto ciò che è universale è anche cosmico, e quindi non prevede alcuna separazione di oggettualità in forza dell’universale, ma invece solo una perfetta unione che corrisponde alla Totalità dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 323-326]. In ogni caso tutto ciò parte solo dall’interiore, non avendo invece nulla a che fare con la dimensione esteriore della società, cioè scaturisce solo da quel «dentro» umano dove c’è Dio. Quindi la comunione non insorge affatto senza la presenza simultanea di Dio.
Più precisamente essa si compie a partire dallo spirito, e precisamente dallo Spirito divino. E con ciò avviene una vera e propria unione degli opposti. E quest’ultima non è altro se non quella dimensione ontica (la “coincidentia oppositorum”) che Nicola Cusano aveva inteso come raggiungimento di un altissimo livello sia conoscitivo che ontologico, dato che esso sta ormai ben aldilà della logica così come anche ben aldilà di qualunque separazione naturale tra individualità cosali e personali; ossia si trova di fatto ben oltre il principio logico di contraddizione [Nicola Cusano, La dotta ignoranza, Fabbri, Milano 1996, I, X p. 73-75].
Quindi per Berdjaev la vera dimensione sociale è solo religiosa e per nulla invece conoscitiva (non è insomma affatto una comunità del sapere). E ciò sottolinea la perfetta equivalenza tra persona umana e spirito divino, ossia l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ciò significa allora che il suo Spiritualismo è decisamente religioso in quanto si incentra su questo fondamentale elemento.
Su questa base appare evidente che egli identifica lo Spirito con il soggetto personale (umano o divino che sia). Il che lo porta poi a contestare qualunque idea di “spirito oggettivo” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Ma sta di fatto che Stein (insieme ad Husserl e senz’altro sulla scorta di Hegel) concepì fortemente lo spirito in questo modo [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4 p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127; Edith Stein, Psicologia…cit., II, I, 2 p. 182-184; Edith Stein, Potenza…cit., II, 1-3 p. 72-90]. In particolare però Berdjaev si astiene da qualunque affermazione dell’astrazione dello spirito soggettivo, ed infatti sottolinea qui la carnalità e concretezza dello spirito personale. Questo significa allora che il suo Spiritualismo non si nega affatto all’ammissione dello spirito oggettivo allo scopo di affermare la trascendenza dello Spirito in termini astratti. E quindi esso non è assolutamente trascendentista in questo senso. Anzi si pone come intendimento decisamente concreto dello Spirito; sebbene però nel contesto di un intendimento senz’altro interiore e non esteriore dello Spirito stesso.
Per contro egli deplora il soggettivismo sicuramente deteriore (corrispondente all’individualismo che sicuramente per lui deriva dall’Idealismo). Infatti precisa che esso insorge quando l’universale viene contrapposto al particolare-individuale nel contesto di quell’oggettivazione della quale abbiamo già parlato. Essa consiste in particolare nel trasformare in oggetto ciò che invece non lo è affatto, ossia quell’Io che è appunto spirito.
E questo sottolinea quindi che il suo Spiritualismo non solo è religioso, ma intanto non manca di affiancarsi esso stesso non poco al tradizionale Spiritualismo del pensiero moderno, secondo il quale l’interiore umano è spirituale. Tuttavia non lo fa fino al punto da considerare l’universale (di significato gnoseologistico) come la dimensione alla quale l’interiore umano debba sottomettersi per poter essere spirito. E questo previene decisamente il configurarsi di uno Spirito oggettivo in quanto esteriore, e cioè di fatto quell’edificio della Cultura umana che Husserl e Stein intesero come la forma più tangibile e concreta dello Spirito stesso. Laddove poi la Cultura umana corrisponde all’universale stesso una volta obiettivato in forma di conoscenza. Si tratta infatti in primo luogo della veridicità inter-soggettiva del conoscere, e quindi della sua affidabilità scientifica.
Dunque per Berdjaev in via di principio lo spirito resta sempre solo il soggetto stesso, e tuttavia lo è in modo radicalmente diverso da quanto previsto dalla gnoseologia. Perché lo Spirito per definizione è tutt’altro che un oggetto (a causa della propria trascendenza). Semmai invece l’oggettivo-oggettuale stesso riceve il suo senso unicamente nello Spirito, ossia entro la dimensione spirituale individuale e soggettiva e non invece universale-oggettiva. Ciò significa che l’Io è Spirito totalmente di per sé (in quanto interiore umano tout court) e non invece in forza della sua sottomissione ad un paradossale Io universale impersonale com’è l’Io puro di Husserl [Angela Ales Bello, L’universo nella coscienza, ETS Pisa 2003, 1, 2-4 p. 130-139] ed in parte anche di Stein. In altre parole l’Io è da considerare Spirito senza alcuna necessità che esso venga oggettivato in alcun modo e ed in alcuna misura. E quindi la sua conoscenza resta affidabile anche se essa resta puramente soggettiva, e quindi senza mai divenire oggettiva.
Fu esattamente questa convinzione che portò Berdjaev a considerare la filosofia un’opera unicamente soggettiva, e quindi basata pienamente sull’intuizione soggettuale senza sottomissione ad alcuna oggettualità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1-2 p. 11-48]. La filosofia infatti per lui tutto può essere tranne che scientifica. Proprio per questo essa prevede non solo un filosofo che in primo luogo sia un esistente-vivente e poi prevede anche necessariamente una filosofia dell’esistenza che sia insieme anche filosofia dell’essere. Ecco allora che lo Spiritualismo moderno non convenzionale in qualche modo (almeno in Berdjaev) si oppone decisamente all’intendimento della Filosofia come scientifica, per avvalorare invece la filosofia dell’esistenza e dell’essere.
Ma passiamo ora a SC.
Qui innanzitutto Berdjaev chiarisce che l’onticità dello Spirito consiste esattamente nell’illimitata creatività libera che caratterizza l’essere, e che si manifesta in una incessante generazione del nuovo che è poi continuo incremento dell’essere stesso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 182-185]. Il che poi, dal lato dell’agire della persona umana, corrisponde ad una volontà illimitatamente libera che equivale a sua volta alla creatività stessa. Ebbene, proprio a causa di tutte queste caratteristiche, la persona è spirito: dato che lo Spirito è esattamente l’essere nella sua creatività illimitata. Ci troviamo insomma nuovamente di fronte da una certa dose di «onto-spiritualismo». Ma solo non nel senso che la vera realtà sia quella spirituale-trascendente (peraltro fortemente statica) bensì nel senso che lo Spirito non è altro che l’essere nella sua illimitata creatività e quindi nel suo illimitato dinamismo. Il che fonda uno Spiritualismo che prende certamente l’essere originario a suo paradigma, ma non nel senso della stasi bensì nel senso dell’illimitato dinamismo.
In questa sede innanzitutto Berdjaev deplora che lo Spiritualismo possa basarsi su un radicale dualismo spirito-carne; il quale deve invece venire ammesso senza alcuna aspirazione a risolverlo né senza alcuna aspirazione a vederlo come un’opposizione inconciliabile [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Rrefazione, p. VII-IX (Adriano Dell’Asta); Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8]. Questa presunzione (apparsa secondo lui nel Cristianesimo sulla scorta dell’antico dualismo spirito-materia della metafisica greca, e che peraltro è sempre stato fortemente platonico) rende impossibile concepire quella carnalità, mondanità e concretezza dello Spirito che si manifesta nella persona umana. E pertanto fa dello Spiritualismo una dottrina metafisico-religiosa totalmente astratta che non ha poi alcuna utilità nella vita mondana, e quindi perde per questo qualunque interesse. Infatti (come poi vedremo nelle conclusioni) se lo Spiritualismo ha una sua validità (ed in tutte le sue forme, sia antiche che moderne), ciò accade solo perché esso diviene una dottrina utile alla prassi umana nel mondo.

Più precisamente (specie nella sua forma più religiosa) essa ci serve per tener continuamente presenti quelle fonti inesauribili dell’essere la cui disponibilità ci permette di non lasciarci schiacciare dalla spietata esteriorità mondana, dominata com’è da quelle Leggi della Natura che non hanno nulla di spirituale.
È esattamente in questo senso che si può (e secondo noi anche si deve) professare una fede cristiana che non abbandoni mai la certezza che lo Spirito ci soccorre continuamente nel nostro esistere; e specialmente nei suoi momenti più duri e difficili. Bisogna dire che oggi però questa non è affatto la fede cristiana che viene usualmente insegnata e praticata. Essa è invece semmai di segno diametralmente opposto, e quindi è decisamente anti-spiritualista, materialista ed immanentista (fino ad essere perfino decisamente atea).

A completamento di queste riflessioni Berdjaev però condanna decisamente quel monismo assoluto che egli vede rappresentato tipicamente in Plotino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43], ma che certamente (diremmo) si era manifestato molto prima nel famoso non-dualismo di Śankara – nel presupporre la totale interiorità dell’essere mondano all’Uno divino trascendente [Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì 2007, I, II, p. 138-162]. Infatti per il filosofo russo la persona, in quanto molteplicità (ed anche unità di per sé) è in decisa competizione con l’Uno assoluto neoplatonico (ed ovviamente anche śankariano). Egli condanna così il monismo platonico affermando la necessità assoluta del dualismo (spirito-carne) della persona. Ma afferma anche la necessità di un monismo che sia relativo in quanto compatibile con il dualismo nel contesto della postulazione della divinità del mondo (monismo divino).
Inoltre in questa sede Berdjaev distingue inoltre molto opportunamente lo Spiritualismo autenticamente filosofico-metafisico e metafisico-religioso da quello della moderna teosofia, che poi si appaia pure all’ancora più deteriore moderno spiritismo (ossia quello di dottrine arbitrarie, superstiziose ed anche pericolose come quella di Alain Kardec). Egli sottolinea infatti che lo Spirito è in primo luogo unità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-361]. Ma sta di fatto che la moderna teosofia (specie quella paradossalmente evoluzionistica di Rudolf Steiner) scompone l’unità dello spirito umano nella serie di gradi di una fantasiosa evoluzione planetaria, ed inoltre nega così l’esistere di un Uomo prototipico divino quale radice originaria della spiritualità umano-personale stessa, ossia quel Logos cristico (quale Umanità originaria) che è poi ciò che fonda la stessa umano-divinità. A ciò si associa poi lo spiritismo più volgare e superstizioso che abbiamo appena menzionato (quello, per intenderci, che ipotizza addirittura una Rivelazione cristiana che avvenga ad opera degli spiriti dei morti che si presentano ai medium) nel suo scomporre l’unità spirituale umana in una serie di realtà elementari, come ad esempio il corpo astrale.
A tutto ciò si aggiungono poi gli elementi desumibili dai suo commento alla visione di Dostoevskij (SC), il quale colse la natura dello Spirito in modo davvero originale ed estremamente intenso.
Lo scrittore russo vide infatti lo Spirito nella stessa profondità dell’uomo e precisamente nella forma di un abisso turbinoso ed infuocato (di natura decisamente dionisiaca) entro il quale tutto è davvero possibile nel contesto di una creatività libera davvero senza limiti [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., I, p. 8-25, I p. 32-35, I p. 40-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-81, V p. 85-93, VI p. 104-109, VIII p. 160-166]. Lo Spirito è dunque per davvero il luogo nel quale ha sede l’illimitata possibilità della trasfigurazione dell’essere. Il che significa che lo Spiritualismo più autentico deve tenere conto esattamente di questa dimensione come assolutamente fondamentale.
Fu su questa base che non a caso Dostoevskij intuì infallibilmente non solo la rivoluzione russa ma anche quella universale, che è poi rivoluzione dello spirito ed apocalittica, e quindi si verifica per definizione solo alla fine dei tempi, cioè nel momento in cui può avvenire la davvero totale trasfigurazione dell’essere.
Ciò significa allora che l’onto-spiritualità è fondamentalmente dinamismo creativo e nient’altro. E se esso non viene inteso in questo modo, allora è molto probabile che sia inautentico e spurio.
Tanto è vero che Dostoevskij intuì l’evento della Rivoluzione proprio nelle profondità non solo dello spirito umano ma anche dello spirito in assoluto. Non a caso (come abbiamo visto) Platone vide nello spirito esattamente la profondità nucleare e centrale dell’intero essere (vedi voce bibliografica: Friedländer), e quindi vide anche lui in esso quel nucleo dal quale procede qualunque totale trasfigurazione dell’essere.
Peraltro in SC Dostoevskij aveva chiarito che la vera rivoluzione (quella che davvero trasfigura l’essere) avviene solo nel profondo (ossia sul piano delle premesse dell’essere) e non sul piano dell’esteriorità superficiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339].
Ecco. Questo è quanto possiamo comprendere della concezione dello spirito secondo Berdjaev. Ne risulta chiaramente che dal suo punto di vista lo Spiritualismo va concepito senz’altro sul piano radicalmente ed oggettivamente ontico, ma anche in una perfetta coincidenza tra l’onticità spirituale umana e quella divina, che poi corrisponde all’essere stesso. Sicuramente si tratta con ciò di uno Spiritualismo molto estremo nel contesto del pensiero moderno, e peraltro in esso non si trova quasi alcuna traccia dei tratti del classico e connvenzionale Spiritualismo moderno (che peraltro si presenta anche nel Personalismo), e cioè soprattutto l’identificazione dello Spirito con la Ragione umana e divina e con l’interiorità egoica e mentale. È evidente che quindi che lo Spiritualismo di Berdjaev entra decisamente in conflitto con quello steiniano.

II- Romano Guardini
Qui ci riferiremo soprattutto al suo libro “Der Herr” (DH), mentre ulteriori sue riflessioni sullo Spirito si ritrovano anche in “Welt und Person” (WP) – dato che in questo testo egli tenta di giustificare la spiritualità che caratterizza la persona umana. Ma per questo rimandiamo al nostro saggio sul Personalismo.
L’idea guardiniana di Spirito può quindi venire soprattutto constatata laddove (in DH) egli ci parla dello Spirito divino, ossia del Logos cristico, ovvero Colui che egli ci mostra nella forma del Signore dell’Essere.
E questo rende ovviamente (almeno in via di principio e piuttosto superficialmente) il suo Spiritualismo abbastanza simile a quello di Stein. Vedremo però che nei fatti le cose non stanno affatto così.
Anche per lui, così come per Berdjaev, spirito umano e Spirito divino sono la stessa cosa in grazia del dono della somiglianza fatto da Dio all’uomo [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89, III, 4 p. 104-107]. Emerge però intanto un’importante distinzione entro lo Spiritualismo propriamente cristiano. Perché qui si sottolinea che la somiglianza uomo-Dio sussiste rispetto al Logos, e non invece rispetto all’Atto puro della classica metafisica teologica scolastico-tomista. Infatti in maniera molto simile ad Eckhart – il quale affermò che Dio non è un “filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 49-59; Meister Eckhart, Predica 5 (Q 22), ibd., p. 63-79] −, Guardini rifiutò ogni enticismo naturalista nella concezione di Dio, e quindi qualunque sua considerazione come “Ens commune” (per quanto assolutamente perfetto e compiuto in quanto totale coincidenza di potenza ed atto). Dio insomma per definizione non è in alcun modo un «qualcosa», e proprio su questo si basa la Sua profonda somiglianza con lo spirito umano in quanto persona. Con paradigma massimo in Dio, dunque, lo Spirito è l’esatto contrario dell’essere. Semmai invece (come anche in Berdjaev) è il dinamismo puro. E bisogna dire che questo dinamismo nella concezione di Dio corrisponde molto bene a quel “prospettivismo” con il quale Eckhart intese l’esistenza di Dio e la sua relazione con l’uomo e il mondo [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. E con questo termine va inteso un Assoluto divino che in primo luogo è incessante tensione amorosa verso l’uomo e il mondo, e che non a caso sfocia in un’assolutamente continua “nascita divina” nel cuore dell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Sturlese Loris, Meister Eckhart…cit.,, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Tutto questo significa allora che anche la complessiva visione di Eckhart andrebbe vista come parte integrante di uno Spiritualismo simile a quello di Guardini. Ma siccome non c’è qui assolutamente lo spazio per trattare del suo complessissimo pensiero, ci limiteremo a rinviare il lettore agli articoli che abbiamo dedicato ad esso ed al tema più generale dell’onto-dinamismo [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >; Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68].
Quindi questo genere di visione (diversamente da quella di Berdjaev) non può essere in alcun modo un «onto-spiritualismo». Siamo però qui in ambito religioso ed anche cristiano, e quindi dobbiamo trovarci di fronte ad una concezione molto specifica dello Spirito. E quella che più sembra appropriata ad essa è ka concezione dello Spirito come Pneuma, vento, aria, soffio, spirito che va dove vuole. Come abbiamo visto, a tale concezione cristiana corrispondono perfettamente il concetto ebraico di “Ruah” e quello vedico di “vāyu”. Si parla insomma qui di una sostanza aerea, sottile ed immateriale (ma intanto esistente) che non cessa mai di muoversi e soprattutto nel suo muoversi genera continuamente essere. Esso è dunque se mai la premessa dell’essere ma non l’essere stesso. E qui possiamo cogliere nuovamente il concetto berdjaeviano di essere in quanto realtà radicalmente originaria che non cessa mai di muoversi in un incremento costante di sé stesso che è anche trasfigurazione di tutto quanto si trova davanti.
Bisogna però a questo punto ammettere (come abbiamo già detto) che questo concetto di Spirito somiglia almeno ad una parte di quello che anche Stein affermò in maniera secondaria in diverse sue opere.
E questo genera una delicatissima questione critica che affronteremo nelle conclusioni.
In ogni caso per Guardini questo Spirito divino è esattamente il Paraclito, ossia lo spirito consolatore e quindi lo Spirito Santo vero e proprio [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, II, 9 p. 143-151]. Dunque è lo Spirito osservato da un punto di vista sostanzialmente teologico-religioso, ossia di fatto quello Spirito divino-amoroso che compare nell’esperienza religiosa cristiana (del quale parlavamo prima). Pertanto lo Spiritualismo pneumatico (fortemente impersonato intanto da Guardini) si caratterizza per essere appunto fortemente religioso-teologico. Le sue caratteristiche rientrano quindi necessariamente in una certa dogmatica, che a sua volta serve gli scopi di un determinato ritualismo e pietismo. Il che riduce senz’altro la portata metafisica dello Spirito stesso, irrigidendolo in determinati schemi, e peraltro schemi messi su per esigenze umano-terrene oltre che ecclesiali. Resta però sempre intorno ad esso un certo alone di indefinizione che permette di ricostruirne l’immagine completa di una realtà estremamente inafferrabile e misteriosa. E forse questa è l’immagine più appropriata dello Spirito che si possa trovare in metafisica.
Guardini stesso ci lascia intravvedere questo commentando il curioso «vai e vieni» di Gesù nei Vangeli, ossia il suo continuo apparire e sparire [Romano Guardini, Der Herr… cit., VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531]. Il che ci lascia intravvedere una delle caratteristiche principali dello Spirito pneumatico, ossia la sua assoluta a-località, oltre che a-temporalità. Cosa che poi ancora una volta sottolinea la sua realtà assolutamente non ontica, o almeno iper-ontica. Infatti Guardini sottolinea che il corpo (pur integralmente carneo-materiale) di Gesù non è mai stato sottomesso alla condizione mondano-terrena della spazio-temporalità.
Ma proprio qui emerge il punto cruciale di questa concezione dello Spirito. Perché pur possedendo le chiare caratteristiche dello Spirito penumatico, Gesù non solo fu corpo ma inoltre risorse esattamente come corpo. Ecco allora che il Corpo Risorto di Cristo rivela la natura corporale che è insita nello Spirito pneumatico (nonostante la sua non sottomissione alla spazio-temporalità), che appunto emerge in maniera piena dopo un evento (come la Resurrezione) che lo svincola decisamente e definitivamente dalla mondanità terrena, permettendo così ad esso di essere pienamente ciò che latentementeera sempre stato. E cosa sia questo ce lo dice chiaramente Guardini stesso – è corporalità spirituale (o anche, viceversa, spiritualità corporea), e come tale essa è radicalmente diversa da quella del “corpo animale” (“Tierkörper”). Ma proprio per questo si tratta della massima pienezza della spiritualità.
Ecco allora che lo Spirito pneumatico è quanto di meno ontico possa essere immaginato eppure è corporale al massimo grado; anzi esso porta perfino a compimento ultimo la corporalità stessa. Ed eccoci dunque di fronte a quel concetto paolino di “Soma pneumatikon” che anche Stein aveva pienamente riconosciuto.
E tuttavia dall’altro lato Guardini ci mostra che una certa forma di onticità qui comunque sussiste, e precisamente è quella ormai unicamente interiore e per nulla più esteriore. Anzi questa va considerata perfino una certa forma di “realtà” (“Wirklichkeit”). Ciò in particolare nel senso che l’ontologia di Gesù era sempre stata la stessa, senza alcuna frattura tra fase corporale e fase spirituale.
Tuttavia vi è anche un altro aspetto dell’«andare e venire» spirituale-penumatico di Gesù che viene posto in evidenza da Guardini, e cioè il fatto che nell’atto finale di questo suo modo di esistere (l’Ultima Cena ed infine Emmaus) fu la sua promessa di mandare giù nel mondo lo Spirito Santo nel mentre Lui tornava dal Padre per preparare un posto per i figli di Dio nella Sua Casa. Ebbene, quello Spirito che scende nel mondo non è altro che il Cristo stesso divenuto ormai definitivamente Corpo Spirituale; insomma quello stesso Cristo che si era trasfigurato in Corpo di Luce sia sul monte Tabor sia anche nel sepolcro. E nello stesso tempo Egli è il Logos nel quale «fin dal principio» esistono tutte le cose. Ecco allora che lo Spirito diviene il mondo stesso e lo diviene con le stesse sembianze del Cristo. Ed eccoci dunque a quella “ontologia cristo-centrica” che anche Stein aveva intuito [Edith Stein, Psicologia…cit., II, 2, 1-4 p. 217-309, “Osservazioni conclusive”, p. 312-327; Edith Stein, Ber Aufbau…cit., II, III, 2-3 p. 30-32, VII, II, 1-3 p. 78-92,VII, III, 2-4 p. 107-127; Edith Stein, Endliches…cit., VII, 8-9 p. 358-391, VIII, 3,1-3, p. 422-442; Donald L. Wallenfang, “Awaken, o Spirit : the vocation of becoming in the work of Edith Stein”, Logos, 15, 4 (2012), 57-74 ; Donald L. Wallenfang, “The hearth of the matter : the substance of the soul”, Logos, 17, 3 (2014), 118-142 ; Jane Duran, “Edith Stein, ontology and belief”, Hey.J., XLVIII (2007), 707–712 ; Ann W. Astell, “From ugly duckling to swan : education as spiritual transformation in the thought of Edith Stein”, Spiritus, 13, 1 (2013), 1-6 ; Sarah R. Borden, “Introduction to Edith Stein’s ‘The interiority of the soul’ : from finite and eternal Being”, Logos, 8, 2, (2005), 178-182; Sarah Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholica University Press, Washington 2010, 1 p. 16-25, 2 p. 44-48, 2 p. 54-58; Philibert Secretan, “Essence et personne”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 26, 1979, 481-504; Philibert Secretan, “L’homme spirituel et la Creation”, Carmel, 117 (10) 2005, 45-63; Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335], portando così a compimento addirittura quella ricerca filosofico-fenomenologica circa il riconoscimento di un mondo di pure essenze che aveva condiviso soprattutto con Hering [Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, di Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543]. E ciò implica allora che molto probabilmente quel suo stesso (così filosofico-razionalistico) concetto di “spirito oggettivo” aveva subito nel suo pensiero un’evoluzione che infine giunse alla sua forma più mistico-contemplativa, e che non a caso coincide fortemente con lo Spirito pneumatico in quanto mondo.
Dunque lo Spirito pneumatico non solo è corpo ma è anche perfino il mondo stesso. Per la precisione è il mondo nella sua infinita estensione ma ancora più come essenza divina che sta al centro di tutte le cose (esattamente come presupposto nel concetto vedico di “jīvātman”); insomma è il mondo divino stesso che anche Berdjaev auspicava nel contesto di un monismo relativo. Insomma è il mondo impregnato del divino. E del resto Guardini stesso afferma qualcosa di molto simile nel considerare il Regno dei Cieli come una realtà alla piena portata dell’azione umana e della storia [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585].
Del resto il pensatore italo-tedesco ci mostra anche come il mistero riguardante lo Spirito pneumatico era stato già rivelato con l’aprirsi dei Cieli nel momento del Battesimo di Gesù da parte di Giovanni [Romano Guardini, Der Herr… cit., , 4 p. 19-27, I, 5 p. 27-34]. Anzi lo Spirito stesso era disceso su Gesù trasformandone il corpo definitivamente in ciò che intanto era sempre stato latentemente, e doveva ritornare ad essere dopo l’Incarnazione. Non a caso, all’“irruzione dall’Altezza” (“Ausbruch aus der Höhe”) rispose esattamente in quel momento un’accentuazione estrema dell’atto di Incarnazione, ossia la pienezza della kenosis – dato che Gesù si abbassava alla necessità del Battesimo come l’ultimo degli uomini di carne e materia. Si tratta di un “abbassarsi alle profondità umane” (“Herabsteigen in die Menschentiefe”) da parte di Dio stesso per mezzo del Figlio. Ma questa risposta è di importanza decisiva, perché grazie alla simultaneità dei due eventi la discesa si trasforma in ascesa a causa del fatto che di colpo la distanza tra Cielo e Terra è stata annullata.
Insomma è come se un incommensurabile elastico, fino a quel momento teso spasmodicamente fino al limite della rottura, e quindi dilatatosi al massimo (a causa di quella Caduta che era stata estrema separazione tra Cielo e Terra), grazie alla kenosis cristica ora ritornasse alle sue infinitesimamente minuscole dimensioni iniziali (quelle della Prima Creazione), ossia alla totale coincidenza dei suoi estremi.
Ed ecco allora che, come dice Guardini, lo Spirito Santo “eleva l’uomo sopra sé stesso” nel senso della sua ri-assimilazione dell’uomo a Dio dopo gli eventi tragici della separazione avvenuta con il Peccato e la Caduta. Dunque nel farsi corpo e mondo, lo Spirito pneumatico ha anche il potere di ri-assimilare Cielo e Terra, ossia di risolvere proprio quel dualismo che Berdjaev ritenne assolutamente inappropriato alla realtà spirituale. Dunque la sua a-località va intesa anche come ubiquitarietà. Infatti lo Spirito «che va dove vuole» è anche questo – esso si trova già dove voleva arrivare, e quindi di fatto occupa dinamicamente tutto lo spazio dell’essere. Solo in questo senso, dunque, esso è Essere, ossia come Totalità dinamica dell’essere.
E questo fonda anche un’altra osservazione di Guardini, ossia che lo Spirito è Gesù stesso, in quanto è persona della Trinità (“in lui”). Eppure ciononostante sulle sponde del Giordano lo Spirito scende su di Lui (“sopra lui”) come se fosse l’ultima creatura di questo mondo. Siamo insomma davvero di fronte ad una realtà caratterizzata dall’assoluta inafferrabilità in quanto totale non prevedibilità della localizzazione.
Ma intanto lo Spirito pneumatico in quanto mondo è già di per sé intuitivamente lo stesso Regno dei Cieli in terra, ossia il mondo impregnato della presenza divina. Al proposito però Guardini ci invita a comprendere un’altra serie di aspetti riguardanti il potere di questa realtà agente che egli definisce addirittura “violenza divina” (“göttliche Gewalt”) [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 7-9 p. 40-57]. E si tratta esattamente di quell’irresistibile potere sul male che permise a Gesù di guarire ogni sorta di malati e posseduti. Ebbene la valenza di Regno dei Cieli del mondo impregnato dallo Spirito divino dipende strettamente da quel “sì” umano che pone lo Spirito nel pieno del suo potere, permettendo così che esso trasformi in possibile ciò che è assolutamente impossibile nelle circostanze mondano-terrene. Tra gli incalcolabili caratteri di questo Spirito pneumatico rientra dunque perfino l’azione rivolta ad una riforma del mondo che è addirittura concreta e storica, ossia di fatto politica. Si tratta insomma di quella rigenerazione dell’uomo, nel mondo, secondo lo Spirito, cioè secondo il Regno di Dio, che fa del mondo stesso qualcosa di non più naturale ma invece spirituale.
Gesù pensa insomma ad riforma del mondo prevalentemente nel senso del Ritorno in assenza dell’intermezzo della morte, e cioè nel senso di una reintegrazione dell’immanente nel trascendente (ossia la condizione ontica che fu della Prima creazione), e quindi nel senso di una riunificazione sul piano ontologico. Ma questa viene affidata all’opera dell’uomo, e quindi ad una prospettiva utopica ma per nulla ultra-storica. Dunque essa è lasciata in aperto nel contesto della prospettiva di un Regno dei Cieli del tutto immanente. È dunque in questo senso che il Regno è vicino − nel senso che io posso e devo cercare il Dio presente nel mondo (presenza divina) e nel senso che il Regno è effettivamente immanente.
È evidente che tutto ciò sta in immediata relazione con ciò che qualunque uomo può sperimentare entro l’esperienza religiosa nel caso che esso davvero si affidi al potere rigenerante dello Spirito con il massimo livello e grado di fede possibile. Senz’altro fu questo genere di fede (umana ma in verità sovrumana) ciò che attirò irresistibilmente Gesù verso la decisione a compiere quei miracoli che guarirono tutti i generi di malati e sventurati.
Da tutto ciò consegue che la dimensione dinamica dello Spirito immanente è anche eminentemente attivo-creativa. E ciò concorda non solo con Berdjaev, ma anche perfino con lo Spiritualismo personalista più laico, ossia (come vedremo) quello di Mounier, secondo il quale la spiritualità umana è eminentemente attiva.
E ciò ha peraltro un preciso significato etico ed anche in parte etico-politico. Infatti Guardini sottolinea che Gesù, nel venire nel mondo, ha preso certamente atto del fatto che l’uomo, di fronte alla preponderanza ineluttabilmente soverchiante delle Leggi del mondo e della Natura, può in verità solo scappare terrorizzato e pieno di sfiducia. Egli, insomma, deve essersi reso conto di questa schiacciante evidenza. E quindi deve certamente aver deciso di prendere davvero il toro per le corna, in modo tale che, solo grazie a Lui, all’uomo divenisse possibile l’impossibile, ossia il sovrumano. Ma intanto Gesù può fare fronte a tutto questo soltanto perché Egli è pienamente Spirito, oltre che carne. Infatti il male può venire combattuto solo dallo Spirito, e cioè da quanto si pone radicalmente fuori dalle leggi del mondo; le quali altrimenti prevarrebbero senza l’ombra del minimo dubbio.
Lo Spirito pneumatico nella sua propensione attiva, è dunque quella realtà che ha la capacità di rendere possibile l’impossibile in quanto essa ha lo straordinario potere di revocare le inflessibili Leggi della Natura.
Guardini pone l’accento su tutto ciò offrendoci una lettura del famoso Discorso della Montagna, entro il quale, secondo lui, viene sancita la messa a disposizione delle capacità sovrumane all’uomo da parte di Gesù secondo il principio del “a Dio nulla è impossibile” [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 11 p. 66-76]. La questione è al proposito molto complessa, e proprio perché noi uomini tendiamo ad intenderla letteralmente e cioè fuori da qualunque lettura integralmente spirituale. E Gesù è di nuovo estremamente consapevole di questo nostro tragico limite. Egli sa bene infatti che noi uomini siamo costretti ad avere a che fare ogni giorno con il serissimo problema del «pane quotidiano», e sa che esso istituisce un conflitto in sé inconciliabile tra Cielo e Terra. Per cui ci indica l’unica via praticabile, ossia quella di trattare con tale questione guardando intanto unicamente alle «cose del Cielo», e quindi con quella leggerezza (tutta spirituale) che invece le Leggi della Natura non ci consentirebbero mai e poi mai di professare. Si tratta ovviamente di una questione di pura e nuda fede. Ma intanto, prestando fede alle Sue promesse, noi possiamo essere certi che comprenderemo tutto questo una volta che saremo totalmente nello Spirito, ossia una volta che avremo anche noi conquistato davvero pienamente la dimensione ontica della corporalità spirituale. Ebbene, è chiaro che ciò avverrà dopo la nostra morte fisica. Ma intanto (in maniera assolutamente sorprendente) fu esattamente questo ciò che avvenne nel contesto della discesa dello Spirito Santo nel corso della Pentecoste. Infattiin tale evento divenne addirittura tangibile la verità della promessa da parte di Cristo secondo la quale lo Spirito insemina nell’uomo la sovrumanità ossia la divinità stessa. Ed eccoci dunque di fronte alla pienezza estremamente concreta della divino-umanità. Non a caso, dopo questo evento, i Discepoli divennero capaci di atti dei quali prima non sarebbero mai stati capaci.
Naturalmente tutto ciò esige dall’uomo una sorta di «decisione per lo Spirito, e Guardini allude a questo trattando della lotta contro “il Nemico” [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 7 p. 127-136; II, 9 p. 143-151]. Si tratta insomma del “sì” puramente fideistico nel senso di fiducia negli insegnamenti del Cristo. Il che implica un deciso schierarsi. Ed infatti il pensatore parla qui del “peccato contro lo Spirito” (quello che non sarà perdonato), che è evidentemente il rifiuto di Dio implicato nel falso schierarsi da parte dell’uomo. Si tratta insomma dello schierarsi sempre totalmente volontario (e quindi assolutamente libero) dell’uomo dalla parte del Nemico e non invece del Salvatore.
Lo Spirito pneumatico è dunque agente anche nel senso che esso esige da noi uomini una ben precisa decisione libera. In assenza della quale esso resta inattivo e quindi sembra come se non ci fosse affatto.
In questo senso, quindi, lo Spirito pneumatico (nonostante la sua assoluta inafferrabilità metafisica, che poi soprattutto non-onticità) assume portentosamente una decisa forma storica. E peraltro ciò esige una consapevolezza estremamente sofisticata che va senz’altro oltre l’umano naturale. Infatti, come dice Guardini, la vittoria deve avvenire non sul piano della “forza” evidente, ma invece sul piano della “liberazione” (“Erlösung”), ossia la liberazione da quelle Leggi del mondo che includono in primo luogo l’assolutamente ferrea legge del più forte (e quindi inevitabilmente anche l’ossequio assoluto all’istinto egoistico di sopravvivenza). È dunque proprio questo il nucleo della paolina kenosis, cioè questo è il senso del «è quando sono più debole, che io sono forte». Si tratta insomma di una vittoria che doveva assolutamente includere la “possibilità della sconfitta”. Il che sottolinea nuovamente l’importanza che ha la libera e coraggiosa decisione umana. Del resto nel nostro saggio sul Personalismo abbiamo visto, per mezzo di Jaspers, che il nucleo stesso della “coscienza tragica” consiste nella certezza di vincere proprio nel mentre si è nel pieno della sconfitta, ossia nel pieno di quella sconfitta che ormai coincide addirittura con la nostra morte (come esemplificato al massimo dalla vicenda di Amleto) [Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008, p. 34-38]. Il che significa allora che l’infinitamente amorosa Provvidenza divina aveva reso disponibile tale consapevolezza già nel pieno del Paganesimo.
E tutto ciò, per Guardini, investe inevitabilmente anche lo scottante tema della “remissione dei peccati”, ossia ciò che nel Vangelo si presenta nuovamente come guarigione miracolosa da mali fisici e psichici in virtù di quel pentimento che è anche una sorta di socratico atto di profonda auto-conoscenza da parte di noi stessi. Si tratta insomma del riconoscere del tutto umilmente (e soprattutto incondizionatamente) la nostra responsabilità personale nei mali che ci affliggono. E quest’ultima non è in fondo altro che l’ancora mancata decisione della quale prima parlavamo, ed in assenza della quale si delinea per Guardini il “peccato contro lo spirito”, ossia la sfiducia nelle possibilità che lo Spirito divino ci mette a disposizione.
Invece in caso contrario (ossia quando questa nostra decisione si è ormai verificata) si delinea quindi un nostro attivo fare in modo che tutto di nuovo sia “in ordine”. Ed ecco allora che la nostra guarigione non è altro che l’effetto della trasfigurazione del mondo alla quale noi stessi abbiamo aperto la strada con il nostro “si” incondizionato allo Spirito divino nella sua potenza trasfigurante.
Di nuovo siamo insomma di fronte alle illimitate capacità di trasfigurazione che caratterizzano lo Spirito pneumatico come premessa dell’essere. Eppure ciò non significa affatto che lo Spirito sia immanente in quanto ipostatizzato. Anzi significa l’esatto contrario. Guardini ci fa comprendere questo menzionando le difficoltà che Nicodemo incontra nel pensare che lui, vecchio e stanco, possa davvero rinascere per l’azione dello Spirito [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 12 p. 166-174]. Egli è insomma convinto del fatto che l’uomo è solo “mondo” (“Welt”) e tale “resta” sempre ed invariabilmente. Mentre invece l’uomo è spirito anche perché è spirito in quanto può essere allo stesso modo pienamente oggetto dell’azione dello Spirito. Intanto però ciò non può avvenire appena sul piano orizzontale dell’immanenza separata dalla Trascendenza. Perché lo Spirito pneumatico può agire solo “dall’alto” (“von oben her”), e quindi solo in tal modo può dare vita ad un nuovo inizio.
Questo quindi ci illustra un aspetto davvero fondamentale della natura ontologica dello Spirito pneumatico. Infatti lo Spirito (così come viene inteso da Gesù, ossia dalle Scritture) non è in alcun modo immanente (come è senz’altro invece lo spirito ontico, o se si vuole «onto-spirituale», opposto alla corporeità, o anche lo stesso spirito oggettivo filosofico che corrisponde poi appena alla Cultura umana), ma è invece integralmente divino e trascendente (pur essendo intimamente connesso alla corporeità e potendo quindi agire perfino storicamente). Esso è cioè il Padre della Trinità e quindi è il Pneuma stesso – è insomma quel Padre che entro la Trinità è allo stesso tempo Figlio e Spirito. L’uomo, invece, è intanto di per sé solo “mondo” e “carne”, e quindi lo Spirito lo trascende totalmente. E pertanto proprio per questo può fare di lui quello che vuole.
Guardini ci offre un’ulteriore possibilità di comprendere tutto questo illustrando l’episodio evangelico in cui Gesù appare ai Discepoli sul lago come un vero e proprio fantasma [Romano Guardini, Der Herr… cit., III, 8 p. 230-235]. Ebbene questo conferma in pieno l’a-località dello Spirito pneumatico proprio entro la dimensione della sua trascendenza verticale. È infatti estremamente probabile che Gesù non sia stato affatto presente fisicamente sul lago, ma invece sia stato presente solo appunto “in spirito“, e cioè nel contesto di una vera e propria bilocazione. Infatti molto probabilmente Egli era restato sulla montagna, dove si era separato dai Discepoli che erano andati in barca sul lago.
E questo ci riporta poi di nuovo all’episodio del Battesimo nelle acque del Giordano. Gesù Cristo è insomma Colui che è spirito per eccellenza. E quindi è lo spirito (“Pneuma”) che scende su di Lui non trova affatto un uomo medio, ossia un uomo naturale, e pertanto può manifestarsi pienamente in Lui con tutte le sue estreme caratteristiche ontiche. Il che significa poi che, proprio in virtù della sua natura di Spirito pneumatico, in Cristo l’umanità e la divinità non sarebbero mai potute restare separate nel contesto dell’Incarnazione. Insomma Egli fu ed è uomo-dio che poi diviene il risorto senza alcuna interruzione tra le due ontologie − Egli si è incarnato pur essendo Dio (il Logos stesso, ossia lo Spirito divino) e poi è tornato Spirito pur restando corpo. Ecco che allora Egli si rivela essere quel prototipo di uomo divino (ossia la pienezza dell’umano-divinità) che nessuna riflessione filosofico-metafisica (per quanto sofisticata) potrà mai giustificare e lasciarci comprendere. Infatti tale realtà è davvero spiegabile soltanto qualora l’Incarnazione si spieghi dal punto di vista della Resurrezione, e quindi in maniera assolutamente contro-razionale e pertanto per nulla logica. E questo decisamente pone fuori gioco quel lato dello Spiritualismo steiniano che non si soffermò sullo Spirito pneumatico ma invece solo su quello «onto-intellettuale», per quanto religiosamente inteso.
A conclusione di queste riflessioni di Guardini vale la pena di richiamare alcune riflessioni di Gregorio di Nissa che ci permettono di comprendere ancora meglio lo Spirito pneumatico nella sua natura di Corpo spirituale ed anche di estremo dinamismo [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ramelli Ilaria (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381, V, 108-128 p. 457-481, VI, 129-160 p. 483-519; Ilaria Ramelli, Il Platonismo nella filosofia patristica, ibd., II, III, 1 p. 1014-1028]. Il discorso di Gregorio verte in particolare sulla la conoscenza di un oggetto immateriale come l’anima, cosa che per lui implica il coglimento dell’essenza − in forza del fatto che il vero essere è immateriale, ossia corrisponde a Dio, ed è appunto per questo intangibile ed invisibile. Ecco che allora l’intelletto (che è onticamente immateriale) non è affatto escluso dall’essere. Infatti l’uomo che è intelletto, e dunque è del tutto simile a Dio (uomo-dio e “imago dei”) − secondo il paradigma della similitudine al modello −, costituisce di fatto un intelletto immateriale ed incorporeo.
Esso corrisponde pertanto pienamente a Dio in quanto Intelletto. Ebbene quest’ultimo è del tutto “privo di massa” (ἀσωμάτῳ) così come di “estensione” (ἀδιαστάτῳ); proprio come lo è lo Spirito pneumatico. Dunque, al cospetto di ciò (e nel contesto della somiglianza) per Gregorio l’uomo è come un piccolo frammento di cristallo che riflette l’intero disco solare − “così nella piccolezza della nostra natura brillano le immagini di quelle misteriose proprietà della divinità” Sebbene questo non significhi affatto un’identità completa con quella che è una pura sostanza intelligibile.
A ciò si aggiungono poi le considerazioni del pensatore sull’a-località spirituale in quanto eternità (che a quanto pare assimilano il pensatore al neoplatonismo di Plotino) e che ci offrono ulteriori possibilità di comprendere la natura ed azione dello Spirito pneumatico. Si tratta in particolare dell’”atemporalità” espressa come “aidion” (ἀῒδιον) o “aion” (αἰών), dunque assenza di estensione, ossia assenza di “diastema” (διστηνα), cioè separazione nella successione spazio-temporale – “adiastatos” (ἀδιάστατος), ovvero “adimensionale” e quindi “ininterrotto”. Si tratta insomma di una dimensione di essere che, non conoscendo alcuna scansione né spaziale né temporale, costituisce la (fulminea e simultanea) Totalità del tempo e dello spazio come perfetta coincidenza di inizio e fine. Si tratta insomma dell’assenza di scansione tanto temporale che spaziale che sussiste in un attimo eterno che è anche sempre Totalità di Essere. Ebbene tutto ciò nelle “Enneadi” di Plotino [Plotino, Enneadi, Monadori, Milano 2002, III, 7, 3-4] viene espresso appunto come “eterno presente”; che è poi la massima pienezza di essere, laddove l’essere ha l’eternità essenzialmente (e non come attributo accidentale) – l’eternità (αἰών) equivale qui a “ciò che è sempre” (ἀεί ὢν). Dunque non tempo infinito ma invece semmai “mancanza di tempo”. Il che corrisponde poi al permanere dell’eterno nell’unità, o anche al permanere dell’essere nel proprio stato (stasi ad onta del dinamismo temporale) nel senso dell’unità inscindibile − “sempre essente” (ἀεί ὢν) in quanto “veramente essente” (ἀληθῶς ὢν).
E questo è poi ciò che non ha alcun bisogno del futuro, così come ciò che non ha bisogno di altro essere in quanto è “in pieno possesso di ciò che deve essere”. Al contrario la temporalità (come “diastasis” o “diastema”, estensione, successione ed intervallo, ossia scansione) è soggetta fatalmente al bisogno di un essere successivo ed ulteriore, ossia al bisogno spasmodico di possesso come promessa di stasi. Questo spasmodico bisogno di altro implica pertanto fatale perdita dell’assoluta unità che è propria dell’eterno, ossia la fatale “dissipazione” (la cui espressione immanente è poi l’inquietudine della perenne ricerca del possesso come stasi). Questo è insomma il tempo come mobilità dell’eternità (del quale, secondo la commentatrice, si ritrova il corrispettivo in Platone, Timeo 37D) e come Natura [Plotino, Enneadi…cit., II 7, 12].
Orbene è evidente qui la preoccupazione metafisica (che senz’altro fu presente primariamente in Plotino) che intende preservare il valore di una suprema Stasi. E quindi queste riflessioni non si prestano a concepire né lo Spirito né l’Essere stesso come sostanzialmente dinamici. Eppure comunque in tal modo possiamo meglio comprendere quella a-temporalità ed a-spazialità dello Spirito che poi si traducono in particolare in una stasi che è soprattutto Totalità di Essere raccolto in un solo momento anche nel suo perenne fluire dinamicamente. Ed anche questo è senz’altro un aspetto dello Spirito nel suo intendimento pneumatico. In altre parole lo Spirito pneumatico è a-spaziale ed a-temporale proprio in virtù di tali caratteristiche perfino statiche. E quindi esso «va dove vuole» semplicemente perché sta già nel luogo dove voleva arrivare, e quindi non conosce alcuna discrepanza tra causa ed effetto. La quale implica sempre una sorta di impotenza, nel senso di fatale e tragica soggezione alle condizioni che possono rendere impossibile raggiungere l’effetto che era voluto nell’intenzione. E non vi è dubbio che ciò è esattamente quanto può accadere a causa del vigere nel mondo di quelle inflessibili Leggi della Natura secondo le quali una causa implica necessariamente un effetto specie in senso difettivo – ossia una causa impedente rende impossibile raggiungere l’effetto voluto. Insomma siamo così di fronte a quella inflessibile concatenazione causale che entro la metafisica orientale del “karma” (specie buddhista) ha teorizzato che una determinata causa negativa produrrà necessariamente un effetto egualmente negativo.
Ecco allora che è esattamente questo il motivo per il quale lo Spirito pneumatico ha il potere incondizionato della trasfigurazione dell’essere. Esso infatti è esattamente quella creatività illimitata (presupposta anche da Berdjaev) in quanto assolutamente libera dal condizionamento di qualunque necessità naturale.
Dunque è su questa base che si spiega il perché del «tutto è possibile allo Spirito», ossia «tutto è possibile a Dio»

III- Maine de Biran
Lo Spiritualismo di Maine de Biran (MdB) rientra decisamente nella tradizione filosofico-idealistica moderna, ed inoltre (a causa del suo accento posto sulla coscienza) anticipa anche in maniera molto suggestiva alcuni elementi tipici dello Spiritualismo fenomenologico-husserliano, e quindi anche di quello di Stein.
MdB parte infatti chiaramente dalla concezione dello Spirito come coscienza umana [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, Introduzione, 2 p. 12-22], sebbene poi aggiungerà a questo l’affermazione che in essa è presente lo stesso Spirito divino. Peraltro egli postula un processo di auto-conoscenza da parte dell’Io che rientra in modo chiaro nello Spiritualismo che intende lo Spirito come Ragione umana ed Io coscienza [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 47-56 p. 55-64]. Non a caso per lui la coscienza è solo del soggetto in quanto è una realtà ontologica capace di disporre di uno spazio interiore caratterizzata dal “con sé”, e che poi null’altro è se non il «sapere di sé» [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 11-13 p. 35-36].
Tuttavia questo atto ha per lui anche una valenza chiaramente religiosa. In particolare egli dichiara di riferirsi ad Agostino nel teorizzare un auto-possesso dell’Io da parte di sé stesso che avviene sostanzialmente sulla base del riconoscere la sua somiglianza interiore a Dio (umano-divinità). Questa è per lui la dimensione del cuore in senso cristiano. Sul cuore si basa per lui la disposizione sociale della persona, che poi comporta l’amore in quanto compassione.
Rispetto a queste riflessioni egli va poi ancora più avanti nell’affermare che l’Io e Dio sono le due primarie unità dell’essere [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-67 p. 65-73]. E, nel sostenere questo, egli si oppone imoltre decisamente all’unità indifferenziata divino-immanente (decisamente impersonale) che fu teorizzata entro il panteismo di Spinoza. Ecco che quindi il suo concetto di Spirito non consiste solo nella coscienza, ma anche nell’Io stesso come fondamentale unità singolare. Lo Spirito insomma è una persona nel suo isolamento ontico di entità assolutamente e paradigmaticamente unitaria.
Egli tuttavia non manca di concepire lo Spirito divino come trascendente quello umano, ossia l’Io stesso [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-90 p. 82-88]. Lo fa sostenendo che Dio è causa delle esistenze, e come tale coincide anche con quello Spirito originario che contiene in sé ogni verità; in modo tale che esse di trovano prima dello spirito umano. Ecco insomma l’esatta natura dello spiritualismo di MdB, che appare essere una dottrina subordinante l’uomo ad una dimensione ideale trascendente che appare essere poi lo Spirito stesso nella sua integralità ontica. Esso è senz’altro lo Spirito divino, ma senza nessuna delle caratteristiche che abbiamo visto essere tipiche dello Spirito pneumatico.
Questa è molto in sintesi la dottrina dello Spirito di MdB e quindi questo è il suo Spiritualismo.
Comunque in termini specificamente religiosi egli non manca di intendere lo Spirito divino come Grazia [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 2 p. 12-22]. Non a caso egli concepisce una mistica attiva in quanto movimento verso l’Assoluto divino; ma che è anche passiva in quanto attende appunto la Grazia.
Dio in quanto Causa è comunque anche ciò che trasfonde nella stessa anima umana il potere di muovere il corpo, dando vita in tal modo anche a quell’unità spirito-animico-corporea che è tipica dell’uomo e quindi configura un’antropologia fondata in Dio [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-71 p. 65-76].
Ne risulta quindi che per MdB lo Spirito divino coincide anche con la causalità stessa nella sua forma più elevata. Così come è anche la stessa sede di ogni Verità razionale. Più precisamente Egli è “causa delle esistenze”, e proprio come tale è “oggetto della ragione” in quanto è appunto insieme di verità razionali [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-94 p. 82-94]. Le quali sono poi verità antecedenti allo spirito umano in quanto si trovano nello Spirito divino. Ecco allora che MdB, nell’essere spiritualista, assume una posizione decisamente idealista. Dunque il suo Spiritualismo si rivela essere una dottrina che subordina lo spirito umano ad una dimensione ideale-spirituale trascendente che è Dio stesso. Comunque l’oggettività delle verità che sono presenti in Lui lascia pensare che in qualche maniera MdB intendesse lo Spirito divino con le caratteristiche di una certa «onto-spiritualità» paradigmatica, e proprio come tale da intendere come Spirito per eccellenza. In ogni caso comunque l’intendimento più esplicito ed evidente del suo Spiritualismo è quello di una dottrina che intende porre in evidenza ciò che è e fa lo spirito umano (sia nella conoscenza che nell’azione etica). E su questo siamo chiaramente nel campo della visione spiritualista più tipica della moderna filosofia, ossia quella che (aldilà anche dei suoi aspetti religiosi) intendeva lo Spirito come equivalente alla Ragione umana.

IV- Emmanuel Mounier.
Lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più pragmatico ed immanentista; anzi a tratti appare addirittura materialista. In ogni caso vedremo poi che in esso appare decisiva la presenza della visione di Blondel. Tale Spiritualismo non è però affatto razionalista, dato che Mounier, nel fondare il proprio Personalismo, si distanzia decisamente dalla tradizione filosofica, moderna. Ed in particolare si distanzia dallo gnoseologismo filosofico, così come fa anche Berdjaev [Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti), p. 31-40, I, VI p. 103-120]. In particolare egli dissocia decisamente lo Spiritualismo dal «cogito» cartesiano ed anche dall’oggettivazione prodotta dal ricorso gnoseologistico all’universale da parte della moderna filosofia.
Appare perciò molto sorprendente che il pensatore, nell’affermare che il Personalismo ha dietro di sé una lunghissima e remotissima tradizione filosofico-metafisica, veda il nucleo di quest’ultima proprio in quel concetto tutto cristiano di “carne spirituale” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., p. 31-40] che abbiamo visto messo in luce da Guardini, ossia dallo spiritualista più radicale che finora abbiamo esaminato. Egli insomma prende debitamente atto del fatto che lo Spiritualismo si è a lungo (ed in larghissima parte) identificato con la postulazione di uno Spirito pneumatico. Ma questo con certezza assoluta gli serve a fondare la concretezza corporale e mondana della persona umana. Infatti nel definirla egli afferma che bisogna decisamente contraddire il tradizionale dualismo metafisico riconosciuto tra spirito e materia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-56]. A questo punto va anche detto però che ciò si sposa perfettamente con l’irrazionalismo della sua visione, dato che questa parte della tradizione spiritualista fu sempre (forse già da Platone in poi) in qualche modo razionalista. E ciò ci porta a pensare dunque che vi sono due forme di Spiritualismo tradizionale non «onto-spiritualista» − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista «onto-intellettualista»).
In ogni caso Mounier sembra disposto a seguire solo in parte questa strada, dato che lo Spirito è per lui sostanzialmente attivo e quindi è integralmente umano e mondano. Ed infatti egli sostiene la stessa necessità di superare il dualismo spirito-materia laddove afferma che l’azione stessa la esige [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., II p. 132-160]. Anzi qui il suo Spiritualismo assume una venatura decisamente filosofico-politica ponendosi addirittura come rivoluzionario ed anche marxista.
Proprio per questo appare chiaro che egli non sostiene affatto il concetto di corporalità spirituale come fa Guardini. Egli ci fa capire infatti che addirittura lo Spirito è condizionato a tal punto dall’esistenza del corpo che di fatto, in assenza di quest’ultimo, non vi è alcuna realtà spirito-corporea, e quindi di fatto lo spirito si dissolve nel nulla [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-45]. Ne risulta quindi una visione spiritualista che ha perfino tangibili venature materialiste. Non a caso egli giunge perfino a negare la natura spiritualista del Personalismo nel sostenere una visione che, secondo lui, non può dimenticarsi nemmeno un attimo del mondo [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 45-50]. Ciò significa insomma che egli stesso vede in fondo nello Spirito qualcosa si astratto ed anti-mondano.
Ciò concorda peraltro perfettamente con il fatto che egli dichiara l’interiore la regione più propria dello Spirito e la definisce anche come il contrario stesso dell’essere [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, III p. 74-76].
Ecco che trova eco in lui in modo chiaro lo Spiritualismo interiorista ed egoico di Maine Biran e dell’intero pensiero moderno. Esso non sarà quindi razionalista, ma ciò cambia davvero poco nella sua natura.
Di nuovo qui però diviene dirimente la natura azionista del suo Spiritualismo. Lo possiamo comprendere bene laddove egli parla dell’”attività produttrice” umano-personale come un “fabbricare” che è radicalmente diverso dal conoscere (e come tale di distanzia moltissimo dall’”intenzione” così come viene intesa dalla filosofia gnoseologistica, e quindi anche da Husserl) [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VI, p. 103-105]. Ebbene, egli dice, questa attività non è altro che la tipica attività dello Spirito. È evidente insomma che per lui lo Spirito è sostanzialmente attività in quanto movimento, e più precisamente movimento produttivo. Il che poi lascia intravvedere anche lo Spiritualismo di Bergson, secondo il quale l’Intelligenza cosmica (in quanto Spirito) è sostanzialmente attiva perfino nel conoscere, e quindi in tal modo “ritaglia” letteralmente le oggettualità nella compagine indifferenziata dell’essere [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri, Milano 1966, II, p. 135-216].
Come tale, dunque, per Mouniier l’azione spirituale è squisitamente umana. Egli insomma non guarda affatto allo sfondo metafisico dello Spirito umano, ossia si disinteressa decisamente di esso. Pertanto il suo Spiritualismo è decisamente non-metafisico. È evidente allora che per lui il concetto di Spirito pneumatico non è altro che storia, e quindi può semmai servire a fondare concettualmente la corporalità spirituale ma solo nella sua totale concretezza addirittura materiale.
E di questo possiamo trovare riscontro laddove egli parla dello “spirito conoscente” come incarnato in un’esistenza legata profondamente ad un corpo e ad una storia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit.,
I, VI, 3 p. 110-113]. Quindi per definizione esso è “impegnato”. Questo concetto di impegno sembra del resto dominare completamente la sua visione dello Spirito. Egli dice infatti che, nel contesto del problema della relazione tra azione e pensiero, la vita spirituale si rivela assolutamente identica all’azione; dunque, l’azione equivale proprio all’”esperienza spirituale nella sua integrità” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VII p. 121]. Infatti, egli dice, “ciò che non agisce non è”. E dunque secondo lui del Logos cristico noi dovremmo avvalorare le dimensioni della via e della vita, molto più che quella della verità. Ed a questo punto dichiara di dovere queste idee a Blondel, proprio secondo il quale lo spirito è sostanzialmente azione.
Questo si può dunque dire dello Spiritualismo di Mounier che si riconferma essere immanentista, pragmatico e decisamente anti-metafisico. In esso si può dire quindi che si dissolve totalmente la sostanza ontica dello Spirito, dato che esso si presenta appena come una disposizione attiva e funzionale della persona umana, e quindi sostanzialmente nella forma di vita attiva umana fotografata nel pieno del suo esistere mondano.

V- Steinhart.
L’articolo di Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571] compare qui appena come esempio e campione di quella che deve senz’altro essere una riflessione oggi molto diffusa. E quindi ci serve soltanto a prendere atto di come e quanto si sia evoluto lo Spiritualismo fino ai giorni nostri. Tuttavia un’analisi delle sue forme attuali richiederebbe senz’altro un’altra investigazione, dato che sicuramente molti pensatori sono oggi impegnati in questa riflessione. In ogni caso questa presa d’atto potrà essere di grande aiuto nel cogliere quella che è senz’altro la forma più estremamente moderna dello Spiritualismo; e ciò allo scopo di poterla poi paragonare con quelle antecedenti.
Va comunque subito detto che qui viene sostenuta la tesi largamente riduzionistica (anche dal punto di vista religioso) che pretende di intendere lo Spirito quale equivalente all’energia cosmica (in quanto sostanza di tipo sottilmente fisico) ed in particolare alla forza evoluzionistica che spinge l’universo. In altre parole si pretende di dire cosa è Spirito in base a ciò che di esso scientificamente è più coerentemente pensabile.
Ci troviamo insomma di fronte ad uno Spiritualismo che non solo è fuoriuscito dall’ambito della metafisica (come quello di Mounier) ma è fuoriuscito addirittura anche dall’ambito della filosofia. Esso rappresenta pertanto una sorta di estremamente paradossale Spiritualismo scientifico o comunque scientista.
Estremamente significativo è il fatto che l’autore parta nella sua riflessione nel considerare il Pneuma esattamente una “energia”, e più precisamente ancora un “potere naturale” (“natural power”). Egli rivendica inoltre che questo debba essere l’intendimento più proprio di Spirito, dato che gli altri (potere vitale animante, e potere creativo onto-generante ed onto-organizzante) sono del tutto secondari in quanto assolutamente impropri dal punto di vista logico. Ancora più precisamente lo Spirito andrebbe inteso come quell’”energia sottile” (“subtle energy”) che è di per sé “energia spirituale”, anche se si presenta in maniera molto concreta nelle moderne scienze (come quella termodinamica ed informazionale). Ovviamente secondo l’autore ciò non ha nulla a che fare con alcun piano intelligente direttivo, e quindi con “forze trainanti” (“driving forces”). E questo perché lo Spirito non ha assolutamente nulla di personale. Nemmeno nel caso che lo si volesse intendere come entità divina. Insomma esso è energia proprio perché non si muove affatto secondo un’intenzione diretta a sua volta verso uno scopo determinato. Esso si limita ad essere invece quella dimensione dinamica per mezzo della quale le morte cose trovano la forza di spinta per muoversi. In altre parole esso non è altro che una specie di carburante universale, sebbene senz’altro invisibile ed intangibile.
È evidente che ci troviamo qui di fronte ad uno Spiritualismo che ormai si è totalmente dissociato dal Personalismo.
Posto questo come l’intendimento più proprio di Spirito, l’autore si dedica all’esame delle diverse teorie che esistono rispetto a questa energia.
La prima teoria dello Spirito come energia è quella che lo intende come “forza vitale”. Però da un punto di vista rigorosamente scientifico non può per lui esservi alcuna forza vitale (sebbene essa venga presupposta in biologia nella teoria evoluzionistica), dato che essa può essere solo un’entità unitaria inesistente a causa del fatto che sotto di essa vi sono ben più reali molteplici forse elementari. Come ad esempio quelle presupposte nella teoria termodinamica. In particolare si tratta dell’entropia presupposta dalla seconda legge della termodinamica (e questa è la seconda teoria dello Spirito come energia) in quanto dissipazione di energia disorganizzante (forza entropica) che tende intanto alla crescente complessità delle strutture (in particolare attraverso la dissipazione di energia superflua che rende impossibile la genesi di una struttura statica). Questa teoria viene però dichiarata “ingenua” perché essa presuppone una mente diretta verso uno scopo pur non essendo intanto affatto cosciente (per il fatto di essere un’energia profonda e quindi del tutto cieca). Ecco che allora si perviene per esclusione alla terza teoria dello Spirito in quanto energia, che prevede una forza extropica; la quale, per il solo fatto di opporsi alla forza entropica, riesce per davvero ad essere organizzante pur senza prevedere alcuna mente. Si tratterebbe insomma di null’altro che del Big Bang originario. E proprio questo sarebbe lo Spirito in quanto energia nella sua pienezza. Che poi filosoficamente viene equiparato alla volontà di potenza nietzschiana.
Insomma, dato che l’entropia tende all’incremento per deplezione di essere (con conseguente riduzione dell’ordine), essa non può assolutamente tendere alla sempre maggiore complessità, dato che quest’ultima richiede un sempre maggiore ordine. Per cui non resta che ipotizzare l’azione di una forza extropica, la quale quindi tende naturalmente all’incremento di essere per il fatto che essa riduce l’entropia. Infatti il momento del Big Bang è caratterizzato non a caso da un basso livello di entropia. La discussione dei dettagli di questa complessiva teoria è troppo complessa per venire riportata qui, ma comunque l’autore giunge alla conclusione che lo Spirito come energia corrisponde ad una forza extropica, che è poi chiaramente direttiva. Entro il suo esplicarsi essa sta comunque in costante relazione dialettica con la forza entropica.
E su questa base egli ipotizza addirittura l’esistere di un “universo spirituale” la cui struttura e dinamica interna sarebbe descrivibile attraverso il complesso gioco esistente tra forze entropiche ed extropiche.
Posto questo, l’autore passa poi ad occuparsi delle varie prese di posizione teologiche e para-teologiche che si possono delineare in tale contesto. Si tratta del teismo (che ricorre al ben noto “intelligent design” di ascendenza tomista), delll’ateismo (definito “multiverse”) e dello Spiritualismo naturalistico (il quale presuppone una sorta di evoluzionismo cosmico, simile a quello biologico, entro il quale si verifica la genesi di una progressiva complessità di universi). Quest’ultima teoria viene definita come “cosmological arrow”. E con essa si delineerebbe una sorta di “freccia cosmologica”. Ma extrapolando quest’ultima presa di posizione secondo l’autore si perverrebbe alla quarta teoria della natura ed azione dello Spirito. Essa consiste nel ritenere che la freccia cosmologica deve presupporre un potere “ontologico” direttivo, che sarebbe appunto lo Spirito stesso, ossia lo Spirito nel suo potere onto-generante. Infatti a suo avviso bisogna ritenere che solo lo Spirito può condurre l’essere (opponendosi al caos entropico) ad assumere la forma di un organismo. Si tratterebbe così insomma dell’animazione spirituale del mondo (“spirit animates universe”). In altre parole l’azione dello Spirito, come del tutto impersonale energia (ossia carburante dell’universo), sarebbe in primo luogo quella di produrre l’animazione di quelle cose cosmiche originarie che in sé sono per definizione morte, cioè inanimate.
Su questa base (e sulla base delle varie teorie filosofico-scientifiche che egli tiene presente) l’autore perviene ad una sorta di moderna versione evoluzionistico-scientifica della dottrina di Leibniz (definita come “leibnizian argument for spirit”); secondo la quale in primo luogo insorgerà senz’altro una struttura che non si imbatta in una “forma” che ne impedisca l’attualità. E il criterio dominante è qui assiologico-ontologico, nel senso che si tratta di un continuo tendere verso il meglio in quanto concreto finale e cioè ultimamente determinato. Più precisamente si tratterebbe della “theory of striving possibility” (possibilità tendente, anelante, sforzantesi). E secondo l’autore essa può spiegare perfettamente l’evolvere dell’universo verso strutture non solo di maggiore complessità ma anche più giustificate ad esistere.
E ciò fino al risultato finale, ossia a quanto Leibniz considerava come il finale e perfettamente giustificato “determinato” − secondo quel principio del «perché qualcosa e non nulla» che poi corrisponde anche al famoso principio di “ragione sufficiente” [Gottfried W. von Leibniz, Saggi di Teodicea, Fabbri, Milano 1996, 1-4, pag. 69-72; Gottfried Wilhelm von Leibniz, Monadologia. Bompiani Milano 2001, II, 7-15 p. 47-53].
Questo potere (formante in quanto determinante) sarebbe dunque per Steinhart lo Spirito stesso − il potere astratto (ragione) di massimizzazione dei valori e quindi di ottimizzazione. Insomma per l’autore proprio qui vi sarebbe la definizione migliore dello Spirito come energia creante − “Spirit is a natural optimizing power; it is the power of self-surpassing in all thing”). E diremmo che qui di nuovo viene presupposto il concetto di «superamento» di Nietzsche.
Insomma questa estremamente complessa ed articolata teoria (per la verità molto più scientifica che non filosofica) rappresenta almeno un esempio per quello che può essere un estremamente moderno Spiritualismo. Come si può vedere in tale contesto ci si forza molto di essere logicamente rigorosi nelle argomentazioni ed in fondo non si rigettano nemmeno in via di principio i contributi di religione e filosofia. Eppure il concetto di Spirito viene qui letteralmente forgiato dalla mente umana attraverso un minuzioso lavoro di analisi (che tende a scartare le ipotesi meno logiche) senza però tenere assolutamente conto né della tradizione di pensiero metafisico che si è sviluppata dai primordii della filosofia né delle possibili intuizioni della realtà dello Spirito così come si presentano spontaneamente nella nostra interiorità.
Non a caso il pensiero metafisico di Leibniz viene completamente riletto e adattato ad argomentazioni puramente scientifiche che con esso non hanno molto a che fare.
Ebbene il risultato di questo così minuzioso lavoro non può quindi essere altro che un concetto estremamente artificioso di Spirito, che può avere anche la sua validità all’interno dell’attuale dibattito filosofico-scientifico ma intanto non è detto affatto che sia né veridico né oggettivo. E qui vale decisamente l’opinione di Berdjaev, secondo la quale la filosofia tutto può essere tranne che rigorosamente scientifica.
In ogni caso comunque resta l’intendimento iniziale e di partenza (già in sé piuttosto restrittivo) secondo il quale lo Spirito equivarrebbe ad una realtà assolutamente empirico-scientifico-naturalistica come l’energia. E questo taglia ovviamente fuori dalla riflessione qualunque sua valenza trascendente ad ancor più autenticamente religiosa.
È vero che questo concetto ha una certa somiglianza con il concetto di Spirito pneumatico (che indubbiamente è una sorta di energia), ma è anche vero che non solo qui il Pneuma si presenta come una forza assolutamente impersonale (e quindi cieca, per cui impossibile da considerare divina) ma inoltre lo Spiritualismo che ne risulta non permette alcuna applicazione religiosa di tipo pratico. E questo lo discuteremo più a fondo nelle conclusioni.

Conclusioni.
Alla fine di questa indagine possiamo dire che si sono delineate piuttosto chiaramente diverse definizioni sia dello Spirito che dello Spiritualismo. Ed abbiamo visto che esse a volte finiscono per convergere con lo Spiritualismo steiniano mentre altre volte finiscono per divergere molto radicalmente da esso. Dato che la visione steiniana dello Spirito coincide in gran parte con quella dello Spiritualismo più convenzionale di tipo filosofico-gnoseologistico (ossia quella visione che meno si trova rappresentata entro lo Spiritualismo storico, e cioè quello di fatto più prossimo al Personalismo).
In ogni caso però abbiamo constatato che, laddove lo Spiritualismo è più estremo, la convergenza sussiste solo con quel secondo intendimento dello Spirito che Stein sostenne senz’altro, ma che sfortunatamente comparve nelle sue opere solo in maniera molto secondaria e molto poco assertiva. Si tratta dell’intendimento che coincide con il Pneuma, o anche Spirito pneumatico. Ancora più secondariamente si tratta poi di altre due forme di intendimento dello Spirito: − 1) quello proprio di una sorta di Spiritualismo dell’impregnazione divina del mondo corrispondente al concetto di “ontologia cristo-centrica” (simile a quello vedantico, nel quale si postula un’essenza divina situata nel profondo di tutte le cose); 2) quello proprio della visione che abbiamo definito come Spiritualismo «degli spiriti» (coincidente in gran parte con l’antica dottrina patristico-scolastica degli “spiriti puri”).
Posto questo abbiamo visto delinearsi con Berdjaev un intendimento dello Spirito che coincide interamente con l’Essere stesso colto nel suo dinamismo incessantemente creativo. E quest’ultimo è senz’altro uno Spiritualismo che intende convergere con una forte visione onto-dinamica dell’essere. Oltre a ciò abbiamo visto delinearsi nel suo pensiero ulteriori tendenze dello Spiritualismo moderno. Innanzitutto si è delineato uno Spiritualismo concreto assolutamente non trascendentista, entro il quale lo Spirito viene considerato unicamente interiore ed affatto esteriore, ossia tutt’altro che uno spirito oggettivo. Oltre a ciò abbiamo visto emergere uno Spiritualismo che diverge radicalmente da qualunque filosofia rigorosamente scientifica, avendo unicamente l’intenzione di porsi entro una filosofia dell’esistenza e dell’essere. Infine abbiamo visto emergere anche uno Spiritualismo da intendere come prassi umana nel mondo; e peraltro anche nel contesto di una prassi ispirata fortemente alla fede cristiana. Esso si presta quindi fortemente a fondare un’autentica esperienza religiosa, come del resto abbiamo sostenuto in alcuni nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (“Seiende”), Dialeghestai 24, 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Con Guardini abbiamo visto invece emergere in maniera chiara un intendimento dello Spirito che corrisponde esattamente a quello di Spirito pneumatico o Pneuma. Ed abbiamo visto che esso coincide sostanzialmente con lo Spirito nella sua più alta formulazione, ossia come Spirito divino o Logos. Ma oltre a ciò esso coincide con l’altissimo concetto metafisico-religioso di corporeità spirituale, e quindi non è in alcun modo rigorosamente trascendentista né dualista. Qui, in maniera assolutamente imperscrutabile, lo Spirito è quanto di meno ontico possa venire immaginato, eppure è corporale al massimo grado. In ogni caso si tratta di quell’onticità che, essendo totalmente interiore, permette allo Spirito di sottrarsi senza la minima difficoltà a tutte le necessità imposte dall’esteriorità (in particolare quella spazio-temporale).
E non vi è solo questo, dato che il dinamismo irrefrenabile di tale sostanza permette ad essa di occupare simultaneamente sconfinate distese di spazio (e connesso tempo) costituendo così sempre una simultanea Totalità di Essere. Ed è a causa di tutto questo che esso ha il potere di revocare qualunque Legge di Natura, ossia la necessità stessa. Questo Spiritualismo si è rivelato comunque anch’esso molto utile per fondare un’autentica esperienza religiosa – specie nel considerare lo Spirito divino (di fatto lo Spirito Santo) come la misteriosa forza che rende possibile l’impossibile; ed inoltre nel sottolineare l’assoluta necessità dell’umana «decisione per lo Spirito» come condizione indispensabile per innescare la forza rigenerante che è propria dello Spirito divino in quanto pneumatico.
Con Maine de Biran abbiamo poi visto emergere un concetto di Spirito che coincide sostanzialmente con tanto con l’Io razionale umano quanto con l’Io razionale divino. Ed esso quindi potrebbe venire ricondotto solo con molta difficoltà al concetto di Spirito pneumatico; specialmente perché assume forme tangibili perfino nel contesto di una riflessione sostanzialmente metafisica. Esso infatti, pur nella sua più alta formulazione, è sostanzialmente Ragione (sede della Verità) e Causa delle cause moventi l’essere (per mezzo della sostanza animica umana). Oltre a ciò in Maine de Biran lo Spirito si presenta come l’Io nella sua unità tendenzialmente isolata, e quindi come un’entità spirituale decisamente intellettuale, ossia come una sorta di Io puro. E questo rende attuale in lui una certa dose di «onto-intellettualismo», ma comunque assimilabile alla tipica presa di posizione filosofico-moderna, ossia in definitiva non poco idealista. Infine questo tipo di Io appare subordinato allo Spirito divino senza che esso abbia alcuna caratteristica pneumatica. Anzi esso è semmai la sede primaria della verità razionali, con la conseguenza di uno Spiritualismo ancora una volta decisamente filosofico-intellettualistico.
Con Mounier infine abbiamo visto affermato un concetto di Spirito che vuole essere espressamente corporale al solo scopo di presentarsi a livello unicamente immanente, pragmatico e mondano, e precisamente come azione umana. E qui dello Spirito divino ci sono davvero pochissime tracce se non nessuna. Per cui è assolutamente impossibile ricondurlo al concetto di Spirito pneumatico. Anzi sembrerebbe che di questo tipo di Spirito Mounier abbia avuto un’idea assolutamente deteriore in quanto astratto ed anti-mondano. In ogni caso, aldilà dell’intendimento azionista dello Spirito, si ritrova presso di lui anche un suo intendimento interiorista che lo approssima non poco allo Spiritualismo filosofico-convenzionale. Quello che è certo è che in Mounier si dissolve totalmente l’onticità dello Spirito, in modo tale che esso diviene appena una disposizione.
Naturalmente il classico Spiritualismo filosofico-gnoseologistico del moderno pensiero (secondo il quale lo Spirito coincide con la Ragione, la coscienza, l’interiorità e la mente, specie nella sua valenza prevalentemente conoscitiva) interseca tutte queste visioni – a volte solo per venire totalmente sconfessato (come in Berdjaev e Guardini), a volte invece per venire in parte confermato (come in Maine de Biran e Stein). L’unica eccezione al proposito è ancora una volta Mounier il quale Spiritualismo non sembra avere assolutamente nulla a che fare con questo intendimento. Diversamente stanno invece le cose per Stein, nel cui pensiero invece la presenza di questo moderno Spiritualismo di fondo è più che tangibile; con l’eccezione delle affermazioni divergenti da questo che (come abbiamo visto) comunque in esso si ritrovano.
Con Steinhart, in conclusione, si siamo trovati di fronte ad uno Spiritualismo totalmente equivalente alle Leggi della Natura. Ed inoltre abbiamo visto che l’assimilazione Spirito-Energia è qui di natura meramente analogica, e quindi non ha alcuna possibilità di cogliere l’autentica natura dello Spirito stesso.
Non a caso in esso il Pneuma (per quanto molto suggestivamente simile all’energia creante qui presupposta) perde qualunque caratteristica personalistico-religiosa, e quindi cessa definitivamente di equivalere per davvero a quello Spirito divino che è in primo luogo Persona. Ecco allora l’unico Spiritualismo da noi esaminato che non si intrecci con il Personalismo. Con ciò quindi lo Spiritualismo pneumatico perde ogni portata etica e religiosa, e pertanto non si presta più in alcun modo né a fondare un’esperienza religiosa né a fondare un’esperienza spirituale. In altre parole l’intero Spiritualismo perde in esso quella portata pratica che lo rende disponibile a fungere da guida e forza nel corso dell’esperienza umana.

In nessuno degli autori da noi esaminati abbiamo trovato invece traccia di un effettivo «onto-spiritualismo» (per intenderci quello di tradizione platonico-gnostica e vedantica) – tranne per alcune vaghe assonanze con esso in Berdjaev e Guardini. Al contrario l’ordinario Spiritualismo filosofico-gnoseologistico, che si rivela presente al fondo di tutte le visioni esaminate, può ben venire ricondotto ad un paradigma «onto-intellettualistico». Ciò significa allora che nel contesto del moderno Spiritualismo si può ben assumere che lo Spirito sia l’Intelletto stesso. Ma intanto non si può assolutamente assumere che esso sia invece la Realtà nella sua pienezza. Perfino nel così estremo Spiritualismo di Guardini lo Spirito, infatti, è altissimo (come vuole di fatto essere anche quello «onto-spiritualista») ma intanto configura una sostanza assolutamente sfuggente ed ineffabile che in alcun modo può corrispondere alla Realtà; nemmeno a quella più astratto-ideale.
L’intendimento dello Spirito come Realtà appartiene pertanto decisamente ad una tradizione estremamente antica nella quale sembra che si siano perse totalmente le tracce nella filosofia moderna. Tuttavia l’esame dell’articolo di Steinhart ci dimostra in qualche modo che quello che in filosofia era uscito dalla porta (a partire da Cartesio in poi) è successivamente rientrato dalla finestra per mezzo della scienza. Infatti l’attualissimo concetto di Spirito come energia cosmica creante è senz’altro riduzionistico e perfino materialistico, e tuttavia almeno adombra l’idea che lo Spirito sia la Realtà stessa non solo nella sua Totalità ma anche nella sua profondità. Ciononostante però (come abbiamo appena detto) questo concetto di Spirito è così distante da quello anche solo moderatamente religioso, che esso diviene assolutamente inservibile per lo scopo primario al quale dovrebbe attendere qualunque dottrina spiritualistica, e cioè quello di porre l’uomo in profonda (ed anche produttiva connessione) con quella Forza divina amorevole che tutto crea e tutto trasfigura.
Inoltre, sebbene molto di sfuggita, ha fatto sentire la sua presenza anche quell’estremamente originale Spiritualismo eckhartiano che poi è una forma intensissimamente metafisico-religiosa di «onto-intellettualismo». Con esso, ovviamente, il convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologico non ha assolutamente nulla a che fare.
Infine si è comunque delineato nel corso dell’indagine (sebbene solo sul suo sfondo) una sorta di Spiritualismo degli «spiriti», ossia delle entità spirituali più che dello Spirito. Ed abbiamo visto con Berdjaev quanto esso può essere deteriore in quanto non solo riduzionistico ma anche perfino superstizioso.
Tuttavia la riflessione su questo aspetto da parte di Stein, Conrad-Martius e Gerda Walther − che poi risale a sua volta alla riflessione di Tommaso d’Aquino, e per mezzo di lui anche ad un’antichissima tradizione che affonda le sue radici perfino nella metafisica religiosa pagana (specie in Giamblico e Porfirio), e che poi prese forma in ambito cristiano nei Padri greci Massimo il Confessore e Basilio – ci mostra che tale Spiritualismo non è affatto privo di fondamento in termini metafisico-religiosi. Sta di fatto però che esso è comparso però nella nostra indagine solo sullo sfondo, e quindi non si presta affatto a rappresentare il moderno Spiritualismo.

Il bilancio netto di questa indagine, dunque – dato che essa ha avuto fin dall’inizio davanti a sé lo Spiritualismo steiniano come principale oggetto −, è che quest’ultima visione si presenta a noi in una forma davvero curiosamente sdoppiata. Infatti da un lato essa equivale perfettamente (e peraltro per una larga parte del pensiero steiniano) al più ordinario e convenzionale (ed in fondo anche sterile, specie religiosamente) Spiritualismo, e cioè quello filosofico-gnoseologistico. Mentre dall’altro lato esso equivale almeno tendenzialmente allo Spiritualismo più estremo, ardito ed anche più religiosamente produttivo, ossia quello che presuppone uno Spirito pneumatico. E questo è senz’altro quello di Guardini, che pertanto svetta in questa indagine esattamente come il suo Personalismo ha finito per svettare nella nostra indagine su questa visione. Oltre a ciò abbiamo anche visto che lo stesso così rigorosamente filosofico concetto di “spirito oggettivo” (che a sua volta corrispondeva fortemente alla ricerca fenomenologica sulle essenze cosali mondane in quanto «fenomeni») ha subito in Stein un’evoluzione che alla fine è approdata a quella “ontologia cristo-centrica” che addirittura converge con diversi aspetti dello Spiritualismo pneumatico – specie con l’idea che il mondo sia impregnato del divino e rappresenta quindi lo stesso Corpo Mistico di Cristo in quanto Spirito disceso nel mondo stesso. Ed infine abbiamo visto anche che la pensatrice impiegò addirittura lo stesso Spiritualismo «degli spiriti» nel contesto delle sue più pregiate riflessioni filosofiche. Laddove abbiamo visto che quest’ultimo non gioca però alcun ruolo nel moderno Spiritualismo storico.
Ebbene questo complessivo fenomeno rappresenta un qualcosa che continua a stupirci fin da quando abbiamo iniziato a studiare il pensiero steiniano. Per esso infatti ancora non siamo riusciti a trovare una plausibile spiegazione. L’unica spiegazione che pertanto ci sovviene è che la pensatrice deve essersi sentita in qualche modo obbligata (prima dal rigorismo razionalista filosofico hussserliano e poi da quello onto-metafisico e teologico tomista) a mantenere in secondo piano (se non nascosto) questo suo secondo Spiritualismo. Esso infatti era troppo fortemente in odore di spregevole irrazionalismo.
Non a caso, infatti, esso cominciò ad emergere solo verso la fine della seconda parte di EES, ossia in un momento della riflessione steiniana nel quale ella si era liberata definitivamente sia di Husserl che di Tommaso abbracciando invece la metafisica filosofico-teologica di Agostino ed anche dello stesso Paolo.
E sempre non a caso questo momento della sua riflessione precedette di pochissimo quel suo passaggio definitivo alla mistica che segnò poi la sua fuoriuscita quasi completa dalla filosofia. Il che significa che molto probabilmente il suo secondo Spiritualismo avrebbe potuto emergere in questa fase nel caso ella si fosse di nuovo dedicata alla filosofia. Ma ciò non avvenne sia perché ella si dedicò completamente ad opere mistico-pietistiche (che furono poi in gran parte una rilettura dei due grandi mistici, Teresa d’Avila e Juan de la Cruz), sia perché la morte precoce spezzò la sua vita e la sua opera. Fa eccezione a questo forse solo la sua opera dedicata da Dionigi l’Areopagita, ossia “Wege der Gotteserkenntnis” (WGE). In essa infatti si potrebbero forse trovare degli elementi per una concezione spiritualistica diversa da quella antecedente. Ed in effetti nella nostra riflessione su questa opera (vedi nota 3) abbiamo anche trovato tracce di questo aspetto specie nei termini di una visione metafisico-religiosa mistico-contemplativa, apofatica e dai toni molto suggestivamente neoplatonici. Tuttavia il tema di questa opera (che incluse una traduzione del testo di Dionigi ed inoltre un commento ad esso) fu la conoscenza di Dio ed affatto invece il concetto di Spirito. È evidente tuttavia che ella dovette avere ben presente che l’oggetto di tale conoscenza era nient’altro che lo Spirito divino.
Ciò non la indusse però a tematizzare specificamente questo aspetto.

In estrema conclusione quindi possiamo dire che da questa indagine sono emersi due sostanziali elementi.
Il primo elemento è il presentarsi del moderno Spiritualismo in alcune sue forme prevalenti: − 1) quello solo molto vagamente «onto-spiritualista» di Berdjaev, che però si sofferma soprattutto sul dinamismo creativo dello Spirito in quanto Essere non invece sulla sua possibile valenza di autentica realtà trascendente; 2) quello decisamente pneumatico di Guardini nel quale svanisce ogni possibile forma di «onto-spiritualismo», dato che lo Spirito si presenta come una sostanza estremamente sottile ed integralmente divina; che poi si offre esplicitamente a noi come forza di spinta sia nell’esistenza in generale sia anche nell’esistenza illuminata dalla fede cristiana; 3) quello di Maine de Biran, che, nonostante le sue venature religiose ed etico-emozionali-sociali, corrisponde in grandi linee al convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico; sebbene (in concordanza con Mounier) esso abbia una certa valenza etico-azionistica;
4) quello di Mounier, che si presenta decisamente come uno Spiritualismo immanentistico, mondanistico e perfino materialistico, entro il quale lo Spirito non è da intendere in altro modo se non come un vitalismo dell’azione umana; e naturalmente questo Spiritualismo è molto affine a quello di Blondel e Bergson.
Ebbene, sintetizzando ora ulteriormente queste varie forme dello Spiritualismo storico (sicuramente non «onto-spiritualista»), sembrano delinearsi due principali sue forme: − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista ed altissimamente metafisico-religioso) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista se non «onto-intellettualista»). Appare dunque evidente che lo Spiritualismo storico ebbe due anime molto diverse tra di loro. E la dirimente tra di esse sembra sia stata la decisione di rivolgersi o meno alla più tradizionale concezione metafisica e metafisico-religiosa dello Spirito.
Naturalmente sullo sfondo di tutti questi Spiritualismi ha rivelato la sua presenza quello più convenzionale filosofico-gnoseologistico, che però non sembra essere stato fatto totalmente proprio da nessuno dei pensatori da noi presi in considerazione. Fanno eccezione a questo solo Stein e forse in parte Maine de Biran. Sebbene, rispetto a Stein, tale costatazione venga notevolmente ridotta nella sua portata dall’evidenza nel suo pensiero di una sorta di inspiegabile secondo Spiritualismo di segno totalmente opposto. Quel che è certo è che, a fronte di uno Spiritualismo convenzionale di fatto dormiente nell’intera filosofia moderna (tanto che esso nemmeno questa denominazione porta), lo Spiritualismo autentico (ossia quello storico, volontario e consapevole di sé stesso) si rivela essere tutto non convenzionale.
Questo comunque può essere considerato lo scenario dello Spiritualismo moderno così come si è presentato in una serie di pensatori che hanno operato (in stretto parallelismo con il Personalismo) tra il XVIII ed il XX secolo, ma con sviluppi ulteriori che arrivano fino ai giorni nostri.
In ogni caso vorremmo sottolineare che, nell’osservare questo complessivo scenario, non dovremmo dimenticare che lo Spiritualismo non ha soltanto un’importanza puramente storico-filosofica o anche puramente metafisico-filosofica, ma ha invece anche un’importanza religiosa; sebbene nel senso più ampio del termine. Intendiamo con ciò un impiego del termine «religioso» che equivale quasi integralmente al termine «spirituale». Quindi (come abbiamo più volte sottolineato) tale visione dovrebbe venire presa in considerazione anche allo scopo di individuare in essa le forme che ci permettono di impiegare lo Spiritualismo nel corso della nostra esistenza, e specialmente nel caso che abbiamo intenzione di spenderla nel contesto di un’esperienza religioso-spirituale che sia il centro della nostra intera vita. Abbiamo visto infatti che la concezione più integrale dello Spirito, quella pneumatica (ossia quella più fede alla natura più propria dello Spirito stesso, in quanto sostanza onticamente inafferrabile e estremamente dinamica), ci offre la possibilità di attingere continuamente alle stesse fonti più profonde dell’essere nel mentre intanto ogni giorno siamo impegnati a confrontarci con l’essere concreto nella sua maggiore deteriorità, ossia la sua impenetrabile e dura solidità. Questo non è altro che quell’essere esteriore che noi cogliamo nella sua spietata indifferenza (e spesso perfino malvagità) in quanto dominato dalle ferree Leggi della Natura – le più spietate delle quali sono quelle della inflessibile concatenazione tra causa ed effetto (che punisce i nostri errori nel modo più duro possibile) e quella dell’istinto di sopravvivenza nel suo più pieno trionfo, ossia la legge del più forte. Ed è un’esperienza questa che molto spesso − in assenza del soccorso dello Spirito (cioè del Dio stesso che è invisibilmente presente nel mondo) − può molto facilmente piegarci, schiacciarci ed annientarci; ossia strapparci alla nostra stessa natura spirituale. Questo significa allora che lo Spirito nella sua più alta, piena e propria concezione è quello che più autenticamente è presente nel mondo. Ossia è quello che più realmente si offre noi, ci accoglie, ci sostiene e ci accompagna. E lo fa quindi con quella “leggerezza” che è solo della Grazia, della quale parla lo stesso Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339.].
Ebbene per tutto questo decisamente lo Spiritualismo di Guardini si offre a noi come quello che è più utile a questo scopo. Purtroppo però non possiamo dire lo stesso dello Spiritualismo di Stein, a meno che non scegliamo di prendere in considerazione solo quello che fu meno apparente nella sua opera. E probabilmente è proprio questo ciò che bisogna fare per rendere onore alla sua riflessione.

1- Introduzione
Questo scritto vuole essere il sunto del saggio sul Personalismo, che ho recentemente ultimato e che spero di riuscire a pubblicare quanto prima.
Intanto però vorrei offrire qui una sintesi dei risultati ai quali mi ha portato la riflessione condotta sulla base dell’analisi testuale delle opere dei vari pensatori personalisti che ho preso in considerazione.
In ogni caso, comunque, questo saggio ha avuto come centri orbitali dell’intera riflessione il pensiero di Edith Stein e quello di Nikolaj Berdjaev, ossia due tra i maggiori pensatori personalisti del XX secolo.
Al confronto tra i loro due pensieri ho dedicato recentemente alcune riflessioni [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende”), Dialeghestai 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >].
Ho però voluto tentare sia un confronto tra questi due personalismi sia anche un confronto al largo raggio tra di essi e l’universo personalista nella sua interezza; da quello più antico (Maine de Biran) a quello più recente (Ricoeur). Il mio criterio di scelta circa pensatori da includere è stato però quello di trattare soltanto di quelli dei quali possiedo sufficienti letture, escludendo quelli dei quali non le possiedo. E l’effetto di ciò è stata una notevole restrizione del raggio di quello che è il vero universo personalista. Il quale è ben più ampio dello spazio occupato dai pensatori che ho trattato e perfino più ampio anche di quello dei pensatori che tra poco elencherò, e che contano tra i maggiori esponenti del personalismo.
Elencherò dunque ora i nomi di coloro che contano come i maggiori pensatori personalisti nel contesto di un arco di tempo che va dal XIX al XX secolo (ed anche oltre), ma comunque si concentra in particolare nel XX secolo, e precisamente tra gli anni ’30 e ’50. Eccoli: − Edith Stein, Jacques Maritain, Paul Ricoeur, Nikolaj Berdjaev, Gertrud von Le Fort, Karl Jaspers, Max Scheler, Søren Kirkegaard, Charles Renouvier, Charles Peguy, Emmanuel Mounier, Charles Secrétan, Félix Ravaisson, René Le Senne, Louis Lavelle, Gabriel Marcel, Lucien Laberthonnière, Romano Guardini, León Bloy, Michele Federico Sciacca. A questi nomi primari aggiungerò comunque ora anche altri nomi di pensatori o intellettuali che o non rientrano nel periodo d’oro del Personalismo (e dalla sua specifica atmosfera culturale) oppure provengono da aree diverse dalla classica filosofia personalista (filosofia analitica, poesia, psicologia, sociologia): − Fëdor Dostoevskij, Giacomo Leopardi, Wolfgang Goethe, Victor Hugo, Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson (attuale filosofo analitico), Nikolai Hartmann (filosofo eclettico di origini neokantiane e con forti interessi metafisici), William Stern (psicologo). Probabilmente (almeno per alcune loro riflessioni) rientrano comunque nell’universo personalista anche Hans Jonas ed Hannah Arendt. Un cenno a parte va fatto per Dostoevskij e Leopardi, che consideriamo sostanzialmente dei filosofi-poeti ed ai quali ho dedicato un largo spazio come pensatori personalisti.
Quanto poi a Leopardi nel passato lo avevo letto come pensatore esistenzialista ed in questo lo avevo associato anche a Fernando Pessoa [Vincenzo Nuzzo, “Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi” < Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi. | cielo e terra (wordpress.com)>; Vincenzo Nuzzo, I dialoghi di giorni senza fine e l’universale Biblioteca ‒ il sogno di Heidegger < I dialoghi di giorni senza fine e la Biblioteca universale ‒ il sogno di Heidegger | cielo e terra (wordpress.com) >].
Va anche ricordato che, grazie a Mounier (insieme a Le Senne e Lavelle) la famosissima rivista francese “Esprit” fu di fatto il nucleo e l’anima di quel Personalismo nel quale peraltro la scuola francese è assolutamente preponderante. Il che ci mostra anche quanto fortemente intrecciati siano stati Personalismo e Spiritualismo. Infine c’è una certa discordanza circa il pensatore che va considerato il precursore del Personalismo. Alcuni lo vedono in Maine de Biran (il cui pensiero si sviluppo tra XVIII e XIX secolo, immediatamente a ridosso della Rivoluzione Francese e poi anche della Restaurazione) ed altri (tra i quali Mounier) lo vedono invece in Renouvier (filosofo neo-criticista che visse ed operò nel corso dell’intero secolo XIX).
Devo infine anche doverosamente precisare che i saggi sul Personalismo certamente non mancano e che quindi questa corrente di pensiero conta già degli studiosi molto importanti, tra i quali il Prof. Danese [Armando Rigobello, Introduzione ad una Logica del Personalismo, Liviana, Padova 1958; Attilio Danese, Il problema antropologico. Il personalismo di Emmanuel Mounier, Ladolfi, Borgomanero (NO) 2012].

Ora prima di entrare nel merito del sunto del contenuto del mio saggio, vorrei proporre al lettore una sorta di generica classificazione del Personalismo, sebbene Mounier e Ricoeur ne abbiano proposte anche altre.
Eccola: − 1) personalismo in gran parte metafisico-religioso (quasi interamente cristiano) incentrato sull’uomo come essenza o sostanza, e quindi ontologico (Maritain, Stein, Berdjaev, Le Fort, Sciacca, Guardini, Scheler, Maine de Biran, Guardini, Bloy, Le Fort); 2) personalismo specificamente spiritualistico (Stein, Berdjaev, Sciacca, Guardini, Maine de Biran); 3) personalismo totalmente o parzialmente laico e filosofico-politico incentrato sulla relazionalità, sulla socialità e sui valori (Mounier, Scheler); 4) personalismo esistenzialista (Kirkegaard, Marcel, Leopardi, Jaspers); 5) personalismo metafisico-filosofico ma interamente laico incentrato sul fondamentale psichismo umano (Jaspers); 6) personalismo naturalistico e psicologico, incentrato sulla persona come attitudine relazione ed azione, ma non come sostanza (Ricoeur, Mounier, Scheler). Come si può facilmente vedere, diversi pensatori si lasciano difficilmente inquadrare in una sola forma della complessiva visione e quindi devono venire presi in considerazioni contemporaneamente in diverse delle sue forme.
Infine vorrei fornire qui un elenco dei principali testi ai quali mi sono ispirato nel dare forma al Personalismo in generale, dato che nell’esposizione che seguirà non potrà fornire delle voci bibliografiche precise rispetto alle idee espresse dai diversi pensatori. Per questo devo rinviare il lettore al testo del saggio, che però, come ho detto, non è stato ancora pubblicato. In ogni caso ulteriori voci bibliografiche (più secondarie) verranno da me fornite nel corso dell’esposizione. Ecco dunque le opere, che contrassegnerò anche con le sigle per mezzo delle quali le richiamerò nel corso dell’esposizione: −

1) Arendt Hannah, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010 (RG)
2) Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951 (DIWO)
3) Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018 (SC)
4) Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002 (CD)
5) León Bloy, Esegesi dei luoghi comuni, Paoline Roma 1961 (ELC)
6) León Bloy, Il sangue del povero, Paoline, Milano 1962 (SP)
7) León Bloy, L’anima di Napoleone, Paoline, Milano 1962 (AN)
8) Rolando Damiani (a cura di), Leopardi. Poesie e Prose, Mondadori 1996
9) Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Maria Amata Neyer, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA
3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015.
10) Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald &
Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988 (WP)
11) Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016 (DH)
12) Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008 (DT)
13) Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971 (PE)
14) Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956 (PM).
15) Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Forgotten Books, London 2018 (PDW).
16) Hans Jonas, Il principio responsabilità. Einaudi Torino 1993 (PR)
17) Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014 (BTEE)
18) Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione,
Bibliotheca, Gaeta 1998
19) Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti)
20) Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2015
21) Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018
22) Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Elibron Classics 2007 (DFE)
23) Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988
24) Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001 (DAMP)
25) Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006 (EES)
26) Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch
einer Gegenüberstellung“, in: Husserl zum 70. Geburtstag, N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-
338
27) Edith Stein, Geistliche Texte I, ESGA 19, Herder, Freiburg Basel Wien 2009.
28) Edith Stein, Geistliche Texte II, ESGA 20, Herder, Freiburg Basel Wien 2007 Basel Wien 2007.
29) Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Citta Nuova, Roma 1998
30) Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.
31) Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003 (PA)
32) Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996
33) Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934

Prima di procedere nella lettura vorrei avvertire che il testo che segue compare nel saggio come una sorta di bilancio finale di tutto il materiale raccolto. E quindi molte sue affermazioni vanno considerate necessarie in relazione a questo scopo.

2- Riassunto del saggio
Il saggio ha offerto al lettore uno scenario piuttosto ampio del personalismo, sebbene esso non può pretendere assolutamente di includere tutti i pensatori rientranti in questa visione (nel contesto di un vero e proprio Trattato sul Personalismo), specie quelli più attuali ed inoltre quelli più lontani da una visione personalista di tipo metafisico-religioso. Diciamo che, con ciò che ho esposto, il lettore può essersi fatta un’idea abbastanza ampia e profonda del concetto di persona così com’è stato concepito nel Personalismo in generale, ed inoltre può essersi fatto un’idea abbastanza ampia e profonda di quali sono state e sono le varie forme di personalismo che sono insorte già a partire dal secolo XVIII fino ad oggi. Oltre a ciò ho comunque chiarito a sufficienza che il Personalismo non può in alcun modo venire considerato un fenomeno unicamente moderno, dato che esso ha alle spalle una tradizione millenaria che affonda le sue radici addirittura nella filosofia sapienziale e religiosa dei templi egizi e caldei. E peraltro più avanti vedremo che (nonostante le idee contrarie rispetto a questo di Berdjaev, Ricoeur e Mounier) si ritrovano elementi personalistici perfino in Platone. Inoltre ho anche fornito più volte strumenti per l’orientamento entro questo così vasto scenario di concezioni, nel senso della sua classificazione in forme diverse, ognuna della quale raccoglie in sé un certo numero di specifiche visioni e relativi pensatori.
Tuttavia, nel dover discutere ed ancor più comparare la visione personalista di diversi pensatori, il mio discorso è dovuto essere necessariamente molto oscillante. E mi sembra quindi che ciò esiga una nuova sintesi chiarificatoria e disambiguante (sia dei caratteri della persona sia anche dei caratteri del personalismo) – che segue a quella preliminare, ma ormai sulla base di una vasta analisi testuale e dottrinaria.
Quello che però ora mi sembra necessario è rivedere questo intero materiale per due scopi: − 1) ottenere una sorta di sintesi della dottrina della persona (e della relativa visione personalista) nei suoi tratti principali; 2) ottenere una classificazione molto generale del Personalismo diversa (in quanto più generale ed essenziale) da quelle già proposte che ci permetta di vederne le sue più grandi e principali direttrici.
Devo però ribadire che questa mia trattazione del Personalismo resta comunque incentrata su Nikolaj Berdjaev ed inoltre sul confronto della sua visione con quella di Edith Stein. Questo insomma è restato costantemente il punto focale della mia indagine. Abbiamo visto più volte che la prima visione (quella di Berdjaev) è forse davvero la più profonda, completa e profondamente ispirata moderna dottrina della persona. Abbiamo però anche visto che essa è tutt’altro che perfetta, e quindi finisce per apparire insufficiente al cospetto di non poche dottrine della persona ed anche di specifici aspetti di essa.
Quanto a Stein abbiamo constatato l’esatto contrario. Al cospetto della dottrina personalista di Berdjaev quella steinana è apparsa costantemente insufficiente in primo luogo in quanto condizionata troppo fortemente tanto dallo gnoseologismo filosofico ed intellettualistico (che le proveniva di Husserl) quanto anche da quella dogmatica (metafisico-teologica) cristiana la quale (non avendo fino in fondo il coraggio di credere davvero nel mistero dell’Incarnazione) non era riuscita a concepire in maniera realmente integrale la pienezza e dignità della persona in quanto sostanziale umano-divinità. E specialmente, al cospetto di Guardini, abbiamo constatato quanto la causa di tale insufficienza sia consistita nel pesante condizionamento filosofico del pensiero steiniano, che sta oggettivamente in conflitto con le radici sostanzialmente teologiche del concetto di persona. Il che poi in particolare mette allo scoperto l’insufficienza dello spiritualismo steiniano (sostanzialmente a causa della natura sostanzialmente intellettualistica) in quanto del tutto impari rispetto a quello che sostiene il più autentico Personalismo.
Nello stesso tempo però abbiamo visto più volte che la visione personalistica steiniana riesce comunque a sottrarsi in diversi aspetti a quella insufficienza che emerge nel suo confronto con Berdjaev, riconfermandosi così come uno dei più grandi personalismi che mai siano apparsi nel mondo del pensiero.
Insomma qui posso finalmente riconfermare che è stato questo il centro orbitale intorno al quale si è mossa la mia intera trattazione del Personalismo.
Detto questo non posso in alcun modo negare (pur con tutte le relativizzazioni di questa tesi nella quale mi sono imbattuto) di ritenere che la più autentica e primaria visione personalista sia quella che considera la persona come un’entità ontologica e sostanziale, e quindi anche metafisico-religiosa. Il che implica poi che la persona umana è da considerare invariabilmente come la stessa «anima» in quanto sostanza onto-metafisica. A ciò vi è però da aggiungere che tale animicità dell’uomo personale deve necessariamente venire ricondotta alla sua (ben più profonda e fondamentale) onticità spirituale.

2-1 La dottrina della persona in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» della persona sulla base dell’esame del pensiero personalista.
Credo che sia utile qui distinguere i caratteri ontologico-basici della persona in due gradi e cioè quelli più fondamentali e quelli meno fondamentali.
I primi caratteri sono i seguenti: − non-cosalità o trascendenza, sostanzialità animico-spirituale (specialmente spirituale), umano-divinità, concretezza reale, umanità (relazione di possibile coincidenza ontologica tra persona ed uomo), relazionalità, connessione (o meno) con Io, individuo e finito, identità, unità ed unicità.
I secondi caratteri sono i seguenti: − dignità, creatività (unita tendenzialmente alla potenza), azione (specialmente di tipo morale), capacità di responsabilità e scelta, disposizione all’amore, libertà, tendenza alla comunionalità, tendenza ad un’azione trasfigurante e perfino rivoluzionaria.
Per questo motivo tratterò del tema della persona in due diverse sotto-sezioni.

2-1.1 I caratteri più fondamentali della persona.
La persona in primo luogo non è in alcun modo una cosa del mondo. E questo viene affermato praticamente da tutti i pensatori personalisti. Naturalmente ciò comporta uno dei caratteri ontologici più fondamentali della persona stessa, che è la trascendenza. E di questo carattere non mette conto qui nemmeno parlare, dato che, rispetto ad esso, nel mio saggio non sono emerse né problematicità né contraddizioni. Infatti appunto tutti i pensatori personalisti lo mettono in evidenza senza grandi differenze. In altre parole per tutti i pensatori personalisti (tranne forse per Ricoeur) la persona è in pieno possesso di una trascendenza che fa di essa un’entità decisamente metafisica (qualunque sia la letteralità, il grado e l’intensità che si voglia poi attribuire a questo concetto). L’unica discrepanza a tale riguardo potrebbe consistere nella radicale originarietà ontologica che Berdjaev attribuisce alla persona e quindi anche alla sua trascendenza. Ma di questo parleremo tra poco.
Tale trascendenza non impedisce affatto, però, che la persona sia estremamente concreta e perfino carnale, dunque almeno in una certa misura mondana. Essa insomma non è affatto né un’idea, né una vuota entità logico-astratta né un puro spirito (sebbene sul piano metafisico assomigli molto ai puri spiriti). E questo perché essa è presenza nel mondo ed anche azione in esso. In particolare è azione creativa nel senso della partecipazione alla creazione (nella forma soprattutto di sua continuazione) e specialmente della trasfigurazione in senso spirituale del mondo. Questo è da considerare il principale effetto della presenza di una piena persona nel mondo. A questo c’è però da aggiungere che (specie sulla base di Mounier) tale presenza è da considerare qualcosa che è senz’altro in via di principio attuale, ma lo è intanto solo condizionatamente alla decisione presa in tal senso dai singoli uomini ed anche dall’intera società e relativa cultura. In altre parole per il pensatore francese non basta affatto lo status previo ed originario di sostanza metafisica che caratterizza la persona. Essa invece deve ancora farsi come tale nell’azione, cioè deve diventare persona nell’agire (e per sua espressa decisione). Altrimenti resta una mera latenza.
Tuttavia questo non cambia nulla nell’ontologia fondamentale della persona. Infatti, come ho detto già in partenza nell’introduzione a questa sezione, la non-cosalità della persona implica necessariamente che essa è una sostanza onto-metafisica trascendente, e quindi è anima e spirito. Motivo per cui non vi è assolutamente nulla che possa dissolverla onticamente, e quindi nemmeno la morte stessa. Ecco perché la persona è immortale per definizione, ovvero è una sostanza che trascende decisamente il divenire temporale persistendo infinitamente. Il che implica poi necessariamente che essa trascende decisamente la Natura e tutto ciò che è naturale. Proprio per questo motivo, come poi vedremo più approfonditamente, essa non è affatto né individuo, né Io, né coscienza né psiche né uomo in carne ed ossa, né ente animale, né infine un mero ente finito. È invece sempre molto più di questo.
Altro aspetto primario e fondamentale della persona è la sua umano-divinità, ossia la sua somiglianza totale alla Persona divina in quanto Gesù Cristo, Figlio e Logos. E questo è senz’altro quel Dio incarnato il quale, nel suo immenso amore, ha voluto abbassarsi alla natura umana fino a porsi come l’Uomo Cosmico o anche Uomo Prototipico (supremo e nuovo Adamo, o nuovo Primo Uomo, “Adam Kadmon”, “Macroanhtropos” o “Pananthropos”), che è non solo il nucleo e modello divino-spirituale della persona umana ma è anche quel Corpo Mistico entro il quale viene a compimento una delle principali attitudini e disposizioni della persona. Si tratta dell’attitudine della persona ad essere tale in primo luogo nel divenirlo per mezzo dell’«altro» uomo, una volta riconosciuto anch’esso come persona (e non come mero oggetto).
E si tratta quindi della dimensione ontologica primariamente relazionale della persona – in quanto “Io” che non solo sta in relazione con il “Tu” ma che inoltre solo in questo modo giunge al proprio compimento di piena persona. Il che riproduce peraltro perfino la relazione che esiste tra Dio ed il mondo nel Suo creare quest’ultimo sostanzialmente come un mondo alieno («altro») del quale Egli rispetta l’esistenza fino al punto di retrocedere al suo cospetto rinunciando in tal modo alla propria soverchiante Potenza, Perfezione e Santità.
Nello stesso tempo ciò ci indica che questa è una delle principali vie per mezzo delle quali la persona diviene per davvero ciò che è in forza della sua scelta e della sua decisione. Questa è infatti senz’altro la via della dimensione relazionale della persona intesa in termini sostanzialmente metafisico-religiosi e teologici.
Ma (come ci dimostra il pensiero di Mounier) ciò ha un preciso corrispettivo entro la dimensione più pragmatica, mondana e sociale della relazionalità – anche in quest’ultima infatti la persona deve fare una precisa scelta in assenza della quale essa perde la possibilità di essere ciò che è ed in tal modo ricade in quella realtà individuale che è unicamente egocentrica.
In ogni caso tutto ciò sottolinea che gli elementi ontologico-basici più primari della persona (non-cosa e sostanza, umano-divinità) fanno di essa un qualcosa che può e deve venire concepito in primo luogo in termini non solo onto-metafisici ma anche metafisico-religiosi. E questo rende naturalmente assolutamente primario il personalismo cristiano.
Da tutto ciò discende inevitabilmente che la persona non è altro che l’uomo colto nella pienezza della sua inalienabile dignità. Ma di questo aspetto parleremo solo dopo aver chiarito alcuni altri estremamente fondamentali aspetti ontologici della persona.
Innanzitutto il fatto che la persona sia concreta e reale (e quindi né un’Idea, né una vuota entità logico-astratta né tanto meno un puro spirito) implica che essa sia umana e quindi coincida necessariamente con la realtà ontologica dell’«uomo». Ebbene questo Berdjaev lo dice in una maniera così diretta, radicale ed esplicita che davvero non si può trovare un altro pensatore personalista che faccia lo stesso. Egli fu insomma personalista quasi totalmente sulla base di un fortissimo accento posto sul recupero di un’esplicita e centrale antropologia. Anzi per lui il Personalismo è la stessa filosofia colta nella sua irrevocabile vocazione antropologica, ossia come scienza dell’uomo. Cosa che indubbiamente era venuta a mancare in filosofia da quando la preoccupazione critico-gnoseologica (certamente da Kant) in poi aveva spiazzato perfino quell’antropologia che senz’altro si ritrova ancora perfino in Cartesio nonostante la sua forte relativizzazione dell’ontologia (che a sua volta sostiene il concetto di persona come sostanza onto-metafisica e metafisico-religiosamente concepita).
Non vi è dubbio intanto che Stein (sebbene con toni molto meno accesi) segue a ruota Berdjaev in questa sua identificazione strettissima tra «persona» ed «uomo», e quindi nella sua affermazione della necessità di ricostruire un’esplicita antropologia. Inoltre vi sono motivi sufficienti per ritenere che (sebbene in misura minore) ciò valga anche per altri pensatori da noi direttamente discussi – Maritain, Guardini, Jaspers, Scheler, Bloy, Le Fort, Dostoevskij, Leopardi e Maine de Biran. Per Mounier ci permettiamo di nutrire però dei dubbi dato che la sua concezione della persona è largamente relativa all’azione ed alla dimensione sociale. Tuttavia non vi è dubbio che nel suo pensiero si ritrovino certamente elementi antropologici.
Il problema è però se per davvero la persona equivalga onticamente così direttamente all’uomo (come sostiene Berdjaev), dato che tale stretta equivalenza riposa sulla pari equivalenza della persona e dell’uomo all’essere stesso. Ed a tale riguardo sono emersi nella mia trattazione degli elementi di forte dubbio.
Va detto comunque che questo tema è inscindibilmente connesso con quello dell’attribuzione alla persona del carattere dell’umano-divinità ed inoltre quello dell’onticità spirituale (equivalenza tra uomo e spirito). Essa è inoltre connessa anche con il tema dell’attribuzione all’uomo della stessa originarietà che compete all’essere.
Orbene un po’ dappertutto nella mia trattazione (non solo commentando Berdjaev) è emerso che la persona deve necessariamente coincidere con l’uomo a causa dell’unità (a sua volta intimamente connessa all’unicità) che nella sua vera integralità è solo di quest’ultimo. E la persona è appunto quanto di massimamente unitario possa mai venire concepito. Tanto è vero che essa esprime in pieno l’unicità che caratterizza ogni singolo uomo. Ma ultimamente sono insorte diverse concezioni riduzionistiche (alcune delle quali perfino teosofiche e vagamente spiritualiste, e tra le quali anche l’induismo e soprattutto il buddhismo nelle loro versioni occidentali) le quali, nel negare l’unità dell’uomo, negano necessariamente anche la sua equivalenza alla persona. La quale quindi in una certa misura deve invece venire accettata quasi come un dogma. Lo stesso Berdjaev menziona criticamente una serie di moderne visioni teosofiche che di fatto annientano la persona proprio nello scomporre l’uomo in una realtà naturale-elementare affatto unitaria (ed include in queste visioni anche diverse dottrine orientali decisamente anti-personaliste). Nel contesto del mio discorso è emerso con chiarezza (specie sulla base di Guardini) che lo stesso riduzionismo va attribuito alla moderna teoria della “Gestalt” – che da tempo spadroneggia in biologia, psicologia, sociologia e filosofia. In essa infatti si tende a sostenere che potrebbe essere una realtà personale anche un semplice Tutto perfettamente integrato nelle sue parti – laddove invece questo è vero anche per enti unitari del tutto inanimati come ad esempio i cristalli. Stein intanto ha riaffermato la necessità di un’antropologia proprio nel difendere l’unità dell’uomo contro varie dottrine moderne (la dottrina evoluzionistica di Darwin, la psicanalisi freudiana e perfino l’esistenzialismo nichilista di Heidegger).
Esistono comunque anche gli argomenti contro l’affermazione di questa così stretta equivalenza tra persona ed uomo. Uno di questo riguarda proprio l’attribuzione all’uomo della natura personale in quanto spirito per eccellenza. Abbiamo udito infatti Guardini sottolineare che vi è un’onticità para-spirituale del tutto indifferenziata ed elementare che non è affatto umana, dato che essa non ha nulla a che fare con l’azione libera e quindi con la scelta responsabile. E questa corrisponde esattamente alla “Gestalt” in quanto mera sagoma individuale (perfettamente circoscritta) che racchiude una totalità perfettamente integrata nelle sue parti, ma intanto non vitale, non cosciente e non libera. La scelta responsabile, infatti, è solo dello “spirito individuale” che poi è esattamente l’uomo in quanto persona. E solo questo è il vero spirito in quanto uomo e persona. Pertanto su questa base bisogna dire che (diversamente da quanto sostiene Berdjaev) l’equivalenza tra persona ed uomo non è affatto originaria, in quanto essa emerge per davvero soltanto nel contesto dell’azione umano-personale, e quindi è del tutto relativa a quest’ultima (e forse anche totalmente storica). Ben altra cosa invece è dire che la persona è uomo in maniera radicalmente originale e quindi assoluta, dato che uomo ed essere sarebbero esattamente la stessa cosa. Abbiamo peraltro visto in questo contesto che la stessa Stein, nel sostenere come Berdjaev (ma non con lo stesso radicalismo) l’equivalenza tra persona e uomo, non ha nemmeno lei posto mai l’accento su questo concetto di “individualità spirituale” (almeno non con la stessa forza di Guardini).
Ma forse l’argomento più forte contro Berdjaev si ritrova in Mounier, nel contesto del cui pensiero addirittura vi è un momento in cui persona e uomo appaiono ontologicamente del tutto slegati tra loro.
E questo peraltro ci rinvia all’accento posto da Maritain e Guardini sulla persona umana in quanto sostanziale “lui” o anche “chi?” (invece che mero “cosa?”) – e cioè un oggetto che in verità è sempre in primo luogo un soggetto, ed in particolare grazie all’essere oggetto dell’eterna conoscenza amorosa di Dio (è la persona umana come quel “colui” del quale solo Dio conosce il vero “nome”). Mounier dice infatti che persona non è affatto l’uomo. Semmai invece essa è l’uomo che osserva sé stesso scoprendo così di non essere un mero oggetto, ossia un mero e del tutto casuale “un”, ma è invece un “lui”.
Ebbene una simile affermazione si ritrova di fatto in tutti i pensatori personalisti, incluso anche Berdjaev. Tuttavia (come abbiamo prima constatato in Guardini) essa (nella forma specifica in cui è formulata) ci mostra che l’equivalenza tra persona e uomo è semmai un atto e non invece uno stato ontologico – e precisamente è un atto volontario per mezzo del quale l’uomo sceglie di porre sé stesso come persona e come tale considerarsi. E come tale non può essere né originario né assoluto. Il che esclude molto decisamente l’equivalenza trinomiale affermata dal pensatore russo – essere-uomo-persona. Sicuramente, quindi, questo salva Stein da molte delle costatazioni di insufficienza che, nel corso della mia trattazione mi sono visto costretto ad attribuirle. Anche lei infatti ha visto nell’uomo questo atto di auto-consapevolezza che fa di esso una persona. Ma intanto si è guardata bene dal giungere per questa via all’affermazione dell’equivalenza assoluta ed originaria tra uomo ed essere. La sua antropologia metafisica è stata infatti sempre dominata dalla discrepanza da riconoscere tra finito umano ed Infinito divino. Però nel corso della mia trattazione è risultato chiaro che nemmeno questo giustifica in maniera sufficiente la vera natura metafisica della persona – la quale onticamente non è né individuo, né Io, né coscienza, né finito.
Dunque nel complesso questa affermazione berdjaeviana della radicale equivalenza uomo-essere appare essere estremamente debole sul piano onto-metafisico, e quindi risulta alla fine un elemento estremistico che può anche venire tralasciato nel concepire un Personalismo davvero equilibrato. Semmai tale equivalenza può venire considerata relativamente valida unicamente nella sua specifica concezione dell’essere. Ma a questo punto quest’ultima appare anch’essa tutto sommato secondaria e superflua nel contesto di una visione personalista. In altre parole insomma si può dire che un pieno Personalismo può sussistere anche in assenza di una concezione così radicale dell’essere come quella berdjaeviana.
Diversamente stanno le cose però riguardo all’equivalenza stabilita dal pensatore russo tra persona e spirito – e peraltro sempre sulla base della supposizione dell’assolutamente originaria equivalenza tra essere e spirito. Abbiamo già visto infatti che, almeno nei fatti, la persona non è affatto un puro spirito (sebbene lo sia comunque per costituzione ontica originaria), bensì è una realtà estremamente concreta. Questo lo afferma con forza lo stesso Berdjaev, ed abbiamo visto che ciò si basa secondo lui sulla necessità di abolire qualunque dualismo spirito-carne.
Quindi è intuitivo che anche in questa equivalenza deve essere nascosta qualche problematicità filosofico-metafisica ed anche metafisico-religiosa. E tuttavia è anche vero che quasi tutti i pensatori personalisti (a partire da Maine de Biran) hanno colto la persona umana come spirito. Tanto è vero che personalismo e spiritualismo sono oggettivamente strettamente intrecciati. E quindi nemmeno si può dire che tale equivalenza non possa né debba venire considerata valida. In ogni caso la questione dell’equivalenza persona-spirito può e deve venire trattata insieme a quella della valenza spiritualista o meno del Personalismo. Bisogna partire dal fatto, sottolineato da Scheler, che la stessa dimensione relazionale della persona (la sua “intenzione di società”) riguarda unicamente l’uomo spirituale, e non invece né l’uomo razionale né l’uomo naturale. E con ciò viene affermata con forza l’identità ontologica tra persona e spirito.
Tuttavia (in DFE) egli afferma anche che, non essendo né soggetto mentale-naturale né Io, la persona non è da considerare nemmeno spirito. Va però tenuto in considerazione che Berdjaev considera la perfetta equivalenza tra persona e spirito sulla base del fatto che essa è attiva per definizione, e quindi non si può parlare nel suo caso di alcun libero arbitrio, visto che esso è invece solo passivo e reattivo. Ma ritorna di nuovo qui il concetto guardiniano di “individuo spirituale”, dato che egli afferma che la persona umana non è né spirito indifferenziato né tanto meno pura coscienza.
E questo sottolinea l’equivalenza persona-spirito, ma ancora una volta su un piano relativo (incentrato proprio sull’esercizio del libero arbitrio) e non invece originario-ontologico. A ciò si aggiunge peraltro il fatto che Guardini sottolinea (su base unicamente teologica ed affatto filosofica-metafisica) che lo Spirito di Dio in quanto Amore è incarnazione della persona (nel contesto della dinamica trinitaria). Il che ci porta ancora di più a pensare che esattamente in questo modo (affatto letterale) vada correttamente intesa l’equivalenza persona-spirito in quanto originaria, che invece Berdjaev afferma su un piano unicamente onto-metafisico con una certa affrettata foga ideologica di tipo umanistico.
Di nuovo poi a questo riguardo viene Mounier a dirimere l’intera materia nell’affermare che, sebbene la il valore ed anche la stessa ontologia della persona vadano riconosciuti risiedere entrambi nella sua interiorità più intima (che è poi quanto fa di essa uno spirito), è anche vero che in definitiva essa non è affatto un “essere” ma semmai è molto più una “presenza”. E questo scardina decisamente la persona dall’onticità spirituale in radicale conflitto con ciò che pensava Berdjaev.
Orbene tutto questo offre argomenti sia pro che contro l’equivalenza totale persona-spirito. Però bisogna anche considerare che (come abbiamo visto nel corso della trattazione) lo spiritualismo di Mounier non è affatto rappresentativo né dell’intero Personalismo né di quello più profondo (che è senz’altro quello sostanzialista e metafisico-religioso). Peraltro abbiamo visto che Guardini non nega affatto in assoluto l’equivalenza esistente tra persona e spirito. Ed infine a questo punto va considerato paradigmatico per davvero il personalismo di Stein (unitamente anche a quello di Maritain), dato che esso (nonostante il suo così condizionante intellettualismo gnoseologico-filosofico) sostiene con ragioni formidabili (ed anche estremamente sublimi) tale equivalenza.
Pertanto – pur nel dover porre di nuovo in discussione la così radicale equivalenza originaria persona-uomo-spirito-essere affermata da Berdjaev – possiamo qui senz’altro assumere che persona e spirito sono una sola cosa.
C’è poi da considerare la questione se la persona sia da considerare o meno un’entità effettivamente ontologica, e quindi anche da concepire in termini metafisici. Ma riguardo a questo, nel corso della mia trattazione, abbiamo visto che i vari pensieri personalistici si incrociano e mescolano tra di loro, per cui questa affermazione si ritrova anche tra coloro (come Guardini, Maine de Biran) che in primo luogo vedono nella persona un’entità relazionale.
Vi sono poi una serie di caratteri ontologico-basici della persona che possono ben venire trattati insieme sulla base dei riscontri che abbiamo ottenuto al riguardo nel corso dell’indagine – individuo, Io, condizione di finito. La questione rispetto a ciò è se la persona possa venire considerata ontologicamente ad uno o anche a tutti questi elementi insieme. E qui (come ho già detto) la risposta può essere in partenza negativa, dato che (nonostante l’andamento alternante delle costatazioni che ho fatto al riguardo nel corso della trattazione) comunque sono prevalsi gli argomenti contro una tale equivalenza. In particolare per quanto attiene la possibile equivalenza tra Io e persona.
Ma vediamo di riassumere quali sono i punti più rilevanti della questione.
Lo stesso Berdjaev (nel suo DIWO) sentì l’esigenza di fare preliminarmente chiarezza su questo punto sulla base di Nikolai Hartmann. E, sulla base di questo pensatore, ci ha dunque mostrato che né l’individuo né l’Io possono venire considerati persona, in quanto il primo è un’entità umano-singolare puramente naturale mentre il secondo è un’entità umano-interiore totalmente indifferenziata, nel mentre invece la persona è differenziata per definizione. Il che implica poi la dimensione dell’unicità personale che manca sia all’individuo che all’Io per il semplice fatto che entrambi sono ontologicamente riduttivi. L’individuo lo è in quanto meramente quantitativo (e quindi per nulla qualitativo); perché esso è singolare alla stregua di qualunque entità naturale (animali, piante ed anche morte cose). L’Io lo è in quanto è puramente astratto e ontologicamente potenziale, e quindi affatto realizzato com’è invece la persona. Il che comporta anche nel suo caso l’impossibilità che esso possieda davvero l’unicità, dato che quest’ultima si manifesta soltanto in ciò che è «proprio questo uomo» (ossia un uomo come non ce n’è nessun altro). Ed è chiaro che ciò è possibile solo nel caso di un’entità ultimamente concreta, ossia appunto un Io definitivamente realizzato in quanto totalmente esplicato. Del resto questo fu quanto affermò anche Stein un po’ in tutte le sue riflessioni (AMP, PA, EES) – nello sforzarsi di chiarire che la persona è senz’altro originariamente uno spirito, e quindi un’Idea (-Essenza), ma nei fatti lo è solo in quanto idea incarnata, ossia come Essente unico-personale terreno che a sua volta è perfettamente speculare rispetto all’Essente unico-personale divino, ossia il Logos (che è poi anche il paradigma ideale-essenziale di ogni cosa mondana).
Diciamo quindi che la persona è un Io solamente in quanto potenzialità ed affatto invece in quanto attualità. Berdjaev sottolinea comunque anche che, proprio in quanto l’individuo è così riduttivo, lo stesso vale anche quando lo si considera come il finito in quanto esistente. Anche quest’ultimo infatti non è altro che una base ontico-naturale (e per la precisione tragico-esistenziale) che non può essere in alcun modo comparata con la radicale trascendenza, creatività e libertà che caratterizzano la persona.
Oltre a ciò il pensatore russo afferma che la persona per definizione si pone in relazione ad un Tutto, mentre invece l’Io considera sé stesso come un Tutto oltre il quale non vi è assolutamente nulla. E proprio per questo esso tende a porsi come un’identità che non è essa stessa per nulla equivalente alla dimensione identitaria della persona – dato che la prima è escludente, mentre la seconda è includente. Inoltre Berdjaev si richiama a Kirkegaard nel richiamare l’idea di quest’ultimo secondo la quale la verità sta soltanto nel soggetto in quanto “coscienza” nel senso etico (“Gewissen”). Ma questo però non è affatto possibile se il soggetto viene identificato con l’Io, il quale è unicamente egocentrico. E quindi anche questo rende impossibile che l’Io sia persona. E bisogna dire a questo punto che anche Stein cadde in fondo nel tranello di considerare la persona di fatto come equivalente all’Io.
Lo stesso tipo di constatazioni può essere fatta laddove Guardini vede nell’individuo appena il livello secondo (subito dopo quello della “Gestalt”), e quindi più basico ed elementare, della realtà umano-personale, che corrisponde a sua volta ad una mera auto-delimitazione spaziale dell’organismo vivente. Quanto poi all’Io esso potrebbe venire considerato nella sua riflessione equivalente a quel terzo (ed ancora insufficiente) livello della realtà personale che corrisponde alla coscienza nella sua valenza unicamente conoscitiva ed affatto invece etico-attiva che si muove realmente nel mondo. A tale livello mancano infatti ancora totalmente quegli atti della volontà libera, e quindi della scelta responsabile, che poi configurano quell’”individuo spirituale” in quanto persona, del quale ho parlato prima. Inoltre il pensatore tedesco afferma anche che, sebbene in via di principio egli tende a considerare l’Io più originario della persona, tuttavia (come dice anche Berdjaev sulla base di Hartmann) lo considera tale solo in quanto forma ancora incompleta. Quello che è certo è che egli considera la possibilità dell’individuo in quanto persona solo dopo che esso abbia davvero raggiunto lo status ontologico di “Lui”.
Il che ovviamente da suo punto di vista comporta un atto onto-costitutivo che è primariamente divino.
Maine de Biran sostiene poi che, dato che la persona insorge sostanzialmente nell’atto di rivolgersi verso di sé (riconoscendosi come tale interiormente), ciò necessariamente lascia che si delinei un vero e proprio Assoluto che non può in alcun modo essere un individuo. Inoltre egli ritiene che la persona per definizione si muova sul piano religioso verso quell’unione tra le due nature (naturale e divino-spirituale) che può comportare soltanto un percorso che procede da sensibile ad intelligibile e da relativo ad assoluto. Laddove il percorso contrario è esattamente quello che invece reca all’individuo.
Ma, uscendo poi perfino dal piano dell’onto-metafisica, per spostarsi sul piano pragmaticamente sociale e relazionale, Mounier sostiene che la realtà personale è per definizione una pluralità integrata. Il che di nuovo esclude nettamente la possibile identificazione tra la persona e quell’individuo che (essendo poi in primo luogo naturale ed affatto sociale) può costituire solo un’entità disintegrata da tale pluralità. In altre parole, anche sul piano relazionale, la persona tutto può essere tranne che un individuo. Quanto poi all’Io, egli sostiene che il «cogito» di Cartesio (incentrato appunto sull’Io in quanto coscienza) ha potuto al massimo considerare un individuo solipsistico ed affatto invece una persona. E questa va peraltro considerata un’insufficienza personalistica dell’intero idealismo, che abbiamo del resto riscontrato costantemente nell’intera trattazione. L’idealismo non è apparso infatti capace di concepire alcuna vera realtà personale. E questo coinvolge senz’altro anche Stein, dato che ella non riuscì di fatto mai a liberarsi dall’idealismo (nonostante la fase realistica che visse restando in sintonia con Tommaso ed Aristotele) – prima come idealismo trascendentale husserliano e poi come idealismo platonico agostiniano.
Sempre in questo ambito estremamente pragmatico (ed affatto ontologista e metafisico-religioso) vi è da considerare che Ricoeur considera la persona sostanzialmente come un “se” ed affatto invece un “io”. Quest’ultimo infatti è unicamente una “prima persona” che non può per definizione stare in relazione con alcuna “seconda persona”, ossia l’”altro”, se non come mero oggetto da esso invalicabilmente separato (come avviene appunto nella conoscenza). Pertanto la relazione tra Io ed altro, che fa della persona ciò che essa è, si configura solo quando essa si pone come “terza persona”, ossia appunto come “se”.
Posto tutto questo, dobbiamo concluderne (e sulla base di tutte le osservazioni che ho fatto a tale proposito nel corso della trattazione) che il Personalismo di Stein si distacca per davvero da questa serie di prese di posizione nel senso di una certa sua insufficienza. La pensatrice, infatti, ha senz’altro concepito l’Io come un esistente proprio in quanto voleva intenderlo come una persona reale e concreta. Eppure, nel concepire la persona, ella ha avuto sempre davanti al proprio sguardo unicamente l’Io cosciente; specie nel contesto dell’atto tutto intellettualistico di auto-riconoscimento e possesso di sé stesso che costituisce la persona. In altre parole, nel pensare a quella totale fondazione in sé stessa che fa della persona ciò che essa è ontologicamente, Stein non ha affatto trasceso e superato l’Io, ma invece lo ha considerato un elemento indispensabile per questo atto di auto-fondazione. Il che significa che in qualche modo ha ontologicamente equiparato la persona all’Io. Ed a ciò si aggiunge inoltre l’importanza che ella ha dato al processo di individuazione nella genesi di quell’Essente unicissimo che è la persona umana; e che secondo lei non è altro che l’essenza ideale progressivamente concretizzatasi ed incarnatasi lungo la falsariga del processo (logico-ontologico di tipo metafisico) che reca alla determinazione individuale. Certamente nel fare questo ella si è distaccata dal processo di individuazione tomista, secondo il quale l’individuo è una persona unica su base unicamente quantitativa e materialistica (ossia appunto in quanto ente determinato naturalmente separato da altri enti determinati, e quindi tutti «individuati»). Ella ha invece sottolineato che il vero individuo personale non è affatto il semplice «questo uomo qualsiasi» (l’ente determinato), ma è invece semmai soltanto il «proprio questo uomo qui» ossia il «proprio questo tale» − insomma affatto appena il «questo uomo qui», ma invece (secondo l’esempio la lei stessa usato) Socrate in persona.
E ciò sottolineava senz’altro gli aspetti qualitativi (e non quantitativi) dell’unicità personale.
Tuttavia però in tal modo ella ha considerato non solo l’Io ma anche l’individuo stesso un termine ontologico essenziale per concepire la persona. In qualche modo, dunque, Io e individuo sono stati per lei ontologicamente parte integrante della realtà personale. Mentre invece tutti gli altri pensatori personalisti hanno creduto che Io ed individuo siano ontologicamente il contrario esatto della persona.
Pertanto purtroppo, almeno a questo riguardo, non posso assolutamente smentire in questa sede tutte le costatazioni che nel corso della mia indagine ho fatto dell’insufficienza del personalismo steiniano.
Dobbiamo ora completare queste considerazioni (circa la relazione tra persona ed individuo ed Io) con quelle sulla relazione ontologica esistente tra persona e finito. Tema che poi comporta inevitabilmente quello della relazione metafisica e metafisico-religiosa esistente tra finito ed Infinito.
Nel corso della mia trattazione abbiamo visto più volte quanto sia problematica la fondazione della realtà personale sulla relazione ontologica tra finito ed Infinito. E proprio su questa base ho dovuto prendere atto della tendenziale insufficienza del pensiero steiniano.
E qui bisogna dire che non solo Stein considera la persona come finito (“Dasein”), ma lo fa anche Scheler.
E peraltro (diversamente da Berdjaev, Stein e Guardini) egli nega che l’umano-divinità sia carattere ontologico-basico della persona come finito. Per cui egli pone nel modo più intenso e tragico possibile la relazione di totale insufficienza ontologica ed anche impotenza che caratterizza il finito al cospetto dell’Infinito. Ed a questo punto cambia per lui davvero pochissimo se consideriamo il finito umano come persona. La conseguenza di ciò è che Scheler (in maniera molto simile ad Heidegger ed anche a Jaspers e Sartre) pone la gettatezza nel mondo della persona, che invece negano sia Berdjaev che la stessa Stein.
Peraltro, nel discutere sul piano puramente metafisico della persona come finito, il pensatore tedesco sottolinea che solo l’Assoluto divino è un “essente positivo”, il che significa che il finito umano (che sia o non sia persona) non è in fondo altro che un nulla di essere. Almeno sul piano metafisico ad esso, insomma, non è ascrivibile alcuna «positività» ontica. Quest’ultima emerge pertanto solo sul piano autenticamente religioso della Rivelazione – entro il quale l’essente umano non sarà più affatto un finito per il fatto di essere stato creato da Dio. Dunque solo a questo punto emerge la persona in quanto non finito per definizione; sebbene però la sua più autentica base ontologica resti quella di mero finito.
E qui bisogna dire che le sue considerazioni coincidono fortemente con quelle di Guardini, il quale rinuncia in partenza alla filosofia ed alla metafisica filosofica per poter comprendere cos’è la persona. Egli si affida infatti in questo unicamente alla Rivelazione, e cioè alla teologia.
In qualche modo la persona è un finito anche in quel così particolare personalismo della de-personalizzazione che abbiamo visto in Bloy (SP, ELC, AN). Tale infatti è senz’altro il povero, nonostante la dignità di persona che gli compete in maniera estrema in quanto non solo figlio di Dio ma di fatto anche incarnazione diretta del Dio-Persona nella pienezza della «kenosis» (la volontaria spoliazione della propria divinità da parte di Dio). Abbiamo visto però che nel contesto della riflessione del pensatore francese questo status ontologico negativo si rovescia senz’altro a causa della fortissima affermazione (addirittura paradigmatica) dell’umano-divinità del povero. Peraltro egli ci mostra anche come l’elevazione a persona dell’uomo avviene in definitiva grazie all’atto di infinito amore nel quale Dio stesso si abbassa alla condizione di finito. È quindi Dio è di fatto il primo a sottomettersi alla potenziale (e non poco umiliante) equivalenza tra persona e finito. A ciò fanno eco (come abbiamo visto nel corso della trattazione) le riflessioni di Le Fort per mezzo delle quali possiamo renderci conto del fatto che in definitiva la persona non è un finito affatto per dotazione ontologica originaria, ma invece unicamente per dono divino. Ma intanto di tratta di un dono divino che segue a ruota alla decisione pienamente umana di darsi totalmente a Dio per mezzo di un incondizionato e radicale “sì” (il “fiat mihi”) – e del quale è protagonista la Vergine Maria come prototipo di Donna. E ciò quindi Bloy riabilita fortemente quel personalismo steiniano che è così fortemente basato sulla relazione tra finito ed Infinito, e che quindi di fatto assimila la persona al finito stesso. Il che ci mostra poi che la concezione steiniana è molto meno una pura speculazione metafisica e molto più invece un atto pienamente religioso e mistico di venerazione a Dio per mezzo della propria volontaria umiliazione. Tanto è vero che le sue riflessioni sulla relazione tra finito ed Infinito (in EES) sfociarono subito dopo nella pienezza della sua prassi e riflessione ormai pienamente mistiche.
Peraltro è davvero stupefacente che (specie in DIWO) Berdjaev sostenga la sostanziale ed inevitabile solitudine della persona nel mentre afferma la sua potenza e nega recisamente la sua gettatezza nel mondo in quanto finito. Eppure Stein, sebbene abbia fondato la persona sulla realtà del finito, aveva recisamente negato la sua gettatezza né mai ne aveva postulato la solitudine. Ed a questo punto allora (almeno rispetto a questo) l’ago della bilancia del Personalismo si sposta decisamente a suo favore.
Guardini poi – per mezzo di riflessioni simili a quelle di Scheler, ma poste in maniera rovesciata rispetto a quest’ultimo – sostiene che certamente l’uomo sarebbe appena un finito se il suo rapporto con l’Assoluto divino venisse concepito in maniera puramente metafisica. E quindi la persona umana (pur ammesso che in queste condizioni fosse concepibile) sarebbe da considerare equivalente al finito. Ma questa serie di costatazioni ontologiche viene decisamente annullata e spazzata via dall’intervento della Rivelazione, e quindi dall’intervenire della prospettiva teologica in luogo di quella metafisica. Infatti in tale prospettiva l’Amore divino restituisce integralmente all’uomo lo stato di persona, dissociandola così decisamente dalla condizione di finito. Del resto abbiamo visto (specie in DH) che Guardini è disposto ad ammettere che l’uomo sia un finito solo in quanto essere totalmente ed irrimediabilmente decaduto. Ma in questo modo esso non è certamente una persona. Ecco che allora il Personalismo di Guardini si presenta come decisamente divergente dalla fondazione della persona sulla relazione tra finito ed Infinito.
Cose molto simili afferma anche Maritain nel considerare come finito quell’uomo meramente immanente e naturale (ossia di fatto non considerato come creato da Dio) che sicuramente non può venire considerato una persona. Quest’ultima per lui viene infatti costituita unicamente da un atto divino di infinito amore donativo che fa dell’uomo (in quanto “suppositum”) l’esatto opposto di un ente finito.
Quanto poi a Berdjaev va detto che in definitiva egli dissocia la persona dalla condizione di finito soltanto in quanto gli attribuisce non solo la potenza ma anche una serie di caratteri ontologici radicalmente originari che lo assimilano allo stesso essere nella sua pienezza. Ed abbiamo visto che queste due prese di posizione sono estremamente problematiche. Ne consegue quindi che, almeno da questo punto di vista, il suo pensiero è senz’altro più insufficiente di quello della stessa Stein. Infatti, paradossalmente, una volta fatto crollare tutto questo così poco credibile apparato onto-metafisico, sulla base del pensiero berdjaeviano si sarebbe alla fine costretti ad ammettere l’equivalenza ontologica tra persona e finito. Tanto è vero che egli finisce per affermare che, una volta negata la persona, per davvero non resta altro che un individuo finito.
E questo senz’altro è il frutto di una certa arbitrarietà tutta filosofico-metafisica del suo Personalismo, il quale non trova alcun controbilanciamento (come in Guardini) in un’autentica concezione teologica della persona.
Nel complesso quindi possiamo dire che, diversamente da ciò che ci aspettavamo, la fondazione della persona sulla relazione ontologica esistente tra finito ed Infinito appare essere molto meno problematica di quanto appaia a prima vista. Abbiamo visto infatti che vi sono rilevanti momenti del pensiero personalista (come quello di Stein, Scheler, Bloy e Le Fort) nei quali tale fondazione appare essere addirittura vantaggiosa. Ciò è evidente soprattutto laddove essa serve ad evitare certi pleonasmi troppo euforici della dottrina personalista come quelli di Berdjaev. In ogni caso abbiamo anche constatato che la più autentica negazione di tale fondazione può venire ritrovata in campo teologico e non invece filosofico-metafisico – quindi molto più in Guardini e Maritain che non invece in Stein.
Ma veniamo ora a ciò che nell’indagine è emerso circa l’identità della persona; carattere che è legato davvero a doppio filo con la sua unicità.
Berdjaev sottolinea che l’identità fa parte integrante dell’ontologia della persona in quanto è esattamente quella che la rende persistente fino all’eternità, ossia la rende capace di trascendere totalmente il tempo in modo da essere di fatto immortale. Pertanto qualunque negazione di questo carattere nella sua integralità è di fatto negazione radicale della persona. Egli aggiunge che peraltro la persona vuole con tutte le forze essere sé stessa, sebbene ciò non comporti mai quell’egocentrismo che certamente distruggerebbe la persona stessa in quanto ontologia. Non a caso, proprio nell’essere assolutamente unica (a causa della sua forte identità) la persona soltanto è capace di riconoscere nell’altro un qualcuno che non assomiglia a nessun’altro, ossia una persona assolutamente unica e irripetibile. E proprio su questa base la persona umana è capace di amare l’altro.
Guardini poi definisce l’identità (e la connessa unicità) come totale auto-possesso, dicendo che la persona sa di «stare sempre per sè» e quindi è consapevole di essere insostituibile. Si tratta di un essere dato davvero una sola volta che corrisponde all’aversi totalmente ed unicamente ”nelle proprie mani”. Il che configura poi una vera e propria inafferrabilità ontologica della realtà personale, che poi corrisponde esattamente al carattere ontico dell’identità. Come abbiamo visto nella trattazione, tali riflessioni coincidono abbastanza bene con quelle di Stein. Ma intanto Guardini sottolinea l’assoluta fattualità reale e concreta di tale identità personale, che pertanto spiazza qualunque dimensione formale in quanto fondante. Egli dice infatti che semmai l’identità del cristallo (un essere inanimato) può essere concepita formalmente, ma non certo invece quella della persona. E questo quindi nuovamente mette fuori gioco la concezione steiniana della persona – per lei infatti la persona è per definizione una forma vuota (idea-essenza) un volta riempita.
Oltre a ciò vi è da considerare la differenza (sebbene abbastanza sottile) che esiste nella concezione dell’identità personale tra Stein e Maritain. Quest’ultimo, infatti, nel considerare la persona umana come “suppositum” (e quindi come il “lui” o “chi?” amato e creato da Dio in quanto solo Lui lo conosce fin dall’eternità), sottolinea che quest’ultimo (in quanto soggetto ed anche oggetto del pensiero di Dio) è un ente intelligibile in partenza, per definizione e soprattutto in sé stesso (e non dall’esterno). Il che significa che la persona è per lui un’essenza incarnata senza essere in alcun modo sottomesso all’universale, e quindi senza prevedere alcuna previa forma vuota astratta da riempire (come invece avviene in Stein).
Di conseguenza essa non risulta affatto conoscibile dall’uomo, dato che invece solo Dio lo conosce. E lo conosce appunto come identità. Ed è esattamente soltanto per questo che l’identità personale umana è inafferrabile per definizione. A ciò peraltro Guardini aggiunge che l’atto auto-riflessivo con il quale di fatto l’uomo si costituisce in identità è effettivamente (come dice anche Stein) una presa di possesso del proprio Io. Ma intanto non casualmente si manifesta nella forma dell’esperienza dell’”Io sono”. Esperienza che per il soggetto è talmente intuitivamente ovvia da sfociare decisamente nell’ineffabilità e nell’inesplicabilità.
E ciò (nonostante l’assoluta ordinarietà di tale esperienza) pone l’identità personale come un vero e proprio insondabile mistero. Nel suo contesto, insomma, sono del tutto insufficienti speculazioni onto-metafisiche di tipo intellettualistico-spiritualistico come quelle condotte da Stein. Insomma anche l’atto di auto-possesso intellettuale (sebbene anche spirituale) che l’Io pone in opera nel possedere sé stesso, finisce per arrestarsi davanti ad un Abisso (di ineffabilità), soltanto oltre il quale vi è quella pienezza dell’”Io sono” che spiega ultimamente l’unità ed unicità della persona. E quindi in questo falliscono di concerto Stein, Husserl ed anche Agostino. Dunque forse soltanto Meister Eckhart riesce a darci davvero ragione di questo processo, dato che egli ne rispetta pienamente il mistero ineffabile.
Abbiamo inoltre constatato che ovviamente vi sono tra i personalisti visioni più ontologiche e meno ontologiche dell’identità. In Ricoeur, per esempio, essa viene vista in termini puramente funzionali.
Tuttavia comunque tutti i pensatori personalisti sono d’accordo sul fatto che il mantenimento dell’identità personale è sostanzialmente un processo attivo. Vi è solo da rilevare che Ricoeur ed anche Berdjaev sostengono che l’identità comporta un amore per l’altro che è perfettamente equivalente all’amor proprio.
Sebbene il secondo sottolinei che quando quest’ultimo scade in egocentrismo di fatto la stessa identità personale si dissolve. E questa serie di concetti non si ritrova di certo in altri pensatori personalisti (come Guardini, Bloy, Le Fort e Maine de Biran), secondo i quali la disposizione relazionale amorosa propria della persona implica anche una certa quota di disposizione sacrificale. Per essi quindi il mantenimento ostinato dell’identità personale non può giungere fino al rifiuto dell’atto sacrificale che a volte ci viene richiesto proprio affinché l’altro possa continuare ad essere una piena persona.
Quindi nel complesso anche rispetto al carattere dell’identità personale dobbiamo registrare l’insufficienza della dottrina steiniana che abbiamo constatato lungo tutta l’investigazione.
Non parlerò qui del fondamentale carattere ontico della persona che è costituito dall’unicità. E non lo farò sia perché tale carattere è strettamente intrecciato al tema dell’identità sia anche perché nella mia investigazione ho dovuto constatare che tutti i pensatori personalisti pongono in evidenza tale carattere e peraltro in un modo che non evidenza alcuna rilevante problematicità.

2-1.2 I caratteri meno fondamentali della persona.
Il carattere di trascendenza della persona (cioè il fatto di non essere assolutamente una cosa) fonda molto direttamente la sua dignità. Ed anche il carattere della sua umano-divinità. E dunque, proprio a causa di tale dignità l’uomo stesso non può venire concepito in alcun modo come mezzo e/o strumento per il raggiungimento di qualunque obiettivo (politico, sociale o religioso che sia), né può venire in alcun modo venire sacrificato per qualunque fine. Nel contesto del pensiero di Dostoevskij (riportato da Berdjaev in CD) abbiamo visto che tale intangibilità della persona giunge fino al punto che la sua libertà non può venire messa in discussione nemmeno allo scopo di impedirle di commettere il male. Lo scrittore russo sottolineava però che l’altro versante di tale inviolabile dignità è anche quello che prevede la sua piena e volontaria ammissione di responsabilità per le colpe commesse, inclusa la sua libera sottomissione alla pena o punizione che c’è da scontare per questo (senza tentare di sfuggirla in alcun modo ed in base a qualunque argomento). E a tale proposito noi ritroviamo quello che potrebbe essere un vero e proprio rinvio al Personalismo di Platone stesso entro quella vicenda giudiziaria (descritta in vari di dialoghi platonici) nella quale Socrate, pur di non ledere in alcun modo la santità delle leggi della Città, rinuncia volontariamente a difendersi dalle ingiuste accuse rivoltesi e quindi si lascia condannare anche se è totalmente innocente [Ezio Savino (a cura di), Platone. Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 2004; Platone, Eutifrone, Bompiani, Milano 2011]. E con ciò Socrate si propone a noi addirittura come la persona nella radicale forma depersonalizzata di quell’«inerme» il quale, essendo sventurato per definizione, si pone (nell’esperienza del dolore necessario agli eletti) come caprio espiatorio dei peccati del mondo anche come colpevole-innocente non solo per definizione ma perfino per propria radicale scelta etico-religiosa. Il che ovviamente assimila Socrate alla figura del Cristo, com’è stato del resto sostenuto da non pochi pensatori, tra i quali peraltro anche Guardini [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, p. 119-150; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 157-161].
Tutto ciò comporta naturalmente la costatazione che i caratteri ontico-azionistici tipici della persona sono la scelta come decisione e la responsabilità etica. I quali a loro volta sono da riportare al carattere ontologico-basico ancora più fondamentale della libertà. Questo ultimo carattere è stato fortemente posto in evidenza da Berdjaev e Mounier ed abbiamo visto anche che esso si pone in forte conflitto con la classica dottrina cristiana del libero arbitrio; nella quale sono riscontrabili non pochi elementi riduttivi ed anche contraddittori nel senso di una libertà di fatto condizionata alla necessità (e quindi di fatto inaccettabilmente passiva), peraltro schiacciata sulla dimensione estremamente semplificata dell’unilaterale scelta del bene ed infine . Abbiamo visto inoltre che Stein compare qui decisamente come imputata avendo abbracciato incondizionatamente la dottrina del libero arbitrio. Da ciò è apparso evidente che di fatto la dottrina del libero arbitrio contraddice la libertà specie in quanto illimitata creatività. Non solo, ma essa è apparsa come una mera potenzialità della volontà, e non invece come la volontà nella sua pienezza. A difesa però della dottrina steiniana del libero arbitrio abbiamo constatato che la persona non è poi così radicalmente originaria (come ci viene presentata da Berdjaev), ma in verità (come abbiamo appena visto specie sulla base di Mounier) è invece essa stessa chiamata ad essere ciò che è proprio in base all’esercizio della propria volontà. Per cui essa è libera per natura solo se intanto sceglie attivamente di essere persona invece che uomo meramente naturale. In altre parole essa sarà per davvero persona libera solo se lo sceglie e lo vuole. Ne risulta allora che (almeno nei fatti) la persona è libera solo se lo vuole, e pertanto non lo è affatto in maniera radicalmente originaria e quindi ontologica, bensì invece in maniera funzionale.
Questa menzione della libertà inscindibilmente connessa alla volontà ci rinvia necessariamente alla creatività come altro carattere ontologico fondamentale della persona. E qui senz’altro il pensiero di Berdjaev è paradigmatico, dato che nessuno come lui ha posto questo carattere con la stessa forza.
Bisogna dire che però abbiamo dovuto constare che anche Mounier pone in evidenza almeno elementi dell’azione della persona che si lasciano ricondurre a questa dottrina berdjaeviana così estrema.
In particolare abbiamo visto che presso il pensatore russo la creatività umana assume aspetti che sono decisamente sia metafisici che religiosi. I caratteri metafisici sono quelli in cui la creatività umana viene assimilata alla stessa realtà costituita dall’essere colto nella sua massima integralità ed abissalità.
Per Berdjaev infatti l’essere è ciò che è sostanzialmente perché produce incessantemente il «nuovo» e quindi incrementa sé stesso illimitatamente in una crescita infinita, la cui cessazione comporterebbe la scomparsa dell’essere stesso. Questo essere creativo è dunque dinamico per definizione. E naturalmente per lui è così anche la persona stessa in quanto sostanza che perpetua sé stessa all’infinito. In termini religiosi questo comporta comunque una dimensione davvero estremisticamente azionistica, dato che la persona umana viene ritenuta coinvolta necessariamente in un’azione di incessante trasfigurazione dell’essere (che assume un aspetto anche politico in quanto tendenzialmente rivoluzionaria) che per Berdjaev è poi un’autentica continuazione della creazione. È presumibile dunque che l’incessante incremento di essere che segue all’insorgere creativo di quest’ultimo sia da attribuire proprio all’azione della persona umana.
Abbiamo però anche dovuto constatare che l’accento posto dal pensatore russo sulla radicale (e quindi totalmente libera) creatività umana comporta da parte sua la postulazione di un’assolutamente necessaria presenza della persona nel mondo che, in quanto “affermazione”, è talmente assertiva da configurare una vera e propria potenza. Proprio in forza di questo Berdjaev nega recisamente (entrando così in conflitto con la classica morale cristiana) che alla persona appartengano virtù non assertive e remissive del genere dell’umiltà. E questo finisce per configurare entro il suo pensiero un’attitudine personale che spesso assomiglia non poco alla volontà di potenza nietzschiana. Essa è sicuramente tale in quanto continua creazione di essere per la via di un incessante incremento che assomiglia molto alla forgia titanica dell’essere da parte dell’uomo. E peraltro, riguardo a tali aspetti, il pensatore russo non esita a considerare Nietzsche un modello di pensiero – per quanto però lo critichi decisamente per il suo nichilismo. Peraltro egli parla della “forza” come di un’attitudine tipicamente personale che perfino esclude qualunque “grido di dolore” dell’uomo in quanto finito schiacciato dall’Infinito. La persona concepita come finito costituisce infatti per lui quell’ente che è caratterizzato dall’irrimediabile impotenza proprio a causa di quell’inaccettabile Cristianesimo tradizionale che ha saputo concepire unicamente un’antropologia tarata sulla fatale soggezione al peccato ed alla colpa. In ogni caso va registrato che certamente i più radicali pensatori dell’esistenzialismo tragico, nel concepire il finito, lo hanno considerato affetto irrimediabilmente da quella radicale impotenza che sicuramente (di concerto con Berdjaev) non può venire accettata come carattere tipico della persona. Ed abbiamo visto che ciò accade in particolare entro alcune delle riflessioni più anti-personaliste di Leopardi.
Orbene, l’accento posto da Berdjaev sulla potenza come carattere ontologico-basico indispensabile della persona umana (ed anche come tratto dottrinario di un vero Personalismo) mi ha indotto più volte a dover ammettere che (in un certo quale modo) una visione personalista è insufficiente se non prevede questo carattere. E ciò vale senz’altro anche per Stein, oltre che per quasi tutti gli altri pensatori personalisti da me discussi (Ricoeur, Scheler, Maritain, Guardini, Bloy, Le Fort, Maine de Biran, Leopardi, e molto probabilmente anche lo stesso Mounier. Peraltro abbiamo visto che vi sono davvero buone ragioni per considerare più tipica della persona quella sorta di «anti-potenza» che emerge nei pensatori personalisti della de-personalizzazione ed alla difettività di essere (come Bloy e Le Fort ). In tal modo emerge infatti una sorta di potenza da leggere in maniera meno letterale e più metaforica, ossia totalmente in trasparenza sullo sfondo di Cristo come prototipo di Persona, e che quindi corrisponderebbe anche alla più autentica umano-divinità. Proprio Bloy sottolinea infatti che, mentre la potenza letterale è deplorevolmente immanente mondana (corrispondendo alla non-persona per definizione ossia al ricco), invece la potenza metaforica è totalmente trascendente, ultra-mondana e sovrannaturale (corrispondente a quella potenza di Dio che in Cristo non a caso si nasconde). Quest’ultima corrisponde per lui infatti alla vera potenza dello Spirito. Pertanto almeno in via di principio proprio quest’ultima Berdjaev avrebbe dovuto intendere.
Poste le cose in questi termini, allora la potenza umana della quale egli parla non sarebbe in verità altro che un mero riflesso di quella divina. Non a caso vedremo poi che proprio Bloy ci mostra che la disposizione all’amore rappresenta ontologicamente la persona molto più che non la potenza. E questo senz’altro vale anche per pensatori personalisti come Stein, Maritain, Mounier, Le Fort, e soprattutto Guardini).
Inoltre Le Fort parla della “dedizione” tipicamente femminile (riassunta nel mariano “si” o “fiat mihi”) come di una “pazienza” che in verità è la più alta forma di potenza. Guardini poi ci ha mostrato nel fatto che – nel fatto che la persona sente come «mio» tutto ciò che vi è nel mondo – una sorta di potenza che è un vero e proprio possesso dell’essere senza però in alcun modo rischiare di configurare una volontà di potenza. Infine molte delle considerazioni più personal-relazionaliste che uniscono Maine de Biran e Mounier, oltre che ovviamente Guardini (soprattutto il sussistere e crescere ontico della persona nell’«altro» e la sua rinuncia pregiudiziale ad impiegare qualunque suo diritto a danno dell’altra persona), negano decisamente alla realtà personale qualunque forma di potenza che (anche minimanente) possa sconfinare nella volontà di potenza. Non a caso abbiamo visto che Mounier impegnò molte energie a tener nettamente distinto il proprio azionismo da qualunque dottrina di stampo nietzschiano che lo intendesse come volontà di potenza. A tale riguardo egli sottolinea in particolare che – essendo la persona un’entità che senz’altro intuisce è stessa dal di dentro, ma intanto sussiste solo e soltanto nell’atto del farsi persona, ossia nell’agire come persona – il suo considerarsi invece qualcosa di dato in partenza (“fatto”) la indurrà molto probabilmente a travolgere tutto e tutti nel suo agire, esattamente come avviene entro la volontà di potenza.
Intanto abbiamo visto che l’umiltà viene (del tutto diversamente da Berdjaev) espressamente considerata un tipico carattere personale) da pensatori come Bloy, Le Fort e Guardini, oltre che da una pensatrice che ho preso in considerazione solo marginalmente, come Simone Weil.
Ciononostante abbiamo constatato che la presa in considerazione di pensatori del Personalismo tragico come Jaspers ci permette di assolvere Berdjaev da tutte queste colpe, dato che il primo ci ha mostrato come proprio la tragica impotenza umana configuri in definitiva forse la forma più alta e intangibile di potenza (essa è infatti capace di sfidare a viso aperto perfino la morte, nel considerarla come la maggiore realizzazione della persona). E questo peraltro avviene per il pensatore tedesco proprio in quell’eroismo che lo stesso pensatore russo considera assolutamente tipico della persona. Peraltro l’eroismo in Jaspers finisce per far venire alla luce quell’uomo straordinario che lo stesso Berdjaev ritiene essere persona nella sua pienezza.
Ma abbiamo visto che vi sono anche alcune riflessioni profondamente cristiane di Mounier (specie quelle che si soffermano sul “cuore” come centro personale dal quale si diparte una spinta prepotente verso la conquista della perfezione) che supportano il concetto berdjaeviano di potenza specie nel senso di trasfigurazione spirituale del mondo. E lo stesso vale anche per la riflessione mouneriana sulla preservazione della propria identità personale in quanto presupposto indispensabile per avere una presa sulle cose – infatti per lui ciò comporta non solo la capacità di agire nel sentirsi insostituibile (e quindi unico) ma anche la del tutto legittima aspirazione ad avere il possesso di beni.
Insomma, da tutto ciò che abbiamo appena visto, si può ben dire che il carattere della potenza (in quanto forma affermativa della sua presenza nel mondo) può venire attribuito alla persona solo in maniera molto problematica e contraddittoria. E quindi è possibile che, almeno da questo punto di vista, il pensatore russo non abbia visto giusto. E ciò forse proprio perché (almeno in parte venne influenzato da Nietzsche). Si può supporre però che la potenza potrebbe venire considerata una sorta di aspetto secondario e relativo dell’inclinazione all’azione che sicuramente deve venire riconosciuto come carattere tipico della persona.
Naturalmente tale intera materia sta in stretta relazione con il carattere ontologico-basico della persona che corrisponde alla libertà.
Ho già parlato dell’inadeguatezza (almeno per alcuni versi) del suo intendimento come libero arbitrio. E quest’ultimo realmente differenzia non poco i pensatori personalisti tra loro. Ma comunque non ve n’è nessuno tra loro che neghi alla persona il carattere della libertà, tranne forse i pensatori più sbilanciati verso un esistenzialismo tragico (come Jaspers e Leopardi). In questo caso però siamo praticamente ai margini del più autentico Personalismo, e quindi non possiamo su questa base mettere in dubbio che la libertà sia un carattere ineliminabile della persona. Pertanto non mi sembra che valga la pena di discutere qui riassuntivamente tale aspetto. Inoltre va anche sottolineato che vi sono alcuni pensatori personalisti che tutto sommato sembrano disinteressarsi totalmente della libertà della persona proprio nel ritenerlo un carattere del tutto secondario rispetto ad uno status ontologico che sembra avere il proprio centro soprattutto nel fatto di essere fondati in sé stessi, e quindi essere senz’altro molto più autonomi (fino alla tragedia) che non invece liberi. Tra costoro vi sono senz’altro (oltre che gli esponenti dell’esistenzialismo tragico) i pensatori della de-personalizzazione (come Bloy, Le Fort e Leopardi) ma anche i pensatori della morale e dei valori (come Scheler) e dai pensatori della “Weltanschauung” soggettuale (come Jaspers). Presso costoro infatti si delineano soprattutto elementi (nel considerare primario un atteggiamento obbligato o anche una naturale tendenza della persona) che considerano la libertà superflua o perfino la scavalcano.
Forse va solo fatto notare che nel corso della mia esposizione sono emersi tre generi di libertà connessa con la persona: −
1) quello più prossimo alla classica dottrina etico-religiosa cristiana del libero arbitrio (entro il quale la libertà costituisce per la persona più che altro un obbligo morale nei termini dell’auspicabile scelta del bene in luogo del male). E questo intendimento si ritrova soprattutto tra i personalisti davvero integralmente religioso-cristiani come Stein, Maritain ed anche Maine de Biran. Guardini invece pone troppo l’accento sulla relazionalità della persona per interessarsi della libertà come suo carattere tipico. Insomma in lui sembra la possibile esitazione ad agire (alla quale la libertà sempre rinvia) venga decisamente scavalcata dalla prepotente spinta alla relazione che tende ad unire la persona all’altra persona
2) quello più prossimo alla creatività personale come potenza, che quindi considera la libertà nella sua pienezza soprattutto metafisica, trascendente ed ontologica (specie in quanto equivalente al movimento stesso dell’essere), e cioè come in via di principio illimitata ed incondizionata. E qui domina decisamente il personalismo di Berdjaev.
3) quello più prossimo alla dimensione sociale-relazionale della persona, che considerano la libertà in modo sostanzialmente pragmatico (e forse anche ontologicamente secondaria), e quindi come funzione della socialità specie nei suoi aspetti politici. E qui dominano i personalismi di Ricoeur e Mounier (unitamente, almeno in parte, anche a quello di Maine de Biran).
Vedremo poi tra poco come la dottrina della libertà di Dostoevskij si presenti comunque come quella forse più estrema tra tutte.
Ovviamente strettamente connesso al tema della libertà è quello della responsabilità personale che è appunto decisione e scelta per definizione libere. Ho già in parte trattato questo tema in questa sezione, e comunque, anche rispetto ad esso, non mi è sembrato (nel corso della trattazione) che siano emerse differenze significative almeno tra i pensatori più personalisti che abbiamo appena preso in considerazione a proposito della libertà. Peraltro il tema della responsabilità implica strettamente quello del ruolo svolto dalla persona nel contesto della morale. Ed anche qui (a parte l’accento posto su questo aspetto da Scheler ed anche in parte da Ricoeur e Mounier) nella mia trattazione non sono emerse differenze significative. Abbiamo visto comunque che la dottrina dostoevskiana della responsabilità è particolarmente estremistica in quanto essa esige dalla persona il preciso obbligo di addossarsi volontariamente colpa ed anche punizione. Dunque senz’altro il Personalismo in generale (almeno nella sua forma media) non sembra avere dubbi sul fatto che la responsabilità sia un carattere tipico della persona.
Alcune larvate differenze ed alcuni aspetti specifici vanno comunque evidenziati in quanto abbastanza significativi, per quanto essi non inficino affatto la compattezza della presa di posizione personalista al riguardo.
Sebbene con accenti a volte molto diversi (da quello più onto-metafisico a quello più pragmatico), l’attribuzione alla persona della responsabilità comporta in tutti i pensatori personalisti una dimensione azionistica della persona stessa. E qui, come vedremo tra poco, spicca decisamente Berdjaev.
Inoltre (come abbiamo osservato per la libertà) anche nel caso della responsabilità le concezioni personalistiche divergono tra quelle che contemplano una sorta di scelta obbligata del bene (nel contesto di una visione senz’altro deterministica) e quelle che invece lasciano davanti alla persona un campo di scelta del tutto aperto. La differenza tra i due diversi tipi di pensatori personalisti è al proposito la stessa che ho indicato a proposito della libertà. Ma nuovamente si delinea in modo netto la dottrina della responsabilità di Guardini, che sfugge decisamente al determinismo posto da Stein e Maritain – per lui infatti la responsabilità più che un obbligo morale è un’attitudine inevitabilmente coinvolta nell’indispensabile movimento della persona verso l’altra persona. Proprio per questo per lui la responsabilità corrisponde per lui all’azione come irresistibile slancio, e quindi non conosce assolutamente quella sospensione esitante dell’azione che è implicata nella scelta connessa con il libero arbitrio
Ma di nuovo qui spicca la dottrina di Dostoevskij in quanto teorico di una libertà che conserva intatto il suo valore assoluto sia nel caso della scelta del bene sia nel caso della scelta del male. Ed a questa dottrina fa eco quella di Berdjaev secondo il quale la responsabilità (così come la libertà) equivale di fatto all’incondizionata creatività umana, e quindi sfugge decisamente a qualunque determinismo. In particolare egli si rifiuta di considerare la responsabilità come passiva (in quanto mera reazione al peccato) invece che integralmente attiva. Peraltro (a differenza dei personalisti più legati ad un determinismo della libertà e della responsabilità, come Stein e Maritain) il pensatore russo fonda la sua dottrina su una critica molto radicale alla morale tradizionale (ritenendola di fatto per nulla capace di affermare il valore della responsabilità a vantaggio invece di un mero conformismo ipocrita). E nel complesso (pur con tutti i rischi connessi al possibile scivolamento nel titanismo della volontà di potenza) nel corso nella mia investigazione mi è sembrato che il concetto berdjaeviano di responsabilità (in quanto radicalmente libero) possa venire considerato ben più autentico di quello dei deterministi (come Stein e Maritain) in quanto affatto moderato. Ed abbiamo visto che (specie nel contesto della morale cristiana) questo atteggiamento moderato rischia non poco di scivolare nella tiepidità e magari perfino nell’irresponsabilità. Abbiamo visto anche che ciò sta in stretta relazione con il razionalismo tanto della morale che della persona stessa.
E, nell’esaminare il pensiero di Dostoevskij, abbiamo costatato che questo razionalismo rischia perfino di attenuare quell’umano-divinità della persona che è poi l’elemento sul quale lo scrittore russo fonda maggiormente la propria così estremistica dottrina.
Inoltre appare estremamente originale la dottrina personalistica della responsabilità di Le Fort, dato che essa è apertamente sacrificale, essendo incentrata totalmente nella virtù dell’incondizionata “dedizione”.
Eppure abbiamo trovato un riflesso di tale dottrina perfino in Mounier il quale non esita a considerare la responsabilità della persona verso l’altra persona come vero e proprio “dono di sé”.
Infine vanno qui richiamate le prese di posizione in parte personaliste di Jonas (PR) e Arendt (RG), entro le quali la responsabilità si pone soprattutto come obbligo volontario verso un giudizio etico molto intensamente personale, che (esattamente come in Scheler) sfugge decisamente all’impersonale sottomissione passiva a principi morali astratto-formali di tipo kantiano.
Forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire che, dopo tutto ciò che abbiamo constatato, i due caratteri personali congiunti di libertà e responsabilità, appaiono essere entrambi strettamente connessi, entro il pensiero personalista, al carattere personale dell’amore. A tale riguardo vi è da registrare comunque una certa discrepanza tra i pensatori personalisti, dato che ve ne sono alcuni (come Scheler, Ricoeur, Jaspers e Leopardi) che si disinteressano quasi completamente di tale aspetto. Senz’altro i pensatori personalisti che più sottolineano tale carattere tipico della persona sono comunque Berdjaev, Bloy, Le Fort, Guardini ed anche lo stesso Mounier. Anche in questo poi Dostoevskij è molto estremista nella sua davvero intensa concezione dell’amore. Quello che però ci è sembrato strano è che questo aspetto non trova accenti espliciti né in Stein né in Maritain. Quanto a Stein ho chiarito che però dobbiamo prescindere da ciò che lei scrisse dal momento esatto del trapasso dalla filosofia metafisica alla mistica (che iniziò già nella seconda metà di EES). Da questo momento in poi, infatti, l’amore iniziò a divenire il vero e proprio centro orbitante del suo pensiero ed anche della sua prassi. Ma comunque prima di questa fase mi è sembrata condizionante in senso negativo una concezione della persona che è restata sempre stata troppo condizionata dal razionalismo filosofico ed anche gnoseologista; e la cui conseguenza è sempre stata un’etica anch’essa fortemente razionalista. Su queste basi non poteva esservi troppo spazio per la teorizzazione dell’amore in termini personalisti. Non a caso il suo Essente unico-personale è lo specchio umano della divinità ma non appare come un soggetto amante. Ho inoltre anche chiarito che è improprio estendere il suo originario concetto di “empatia” ad una teorizzazione dell’amore.
Quanto poi a Maritain qui ha giocato senz’altro un ruolo importante un trascendentismo religioso-cristiano che senz’altro lo induceva a porre l’accento molto più sull’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio, che non invece sull’amore interumano. Che però con certezza egli non ha mai negato.
Dunque potremmo dire che il Personalismo non è stato affatto compatto nell’attribuire alla persona il carattere dell’amore.
Esattamente lo stesso può venire detto anche per l’attribuzione alla persona di una disposizione alla “comunione”. Sotto questo aspetto il pensiero di Berdjaev è stato davvero paradigmatico nel porre questo carattere personale come addirittura primario. E su questo mi sono molto dilungato nella mia trattazione. Inoltre non vi è dubbio che, sebbene indirettamente (ossia non con la stessa esplicitezza anche terminologico-concettuale) tale carattere è stato attribuito alla persona anche da Guardini (specie nel considerare il Regno dei Cieli come alla portata storica dell’uomo), da Mounier (nel considerare la relazionalità della persona come un’azione tendente ad una società con aspetti sicuramente comunionali), da Maine de Biran (in maniera molto simile a Mounier), da Stein (però nei termini estremamente razionalistici che concepivano lo “spirito oggettivo” come l’edificio stesso della Cultura umana), da Maritain (nei termini della secondo lui auspicabile ricostruzione di una civiltà cristiana), da Scheler (nel senso della ricostruzione di una “comunità spirituale” senz’altro ad impronta cristiana ma comunque soprattutto politico-civile e popolare), ed infine da Dostoevskij (nella maniera solitamente estremistica ed anche sostanzialmente escatologico-apocalittica ed utopistica). In maniera ancora più indiretta tale carattere viene poi attribuito alla persona anche da Bloy e Le Fort. Infine è interessante notare che esso viene attribuito alla persona da Leopardi in maniera chiaramente negativa, ossia nel contesto di un’aspirazione nobilissima che però secondo lui a suo avviso è in partenza destinata al fallimento.
Quanto poi a Jaspers si può dire che egli abbia inteso questo concetto estremamente alla lontana nel contesto di una piuttosto gelida ed intellettualistica teoria (filosofico-psicologica) dell’umanità come Totalità delle “Weltanschauungen”.
Potremmo dire quindi che, con poche eccezioni (tra le quali significativamente Ricoeur), quasi tutti i pensatori personalisti (sebbene con molto diversi accenti) hanno intravisto nella persona questa disposizione alla dimensione comunionale. E questo è anche piuttosto sorprendente dato che un numero decisamente inferiore di pensatori personalisti hanno attribuito alla persona il carattere dell’amore.
La disposizione della persona alla rivoluzione vede protagonisti tre soli pensatori, e cioè Berdjaev, Mounier e Dostoevskij. Il modo in cui essi hanno inteso questo carattere è stato molto diverso. Ma comunque di questo ho parlato a sufficienza nella mia trattazione. In ogni caso questo può essere considerato un carattere decisamente trascurabile della persona, dato che esso non tocca certamente i suoi caratteri ontici sia primari che secondari

2-2 La visione personalista in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» del Personalismo sulla base dell’esame della dottrina personalista.
Finora abbiamo visto come hanno visto la persona i pensatori personalisti che ho esaminato nell’ investigazione, ossia in che modo l’hanno pensata e quindi come ed in quanti modio essi hanno determinato il suo «cos’è?». Ora dovremmo cercare di comprendere come noi stessi possiamo vedere il modo in cui il pensiero personalista ha pensato la persona, e soprattutto comprendere i vari modi in cui ciò avvenuto. Si tratta insomma di ri-comprendere, ri-determinare ed anche ri-classificare l’intera struttura del pensiero personalista ed anche la sua dinamica interna.
E la prima cosa che emerge in questa rivalutazione sono i quattro grandi assi polari secondo il quale il pensiero personalista si è presentato al mondo, si è strutturato e si è organizzato al suo interno: −
1) Personalismo metafisico-religioso oppure laico; 2) Personalismo della potenza (in primo luogo creativa) oppure della de-personalizzazione; 3) Personalismo contemplativo oppure pragmatico (filosofico-politico); 4) Personalismo unilateralmente moderno oppure integrale (ossia di fatto in linea con un ipotetico Personalismo tradizionale ed eterno).
Una volta riconosciuti questi assi, emergono poi immediatamente una serie di dimensioni di pensiero che intersecano l’intero Personalismo, presentandosi a volte in maniera più forte ed esplicita ed a volte invece in maniera più larvata; ed inoltre presentandosi anche in modi a volte molto diversi. Si tratta delle seguenti dimensioni: − 1) spiritualismo; 2) religiosità cristiana o meno; 3) impostazione etica (includente anche un versante azionistico); 4) esistenzialismo (con il connesso nichilismo); 5) impostazione socio-politica e filosofico-politica, decisamente azionistica; 6) impostazione ottimistica (prevalente «positività» dello status persona) oppure pessimistica (prevalente «negatività» dello status ontologico di persona).
Questi due grandi raggruppamenti di elementi nei quali può venire diviso il Personalismo si presentano in maniera intuitivamente molto intersecata tra di loro. In modo tale che così (in maniera simile a quanto è emerso riguardo alla dottrina della persona) si delinea qualcosa di simile ad una serie di possibili caratteri dei vari Personalismi. E non ho bisogno di elencarli dato che essi sono risultati già impliciti nei due grandi raggruppamenti che ho appena indicato.
Tuttavia tra questi caratteri ve ne sono alcuni che vanno discussi in particolare dato che essi si presentano nel Personalismo in maniera non solo costante ma anche ingente e soprattutto pervasiva. Essi sono presenti infatti più o meno a macchia di leopardo un po’ in tutti i tipi di Personalismo. E diremmo che sono i seguenti: − 1) spiritualismo; 2) ontologia come filosofia dell’essere 3) eventuale filosoficità religiosa; 4) grado di connessione con la filosofia contemporanea (specie come idealismo, realismo, gnoseologismo, materialismo, naturalismo, positivismo e grandi ideologie fondate in termini filosofico-politici); 5) valenza teologica e religioso-esperienziale; 6) esistenzialismo eventualmente nichilista; 6) azionismo; 7) vitalismo; 8) relazione con la scienza empirica
A veder bene si tratta dei caratteri che sono chiaramente riconoscibili a colpo d’occhio entro quello che sicuramente è il sistema filosofico personalista più completo, e cioè quello di Berdjaev. E non a essi ritornano anche nelle due grandi classificazioni del personalismo che ci presentano Ricoeur e Mounier.
Naturalmente però se volessi rattare in dettaglio tutti questi aspetti dovremmo scrivere un secondo testo sul Personalismo. Per cui mi limiterò a trattare soltanto di alcuni di questi aspetti in maniera specifica, includendo in essi anche ulteriori aspetti ed altri invece tralasciandoli nel rinviare il lettore a quanto ho già esposto nel corso della nostra trattazione.

Dello spiritualismo personalista bisogna assolutamente trattare (in maniera specifica ed anche piuttosto dettagliata) per il semplice fatto che esso rappresenta la presa di posizione filosofica che ha contraddistinto forse uno dei maggiori precursori del personalismo, ossia Maine de Biran.
Abbiamo constatato che sono stati spiritualisti i due centri orbitali intorno ai quali si muove la nostra intera indagine sul personalismo, e cioè Berdjaev e Stein. Anzi il primo lo è stato in maniera ben più intensa, integrale, radicale e completa della seconda. E questo sostanzialmente perché egli ha equiparato spirito ed essere in maniera totale. Tendendo così quasi a ricostituire l’ambito di quella visione antichissima che in diversi miei scritti ho indicato come «onto-spiritualismo» − termine con il quale va intesa l’affermazione che la realtà è integralmente spirituale (e quindi trascendente) ad affatto invece materiale. Ciò significa insomma che l’essere sarebbe primariamente spirito e basta; e quindi sarebbe una realtà in verità del tutto aerea ed evanescente, secondo il paradigma di ciò che anche lo stesso Cristianesimo paolino ha riconosciuto come «Pneuma». Ed in diversi miei scritti ho mostrato che tale spiritualismo si ritrova in diversi pensatori occidentali appartenenti al platonismo per trovare comunque la sua massima espressione nel pensiero orientale (con estremo vertice nel pensatore vedantico Śankara) [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164]. Il che comporta poi che la realtà materiale non sarebbe altro che una vana illusione, ossia la famosa māyā del Vedanta e del Buddhismo. Ed in questa visione a mio avviso rientra senza ombra di dubbio anche Platone stesso; come peraltro sostenuto non solo da me, ma anche da diversi studiosi [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008].
Ebbene non è stato affatto questo lo spiritualismo che (a partire da Maine de Biran) è rimastro costantemente intrecciato al Personalismo e poi ha trovato molto interpreti anche nella rivista “Esprit”. Esso era in fondo partito in fondo a quella tradizione idealistica occidentale (iniziata da Cartesio e poi continuata in pensatori come Malebranche e Leibniz) presentandosi prima come un razionalismo metafisico e poi come una vera dottrina della Ragione (specie in quanto Spirito universale). Ma intanto, nel passare attraverso l’Idealismo tedesco, si era arricchito di ulteriori e nuovi elementi che poi ritroviamo in pieno anche nel Personalismo. In particolare esso si era trasformato in una dottrina dell’Io assoluto, poi dell’Io cosciente ed infine anche dello stesso Io umano e della stessa interiorità.
Intanto comunque lo spiritualismo steiniano è stato troppo influenzato da un razionalismo filosofico-gnoseologista ed intellettualista (tra le altre cose fortemente condizionato dalla ragionevolezza del cosiddetto «principio di realtà», e quindi dall’idea che sia reale solo ciò che è presente nella coscienza umana in relazione con gli effettivi oggetti dell’esperienza) per poter essere assimilato a qualunque genere di onto-spiritualismo. Ed inoltre (nonostante la sua equiparazione totale di spirito ed essere) anche lo spiritualismo di Berdjaev non è stato affatto «onto-spiritualista». Il pensatore russo afferma infatti che il dualismo spirito-carne deve venire decisamente superato. Ed inoltre intende la persona quale spirito come un’entità decisamente concreta e carnale.
Ed il suo deve essere considerato senz’altro lo spiritualismo più estremista del personalismo. Ma comunque lo spiritualismo di pensatori come Maine de Biran e Mounier è di segno totalmente diverso dal suo, essendo tutto sommato riconducibile ancor più alla grande tradizione idealistica occidentale, secondo la quale lo Spirito equivale sia all’uomo in quanto ente razionale (e quindi anche come coscienza) sia anche all’Io assoluto (che è stato concepito da Hegel e poi anche da Husserl) – insomma molto genericamente alla Ragione. Ed è in questo senso che anche presso questi pensatori lo Spirito viene considerato equivalente all’uomo. Certo però non con la tendenziale valenza «onto-spiritualistica» che possiamo riscontrare in Berdjaev. In ogni caso questo spiritualismo era idealista anche nel prevedere esplicitamente il dominio dello spirito sul corpo, al quale invece il pensatore russo non attribuiva alcun valore. Anzi, nel prendere a modello Dostoevskij, egli considerò semmai lo Spirito come quella insondabile profondità che suscita le passioni invece di dominarle. In ogni caso egli intendeva lo spiritualismo in senso religioso, in modo tale che la spiritualità umana veniva da lui considerata perfettamente equivalente a quella divina nel contesto dell’umano-divinità.
Posti questi principali punti di riferimento, lo spiritualismo si rese presente praticamente in tutti i pensatori che afferirono alla rivista “Esprit”, e che fu, per mezzo di Mounier la culla stessa del Personalismo. Quanto poi a Ricoeur il suo spiritualismo fu decisamente riduzionista, visto che il pensatore lo ritenne appena un’”ismo” tra i tanti. In ogni caso lo spiritualismo di Mounier sta bene attento a non scivolare nel sostanzialismo, dato che si incentra sul valore attribuito all’interiorità della persona. Per lui infatti il valore di quest’ultima consiste infatti proprio nella sua centratura nella dimensione interiore. Quindi per Mounier è esattamente l’interiorità ciò che fa della persona uno spirito. Inoltre per lui ciò che conta è l’azione personale (in quanto “libertà spirituale”) nella sua capacità di produrre realtà spirituali, ossia sostanzialmente prodotti etico-relazionali. Quindi questo lo spiritualismo di Mounier è sostanzialmente azionista.
Certo è che, per l’accento posto da Berdjaev sulla creatività dell’uomo personale in quanto spirito, appare piuttosto evidente che lo spiritualismo cessa di esistere entro il Personalismo se esso non è azionista.
E questo è ciò che avviene per il pensatore russo proprio in quel Cristianesimo che esaltò i valori della passività e dell’adattamento al mondo. Pertanto appare evidente che lo spiritualismo personalista va inteso sostanzialmente come trasfigurazione del mondo. E questo suo intendimento sicuramente fu comune all’intero Personalismo azionista. In particolare Berdjaev afferma al proposito che il classico spiritualismo cristiano ha considerato sempre lo spirito molto più come una potenzialità creativa che non invece come una realtà. E lui invece mirava propriamente alla trasfigurazione spirituale del mondo. In ogni caso il suo spiritualismo fu intimamente connesso con la creatività che secondo lui caratterizza la persona.
Veniamo però ora alla natura religioso-cristiana del personalismo. E vedremo che tale questione − implicando strettamente anche tutta un’altra serie di grandi questioni del Personalismo, tra quelle che ho elencato prima – ci permetterà di dire una parola definitiva anche si queste ultime.
Nel corso dell’investigazione abbiamo constatato che la vena senz’altro più ingente del Personalismo è stata tra il XIX e XX secolo quella metafisico-religiosa e contemporaneamente ontologica e sostanzialista. Nel suo contesto si tendeva a vedere la persona come anima e soprattutto come spirito, e la si identificava con lo spirito divino attribuendole l’umano-divinità. E siccome parliamo di un pensiero unicamente occidentale è ovvio che il riferimento religioso di questa visione è stato il Cristianesimo. Inoltre, siccome nel Personalismo ha dominato decisamente la scuola di lingua francese, si è trattato quasi esclusivamente del Cristianesimo cattolico (con voci come Maine de Biran, Maritain, Renouvier, Peguy, Mounier, Secrétan, Ravaisson, Le Senne, Lavelle, Marcel, Laberthonnière, Bloy, Hugo) . Lo stesso è comunque avvenuto però anche in Germania con Stein, Guardini, Le Fort, Scheler e Goethe. Vi è stato però anche un personalismo di religione cristiana greco-ortodossa in pensatori come Berdjaev e Dostoevskij. Invece il personalismo cristiano di tipo protestante viene rappresentato bene da Kirkegaard.
Non sono informato su altre forme religiose attuali o passate del Personalismo. In particolare le religioni orientali (induismo ed ancor più buddhismo) tendono a negare il concetto di persona e quindi non possono per definizione rientrare nel Personalismo. Inoltre, a causa della scarsa rilevanza in essa del concetto di persona, l’antica religione pagana greco-romana deve venire decisamente esclusa dal personalismo.
Sebbene abbiamo visto che si possono trovare degli spunti personalisti in Platone.
In ogni caso (come abbiamo visto più volte) entro il Personalismo cristiano bisogna tenere presente una lunghissima tradizione che praticamente investe tutti i pensatori che ne hanno fatto parte. Ma direi che due momenti di punta di tale tradizione sono stati senz’altro Agostino e Tommaso d’Aquino.
Abbiamo però constatato che vi è stato anche un Personalismo né religioso né cristiano. È stato quello di tutti i pensatori che abbiamo discusso nella nostra trattazione ma non ho nominato qui (Ricoeur, Jaspers, Leopardi). E come vediamo si tratta di un Personalismo decisamente di minoranza.
Ora, indipendentemente dalla critica al Cristianesimo tradizionale che ha animato personalisti di spicco come Berdjaev e lo stesso Mounier (inducendoli, e con solide ragioni, a pensare che il Personalismo potesse essere davvero cristiano solo dopo una profonda riforma del Cristianesimo), direi che questa costatazione porta in primo piano un elemento che è emerso molto spesso nel corso della mia trattazione.
Si tratta cioè della presumibile «superiorità» del Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. E la principale ragione di tale superiorità sta nel fatto che questo Personalismo è quello che afferma la realtà inconfutabile, il valore ed il ruolo della persona in un modo che è così assoluto e indiscutibile da divenire di fatto dogmatico. E sta di fatto che questo è l’unico modo per affermare davvero con forza la dignità inviolabile ed assoluta della persona umana.
In altre parole questo è l’unico Personalismo in forza del quale si possa dire che l’uomo è realmente persona − e lo è sostanzialmente perché è persona divina −, per cui ad essa spettano una dignità ed un valore così incommensurabili da renderla assolutamente inalienabile, ossia intoccabile. E questo ha ovviamente una serie di infinite conseguenze su tutti i piani possibili (morale, sociale, politico, economico, culturale, scientifico etc.). Il che significa quindi che in questo modo la dignità ed il valore della persona finiscono per costituire un criterio di orientamento teorico-pratico non solo imprescindibile ma anche centrale.
Sta di fatto però che quest’ultimo Personalismo è però già molto datato e quindi di fatto storicamente non esiste più; sebbene permanga in ogni caso come un punto di riferimento dottrinario ineliminabile. Infatti già con Ricoeur (e con i diversi pensatori personalisti da lui citati: Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson) il Personalismo non si presenta più né come ontologico-sostanzialista, né come metafisico né come religioso. E proprio per questo è ormai molto esposto al relativismo.
Ho esposto nella mia trattazione le principali ragioni per le quali secondo me il Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso (specie se cristiano) va considerato superiore agli altri. Ma intanto come leggere il fenomeno della sua totale scomparsa dall’orizzonte storico attuale?
A mio avviso (aldilà di tutte le possibili riflessioni autorizzate da questo fenomeno) l’unico modo per leggerlo è quello di constatare che esso si pone nel contesto della moderna de-sacralizzazione dell’uomo e della società, e quindi nel contesto dell’ormai deciso allontanamento dell’uomo a Dio. Insomma ormai uomo e società sono divenuti decisamente laici. Ma, visto che abbiamo constatato che solo sul piano metafisico-religioso la dignità ed il valore della persona vengono affermati in maniera indiscutibile, tutto ciò può solo significare che i moderni personalismi sono tutti sostanzialmente «deboli», e quindi affermano la dignità ed il valore della persona soltanto in maniera timida, dubbiosa, scettica, moderata, problematica; insomma, in una sola parola, in maniera unicamente relativa. E allora si può ben dire che (come afferma Ricoeur) il personalismo è ormai morto. Non è morto però affatto per i motivi da lui menzionati. È morto invece semplicemente perché si è cessato di attribuire alla persona dignità e valore; anzi addirittura si è cessato di credere in essa come realtà. Non a caso la moderna filosofia (de-costruzionista, nichilista e perfino buddhista) è apertamente anti-personalista. E comunque (anche aldilà di questo) come si potrebbe mai sperare che il personalismo rinasca (come invece Ricoeur auspica con molta convinzione) nel contesto di una cultura ormai così invariabilmente laica e scettica? Insomma quale Personalismo può mai rinascere nell’attuale temperie filosofica; visto anche che in essa è svanita ogni traccia sia di metafisica che di autentica religiosità?
Il che poi avvalora pienamente l’idea berdjaeviana secondo la quale la necessità di una nuova vera e propria “rivelazione antropologica” (secondo lui essenziale per il sussistere di un Personalismo) si pone totalmente entro i fenomeni di una vasta “crisi” tipicamente moderna e che investe in primo luogo la morale ma anche tutti i fenomeni della conoscenza, della società, della civiltà e della prassi (conoscenza in generale, filosofia, scienza, arte, religione etc.) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-68, II p. 101-106, IV p. 151-153, IV p. 159-161 VI p. 196-198, VII p. 214-223, X p. 295-299 XI p. 318-323, XII p. 342-346, XII p. 350-351, XIII p. 370-374]. In altre parole Berdjaev ci ha mostrato chiaramente che la presa in considerazione del Personalismo implica strettamente la consapevolezza di una crisi tutta moderna che non può non coinvolgere anche questa stessa visione.
Del resto la più recente storia stessa (a partire almeno dagli anni ’30 del XX secolo e inoltre dalla II Guerra Mondiale) ci offre le prove di un disprezzo della persona umana che sicuramente non vi è stato nemmeno nell’antico Paganesimo. Lo scenario insomma è divenuto ancora peggiore di quello menzionato da Scheler nel riferirsi ai terrificanti campi di morte della I Guerra Mondiale. Nel corso della più recente storia sono insorti infatti fenomeni di inimmaginabile degradazione della persona umana che si spingevano addirittura fino alla volontà inflessibile del suo annientamento psicologico e fisico (ecco i Lager non solo nazisti e staliniani ma anche quelli ispirati alle più diverse ideologie). La scienza poi (con l’invenzione di nuove armi immensamente distruttive, con l’ingegneria genetica e con la cibernetica applicata non solo alla nascita della robotica ma anche alla radicale trasformazione bionica dell’uomo) è giunta a livelli inconcepibili di ignoranza e disprezzo della dignità e del valore della persona umana. Infine l’economia di tipo neo-liberale e turbo-capitalista è giunta a considerare addirittura un dogma indiscutibile la mortificazione della persona umana per mezzo del suo impoverimento e della cancellazione di ogni suo diritto.
Da tutto ciò consegue che (molto diversamente da quanto auspicava Ricoeur) noi siamo oggi semmai di fronte ad un evidente anti-personalismo.
Ma in fondo anche gli auspici formulati da Mounier (e che puntavano in direzione di una radicale riforma della società in senso personalisti) sembrano essere stati tutti non solo dimenticati ma anche confutati e cancellati. Ed intanto resta però in piedi un Personalismo estremamente debole (e presente unicamente in ordine sparso), che poi fa anche la figura del paria di fronte all’ormai vastissimo fronte di un pensiero totalmente anti-personalista.
E quindi a chi tra di noi sente di potere e volere attribuire ancora valore al Personalismo, non resta che rivolgere lo sguardo al passato, ossia a quel Personalismo che magari è anche senz’altro storicamente morto, ma intanto (sebbene solo dalla tomba) ha ancora tutto da insegnarci. E questo è senz’altro unicamente il Personalismo ontologico-sostanzialista, metafisico-religioso e soprattutto cristiano.
Come ho accennato prima, la questione dell’ontologicità e religiosità del Personalismo implica anche tutta una serie di altre questioni riguardanti questa visione − e che prima abbiamo visto costituire i grandi assi lungo i quali il Personalismo tesso si è strutturato e si è sviluppato – e riguardanti anche le grandi correnti ideali che l’hanno costantemente attraversato. Quindi in tale contesto abbiamo la possibilità di dire una parola definitiva su tali questioni.
Il criterio che dovremmo seguire è in particolare quello della scelta delle caratteristiche dottrinarie che dovrebbe avere il Personalismo al quale noi intanto guardiamo con lo sguardo rivolto al passato in particolare tenendolo fisso su quello ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso cristiano. Da questo momento in poi riassumerò comunque questo Personalismo con l’acronimo POSMRC.
Innanzitutto appare evidente che esso deve implicare una filosofia religiosa e quindi deve privilegiare fortemente anche l’approccio di pensiero teologico. Non a caso abbiamo visto che il momento forse più forte del POSMRC è stato quel pensiero di Guardini che aveva esattamente queste caratteristiche. Quanto poi agli altri pensatori personalisti religioso-cristiani, queste due presenze si ritrovano (sebbene con accenti meno forti, chiari ed espliciti) senz’altro anche in Stein, Maritain, Berdjaev, Le Fort, Bloy e Maine de Biran. Quanto poi a Scheler egli ha un approccio senz’altro cristiano ma sempre intermediato da un interesse prevalente per la pura filosofia. Per cui è difficile riscontrare in lui un’aperta filosofia religiosa oltre che l’invito alla prassi dell’esperienza religiosa. Non a caso egli tiene strettamente separate religione e metafisica.
In connessione con ciò sta inevitabilmente il fatto che il Personalismo deve essere anche strettamente legato alla prassi dell’esperienza religiosa, ossia la prassi nella quale la persona umana coltiva e sviluppa la propria umano-divinità. In alcuni tra i momenti più forti ed autentici del POSMRC (Stein, Maritain, Guardini, Le Fort, Bloy, Maine de Biran, Dostoevskij) abbiamo visto infatti che quest’ultima è da considerare sostanzialmente un dono divino. E quindi non si può assolutamente illudere di poter conservare questo carattere così fondamentale della persona sulla base della sole nostre forze.
Per questo è invece evidentemente necessario un continuo intervento sovrannaturale e divino; e con ciò va inteso senz’altro il nostro volontario mantenimento costante del contatto con la presenza di Gesù soprattutto per mezzo della preghiera, oltre che per mezzo della pratica della giustizia e dell’amore.
Gesù infatti non cessa mai di bussare alla porta del nostro cuore, ma intanto non osa mai aprirla se non lo facciamo prima noi.
In ogni caso dobbiamo ribadire qui che la visione personalista di Berdjaev resta a tale proposito abbastanza problematica. Egli infatti non solo pone il Personalismo come filosofia religiosa ed anche come necessaria prassi dell’esperienza religiosa. Anzi (come ho mostrato nel mio articolo già citato) offre molti spunti per liberare quest’ultima da una retorica religioso-formalista e pietista (i cui protagonisti sono predicatori, apologeti ed anche non pochi moderni teologi fortemente scettici se non atei) che sbarra la strada severamente all’intimità della relazione personale con Dio. Berdjaev cioè ci aiuta moltissimo a rendere l’esperienza religiosa creativa come essa deve effettivamente essere per poter avere la speranza di toccare davvero la Presenza divina. E tuttavia egli non considera affatto l’umano-divinità come un generoso dono divino, ma invece la ritiene connaturata in partenza a quella persona umana che secondo lui è tanto originaria quanto lo è l’Essere divino stesso. E su questa base è molto facile per il credente scivolare su un piano sul quale egli finirà per adorare molto più il proprio Ego che non invece Dio. E così rischierà di entrare in contatto appena con il Gesù che egli stesso crede di essere. Del resto oggi questo atteggiamento è estremamente diffuso nel contesto di gruppi religiosi che fondono sincretisticamente la fede cristiana con una congerie infinita di altre fedi eretico-cristiane e non cristiane (induismo, buddhismo, gnosi, teosofie varie etc.). E tutto questo semplicemente apre la strada a quel titanismo (spesso di stampo fortemente nietzschiano) del quale ho già parlato e del quale parlerò ancora. Non a caso il lemma di questo titanismo neo-religioso è l’ossessione per la meditazione come via dell’auto-consapevolezza e l’illuminazione; via per la quale si persegue chiaramente la deificazione dell’uomo. Berdjaev stesso ci ha però mostrato (specie per mezzo di Dostoevskij) che la deificazione dell’uomo comporta invariabilmente la sua separazione da Dio, ed è quindi l’anticamera della fede nell’Anticristo.
Ma una volta affermata la necessità della presenza tangibile di una filosofia religiosa nel Personalismo, bisogna inevitabilmente accettare che esso si concilii molto poco con una filosofia ossessionata dal razionalismo e soprattutto dallo gnoseologismo. E quindi la presenza di quest’ultima nel Personalismo andrebbe decisamente scartata. Abbiamo constatato che questo è l’aspetto più scottante della costatazione di una certa insufficienza del personalismo steiniano. Nessuno come lei è stata infatti condizionato da questo genere di filosofia nel porre un Personalismo intanto però molto decisamente ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. Tuttavia è un fatto che proprio questo le ha impedito di attingere la pienezza di un Personalismo come quello di Guardini ed anche di Berdjaev. Quindi mi sembra che questa mia indagine abbia mostrato in modo chiaro l’inopportunità del coinvolgimento nel Personalismo di una filosofia di tipo razionalista e gnoseologista. Tuttavia va intanto constatato che anche quest’ultima è ormai storicamente datata. Il che è un altro segno importante entro la prospettiva di una nuova presa in considerazione del Personalismo. Questa filosofia infatti (specie in Husserl e Stein) era ancora pienamente compatibile con un’antropologia, ed in parte anche perfino onto-sostanzialista, dato che essa non negava affatto l’esistenza di una realtà umana che fosse spirito-animico-corporea. Ma ormai l’attuale filosofia non vuole nemmeno sentire parlare di queste dimensioni. E quindi in effetti il problema è già risolto in partenza – un eventuale nuovo Personalismo rinato (magari non nella storia ma solo nei cuori) non potrà mai più includere quel genere di filosofia. Il che però significa che – entro questo progetto di riesumazione del Personalismo − dobbiamo anche iniziare a guardare con un certo distacco al Personalismo steiniano.
E con ciò è risolta in partenza anche la questione dell’intersecarsi del personalismo con una filosofia dell’essere; tema che poi riprenderemo nel discutere la componente esistenzialista del Personalismo.
E qui è presto detto! L’intero POSMRC implica necessariamente una filosofia dell’essere. Ma quest’ultima si ritrova anche fuori di esso in pensatori come Jaspers. Così come anche in pensatori che non ho trattato (Secrétan, Lavelle, Marcel, Sciacca). Quindi dobbiamo concluderne che il Personalismo è senza alcuna difficoltà compatibile con una filosofia dell’essere; che essa sia religioso-cristiana o meno.
La stessa identica cosa può essere detta la filosofia politica. La quale, come ci dimostra Mounier, ha il pieno diritto di essere (insieme alla filosofia religiosa) l’altro grande nucleo di un almeno ideale nuovo Personalismo. Intanto va preso atto del fatto che, come affermato con forza da Ricoeur, essa non può porsi assolutamente come un “ismo” senza con ciò inficiare il Personalismo. Invece la filosofia politica deve essere ben altro. Ed effettivamente essa è tale in Mounier. Egli perfino fa appello all’adesione ad un certo socialismo marxista, ma comunque non cessa mai intanto di mettere in guardia dagli estremismi (tra i quali l’anarchismo rivoluzionario), sebbene resti estremamente e tenacemente critico verso il liberalismo borghese. E questo lo accomuna fortemente a Berdjaev, che quindi non a caso egli menziona esplicitamente come punto di riferimento fondamentale del Personalismo. Detto questo il principale contributo della filosofia politica deve essere considerato il suo appello all’azionismo. Orbene, nel corso dell’investigazione, abbiamo potuto constatare che praticamene (in maniera diretta o indiretta) tutti i pensatori personalisti da noi esaminati sono stati azionisti. Lo è stata perfino Stein, per mezzo della sua dottrina (pur fortemente filosofico-gnoseologista ed intellettualista) della formazione del mondo da parte dello spirito umano. Lo è stato Maritain nell’auspicio della riedificazione di una nuova Civiltà cristiana. Lo è stato Scheler entro un Personalismo che si incentrava unicamente sui valori come guida dell’azione. Lo sono stati perfino Bloy e Le Fort nel rivendicare (almeno indirettamente) la riforma della consapevolezza umana secondo la direttrice indicata dai valori di una de-personalizzazione che (sebbene paradossalmente) promette (per la via di un Cristianesimo decisamente sacrificale) il raggiungimento di una del tutto sublime pienezza della persona. Lo è stato perfino Jaspers (nonostante la sua indifferenza totale alla religione) almeno nell’indicare la via tragica come eroico viatico per una non meno sublime pienezza della persona.
Lo sono stati massimamente Berdjaev e Dostoevskij nel sostenere che carattere ontico addirittura fondamentale della persona sarebbe la tendenza alla trasfigurazione rivoluzionaria del mondo in senso soprattutto spirituale. Lo è stato perfino un nichilista e pessimista come Leopardi nell’indicare (almeno in trasparenza) le possibili direttrici di una profonda riforma utopistica del mondo che si basi sul radicale giudizio di condanna emesso su di esso. E questo senz’altro coinvolge anche Kirkegaard (sebbene del suo pensiero non ho trattato). Infine lo sono stati in maniera senz’altro aperta ed esplicita Mounier e Ricoeur, sebbene quest’ultimo abbia voluto perdersi in una dottrina leziosamente filosofica del Personalismo come ermeneutica.
Dunque non vi è dubbio che l’ideale nuovo Personalismo che noi desiderosamente contempliamo unicamente nel passato (ma con l’intenzione di fare di esso il nostro viatico filosofico-attivo) debba essere azionista.
Insomma, una volta concepito un POSMRC, non si ha alcun diritto a fermarsi in base ad esso ad una mera affermazione della dignità e del valore inalienabili della persona. Questo credo deve invece venire anche posto in pratica. E le due vie per farlo sono senz’altro l’esperienza religiosa e la prassi etico-politica.
E qui naturalmente ritorna essenziale l’appello di Jonas e Arendt ad un giudizio integralmente personale sul mondo, sugli eventi e sul mondo. Cosa che poi trova un preciso riscontro in Berdjaev laddove egli non nega in alcun modo la necessità di superare il mondo, sebbene vada intanto pienamente riaffermata la presenza concreta ed attiva della persona in esso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43, I, p. 48-75, I p. 88-101, I p. 88-101, II p. 113-117, III p. 135-136, V p. 175-177, V p. 182-185, VII p. 203-209, X p. 279-284, XI p. 307-313, XI p. 326-329, XII p. 331-334].
Non c’è dubbio che, nel contesto del Personalismo, ciò implichi un vitalismo, che del resto Berdjaev teorizza in maniera molto esplicita (rifacendosi peraltro a Bergson). E lo stesso vale anche per Mounier, specie nella sua idea che la condizione personale vada attivamente conquistata nel vivere pieno, e non invece solo presupposta. Tracce di vitalismo si ritrovano perfino in Leopardi. Quanto a Stein, anche se non ne ho parlato nella mia investigazione, la sua stessa radicale critica all’evoluzionismo (e proprio a difesa dell’antropologia personalista) è incentrata sul valore divino attribuito alla forza vitale. Intanto però negli altri pensatori che ho preso in considerazione questo aspetto non appare affatto evidente, e tuttavia nulla toglie che esso sia più o meno direttamente sottinteso.
Ora possiamo anche rispondere alla questione relativa alla giustificazione di un Personalismo ottimista o invece ottimista. Nella trattazione ho offerto vari spunti per risolvere la questione. Tuttavia, alla luce di questa ultime considerazioni riassuntive − nel constatare, intanto, che entrambe le anime sono presenti nel Personalismo −, va intanto detto che certamente è molto meglio che il Personalismo ideale sia pessimista che non invece ottimista. In assenza del pessimismo, intatti, viene a mancare molto probabilmente quella spinta verso la pienezza della persona che molto giustamente Mounier considera di importanza fondamentale. E bisogna dire al proposito che il POSMRC comporta un grosso rischio di considerare invece la persona come una realtà presente nel mondo (e più in generale nell’essere) in maniera del tutto incondizionata; con la conseguenza dell’illusione che essa si manifesti poi altrettanto incondizionatamente.
Il che comporta un tendenziale ottimismo che è piuttosto pericoloso. Ed infatti proprio la storia più recente ci dimostra che le cose non stanno affatto così.
E ciò chiama peraltro direttamente anche in causa quell’«ottimismo cristiano» che troppo spesso si è posto come ostacolo all’azione mondano allo scopo di appoggiare l’affermazione della persona. Nell’investigazione abbiamo infatti visto spesso che il pensiero di Berdjaev collide di sovente con questa presa di posizione. Ed a tale riguardo, invece, il Personalismo di Stein (nel disinteressarsi totalmente della questione, oppure nell’abbracciare acriticamente il piuttosto dogmatico ottimismo cristiano) si pone nuovamente in maniera largamente insufficiente. Del resto proprio Berdjaev, a causa della sua menzione di Dostoevskij, ci ha mostrato nel modo più chiaro e drammatico possibile quanto sia pericoloso abbandonarsi all’ottimismo cristiano. Esso rischia infatti seriamente di sconfinare in quella presa di posizione del Grande Inquisitore, il quale non ha alcuna esitazione a sacrificare la libertà al bene.
Per converso ciò ci mostra come il Cristianesimo (con base nella polemica di Agostino contro i Manichei) ha finito di fatto per abbandonarsi ad un ottimismo puramente retorico – che, specialmente oggi giorno, molto irresponsabilmente nega l’oggettiva presenza del male nel mondo (e nell’uomo stesso) nel mentre intanto (del tutto disinvoltamente) nega anche la possibilità di un concreto aiuto divino all’uomo nella lotta al male. E questa è decisamente l’opera francamente diabolica dei moderni teologi scettici e razionalisti in senso soprattutto de-costruzionista ed anti-metafisico (con punte, come ho detto, perfino di sconcertante ateismo).
In ogni caso abbiamo visto che essenziale – nel porre la stringente necessità del pessimismo – è stato il pensiero di Jaspers riguardo al tragico. Proprio per mezzo del pessimismo egli ha offerto infatti un formidabile supporto all’azionismo come aperta e assertiva resilienza eroica. Il che dimostra che tale
atteggiamento non è affatto per definizione una rassegnata passività all’ineluttabilità del Fato. E questo perfino senza l’apporto del Cristianesimo. Il che poi dimostra di nuovo chiarissimamente quanto vuotamente retorico rischi di essere l’ottimismo cristiano. E questo peraltro offre un forte sostegno all’idea berdjaeviana di una connaturata potenza creativa della persona. Sebbene anche qui bisogna guardarsi da un certo ingiustificato ottimismo disforico molto incline al titanismo, e quindi ad una perniciosa illusione.
Infine mi sembra al riguardo assolutamente esemplare la presa di posizione estremamente sobria e pragmatica di Mounier. Il quale afferma a chiare lettere che la lotta della persona per i valori è esposta sempre fatalmente al fallimento proprio perché il male esiste più che oggettivamente. Non solo, ma egli afferma anche che il male ha il potere reale di disgregare la persona stessa. Questo però induce Mounier a sostenere che l’unico ottimismo possibile è quello di fede. Tuttavia certamente non nel contesto dell’ottimismo cristiano di tipo retorico.
A causa di tutti questi motivi risulta evidente che, se proprio si vuole abbracciare un Personalismo cristiano (cosa, come ho detto, altamente auspicabile), bisogna stare molto attenti ad abbracciare anche il suo incondizionato e dogmatico ottimismo.
Vi è poi un’altra vi è un’ulteriore corrente ideale che attraverso l’intero Personalismo, e cioè la sua dimensione morale.
Qui il protagonista è decisamente Scheler; il quale vincola decisamente il suo Personalismo all’azione del tutto autonoma della persona in forza dei valori. E nell’investigazione abbiamo peraltro visto che questa presa di posizione trova un preciso riscontro nel pragmatismo della morale di Mounier ed anche di Ricoeur. Il che sottolinea poi che, per poter essere davvero personalistica, la morale deve essere davvero “materiale” e non invece astratto-formale. E questo inoltre sottolinea in un solo colpo la dimensione intensamente volontaristica, interiore e non-naturalistica di una morale per davvero personale.
Nello stesso tempo ciò sottolinea ancora una volta che è molto rischioso fondare la morale su una concezione ontologico-sostanziale della persona, la quale di per sé rischia fortemente (come abbiamo visto) di non essere azionistica.
Per contro vi è la posizione di Berdjaev (ed in parte anche dello stesso Dostoevskij) il quale vincola la dimensione morale della persona (da lui tutt’altro che negata) alla riforma dell’intera morale ed in particolare di quella cristiana (la quale per lui si era appiattita di fatto sui peggiori valori individualistici e conformistici borghesi). Proprio su questa base egli aveva auspicato una nuova morale creativa che riteneva l’unica in grado di costruire quella “comunione” spirituale che invece il Cristianesimo di fatto non avevamai davvero costruito, e che è poi l’unico modo per essere una religione dell’amore. Insomma per lui la pienezza della persona può venire affermata solo sulla base di questo presupposto. Non a caso a suo avviso la persona è davvero unica solo quando si fa carico dell’azione morale in maniera totalmente autonoma – ossia come un compito che la riguarda molto direttamente. Il che significa che secondo lui la morale è ineluttabilmente personalistica ed inoltre lo stesso Personalismo non è tale se non pone in primo piano la morale. E bisogna dire che anche Guardini (sebbene indirettamente) allude a questa assolutamente necessaria riforma della morale per poter dare vita da un vero personalismo cristiano. A ciò fa eco poi la fondazione unicamente interiore della morale secondo Maritain. Il che fa poi della morale stessa un ambito del tutto irrazionale, che quindi sfocia molto direttamente in quelle profondità insondabili della “vita divina” nelle quali la distinzione razionale tra bene e male decade totalmente. Proprio per questo secondo lui la persona quale “suppositum” si presenta come un sostanziale protagonista unicamente soggettuale della morale che rende relativa ed insignificante qualunque morale oggettiva.
E qui va nuovamente registrato che il Personalismo steiniano – proprio in quanto cristiano − appare di nuovo insufficiente (per quanto sia stato sensibile alla dottrina dei valori), dato che esso ha abbracciato del tutto acriticamente la classica morale cristiana. E ciò perfino ad onta del fortissimo accento da lei posto sulla piena responsabilità personale nella scelta e decisione morale. In questo però la sua dottrina morale, oltre ad abbracciare incondizionatamente la morale cristiana, finisce per abbracciare anche la unicamente razionalistica ed astratta morale universalistica kantiana che è poi del tutto laica. E che invece Scheler rigettò con estrema decisione.
La costatazione di questa insufficienza (unitamente al contributo fondamentale di Scheler alla morale personalistica) svaluta sicuramente il personalismo ontologico-sostanzialista. E tuttavia nel corso dell’investigazione abbiamo dovuto constatare anche che, nel contesto della lettura berdjaeviana di Dostoevskij, la negazione della sostanzialità della persona quale anima spirituale rischia fortemente di aprire la strada ad un falso umanesimo entro il quale la morale può venire pervertita fino al punto di autorizzare i peggiori crimini. Ecco che allora Dostoevskij ri-avvalora nuovamente la classica morale cristiana (sebbene senz’altro senza alcuna indulgenza verso il suo adattamento supino alla morale borghese). Nell’investigazione abbiamo anche visto che la morale di Maine de Biran si attiene anch’essa a questo fondamentale punto di riferimento etico-religioso. Peraltro anche lui (come Scheler) sottolineò l’importanza decisiva di una morale interiore e non invece esteriore. Ed inoltre la svincolò anche decisamente dalla dimensione razionale per legarla al solo sentimento. Tuttavia comunque il vincolo da lui stabilito tra la morale personale e quella relazionale-sociale aprì la strada a quella morale pragmatica di Mounier entro la quale l’aspetto fondamentale era l’azione. E ciò porta di nuovo in primo piano un Personalismo morale molto più funzionale che non ontologico-sostanziale.
Ecco allora che il muoversi della direttrice morale entro il Personalismo ci mostra due aspetti che sono tra di loro piuttosto contraddittori e che si presentano entrambi con vantaggi e svantaggi.
Da un lato vi è un Personalismo morale di tipo ontologico-sostanzialista (e metafisico-religioso), che di fatto è estraneo alla dottrina dei valori, specie nella sua forza azionistica. Esso comporta il vantaggio di considerare la persona umana come anima spirituale divina, evitando così un umanesimo laico che può facilmente scivolare verso l’amoralismo o almeno verso un relativismo morale. Ma comporta intanto lo svantaggio implicato dal considerare la persona umana come un’entità scontatamente morale al di fuori di qualunque sviluppo e di qualsiasi azione. Ed in questo caso vi è anche una disconnessione con i valori reali e storici di una determinata e società, con la conseguenza del ritorno di fatto di una morale universalistica astratto-formale basata su valori anch’essi a-locali ed a-storici; e l’effetto in questo caso può essere un amoralismo di fatto aggravato dal sussistere di una morale puramente di facciata. Proprio questo è il rischio che è stato corso dal Personalismo basato sulla morale cristiana non riformata, e che viene severamente criticato da Berdjaev e da Mounier (ed in parte anche da Bloy), ma non da Stein e nemmeno da Maritain.
Dall’altro lato vi è poi un Personalismo morale di tipo sostanzialmente funzionalista ed azionista (entro il quale può venire anche negata la sostanzialità onto-metafisica della persona e a volte perfino la sua animico-spiritualità nel contesto di una dottrina laica). Ed esso si presenta non causalmente spesso in stretta connessione con una dottrina dei valori. Ecco comporta il vantaggio di considerare la persona umana come un’entità chiamata a conquistare il proprio status attraverso un’azione incessante e mai ultimata, con la conseguenza che anche la sua moralità potrà essere solo attiva e strettamente condizionata ad i suoi effettivi risultati. Lo svantaggio di questa dottrina è però quello che ho considerato il vantaggio del Personalismo sostanzialista, e cioè l’assenza di uno stabile punto di riferimento metafisico-religioso che eviti il suo scadere in una morale basata sì su valori, ma che possono essere anche falsi e distorti in ragione di costumi e necessità locali e/o storiche, o anche di determinate esigenze ideologiche.
E veniamo ora all’ultima corrente ideale che abbiamo visto attraversare l’intero spazio della visione personalista, ossia l’esistenzialismo. Il quale (come abbiamo constatato più volte) è problematico per definizione dato che spesso di presenta come nichilista.
In via di principio l’esistenzialismo dovrebbe essere personalista per definizione in forza del primo e maggiore dei caratteri ontologico-basici della persona, ossia il fatto di non essere una cosa ma invece un esistente che è consapevole di sè. Infatti anche l’esistente è ciò che è perché non è affatto un ente, ma è invece un essere che è dotato di diversi caratteri che sono anch’essi propri della persona – in particolare quel totale possesso di sé stesso che fa di esso un ente fondato unicamente su sé stesso, e quindi per definizione è responsabile pienamente di ogni sua scelta.
E questo è il famoso “Dasein”, ossia quell’ente che è caratterizzato dall’«esser-ci» − che poi in qualche modo è un essere per sé stesso. Peraltro conta qui molto l’opinione di Maine de Biran, secondo la quale il razionalismo filosofico nega di fatto un esistenzialismo che è invece base indispensabile per il Personalismo, dato che esso sostiene la negazione di “tutto ciò che dona valore all’esistenza”, che poi corrisponde perfettamente al “negare che noi siamo delle persone”.
Tuttavia sta di fatto che la filosofia esistenzialista non è nata affatto con intenzioni personaliste. Il che trova un preciso riscontro in Ricoeur quando egli include anche lo stesso esistenzialismo tra le forze storico-filosofiche avverse che hanno schiacciato il Personalismo. E del resto esattamente lo stesso ha detto Stein (AMP) nel considerare l’esistenzialismo heideggeriano come l’opposto stesso del Personalismo.
Per cui la filosofia esistenzialista ha messo in evidenza gli aspetti appena commentati, ma intanto unicamente sulla base della concezione dell’esistente umano come un ente finito, e quindi per definizione così tanto gettato nel mondo da non essere in alcun modo padrone del proprio destino. E ciò soprattutto per il fatto di essere inesorabilmente votato alla soggezione totale al divenire temporale che poi si conclude impietosamente con la morte. Pertanto in questo modo il “Dasein” umano può anche non essere in sé una cosa, ma finisce per diventarlo comunque non essendo in alcun modo padrone del proprio destino – specie se si considera quest’ultimo non limitato affatto agli eventi storici e naturali (temporalità) ma invece lo si vede procedere in prospettiva verso l’eternità. Dunque per definizione il finito esistenzialmente concepito per definizione non ha alcun senso. Laddove invece (specie in Stein, Maritain, Guardini, Scheler, Berdjaev e Maine de Biran; ma anche il Mounier e perfino nel laico Ricoeur) è stato sostenuto che la persona è ontologicamente il “senso” per eccellenza, ossia è un esistente che sta al mondo in forza di una necessità invariabilmente positiva (che essa sia o meno concepita religiosamente) e che non si dissolve nemmeno con la sua morte. Anzi Guardini sostiene perfino che la persona incarna di per sé così tanto il senso che finisce per trascendere anche qualunque senso che non risieda in essa.
Non a caso abbiamo visto in questa sezione che la persona non può venire concepita in alcun modo come un mero finito. E questo fa sì che forse il maggiore pensatore moderno del “Dasein”, Heidegger, non può venire considerato in alcun modo un personalista. Non a caso il suo Personalismo (se pure esiste) è francamente nichilista. E lo stesso può venire detto anche per Nietzsche, il quale in qualche modo anticipò il “Dasein” heideggeriano nel considerare ontologicamente l’uomo come sostanziale volontà di potenza.
Sta di fatto però che non pochi pensatori personalisti hanno assunto una posizione esistenzialista.
Lo ha fatto senz’altro (ed in modo decisamente paradigmatico) Berdjaev. E peraltro lo ha fatto nel contesto di una davvero fortissima filosofia dell’essere. Cosa che (come ho posto in evidenza nei mei articoli già citati) differenzia decisamente il suo Personalismo da quello steiniano. Ed inoltre lo mette anche non poco in ombra. Tra l’altro il pensatore russo si presenta come un esistenzialista decisamente tragico nel ricollegarsi alla visione di Dostoevskij. E tuttavia abbiamo visto che il così forte accento posto da quest’ultimo sull’umano-divinità riscatta per definizione il suo esistenzialismo tragico sia dal pregiudiziale pessimismo sia anche dal tendenziale nichilismo. Infine va considerato che l’importanza da lui data all’irrazionalità dell’essere fa sì che la sua concezione personalistica della libertà sia totalmente libera dai vincoli delle concezioni filosofico-razionalistiche come quelle steiniana, che proprio per questo motivo (nel supporre un ordine dell’essere che in verità è solo ineffabile ed invisibile) non riesce ad essere esistenzialista.
Inoltre è decisamente esistenzialista anche Maritain, sebbene opponendosi con forza all’esistenzialismo di Sartre e Heidegger. Ed abbiamo visto che il suo è un esistenzialismo fortemente etico-cristiano in quanto riconnette la persona in quanto esistente alla volontà del bene.
È senz’altro esistenzialista anche Leopardi, sebbene entro un esistenzialismo tragico che accomuna filosofi e poeti sia religiosi che non (Pessoa, Hölderlin, Bloy, Jaspers, Kirkegaard, Marcel, Sciacca, e forse perfino Le Fort). In particolare abbiamo visto che in Jaspers diviene addirittura del tutto plausibile un possibile esistenzialismo tragico personalista nel suo concepire (grazie proprio alla visione tragica) il tipo umano più estremo del Personalismo della de-personalizzazione (che include poi anche Bloy e Le Fort), e cioè il «non-nato». Non vi è dubbio comunque che questo tipo particolare di personalismo (e cioè quello della depersonalizzazione) coincide di per sé fortemente con un esistenzialismo tragico.
Quanto poi a Leopardi abbiamo constatato che nel suo pensiero si configura una sorta di «secondo esistenzialismo» (sicuramente da sempre inapparente e nascosto) che ha la potenzialità di essere compatibile con il Personalismo. Tuttavia in lui l’esistenzialismo tragico diventa decisamente anti-personalista quando assume toni davvero radicalmente pessimistici e nichilistici. Infatti in questo caso la de-personalizzazione scade decisamente nella concezione dell’uomo inteso come un vero nulla ontologico.
Ed infatti va detto che diversi pensatori personalisti (esistenzialisti o meno) − tra i quali soprattutto Berdjaev, Stein, Maritain e Guardini – hanno messo in guardia dall’abbracciare l’esistenzialismo tragico in quanto lo hanno ritenuto invariabilmente nichilistico. E del resto Guardini auspica esplicitamente (come Maritain) un esistenzialismo unicamente cristiano. In particolare egli ha sostenuto (in conflitto con la visione scientifica del mondo) che il “Dasein” avverte il mondo non come qualcosa che è circondato dal vuoto proprio per il fatto che esso sente di essere un Tutto indubitabilmente consistente. Ed esattamente questo lo pone in naturale relazione con Dio in quanto Assoluto che intanto circonda amorevolmente il mondo. Inoltre − nell’affermare in particolare che il “Dasein” umano è insieme concreto ed astratto ed anche immanente e trascendente – egli sostiene un esistenzialismo cristiano che non deve assolutamente nulla a nessuno. Infine (ed in maniera questa volta molto simile a Stein) egli sbaraglia letteralmente Heidegger nel confutare frontalmente il concetto di gettatezza dell’esistente, dato che per lui il “Dasein” umano-divino rappresenta l’eternità per eccellenza. E Guardini può sostenere questo perché sposta la gettatezza dall’interiore all’esteriore, relegandola in tal modo totalmente nell’ambito della temporalità fisica. Il che implica poi nuovamente che la persona umana è tutt’altro che un finito, dato che la gettatezza non la riguarda affatto; e ciò per il fatto di costituire un ente divino-umano per definizione destinato all’eternità.
Infine va considerato che lo stesso Mounier assume una posizione molto originalmente esistenzialista nel sostenere che la “categoria di persona” è in sostanza come “esistenza incorporata” e non come “essenza” ma invece unicamente come relazione.
Da tutto questo possiamo concludere quindi che l’esistenzialismo (anche se tragico) ha il pieno diritto di intersecare totalmente il Personalismo. A patto solo che esso non sia nichilista. Perché in questo caso il rischio dell’annientamento della persona diviene estremamente alto – indipendentemente dal fatto che essa venga concepita in maniera onto-sostanzialista (e quindi tendenzialmente religiosa) o anche in maniera funzionale relazionalista (e quindi tendenzialmente laica).
In ogni caso si può dire che l’esistenzialismo tendenzialmente nichilista (di pensatori come Leopardi, Pessoa e Nietzsche) rappresenta una sorta di lato ombra anti-personalista del Personalismo che in qualche modo (sebbene con la dovuta prudenza) potrebbe venire considerato anche parte di esso.

Ecco dunque concluso questa sorta di sunto del saggio sul Personalismo che ho appena scritto e che mi auguro di poter presto consegnare alle stampe. Naturalmente in questo scritto il lettore non potrà trovare la ricchezza delle argomentazioni critiche presenti nel saggio (e quindi sarà fatalmente costretto ad accettare alcune affermazioni nella loro forma non giustificata), ma intanto potrà avere almeno un’idea generale del Personalismo che poi potrebbe anche approfondire con la lettura delle opere che ho menzionato ed elencato.

[ATTENZIONE: questo articolo è stato già accettato per la prossima pubblicazione sulla rivista Dialeghestai, per cui diffida dalla riproduzione non autorizzata del testo, in accordo con le leggi vigenti sui diritti d’autore]

Introduzione.
Abbiamo già trattato di questo tema in un precedente articolo, ma esso era fondato su una base testuale molto più ristretta [Vincenzo Nuzzo, Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende), Dialeghestai 2022 (in corso di pubblicazione)]. Comunque lì come anche qui, nell’affrontare il tema, è stato necessario innanzitutto chiedersi il perché di questo sforzo di approssimazione. Tra i due pensatori non c’è infatti null’altro se non delle molto vaghe relazioni e comunque mai dirette. Alcune lettere della Stein mostrano che Berdjaev fu oggetto di lettura e riflessione da parte di alcuni suoi conoscenti (per questo si veda comunque il primo articolo appena citato). Ed inoltre il libro di Gertrud von Le Fort (sua corrispondente e carissima amica) menziona non poche volte il pensatore russo come un proprio importante punto di riferimento [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Sta di fatto che, per quanto si sappia, Stein e Berdjaev non si conobbero mai né mai ebbero alcuno scambio di idee. È vero comunque che Berdjaev si soffermò molto su Husserl nel corso delle sue riflessioni, e quindi non è escluso che vi siano stati dei contatti tra la lui e quella scuola di pensiero. Anche perché da espatriato Berdjaev soggiornò a Berlino, città nella quale però la scuola husserliana non fu affatto rappresentata. A causa di tutto ciò non ci sentiremmo di escludere che la Stein abbia perfino letto i testi del pensatore, sebbene nei di lei testi non ne viene mai fatta alcuna menzione. In ogni caso è evidente anche già a prima vista che il suo pensiero diverge radicalmente da quello di Berdajev, sebbene i due condivisero una serie di significative prese di posizione filosofiche: – la necessità di un’impostazione intensamente religiosa della filosofia, la necessità di ritornare ad una forte antropologia filosofico-religiosa, l’etica incentrata nella libertà, nella responsabilità, nella scelta, il personalismo e lo spiritualismo.
Quindi, come è già avvenuto in molte altre nostre ricerche, il senso di questo nostro sforzo di accostamento consisterà in primo luogo nell’esplorazione dell’ambiente filosofico che vi fu intorno al mondo steiniano nel tempo in cui ella visse ed operò. Cosa che poi giustifica le possibili affinità in una maniera anche abbastanza ovvia. In ogni caso bisogna dire che il tempo in cui visse ed operò Stein coincide quasi totalmente con quello in cui visse ed operò Berdjaev, con l’unica eccezione nel fatto che egli ebbe la fortuna di superare incolume la tragedia della II Guerra Mondiale per morire solo nel 1948. Pertanto una certa (per quanto vaga) relazione tra i due pensieri deve esistere anche solo perché essi sono stati di fatto immersi nella stessa atmosfera storico-culturale, ideale ed anche fattuale. È evidente però già in partenza che può trattarsi solo di una relazione nella differenza. E del resto questo è quanto avevamo messo in luce anche nel nostro primo articolo.
Oltre a ciò colpisce comunque il fatto che Berdjaev è stato uno di quei pensatori che (in maniera abbastanza simile a Heidegger e Jaspers) si è spinto abbastanza oltre i limiti sia del concetto di essere della tradizionale ontologia sia del concetto di essere estremamente riduttivo al quale Husserl permise di esistere nel contesto del suo idealismo trascendentale. E qui le cose divengono estremamente interessanti dato che Stein compì di fatto il percorso che riportava dal secondo al primo concetto di essere.
Berdjaev, invece – anche se si dedicò con molta energia al recupero di questo concetto – non percorse affatto questo cammino. E questa evidenza si presta quindi molto bene ad una relativizzazione del progetto filosofico-metafisico perseguito da Stein nel costruire la sua ontologia; il che poi ci permette anche di comprenderlo molto meglio di quanto sia possibile quando esso viene considerato scontato e così anche assolutizzato. In tal modo scopriamo insomma che al tempo di Stein il recupero del concetto di essere conobbe varie possibilità, delle quale ella seguì appena una. E di questo abbiamo parlato anche nel nostro primo articolo, sebbene a partire da un punto di vista piuttosto ristretto.
Questo non significa però dover necessariamente stabilire una gradazione di valore tra l’una e l’altra filosofia dell’essere. Significa invece molto più tentare di allargare la gamma delle forme storiche con le quali essa si presentò a quel tempo. Ma, rispetto a Stein, implica anche un’altra cosa. Infatti ella condivise fortemente con Berdjaev i valori della libertà, della responsabilità, della scelta, e soprattutto della persona umana. E tali valori risultano strettamente connessi a quella filosofia dell’essere che presso di lui si manifesta con i tratti primari di un’antropologia ancora più forte di quella steiniana (in altre parole in lui il concetto di «essere» e quello di «uomo» coincidono quasi totalmente). Eppure la sua filosofia dell’essere differì molto sensibilmente da quella steiniana a causa di un concetto di essere molto diverso.
E tutto questo, quindi, ci permette di analizzare più approfonditamente come ed in che misura, presso Stein, la filosofia dell’essere si sia strutturata in relazione con elementi filosofici tipici del personalismo.
In altre parole questa indagine ci permetterà anche di gettare uno sguardo sulla relazione tra il personalismo steiniano e quello di Berdjaev. Sebbene a questo così complesso argomento sarà necessario dedicare un’ulteriore indagine.
Naturalmente comunque ci riferiremo qui quasi esclusivamente ai testi di Berdjaev e solo di rimando a quelli di Stein, e quindi tutto sommato dando per scontata la visione di quest’ultima. Se così non fosse l’ampiezza del materiale non ci permetterebbe di restare nello spazio di un articolo. Ma intanto il lettore che non è addentro negli studi steiniani potrebbe orientarsi rapidamente in esso per mezzo della sintesi che noi ne abbiamo fatto [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D, oppure anche per mezzo delle diverse opere riassuntive che sono state scritte su di esso.
Intanto devo ricordare che il nostro primo articolo sul tema si riferì integralmente al testo “Das Ich und die Welt der Obiekte” (DIWO) [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951], che fu un’opera solo tardiva (del 1938). Anche su questa ristretta e secondaria base avevamo discusso la differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. DIWO però aveva obiettivi ben più ristretti di quelli perseguiti in altre opere, e cioè aspirava ad affrontare in primo luogo il problema del filosofare in rapporto ad uno dei suoi aspetti tradizionali più fondamentali, ossia la relazione tra Io ed oggetti. L’opera è quindi di respiro molto meno ampio rispetto a quelle che esamineremo in questo articolo, e cioè “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaka Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], che sono state poi anche opere più precoci e basilari del pensatore − rispettivamente del 1916 e del 1923.
Bisogna inoltre dire che in SC il concetto di essere si presenta in maniera ben più diretta e compiuta. Per cui ci è sembrato necessario basarci soprattutto su questo testo per completare le nostre considerazioni sulla differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. Pertanto il presente articolo si baserà soprattutto su SC e CD, sebbene conterrà anche alcune considerazioni tratte da DIWO.
Infine ecco un’ultima considerazione introduttiva. Tutto quello che diremo della filosofia dell’essere steiniana riguarda di fatto in gran parte quel suo pensiero che venne prima della fase mistico-monastica della sua vita ed opera. Quindi quella certa svalutazione di tale filosofia che inevitabilmente ne scaturisce non investe affatto l’interezza e pienezza del pensiero steiniano. Dato che a nostro avviso essi si ritrovano solo nella sua ultimissima fase mistico-monastica, come del resto evidente nella lettura delle sue ultime lettere [Vincenzo Nuzzo, Le caratteristiche del pensiero nella fase mistica dell’opera di Edith Stein alla luce delle lettere 1933-1942, Dialeghestai, 23, 2021]. D’altro canto proprio in questa fase il centro del pensiero steiniano non era già più affatto la filosofia dell’essere.

I- Essere e conoscenza dell’essere. Il problema della “gnoseologia critica”.
Stando a ciò che Berdjaev scrive in SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., II p. 85-88] è davvero difficile distinguere cos’è per lui il mistero dell’essere e cos’è invece il mistero dell’uomo. Di fatto sono per lui la stessa identica cosa. E lo sono soprattutto in quanto entrambi sono degli a priori assoluti tanto dell’ontologia quanto della stessa gnoseologia. Per cui si tratta di fatto di un complessivo a priori non gnoseologico. Ed ecco che già in tal modo l’essere si presenta in maniera assolutamente incondizionata; come senz’altro non si presenta affatto nel contesto della Fenomenologia husserliana. Non a caso Berdjaev sostiene che l’uomo è essere in una maniera così ampia prima di tutto in quanto è microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. Il che significa che, anche ammesso che noi volessimo seguire la linea della riduzione trascendentale dell’essere secondo Husserl, dovremmo comunque andare a ritroso ben oltre lo stesso Io puro (il quale già non è affatto l’Io empirico della psicologia) per poter raggiungere davvero il termine ultimo della riduzione.
Il quale appare qui anche del tutto rovesciato rispetto a ciò che avviene nella visione di Husserl – perché è l’essere antecedente pensiero e conoscenza, e non viceversa.
Ecco allora che, per Berdjaev, l’essere va inteso (insieme all’uomo) come quanto di più originario possa venire mai concepito. Ora è senz’altro vero che, a partire dalla sua fase realistica (coincidente con l’ontologia tomistico-aristotelica), Stein iniziò a concepire l’essere come in qualche modo primario rispetto alla conoscenza ed al pensiero (coscienza). Proprio in questo senso ella lo intese come il Fondamento, e proprio in questo senso ella cominciò a concepire l’Io come in primo luogo esistente. Tuttavia ciò significava che l’essere non veniva più considerato così tanto condizionato dal pensiero-conoscenza da venire di fatto «dopo» di essi nell’ordine della realtà. Ella non giunse però mai a pensare che l’essere venisse non solo «prima» del pensiero-conoscenza ma perfino prima di ogni possibile cosa. Mai insomma ella giunse a pensare che l’essere fosse un radicale originario. Semmai ella lo considerò contemporaneo al pensiero-conoscenza nell’ordine dell’essere. Dunque l’assoluta originarietà dell’essere rappresenta il tratto che più radicalmente distingue la filosofia dell’essere di Berdjaev, rendendola così assolutamente unica.
Oltre a ciò vi è però anche un’altra questione. Stein sicuramente ha trasceso lo gnoseologismo (pensiero-conoscenza) fondante l’essere (che un po’ dappertutto Berdjaev definisce e deplora come “gnoseologismo critico”). Ma è con ciò arrivata per davvero ad una concezione così estrema dell’essere come quella del pensatore russo? Non diremmo che sia stato così perché ella prima approdò ad un’ontologia realista (sullo stampo di quella tomistico-aristotelica e con al centro il concetto di sostanza) e poi addirittura ritornò ad un’ontologia idealistica sebbene ormai intensamente religiosa (sullo stampo di quella agostiniano-platonica e con al centro il concetto di Logos o essenza trascendente). Dunque ella non giunse mai a considerare l’essere addirittura un a priori pre-gnoseologico. Laddove con ciò l’essere viene concepito in maniera molto diversa dall’ontologia realista – nella quale esso è invece appena l’esteriore «mondo fuori di noi» (oggettualità) che trascende il soggetto. Per Berdjaev invece l’essere è in primo luogo un assoluto ed inafferrabile mistero proprio in quanto radicalmente originario. E bisogna ammettere che tale fu l’essere anche per Jaspers [Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956; Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971]. Vedremo però più avanti in che modo il pensatore russo distingue la sua filosofia dell’essere da quella di quest’ultimo.
Di ciò troviamo del resto un preciso riscontro in un altro luogo di SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., I p. 68-75], e cioè laddove scopriamo che, entro la concezione di Berdjaev, tanto la realtà quanto la coscienza stessa si trovano in fondo entro un piccolo mondo (il nostro); soltanto oltre il quale si trova il vero essere in quanto “rigoglio” (pieno ed originario), e quindi come qualcosa che per definizione eccede tutto quanto noi sperimentiamo nel vivere. E qui ciò che noi sperimentiamo e viviamo sono proprio la gnoseologia (coscienza, o pensiero-conoscenza) e l’ontologia esteriore (realtà o mondo), che appunto restano entro i limiti del nostro piccolo mondo.
Da ciò risulta quindi che per Berdjaev l’essere non può venire affatto ridotto a ciò che è appena esteriore alla coscienza. Anzi, commentando alcuni punti di DIWO, vedremo che quest’ultimo è per lui appena il pensiero obiettivato, e quindi è un essere assolutamente inautentico oltre che estremamente riduttivo. Risulta chiaro, quindi, che la sua filosofia dell’essere si trova totalmente al di fuori sia dell’idealismo che del realismo, e si trova pertanto anche totalmente al di fuori del conflitto esistito da sempre tra queste due posizioni. Tanto è vero che, entro il suo tentativo di definire la filosofia (che discuteremo più avanti) – e nel sostenere che la filosofia è totalmente riducibile al filosofare dell’uomo in quanto essere –, emerge un antropologismo assolutamente primario che è quindi carattere tanto della coscienza quanto dell’essere (senza alcuna precedenza dell’uno verso l’altro e senza alcun primato) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, I p. 75-82]. In altre parole la coscienza non è altro che essere per il fatto che l’essere equivale interamente all’uomo (mentre non equivale affatto alla coscienza, come invece l’intera filosofia idealistica aveva tendenzialmente pensato). Ancora una volta, quindi, l’«essere-in-quanto-uomo» (unitamente all’«uomo-in-quanto-essere») precede la coscienza in modo totale e radicale, in tal modo fondandola e pertanto rendendola anche del tutto secondaria. Ne risulta allora che la coscienza non fonda un bel nulla (diversamente da ciò che Husserl pensò, del resto accompagnato da Stein per molto tempo). È però vero anche che lo stesso mero «essere-esteriore-alla-coscienza» non è assolutamente fondante. Ed ecco allora l’esclusione tanto dell’idealismo che del realismo. Su questa base Berdjaev fornì poi la sua definizione della filosofia: “La filosofia è appunto l’autocoscienza che l’uomo ha del proprio ruolo sovrano e creatore del cosmo”. Ecco insomma un’autocoscienza quale puro atto umano che trascende la coscienza in quanto entità oggettiva.

Ed è proprio in tale contesto che emerge in lui l’elemento ontologico fondamentale che è costituito dalla relazione tra microcosmo e macrocosmo, laddove il microcosmo è poi l’uomo stesso. L’uomo, insomma, è esso stesso un universo nel mentre l’universo è esso stesso uomo. Il che significa che il macrocosmo (grande universo) sta in lui e non fuori di lui. Macrocosmo e microcosmo sono quindi in verità simultanei. Pertanto proprio come microcosmo in relazione con il macrocosmo l’uomo partecipa del Logos universale. E precisamente partecipa di esso impersonandolo nella propria essenza, com’è stato sempre illustrato nelle varie postulazioni metafisiche e teosofiche di un Uomo prototipico o “Macroanthropos” (ossia Adamo e Cristo insieme) [Nikolaj Berdjaev, Il senso… cit., I p. 75-82, II p. 85-113, VI p. 190-196, XIII p. 370-374]. E bisogna dire che anche la stessa Stein non mancò di postulare più volt tale entità nel suo libro dedicato alla costruzione della persona umana [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001].

Ora, la filosofia dell’essere steiniana non solo non si pose mai fuori dell’ambito filosofico idealismo-realismo, ma, oltre a ciò, oscillò di fatto continuamente tra le due prese di posizione. Essa infatti può (a seconda delle fasi e dei punti di vista) venire considerata in parte realista ed in parte idealista. E proprio per questo, entro la nostra tesi di dottorato [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018] parlammo a tale proposito di un «idealismo realista».
In ogni caso – sulla base delle riflessioni di Berdjaev −, se proprio noi vogliamo parlare dell’essere in quanto «mondo fuori di noi» (essere esteriore alla coscienza), dobbiamo allora ammettere che la sua estensione è molto maggiore di quella che possiamo pensare basandoci sulle mere apparenze (incluse quelle metafisiche). Esso insomma va ben oltre i limiti dello stesso mondo esistente, percepibile e pensato. Ossia è un integrale ed inafferrabile mistero più che invece un’evidenza metafisica. E di nuovo ricorre qui la concezione dell’essere di Jaspers. È certo che (almeno su un piano filosofico-metafisico formale) Stein non pensò affatto l’essere in questo modo – sebbene abbia comunque intuito questo suo carattere definendolo (in polemica con Heidegger) come “magis ignotum quam notum” [Edith Stein, Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 495-499]. Ma aldilà di tutto ciò Berdjaev sta in tal modo pensando anche ad un essere che l’uomo riporta alla sua ampiezza e pienezza trascendente nell’incrementarlo grazie al suo continuo atto creativo (potremo comunque comprendere meglio questo più avanti quando definiremo più precisamente il suo concetto di essere). Ed inoltre egli sta pensando a quella che definisce come “filosofia del futuro”. La quale per lui non è altro che quella in cui sia stata per sempre abolita quella distanza tra conoscenza ed essere che era stata istituita dal razionalismo, ossia di fatto dall’idealismo (nel quale rientra poi senz’altro anche la Fenomenologia husserliana). Ed ecco che allora la conoscenza si presenta come in realtà immanente all’essere, a sua volta concepito nel modo più ampio possibile. E questo è un altro modo per dire che l’essere è un assoluto a priori pre-gnoseologico. Orbene, per quanto Stein si sia non poco allontanata dall’idealismo trascendentale husserliano, appare chiaro che ella non arrivò mai a concepire l’essere in questo modo così estremo.
Berdjaev va però ancora oltre nel dichiarare l’atto creativo umano (dal quale scaturisce proprio l’incremento di essere del quale abbiamo appena parlato) come intoccabile da parte della gnoseologia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 151-153]. Pertanto, data l’equivalenza assoluta tra creazione ed essere, è allora evidente che anche l’essere dovrà essere del tutto intoccabile da parte della gnoseologia. Per la precisione ciò avviene secondo lui a causa della natura della coscienza che noi scopriamo una volta che abbiamo scoperto l’assoluta identità tra essere e uomo. Infatti su queste basi (come peraltro abbiamo in parte già visto) la coscienza si presenta come l’atto di “auto-rivelazione dell’essere”, ossia la rivelazione dell’essere all’uomo da parte dell’uomo e senza alcun’altra premessa. Insomma non vi è alcuna dottrina che possa darci conto della coscienza (come invece avviene entro la Fenomenologia husserliana, e senza che Stein l’abbia mai smentita). Infatti abbiamo già visto che la coscienza non è nulla di oggettivo.
Ed ecco del resto anche perché l’essere e l’uomo sono la stessa cosa – essi sono immediatamente simultanei (dove c’è l’uno c’è anche l’altro). Quindi l’atto creativo umano è qualcosa che giustifica senza venire mai giustificato, e pertanto non conosce alcun “fondamento” ad esso esteriore.
Ecco allora che la stessa autocoscienza umana è assolutamente “originaria e non derivata”. Ossia, essa nasce nell’uomo e presuppone solo l’uomo, e ne è quindi atto assolutamente originario così come l’uomo è assolutamente originario. Per tali motivi l’atto creativo si trova sempre già di per sé sul piano dell’essere, e pertanto o è di per sé già gnoseologia (senza però affatto identificarsi onticamente con essa) oppure non presuppone alcuna gnoseologia. Ecco che l’auto-coscienza è l’uomo stesso, e pertanto è premessa di tutto almeno quanto lo è l’uomo stesso. Ancora una volta diviene così chiaro che la coscienza (ossia il pensiero-conoscenza) non precede, non giustifica, non fonda e non costituisce un bel nulla. E ciò per il semplice fatto che, se lo facesse, essa già cesserebbe di essere «coscienza» e sarebbe invece solo «essere».
Ebbene da tutto ciò deriva che la coscienza (in quando riducibile interamente all’atto creativo) non richiede alcuna dottrina che la giustifichi – essa è cioè ontologia (ossia è l’essere stesso) in quanto è pre-scientifica e pre-gnoseologica. Ma sta di fatto che Berdjaev si riferisce qui alla dottrina gnoseologica in quanto volutamente scientifica, ossia come “gnoseologia critica”, e quindi come ciò in cui la filosofia moderna si è voluta trasformare per poter essere scientifica. Quindi essa sembra filosofia ma in verità tradisce la filosofia. E da ciò deriva allora che le aspettative della riduzione trascendentale fenomenologica (quelle che auspicano la conoscenza come giustificante l’essere) in verità non sono affatto filosofico-scientifiche ma sono invece unicamente scientifiche. Infatti, come dice il nostro pensatore, soltanto in ambito scientifico è necessaria una giustificazione gnoseologica dell’essere. Mentre invece in ambito filosofico l’essere è oggetto di un’intuizione assolutamente immediata ed incondizionata. E bisogna allora ammettere che anche Stein è caduta in questa trappola (in cui è caduta di fatto l’intera filosofia moderna); almeno finché non si è svincolata quasi completamente dalla stessa filosofia moderna per muoversi quasi interamente sul piano della mistica.
Berdjaev chiarisce comunque ulteriormente questa sua posizione nel mentre definisce la gnoseologia critica come una vera e propria “malattia” della cultura moderna. Egli chiama qui in causa Kant e i neo-kantiani nel rimproverare loro il fatto di aver voluto a tutti i costi strappare l’area della creatività conoscitiva dal piano dell’essere, identificandola totalmente con quel giudizio che per definizione esula dall’esperienza immediata. Ed ecco che qualunque trasfigurazione pensante dell’essere (che è sempre un suo arricchimento visionario) è stata in tal modo proibita; come nel caso del religioso, dell’in sé e dell’invisibile. Ma per Berdjaev la creatività conoscitiva coincide anche con il pensiero stesso nella sua pienezza. Per cui, grazie a Kant, è accaduto che di fatto non si potesse più pensare senza prima chiederne il permesso.
Un ulteriore spunto per una nuova filosofia dell’essere può poi venire trovato in SC anche sul piano esplicitamente religioso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 159-164]. Berdjaev auspica infatti anche qui una creatività che superi i limiti dell’esperienza religiosa tradizionale per mezzo di un atto che è in primo luogo conoscitivo e che prevede la fusione tra soggetto ed oggetto, ossia il superamento della distanza tra conoscenza ed essere che poi sempre ha caratterizzato ogni religione. In esse infatti Dio è stato sempre un oggetto di conoscenza molto difficile da definire oppure affatto non definito. Ma proprio questo conoscere Dio è ciò che Berdjaev definisce come il tendere verso il Trascendente. Più precisamente egli auspica in campo religioso un’autentica creazione dell’essere (un suo incremento), per mezzo dello svelamento della divinità laddove essa era prima invisibile. E definisce questo un atto che decisamente va oltre la cultura.
Ma in termini più generali si tratta di una “trasfigurazione dell’essere” che consiste sostanzialmente in una “donazione di senso”.
Ancora una volta egli vede però nella gnoseologia critica ciò che pretende di rendere infondato razionalmente questo atto nell’esigere di giudicare criticamente ogni creatività. Ed in questo essa fa prevalere il concetto di adequazione alla necessità (o più precisamente alla “datità”) in una maniera così forte da far di fatto svanire l’essere stesso. Tuttavia Berdjaev ritiene questa disciplina del tutto incompetente a dirimere sia nei confronti della ricerca di senso sia nei confronti della creatività, dato che il suo obiettivo dovrebbe essere unicamente quello di giudicare circa la scientificità della conoscenza. Ma intanto quest’ultimo non è assolutamente il campo sul quale si possa conoscere il senso dell’essere né l’essere stesso. E quindi per lui la gnoseologia critica risulta del tutto destituita di fondamento nella sua ambizione a porre le condizioni per una filosofia dell’essere. Dunque ancora una volta l’essere appare in Berdjaev qualcosa di pre-gnoseologico ed anche pre-ontologico. Esso insomma esso sfugge per definizione ad ogni «logicizzazione».
Su questa base possiamo allora comprendere in maniera più profonda quale può venire considerata la forma di una possibile nuova conoscenza dell’essere in Berdjaev. Essa appare dipendere strettamente da una nuova definizione della conoscenza, e precisamente una definizione che abolisca qualunque contrapposizione tra conoscenza ed essere: − “La conoscenza non è né esterna all’essere né contrapposta all’essere, essa si situa anzi nel cuore stesso dell’essere ed è un’azione dell’essere. La conoscenza è quella luce solare dalla quale l’essere trae alimento. La conoscenza è lo sviluppo creativo, la crescita solare della vita”. La filosofia dell’essere di Berdjaev appare quindi condizionata alla totale inesistenza di un’impotenza della conoscenza (come quella che è stata considerata un dogma dalla gnoseologia critica entro la cosiddetta «teoria della conoscenza»); il che è poi possibile solo in una conoscenza che sfugga a qualunque giudizio gnoseologico (che per definizione deve concernere unicamente qualcosa di settoriale, e quindi tipicamente scientifico). Ed ecco quindi che la filosofia dell’essere è del tutto incompatibile con qualunque scientificità della conoscenza. Ebbene, appare con ciò evidente che una simile filosofia dell’essere non sarebbe mai potuta insorgere in Stein. Dato che, se vi fu un aspetto nel quale ella non prese mai le distanze dalla Fenomenologia di Husserl, questo fu proprio l’accettazione della teoria della conoscenza. Ma quest’ultima appare costituire per Berdjaev un ostacolo insormontabile alla conoscenza dell’essere e perfino al riconoscimento dell’esistenza dell’essere. E quindi non potrebbe mai e poi mai fondare una filosofia dell’essere.

II- Il concetto di essere.
Possiamo però approssimarci ancora di più alla filosofia dell’essere di Berdjaev se la intendiamo più chiaramente come una primaria ontologia. Il che è possibile cercando di capire cos’è per lui ultimanente l’essere, ossia qual è il suo concetto di essere. Ne possiamo avere un’idea dove egli in SC cerca di definire ultimamente la creatività stessa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. E qui risulta chiaro che, dato che egli considera l’uomo un ente essenzialmente creativo, deve anche considerare l’essere identico alla creatività; almeno nella stessa misura in cui esso stesso è da considerare identico all’uomo.
Bisogna in primo luogo osservare che le sue giustificazioni al proposito sono metafisico-religiose, ma come tali così estreme da rasentare perfino l’eresia teologica; almeno nel contesto della classica ontologia dogmatica cristiana. In questo egli parte infatti da una davvero estrema somiglianza tra uomo e Dio che riguarda non solo l’attitudine ma anche la stessa potenza creativa. Il che significa che di fatto l’uomo genera letteralmente l’essere esattamente come fa Dio. E qui è piuttosto evidente che la sua dottrina si approssima non poco a quella dell’onto-generazione che Nietzsche attribuisce all’uomo specie nel contesto di “volontà di potenza” [Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi Milano 2006, II, p. 31-51; Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Roma 2005, 54-88 p. 50-63 89-98 p. 63- 66]. In particolare Berdjaev sostiene che necessariamente il “creato” deve essere creatore, così come lo è Colui che lo ha creato. Il che riguarda pertanto non solo l’uomo ma anche il mondo creato stesso.
E proprio qui veniamo al punto decisivo, perché questo non è per lui affatto un dogma infondato, bensì è invece qualcosa che scaturisce direttamente dalla natura stessa dell’essere. Infatti è tale solo ciò che è possibile in quanto deve costituire per definizione e necessariamente “qualcosa di nuovo e di mai visto prima”; e non invece “precedentemente dato”. Il che poi non vale affatto solo per l’origine dell’essere ma forse ancor più per il suo persistere nel tempo, ovvero il suo continuare ad esistere. Ne consegue che l’essere può esistere e sussistere solo in forza di un continuo suo incremento e crescita, ossia il dinamismo – infatti se invece fosse stabile esso perirebbe senz’altro per esaurimento. Ed ecco allora che il concetto di essere esclude radicalmente non solo qualunque staticità ma anche (e soprattutto) qualunque genere di “redistribuzione” di ciò che già «è». Cosa che spazza via tanto la visione tradizionalmente scientifica dell’essere (come quella della fisica naturalistica e materialistica ed anche dello stesso evoluzionismo, nonostante il dinamismo al quale esso si appella) quanto anche la metafisica nella sua versione emanatista. Infatti l’emanazione, per Berdjaev, implica necessariamente una materia eterna alla quale attinge il flusso che intanto (del tutto involontariamente) promana dal Divino (ossia si limita a traboccare da esso), e che ha poi il grave difetto di esporsi all’inevitabile esaurimento. È evidente che ciò implica sul piano metafisico una del tutto necessaria “creazione dal nulla”, mentre contraddice necessariamente il concetto di «materia eterna» che era stato in comune tra Platone e Aristotele. Ed ecco allora ultimamente giustificata la creatività – essa deve essere carattere necessario del mondo e quindi (in via di principio) anche dell’uomo. Tuttavia per lui la vera e piena creatività (per somiglianza a Dio) esiste solo per l’uomo, dato che esso è l’unico ente la cui anima sussista da prima della creazione. E qui viene indirettamente chiamato in causa il Logos stesso.
È inoltre su questa base che per lui l’uomo è da considerare creativo per definizione, e come tale libero nella stessa misura in cui lo è Dio. Ed abbiamo visto prima in che modo l’uomo esplica questa sua creatività simile a quella divina – cioè attraverso una trasfigurazione dell’essere che è sostanziale incremento, ed inoltre consiste più in particolare nel lasciare emergere (specialmente sul piano conoscitivo ma intuitivo e visionario) aspetti dell’essere che prima erano nascosti. Proprio per questo Berdjaev ritiene che l’uomo è chiamato da Dio ad un’opera di vera e propria continuazione della creazione, che più precisamente consiste nel porre rimedio alla originaria incompletezza di essa (ma da Dio espressamente voluta). E più meno la stessa cosa egli afferma quando rivendica la necessità che l’uomo moderno porti alla luce gli aspetti della Rivelazione cristiana che finora non erano ancora emersi [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Proprio in questo consiste per lui l’assolutamente necessaria “nuova Rivelazione”.
Possiamo comunque guardare tutto questo anche dal punto di vista di Dostoevskij [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., I, p. 5-15]. Berdjaev infatti osservò lo spirito (visionario) di Dostoevskij e non invece la sua opera come letteratura e psicologia. E tale spirito visionario consisté per lui nell’intuizione di “idee” che (molto diversamente da quelle astratte, calme e statiche di Platone) configurano un dinamismo turbinoso e infuocato, e cioè in particolare i destini umani. Come tali esse sono sempre anticipazione di “nuovi mondi”, e quindi in questo senso sono sempre travolgente creazione di essere. Insomma pare che Dostoevskij si sia soffermato dovunque nel mondo vedesse l’insorgere questo turbine, cosa che poi avviene primariamente nel profondo interiore dell’uomo. Più precisamente si tratta di una dimensione in cui mancano forma, misura e freno. Quindi si tratta sempre dell’abisso infuocato rappresentato dallo spirito umano (diversamente dall’anima), che proprio come tale è crogiolo per eccellenza di un nuovo essere futuro.
Ma sta di fatto che l’ontologia tradizionale non a caso ha sempre considerato di fatto inesistenti gli aspetti nascosti dell’essere (il perenne «nuovo») dei quali abbiamo poc’anzi parlato; dato che essa ha sempre preso le mosse dall’essere così come a noi appare attualmente, anche se su un piano metafisico (ossia oltre le mere apparenze sensibili prese in considerazione dalla fisica e perfino oltre lo spazio ed il tempo) e al di fuori dell’immediato attimo anche se considerato intemporale.

In altre parole Berdjaev non sta parlando affatto di una sorta di astruso essere fisico iper-spaziale ed iper-temporale, come oggi è usuale pensare ricorrendo (in filosofia ed in teosofia) ai concetti della moderna fisica quantistica. Né sta parlando del non meno astruso e sofistico essere come Nulla e come Possibilità che fu postulato da Heidegger [Martin Heidegger, Cos’è Metafisica? Adelphi, Milano 2008, p. 44-51; Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010, p. 109-167] nel tentativo di forgiare una neo-ontologia inaudita, ardita ed orgogliosissima che recasse il suo solo nome. Berdjaev, invece, si sta mettendo umilmente davanti al solo mistero dell’essere cercando di evitare qualunque mediazione nel coglierlo. E ciò all’unico scopo di inginocchiarsi davanti alla sua maestà.

Tuttavia per uscire da questi limiti è necessario pre-vedere ciò che ancora non si vede, ossia è necessaria quell’intuizione che è sempre visionaria. Ed infatti Berdjaev considera l’intuizione un atto di importanza cruciale nella conoscenza dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 48-82]. In ogni caso a questo punto (sfiorando così l’eresia teologica) egli considera del tutto insufficiente l’immagine dell’essere che ci viene proposta nel Genesi del Vecchio Testamento, e quindi dalla dottrina cristiana. Essa infatti per lui ignora (o almeno finge di ignorare) il vuoto antecedente l’essere che deve venire presupposto per lasciar emergere la natura di «novità» che spetta di diritto all’essere stesso; e quindi tace circa il vero e proprio Nulla (“abisso pieno di mistero”) dal quale scaturisce l’essere ma che è anche in fondo l’essere stesso nella sua natura ultima. Insomma la natura dell’essere è per definizione abissale e misteriosa, e quindi la sua integralità è per definizione nascosta al nostro sguardo, almeno finché essa non venga portata alla luce. In luogo di tutto ciò per Berdjaev il Genesi si è limitato a porre in evidenza appena il momento del venire alla luce dell’essere grazie al volontario atto creativo divino. In altre parole egli sospetta la teologia cristiana di un atto di occultamento della natura dell’essere. Per questo motivo il nostro pensatore ritiene che la dottrina teologica del Genesi abbia in verità configurato semmai una cosmogonia, ma mai per davvero un’antropogonia. E precisa che invece ciò è avvenuto in teosofie come quella di Böhme [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170], entro la quale compariva proprio il vuoto originario (“Ungrund”). Va registrato però che egli dimentica qui di menzionare la creazione così come si presenta nella Cabbala specie luriana; dato che essa ci mostra in Dio proprio un tragico Vuoto originario, consistente nell’Ein-Sof nascosto dietro il Volto divino (rivolto verso il mondo) e dinamicamente espresso nello “zimzum” ossia un vero e proprio svuotamento interno che scatena la creazione attraverso un’innimmaginabile ed immane concentrazione [James David Dunn, Window of the Soul…cit., p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111].
A tutto ciò egli aggiunge una considerazione etico-religiosa non meno tendenzialmente eretica. Sostiene infatti che sarebbe da ammettere un’originaria “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e bisogno, che sarebbe poi quanto per davvero (nel contesto dell’atto creativo) spingerebbe Dio amorosamente verso l’uomo. E questa è evidentemente per lui la più profonda giustificazione della creazione a somiglianza.
Ora vi sono qui diversi elementi che allontanano di molto la visione steiniana dell’essere da quella di Berdjaev. Fa forse eccezione solo il concetto di “Urgrund” che da lei viene discusso in alcune parti della sua opera [Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p 303-394]; e che a questo punto lascia piuttosto sconcertato lo studioso, indicando forse che anche lei stessa aveva concepito l’atto creativo in maniera molto più estrema di quanto il resto della sua più formale ontologia lasci pensare. Stein comunque sicuramente si attenne nel complesso all’ontologia tomistico-aristotelica nel considerare l’essere come quell’entità metafisica della quale a noi non è nascosto alcun aspetto – si tratta in particolare dell’”essere come tale” del quale Aristotele parlò nella metafisica. Ed è evidente che ciò esclude senz’altro l’intendimento dell’essere come sostanziale «novità» e quindi come sostanziale dinamismo. Le cose cambiano sensibilmente laddove ella successivamente trattò dell’essere facendo ricorso al paradigma trinitario – qui domina infatti quel paradigma dinamico che ella vide nel fenomeno dell’“aus sich herausgehen” (“procedere a partire da sé stesso”) e che quindi contraddice in modo lampante la staticità dell’essere [Edith Stein, Der Aufbau … cit., VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches… cit., VII, 2 p. 307-310, VII, 6 p. 352-356, VII, 9, 6 p. 377-385]. Ma diremmo che questo non modificò di molto la concezione basilare e media dell’essere che ella aveva concepito. Infatti il suo intendimento dell’essere come sostanziale “Fondamento”, e perfino forte “braccio” sostenente ogni cosa [Edith Stein, Endliches… cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113], si rifece senz’altro costantemente all’essere come qualcosa che «è-sempre-già-stato», che non sprofonda da alcun lato nell’Abisso e che infine è senz’altro statico. Oltre a ciò ella non giunse mai a identificare l’essere stesso con la stessa creatività umana (e quindi con la sua libertà), dato che indagò queste ultime sì entro il concetto di creazione a somiglianza ma comunque come “donazione” di essere fatta dal Dio all’uomo, senza che l’uomo stesso abbia posseduto questo carattere fin dall’inizio. Ella insomma intese la creatività umana in maniera ben più moderata di Bedjaev, e quindi senza contraddire in nulla né la classica ontologia dogmatica cristiana né la dottrina teologica esposta nel Genesi. In altre parole Stein non mise mai in dubbio che tale dottrina sia stata anche un’antropogonia oltre che una mera cosmogonia.

III- L’essere e l’uomo. Il nuovo spiritualismo e personalismo, la nuova esperienza religiosa e la morale.
Dell’identità tra essere e uomo abbiamo già trattato, ma conviene richiamare il testo di SC nel quale di essa si tratta molto più direttamente [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 179-182].
Qui Berdjaev dice in particolare che alla nuova concezione dell’essere bisogna far seguire una nuova concezione dell’uomo, e quindi un’antropologia che fino a quel momento di fatto non era mai esistita se non in forme non solo molto riduttive ma anche menzognere (come entro la classica antropologia cristiana o anche nel contesto dell’Umanesimo). L’uomo insomma deve venire inteso come essenzialmente creativo e quindi anche letteralmente creante. Proprio per questo esso va considerato radicalmente originario, e quindi equivalente all’essere stesso nella sua pienezza.
Per questo però è (ancora una volta) secondo lui necessario un nuovo intendimento della conoscenza che allo stesso modo trascenda e superi tutti quelli antecedenti. La conoscenza deve infatti venire intesa come assolutamente attiva e pertanto assolutamente non passiva. Essa pertanto deve divergere da qualunque forma di reazione alla realtà, e dunque anche di adequazione conoscitiva alla datità ed alla necessità che sono proprie del mondo naturale. In altre parole una siffatta conoscenza deve rifiutarsi di accettare il mondo così com’è, puntando invece incessantemente ad una sua trasfigurazione (che poi corrisponde alla messa a nudo di aspetti sconosciuti dell’essere, della quale prima abbiamo parlato). La direzione in cui quest’ultima deve muoversi è per la precisione quella della spiritualizzazione delle cose. E quindi la nuova conoscenza di cui parla deve equivalere ad un vero e proprio spiritualismo, ossia ad una concezione dell’essere che intende le cose come essenzialmente spirituali. Sono spirituali infatti le cose nella loro invisibilità, e restano tali anche quando alla fine vengono alla luce.
Ovviamente però non si può trattare assolutamente del vecchio spiritualismo. E con quest’ultimo egli intende esplicitamente quella concezione cristiana dell’uomo quale persona in possesso del libero arbitrio e capace di agire in maniera eticamente responsabile. Questa concezione infatti aveva per lui sempre mortificato la creatività libera dell’uomo in quanto intanto sottometteva l’essere ed agire umani alla dimensione del peccato. Pertanto era una concezione passiva mascherata sotto le apparenze di una concezione attiva. Essa insomma non concepiva affatto per davvero l’uomo come libero. È evidente che in tal modo ci ritroviamo al cospetto di quel classico personalismo cristiano che a sua volta era stato costruito sempre su un’antropologia tarata sulla Rivelazione cristiana, e incentrata a sua volta sulla Redenzione in quanto prodotto del peccato e della Caduta. Ma Berdjaev denuncia più volte (in tutti i suoi libri) questa dottrina come mero adattamento al mondo della necessità, ossia al mondo decaduto. E la ritiene quindi del tutto inadatta a descrivere e promuovere la creatività libera dell’uomo. In essa infatti l’accento posto sull’azione responsabile è mera reazione alla dimensione del peccato, e quindi è condizionata invece che condizionante. Non a caso, egli dice, essa ha sempre conosciuto solo il concetto di “potenza” (in sé involontaria e determinata) ma mai per davvero quello di creatività (in sé volontaria e indeterminata).
Del resto egli sottolinea che nel Vangelo non vi è di fatto alcuna traccia del concetto di creatività [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Prefazione, p. XL-LV].
Va infine sottolineato che Berdjaev vede lo spazio per questa nuova conoscenza in una “filosofia creativa” che è tale in quanto è incentrata nella dinamicità dell’essere sulla base del relativo concetto che prima abbiamo esposto.
Orbene non c’è dubbio che il personalismo e l’antropologia steiniani (che non a caso pongono fortemente l’accento proprio sulla libera responsabilità dell’azione dell’uomo in quanto persona) ricadano senz’altro entro i limiti di una dottrina che Berdjaev ritiene insufficiente, sterile ed anche poco autentica. E questo ancora una volta fu il frutto dell’atto dell’accettazione incondizionata della dottrina dogmatica cristiana da parte della pensatrice. Dobbiamo quindi pensare che il suo personalismo, a sua volta senz’altro unito ad un forte spiritualismo, rientri esso stesso nei limiti di una visione che il nostro pensatore ritiene superata e del tutto incapace di portare l’uomo fuori dalla tremenda crisi nella quale è caduto a causa proprio del prevalere di dottrine anti-cristiane (come il materialismo, il positivismo, l’Umanesimo, l’evoluzionismo etc.).
Anche rispetto a personalismo e spiritualismo, le cose sono troppo complesse per risolvere entro questi termini la relazione tra il pensiero berdjaeviano e quello steiniano. E quindi anche questo richiederà un’indagine a parte.
Comunque c’è qui da prendere atto del fatto che Stein non riuscì a concepire la creatività come carattere essenziale dell’uomo; sebbene, proprio come Berdjaev, abbia posto fortemente in luce la sua umano-divinità in quanto persona. Questo significa quindi che la sua filosofia (personalista-spiritualista) può e deve ricevere tutto l’apprezzamento che merita, ma non può propriamente venire considerata come creativa.
In ogni caso in SC Berdjaev definisce ulteriormente questa sua visione sul piano sia religioso che estetico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., X p. 297-305]. Egli auspica infatti per il Cristianesimo una “rivoluzione della creatività” che segua all’antecedente e tradizionale “rivoluzione della redenzione”, e quindi lasci apparire un “nuovo essere” specie in forma di “profezia”. Secondo lui infatti l’esperienza religiosa deve cessare di basarsi sul sacerdozio per iniziare a basarsi invece sulla profezia. E qui ritroviamo quindi sul piano religioso quell’incremento di essere che prima avevamo osservato sul piano conoscitivo. Sulle prime non è per la verità ben chiaro cosa Berdjaev intenda esattamente sul piano della prassi religiosa, però più avanti forse ciò diverrà meglio comprensibile. Sul piano artistico però le cose risultano da subito ben più chiare, dato che egli auspica un’arte che si muova verso il “possesso reale della bellezza nel suo essere” (superando così anche l’estremo confine del simbolismo). Ed appare quindi evidente che questa prassi (consistente in una vera e propria celebrazione dell’essere) può e deve venire considerata coincidente una nuova filosofia dell’essere, e cioè quella che coglie l’essere come abissale mistero a sua volta intimamente unito alla creatività. Anche questo ha però una valenza religiosa, perché secondo lui si tratta in realtà di un vero e proprio nuovo essere (“nuovo cosmo”) e quindi del regno dei Cieli. In altre parole la ricerca dell’essere deve venire per lui spostata dal piano (metaforico) dell’arte a quello fattuale della creazione effettiva di essere, ossia al campo dell’azione.
E ciò sposta decisamente l’attenzione dall’arte e dalla religione ad una vera e propria teurgia. Laddove la creazione di nuovo essere deve venire intesa come collaborazione alla creazione ed alla sua continuazione.
Ecco dunque cosa forse egli intendeva per creazione di nuovo essere sul piano religioso – deve trattarsi della collaborazione alla creazione da parte di un uomo riconosciuto ormai come creativo anche dalla religione stessa. Ma qui emerge ancora un nuovo significato della possibile nuova filosofia dell’essere Perché per Berdjaev nella teurgia si rivela “il significato religioso dell’essere”. Precisamente si tratta di “una natura nuova e trasfigurata”, e quindi nuovamente del Regno dei Cieli.
Infine in SC Berdjaev si produce in una nuova definizione dell’essere in relazione alla sua precisazione di ciò che deve venire inteso come personalismo, a sua volta poi in intima relazione con la morale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-329]. Qui in particolare egli auspica una vera e propria nuova rivelazione della persona, e precisamente nei termini di una fortemente rinnovata visione cristiana. Egli intende in SC questo rinnovamento soprattutto come superamento dell’eccessiva morale dell’umiltà, e quindi anche come superamento di un ascetismo che secondo lui è stato sempre fin troppo ossessionato dalla sola salvezza (costituendo in tal modo un’attitudine sostanzialmente egoistica e individualistica)
Il suo discorso parte comunque dalla costatazione che la moderna crisi della morale va considerata in intima relazione proprio con l’insufficienza del concetto di essere, che a sua volta va attribuito tanto all’antica e tradizionale ontologia quanto anche alla progressiva azione corrosiva della gnoseologia critica. Ciò che ne è risultato non è però solo astrattamente conoscitivo bensì anche molto pratico, e cioè è la cronica inesistenza di fatto di una vera “comunione” tra gli uomini. E quest’ultima è stata dovuta poi allo spostarsi sul piano sociale e morale di quella cogente aspirazione all’universalità che intanto aveva sempre dominato nella conoscenza. Ma sta di fatto che il sussistere della comunione non è pensabile senza la creatività (specie morale), e cioè senza l’impegno verso un rinnovamento continuo delle forme, che a sua volta impone tutti i rischi dell’assenza di qualunque stabilità e sicurezza. E qui egli avvalora di nuovo fortemente la critica alla morale di Nietzsche, auspicando che poco a poco l’imperativo morale scaturisca da dentro invece di provenire da fuori (con le cogenze della legge). Ma ciò implica anche la pienezza del valore attribuito all’individualità e quindi alla qualità in luogo della quantità. Il che trova poi il suo riscontro sul piano cristiano con l’affermazione della piena ed incondizionata umano-divinità della persona. Tuttavia per lui quest’ultima resterà sempre inibita e paralizzata finché dominerà l’idea di peccato, a sua volta in intima relazione con l’ossessione per la salvezza e con un sostanziale giuridismo della religione. Ebbene questo sommo valore attribuito alla persona ed alla sua qualitatività corrisponde per Berdjaev ad un intendimento aristocratico e gerarchico del Cristianesimo. E con ciò si tratta in definitiva del nucleo del personalismo, ossia dell’affermazione del “valore assoluto di ogni essere umano”.
Ecco dunque le vastissime e profonde conseguenze che può avere una revisione del concetto di essere in senso creativo anche sul piano religioso.
Infine, sempre in SC, tutto ciò trova la sua espressione nell’indicazione di una nuova prassi rivoluzionaria [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Berdjaev sostiene infatti che essa non deve essere esteriore, e quindi statica in quanto in tal modo rivolta al Passato. Essa è infatti così unicamente una reazione in negativo, e quindi è in sostanza reazionaria. E come tale resta fatalmente sotto il segno del peccato, della Legge ed anche della stessa Redenzione, che secondo lui dev’essere anch’essa superata sul piano della religione cristiana. La rivoluzione deve invece (in quanto creativa) tendere ad una rinascita e quindi alla dimensione cosmica in quanto armonia (quindi ancora una volta alla “comunione”). Deve insomma essere “rivoluzione dello spirito”. E pertanto essa deve cambiare per davvero lo stato delle cose, cosa che può avvenire solo se essa avviene nel profondo (interiore). Se essa invece è superficiale (esteriore), lo stato di cose resterà necessariamente e fatalmente così com’è. Nel senso che non saranno state modificate le premesse profonde dello stato di cose. La rivoluzione deve allora rinnovare le stesse fonti e condizioni dell’essere. Come tale essa deve essere una rivoluzione “mistica”. Deve insomma essere trasfigurazione dell’essere – specie in quanto “nuovo cosmo” incentrato nella “comunione”. Di nuovo siamo in tal modo al cospetto della reale possibilità di un avvento del Regno dei Cieli.
E qui devo ricordare solo per inciso che questa fu anche la posizione espressa da Romano Guardini e peraltro nella stessa epoca in cui operò Berdjaev [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Guardini ritenne infatti del tutto possibile un avvento storico del Regno dei cieli sulla base di un’azione umana altrettanto storica. Anche questo richiederà però un’indagine specifica. Ma bisogna qui ricordare anche che il filosofo italo-tedesco va considerato uno dei più grandi rappresentanti del personalismo.
Queste extrapolazioni dal concetto di essere alla morale si prestano bene a venire integrate da alcune considerazioni tratte anche da CD, opera nella quale appare evidente che molte delle prese di posizione etico-filosofiche ed etico-religiose di Berdajev derivarono molto direttamente dal pensiero che egli attribuiva a Dostoevskij. Innanzitutto si tratta dell’intima relazione che per il nostro pensatore esiste tra essere e libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., Prefazione, 2 p. VIII-XIV]. Infatti La libertà è per Dostoevskij un’entità radicale proprio perché essa ha a che fare con l’essere e non invece con le passioni della psicologia (e quindi con gli elementi meramente funzionali della mente). Essa può dunque costituire a pieno diritto il nucleo di una filosofia dell’essere. A tale proposito va però precisato che la morale di Dostoevskij è soggettiva e non oggettiva. Essa dipende infatti dall’azione dell’uomo come soggetto di libertà, e non invece da astratti principi universalmente oggettivi. E quindi, se la libertà ha un’intima relazione con l’essere, ciò è da intendere come effetto della scelta dell’uomo, a sua volta libero per essenza e quindi originariamente.
Laddove l’uomo libero lascia insorgere l’essere oppure lo annichila a seconda che scelga rispettivamente il bene o il male. Per Dostoevskij il male corrisponde infatti integralmente al non-essere, per cui la scelta di esso configura necessariamente un nichilismo (a sua volta basato sullo scadere della libertà in arbitrio). Berdajev precisa però che tutto questo ha risvolti etico-religiosi davvero estremi, dato che per Dostoevskij il bene senza libertà equivale infine al male stesso. E quindi l’intima relazione esistente tra libertà ed essere comporta il grande scenario religioso di un Cristianesimo (profondamente riveduto e corretto dal pensatore pietrogurghese) nel quale la libertà venga considerato qualcosa di assoluto ed irrinunciabile. Infatti dal sussistere integrale di esso (o meno) dipende il predominio nel mondo dell’essere o del non-essere.
Ecco che una filosofia dell’essere come quella possibile sulla base di Berdajev deve tenere conto di questo come di un elemento assolutamente originario. Per il pensatore infatti (ed ancor più sulla base di Dostoevskij) la libertà è qualcosa di talmente originario da essere ontologicamente abissale, e quindi assolutamente inafferrabile e misterioso. Qualcosa che insomma scaturisce da fonti profondissime.
Orbene, questo non sembra essere affatto vero entro la visione di Stein, secondo la quale semplicemente la libertà è il frutto di quella costituzione animico-spirituale dell’uomo che a sua volta trova una spiegazione del tutto razionale sia entro l’antropologia husserliana sia entro quella cristiana (e quindi in qualche modo è secondaria agli aspetti funzionali della mente, sebbene intesa come anima e precisamente come anima spirituale). Ecco che quindi anche da questo punto di vista la filosofia dell’essere steiniana è molto meno profonda e radicale di quella di Bedjaev.

IV- Filosofia, Io ed essere.
Nel tentare di disegnare in Berdajev una filosofia dell’essere ci si imbatte anche nella relazione di intimità che esiste tra filosofia ed essere (oltre che tra uomo ed essere, tra creatività ed essere e tra libertà ed essere).
Ritroviamo questa relazione in DIWO (che, come abbiamo detto, è stato oggetto del nostro primo articolo ponente a confronto la filosofia dell’essere di Stein e Berdajev), nel quali tutti gli aspetti trattati finora riappaiono nel contesto di un tema che è stato da secoli al centro del pensiero moderno. Ed ecco che la relazione tra filosofia ed essere si presenta laddove il pensatore afferma che (come fa anche in SC) la filosofia è intuizione e precisamente intuizione originaria e primaria che non è deducibile da alcunché se non da sé stessi [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ed è evidente che questa non è affatto la filosofia come viene intesa ormai già da molti secoli. Per Berdjaev è dunque solo mediante una siffatta filosofia che si coglie l’esistenza nella sua ampiezza, pienezza e tragicità, e quindi come destino umano. Ne consegue che il proprio vissuto emotivo è di importanza cruciale. Ed ecco allora che il momento fondamentale del filosofare risulta l’”essere filosofo” più che non la filosofia stessa nella sua oggettività. Ed ecco anche che la filosofia non può costituire appena un indifferente atto tecnico, ma può costituire invece essa stessa solo un essere. Il che implica poi che la filosofia dell’essere non è per nulla l’atto conoscitivo (distaccato per definizione) per mezzo del quale il soggetto filosofante indaga l’essere (in quanto esteriore alla coscienza), ma invece non è altro che il cogliere immediato dell’essere (rivelazione dell’essere nella sua incondizionata pienezza) non appena ci si dispone a filosofare nel mentre intanto si esiste.
Ma tutto ciò sta in relazione con ciò che abbiamo già posto in evidenza, e cioè con l’importanza dell’uomo in quanto persona colto nel pieno della sua creatività. Berdjaev rivendica infatti che colui che filosofa è in primo luogo un uomo-persona, e non invece un impersonale soggetto sottomesso a sua volta alle intimazioni della coscienza trascendentale – come esso era apparso in Kant e nell’idealismo tedesco [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 54-59] E difatti in tal modo l’oggetto resta irrimediabilmente separato dal soggetto in modo tale da non poter in alcun modo costituire una rivelazione di un vero qualcosa (ossia dell’essere).
Il problema è stato quindi per lui sempre l’avvaloramento della conoscenza dell’essere e non dell’uomo. Perché invece, una volta rivalutato l’uomo, ci si accorge che (come abbiamo visto) esso è del tutto identico all’essere – e lo è in forza dell’onticità del suo Io o mondo interiore, ossia in forza del “contenuto ontico” (“seinmäßiges Inhalt”) del proprio Io. Posto questo, allora non sarà più la conoscenza a precedere l’essere, ma sarà invece soltanto l’essere (in quanto uomo) a precedere la conoscenza. Per tali motivi, dunque, l’uomo (l’Io) non potrà mai venire contrapposto all’essere. Ecco quindi una rivalutazione filosofica dell’uomo in quanto né parte della Natura né spirito obiettivato. Come tale esso può infatti essere solo gettatezza (anche se nel contesto di una filosofia come gnoseologia). Ma non può esserlo in alcun modo una volta riconosciuto nella sua piena e incondizionata onticità. Tutto questo significa comunque molto in sintesi che l’Io filosofante (in quanto uomo-persona) va considerato primariamente un esistente.
Tuttavia il considerarlo un esistente non implica affatto considerarlo un ente immanente in quanto gettato nel mondo esistente; ma semmai il Signore stesso perfino dell’esistenza.
Ad evitare qui un mero soggettivismo dobbiamo però fare al proposito delle importanti precisazioni [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-71]. Sappiamo già che Berdjaev considera l’essere come qualcosa che eccede da ogni parte il nostro mondo, soggettivo o oggettivo che sia. Egli parte quindi dal fatto che l’essere non sta né nel soggetto né nell’oggetto. E quindi è del tutto vano tentare di costruire una filosofia dell’essere superando l’idealismo (soggettivismo) in direzione di un realismo (oggettivismo). Va intanto però ammesso che, allorquando si assume la posizione idealistica, compare al massimo una conoscenza dell’essere, ma invece mai l’essere stesso; dato che non si fa altro che produrre un’oggettivazione dell’essere. Questi atti conoscitivi non ci restituiscono dunque mai un’autentica filosofia dell’essere. Berdajev accusa molto direttamente Kant di aver fatto in modo che si scambiasse il pensiero per essere (ma riducendo il secondo al primo), con la conseguenza di un’oggettivazione del pensiero che poi viene scambiato per piena realtà, ossia il famoso «mondo fuori di noi». Ma in definitiva questa era stata ed è restata anche la stessa posizione di quel realismo intellettualistico che aveva trovato la sua espressione nella Scolastica. Anche in questo caso la realtà non era altro che pensiero oggettivato.
E quindi anche il realismo non è altro che conoscenza dell’essere. Ne consegue pertanto che idealismo e realismo convergono perfettamente nel fallito tentativo di costruire una filosofia dell’essere. Ed è stato esattamente così che per Berdjaev è insorta quella “tragedia della conoscenza” la quale consiste di fatto nella conoscenza dell’essere in quanto mera oggettivazione del pensiero.
Da questo egli giunge allora alla conclusione che un’autentica filosofia dell’essere sussiste solo in una vera e proprio “filosofia dell’esistenza” (“Existenz-Philosophie” o ”existenzielle Philosophie”). Solo in essa la tragedia della conoscenza viene infatti superata, e ciò accade perché in essa l’essere dilaga nel trascendere ed inglobare qualunque elemento che fino a quel momento aveva preteso di governarlo e dare ad esso un volto. E nel suo contesto quindi ogni elemento possibile diviene fatalmente un «esistente».
Ma per lui a questa costatazione manca ancora un fondamentale elemento, e cioè un carattere tipico ed estremo dell’essere. Infatti, in base a quanto abbiamo appena detto, l’essere compare ancora in maniera fin troppo chiara ed esplicita (categorizzato), nonostante sia stata ormai tematizzata l’immersione totale e senza scampo dell’Io (o soggetto) nell’esistenza (come per lui è avvenuto al massimo in Kirkegaard). Manca cioè ancora la costatazione che, con tale immersione, l’Io o soggetto finisce per costituire esso stesso l’essere e precisamente come “mistero”, ossia come qualcosa di assolutamente non categorizzabile e quindi inafferrabile. In altre parole, anche quando abbiamo la netta sensazione di aver davanti a noi chiaramente l’essere e addirittura ci sentiamo totalmente immersi in essi (fino al punto di non poter in alcun modo trascenderlo con la nostra conoscenza), noi di esso non possiamo dire assolutamente nulla. Sta di fatto però che solo in questo modo l’essere si configura come un vero “qualcosa” e non invece appena come il discorso “sopra qualcosa”. Ed è esattamente questo ciò che fa della filosofia dell’esistenza una davvero autentica e piena filosofia dell’essere.
Orbene ci ritroviamo qui laddove ci eravamo ritrovati anche già prima, e cioè nel momento in cui noi osserviamo Stein obiettivare chiaramente l’essere prima nell’obiettivarlo come pensiero (seguendo la Fenomenologia husserliana) e poi, come Aristotele e Tommaso, nel concepirne le categorie ed anche nel definirlo come “essere come tale”. Ed è allora evidente che, almeno dal punto di vista di Berdajev, ella non ha affatto costruito una piena filosofia dell’essere. In quest’ultima infatti (nella sua formulazione steiniana) l’essere si presenta in maniera fortemente condizionata, sia che venga concepito in maniera idealistica sia che venga concepito in maniera realistica.
Detto questo, Berdjaev pone a confronto le grandi filosofie dell’esistenza, e cioè quelle di Heidegger, di Jaspers e di Kirkegaard, e deplora peraltro il pessimismo tragico delle prime due. In ogni caso queste ultime sembrano a lui del tutto insufficienti − in quanto quella di Heidegger vede l’esistente unicamente con le caratteristiche molto specifiche del “Dasein”, e quella di Jaspers lo vede unicamente come soggetto sfuggito all’universale nel mentre è dedito all’atto di trascendere le apparenze sensibili verso l’oltre.
Ma il punto sta per lui altrove ed esso viene colto solo da Kirkegaard. Il quale definì davvero in modo pieno l’”esistere” come oggetto primario dell’”esistente”. Ed in tal modo l’esistente viene collocato nel tempo più che non nello spazio. Ma è solo in tal modo che l’obiettivazione dell’essere (statica per definizione e quindi non temporale) viene spazzata via definitivamente; in maniera che l’essere comincia ad emergere davvero nella sua pienezza. In particolare, con l’obiettivazione scompare tutto che è esteriore in quanto oggettuale (per definizione statico), mentre resta invece tutto ciò che è interiore in quanto vero immanente. Ed ecco allora che il soggetto conoscente, una volta posto solo come esistente nel tempo (ossia colto come l’“esistere” stesso), finisce per scomparire dal novero delle oggettualità. È in tal modo che Berdajev sostiene insomma nuovamente che uomo ed essere sono la stessa cosa (il che rende del tutto superfluo postulare un Io o soggetto posto di fronte all’essere).
Tuttavia la filosofia dell’essere emerge qui anche per un altro motivo, sempre sostenuto da Kirkegaard. Infatti, dato che il filosofo è in primo luogo un esistente, anche la filosofia lo sarà – ossia la filosofia in primo luogo esiste. E solo in tal modo essa non sarà più una filosofia «sull’esistenza», ma sarà invece una filosofia «dell’esistenza». Ecco dunque la vera filosofia dell’essere.

Conclusioni.
Ebbene, rispetto a quanto era emerso nel nostro primo articolo, ci sembra che qui sia divenuto ben più chiaro come si possa e debba intendere la filosofia dell’essere in Berdjaev, e quindi quanto essa sia diversa da quella di Stein. Nel precedente articolo (e sulla base di DIWO) l’aspetto che stava in primo piano era soprattutto quello dell’Io in quanto esistente (nel contesto dell’identificazione dell’essere con la dimensione interiore); che a sua volta aveva indotto Berdjaev a considerare la filosofia dell’esistenza come la più autentica filosofia dell’essere. E ciò convergeva del resto con alcuni aspetti di quell’Essente che Stein aveva posto al centro della sua filosofia metafisica.
Tuttavia la lettura di SC e di CD ci ha mostrato che il concetto di essere di Berdjaev è ben più complesso e profondo di questo, e quindi va ben oltre la definizione di ciò che è davvero l’«Io» e del rapporto di quest’ultimo con l’essere in generale e con l’essere oggettuale (il mondo degli oggetti che è esteriore alla coscienza). In particolare abbiamo visto che in SC il pensatore russo definisce in maniera davvero ultima l’essere ed inoltre lo equipara all’uomo, alla creatività ed alla libertà. E ciò dà vita non solo ad una visione filosofica che per molti aspetti è davvero oceanica (tanto che contiene spunti per molte altre ricerche), ma inoltre configura una filosofia dell’essere dai tratti estremamente ampi, profondi, complessi e soprattutto misteriosi. In altre parole non si tratta affatto solo dell’identità riconosciuta tra filosofia dell’essere e filosofia dell’esistenza. Si tratta invece di una filosofia dell’essere entro la quale il concetto di essere si presenta come radicalmente abissale ed originario, così come lo sono anche i concetti di uomo, di creatività e di libertà. Il concetto di essere insomma finisce per essere esattamente equivalente alla stessa fenomenologia creativa (e creazionale) colta in tutta la sua così prodigiosa ed ineffabile produttività. E ciò avviene inoltre nella quasi perfetta equivalenza riconosciuta tra la creatività divina e quella di un uomo il quale (per amoroso dono divino) è in primo luogo libero.
Ebbene, questo così ricco, complesso e significativo assetto della filosofia dell’essere berdjaeviana non poteva non indurci a prendere di nuovo in esame la sua possibile relazione con quella steiniana. Ed ancora una volta (così come nel primo articolo) nell’indagine è emerso che quest’ultima è di ampiezza, profondità e radicalità molto inferiori alla prima. In particolare in essa il concetto di essere non è affatto così estremo e profondo come quello di Berdjaev, e quindi si presenta molto meno come un autentico ineffabile mistero. Mistero che però trova di fatto la sua piena manifestazione nell’uomo. Come abbiamo visto nel primo articolo, però, una volta che noi concentriamo la nostra attenzione sul concetto steiniano di Essente, l’immensa di distanza che separa le due filosofie dell’essere risulta almeno un poco accorciata (per questo però invitiamo il lettore a consultare quell’articolo). Ed inoltre anche in questa nuova indagine abbiamo dovuto constatare che, qualora noi concentriamo la nostra attenzione sull’ultimissima fase mistico-monastica della vita ed opera steiniane, allora l’insufficienza della sua filosofia dell’essere cessa di costituire un criterio di giudizio del suo pensiero − giudizio tendenzialmente negativo, ma solo molto relativamente e metaforicamente.
Detto questo, allora, possiamo concluderne che senz’altro l’analisi del pensiero berdjaeviano ci permette di constatare che la via steiniana alla filosofia dell’essere non fu affatto (nel tempo in cui operarono i due pensatori) né l’unica praticabile né quella più piena, produttiva ed avvincente. Anzi la filosofia dell’essere di Berdjaev sembra aver colto molto di più l’obiettivo di indagare l’essere in maniera da coglierlo nella sua pienezza. Quello che è comunque certo è che la filosofia dell’essere steiniana non ebbe alcuna aspirazione ad essere nuova, ma semmai volle espressamente restare entro limiti molto tradizionali.
Ed allora, a fronte di tutto questo, siamo costretti ad ammettere che l’essere non sembra avere affatto quei caratteri tutto sommato razionali e tangibili che esso ha nell’onto-metafisica steiniana.
In particolare esso non appare costituire affatto quel saldo, stabile ed eterno Fondamento che tutto regge e sostiene, e che salva gli esistenti tanto dalla distruzione comportata dal tempo quanto dallo sprofondamento nel Nulla; non appare costituire affatto un’estensione, tanto che (per quanto invisibile e infinita) finisce per coincidere con l’intero mondo creato, o anche universo, e cioè l’elemento in cui ci sentiamo quasi sensibilmente immersi nel nostro esistere; non appare costituire affatto qualcosa che per definizione resta sempre uguale a sé stesso, giustificando e consolidando in tal modo quell’ente che invece continuamente muta, e così trascendendolo nel rappresentare ciò a cui l’ente deve obbligatoriamente rinviare entro la metafisica (ossia il concetto metafisico di essere in senso aristotelico in quanto “essere come tale”). Insomma, a fronte di questa serie di davvero eclatanti negazioni, la stessa espressione «essere» appare in definitiva non solo insufficiente ed inautentica ma perfino falsificante; dato che essa si presenta fin troppo appena come l’opposto del «nulla», e così finisce per lasciar coincidere l’essere con il mero «è»; quindi in definitiva non appare costituire affatto ciò che per definizione continua ad esistere immancabilmente (per sempre) sullo sfondo di ciò che invece continuamente cessa di esistere. In altre parole l’Essere non appare affatto trascendere davvero il Nulla, ma semmai sembra dipendere logicamente da esso (come sua mera negazione).
Dopo aver preso atto delle riflessioni di Berdjaev, infatti, noi ci ritroviamo di fronte ad un qualcosa che non costituisce affatto una salda, stabile e lineare estensione quasi delimitata (sia pure in maniera indefinibile) e provvista dei caratteri di ciò che brilla al sole come un «definito» che è ormai per sempre emerso ed è così sfuggito per sempre alla notte dell’indefinizione e pertanto all’abissale profondità. Ci troviamo invece di fronte all’esatto contrario di tutto ciò, e cioè di fronte a qualcosa che è quello che è unicamente perché sgorga proprio così com’è da un profondo ed abisso oscuro; emergendo così alla luce come ciò che, nel suo persistere infinitamente (vincendo così effettivamente il divenire in quanto morte), non fa altro che divenire incessantemente in quanto perennemente rinnovato «nuovo». E proprio con queste caratteristiche finisce, secondo Berdjaev, per coincidere con la creatività per eccellenza (e quindi anche con la creazione), ed inoltre con l’uomo stesso in quanto ineluttabilmente creativo. È evidente che in tal modo l’essere è qualcosa di abissale, profondo, inafferrabile e misterioso perfino quando viene alla luce. E tale resta anche nel corso di tutto il suo infinito persistere.
Ebbene cos’è questo in termini filosofico-metafisici ed anche filosofico-religiosi? Abbiamo visto già che non è assolutamente l’essere così come concepito da Aristotele (e probabilmente, in qualche modo, anche da Platone), cioè quella “ousía” che in fondo può venire intesa tanto come sostanza quanto come essenza (senza che poi cambi davvero molto nella sua natura). Ma è forse invece l’infinito divenire di Eraclito? O è forse l’eterno «è» che per Parmenide si dissocia perennemente dal non-essere, facendo sì che quest’ultimo equivalga ad un «nulla» che a sua volta cessa immediatamente di avere qualunque senso?
No! Non sembra proprio che sia così.
Ed allora non ci resta che pensare che Berdjaev abbia goduto di una vera e propria rivelazione assolutamente originale e senz’altro visionaria dell’essere, che non trova pari nemmeno in quel grande rinnovatore dell’ontologia che al suo tempo era stato Heidegger. Tanto che, con la riflessione del pensatore russo, l’essere si presenta a noi in una natura assolutamente finora inaudita, e che quindi è immensamente sorprendente.
Ma quali possono essere le basi di tale rivelazione visionaria? Al di là del pensiero di Nietzsche, che viene da lui non a caso spesso menzionato, ed al di là anche del pensiero di Dostoevskij (al quale Berdjaev attribuisce l’intuizione per eccellenza di un essere spirituale profondo che è abissale, dinamico e magmatico per definizione), riteniamo che si tratta molto più dell’essere così come si presenta nella teosofia, e soprattutto in Böhme (anche lui spesso citato dal pensatore) ed inoltre nella Cabbala lurianica (invece da lui non citata). E come tale si tratta di un essere in sé totalmente ed irrimediabilmente misterioso, inafferrabile ed ineffabile, che (pur presentandosi come il perennemente «nuovo») resta in fondo ciò che è anche dopo essere venuto alla luce.
E così è qualcosa che non cessa né cesserà mai di sorprenderci. E perciò finisce senz’altro per esorbitare perfino dall’ambito di quella filosofia e di quella metafisica che inclinano di più a categorizzare (formalmente e rigidamente) ciò che osservano.
Ebbene, possiamo cogliere le grandi conseguenze di tale conclusione nel constatare che, una volta posto questo, possiamo allora solo dire che l’essere non può rapresentare altro che lo stesso Dio creatore una volta colto al di fuori degli infiniti schemi che le più formali filosofia, teologia ed onto-metafisica hanno fatto calare su di Lui per comprenderlo. Ma a questo punto dobbiamo a questo punto ricordare al lettore che lo scopo della ricerca ontologica alla quale Stein si era sentita chiamata molto prepotentemente era stato proprio quello di definire il Dio-Essere, ossia «Dio-in-quanto-essere». Ora è certo (in base a tutto ciò che abbiamo visto in questo articolo) che la pensatrice – abbagliata come fu da Tommaso ed Aristotele e continuamente intralciata come fu anche dai residui di idealismo trascendentale fenomenologico husserliano che erano rimasti nella sua mente – non è riuscita a dare al Dio-Essere il volto che invece Gli è stato dato da Berdjaev. E tuttavia, come abbiamo fatto notare, vi sono nel suo pensiero indizi del fatto che ella deve averlo comunque intuito – come nel concetto di “Urgrund” e nella riflessione sulla Trinità quale incessante flusso di essere impregnato d’amore.
Ed allora non ci resta che spostare totalmente la nostra attenzione sulla valenza integralmente religiosa di questo Dio-Essere nel contesto di quell’esperienza religiosa alla quale Berdjaev stesso perviene continuamente nel corso delle sue riflessioni come loro esito finale ed anche suggello. E tutto questo significa allora che dovremo dedicare proprio a questo tema la nostra prossima indagine su quel materiale di pensiero berdjaeviano che appare essere quasi inesauribile. Infatti l’esperienza religiosa promette di costituire esattamente quell’ambito entro il quale il Dio-Essere si offre a noi con caratteri più prossimi a quelli davvero inusuali e stupefacenti che Berdjaev attribuisce all’essere.
Ma tutto ciò significa forse anche che, nel leggere Berdjaev e nel connetterlo con una grande pensatrice dell’essere come Stein, non si tratta tanto di verificare se la filosofia dell’essere di quest’ultima sia stata o meno insufficiente. Si tratta invece probabilmente molto più di contemplare lo straordinario fenomeno di una stagione della filosofia (corrispondente grosso modo al XX secolo) nel corso della quale, grazie all’apporto di diversi fertilissimi pensatori (e sebbene nel contesto di una grande sterilità e sostanziale insignificanza dei più poderosi ed apprezzati pensatori e sistemi filosofici che intanto li circondarono), Dio stesso ha voluto far progredire in una maniera prima inimmaginabile la conoscenza che noi uomini possiamo avere di Lui.
Il che significa allora anche che in tale contesto è di fatto rinata una filosofia che vuole essere religiosa nel definire il proprio più primario oggetto al di fuori di qualunque riduzionismo razionalista e/o scientista.
Ed infatti proprio Berdjaev definisce spesso la filosofia come religiosa per sua profonda vocazione, aspirazione ed ispirazione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 11-28]. Ciò a causa del fatto che essa da sempre si è occupata di temi misterici (come la reincarnazione e la liberazione). Ma inoltre, anche al di fuori di questo ambito, per lui essa non è mai stata separata dalla religione; nemmeno nelle sue fasi più razionaliste e scettiche (come da Cartesio in poi). Il che per lui si spiega soprattutto a causa della relazione del filosofare umano con l’essere − sulla base del fatto che il filosofo non può mai scindersi dal proprio vivere immerso nell’esistenza che intanto però gli rivela l’essere come mai altrimenti sarebbe stato possibile. A ciò si aggiunge inoltre che secondo Berdjaev la filosofia è necessariamente religiosa perché (a differenza della scienza) tende incessantemente a liberare l’uomo dal mondo; e per questo essa è atto di intuizione (ed anche atto di auto-rivelazione) e non invece mera reazione alla datità del mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 48-68, I p. 75-82]. Il che poi indica che la filosofia è in primo luogo un “atto creativo”, anzi è l’atto creativo per eccellenza; e come tale è la forma stessa di auto-emancipazione dell’atto creativo dello spirito umano.
Il quale in tal modo (ossia nel filosofare) “reagisce al mondo con la conoscenza e con essa si oppone al mondo”. La conoscenza filosofica, infatti, crea “idee sostanziali” che si oppongono alla datità del mondo introducendo così in essa l’”essenza ultra-mondana”. Dunque la filosofia non riflette affatto il mondo così com’è, ma invece semmai lo purifica e trasfigura in forza della propria intuizione del Sovrannaturale.
Per Berdjaev, comunque, tutto ciò implica anche che, per poter essere pienamente religiosa, la filosofia non può in alcun modo sottomettersi a quei criteri che la rendono scientifica, e così la distaccano dal suo vero metodo e dal suo vero oggetto (laddove in particolare l’atto fondamentale dell’intuizione viene sottomesso al giudizio inevitabilmente distruttivo della gnoseologia critica). Ecco che allora, per poter divenire pienamente religiosa (e così costituire anche una davvero piena filosofia dell’essere, obbedendo in tal modo alla sua più profonda vocazione), l’attuale filosofia deve per sempre scrollarsi di dosso l’ossessione che più l’ha tenuta lontana da questo scopo (specie negli ultimi quattro secoli), ossia l’aspirazione ad essere “scientifica”. Per Berdjaev inoltre la religiosità della filosofia ha anche una valenza radicalmente cristiana, dato che la sua aspirazione religiosa trova piena realizzazione di quell’affermazione di Cristo (“Io sono la Verità”) che poi lo qualifica esattamente come l’Uomo assoluto colto nell’atto più pieno del filosofare (quello in cui la verità viene incarnata). Dovremo comunque esaminare tutto ciò più approfonditamente laddove indagheremo l’intendimento di esperienza religiosa che è deducibile dal pensiero di Berdjaev.
Tutto ciò significa allora che l’apparente dissociazione della filosofia dalla religione (iniziata in parte già in Platone stesso) non è da vedere in altro modo che come insufficienza della sua relazione con l’essere, e quindi deficitaria filosofia dell’essere. Ma abbiamo appena visto che l’essere altro non è se non Dio, e peraltro nella sua forma più estrema e sorprendente. Inoltre appare anche evidente che, per poter essere davvero religiosa, la filosofia deve ripensare totalmente sé stessa, giungendo così a darsi un’identità che finora non aveva forse mai aveva avuto il coraggio di avere. Tranne forse nella fase in cui, come dice Schelling, essa era stata sostanzialmente sacerdotale [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10].
E con questa ipotesi direi che questa indagine possa essere ritenuta aver raggiunto quello che era stato fin dall’inizio il suo scopo principale. In altre parole, insomma, dietro le due filosofie dell’essere a confronto (quella di Berdjaev e quella di Stein), noi dobbiamo soprattutto guardare al grandioso fenomeno del rinascere di una fervorosissima e profondissima filosofia religiosa in un mondo nel quale intanto la separazione tra uomo e Dio sembrava invece averla seppellita e liquidata per sempre.
Dunque, poste così le cose, la differenza tra la filosofia di Berdjaev e quella di Stein appare essere molto ma molto minore.

I- Introduzione
Gertrud von Le Fort ha vissuto una lunga vita a cavallo tra il XIX e il XX secolo – nata nel 1876, è deceduta addirittura solo nel 1971. Il che significa che ha vissuto tutti i momenti cruciali, in gran parte tragici, della storia tedesca e della storia europea. Ed evidentemente ha vissuto anche alcuni tra i più decisivi momenti di cambiamento che hanno caratterizzato la vita della Chiesa Cattolica. Anche per questo i suoi libri (ed ancor più il libro del qual esporrò il testo in questo scritto) meritano una grande attenzione non solo da parte dei credenti cristiano-cattolici ma anche da parte di chi non crede.
Dopo aver studiato teologia, storia e filosofia, Le Fort si diede sostanzialmente alla scrittura, pubblicando molti saggi, romanzi e poesie, tutti incentrati nella fede cristiano-cattolica. E così si guadagnò il titolo di migliore scrittrice cattolica tedesca. Intanto fu sempre molto vicina alla spiritualità carmelitana, tanto che il suo più famoso romanzo fu “Die letzte am Schafott” (“L’ultima al patibolo”), dedicato al triste episodio dell’esecuzione di alcune monache carmelitane durante la Rivoluzione Francese. Anche per questo (oltre che per il comune interesse per la questione femminile vista dal punto di vista cattolico) conobbe molto da vicino Edith Stein; anzi le lettere steiniane testimoniano il sussistere tra loro di un rapporto di amicizia molto profondo ed intenso [Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Erster Teil 1916-1933, ESGA 2, Herder, Freiburg Basel Wien 2010; Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015]. Tanto che Le Fort (lettera 368) si assunse addirittura il compito di visitare i parenti e la madre di Edith Stein a Breslau nel tentativo difficilissimo (ma poi fallito) di spiegare loro la scelta religiosa cattolica dell’amica.
Pare intanto che l’idea lefortiana della mistica fu molto prossima proprio a quella di Stein, ossia fu incentrata nel tema del dolore come strumento fondamentale per la crescita spirituale; specie a causa del fatto che esso spinge verso l’amore allontanando dall’orgoglio (ossia il dominio dell’Io) e quindi tempra l’anima specialmente nel senso del costruire la difficilissima virtù dell’umiltà. Il dolore dunque è mezzo per raggiungere quell’amorosa e sacrificale capacità di “dedizione” (“Hingabe”) che secondo lei caratterizza essenzialmente la natura femminile. Infatti il concetto di dedizione è centrale nell’opera da lei dedicata alla Donna, opera che ora andrò ad esporre e commentare [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Ma anche Edith Stein si dedicò ad una molto approfondita e prolungata riflessione sulla Donna, che trovò spazio in un ciclo di conferenze da lei tenuta presso circoli cattolici nel corso degli anni 30. Il relativo materiale divenne infine un suo libro postumo dal titolo “Die Frau”, “La donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Anzi pare che abbia conosciuto Le Fort proprio in occasione di una di queste conferenze tenuta a Monaco nei locali di una lega di donne cattoliche (lettera 191). Intanto però, nel corso della lunga amicizia che la legò alla Le Fort, Stein aveva fatto la scelta definitiva della vita monastica, e quindi la mistica era divenuta di fatto il suo pane quotidiano. Ebbene, anche la sua mistica fu concentrata sul tema del dolore come decisivo fattore di crescita spirituale ed inoltre sul tema dell’attitudine alla dedizione. Anzi la “dedizione” (“Hingabe”) restò costantemente al centro dei suoi pensieri per poi finire per diventare il viatico che l’accompagnò verso la morte nell’offerta volontaria di sé stessa per la purificazione del mondo dai suoi peccati.
Quindi non ci si potrebbe affatto meravigliare se la sua riflessione sulla Donna presentasse gli stessi tratti della mistica che ritroviamo in Le Fort. Il che è poi giustificato dal fatto che entrambe le pensatrici furono contemporaneamente molto attive nel campo del movimento femminile cattolico. Per verificare questo sarebbe però necessario uno studio comparativo sulle due opere al quale non so se riuscirò a dedicarmi. Intanto comunque le due raccolte di lettere di Edith Stein offrono materiale a sufficienza per venire a conoscenza degli intensissimi scambi di idee che vi furono tra le due donne. E quindi a questo materiale bisognerebbe fare riferimento per comprendere meglio se e quanto Edith Stein si sia riferita anche a “Die Ewige Frau” di Le Fort nel concepire le sue riflessioni sulla Donna. Tuttavia purtroppo non c’è spazio per questo nel contesto di uno scritto che vuole essere solo un’esposizione sintetica dell’opera di Le Fort. Ciononostante, però, colui che conosce anche solo superficialmente la vita ed opera di Edith Stein troverà nell’esposizione di Le Fort non pochi rinvii intuitivi all’esperienza (e relativa riflessione) che la pensatrice visse nell’abbracciare con straordinario entusiasmo la condizione di una donna che è in primo luogo vergine (in principio fallita nella sua attesa di una vita amorosa e familiare) ed insieme sposa di Cristo.
In ogni caso dalle lettere veniamo a sapere che Stein lesse “La donna Eterna” di Le Fort nel 1935 (lettera 365) e ne consigliò anche la lettura ad Hedwig Conrad-Martius (lettera 430). Anzi il libro le fu regalato per Natale dall’autrice stessa. Ed in questa occasione Stein lodò Le Fort per aver ricondotto la realtà della Donna alle sue radici, rendendo in tal modo “superfluo” tutto ciò che era stato scritto fino allora su questo tema. Non è chiaro però dal testo della lettera se ella si riferì con questo alla letteratura cattolica sulla donna, oppure a quella laica e femminista. Comunque Stein apprezzò molto anche gli “Inni alla Chiesa” di Le Fort ed inoltre anche “Die letzte am Schafott” (lettere 371 e 374).
Intanto devo aggiungere a tutto questo il fatto che io stesso negli ultimi tempi ho dedicato un’approfondita riflessione alla Donna paradigmatica (la Donna Eterna, o anche Donna Divina, cioè la Sophia o Sapienza divina, ossia il Femminile metafisicamente paradigmatico) [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Anche in questo libro la tesi centrale consisteva nel fatto che la figura di Maria Vergine va considerata il modello più alto e compiuto di Donna che possa esserci – specie sulla base dei libri di Luigi Grignion de Monfort dedicato appunto al culto mariano ed inoltre al simbolismo della Vergine Maria [Luigi Monfort M. Grignion, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, San Paolo, Milano 2015; San Luigi Maria Monfort, L’amore dell’eterna Sapienza, Edizioni Monfortane, Roma 2002]. E questa è del resto anche la tesi centrale del libro “Die Frau” di Edith Stein. Tuttavia il mio libro restava ancora fortemente influenzato da concetti ed elementi metafisico-religiosi relativi al Femminile che avevo poco a poco assorbito studiando il pensiero «tradizionale», ossia quella riflessione che si riferisce sostanzialmente a contenuti sviluppati nella metafisica filosofica pagana (specie platonica e neoplatonica), nella letteratura gnostica, in diversi testi propri della sapienza esoterico-ermetica ed infine nella sofiologia greco-ortodossa specialmente russa (rappresentata in gran parte da Solov’ëv). Va precisato però che quest’ultima forma di riflessione fu profondamente cristiana specie in quanto rientrava nella fede ortodossa, a sua volta basata sulla Patristica greca (Gregorio di Nissa etc.). L’elemento principale delle mie riflessioni (in gran parte critiche) consisté allora nell’osservazione che l’identificazione di Maria Vergine con la Sophia (o Donna Divina) corrisponde in effetti a null’altro al concetto metafisico-religioso pagano di “Anima mundi”. Laddove quest’ultima era stata sempre considerata come un elemento di raccordo piuttosto statico ed impersonale tra lo Spirito divino-celeste (in gran parte corrispondente all’Intelletto nella sua pienezza o Nous) e la dimensione mondano-corporale-materiale costituita a sua volta in particolare dall’uomo. Ma sta di fatto che nel Paganesimo non vi era alcuna traccia del concetto di Grazia né vi era molto interesse per la Persona.
E quindi la femminile Sapienza divina era un’entità del tutto impersonale e non faceva alcun passo verso l’uomo. Pertanto essa non esercitava di fatto alcuna “misericordia” a favore dell’uomo e del mondo. In altre parole essa non era affatto dinamica in senso discensivo, e quindi si limitava a costituire appena il gradino più basso di un’ascesa al Divino che intanto veniva affidata interamente all’azione umana. Non a caso (specie nel contesto della Gnosi pagana) si pensava che per mezzo di tale ascesa attiva l’uomo potesse deificare sé stesso in maniera assolutamente autonoma e quindi senza ricevere in questo alcun genere di aiuto dall’alto. È evidente che tale visione confligge radicalmente con quella che vede invece la persona di Maria Vergine come un elemento decisivo dell’ascesa umana alla divinità. Essa è infatti la mediatrice per eccellenza tra l’umano e il Divino. Ma in quel libro io mi ero limitato semplicemente a cercare le ragioni pro e contro queste due visioni, e quindi non avevo posto alcun forte accento sul concetto di Misericordia ad opera di Maria Vergine. Tuttavia il libro di Le Fort (addirittura ancor più di quello di Edith Stein) mi ha mostrato che, almeno per chi si sente cristiano, le ragioni stanno tutte dalla parte della visione che concepisce Maria Vergine come un elemento personale e dinamico che è decisivo nell’ascesa umana alla divinità, e ciò proprio in forza del suo movimento discensivo verso l’umano. È esattamente per questo che Le Fort (nel considerarla come il modello e paradigma della Donna) considera Maria Vergine primariamente come una sostanziale “Madre di Misericordia”. E indubbiamente proprio così ella venne considerata anche da Edith Stein. Nelle cui lettere peraltro si ritrovano molti riferimenti al culto di Maria Vergine come “Regina della Pace”, che veniva fervorosamente osservato nel Carmelo di Colonia, dove lei visse la maggior parte della sua vita monacale. Ebbene, a causa di questi miei trascorsi riflessivi sulla Donna, nel descrivere i contenuti del libro di Le Fort dovrò a volte fare riferimento anche ad essa. Ma lo farò sostanzialmente nel correggere le mie convinzioni di allora.
Vi è infine un altro decisivo punto di riferimento del quale dovrò tener conto, e cioè la riflessione sulla donna che poco a poco (negli ultimi due secoli e mezzo) si è andata sviluppando nel contesto del movimento femminista. Orbene non vi è dubbio che sia Le Fort che Stein si sentirono in qualche modo parte dei questo movimento. Anzi pare che, prima di convertirsi al Cattolicesimo, Stein abbia abbracciato le idee femministe in maniera piuttosto intensa. Ma oltre a ciò non vi è dubbio nemmeno circa il fatto che entrambe le pensatrici, a causa della fede cristiano-cattolica che professavano, finirono per non abbracciare mai interamente la visione femminista della donna. Visione che era incentrata su alcuni decisivi e molto specifici elementi −: 1) il reciso rifiuto ad ammettere l’esistere di qualunque «natura» femminile (tanto naturalistico-biologica quanto animico-spirituale), ossia di fatto qualunque forma di “anima femminile” ossia sostanza femminile assoluta; e questo perché la dimensione della donna era invece da concepire in termini unicamente relativi, ossia sociologici e psicologici, allo scopo di poter poi erigere su questo una critica di tipo politico alla sua tradizionale «condizione»; insomma ciò che doveva importare era appunto la «condizione» della donna (storica e relativa, ossia unicamente temporale) e non la sua «sostanza» (a-storica ed assoluta, ossia intemporale) ; 2) la costruzione su questa base di una definizione della donna che si incentrava nella sua differenziazione polemica dalla dimensione maschile; differenziazione che però a sua volta veniva giustificata unicamente in negativo, ossia sulla base della distorsione indotta dalle tradizionali strutture sociali (in gran parte patriarcali), e che infine sfociava nella teorizzazione di una vera e propria necessaria e rivoluzionaria lotta tra i sessi; in altre parole l’approccio femminista (almeno nella sua formulazione media) puntava allo scopo di un sovvertimento totale della relazione sociale e psicologica esistente tra donna ed uomo, e quindi ad una sua vera e propria sua inversione rivoluzionaria con la costruzione di un vero e proprio matriarcato (almeno di resistenza) entro la continua e tenace rivendicazione bellicistica di una finale parità totale tra uomo e donna; 3) l’accento posto sul concetto di «parità tra i sessi» (quale obiettivo finale della lotta politica tra i sessi stessi) veniva infine a chiudere il cerchio dell’intera visione nell’affermazione che non vi è né vi può essere tra uomini e donne alcuna sostanziale differenza se non quella banale, elementare ed etico-politicamente indifferente, che è solo di tipo anatomico-fisiologico; ma tale scontata e banale differenza non deve avere il diritto di costituire la base per alcun genere di differenziazione (sociale, psicologica, etica, politica ed economica) tra uomini e donne, e quindi non ha il diritto di fondare alcuna struttura della relazione tra uomo e donna ed anche della condizione femminile (ovviamente soprattutto sulla base della teorizzazione della naturale superiorità del maschio).
In sintesi dunque il Femminismo affermava che non sussiste di fatto alcuna «natura» femminile, e quindi non è un alcun modo possibile definirne i caratteri, specie in termini negativi, in relazione alla «natura» maschile.
Ora dunque, tanto il libro di Le Fort quanto quello di Stein, nel loro sforzo di definire la natura femminile, dovevano entrare necessariamente in conflitto in modo frontale con questa complessiva e media visione femminista. E per questo nel libro di Le Fort si ritrovano non solo spunti di riflessione anti-femministi ma anche molto esplicite affermazioni in tal senso. Quindi anche di questo tema collaterale dovrò parlare nell’esposizione del testo di Le Fort e nel commento ad esso. Il che però non significa affatto che entrambe abbiano in alcun modo teorizzato l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Cosa che è evidentemente non può venire sostenuta sulla base di qualunque argomento, così come non può venire sostenuta alcuna superiorità dell’uomo rispetto alla donna o viceversa. Quindi, almeno in questo senso, le loro riflessioni restano nell’orbita del movimento femminista; o, per meglio dire, restano nell’ambito degli elementi più giusti e sensati che il pensiero femminile ha messo allo scoperto e rappresentato.
Detto questo sarà risultato chiaro che ciò che mi propongo in questo scritto è in primo luogo di esporre sinteticamente il testo lefortiano in modo da portarlo a conoscenza (nei suoi elementi essenziali) soprattutto a chi condivide l’approccio cristiano-cattolico, specie nell’idea che Maria Vergine sia di fatto il primario modello per l’essere ed agire della Donna secondo criteri in linea con l’ordine divino. In secondo luogo mi propongo però anche di riflettere su questo testo. Cosa che farò con dei commenti ed extrapolazioni che lo connettano da un lato al tema antichissimo della Donna paradigmatica (il cosiddetto «eterno femminino») e dall’altro lato alla moderna discussione sulla donna (nella quale indubbiamente è stato protagonista il movimento femminista) che da tempo è in atto nella società moderna e che ha anche occupato larghissimi spazi della nostra cultura.
Di altri temi interessanti collaterali non potrò però parlare. Mi riferisco in particolare ad una sorta di indagine comparativa tra la visione lefortiana e quella steiniana della Donna. Questa indagine richiede infatti un’analisi testuale molto estesa che ovviamente non può trovare posto in questo breve scritto. Ma probabilmente nel futuro riuscirò a fare anche questo.
Vorrei inoltre anche precisare che (con poche eccezioni) menzionerò la donna sempre indicandola con la lettera maiuscola (Donna), dato che l’intera opera di Le Fort intende parlare del femminile nella sua dimensione paradigmatica.

II- Esposizione del testo e suo commento.
Per chiarezza di esposizione vorrei qui precisare che riporterò di seguito l’intero testo di Le Fort non mancando però di indicare con chiarezza i luoghi testuali (sezioni) ai quali man mano andrò riferendomi, e prendendo comunque come base l’originale testo in tedesco. Devo però avvertire il lettore interessato che il libro è stato anche tradotto in italiano [Gertrud von Le Fort, La donna eterna, Estrela de Oriente, Caldonazzo (TN) 2015], e quindi chi vuole può decidere di verificare quanto ho scritto anche andandosi a leggere direttamente il relativo testo. Tuttavia la mia sintesi potrà comunque servire a chi non intenda dedicarsi alla lettura del testo originale né in tedesco né in italiano.

II-1 Prefazione
L’autrice si è preoccupata di fare precedere al testo una prefazione, e quindi da questa inizierò nella mia esposizione dei suoi contenuti (Prefazione, p. 5-7). In essa viene dichiarato che scopo del libro è quello di esporre il “significato” della Donna dal punto di vista unicamente simbolico (non invece psicologico, biologico, storico e sociale). Inoltre l’autrice precisa che il simbolo (in quanto linguaggio) si riferisce sempre unicamente al metafisico ed all’invisibile. Quindi suo scopo è illustrare il significato sovrannaturale del Femminile, e non invece quello empirico, ossia meramente naturalistico, biologico ed elementare. Dunque, in buona sostanza, il suo scopo è quello di mostrare specificamente nella Donna la portatrice del Divino. Ecco dunque definita la valenza essenzialmente ed intensissimamente religiosa del Femminile. Ed ecco allora che proprio questa può essere considerata (in estrema sintesi) la «natura» della Donna, una volta indagata in termini primariamente metafisico-religiosi. La Donna non è altro che la portatrice del Divino entro il mondano e l’umano. E ciò ci riporta immediatamente alla figura di Maria Vergine − sia come prototipo della fede incondizionata ed incrollabile in Dio (nell’Annunciazione il “si” o “fiat mihi”) che poi fa nascere Dio nell’uomo (conducendo così il credente all’umano-divinità), sia come colei che riporta la Donna Prototipica del Genesi (Eva) alla sua originaria dignità e funzione entro il disegno divino. Vedremo poi più avanti che in verità tale dignità e funzione della Donna non è mai stata offuscata nemmeno dalla Caduta. Anzi è stata semmai da essa esaltata e rafforzata. Per tale motivo, quindi, non vi è alcun motivo per fondare nella Caduta una sorta di obbligatorio e costituzionale disprezzo religioso per la Donna. Questo però è stato purtroppo oggettivamente un errore nel quale è caduta per molto tempo la dottrina più superficiale della Chiesa Cristiana.
Da tutto ciò risulta comunque che, almeno in questi ultimi termini, la «natura» femminile è qualcosa di cui si ha pienamente il diritto di parlare. Ma affatto con l’intenzione tanto di considerarla superiore quanto di considerarla inferiore. In altre parole, grazie all’apporto della metafisica religiosa (specie cristiano-cattolica) il concetto di «natura» femminile può e deve venire svincolato da qualunque significato ideologico-polemico (positivo o negativo che sia). Si tratta invece molto più di descrivere come stanno le cose su un piano oggettivo, che poi in qualche modo è quello per così dire «naturale». Entreremo comunque più avanti di nuovo nel merito di questo decisivo aspetto.
L’autrice precisa inoltre che, nel caso della Donna, si tratta di analogia religiosa e non invece di religiosità vera e propria. Si tratta insomma della descrizione di un’attitudine il cui campo di azione è ben più ampio anche di quello strettamente religioso – non si tratta dunque unicamente della fede in Dio ma anche (ed ancor più) delle ricadute che la fede in Dio ha sull’agire umano. Il che poi fa sì che il carattere femminile si dilati simbolicamente (specie nel senso della protezione dei deboli) potendo venire esteso anche a persone di sesso maschile, oppure presentandosi in emblematiche persone di sesso femminile (es. Caterina da Siena) che hanno occupato nel tempo perfino dei ruoli maschili ed inoltre hanno addirittura presentato anche caratteri maschili. Si tratta insomma in definitiva della descrizione di un’attitudine «di tipo femminile» che si confà naturalmente all’homo religiosus tanto di sesso femminile quanto di sesso maschile. E come vedremo più avanti esso trova il suo culmine senz’altro in quell’attitudine «materna» che a sua volta concorda quasi perfettamente con la virtù della carità, ossia l’amore agapico.
Più precisamente si tratta insomma in sintesi della descrizione della natura simbolica della Donna Eterna.
La quale, in quanto trascendente, deve necessariamente abbracciare in sé esseri e caratteri sia maschili che femminili. Ed in questo senso essa è molto più che una donna naturale. È appunto più che altro un simbolo del Femminile e cioè di quanto va inteso come «femminilità» nel senso più ampio possibile.
Eccoci quindi già di fronte alle riflessioni che io avevo svolto nel mio saggio dedicato alla Sophia in quanto Donna Divina. Infatti è evidente qui che, nel definire quest’ultima, non si tratta affatto dell’identificare Dio stesso con il sesso femminile. Si tratta invece semmai dell’indicazione di quelli che sono i caratteri simbolici dell’eterno Femminino (massimamente espressi in Dio e minimamente espressi nell’uomo), il quale appunto abbraccia in sé maschi e femmine trascendendo così totalmente il sesso empirico. In parole povere si tratta soprattutto della seguente domanda rivolta a noi stessi: − se perfino l’uomo (ente in fondo carnale, naturale e mondano) è fatto in modo tale da riuscire ad amare l’altro come una donna (specie come una madre), allora quanto immensamente ne sarà capace Dio?
Ma a tale proposito ci ritroviamo anche di fronte ad un tema che a volte si può ritrovare in quella riflessione femminista che si sforza di sconfinare perfino nel campo metafisico-religioso. È stato infatti sostenuto da alcuni studiosi che, contrariamente alla tradizionale iconografia, Dio sarebbe in verità una femmina più che un maschio. E ciò sarebbe perfettamente coerente con la sua attitudine insieme amorosa e creativa. Dunque non vi sarebbe in verità alcun Dio-Padre, ma invece semmai un Dio-Madre, ossia un Dio-Donna.
Rimando comunque il lettore al mio saggio per ritrovare alcuni elementi della tradizionale metafisica religiosa pagana, della teosofia e della mitologia che supportano effettivamente questa tesi. Ma intanto sta di fatto che concetti come questi sono stati impiegati dal Femminismo allo scopo di combattere l’idea che il patriarcato avrebbe una fondazione divina. E quindi è chiaro che l’interesse primario è qui di parte e meramente ideologico, ossia non è affatto interessato a scoprire come stanno effettivamente ed oggettivamente le cose sul piano metafisico-religioso. Pertanto le precisazioni di Le Fort ci aiutano non poco a rintuzzare questo tentativo sostanzialmente ideologico, che quindi necessariamente deve corrispondere molto poco alla verità. Quello che si può dire è che Dio, almeno così come appare dal nostro limitato punto di vista umano (condannato a vivere la dualità degli opposti, cioè la polarità), ha aspetti sia maschili che femminili. Ma questo non contraddice intanto affatto il concetto di Dio-Padre, il quale ha giustificazioni metafisico-religiose estremamente profonde e sofisticate (giustificazioni che ho esposto nel mio saggio). In ogni caso, comunque, tale concetto non ha affatto lo scopo di giustificare il patriarcato (almeno non nei suoi aspetti più ideologici, e quindi arbitrari e violenti). E ciò semplicemente perché il patriarcato è qualcosa di meramente relativo al mondano, allo storico ed all’immanente, quindi non ha in sé alcuna valenza religiosa ed assoluta. Questo però è un argomento molto complesso, per il quale devo rinviare il lettore necessariamente al mio saggio.
In ogni caso parla chiaramente contro il discorso strumentale femminista la straordinaria raffigurazione che Michelangelo fece della creazione di Adamo da parte di Dio nella volta della Cappella Sistina. Qui infatti un evidente Dio-Padre protende il suo braccio destro (quello della Potenza) verso l’indice dell’uomo, nel mentre con il braccio sinistro abbraccia proprio la Sophia in quanto Donna Divina. E nel mio saggio ho mostrato che con quest’ultima è da intendere molto probabilmente proprio quel Logos divino nel cui seno giacciono latentemente fin dall’eternità tutti gli enti (in quanto Idee astratte degli enti) che sono destinati a venire creati dal Dio-Padre. E a ciò va aggiunto anche che in una vastissima letteratura (che va dalla teosofia esoterica pagana e cristiana fino alla Patristica specie greca) il Logos in quanto Figlio (nel contesto della Trinità), ossia il Cristo, ha in effetti i caratteri di un Androgino, ossia possiede caratteri maschili e femminili in una perfetta armonia.

II-2 La Donna Eterna, ossia il Femminile trascendente ed assoluto.
Successivamente Le Fort inizia poi a trattare della prima delle tre sezioni del suo libro, e cioè quella dedicata specificamente alla “Donna Eterna”, o “Ewige Frau” (“Die Ewige Frau”, p. 9-29).
In questa prima sezione si parla del Femminile molto in generale, trascendente, eterno ed atemporale, mentre nelle altre due sezioni si parlerà del Femminile concreto ed immanente − prima come temporale (vergine e sposa) e poi come atemporale (madre).
E proprio sulla base di quanto precisato nella Prefazione è evidente che il discorso sulla natura della Donna riguarda primariamente l’eterno (atemporale e trascendente) e non invece il creaturale (temporale ed immanente). Cosa per cui, per l’autrice, la creatura cessa di essere assoluta (ossia un assoluto ed imprescindibile oggetto di conoscenza) e diviene invece relativa. Quindi essa è appena specchio in cui si riflette l’eterno, ovvero “similitudine” dell’eterno stesso. Come tale essa è “vaso” (Gefäß) contenente il Divino. Già questo pone il carattere radicalmente fondamentale della dedizione e precisamente religiosa, ossia subordinazione ontica della Donna alla dimensione religiosa. E questo deve venire necessariamente visto come un carattere fondamentale (assoluto e trascendente) della natura della Donna – la Donna, insomma, sta per sua natura in intimissima relazione con il Divino. In altre parole non vi è dubbio che Eva stessa abbia avuto questo carattere. E quindi, così come nel DNA di Adamo sono sintetizzati i caratteri di tutti gli uomini (maschi) che da lui discendono, allo stesso modo nel DNA di Eva sono sintetizzati i caratteri di tutte le donne (femmine) che da lei discendono. Tra i quali spicca decisamente l’attitudine alla dedizione che poi è anche attitudine religiosa per eccellenza.
Ma qui vi è forse addirittura un timido e larvato indizio per una sua possibile superiorità sull’uomo in quanto maschio, sebbene in totale assenza di qualunque intenzione tanto di dispregio quanto di dominio.
Si tratta insomma di qualcosa di metafisicamente oggettivo di cui bisogna assolutamente tenere conto quando si vuole comprendere la relazione che esiste tra essere umano e Dio. Il che, come poi vedremo, trova puntuale e preciso riscontro in Maria come modello assoluto non solo per la Donna ma anche per la corretta relazione tra uomo e Dio.
E di nuovo ritroviamo qui un elemento di differenziazione rispetto alla concezione pagano-tradizionale del Femminile. Infatti evidentemente la Donna Eterna (diversamente dalla tradizionale concezione della Sophia o Donna Divina) è molto meno qualcosa di metafisicamente ontologico e molto più invece qualcosa di etico in senso specificamente religioso. Essa è insomma molto più una disposizione del Femminile e molto meno invece un’oggettiva entità femminile di tipo metafisico. E tale era (nel mio saggio) sia l’Anima mundi, sia la Sapienza divina (o Logos) associata a quel Dio-Padre che nel pensiero pagano è sostanzialmente l’Uno che trascende vertiginosamente ogni ente. Essa è insomma più che altro una metafora etico-religiosa da applicare al Femminile.
Ma intanto, se seguiamo il discorso di Le Fort, vediamo che proprio applicando questa griglia metaforica al femminile empirico finiscono per emergere i suoi caratteri metafisici, cosmici, misteriosi e religiosi. Ed essi, peraltro, fanno parte di un modello coincidente con Dio stesso, che si presenta tanto all’origine quanto alla fine dell’essere. Quindi tali caratteri mettono a nudo una sagoma del Femminile che occupa di fatto tutto lo spazio dell’essere (sia entro l’eternità sia fuori di essa). Tuttavia bisogna dire che qui finisce per delinearsi davvero qualcosa di effettivamente oggettivo sul piano metafisico-religioso (ossia un’effettiva entità). Infatti l’autrice sottolinea che l’approccio puramente soggettivo al femminile esautora ed annulla totalmente il discorso su di esso, a causa del fatto che lo rende pericolosamente arbitrario. E questo discorso soggettivo sul femminile si ritrova proprio quando si parla di esso come meramente temporale ed empirico. In questo caso, insomma, non emerge alcuna sagoma del Femminile. Quindi qui ci ritroviamo pienamente nel contesto di quella visione femminista che nega il sussistere di qualunque «natura» femminile.
Intanto per Le Fort va però ammesso che la dimensione soggettiva ha una sua legittima giustificazione in quel campo dell’arte sacra. La quale si sforza di dare un volto tangibile alla dogmatica − è insomma uno sforzo soggettivo di rappresentare quella dimensione metafisica che è però in sé solo oggettiva. In altre parole siamo qui costretti ad ammettere una certa licenza poetica, in assenza della quale l’artista avrebbe insuperabili difficoltà nel raffigurare plasticamente realtà evanescentemente divine. E tutto ciò ha per l’autrice un senso e valore particolare in relazione al dogma mariano in quanto manifestazione dell’umano-divinità. Quest’ultima emerge infatti sotto il segno di un’attitudine tipicamente e concretamente femminile (la ricezione passiva, che è poi anche della materia metafisicamente intesa), e cioè l’attitudine al “si” incondizionato (“fiat mihi”). In altre parole, dunque, quella che è un’attitudine meramente naturale e biologica (evidente nel concepimento per mezzo della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo), si dilata e si trasforma sul piano religioso nella «concezione». Ed è allora del tutto coerente (oltre che chiarissimo) che, trattandosi di una realtà puramente spirituale, deve necessariamente trattarsi di un’«immacolata concezione» (atto e fenomeno puramente spirituale). Altrimenti l’attitudine alla ricezione passiva in termini religiosi cesserebbe del tutto di essere una realtà spirituale. E questo spazza via in un sol colpo tutte le vergognose e ridicole perplessità (scettiche e scientiste) alle quale i moderni teologi (tutti privi non solo di fede ma soprattutto di coraggio) hanno aperto la porta nel prendere in considerazione specialmente i dogmi dell’Incarnazione e di Maria.
Rispetto alla metafisica pagana, però, tale attitudine è altamente positiva invece che negativa per eccellenza. Cioè non è un carattere metafisico della materia in quanto sostanza cieca, caotica ed inattiva che somiglia così tanto al non-essere. Essa esprime infatti qualcosa di in verità attivo (e non passivo), ossia la collaborazione della creatura alla Creazione divina. Non solo, ma esprime anche la capacità di rivelare Dio (e la dimensione religiosa) senza frapporre ad esso alcun ostacolo. Ecco il perché della natura religiosa del Femminile.
Tuttavia Le Fort precisa che ciò avviene in maniera tutt’altro che palese, e quindi getta necessariamente su Maria quel velo che poi è quanto caratterizza indelebilmente il femminile in quanto religioso. E del resto abbiamo appena visto che questa intera realtà non può in alcun modo venire compresa in termini meramente materialistici e razionalistici. Si tratta infatti evidentemente di un «mistero» agli occhi di noi uomini fatalmente immersi nella carne. Potremmo dire allora che l’atto femminile di rivelare di Dio avviene sempre solo molto ma molto discretamente. Proprio come avviene per quelle cose che, essendo sacre, sono estremamente delicate e quindi vengono sempre violate dallo sguardo umano. La rivelazione femminile del Divino avviene pertanto solo e soltanto nel luogo più segreto del Tempio, ossia oltre il velo, nel Sancta Sanctorum. Del resto dalla storia di Maria (vedi Maria Valtorta) sappiamo che fin da piccola – e cioè molto prima dell’Annunciazione − ella amava intrattenersi nel Tempio servendo Dio. Ella insomma sapeva già di appartenere totalmente a Dio. Anzi ella si era sentita da sempre una sacerdotessa di Dio.
Ed è attribuibile a questo la sua ostinata decisione alla castità, ossia alla verginità. Cosa che rende ancora più stupefacente il suo atto eroico di accettazione incondizionata della concezione del Divino; con il quale ella di fatto rinnegava sé stessa totalmente fin alle radici del proprio essere. Ma sta di fatto che questa, e solo questa, è la Fede!
In questo senso, dunque, dice Le Fort, la Donna è fatta per illustrare il mistero, e quindi la sua dedizione religiosa è dedizione al mistero metafisico stesso. Il che, come lei precisa, è avvenuto anche molto prima del Cristianesimo con figure come la Sibilla. E di nuovo ci viene qui in aiuto il Michelangelo della Cappella Sistina, dato che egli annoverò tra i profeti anche la Sibilla e la Pizia delfica quale Oracolo del dio Apollo.
In ogni caso per l’autrice la Donna è dedita in termini metafisico-religiosi in tutte le sue forme, le quali vanno tutte oltre il naturale, animale e biologico. Lo è come vergine, sposa e madre. In particolare secondo la maternità. La quale corrisponde secondo lei al momento più forte della missione che è sempre toccata ad alcune tra le più grandi donne della storia, come Caterina da Siena e Giovanna d’Arco. La maternità è infatti in primo luogo protezione e cura, e lo è specialmente verso ciò che non è appariscente, ossia è nascosto. Ecco di nuovo il motivo del velo, a sua volta sempre intimamente unito a quello della dedizione. Vedremo comunque come questo discorso lefortiano diventi ancora più chiaro e forte nella terza parte della sua opera, che è dedicata appunto solo alla madre.
Tuttavia non si tratta solo dell’ascosità dei protetti da parte del Femminile, bensì si tratta anche dell’ascosità che è essenzialmente propria del Femminile stesso. Infatti proprio questo atto protettivo nasconde il Femminile, imponendo un suo ritiro rispetto alla vita pubblica (dato che si tratta di un compito del tutto privato ed in sé tutt’altro che eclatante, ossia un compito considerato di second’ordine). E ciò è tanto vero che la filosofa Hannah Arendt (prendendo a modello la società greca) si è sentita di identificare realmente lo spazio femminile nella società con quello che non ha né può avere alcuna relazione con quel livello eccelso che è occupato invece dalla politica ed è inoltre l’unico che sia davvero caratterizzato dall’esercizio della libertà [Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani Milano, 2008, II, 9-10 p. 49-57, III, 11 p. 58-66]. Per lei infatti lo spazio della donna riguarda gli elementari e brutali fenomeni della vita e della morte, e ciò implica pertanto perfino una certa sua deteriorità. L’ascosità femminile è infatti per lei un fenomeno sostanzialmente deteriore. Mentre per Le Fort esso manifesta in pieno quella grandezza femminile che trova il suo compimento nell’umiltà di una posizione che è di secondo piano soltanto sul piano sociale ma intanto è assolutamente di primo piano sul piano etico e religioso. Proprio per questo tale ascosità non viene affatto subita dalla Donna, ma viene invece voluta e scelta nell’’intuizione (senz’altro sublime) che non sono affatto le apparenze quelle che davvero contano.
La prova di tutto questo sta in fondo proprio il fatto che il contrario di tale attitudine si ritrova nella dimensione negativa che può caratterizzare il Femminile, ossia quella in cui la Donna non fa altro che volere sé stessa, e quindi rinuncia per definizione a qualunque cura dell’altro. Il che ci riporta nuovamente nel campo di quella che secondo il Femminismo sarebbe l’unica prospettiva lungo la quale il Femminile dovrebbe svilupparsi per conquistare la propria dignità.
Per Le Fort invece le cose stanno in maniera del tutto opposta, dato che proprio l’ascosità del Femminile (unita a sua volta all’attitudine alla cura dei più nascosti della realtà sociale) mostra l’enorme peso che esso ha avuto ed ha nella società e nel mondo, oltre che più in generale nell’essere. In altre parole (diversamente da ciò che pensa Hannah Arendt) proprio l’occupazione dello spazio più elementare e basico della società e del mondo fa della Donna il Fondamento stesso dell’essere, ossia una realtà della quale non si potrebbe in alcun modo fare a meno. Ed è evidente che, stando così le cose, lo spazio occupato dall’uomo (maschile) finisce per apparirci come molto più accessorio e secondario, fino a presentarsi addirittura come superfluo e vuotamente retorico. In parole molto semplici potremmo dire che mentre la Donna «fa», l’uomo si limita invece a parlare, se non a blaterare vuotamente ed inconsistentemente.
Non a caso, per l’autrice, tale così preponderante presenza è di nuovo quella che è tipica della Donna Eterna. Infatti questo enorme peso e ruolo della Donna nell’essere (con culmine nel “si” di Maria, la Donna Eterna per antonomasia) trova il suo riscontro negativo nella Caduta che vede proprio Eva come protagonista. Secondo Le Fort qui non si tratta però affatto della mera negatività di un atto che sia stato femminile solo casualmente e quindi incidentalmente. Si tratta invece dell’inaccettabilità di tale atto a fronte di quella naturale grandezza e forza femminile che consiste proprio nella sua religiosità, ossia nel suo esprimere al massimo la relazione tra uomo e Dio. Con l’atto di Eva (prendere il frutto) decade quindi la Creazione nella sua dimensione femminile, ossia dove meno ciò sarebbe potuto e dovuto accadere. In altre parole cade quel muro maestro che era poi quello che mai e poi mai avrebbero dovuto cadere. In particolare si tratta dello svanire della dedizione a vantaggio della signoria su sé stessi, ossia dedizione alla propria volontà. È evidente, dunque, che la Caduta di Eva non mette affatto a nudo una sostanziale deteriorità del Femminile (che avrebbe addirittura profondi fondamenti onto-metafisici ed etici) ma invece rappresenta una tragica de-femminilizzazione del Femminile. Con esso, insomma, la Donna non rivela affatto cosa essa sia veramente, ma invece cessa di essere ciò che essa è veramente. In altre parole essa si svergogna non per essere Donna ma invece per non esserlo più.
Tutto ciò sottolinea l’importanza capitale che ha la Donna nell’essere. Ma inoltre sottolinea anche l’importanza che ha perfino il Femminile negativo. Questo è per la precisione il Femminile che tradisce il proprio ruolo nella mera dedizione ai propri istinti animali. Ci troviamo insomma di nuovo di fronte alla donna che appena vuole sé stessa. E purtroppo proprio questo è quel Femminile che per il Femminismo è un valore invece che un disvalore.
Non a caso per Le Fort tale deviazione implica la caduta del Femminile addirittura nel demoniaco. Come viene illustrato da tutte le figure femminili negative presenti nella letteratura specie tragica – Medusa, le Erinni, le streghe, la Pentesilea di Kleist etc.
Per di più, ella dice, è proprio a causa dell’immensa portata della grandezza della Donna, che la Caduta dell’uomo avviene solo nel contesto della Caduta della donna. È questo ciò che si intende quando, nel Genesi, sembra che Eva abbia sedotto un innocente Adamo trascinandolo nel Peccato, e quindi macchiandosi della maggiore delle colpe. La verità è invece semmai che Eva contava molto più di Adamo.
E quindi proprio per questo la Caduta causata da Eva è molto più rovinosa di quella che sarebbe potuta venire causata da Adamo. Ciò in quanto essa riguarda l’intero essere. Quindi essa apre una prospettiva apocalittica in cui la Caduta finale porterà a termine quella originaria nell’ormai totale infertilità della terra (simboleggiata nell’Apocalisse di Giovanni dall’emersione della Bestia dall’Abisso). Il che rappresenta l’esatto contrario del “si” in quanto incapacità della Donna (Terra) di accogliere e di raccogliere le benedizioni che piovono su di essa.
Le Fort precisa che questa Apocalisse finale è preceduta però da diverse più ristrette e concrete apocalissi, rappresentate dalla degenerazione delle culture. Esse sono insomma storiche e temporali, invece che ultra-storiche ed atemporali. E non a caso proprio in esse svaniscono del tutto i segni positivi del Femminile. Com’e sicuramente il velo. Ed ecco il del tutto non casuale affermarsi della nudità e della vanità femminili (segni della dedizione della donna al piacere ed ai sensi) proprio entro tali contesti degenerativi. Per l’autrice si tratta di segni di “indurimento” (“Enthartung”) della donna, dedita ormai solo alla cura del proprio corpo. Ed eccoci di nuovo di fronte ad un fenomeno che il Femminismo di certo non ha voluto ma al quale ha senz’altro aperto la strada. Vedremo poi più concretamente nelle conclusioni cosa ciò comporti e significhi nella società contemporanea.
Ma tutto queto rappresenta per l’autrice l’esatto contrario della somiglianza uomo-dio (umano-divinità) e della collaborazione della creatura alla creazione, che sono invece i frutti religiosi più tipici della presenza ed azione di un Femminile che resti davvero in linea con la sua profonda essenza o anche «natura».
Ecco allora perché oggi (in un contesto storico ormai sempre più generativo) Maria viene invocata come aiuto (aiuto divino). Ciò avviene proprio perché ella vicaria il decadere della donna storica dal proprio ruolo. In particolare essa è liberatrice perché ripristina quella creatività che dalla creatura può venire solo accolta.
Il che avviene proprio nel contesto della dedizione e della collaborazione. Tutte virtù in cui Maria eccelle in quanto è “ancilla Domini” (ancella del Signore) per definizione.
In questo senso, dunque, la Donna è per davvero capace di benedire il mondo. Il che corrisponde poi soprattutto all’essere madre nell’atto di staccarsi da sé stessa. E qui in particolare la sua maternità è preparazione del mondo per l’eternità.

II-3 La Donna temporale (vergine e sposa).

Nella seconda sezione Le Fort parla molto più concretamente della Donna, cioè della Donna colta nella sua realtà più reale e storica, ossia della Donna immersa nel tempo, o “La donna nel tempo” (“Die Frau in der Zeit”, p. 33-95). È insomma la Donna temporale. E concretamente si tratta in particolare della Donna come vergine e poi sposa. È chiaro intanto che quest’ultima è anche madre, ma di questo aspetto Le Fort parlerà soprattutto nella terza ed ultima sezione. Il che però non significa affatto che la madre abbia un ruolo di secondaria importanza nel contesto della condizione femminile. Anzi è l’esatto contrario (come vedremo appunto nella terza ed ultima parte del libro). Si tratta invece del fatto che la vergine e la sposa (pur appartenendo di fatto alla dimensione più prosaica della vita femminile) sono in via di principio (almeno tendenzialmente) slegate dalla dimensione più fortemente biologica che caratterizza la madre. Cosa che vedremo in particolare laddove la sposa si rivela essere in effetti soprattutto la “compagna” dell’uomo.
Precisato questo, bisogna dire che, con la vergine e la sposa, si tratta insomma di null’altro che della vita femminile colta nella sua massima ordinarietà. E proprio per questo Le Fort si approssima qui quanto mai a diversi aspetti del moderno dibattito sulla Donna in tutta la sua concretezza.
Ebbene essa è per lei come tale per definizione “la metà” − metà dell’uomo come maschio, metà dell’essere umano ed ancor più metà dell’essere. Ma ancora una volta essa è tale come “silenzio” (e quindi nell’ascosità), dato il dominio maschile (che è invece voce e non silenzio) esercitato nei settori chiave (ad esempio nella politica). La presenza femminile è dunque in questo senso “dedizione” (“Hingabe”) − in particolare la Donna appare essere stata ed essere del tutto assente dalla storia. Tuttavia, dice Le Fort, sta di fatto che ormai il criterio che contrassegna la storia è del tutto non personale. Ossia non si riferisce più alle singolarità (grandi personalità) ma invece alla collettività. E quindi oggi la donna è in effetti più che mai dedita proprio alla collettività, ossia alla Totalità. Cosa che rafforza immensamente la sua attitudine alla dedizione.
Tutto ciò ha però un preciso significato anche biologico (oltre che simbolico), dato che la Donna è naturalmente in rapporto alla generazione essendo decisiva portatrice delle disposizioni o caratteri. Ecco che allora la Donna trasmette i caratteri senza però trattenerli e manifestarli, e quindi si limita a tramandarli senza mai appropriarsene (come invece fa l’uomo). E questo è dono disinteressato nel mentre è ascosità cioè ancora una volta velo.
Ma proprio perchè i caratteri della Donna appaiono solo nelle generazioni successive (e non in quella attuale), bisogna riconoscere che essa sta naturalmente in rapporto con l’infinito (anche sul piano meramente temporale ed immanente). Ed ecco che mentre l’uomo è la roccia che ferma il tempo, la donna è invece il flusso che incessantemente lo porta via (essa è insomma ontologicamente dinamica). Ma intanto solo il flusso è formante, mentre la roccia è sempre solo formata. A causa di tutto questo è sì vero che la dimensione maschile corrisponde a ciò che è pienamente personale-singolare (che però in verità appena passa e consuma), mentre invece la dimensione femminile corrisponde al generale (il quale per definizione ferma, ossia conserva). Intanto però, alla luce di tali costatazioni, la dimensione personale appare piuttosto mitigata nel suo così assoluto valore ontologico ed etico. Anzi finisce per approssimarsi molto non solo al solipsismo egocentrico ma anche ad una sorta di superfluo se non insensato dispendio di essere che invece viene completamente a mancare nella dimensione femminile. E non c’è dubbio che allora (sebbene solo in un determinato senso) la dimensione personale appare assomigliare non poco a quanto di più bassamente biologico ed elementare (sicuramente animale) ci sia nell’essere umano, ossia quell’istinto di sopravvivenza che è poi ostinata e perfino feroce difesa dei limiti del proprio essere. Insomma, sintetizzando, la dimensione così fortemente personale dell’uomo (maschio) sembra stare ad indicare una sua inguaribile tendenza a vivere solo per sé stesso, che invece sembra mancare completamente nella Donna.
E a tale proposito bisogna dire che Le Fort prende una posizione molto divergente da quella di Edith Stein, la quale invece difese con molta forza le ragioni del personalismo, specie vendendo nella Persona un valore assoluto ed incondizionato specie perché essa esprime la stessa umano-divinità dell’essere umano. Evidentemente, dunque, Le Fort è riuscita a guardare molto più a fondo in questa realtà, introducendo delle distinzioni delle quali invece Stein non si era affatto resa conto. E ciò va attribuito senz’altro ad una riflessione fondamentale sulla Donna, in assenza della quale probabilmente la dottrina personalista resta incompleta. Vedremo però più avanti che ci sono molte ragioni anche per relativizzare questo tendenziale disvalore della persona. E di nuovo in questo la Donna appare protagonista, specie nella sua condizione esplicitamente religiosa, ossia come vergine e sposa di Cristo, ossia monaca.
In ogni caso, dice Le Fort, la Donna è naturalmente “conservatrice” (“korservativ”). Ed è evidente che lo è però soprattutto in positivo, ossia nel contesto di una disposizione estremamente generosa e perfino sacrificale. Essa insomma fa sì che l’essere stesso persista e venga protetto dal deperimento. E lo fa addirittura a scapito di sé stessa come persona umana.
Intanto però, dice l’autrice, bisogna riconoscere che questa produttività è propriamente della madre. Non è invece della vergine, ossia la giovane donna (o ragazza) ancora senza marito. Dunque è realmente una tragedia (ecco la tendenziale tragicità della condizione verginale sul piano naturale) quando, nel contesto della relativa attesa, non avviene il passaggio dalla seconda alla prima. Tuttavia sta di fatto che tale attesa non realizzata è stata sempre valorizzata (nell’insuccesso e ascosità esaltati come purezza e rinuncia) presso le vergini sacre di ogni tempo e di ogni cultura e religione, inclusa Maria. Qui infatti la pienezza della persona si ha in modo invisibile all’uomo e visibile invece solo a Dio; quindi su un piano molto più alto che è del tutto sovrannaturale. In particolare in tale contesto il temporale riceve il suo senso interamente dal sovratemporale. Ed ecco allora che riceve puntualmente il suo premio la così generosa e sacrificale rinuncia della Donna a quanto ogni essere umano ha di più caro (quasi animalmente), ossia a sé stesso come persona.
Ecco quindi che il “mysterium caritatis” (che è tipico della disposizione amorosa femminile) finisce per manifestarsi anche nella vergine (in sé fatalmente sterile). È in tal modo che la sua attesa incompiuta viene completata e compensata dallo stato di sposa di Cristo. Nel caso di Maria si tratta della realizzazione su un piano più alto (nonostante il fallimento da vero e proprio non senso dell’esistenza femminile), che corrisponde al suo investimento da parte dello Spirito Santo, a sua volta in relazione con il “si” o “fiat mihi”. In particolare l’amore (mysterium caritatis) viene qui vissuto non nel matrimonio ma invece nella comunità monacale. E così esso finisce per evolvere nel senso di un puro amore per gli altri, entro il quale non vi è alcuno spazio per l’ordinaria ed elementare realizzazione personale. Oltre a ciò (in luogo delle dimensioni assenti) vi è poi la vita di contemplazione dedicata solo a Dio.
Naturalmente però, sottolinea Le Fort, tutto ciò si scontra frontalmente con la mentalità moderna, entro la quale in verità non è affatto chiaro quale possa essere il vero e più autentico senso della persona (al di là del piano elementare e superficiale del quale abbiamo appena parlato). Tutto ciò, comunque, anche se è vero sul piano prevalentemente monacale, vale inoltre anche per la Donna in generale, nella cui dimensione le realtà della madre e della sposa (strettamente intrecciate tra loro e rappresentanti i due sensi della Donna nella storia) di fatto prendono origine entrambe dalla vergine. Come abbiamo visto, infatti, quest’ultima condizione non è meno strettamente legata al mysterium caritatis, anche quando essa non sfocia nel matrimonio e nella vita familiare (come accade nell’attesa fallita). Per cui, nella forma di verginità sacra, anch’essa comporta senza alcuna vera contraddizione una reale condizione matrimoniale (quella di sposa di Cristo e relativa vita monacale), a sua volta dedita all’amore in maniera ancora più intensa ed alta. Del resto, proprio perché la Donna trasmette solo le disposizioni entro la generazione, può molto facilmente venire concepita una maternità puramente spirituale; com’è appunto quella monacale.
Ebbene, proprio a tale proposito possiamo ritrovare in pieno le ragioni di felicità e compimento personale che Edith Stein ritrovò nella decisa scelta della condizione monacale, entro la quale essa si riconobbe pienamente come vergine (tendenzialmente fallita sul piano naturale) divenuta ormai sposa di Cristo.
Si trattò di una compensazione ma anche sublimazione ad una serie di fallimenti che erano avvenuti su molti piani, e che includevano senz’altro anche quello sentimentale. Senz’altro ella aveva ritrovato qui in pieno la condizione sponsale e materna che le erano state negate dall’esistenza. E peraltro tra poco vedremo quanto poco la sponsalità religiosa (sposa di Cristo) sia in effetti in contraddizione con quella naturale. Anche qui, comunque, un’indagine sulle sue lettere e sulla sua auto-biografia renderebbe più chiara ed esplicita questa sua presa di posizione. Ma purtroppo non vi è spazio per questo nel presente scritto ed inoltre vi sono anche molti testi critici che ne parlano abbastanza diffusamente.
Tutto ciò, dice Le Fort, spiega il grande peso che la vergine ha sempre avuto nella storia, come vedremo poi nuovamente a proposito della madre (la quale invece nella letteratura non ha avuto alcuna attenzione). L’importanza che la letteratura ha attribuito alla vergine, corrispondente inoltre al fatto che la Donna è sempre intervenuta sempre nella storia in circostanze straordinarie (come guerre e catastrofi naturali) senza contraddire intanto la sua ascosità nemmeno quando è stata tangibilmente presente. Il che evidenzia una fondamentale dedizione (incentrata nel “si” mariano) nella quale la Donna sempre si è ritirata nuovamente in buon ordine dopo che l’emergenza era passata.
Tutto ciò evidenzia aspetti tipici della dimensione femminile che sono collegati ad un’ascosità, però in questo caso affatto slegata dalla presenza e dall’azione; ed inoltre anche alla stessa grandezza femminile o carisma. Si tratta ancora una volta, insomma, di ciò che si è manifestato nella vita ed opera di grandi personalità femminili (tra le quali senz’altro dobbiamo annoverare anche Edith Stein). Per la precisione siamo così di fronte alla tendenza tipica della Donna a farsi strumento o vaso, ed inoltre a venire «mandata» (vocazione e missione). Ma nello stesso tempo questa attitudine si è sempre coerentemente manifestata insieme alla tipica serie di aspetti solo apparentemente fallimentari della persona (oscurità, insuccesso, non venire capiti, non realizzarsi mai). Tutto ciò corrisponde al tratto tipico dell’azione femminile che è in primo luogo la collaborazione alla creazione (così come anche all’opera dell’uomo), corrispondente a sua volta allo stato di ancilla Domini (Maria). Qui insomma, dice Le Fort, nuovamente un raggio della Donna Eterna (Maria) cade su ogni donna ordinaria, ossia sulla Donna temporale.
In ogni caso va ammesso che in tal modo la Donna finisce per manifestare il valore massimo della persona. E quindi in tal modo finisce per venire rovesciata quella tipica dimensione a-personale della quale abbiamo parlato prima come di un carattere tipicamente femminile. Inoltre più avanti vedremo ancora altri aspetti della relativizzazione della dimensione tipicamente a-personale della Donna.
In tale contesto, con la fondamentale intermediazione di Maria (come modello di Donna, o Donna Eterna), la dimensione della vergine e quella della sposa risultano essere intimamente unite sia nella vita profana (famiglia e matrimonio) che in quella religiosa (Chiesa). Infatti la sposa dell’uomo equivale sempre (almeno in parte e tendenzialmente) alla sposa di Cristo. Ecco che la consacrazione della sposa dell’uomo (celebrata nella Messa nuziale) è non a caso simile a quella della sposa di Cristo (cerimonia dei voti).
E questo perché, sempre grazie a Maria come modello, Dio ha voluto che il fenomeno della generazione, in sé meramente naturale, venisse illuminato dalla sponsalità verginale (di Maria e quindi anche della monaca, o vergine sacra), trasformandosi così in sovrannaturale, ossia in puro amore, e quindi nel mysterium caritatis nella sua massima pienezza. In particolare si tratta dell’accettazione dell’altro come un mondo fatalmente fuori di me, e ciò sul modello del mondo fuori di Dio che il Creatore accetta umilmente affinché la Sua incommensurabile potenza non lo annichili totalmente. Considerazioni profondissime su questo si ritrovano in Simone Weil, specie in relazione alla sua personale interpretazione della capacità di fare la Volontà divina [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Simone Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, I p. 39-40; Simone Weil, Attesa di Dio, Adephi, Milano 2008, II p. 171-198; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 51-84; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016 < http://mondodomani.org/dialegesthai/vn01.htm%5D Le Fort chiarisce a questo punto che il fenomeno in causa, in sé storico e cosmico) è quello della collaborazione tra forze polari dell’intero essere (il maschile ed il femminile), che implica quindi l’amore e dedizione della moglie al marito e viceversa. Il che ha poi precisi risvolti nella cultura, dato che la Donna è sempre presente in essa accanto all’uomo sebbene (in principio volontariamente) in una posizione apparentemente di secondo piano (ascosità). Tuttavia entro tale collaborazione la sposa assume un ruolo di spicco diversamente dalla vergine e dalla madre. Le quali, al suo cospetto, diventano solo secondarie, soprattutto perché più biologiche che non culturali. La sposa infatti è “compagna” dell’uomo per definizione. Il che rivela in trasparenza dietro la sposa un’entità (e relativa condizione) che è ontologicamente ben più fondamentale, dato che essa riveste un valore di portata ben più ampia e più alta. E ciò ha come conseguenza che la sposa non può mai divenire mero strumento dell’uomo, come avviene invece nella generazione (fenomeno che riguarda soprattutto la madre), e quindi mantiene una sua autonomia, oltre che avere un ambito di esplicazione molto ampio. In ogni caso ciò comporta anche che non vi è alcuna consecuzione letterale (né di valore o rango) nella sequenza vergine > sposa > madre. Motivo per cui la sposa ha importanza (nella dimensione femminile) almeno quanto la madre. E quindi non è destinata ad avere per forza dei figli. Come del resto viene pienamente accettato anche dalla Chiesa. Nel complesso Le Fort mette qui in luce nuovamente la dimensione personalistica che è propria del matrimonio in quanto legato più alla relazione (spiritualità sovrannaturale) che non alla generazione (biologia). Ecco spiegata la presenza nella Messa nuziale della menzione sostanzialmente paolina di “una sola carne ed un solo spirito”. Il che implica il passaggio della vergine (attesa, infertilità) a madre (fertilità) per mezzo della sposa su un piano che è ben più che biologico. Oltre a ciò si tratta di una particolare persistenza nel tempo della sposa – è per la precisione della sponsalità connaturata essenzialmente alla donna (già latentemente da quando è vergine) che nel matrimonio raggiunge il proprio compimento e poi si prolunga per tutta la vita (nozze d’argento). Si tratta ancora più precisamente del mistero dell’amore perpetuato per tutta la vita.
Ed esso a sua volta mette nuovamente a nudo Maria come modello della sponsalità connaturata alla Donna. Essa si manifesta infatti anche nella monaca o sposa di Cristo, quale secondo compimento della verginità. L’aspetto primario di ciò è che Maria riceve incondizionatamente lo Spirito Santo in quanto realtà di amore e creazione.
Il sacramento cristiano abbraccia entrambi questi aspetti (sposa dell’uomo e sposa di Cristo) affermando l’intera portata del mysterium caritatis. Il suo aspetto principale è quindi il mistero della creatività.
Le Fort ci ricorda che del resto ciò è sempre stato espresso in letteratura nella descrizione delle coppie famose: − Dante e Beatrice, Michelangelo e Vittoria Colonna, Hölderlin e Diotima, Goethe e von Stein, Wagner e Mathilde Wesendonk.
In tale contesto si manifesta insomma il fenomeno della creazione come dilatazione dell’Io al Noi.
Orbene, su questa base cambia completamente la visione del ruolo e valore della Donna (che evidentemente è stato così frainteso dal Femminismo): − non vi è in realtà alcuna contraddizione tra il ruolo familiare e sociale (cultura) della Donna. Il che fa sì che l’ascondimento previsto dal primo ruolo (in sé in stridente conflitto con quello sociale) perde completamente il suo aspetto deteriore. Qui in particolare la Donna esercita in ogni caso (in famiglia o nella società-cultura) il ruolo di immane importanza che è quello di costituire la metà dell’intero Essere. il che ha una dimensione intellettuale nel “conoscere donna” biblico. Infatti si tratta del conoscere nella Donna l’”altra dimensione dell’essere umano”; il che implica una polarità che è sempre Totalità.
In tal contesto il ruolo di guida della donna per l’uomo (unita inscindibilmente al dono di sé), e la sua risonanza (quasi musicale) con il pensiero maschile, pongono del tutto in secondo piano la necessità della competizione con il maschio. Cosa che nuovamente relativizza non poco le rivendicazioni polemiche del Femminismo. Ma ciò pone inoltre in luce il fenomeno della “rivelazione” della donna. La quale, nel mentre si rivela, resta intanto nel mistero dell’ascosità (inapparenza) per mezzo della dimensione simbolica del velo. Tanto che l’uomo non si rende nemmeno conto di tale rivelazione. In particolare, grazie alla Donna, l’uomo raggiunge la sua pienezza di persona senza nemmeno rendersene conto, ossia senza fare nulla.
Ed in particolare ciò avviene per mezzo del fenomeno dell’interposizione della sposa tra vergine e madre, laddove la sposa stessa risulta essere la pienezza della persona per antonomasia. Specificamente la Donna libera l’uomo dalla sua solitudine ponendolo in correlazione con la Totalità dell’essere. Cosa che l’uomo non potrebbe invece mai fare da solo!
Tutto ciò significa che nell’anonimato (velo) la Donna è in verità il “pilastro invisibile” dell’essere.
E tutto ciò, secondo Le Fort, pone in evidenza la realtà della relazione tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’opera di creazione (specie culturale). Laddove la Donna è un soggetto totalmente anonimo (e per questo subordinato alla collettività invece che alla personalità), ma proprio per questo è possente. Ed in ogni caso tutto ciò getta luce sulle comunità di lavoro esistenti tra uomini e donne (sul piano culturale) e quindi anche su quell’amicizia tra uomo e donna che ha il potere di restare totalmente casta. In ogni caso l’autrice sottolinea che bisogna ammettere il fatto che tutto questo valore della Donna è stato effettivamente oscurato laddove (come nel fenomeno storico tutto tedesco delle “leghe maschili”) è stata affermata la mera unilateralità dell’essere (unicamente maschile). Non a caso in esse, in assenza della collaborazione tra maschile e femminile, il risultato è stato sempre l’infertilità, ossia la non creatività.
Naturalmente interferisce in questo la realtà innegabile del Femminile demonico (con tutta la sua portata inevitabilmente distruttiva), che è dunque qualcosa di esistente incontestabilmente. Ma qui il fattore critico è solo il livello e valore ontologico che si sceglie di attribuire al Femminile. Tuttavia qui perfino l’abisso esistente tra il Femminile positivo e quello negativo ricostituisce comunque la Totalità. In particolare il fatto è che la creazione può essere costruttiva o distruttiva. Tutto dipende in questo dalla presenza o assenza della collaborazione tra uomo e donna.
Ed ancora una volta appare evidente l’effetto distruttivo che il Femminismo ha avuto su questa pur solo tendenziale armonia. Esso ha infatti rigettato ed eliminato (con sdegno) proprio la possibilità di una collaborazione tra maschile e femminile.
Posto questo, Le Fort precida che la Donna dovrebbe in verità essere sempre presente nella vita sociale (e non invece solo in situazioni straordinarie). Perché solo in tal modo la Totalità viene ricostituita. Il che è vero specialmente nella cultura, dato che sono creative solo le produzioni che raggiungono la Totalità. Altrimenti esse alimentano solo un flusso della cultura che è fatalmente frazionato in mille rivoli separati tra loro.
Ma, pur ammesso questo, l’assenza della Donna in tale contesto evidenzia in fondo soltanto l’importanza capitale che ha l’anonimato nella produzione, che a sua volta è connessa ai valori dell’umiltà, del velo, e dell’abbandono; e che a loro volta hanno alla base l’attitudine tipicamente femminile del “rispetto” o “riverenza” (“Ehrfurcht”). Cosa che implica necessariamente la dimensione religiosa. Il che esclude la tendenza al dominio (ossia la Signoria) che è invece tipicamente maschile; e che è sempre tendenzialmente distruttiva o almeno non creativa, e comunque risulta legata indissolubilmente all’orgoglio e quindi all’egocentrismo solipsista.
Le Fort sottolinea che proprio questa disposizione è ciò che ha permesso l’edificazione delle cattedrali.
E qui la sua riflessione converge straordinariamente con quella di Ananda Coomaraswamy nella sua critica molto radicale al protagonismo nell’arte che contraddistingue da molto tempo (in particolare dal Rinascimento in poi) la cultura occidentale in radicale conflitto con quella orientale [Ananda K. Coomaraswamy, La concezione indù dell’arte, in : Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano Adelphi 2011, p. 41-73].
Ebbene nuovamente tutto ciò sta in stretta relazione a Maria come modello − con il suo “si” (“fiat mihi”), a sua volta intimamente legato alla disposizione alla collaborazione alla creazione. Entro la quale la Donna è decisamente modello e guida per l’essere umano in generale, specie sul piano religioso.
Il che sottolinea poi ancora una volta il valore ontologico fondamentale della sposa. In particolare si tratta della consapevolezza del fatto che la creazione umana ha indispensabilmente bisogno di un “plus” divino-trascendente, in assenza del quale il creatore appena naturale è del tutto impotente e sterile.
Ma oltre a ciò è necessario conformarsi ad un particolare aspetto dell’ascosità (che trova la sua piena realizzazione appunto nelle cattedrali), e cioè l’accettazione del fatto che, nel contesto di tale creazione, Dio resta comunque nascosto nonostante la Sua manifestazione. Tanto che Egli stesso accetta di restare nascosto alla propria creazione, affermando così il massimo dell’umiltà.
E sta di fatto che solo la Donna è capace di un simile genere di creazione, specie in quanto nascosta (anonima) creatrice.
Qui ritroviamo nuovamente le virtù tipiche della sposa dell’uomo e anche nello stesso tempo sposa di Cristo. Il che sottolinea il fatto che solo per suo mezzo (per mezzo dell’anima collaborazione) l’uomo riesce a toccare la Totalità dell’essere. Cosa che di nuovo sottolinea la natura inevitabilmente religiosa della Donna. In particolare avviene che solo nel contesto della sua opera lo sguardo dell’uomo viene sviato dalla propria creazione verso la creazione di Dio (che è in verità il solo e vero creatore)
Ebbene secondo l’autrice il misconoscimento di tutto ciò è tipico della modernità, con tutta la sua decadenza (consistente nella separazione tra uomo e Dio), in quanto mera “civilizzazione” e non vera cultura. Nel cui contesto prevalgono non a caso unicamente le grandi personalità dei creatori nel contesto di quel protagonismo dell’artista che giustamente anche Coomaraswamy ha criticato. Si tratta insomma della valorizzazione del solo talento, entro una cultura che è fatalmente “volente sé stessa” e quindi resta relegata entro in confini angusti del tempo e della storia (aldiquà). Per questo essa resta chiusa ermeticamente verso l’eternità e verso l’aldilà. Ecco che qui il mysterium caritatis viene massimamente mortificato.
In tale contesto si affermano allora inevitabilmente solo gli unilaterali valori maschili. E non è un caso che in esso si manifestino i fenomeni (e relativi valori morali) che sono diametralmente opposti alla collaborazione tra maschile e femminile: − tradimento, infedeltà e divorzio (rigetto della sposa). Si tratta in particolare di una “separazione spirituale” entro la quale si affermano la solitudine, l’isolamento del singolo e l’individualismo.
Ebbene, per Le Fort questi sono tutti fenomeni apocalittici, e quindi esprimono la “fine del mondo” (sebbene sotto l’aspetto specifico del tracollo di una civiltà). Il fenomeno di fondo di tutto ciò è comunque l’assolutizzazione della parte rispetto al tutto.
Rispetto a tutto questo Maria costituisce per lei ancora una volta un potente antidoto. Specie in quanto superamento dell’unilateralità e restaurazione della Totalità voluta da Dio: − uomo + donna.
In tale contesto soprattutto il maschile tende a sacrificare l’esistere del nascosto (“forze nascoste”) a quello del mero nudo visibile, che a sua volta corrisponde alla metà misconosciuta dell’Essere. Ed è proprio sotto questo segno che si compie il ripudio maschile della sposa (sia in termini metaforici che letterali). Con ciò avviene però anche il rigetto del mysterium caritatis. L’autrice ammette però che questo oggi vede innegabilmente anche una corresponsabilità femminile. Il che chiama di nuovo decisamente in causa il Femminismo.
Ma intanto Le Fort afferma che un aspetto di tale corresponsabilità (e quindi anche della critica femminista alla famiglia) è comunque positivo, dato che la crisi familiare è stata dovuta anche alla borghesizzazione della famiglia, a sua volta connessa allo svuotamento di qualunque senso religioso di essa. Ciò è avvenuto in particolare nel senso dell’affidamento alla famiglia di un ruolo meramente biologico. La critica femminista a tutto ciò è quindi in principio giustificata. Se non fosse che, secondo l’autrice, essa si è dedicata a riformare appena la superficie dell’edificio e non invece le fondamenta. Laddove questa dimensione superficiale consiste nell’interessarsi della sola questione sociale, e non invece dell’essenza femminile nel contesto dell’ordine dell’essere.
Ma intanto tale presa di posizione corrisponde inoltre alla postulazione di un Femminile trascendente oggettivo (Sophia o Donna divina) entro il pensiero tradizionale; del quale abbiamo già commentato la valenza fortemente riduttiva. In ogni caso, prescindendo da questo riduzionismo, va considerato che (come sottolinea Le Fort) il Femminile è autentico solo se si fa portatore della sua tipica dimensione simbolica, che poi si riassume tutta nel velo.
L’autrice sottolinea comunque il fatto che, non trovando oggettivamente un posto nel sociale, la Donna ha continuato comunque a cercare un suo posto (come da sempre) entro l’ordine dell’essere. Ed anche questo (oltre all’accento posto solo sul sociale) va considerato un aspetto del fallimento del Femminismo.
Esso infatti non ha saputo cogliere la portata sostanzialmente positiva che ha perfino la rinuncia delle donne alla lotta per l’emancipazione. Essa corrisponde infatti ad una tendenza che scaturisce dal riconoscere in sé stesse (anche se in modo vago e confuso) la propria più intima ed autentica natura.
Non a caso, dice Le Fort, proprio per questo la Donna ha continuato a restare sempre intimamente unita alla dimensione religiosa e cosmica.
Eppure, pur ammesso questo, resta il fenomeno tutto moderno (e degenerativo) del dissolversi della “comunità essenziale” (“Wesensgemeinschaft”) un tempo esistente tra uomo e donna. In luogo di quest’ultima si è affermata infatti una mera “organizzazione”, entro la quale la reciprocità (tutta spirituale) è stata sostituita dalla realtà giuridica e commerciale del contratto di scambio. Qui prevale insomma la dimensione del mero “accanto”, che è poi l’aspetto più superficiale e deteriore della Donna come compagna. E, almeno a mio avviso, non vi è dubbio che proprio da qui scaturiscono le attuali aberrazioni della legislazione che concerne il divorzio, che è oggettivamente tutta a sfavore del maschio.
Ebbene, Le Fort sottolinea a tale proposito che un decisivo aspetto sociale e di costume di tutto ciò è stato l’affermarsi della “lotta tra i sessi”. Secondo lei, però, è ingiusto attribuire la responsabilità di questo al solo Femminismo, dato che a tale fenomeno hanno contribuito anche le famigerate “leghe maschili”.
Ma soprattutto il fenomeno è espressione di qualcosa di più profondo, ossia della degenerazione sociale, causata a sua volta soprattutto dalla separazione uomo-Dio. In tal contesto, comunque, quella che era una forma di grande libertà femminile (ossia quella fondamentale relazione solo con Dio che le consentiva perfino di restare in qualche modo “sottomessa” all’uomo nella dedizione) ha finito per diventare mera dipendenza dall’uomo. Si tratta in principio dell’irrigidimento del mysterium caritatis. Ma tale fenomeno ha aspetti controversi e perfino opposti, includendo addirittura anche il fenomeno tutto femminista della mascolinizzazione della donna. Oltre ai fenomeni dello sprofondamento della donna nel mondo dei sensi, ossia nel piacere. E con ciò collimano ancora una volta vari aspetti etici negativi del naufragio dell’amore, del matrimonio e del comportamento sessuale che ho già prima descritto. E tutto ciò evidenzia in definitiva il totale spegnimento del mysterium caritatis e l’insterilimento di ogni dimensione produttiva e creativa.
Le Fort sottolinea che intanto, sullo sfondo di tutto ciò, è venuta a mancare soprattutto la possibilità e capacità della Donna di essere metà. E non vi è dubbio che il Femminismo ha contribuito fortemente a questo sviluppando la dimensione femminile in maniera diametralmente opposta a quella maschile (con il relativo conflitto).
Orbene la via di uscita a tutto ciò sta per lei nel recupero di una dimensione polivalente (e non invece bio-socio-unilaterale) del Femminile, ossia quella dimensione triplice (rivelazione femminile) che è vergine-sposa-madre. Solo grazie ad essa, infatti, il Femminile resta in grado di rinviare alla Totalità nella relazione con il maschile. In particolare si tratta della Totalità femminile che spinge anche il maschile verso la Totalità.
E qui l’elemento chiave è ancora una volta Maria come modello del femminile. Esso infatti esclude per definizione l’unilateralità femminile, e con essa la dimensione unicamente biologica e naturale del Femminile stesso, a sua volta riscattata dalla dimensione religiosa di esso. Nella prima infatti femminile e maschile sono irrevocabilmente separati. Mentre nella seconda essi sono irrevocabilmente uniti. Infatti proprio la Totalità del femminile implica inevitabilmente anche l’unione al maschile. E si delinea pertanto una Totalità del compito: − vergine-sposa-madre. In particolare assume qui speciale rilievo la dimensione della sposa che è sempre anche “compagna” dell’uomo in senso non solo fattuale ma soprattutto spirituale: − compagna dello spirito maschile. E proprio come tale essa è per davvero pienamente metà dell’Essere.
Ebbene ancora una volta in questo senso va rivisto e corretto il ruolo secondario che nel pensiero tradizionale il Femminile avrebbe al cospetto di uno Spirito da considerare come unicamente maschile.
Ecco allora che, in verità, la rigida separazione ontologica tra spirito (maschile) ed anima-corpo (femminile) appare non avere alcun senso.
L’aspetto deteriore della dimensione della compagna è comunque quella dell’”accanto”, ma solo se inteso in senso riduttivo. Mentre è di certo assolutamente deteriore la dimensione del “davanti” (della donna verso l’uomo).
A tale proposito Le Fort sottolinea comunque le ragioni storiche oggettive che il Femminismo ha avuto nel denunciare l’esclusione della donna specie nel campo dell’impegno o lavoro. Ma intanto sottolinea anche che l’impegno più congeniale (ed anche esemplare per l’uomo) della Donna è in verità quello di amare Dio; il che implica poi un “si” (“fiat mihi”) che a sua volta è alla radice della creatività basata sulla dedizione amorosa. Pertanto la rivendicazione dell’emancipazione non rappresenta in tale contesto alcuna vera soluzione. Specie in quanto essa non tiene affatto conto della natura femminile, nel mentre afferma appena una mascolinizzazione della donna ovvero la famosa parità dei sessi. Dunque per questa via la Donna finisce per non assumere il grandioso compito storico che oggi le compete di diritto, ossia la ri-affermazione della creatività entro l’ordine divino restaurato. L’avvento di una nuova epoca ispirata a questo principio corrisponde per Le Fort a null’altro che al ripristino del mysterium caritatis: − portato dalla Donna ma intanto valido per l’uomo e per l’intero mondo.
Tuttavia per lei è un fatto che, nel contesto della modernità, quest’ultimo è stato largamente tradito. E ciò è avvenuto a causa di quella negazione del vero significato simbolico della Donna (tutto racchiuso nel “si” o “fiat mihi”) ad opera sia della hybris maschile (valori dell’auto-affermazione) sia della hybris femminile (Femminismo). Ma ancora una volta sullo sfondo di tale negazione vi è il fenomeno ben più ampio e profondo (metafisico-religioso più che sociale) della separazione uomo-Dio; la quale a sua volta dipende vitalmente proprio dal “si”. E proprio questo ha comportato per l’autrice una profonda distorsione della stessa prospettiva apocalittica, con una connessa visione negativa di Dio (inteso principalmente come vendicatore). In particolare ella sottolinea qui di nuovo che l’apocalissi più tangibile è in verità quella attuale e storica (tramonto e degenerazione delle singole culture) e non quella davvero finale. E proprio in tal contesto ella si produce in una critica serrata della scienza (fondamentalmente maschile) in quanto inevitabilmente distruttiva. In particolare si manifesta qui in maniera più drammatica l’esclusione della dimensione femminile per mezzo di un mondo votato alla distruzione per esaurimento ossia per sterilità; specie in quanto deprivato della creatività femminile. Ma di nuovo è proprio in tal modo che (sebbene in negativo) il Femminile si manifesta in tutto il suo valore in quanto “pilastro invisibile” dell’essere, ossia vero e proprio Fondamento dell’essere.
Tuttavia è nuovamente Maria colei che corregge tale prospettiva. In quanto ella mette a nudo la dimensione religiosa di questa disposizione e natura femminile, dato che il vero Fondamento dell’essere è Dio. E quindi, grazie al suo apporto (unito alla ri-valorizzazione del Femminile), ci viene rivelato che esistono delle forze nascoste che alimentano l’essere; e che esse intervengono quando il mondo è giunto all’esaurimento totale delle proprie forze creative (aiuto divino). Si tratta insomma del profondo rinnovamento del mondo che viene operato dallo Spirito.

II-4 La Donna atemporale (la madre).
Giungiamo così alla terza ed ultima parte del testo lefortiano, che discute la “Donna atemporale” (“Die zeitlose Frau”, p. 97-157). Si tratta in particolare della madre.
La tesi generale di questa sezione sta nell’idea che il culmine della femminilità viene raggiunto nella madre (o meglio la donna materna, ossia la Donna in possesso di un’autentica attitudine materna), e ciò a causa del fatto che il tempo non la tocca affatto. Essa insomma è eterna e atemporale per definizione. E lo è peraltro sul piano immanente, e quindi naturale e storico. Il che rappresenta un fenomeno del tutto portentoso, ossia una sorta di miracolo naturale.
Quindi appare qui del tutto evidente che compito imprescindibile della Donna è quello di essere madre.
Il che però non significa affatto appena avere dei figli propri (maternità biologica), bensì molto più prendersi cura di tutti i piccoli, deboli e indifesi.
Le Fort menziona al proposito quello che deve essere stato un dibattito del suo tempo circa il diritto e appello alla maternità (“Ruf nach der Mutter”). Che però non è ben chiaro cosa sia stato effettivamente (argomento femminista?; tematica para-nazista della maternità biologica per l’etnia tedesca?; appello alla ripopolazione in risposta al fenomeno della de-natalità?; tematizzazione post-bellica della tragedia delle donne con poche speranze di trovare un marito?; rivendicazione del diritto ad una normale e fisiologica sessualità femminile?). In ogni caso, comunque, più avanti ella porrà esplicitamente in discussione l’appropriatezza del concetto di “diritto” applicato alla maternità. Intanto ella però sottolinea il fatto positivo che, in tale contesto, è rappresentato dalla tematizzazione dell’essenza femminile in relazione alla maternità (laddove quest’ultima non viene più riconosciuta come una sorta di ovvietà meccanica, ma invece come qualcosa che è sottomesso a condizionamenti specialmente storici). Proprio a tale proposito ella sottolinea tuttavia che la Donna in quanto madre è atemporale per definizione, e quindi rappresenta qualcosa di largamente indipendente dai fenomeni storici. E il non riconoscerlo (come poteva avvenire entro il dibattito al quale ella fa riferimento) può per lei essere fonte di gravi malintesi.
Uno di questi è proprio quello costituito dalla tendenza a slegare la condizione femminile dalla maternità, considerando così quest’ultima come affatto essenziale per la donna. Siamo insomma di nuovo di fronte ad una delle più tipiche ed aggressive rivendicazioni del Femminismo (che negli anni ’60-’70 del XX secolo si riassunse nello slogan «Il corpo è mio e per esso decido io»).
In termini più propriamente filosofici si tratta però del fatto che la temporalità (tempo, attualità sociale) non ha in verità alcun potere sulla Donna in quanto la maternità è “compito della donna per eccellenza”.
Ne consegue che la Donna non può essere davvero tale se oltre che sposa non è anche madre.
Proprio per questo la donna-in-quanto-madre è atemporale e perfino eterna. Il che poi significa che essa è assoluta, e quindi è indiscutibile e soprattutto incondizionata. Non solo. Ma solo la madre è Donna atemporale, mentre non lo sono ancora affatto la vergine (obbligata all’attesa) e la sposa (condizionata dallo stato maritale). In particolare, in quanto resta sempre la stessa nel tempo, la donna-madre è l’infinito terreno stesso, e quindi equivale alla stessa Vita (ossia alla madre-terra o anche madre-natura).
Ed in questo senso essa rappresenta (almeno in un certo senso) anche senz’altro il Femminile più elementare e basico.
Ma proprio per questo essa è sacra per definizione ed anche autonoma. Così costituisce un oggetto intangibile che deve essere fatto segno di incondizionato rispetto e venerazione. Il che comporta poi la sacralità della Vita stessa ed inoltre nuovamente la dimensione religiosa della Donna, che qui (specie per mezzo del Bambino) è tramite tra uomo e Dio. E devo qui ricordare le fondamentali riflessioni svolte da Edith Stein sul mistero del Natale [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988]. In particolare infatti la pensatrice sostenne che il Bambino Gesù (il frutto della maternità) rappresenta tangibilmente (davvero in carne ed ossa) l’”incarnazione” divina (Menschenswerdung) ma nello stesso tempo anche tutta la serie di eventi provvisoriamente negativi (Croce, ossia dolore inevitabilmente comportato dalla sequela di Gesù) che contrassegnano l’accoglimento umano di Dio nella propria vita preludendo così alla Resurrezione. In altre parole Presepe (Bambino) e Croce sono una sola cosa, ma lo sono solo nella prospettiva difficile ma positiva della Resurrezione.
Tutto ciò comporta comunque ancora nuovamente la dimensione del mistero. Ed ecco che di nuovo qui si ripresenta il velo come realtà che accompagna tutti i fenomeni della maternità così come tutti gli aspetti propri della Donna. E a tale proposito Le Fort rivendica la necessità del silenzio da osservare rispetto alla maternità, sottraendola così ad ogni tematizzazione letteraria ed anche allo stesso così chiassoso dibattito sul diritto alla maternità. E questo include per lei anche tutto lo spazio di discussione che usualmente sussiste rispetto al matrimonio in crisi.
Più in generale però si tratta con ciò dell’irruzione del tempo nella dimensione della maternità. Come avviene anche nella medicalizzazione (ginecologia) di tale condizione, a sua volta espressione del fenomeno tutto moderno e dissacratorio dello sforzo per irretire quelle forze della Natura che invece nella maternità (nonostante la sua dimensione sacra) trovano piena espressione. Di nuovo qui Le Fort si produce qui in una forte critica alla scienza.
In termini filosofici ella contrappone a questa chiassosa tematizzazione (domanda di maternità, diritto alla maternità) l’atto del “discendere” (“hinabsteigen”) verso la madre. Sebbene non sia ben chiaro cosa ella intenda con questo.
Intanto comunque ella sottolinea nuovamente il silenzio che va osservato verso la maternità, facendo notare che non a caso la tragedia (così come anche l’arte plastica) non si è di fatto mai occupata della madre. Il che poi sottolinea tra l’altro la natura per definizione “impersonale” della madre, che va poi a raccordarsi con la già discussa fondamentale impersonalità della Donna specie in relazione alla generazione. E qui in particolare (specie nell’amore incondizionato ed eroico che la madre nutre per il figlio) la dimensione personale si rivela nuovamente (sebbene paradossalmente) contraria ai valori del sacrificio, dell’oblio di sé e dell’oscurità (sempre silenzio) che caratterizzano essenzialmente la maternità. L’autrice ci fa comunque notare che, diversamente dalla tragedia e dalla plastica, invece nell’arte popolare (favole, saghe, canzoni) la madre è stata sempre tematizzata, e specie molto in relazione con i temi della Natura.
Tuttavia ella sottolinea come sostanzialmente positivo anche perfino il significativo fenomeno della presenza della madre negativa in certa tragedia (Medea etc). Questo per lei sta infatti a indicare che l’essenza della maternità non è affatto biologica (e quindi istintuale) ma è invece etica in senso volontario, ossia implica una scelta. Il che significa poi che non tutte le donne sono in grado di essere madri, oppure al massimo possono impersonare il ruolo della sola “madre biologica” (“leibliche Mutter”). La vera natura della madre è invece in principio sacra, divina e sovrannaturale, come avviene paradigmaticamente nel caso di Maria, che quindi nuovamente si presenta come modello di femminilità anche in quanto madre.
E qui ella chiama a testimone Sigrid Undset con il suo romanzo dal titolo “Ida Elisabeth”. In esso in particolare emerge la natura della maternità in quanto cura dei deboli e indifesi. Ed inoltre emerge anche il fatto che è il figlio a generare la madre e non la madre a generare il figlio (insomma in verità è solo la presenza attuale di un figlio che fa della donna una madre, con tutti gli obblighi sacrificali che ciò comporta). Il che sottolinea poi il fatto che in verità (ben più fondamentalmente) è il mondo stesso ad aver bisogno di una madre; in quanto portatrice di quei valori della cura, in assenza dei quali il mondo fatalmente perisce o deperisce per sterilità. La maternità sta infatti alla radice della soddisfazione del bisogno che caratterizza anche l’azione della terra stessa (essa infatti nutre). E ciò comporta di nuovo tutta la serie dei valori dell’ascosità che sono propri della Donna ed anche della stessa terra in quanto materia.
Messe così le cose, la maternità influenza potentemente anche la stessa sponsalità, dato che inevitabilmente la sposa è anche madre del proprio uomo. Cosa che giunge fino al ruolo di vera e propria cirenea che la donna svolge a favore dell’uomo che porta la Croce, specie come ingiusta colpa, ingiustizia subita ed anche perfino fallimento esistenziale. E a tale proposito va sottolineato lo scandalo che affermazioni come queste certamente susciteranno sia nella femminista che nello psicanalista.
In ogni caso, mentre all’uomo spetta naturalmente il compito titanico di superare le resistenze della materia (forza maschile), alla Donna spetta naturalmente il compito di soddisfare i bisogni critici che questo compito comporta.
Ed ecco che in tutto questo si delinea chiaramente la figura chiave della “donna materna”, la cui attitudine principale non è solo la cura ma anche la stessa pietà o compassione. Questa attitudine rende assolutamente non femminile la tendenza di alcune donne alla critica ed al giudizio severo ed implacabile.
Ne consegue che la donna non è mai veramente tale se non è integralmente materna.
Un aspetto specifico della pietà propria della donna materna è quella di prendersi cura in particolare dell’essere umano colpito dal fallimento esistenziale. Si tratta di ciò che Le Fort definisce come “Fehlguß” (colata errata, ossia di fatto uomo nato sbagliato), ossia dell’ultimo degli ultimi, cioè colui che è venuto al mondo in forma errata e distorta, e quindi è lo sventurato per definizione. Ma intanto paradossalmente proprio la più fallita delle donne materne (ossia la vergine la cui attesa è andata delusa, cioè la monaca) è colei che è più chiamata a questo compito. A causa di questa opera della donna materna accade dunque che la “debolezza” (“Schwäche”) viene elevata a virtù principe per poter realmente conquistare il regno dei cieli. Ed ecco che nuovamente Maria diviene modello per la donna materna proprio in quanto “Madre di Misericordia”.
Ebbene, ritornando da ciò al modello della vergine-madre (monaca) − in quanto fallita nel suo desiderio di maternità −, emerge più che mai quanto il culmine della condizione di donna materna si abbia proprio nelle donne che non hanno avuto figli. Che poi sono in generale quelle che esercitano una funzione materna sostitutiva (donna parente, madrina di battesimo, educatrice…), oppure laddove la maternità è un lavoro (medico-donna, educatrice, insegnante, infermiera…). Ecco allora che questo genere di maternità si rivela costituire una “disposizione naturale” (“Naturanlage”) ancor più di quella biologica. Il che mostra che la madre biologica configura appena un abbozzo di autentica maternità, e quindi ancora una volta appare chiaro che non tutte le donne si rivelano capaci di essere madri. Si delinea quindi qui il supremo paradigma della donna materna e cioè quello della maternità spirituale. Ed a mio avviso ciò getta un luce davvero molto forte sul valore dell’atto di adozione.
Ma intanto con ciò il discorso sul diritto alla maternità viene definitivamente esautorato. Ecco allora che in verità “Non vi è alcun diritto della donna ad un bambino. Vi è invece solo il diritto del bambino ad una madre” (“Es gibt kein Recht der Frau aud ein Kind, sondern es gibt nur das Recht des Kindes auf eine Mutter”). Il che ancora una volta sottolinea l’importanza ed il valore dell’adozione.
Oltre a tutto ciò viene in tal modo allo scoperto un elemento che è di fondamentale importanza nel confronto con il Femminismo, ossia ancora una volta quello della “natura” femminile. Che Le Fort ritiene essere pienamente valido e vigente anche sul piano puramente spirituale. Il che significa quindi che non solo esiste effettivamente una «natura» femminile, ma essa va anche ben oltre i limiti che sono da assegnare a ciò che è meramente e bassamente «naturale» (ossia il biologico-animale), e quindi finisce per essere pienamente valida anche (e forse soprattutto) su un piano puramente spirituale. Che è poi la dimensione simbolica alla quale Le Fort raccorda la natura femminile.
Tutto ciò lascia per Le Fort emergere anche lo scottante tema del lavoro femminile, che per lei è altrettanto condizionato dalla pienezza della femminilità materna (e quindi ad esso secondario). Per cui è valido qui lo stesso principio affermato per il diritto alla maternità: − “Non vi al mondo alcun cosiddetto ‘diritto femminile’ al lavoro ed all’occupazione, ma vi è invece un diritto alla donna da parte del mondo in quanto bambino”.
Da questo la dimensione della donna materna si estende poi anche all’ambito collettivo e perfino politico, con il fenomeno della Regina (o reggente) come Madre del popolo. Con l’eccezione, però, della maternità negativa che si esprime nella donna che solo “vuole sé stessa” (Pompadour).
Di nuovo quindi emerge che il mondo ha bisogno di madre. Ed in generale emerge qui che la donna materna (ancor più che la Donna in generale) rappresenta il fattore critico per la creatività.
Ma da questo l’autrice passa poi alla discussione del ruolo della donna materna nella cultura. Ruolo che per lei appare basato su aspetti fondamentali della donna materna che sono ancora più elementari di quelli propri della Donna in generale. La donna è infatti per lei conservatrice per definizione, e quindi si presta più di chiunque altro a “supportare” (“tragen”) − cioè conservare, proteggere, difendere ed anche amare appassionatamente − i valori di una società. Il che ancora una volta si estende fino alla cura dello Stato (Regina o reggente).
Cosa che (come anche in altri aspetti) la porta a porsi al di sopra anche della sposa, la quale tende invece più a “spendere” (ossia a dissipare forze e risorse) che non a conservare.
L’esempio più elementare di tutto ciò si ritrova per lei nel ruolo critico che la donna materna esercita nello sviluppo del bambino (insegnamento di linguaggio e costumi).
Ed ovviamente più che mai è qui di importanza cruciale la serie dei valori legati all’attitudine all’ascosità.
I quali rendono la moderna donna dedita al piacere (“gaudente”) particolarmente inadatta ad essere una donna materna.
Al di sotto di questo ruolo culturale si delinea però un ruolo ancora più fondamentale ed elementare, che ancora una volta assimila la donna materna alla terra ed alla natura. Si tratta per la precisione di un ruolo religioso e sacro nella sua dimensione ultra-culturale. Esso è talmente possente e radicale da manifestarsi anche in tutti fenomeni connessi alla maternità naturale e biologica (parto etc.), dove vita e morte scaturiscono dall’eternità (nascita) per procedere come un’onda che infine ritorna all’eternità stessa (morte). Qui accade che l’eternità trapassa nel tempo, e proprio la donna materna ne è il tramite.
Si tratta insomma di una dimensione che più naturale non potrebbe essere. Ma sta di fatto che l’eternità è Dio stesso, e quindi si tratta in verità di un passaggio da Dio a Dio. E in tale contesto la donna materna assume di nuovo una valenza profondamente sacra e religiosa. Si tratta in verità della messa in contatto di Natura e Grazia, che vede proprio la donna materna come protagonista.
Ma Le Fort non manca di sottolineare che tale funzione si è fortemente indebolita in un mondo in cui la Donna è stata equiparata alla Natura proprio nel mentre però la Natura veniva sradicata dalla Grazia. E qui ella cita nuovamente Sigrid Undset con la sua Cristina (Kristin Lavranstochter), la quale ha sostenuto che la Donna-Natura perviene alla piena dimensione religiosa della maternità solo in quanto “cristiana” (“christin”), cioè arriva fino alla Chiesa.
Eccoci quindi alla santificazione della maternità da parte della Chiesa. Laddove viene per lei in fondo celebrata la Vita stessa. E qui vengono discussi tutti i temi dell’invito all’eroismo da parte della madre nel parto – specie nel preferire la vita del bambino alla propria.
L’autrice precisa che però in verità con ciò la Chiesa intende celebrare in questo la “Vita superiore”, ossia quella sacra e divina. Pertanto, entro tale in principio perfetta coordinazione tra Natura e Grazia (quale attitudine della donna materna) la Chiesa giunge infine a celebrare la madre addirittura anche più della vergine e della sposa. Dato che è propria della madre quella virtù dell’umiltà che la induce a non ribellarsi mai a Dio. Ecco che la dimensione di Natura della madre è sempre premessa per la Grazia. È in questo senso che la madre non solo è pronta a sacrificare la propria vita, ma inoltre è anche sempre pronta ad offrire il proprio bambino a Dio. Ella è insomma costantemente pronta a declinare qualunque titolo di possesso sul frutto delle proprie viscere.
E ciò avviene soprattutto nel Battesimo (in cui alla madre biologica del bambino si sostituisce la Chiesa come Madre spirituale), oltre che nell’educazione religiosa del bambino stesso.
In tutto ciò trionfano i valori dell’accoglienza e della rinuncia alla propria volontà, che ancora una volta trovano un modello in Maria e nel suo “si” (“fiat mihi”). In particolare si tratta dell’offrirsi della Donna come campo nel quale germoglia e cresce l’umano-divinità: − il figlio naturale diviene infatti figlio di Dio.
E a causa di ciò con la madre stanno naturalmente in relazione diverse figure del Rosario, ma in particolare quelle legate al dolore per quella perdita del Figlio che è sempre umile offerta. Non senza però che i misteri del dolore preludano a quelli della Resurrezione, e quindi della Gloria e della Gioia, che poi stanno poi in stretta relazione con l’atto di Assunzione di Maria al cielo. Atto con il quale non a caso ella diviene Madre di tutti gli uomini.
È su questa base che, secondo Le Fort, la virtù materna dell’accoglienza fa infine della madre una figura religiosa sacerdotale non inferiore a quella maschile. Ed inoltre in tal modo la donna materna si pone in relazione all’universalità della Chiesa e del Cristo. Ed è per questa via che la donna materna viene infine assimilata alla verginità di Maria (in quanto madre dell’uomo per eccellenza, Cristo), con la conseguenza che riassume in sé stessa (senza alcuna contraddizione) tutti gli aspetti della vita femminile esattamente come accade in Maria.
Con ciò, insomma, la maternità è destinata a venire costantemente riassorbita nella verginità. Il che significa che la maternità rientra sostanzialmente nell’ordine della vita femminile che è stato voluto da Dio e prevede quindi le due congiunte realtà di vergine e madre. E con questo viene restaurata l’”immagine eterna” (“Ewiges Bild”) della Donna (Donna Eterna).
In tal modo (e non senza l’intermediazione di Maria) viene dunque per sempre superata (in un ordine superiore) quella tragicità naturale della verginità, che è poi anche della madre stessa. Il che avviene attraverso la virtù mariana della totale disponibilità a Dio (ancilla Domini). Che è poi anche l’eleggere a propria missione la stessa missione accettata incondizionatamente da Maria. È proprio in tal modo che si può davvero affermare che la salvezza proviene dalla Donna. Dato che tale attitudine è esemplare per l’intero genere umano, ossia afferma il valore primario della relazione con Dio. Prospettiva che è poi anche apocalittica perché salva il mondo dalla Caduta, ed ancor più il mondo moderno che si è separato tragicamente da Dio.
Ma, per mezzo dell’intermediazione di Maria, oltre che vergine la madre è anche sposa, e precisamente “sposa dello Spirito” proprio in quanto sposa dell’uomo, e quindi impegnata con lui nella collaborazione alla creazione. Cosa che implica in una certa misura anche l’accettazione dell’uomo come “capo” (sottomissione), dato che Cristo stesso è Capo del Corpo (vedi testo).
Ebbene è per mezzo di tutto questo che la donna materna partecipa all’opera di salvezza del mondo.
In sintesi possiamo quindi dire che, entro la visione di Le Fort, in un certo senso la madre svetta decisamente sulla vergine e sulla sposa. Tuttavia (specie per mezzo del modello di Maria) essa finisce per venire ridotta sia all’una che all’altra. Ed è così, allora, che si ricostituisce quella perfetta “triplice rivelazione” della Donna (o anche Totalità femminile) che include vergine, sposa e madre senza che nessuna di queste dimensioni venga esclusa o assuma un valore secondario.

III- Conclusioni.
Ebbene, in via di principio alla fine di questa esposizione e commento del testo di Le Fort non ci sarebbe da aggiungere più nulla. Mi sembra infatti di aver assolto al compito molto limitato di offrire al lettore una sintesi di quest’opera che potrebbe anche dispensarlo dal leggere integralmente il testo.
Tuttavia mi sembra che comunque almeno una considerazione conclusiva molto generale meriti di essere fatta.
In particolare infatti ci si può chiedere quale ruolo e senso può avere la lettura di un’opera come questa in un mondo in cui l’ultima cosa che passa per la testa di una donna (giovane o attempata che sia) è quello di conformarsi al modello di Maria Vergine; oltre che di conformarsi ad un’ipotetica «natura» femminile che non solo è eterna ma è anche normante (cioè impone degli obblighi ben precisi). Ma a questo punto sorge la questione del se (aldilà di tutte le possibili sottili discussioni che si possono fare, e di tutte le relative rivendicazioni) l’obiettivo della donna moderna sia o meno per davvero quello di essere fedele alla propria natura. Laddove è chiaro che, se invece così non è, essa fallisce oggettivamente nell’essere ciò che è.
Il che porterebbe poi ad estendere anche alla donna (femmina) un’esortazione alla quale da sempre gli uomini (maschi) si sentono visceralmente vincolati, fino al punto di vergognarsi profondamente se non la seguono. Insomma oltre ad un «Fai l’uomo!» dovrebbe esistere anche un «Fai la donna!».
Ma intanto è anche chiaro che ciò trova un ostacolo ormai davvero possente nella pressoché totale dissoluzione dell’identità sessuale che intanto si va affermando
Orbene si può pensare che quest’obiettivo sia ancora davvero attuale per la donna?
Sinceramente sono portato a dubitarne visto che, nel corso del tempo e con il succedersi delle generazioni, si è sempre più affievolita la percezione di quella che è per davvero la natura femminile. Oggi infatti le donne (anche se non più giovani) ritengono un vero e proprio imperativo morale quello di realizzarsi come persona (ad esempio nel lavoro o nella politica), ed inoltre ritengono il piacere materiale e sensibile come un obiettivo assolutamente imprescindibile. E quindi pongono in cima ad ogni loro valore e desiderio quello di occupare un ruolo di rilievo nella società, specie nel campo del lavoro, ed inoltre di vivere la vita realizzando incondizionatamente il loro desiderio di piacere. Oltre a ciò, specie presso le ultime generazioni susciterebbe il riso o almeno lo stupore non solo l’idea che una donna si possa realizzare solo nella maternità e nella sponsalità (sia pure collateralmente all’esercizio di una professione), ma ancor più l’idea che tale realizzazione addirittura trovi il suo paradigma in una dimensione religiosa (com’è quella di Maria).
Eppure Gertrud von Le Fort non sembra avere alcun dubbio nell’indicare alle donne questi due obiettivi come quelli al di fuori dei quali la donna semplicemente cessa di essere tale, ma inoltre anche come quelli seguendo i quali la donna conquista per davvero l’immensa dignità che le spetta di diritto.
Che dire allora?
Che questa è un’opera semplicemente superata dai tempi e quindi affatto più valida? Che l’autrice è in fondo vittima di un condizionamento religioso che l’ha portata ad ignorare o almeno travisare profondamente quelli che sono i reali obiettivi di vita delle donne moderne? Che addirittura la sua visione sarebbe vittima di una sorta di maschilismo truffaldinamente mascherato da affermazione della massima dignità femminile?
Sinceramente non saprei rispondere a queste domande. E quindi non mi resta che lasciare la risposta alle donne che eventualmente leggeranno questo mio scritto.
L’unica cosa che so e posso dire è che il discorso di Le Fort appare a me personalmente estremamente coerente (almeno nel contesto di una fede cristiano-cattolica davvero salda e profonda) e che quindi per questo possa venire considerato anche molto convincente. Ma è intanto evidente che ciò cozza stridentemente con il dominante spirito del tempo. Non mi resta allora che augurare (ovviamente non senza in tal modo essere io stesso inevitabilmente ideologico e quindi di parte) che la visione esposta da Le Fort ritorni a poter essere di aiuto alle donne moderne. E ciò potrebbe avvenire proprio sulla base della delusione che certamente anch’esse provano nei confronti di un percorso storico-culturale (entro il quale oggettivamente le aggressive rivendicazioni femministe hanno avuto un ruolo di primo piano) che non sembra aver poi prodotto i frutti promessi. Certamente infatti le donne hanno conquistato nella società uno spazio che prima non potevano nemmeno sognarsi. Certamente esse si sono conquistate un diritto al piacere che prima era addirittura infamante. E certamente è stato ormai definitivamente spazzato via (come innegabilmente ingiusto ed anche ridicolo) il pregiudizio che affermava la superiorità del maschile sul femminile. Ed inoltre è altrettanto certo che ciò è avvenuto per una via che senz’altro in molti aspetti diverge radicalmente da quella indicata da Le Fort.
Ma intanto sono sotto gli occhi di tutti quelli che sono stati i frutti reali ed ultimi di tutto questo.
La cosiddetta «donna in carriera» fa una fatica titanica nel ricoprire contemporaneamente il ruolo di madre e sposa. Le famiglie sono ormai costantemente minacciate da un profondo dissidio tra mariti e mogli, così che il divorzio è diventato la norma molto più del matrimonio e della stabile unione coniugale. Fenomeni come il tradimento del proprio partner sono diventati non solo diffusi ma anche quasi obbligatori in quanto normalizzati e addirittura considerati psicologicamente sani. Le giovani donne delle ultime generazioni non pensano più nemmeno minimamente a realizzarsi come spose e madri, ed inoltre sono ormai dedite a comportamenti sessuali sempre più devianti rispetto alla tradizionale norma. Fino al punto che la pura sessualità animale (unita a sua volta all’edonismo ed all’esibizionismo) ha preso decisamente il posto dell’amore di coppia. E peraltro ciò contraddice perfino non pochi capisaldi della dignità femminile così come nel tempo sono stati affermati dal Femminismo. È evidente inoltre che perfino molte giovani ragazze si sentono profondamente disorientate quando pensano alla loro femminilità in un contesto così instabile, distorto e fonte di continue amarezze e delusioni, se non di un vero e proprio sordo dolore che è ormai senza volto e senza nome, e quindi estremamente inquietante. Infine l’identità sessuale stessa viene ormai sempre più aggressivamente posta in discussione.
Ebbene, era davvero questo ciò che si voleva? È davvero questa la giustizia, la pienezza, la felicità, la certezza della dignità femminile e della sua realizzazione? Sinceramente non credo che sia così. E peraltro credo che non sia così proprio per molte donne.
Ed allora mi chiedo se non sarebbe necessario un profondo ripensamento del cammino finora compiuto dalle donne. Ebbene tanto l’opera di Le Fort sulla natura femminile tanto anche quella di Edith Stein (che purtroppo qui non ho potuto commentare) offrono alle donne moderne almeno uno dei tanti possibili supporti per poter operare questo ripensamento.
Perché dunque non approfittarne?

Il caso di Meister Eckhart è davvero emblematico dello stato attuale degli studi filosofico-religiosi. Uno stato che può venire definito almeno problematico, dato che entro tali studi vengono ormai sostenute le più bizzarre idee di religione e di esperienza religiosa. E questo fenomeno coinvolge tanto il moderno neo-nichilismo filosofico buddhista (del quale ho già parlato a proposito di Nishida Kitarō, in un post che comunque non era una lezione di filosofia) quanto anche il tenore fortemente immanentista e secolarista dell’attuale filosofia religiosa più in generale [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018].
Sono entrambi fenomeni abbastanza sconcertanti per l’uomo religioso, dato che in essi si accetta come evidenza il famoso fenomeno della «morte di Dio» mentre nello stesso tempo si dà per scontato che la secolarizzazione immanentizzante sarebbe ormai l’unico modo per vivere l’esperienza religiosa. E al di fuori di tali prospettive si tende a non voler vedere assolutamente altro. Secondo questi studi, insomma, l’esperienza religiosa dovrebbe oggi rassegnarsi a non essere più assolutamente quello che essa è stata fin dai primordii dell’umanità, e cioè rapporto della terra e dell’uomo con il cielo e con il Trascendente.
Nello stesso tempo, inoltre, sembra che si tenda a sostenere che, qualora non si ammetta questo, allora bisogna essere pronti a proclamare (coerentemente) la fine della religione. Infatti pare che la religione del Trascendente sia ormai divenuta insostenibile sul piano filosofico e teologico, a causa dei tremendi fatti storici che l’hanno sfidata e vinta ed a causa anche dello stato attuale delle conoscenze scientifiche.
Ed è davvero una strana presa di posizione, questa. È infatti un po’ come dire: − «Finiamo di uccidere ciò che è moribondo e poi non ci pensiamo più perché tanto di ciò che era vivo e vero noi ci costruiremo un feticcio»
Ebbene questa serie di prese di posizione ci ricorda molto da vicino quanto abbiamo visto commentando i “Dialoghi dell’Anticristo” di Solov’ëv (decima lezione). In altre parole (per quanto a qualcuno ciò possa apparire forse anche esagerato) sembra proprio che entro l’attuale filosofia religiosa parli una vera e propria voce demoniaca. Il cui scopo dichiarato appare essere infatti quello di allontanare per sempre l’uomo da Dio, una volta cancellata per sempre la dimensione trascendente di quest’ultimo. Ed inoltre viene proposto apertamente di sostituire l’adorazione di Dio con l’adorazione di un feticcio.
E si badi bene che ciò viene affermato da uomini che fregiano sé stessi del titolo di “teologo”.

Ma tant’é! Questo è quanto offrono oggi in generale gli studi filosofico-religiosi e si può trovare qualcosa di diverso solo in una nicchia molto ristretta. Quindi in qualche modo dobbiamo accontentarci di ciò che c’è. Bisogna però dire che fortunatamente esistono anche degli studi eckhartiani di tenore molto diverso, ed ai quali ci si può quindi riferire in una lettura del pensatore tedesco che sfugga al riduzionismo secolarista e nichilista [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014; Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014; Marco Vannini (a cura di), Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013; Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012].
In ogni caso, come oggetto di uno studio dell’attuale filosofia religiosa secolarista ed immanentista, mi sembrano particolarmente emblematici alcuni studi che sono stati condotti sulla prossimità tra Eckhart e il buddhismo zen professato in Giappone presso la scuola di Kyōto a partire dagli inizi del XX secolo.
Ne esaminerò a mo’ di esempio in particolare due [Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Raquel Bouso, “Action et contemplation: sur une lecture eckhartienne de Shizuteru Ueda”, Théologique, 20 (1-2) 2012, 313-339] Nel loro contesto viene esaltata al massimo la valenza secolarista, immanentista e nichilista del pensiero eckhartiano ed essa viene inoltre messa in relazione con una corrente di studi filosofico-teologici ermeneutici che è tutta occidentale (Schürmann, Caputo, Haas, Largier). E con quest’ultima siamo nel pieno di una teologia moderna, decisamente anti-metafisica, secondo la quale dovremmo ormai accontentarci della pura ed unilaterale immanenza mondana dell’esperienza religiosa.
Bene. Eckhart viene ricondotto da tali studi esattamente entro questa sfera di riflessione. Ma è proprio vero quanto sostengono i teorici di questa approssimazione? Insomma è proprio vero che Eckhart sia stato come questi studiosi ce lo presentano? Intanto gli studi alternativi che ho poc’anzi citato ci mostrano un quadro sensibilmente diverso. E quindi, a mio modesto avviso, la visione del pensatore renano fu tangibilmente diversa da come ci viene presentata nei due articoli che ora esamineremo. E le sue vere caratteristiche possono essere considerate le seguenti: – 1) decisamente fu un trascendentista anche se teorizzò l’umano-divinità in tutta la sua immanenza (come incontro di Dio nell’interiorità umana); 2) fu un sottile e sublime metafisico; 3) diede grande importanza alle opere di carità ma non pose mai il primato dell’azione sulla contemplazione né mai teorizzò una religiosità secolarista; 4) ebbe una concezione chiaramente apofatica di Dio (ponendo in evidenza la sua assoluta non determinazione e quindi relativa «negatività» ontologica), ma mai si sognò di porre una divinità così radicalmente negativa da giungere a considerarla un nulla, cioè una “vacuità”. Anzi a proposito di tale ultimo aspetto possiamo cogliere quello che è il nucleo più intimo del pensiero eckhartiano (almeno secondo gli Autori alternativi citati, specie secondo Vallin) – egli considerò Dio soprattutto alla stregua di un Intelletto in quanto purissima sostanza spirituale. E quindi ne pose chiaramente la «positività» ontologica, per quanto estremamente sottile, ossia tanto sottile quanto lo è l’Intelletto (sostanza «onto-intellettuale»). Egli insomma volle dire che Dio è un purissimo Spirito; e che quindi (nonostante la dinamicissima omni-presenza che lo reca a effondere continuamente verso il mondo) è quanto di più trascendente possa mai essere immaginato.
Bene. Chi tiene presente questi tratti fondamentali del pensiero eckhartiano non può che trovare assolutamente bizzarri (se non arbitrari, assurdi ed aberranti) i tratti che ad esso vengono invece attribuiti dagli studiosi della scuola di Kyōto e dai loro emuli occidentali. A me personalmente queste ultime sembrano le tipiche elucubrazioni da moderni e disinibiti pensatori, che appaiono venir prodotte al solo ed unico fine di farsi strada nel mondo accademico. Per cui molto spesso c’è una distanza incolmabile tra di esse e la realtà effettiva delle cose.
Ma vi è un ulteriore elemento che abbraccia tutti quelli esaminati finora – Eckhart fu senz’ombra di dubbio in primo luogo un platonico. Egli rientra infatti a pieno diritto entro l’ininterrotta linea di pensatori che prese origine dal Platone, passando poi per il neoplatonismo cristiano e spingendosi infine nel pieno del pensiero cristiano fino alla scuola di Cambridge R. [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344].
Si tratta di ciò di cui ho trattato in alcune precedenti lezioni. Dunque, se è così, com’è possibile che il pensiero eckhartiano rientri in una prospettiva immanentista, anti-trascendentista, secolarista, mondanista, unilateralmente azionista, anti-contemplativa e pragmatista, anti-metafisica ed infine addirittura nichilista? Non vi è dubbio che il pensatore renano sia stato un grande protagonista della teologia metafisica apofatica e quindi teologico-negativa (insieme specialmente a Dionigi l’Areopagita e forse allo stesso Plotino), rientrando così in una tradizione di pensiero con la quale la Chiesa cristiana ufficiale ebbe sempre problemi.
Ma può bastare questo per fare di lui addirittura un nichilista ed anti-teista, cioè un teorico ante litteram della “morte di Dio”? Gli articoli che esaminerò mostrano che in realtà ciò è possibile solo se il suo pensiero viene coartato, forzato e stiracchiato ben oltre i suoi effettivi limiti. Ma intanto l’ago della bilancia (entro questa tale d’atto critica degli attuali studi eckhartiani) resta uno ed uno solo: − Eckhart fu un platonista., con tutto ciò che questo significa. E, se c’è qualcosa di certo ed inamovibile nel platonismo, questo è il suo trascendentismo [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276].
In ogni caso ricordo al lettore che oggi è abbastanza comune il tentativo di ricondurre sotto la sinistra ed imbarazzante ombra nietzschiana i pensatori antichi che hanno sostenuto l’apofatismo o teologia negativa (e che non a caso quasi sempre furono dei platonici). Basti pensare al tentativo fatto in tal senso da Yannaras con Dionigi l’Areopagita [Christos Yannaras, On the absence and unknowability of God. Heidegger and the Areopagite, T & T Clark International, London New York 2005].

Quindi è da tutto questo che bisogna partire.
In effetti gli studi di Mieth, Sturlese e Vannini testimoniano in abbondanza la dimensione platonica del pensiero eckhartiano, anche se non si esprimono esplicitamente su tale aspetto. A questo vanno intanto aggiunti altri studi di tenore non propriamente filosofico, i quali invece si esprimono chiaramente in tal senso (Vallin). Sarebbe però intanto troppo lungo soffermarsi su questi studi per porre in evidenza il platonismo eckhartiano in tutte le sue specifiche caratteristiche. Per questo rimando quindi ad un mio specifico articolo sul tema [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016].
Partiamo comunque da questo e cioè dal fatto che Eckhart può avere senz’altro esposto una visione molto originale, ma è intanto altamente improbabile che ciò sia avvenuto nel senso sostenuto dagli studiosi della sua approssimazione al buddhismo zen.
Vediamo quindi cosa hanno da dire questi ultimi.
Gli autori esaminati (Vianello e Bouso) sostengono in generale la grande somiglianza tra la riflessione eckhartiana e quella del Buddhismo zen nipponico (scuola di Kyōto), rappresentato da pensatori come Ueda Shizuteru, lo stesso Nishida Kitarō, ed infine Nishitani Keiji. Tuttavia entrambi prendono onestamente atto anche della differenza che esiste tra i due tipi di riflessione. Cionondimeno essi presentano un’immagine del pensiero eckhartiano che sorprende non poco il pensatore di impronta filosofico-religiosa trascendentista e platonica.
In ogni caso va fatto notare che Vianello ha fondato a Venezia il Centro Studi Maytreia (replica italiana della scuola di Kyōto), e la Bouso menziona inoltre Amador del Vega quale fondatore di una simile scuola di pensiero in Spagna.

Partiamo da Vianello. Molto in generale egli sostiene che Plotino ed Eckhart sono i protagonisti occidentali di una vera e propria trattazione del Nulla (Assoluto divino in quanto Nulla). Tuttavia egli precisa anche che in fondo nel caso dell’Oriente (Buddhismo) nemmeno si può davvero parlare di nichilismo. Perché quest’ultimo ammette comunque almeno una pregressa e tradizionale onto-metafisica, e quindi ammette sia pure relativamente una concezione «positiva» dell’essere, per quanto ormai archiviata. Pertanto, dato che in Oriente non vi è alcuna onto-metafisica, nel suo contesto la negazione dell’essere coincide con l’affermazione totale e radicale del solo Nulla. Al contrario quella di Plotino ed Eckhart è da considerare come una metafisica ed un’onto-metafisica. Sul piano religioso essa dovrebbe quindi venire definita come una “mistica del nulla”. Cionondimeno sembra che quest’ultima possa comunque configurare un nichilismo.
Lo studioso dice questo perché ci racconta quanto fu dedotto dal pensatore Ueda Shizuteru. Il quale negli anni ’60 si recò a Marburg (presso Ernst Benz) per studiare i rapporti tra Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico. La descrizione dei dettagli degli studi di Ueda è estremamente ricca, e quindi devo rinviare gli interessati all’articolo (che peraltro sono pronto ad inviare a chi me lo richieda). E lo stesso vale per l’articolo della Bouso. Intanto mi limiterò a commentarne gli aspetti più importanti del primo scritto, e sintetizzerò il più possibile alcuni temi in esso trattai.
Ueda sostiene che il Dio con il quale Eckhart prevede l’unione intima (specie per mezzo dell’auto-nientificazione della creatura umana, ossia la rinuncia al proprio Ego) è di fatto quello stesso Uno-Dio plotiniano che è talmente trascendente da essere radicalmente sovra-essenziale, e quindi è un “nulla di tutto” [Giovanni Reale, Plotino come «Erma bifronte», in: Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, p. I-LXXX]. Come venne effettivamente previsto da Plotino, per mezzo del concetto di “aphairesis” (Reale), questo Dio ultra-trascendente può venire raggiunto solo attraverso una progressiva spoliazione di qualunque determinazione ontologica, ossia per mezzo di un estremo atto di “purificazione”. Ora, è plausibile che Eckhart abbia tenuto presente tale dottrina plotiniana nel teorizzare un supremo divino che certamente non può venire concepito per mezzo del letterale “teismo” – che prevede un «dio» (ontico e personale) invece di una non definita “deità” (“Gottheit”). Tuttavia è assolutamente assurdo sostenere che per questa via il pensatore tedesco abbia in tal modo teorizzato (specie per mezzo dell’atto di immersione umana nel Nulla divino) un radicale passaggio dall’Essere al Nulla, in seguito al quale (prendendo il Dio-Nulla come prototipo di ogni ente) si è costretti poi ad affermare la sostanziale nullità di tutte le cose. Questo è quanto teorizzato senz’altro dal Buddhismo.
Tuttavia ciò non può in alcun modo essere quanto teorizzato invece da un pensatore cristiano, il quale non solo non rinnegò mai l’ontologicità di Dio (come nel concetto di Incarnazione, a sua volta connesso a quello di una presenza reale del Dio vivo nel mondo) ma addirittura la affermò con una decisione ed una coerenza che forse non trovano eguali in tutto il pensiero cristiano. In altre parole, pur teorizzando chiaramente la radicale sovra-essenzialità di Dio (con tutta la relativa «negatività» ontologica che spetta a un Dio Trascendente che si rispetti), egli prese più che mai sul serio il concetto di Incarnazione. Il suo concetto di “nascita divina” implica infatti proprio questo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Per Ueda invece (almeno così come ci viene presentato da Vianello), proprio in relazione a questo, il pensiero eckhartiano (per quanto viene ammesso come ancora in parte teistico) sarebbe addirittura equiparabile al radicale nichilismo buddhista, e cioè alle teorie del “no-self” o anātman (radicale negazione della sostanza in ogni sua forma, inclusa quella della persona umana). Insomma Eckhart sarebbe stato il protagonista di una dottrina del “vuoto” che oltrepassa perfino l’”ontologia” stessa – dato che porre il vuoto implica farlo in maniera davvero estrema.
E questo mi sembra totalmente ingiustificato. Certamente Eckhart si oppose all’enticismo tomista – specie affermando che Dio non è affatto “un filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart…cit. p. 49-59 ; ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79] −, ma lo fece solo perché nello stesso tempo affermò la totale «onto-intellettualità» dell’Essere che è autentico Fondamento dell’ente, ossia affermò la radicale «onto-spiritualità» dell’essere giustificato dall’esistenza divina (si veda per questo la ventunesima lezione che ho dedicato allo Spirito). Ma questa è ancora ontologia senza nemmeno l’ombra di un dubbio.
Bisogna comunque precisare che Vianello modera queste sue estreme affermazioni sostenendo che in Occidente (Eckhart e Plotino) venne sostenuta in primo luogo una “mistica del nulla”, e cioè una dottrina della vacuità che aveva il senso principale di sostenere il percorso di unione a Dio. Intanto però egli dice anche che questa stessa mistica rientra pienamente nella stessa “méontologia” (negazione di ogni ontologia) che fu sostenuta in Oriente. Inoltre l’Autore aggiunge che in Occidente prevalse intanto sempre un’onto-metafisica (metafisica dell’essere) che risaliva fino a Parmenide. Il che spiegherebbe perché la radicale affermazione del nulla da parte di Eckhart rientrò in quella sparuta tradizione che sempre generò “scandalo” presso i pensatori ed i teologi. Anche questo però non ha alcun senso sulla base delle precisazioni che ho fatto poc’anzi. È vero, infatti, che il pensiero eckhartiano fu sempre così ardito da suscitare imbarazzo e sospetto, ma non per i motivi addotti dal Vianello.
Meno giustificate ancora sono quindi le conclusioni che l’Autore trae (concludendo circa il pensiero di Ueda). Egli prende infatti atto del progressivo affermarsi in Occidente (almeno da Nietzsche in poi e con acme in Heidegger) di una sempre più decisa affermazione del “Nulla” in quanto Essere. E ritiene quindi Plotino ed Eckhart tra i maggiori anticipatori di questa presa di posizione tutta moderna. Peraltro egli dà totalmente per buone le considerazioni nietzschiano-heideggeriane circa la necessità di prendere atto di un nichilismo storico (a sua volta prodotto del fallimento di qualunque espressa ontologia, inclusa quella scientifico-empirica) che non dovrebbe venire né negato né ostacolato. Infatti solo accettandolo e perfino impersonandolo sarebbe possibile reagire alla distruzione della Tradizione causata dalla Modernità. E solo su questa base poi sarebbe secondo Vianello possibile riformulare una religione (e relativa teologia) che ormai prenda pienamente atto della necessità di vivere il divino esclusivamente nella dimensione immanente. Insomma, esattamente come teorizzato da Heidegger, bisognerebbe rassegnarsi a prendere atto del fatto che la manifestazione divina nell’immanente cancella in un solo colpo il Dio Trascendente e l’Essere trascendente stesso; impedendo così di continuare a considerarli come punto di riferimento dell’uomo nel corso della sua esperienza religiosa. Ne consegue quindi la necessità di cancellare ogni onto-metafisica tanto filosofica quanto religiosa.
Ed abbiamo visto commentando Nishida Kitarō che ciò significa in definitiva una sola cosa, e cioè neopaganesimo, ossia abbandono del Cristianesimo.
Tutto questo è comunque quanto viene affermato effettivamente dal Buddhismo zen (specie dal maestro Joshū) nel sostenere che l’esistenza evidente della “rosa” è pienamente sufficiente a manifestare l’esistenza di Dio senza che sia nemmeno necessario né parlarne (religiosamente) né invocare Dio stesso quale “senso” dell’ente. La rosa esiste insomma totalmente “senza perché”. Ed esattamente così essa va considerata come espressione del divino. Secondo il Vianello questa fu anche l’idea di Eckhart (come l’Autore giustifica prendendo a modello una poesia di Silesius, che effettivamente fu un poeta e pensatore di ispirazione eckhartiana). Si tratta insomma della dottrina dell’”ohne warum” in quanto ontologia priva di qualunque sostegno trascendente; specie il sostegno costituito da un ben definito Dio Personale che sia creatore ed anche ordinatore razionale del caos mondano. Ora, è vero senz’altro che il pensatore renano sviluppò una dottrina denominata in questo modo (”ohne warum” delle cose) – il cui intento era quello di sottolineare la necessità di riconnettere continuamente l’ente a quella sua Origine che sconfinava nel Nulla apofatico divino [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, I, 5 p. 63-73, II, 10 p. 99-101, III, 13-14 p. 123-131, IV, 17 p. 163-170, V, 23 p. 230-231; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 5-13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79 ; Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 47 (Q 47), p. 664-673, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 14-17 p. 71-74, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125, II, 142-149 p. 231-237].
E ciò avviene sostanzialmente perché secondo Eckhart Dio non «è» ma semmai sempre solo «diviene», cioè si riversa costantemente fuori di sé stesso (secondo il modello trinitario) configurando un dinamismo dell’essere nel quale l’Origine è costantemente connessa al mondo ed all’uomo.
Tuttavia per Vianello questa non sarebbe invece altro che la teorizzazione della “morte di Dio”. Anche se egli ammette intanto che in Eckhart ciò non implica affatto l’affermazione dell’inesistenza di Dio, ma semmai invece appena la rinuncia alla sua definizione (apofatismo, o concezione negativa del divino trascendente). In questo senso il pensatore renano avrebbe postulato chiaramente un Dio-Nulla (in quanto Origine delle cose, ossia «Principio»), così come Plotino avrebbe postulato un Uno-Nulla. Il Vianello precisa però che questo non giunse mai alla postulazione di uno “zero” assoluto in quanto Principio delle cose (come accade nel Buddhismo).
Peraltro a tutto ciò si aggiunge (in una maniera a prima vista coerente) la teorizzazione eckhartiana di un atto di auto-annientamento della creatura umana che permette a Dio di essere un Nulla in maniera esponenzialmente maggiore, ossia arretrando rispetto al mondo in modo che esso possa esistere a fronte della sua Onnipotenza ed Omnipresenza.
Insomma tutto ciò sembra estremamente coerente, e quindi si sarebbe portati a credere che Eckhart si sia fatto davvero sostenitore di una sorta di un nichilismo purissimamente metafisico per molti aspetti molto simile a quello buddhista (per quanto comunque per certi versi diverso). E peraltro il nucleo di questa visione consisterebbe esattamente nell’accettazione del concetto di “morte di Dio”.
Ma il problema sta a mio avviso nella possibile portata etica che tale concetto assume immediatamente non appena esso cessa di costituire una sofisticata e cervellotica metafisica intellettualistica. Allora esso diviene infatti letterale, e quindi assume nell’orecchio dell’ascoltatore esattamente il senso recondito che ha − «Dio era una mera invenzione, e quindi, una volta smascherato, è ormami svanito. Dio non c’è più! Anzi non c’è mai stato!». Bene – pur volendo ammettere anche tutte le possibili assonanze tra il pensiero di Eckhart e quello buddhista (ma solo molto alla lontana e vagamente) – è assolutamente impossibile che il concetto di “morte di Dio” ne sia stato addirittura in nucleo. E il motivo sta nuovamente nei paraggi della dottrina dell’Incarnazione divina così come condivisa ed affermata con forza dal pensatore renano. Egli non avrebbe mai potuto condividere un nichilismo metafisico che così seriamente minaccia il concetto di Incarnazione. Proprio lui affermò infatti che l’uomo realmente distaccato dal mondo (e quindi puro) è in grado addirittura di “comandare” a Dio ingiungendogli di manifestarsi e di venirgli in soccorso [Meister Eckhart, Predica 12 (Q 14), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 171-181].
È evidente quindi che quelle del Vianello (e pertanto anche di Ueda) possono essere solo elucubrazioni personali, e peraltro pochissimo giustificate.

Ma veniamo ora all’articolo di Bouso.
Ebbene, questo studio è ancora più radicale del primo nel tentare di appaiare Eckhart (per mezzo dell’approssimazione al Buddhismo) a quella moderna teologia filosofica occidentale che sostiene una radicale secolarizzazione dell’esperienza religiosa incentrata nuovamente nel concetto di “morte di Dio” e quindi orientata a fondare addirittura una “religione senza religione” (ovviamente del tutto priva di metafisica). L’Autrice chiama peraltro in causa più direttamente gli interpreti occidentali dell’approssimazione Eckhart-Buddhismo che ho menzionato prima. In ogni caso il tema centrale dell’articolo è l’attribuzione al pensatore renano di una “teoria dell’azione” (del tutto simile a quella post-moderna), secondo la quale l’azione stessa sarebbe destinata a sostituire la contemplazione annientandola completamente. Si tratta insomma ancora una volta della sostituzione dell’immanente al Trascendente nel corso dell’esperienza religiosa e perfino della mistica. In particolare (come abbiamo visto a proposito della “rosa” di Joshū e di Silesius) il primato concesso alla sola azione diviene la giustificazione piena di una “vita senza perché”, ossia una vita spesa senza preoccuparsi minimamente del “senso”. E questo genere di vita avrebbe poi una valenza intensamente religiosa e perfino mistico-caritatevole. Costituirebbe insomma la stessa mistica pratica (incentrata nelle sole “opere”) della quale parlò Eckhart
Oltre a ciò (sulla base di tale concezione) la posizione di Eckhart viene notevolmente forzata e coartata nel tentare di ricondurla alla dottrina buddhista del distacco come pura azione pratica disinteressata e per questo anche compassionevole (sebbene affatto intenzionalmente); che è poi un’immanentizzazione e banalizzazione totale della vita contemplativa e religiosa. E questo è effettivamente quanto sostengono interpreti come John Caputo e Schürmann.
Inoltre viene qui sostenuto che l’apofatismo eckhartiano andrebbe ridotto unicamente ad una discesa verso il mondo (sullo sfondo dell’atto di auto-negazione dell’ego) quale fatale e triste conseguenza dell’incontro ascendente con un Dio deludentemente negativo e quindi rivelatosi del tutto vuoto.
In altre parole Eckhart avrebbe concepito la discesa verso il mondo nel mentre cancellava totalmente la Trascendenza divina.
Ma esaminiamo ora più da vicino alcune delle considerazioni della Bouso.
Innnanzitutto mi sembra piuttosto artificiosa la riconduzione di Eckhart e del Buddhismo alla tradizione di pensiero cristiana che avrebbe avvalorato la posizione di Marta a svantaggio di quella di Maria – così come esse emergono nei due episodi evangelici della visita di Gesù a Betania (Luca e Giovanni). L’Autrice fa peraltro una dettagliata storia delle varie interpretazioni dell’episodio che si sono succede dalla patristica greca e latina in poi, con l’attribuzione a Marta della “vita activa” ed a Maria della “vita contemplativa”. L’apprezzamento dei pensatori cristiani si sarebbe spostato progressivamente dalla seconda alla prima, e la Bouso menziona soprattutto Agostino come sostenitore del privilegio accordato alla sola vita contemplativa. Eckhart si porrebbe praticamente al termine di questo percorso, essendosi fatto deciso sostenitore della sola azione, e quindi di una mistica pratica incentrata sull’azione stessa.
Peraltro va notato che – nel mentre argomenta in questo senso − la Bouso ci lascia capire che, a rigor di logica, la passività di Maria incarna il “necessario” (quanto è davvero di valore) come invece l’azione di Marta non fa. Infatti Gesù rimprovera la seconda proprio per questo. E proprio questa precisazione rende non poco illogico e contraddittorio l’intero discorso, dato che esso in fondo punta proprio alla svalorizzazione della passività contemplativa di Maria. Pertanto l’episodio evangelico parla di fatto di per sé contro la teoria sostenuta dall’Autrice.
Tuttavia nemmeno questo basta perché il giudizio positivo di valore sull’azione appaierebbe il pensatore renano a quel Buddhismo zen (specie del maestro e patriarca Huineng), secondo il quale l’atto più banale e arbitrario possibile (tagliare una canna di bambù) esprimerebbe un’azione sacra che non solo svaluta la contemplazione ma addirittura la sostituisce nel mentre la incorpora in sé. E ciò ha peraltro a che fare con quella specifica radicale negazione zen della metafisica che si è sempre espressa nelle famose risposte senza senso a qualunque genere di domanda circa il senso e la causa delle cose. Siamo insomma nuovamente di fronte a quell’immanenza che non solo sostituisce la Trascendenza ma anche addirittura la supera in valore. Ed in tale immanenza (dell’unilaterale azione mondana) andrebbe vista la pienezza dell’esperienza religiosa così come sarebbe stata concepita da Eckhart in maniera estremamente somigliante agli insegnamenti della pratica zen.
Certamente viene ammesso che il discorso religioso è solo sottinteso nella dottrina zen, mentre invece è del tutto esplicito presso il pensatore renano. Ma comunque tale discorso porrebbe un Dio manifestato totalmente e definitivamente solo nel mondo. In tale maniera il mondo stesso sarebbe da considerare come ormai divenuto pienamente divino senza più alcun bisogno di un Trascendente divino che lo fondi e lo giustifichi come tale. In altre parole bisognerebbe ammettere che Dio ha trasfuso sé stesso totalmente nel mondo in modo da venirne ingoiato totalmente e svanire come presenza. Ecco insomma una rivalutazione del mondo (quale luogo di esperienza religiosa) da considerare definitiva e totale. Ed a questo sarebbe da ricondurre quel concetto eckhartiano di “nascita divina” che pertanto avrebbe un significato unicamente immanentistico e riduzionistico. Almeno sul piano religioso del pensiero eckhartiano tale riconduzione è quindi non meno astrusa, illogica e contraddittoria della complessiva riflessione su Marta e Maria.
In tutto questo consisterebbe comunque la “mistica pratica” postulata dal pensatore renano. Schürmann ha emblematicamente definito quest’ultima come “mistica intramondana”. Inoltre si tratta in generale di una “teologia umanistica” che avvalora il solo materiale nel mentre tende di equiparare la contemplazione con l’azione mondana. Sullo sfondo di tutto ciò vi è poi ovviamente la totale cancellazione di ogni metafisica. Il che (come ho detto commentando Vianello) è senz’altro vero per il Buddhismo. Ma non è vero in alcun modo per Eckhart.
La Bouso attribuisce inoltre al pensatore renano le stesse conseguenze nichilistiche della sua teologia negativa che abbiamo visto commentando il Vianello. Ma aggiunge a questo un ulteriore elemento di accostamento con il Buddhismo. Per lei infatti (sulla base degli studi della scuola di Kyōto) l’atto di auto-annientamento umano, quale premessa per l’unione a Dio, in definitiva altro non è se non l’unione con sé stesso da parte dell’uomo (tenendo conto della totale immanenza di Dio a causa del suo volontario traslarsi in interiore homine). E tale identificazione con sé stesso non è altro che il risultato al quale punta realmente la pratica buddhista della meditazione e dell’auto-consapevolezza come realizzazioni della «buddhità» in quanto umano-divinità. Si tratta insomma di un altro modo per cancellare totalmente la presenza divina in una prassi religiosa che avviene unicamente entro lo spazio dell’immanenza. Infatti a tale proposito l’insegnamento zen è molto categorico nel senso della sparizione totale di Dio dallo scenario: − «Se tu incontri il Buddha in te stesso, allora sei lui». Ancora una volta non può essere certamente questo ciò che Eckhart ha voluto dire nel teorizzare l’incontro interiore con Dio.
In ogni caso l’Autrice si sofferma ancora su questo nel tentare di darci una visione decisamente anti-contemplativa dell’atto umano di unione a Dio secondo il pensatore renano. Esso, infatti, sfuggirebbe totalmente al concetto metafisico di contemplazione come “theoria”, e cioè movimento filosofico e religioso (mistico) verso una Verità delle cose che risiede unicamente nel Trascendente. Tale atto punta di per sè unicamente al cielo, dimenticandosi così totalmente della terra. Ed in tal modo, afferma la Bouso, è stato in fondo sempre giustificato il controllo totale del mondo da parte dell’uomo. Cosa che poi comporta di fatto anche la negazione di tutto ciò che è «altro».
Ed invece Eckhart (solidalmente con il Buddhismo, specie secondo John Caputo) avrebbe sostenuto una contemplazione puramente attiva che può sussistere solo allorché (sfuggendo all’inconsistenza ed inconcludenza dell’atto ascensivo) nel tendere a Dio si tende a discendere e non invece ad ascendere. Precisamente è necessario volgersi al pratico, quotidiano e mondano nel contesto di un atto di amorevole relazione con le creature (nel Buddhismo la “compassione”) che però esige la totale accettazione del mondo (con tutto il suo tessuto di inesorabili leggi e relazioni causali ed umane). Ebbene, come può avere sostenuto questo un pensatore che concepì senza mezzi termini la totale identità tra dimensione sovrannaturale e naturale nel contesto della perfetta unità esistente tra Natura e Grazia? [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 1 p. 25-37].
Peraltro secondo l’Autrice (solidalmente con Caputo) tale dottrina (buddhista, ma valida anche per Eckhart) costituisce anche un’”etica” (sebbene assolutamente non “normativa”, e quindi non convenzionale) della totale rinuncia al proprio desiderio sia nel perseguire beni e piaceri sia anche (e soprattutto) nel volere che le cose del mondo vadano nel modo da esso desiderato. Ed il nucleo di tale dottrina sta precisamente nell’auto-negazione da parte dell’Io della propria realtà di sostanza, e quindi anche realtà di soggetto “intenzionale” che sempre avanza verso il mondo delle naturali aspettative. Il contrario di tale atteggiamento, dice la Bouso, è la libertà come illimitata apertura, nel senso di accettazione incondizionata degli eventi e degli altri così come essi sono. E tutto ciò, oltre ad essere buddhista, equivarrebbe anche alla dottrina eckhartiana dell’auto-negazione di sé stesso da parte dell’Io umano.
È evidente che in questo modo – oltre a negare qualunque volontarismo attivo − viene radicalmente negata anche la possibilità che l’uomo faccia appello alla Misericordia divina nel corso delle vicende della propria esistenza. Ma pur volendo tralasciare tale aspetto, cosa mai c’entra tutta questa passività (rinunciataria, fatalista e nichilista) con il cristiano attivo sforzo sovrumano d’amore verso l’altro quale impegno e compito accettati e sopportati con lo stesso spirito che è di Cristo sulla Croce?
È perfino inutile dire che, se per davvero Eckhart avesse sostenuto ciò che gli attribuiscono gli studiosi buddhisti, per davvero (in tempi molto diversi da quelli di oggi) il processo che subì si sarebbe concluso con la condanna al rogo. Ciò che gli studiosi buddhisti vogliono attribuire al pensatore renano rischia di cancellare dalla sua visione una buona fetta di contenuti autenticamente cristiani. E questo non può essere assolutamente Eckhart.
Comunque su questa base l’Autrice giunge alla conclusione che Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico avrebbero perseguito congiuntamente (sebbene da lontano nel tempo) un percorso che solo nell’estremo oggi è arrivato al suo compimento. Si tratta insomma delle stesse considerazioni generali fatte dal Vianello.
La dottrina è quella di una teologia filosofica planetaria (orientale e occidentale) che si concentra sulla modernità come “secolarizzazione”, caratterizzata a sua volta dalla “morte di Dio”. Il che implica poi quell’assenza di Dio (teismo e Dio Personale, entrambi surclassati dal Dio-Nulla) che permette di ri-valorizzare la sola vita attiva (unilaterale immanenza) come luogo di spiritualità. Per vivere religiosamente bisognerebbe insomma addirittura abbandonare il rapporto con il Trascendente. Eccoci, quindi, davanti al superamento della mistica (“non-mistica” secondo il concetto zen di “hishinpishugi”) in una “religione senza religione” − “…dans le monde moderne, la transcendance cède le pas à l’immanence”.
E tutto questo implica non più il distacco dal mondo ma semmai l’accettazione incondizionata del mondo, ossia esattamente quanto è stato sempre teorizzato dal Buddhismo.

Dopo aver visto tutto ciò, e dopo aver commentato alcuni aspetti più importanti delle argomentazioni dei due Autori, dobbiamo quindi constatare che tali studi eckhartiani centrati sul Buddhismo si differenziano moltissimo da quelli di natura diversa. Essi recano infatti ad un totale travisamento di Eckhart nel senso di una vera e propria inammissibile orientalizzazione e buddhistizzazione del suo pensiero.
Eclatante è ad esempio la già commentata teorizzazione di un incontro interiore umano con il solo sé stesso che addirittura sarebbe equivalente all’unione a Dio non solo nel Buddhismo ma anche presso il pensatore renano. Insomma così non solo si trascina forzosamente Eckhart dal lato nel nichilismo e dell’anti-teismo, ma addirittura lo si trascina dal lato dell’eresia anti-cristiana. Il che ha lo strano effetto di ottenere lo stesso risultato al quale puntarono i suoi detrattori intentandogli un processo per eresia la cui giustificazione non fu altra se non quella del suo intenso quanto indigeribile platonismo onto-intellettualista.
Con tutto questo non voglio affatto dire che non sia lecito accostare il pensiero eckhartiano ad una vasta serie di dottrine orientali. Questo è stato sostenuto anche da altri Autori − sebbene non con gli intenti riduzionistici di Vianello e Bouso – ed è senz’altro pienamente opinabile ed accettabile [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., V, 23 p. 223-234]. È stato insomma ampiamente riconosciuto che il pensiero di Eckhart si presta a venire collocato in un contesto fortemente “interculturale”.
Tuttavia è anche assolutamente inopinabile ed inaccettabile che Eckhart sia stato un pensatore simil-buddhista o anche solo immanentista, secolarista, nichilista, anti-metafisico ed anti-contemplativo.
Non a caso il suo discorso è stato accostato da Mieth (per mezzo di Peirce) ad una modalità di pensiero che sfugge totalmente all’usuale logica mondana nel tentativo di rendere possibile cogliere il più sublime ed alto divino-trascendente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., Einl. p. 13-16, I, 1 p. 25-37, I, 4-5 p. 56-73, V, 23 p. 223-233].
In ogni caso è assolutamente impossibile accettare che egli sia stato un pensatore della “morte di Dio” nel senso nietzschiano-nichilistico ed inoltre anche buddhista (cioè a-religioso o addirittura anti-religioso).
Del resto sostenere questo può essere giustificato quanto si vuole sul piano puramente filosofico-teologico, ma non potrà mai esserlo invece sul piano etico-religioso e quindi anche etico-filosofico ed etico-metafisico.

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Nella scorsa lezione ho già tentato di dare un’idea generale del platonismo prima ancora di porlo in relazione con la Gnosi. Quindi mi ritengo qui dispensato dall’entrare di nuovo nel merito degli aspetti generali di questa scuola di pensiero. Lo farò comunque di nuovo quando parlerò specificamente di Platone.
Ora però abbiamo davanti il compito di mettere in luce un aspetto molto specifico del platonismo, e cioè un suo aspetto chiaramente connesso alla filosofia metafisica, alla metafisica religiosa, alla religione ed alla mistica. Tale aspetto è quello della teologia negativa, detta anche apofatismo. Naturalmente ci troviamo con ciò su un piano molto lontano a quello sul quale si muove quello che può venire definito come il «platonismo contemporaneo». Abbiamo visto infatti che esso rigetta sdegnosamente l’idea che Platone sia stato un pensatore religioso. Per quanto, comunque, non pochi studiosi abbiano anche recentemente avvalorato tale interpretazione – e peraltro sia dal punto di vista non cristiano (o addirittura neopagano) sia dal punto di vista cristiano [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008; Giovanni Reale, Proclo di Costantinopoli ultimo grande esponente del pensiero greco-pagano, in: Giovanni Reale (a cura di), Proclo. Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, p. XIII-LIII; Paulina Remes, Neoplatonism, University of California Press, Berkeley Los Angeles 2008, Intr. 1 p 1-10; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011; Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 2010, p. 55-75; Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974, II, III/2, XII, 1 p. 657-686; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto platonico, , in: Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 1-25 p. 257-293; Roger Godel, Platone ad Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015; Frithjof Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3, p. .45-52, 5, p. 63-67; 6, 77-84; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, I, 3 p. 964-979; Werner Beierwaltes, Deus est Esse – Esse est Deus, in: Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2004, p. 3-9; Endre von Ivánka, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Johannes Verlag, Einsiedeln 1964; Endre von Ivánka, Plato Christianus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York 1960; Étienne Gilson, La filosofia nel medioevo, Rizzoli, Milano 2014, I, 5 p. 103].
Insomma vi sono molti argomenti per ritenere che la moderna interpretazione di Platone e del platonismo possa essere ampiamente ingiustificata. E su questa solida base mi muoverò quindi nelle mie considerazioni.
Per questo scopo esaminerò nuovamente i due scritti che ho commentato nella precedente lezione, e cioè quelli di Hadot e di Inge [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344]. Inoltre per alcuni altri aspetti rimando alla prossima lezione (ventiquattresima) nella quale parlerò degli studi che pongono in relazione il pensiero di Eckhart con il Buddhismo zen nipponico.
In tutta questa letteratura, infatti, viene preso in esame un aspetto del platonismo che non si presenta in maniera evidente presso Platone, ma assume invece una sua forma esplicita soltanto nel Neoplatonismo, ed in particolare in Plotino. Si tratta della concezione negativa di Dio che emerse entro una metafisica religiosa in cui si tendeva a sottolineare che l’Uno divino si trova illimitatamente al di sopra dell’essere, e quindi ad esso non può venire attribuita alcuna determinazione o anche qualità. Per questo, quindi, all’intelletto umano Dio appare come una sorta di vero e proprio Nulla. La tradizione filosofico-metafisica che scaturì da questa presa di posizione è stata sempre definita come teologia negativa o anche apofatica, ed è stata così contrapposta alla teologia positiva o anche catafatica. Naturalmente la preoccupazione che ha dominato questa presa di posizione è stata sempre (già dal Neoplatonismo pagano in poi) quella di chiarire le condizioni ed i limiti ai quali va sottomesso l’atto di ascesa che reca infine all’unione con Dio, ossia la cosiddetta unione mistica.
Ed in questo si è subito delineata una grande differenza tra Paganesimo e Cristianesimo.
Il Paganesimo, infatti, concepì questa ascesa come di natura squisitamente conoscitiva. Quindi la considerò come perfettamente alla portata dell’uomo nel corso della sua esistenza terrena ed inoltre di natura specificamente ascensiva (sulla base dello sforzo intellettuale di cui l’uomo per natura è capace). Hadot ha definito questo atto come “ascesa teoretica” (e quindi squisitamente filosofico) ed inoltre Friedländer ne ha riconosciuto la presenza già nel pensiero di Platone.
Il Cristianesimo, invece, ha in gran parte concepito questa ascesa come di natura squisitamente fideistica.
Quindi la considerò come in via di principio affatto alla portata dell’uomo nel corso della sua esistenza (e pertanto possibile per davvero solo dopo la morte fisica), e comunque realizzabile solo per via discensiva, ossia mediante l’offrirsi misericordioso di Dio stesso all’unione (Grazia). Emblematica è stata in questo senso la presa di posizione di Agostino [Giovanni Catapano, Agostino. La Trinità, Bompiani, Milano 2013, I, iv, 8, p. 27-29, II, 1, p. 96-99, IV, xv, 20, p. 291-293, IV, xviii, 24, p. 299-303, XIV, i, 1-3, p. 792-797].
Georges Vallin ha tentato di riassumere queste due prese di posizione, schierandosi però decisamente a favore dell’ascesa teoretica umana a Dio e quindi a favore della via per così dire “gnostica”, ossia conoscitivo-intellettuale e non fideistica [Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012].
Personalmente ho affrontato questo tema in uno specifico articolo [Vincenzo Nuzzo, “Analisi contemplativa del concetto di «conoscenza intellettuale dell’Assoluto divino» – Agostino e Porfirio”, in: http://www.rivistabetile.it/analisi-contemplativa-del-concetto-di-conoscenza-intellettuale-dellassoluto-divino >], ma comunque nella precedente lezione ho chiarito quelli che possono essere i grandi rischi della scelta di questo genere di ascesa. L’ascesa umana conoscitivo-intellettuale ha infatti grandi probabilità di configurare un titanismo anti-teistico. Ed in questo consistè non a caso proprio la polemica che si scatenò tra Porfirio e diversi pensatori cristiani del tempo.

Orbene, come si potrà immediatamente vedere, il platonismo è coinvolto in questa tematica in tutti i modi possibili. A partire da Platone stesso, con culmine nel pensiero neoplatonico pagano, e con sostanziosi riflessi anche nel pensiero neoplatonico cristiano. Del resto, come abbiamo visto nella precedente lezione, questa scuola di pensiero scelse di riconoscere la vera Realtà solo in quella trascendente e quindi anche divina (corrispondente al mondo delle Idee ed ancor più al livello dei più alti Principi dell’essere, culminanti a loro volta nell’Uno). L’atto di ascesa al divino corrispose quindi per il platonismo nella contemplazione immediata del Bene (unito al Vero, al Giusto ed al Bello), a sua volta estremamente prossimo all’Uno divino.
E l’immagine simbolica scelta per sintetizzare tutto questo fu quella solare. Ne nacque quindi già da Platone in poi una vera e propria teologia solare di tipo sostanzialmente apollineo (come ben testimoniato ed illustrato dal Prof. Giovanni Reale). A tutto questo si raccordò poi il neoplatonismo cristiano sostituendo l’Uno-Bene-Sole (Apollo) con il Dio della rivelazione vetero e neotestamentaria.
Ma veniamo ora all’esame di ciò che a tale proposito è possibile dedurre dagli scritti di Hadot ed Inge.
Abbiamo visto nella lezione precedente (sulla base di Hadot) che la grande metamorfosi religiosa del Paganesimo si compì nel pieno di una grande crisi in cui l’individuo, angustiato da un’inquietudine del tutto inusuale per la cultura greco-romana, cominciò a nutrire la grande preoccupazione per la propria personale salvezza. E proprio da ciò nacque l’esigenza di un’ascesa filosofica che recasse fino allo stadio supremo dell’unione al divino. Bisogna dire però che l’intera dottrina e prassi misterico-iniziatica (di tipo orfico-pitagorico e peraltro riletta ed integrata da Platone) aveva già concepito una necessità del genere molto prima che si giungesse a tale crisi storica, e cioè almeno sette-otto secoli prima. L’orfismo stesso condusse a maturazione l’intera dottrina misterico-iniziatica tradizionale greca integrandola con un umanesimo che si incentrava proprio in questa preoccupazione [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004].
Quindi possiamo ben dire che il platonismo (in quanto erede della tradizione orfico-pitagorica) impersonò la necessità di un’ascesa al divino molto prima della crisi storica che incolse la società romana imperiale.
La stessa via filosofica nella sua dimensione più autentica (e cioè nella sua branca esoterica, o “seconda navigazione”) fu per Platone null’altro che lo sforzo di pervenire alla contemplazione del supremo Uno divino [Giovanni Reale, Per una nuova… cit., II, IV-VI, I p.147-213]. Pertanto le circostanze storiche proprie del Neoplatonismo pagano c’entrano qui solo fino ad un certo punto.
Hadot attira comunque la nostra attenzione sul fatto che forse solo nel Neoplatonismo si pervenne ad una teologia sistematica sulla base di questa antica dottrina che ebbe la valenza di una vera e propria “rivelazione” (precisamente la rivelazione platonica). E peraltro, come abbiamo visto nella precedente lezione, si configurò in tal modo una “teologia razionale” sulla base di una metafisica razionalistica che stava in costante concorrenza con la teologia fideistico-teurgica basata sugli Oracoli caldaici. Eppure tale teologia razionale non fu affatto come quella poi sviluppata dal Cristianesimo entro quella Scolastica medievale che scelse non a caso come suo punto di riferimento Aristotele e non Platone. Pertanto entro questa teologia metafisica razionale a base platonica c’erano già tutte le premesse della teologia negativa (o apofatismo) che di lì a poco avrebbe fatto irruzione nel pensiero con la visione di Dionigi l’Areopagita.
E che poi si sarebbe perpetuata, lungo la falsariga della linea platonica dei pensatori cristiani, passando per filosofi come Scoto Eriugena ed Eckhart.
È dunque per questa via che giungiamo allo scenario delineato da Inge, e cioè quello di un platonismo cristiano che da un lato stava in ininterrotta continuità con quello pagano e dall’altro lato riproponeva in pieno Cristianesimo (per alcuni aspetti addirittura in maniera anche contraddittoria e poco accettabile) gli elementi tipici della metafisica religiosa pagana.
E quest’ultima aveva il suo nucleo in Plotino in quanto sostenitore di un Uno divino che era da considerare di fatto un Nulla. Riprenderemo questo tema nella prossima lezione sulla base degli articoli di Vianello e della Bouso. Plotino fu insomma il nucleo (ed anche il punto di partenza) di un platonismo entro il quale era imprescindibile una considerazione «negativa» dell’Uno divino. E pertanto sulla base del suo pensiero poteva venire concepita solo una teologia negativa o apofatica. Inge ci mostra peraltro come Agostino si sia attenuto sostanzialmente proprio alla visione di Plotino. E quindi, sebbene l’Ipponate si sia opposto energicamente ad un’ascesa teoretica al divino concepita sul modello pagano, è evidente che la teologia negativa era presente nel suo pensiero già prima di quello di Dionigi l’Areopagita.
Quest’ultimo però fu indubbiamente il pensatore cristiano che (insieme ad Eckhart) si espresse in maniera più esplicita a favore della teologia negativa o apofatica. Secondo il suo punto di vista, insomma, a Dio si può pervenire solo per la famosa “via negationis”, e cioè tenendo presente non «ciò che Dio è» ma invece soltanto «tutto ciò che Dio non è».
Vedremo (nella prossima lezione) che Vianello e Bouso erigono su questo una teoria inaccettabile di ciò che fu il platonismo cristiano così come venne esposto da Eckhart. Ma comunque è evidente che il Cristianesimo fece suoi i tratti portanti di una visione metafisico-religiosa platonico-plotiniana che definì in maniera molto limitativa l’atto di ascesa mistica a Dio e quindi l’atto dell’unione mistica. A tale proposito è del tutto secondaria la questione dell’ascesa umana in vita (secondo la tradizione misterico-iniziatica) oppure della discesa divina e dell’unione a Dio prevalentemente posteriore alla morte fisica. Il punto fondamentale è invece che Dio può venire colto (o addirittura raggiunto, com’è costantemente avvenuto nell’esperienza mistica di tutte le religioni) solo se si evita di considerarlo alla stregua di un Ente.
Ma per poter concepire questo è assolutamente necessaria quella metafisica platonica che Inge stesso condanna in quanto protagonista di una visione che attribuisce la piena onticità al mondo delle Idee, e così svaluta totalmente la realtà del mondo sensibile. Solo sulla base di questa visione è infatti possibile concepire un atto di ascesa a Dio che (almeno tendenzialmente) è in grado di superare lo jato incolmabile esistente tra il mondo trascendente ed il mondo immanente. Non a caso, allorquando la questione fu ripresa nel pieno di una metafisica di stampo aristotelico e quindi immanentistica (ossia entro la teologia scolastica specie di Tommaso d’Aquino), si cominciò a dire che era possibile ed accettabile unicamente una teologia positiva (o a catafatica) [Tommaso d’Aquino, La conoscenza di Dio, Fabbri, Milano 2004]. La quale si basa poi sulle caratteristiche di un Dio oggettivamente ineffabile, delle quali noi veniamo informati unicamente per mezzo della Rivelazione, ossia per mezzo di una via di fede ed affatto invece intellettuale. Ed allora si cominciò a pensare che l’unica via a Dio fosse quella di una teologia positiva (o razionale) – entro la quale Dio si presenta per davvero alla stregua di un Ente −, nel mentre invece la via della teologia negativa è nei fatti del tutto impraticabile. Il che ebbe come conseguenza la necessità di concepire la fine della teologia positiva come barriera invalicabile oltre la quale all’uomo non è assolutamente possibile procedere. Si tratta insomma dell’estrema extrapolazione della prudenza che era stata consigliata da Agostino in polemica con i teorici pagani dell’ascesa teoretica (specie Porfirio).
Detto questo appare quindi chiaro quanto intimamente legato sia sempre stato il platonismo a quella che definiamo come teologia negativa o apofatica. E siccome le premesse di quest’ultima vennero poste nel Neoplatonismo pagano, è evidente che una visione come quella di Dionigi ed Eckhart si pose inevitabilmente in continuità con tali premesse.

Dunque cosa possiamo concludere da tutto questo?
Come sempre mi sento obbligato a pormi qui il problema del possibile riscontro pratico di questa complessiva problematica. In che modo, insomma, essa tocca l’esperienza quotidiana dell’uomo comune?
È evidente che ciò può avvenire solo e soltanto se quest’ultimo ha delle preoccupazioni religiose, ossia se ha intenzione di includere l’esperienza religiosa entro le attività che svolge nel corso della sua esistenza.
Si tratta insomma del se questo uomo sia o meno un homo religiosus.
Se non lo è, allora il problema non si pone affatto, e quindi quest’intera lezione può venire anche tranquillamente ignorata. Se invece lo è, allora, questo genere di uomo dovrà preoccuparsi di gettare almeno uno sguardo sulla visione platonica. In sua assenza, infatti, molto difficilmente gli potrà riuscire anche solo di immaginare un’esperienza religiosa che possa toccare il divino (sebbene solo come ipotesi) a livello immanente.
E qui veniamo alle considerazioni che farò nella prossima lezione (ventiquattresima). Vedremo infatti che proprio il platonismo è quel tratto del pensiero di Eckhart che, una volta eliminato, fa sì che la teologia negativa debba essere considerata alla stregua di un autentico nichilismo. In tale contesto, cioè, la considerazione negativa dell’Uno divino si traduce infine in una teoria complessiva dell’«essere-in-quanto-Nulla». E come vedremo ciò ha come inevitabile conseguenza il dover concepire l’esperienza religiosa come unicamente immanente, mondana, secolare e temporale. In essa insomma svanisce totalmente la presenza immanente di un Dio Trascendente.
Ebbene, proprio a tale proposito tocchiamo il punto più scottante dell’esperienza religiosa dell’uomo comune (prima ancora che del mistico) – Cos’è questa esperienza religiosa? Cosa accade veramente in essa? In essa si tocca per davvero carnalmente e letteralmente il divino, oppure lo si fa solo per via formale e metaforica?
Sono domande davvero terribili. Perché la risposta in esse è contraddittoria e fallimentare per definizione.
Essa sta infatti solo e soltanto nella fede, e cioè in quella premessa pregiudiziale che deve essere anche risposta alla domanda. Insomma io devo fermamente credere che, nel corso dell’esperienza religiosa, tocco realmente Dio sebbene di esso non vi sia alcuna traccia sensibile. Ed è realmente una cosa da pazzi.
In ogni caso il platonismo ci viene qui non poco in soccorso. E ciò avviene perché esso ci abitua a pensare che le apparenze sensibili non coincidono affatto con l’effettiva realtà ma invece ne sono appena delle vaghe ombre. Siamo qui esattamente al cospetto del mito platonico della caverna. E siamo inoltre anche al cospetto di quella dottrina trascendentista della Realtà che Inge condanna senza mezzi termini.
Eppure Platone ci offre la possibilità di concepire chiaramente le cose sensibili come mere immagini (o ombre) delle vere cose, cioè quelle trascendenti. Del resto in questo senso non si esprime solo chi crede nel Platone religioso ed esoterico [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004], ma anche chi lo interpreta in maniera molto più sobria [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. In termini strettamente filosofici ciò significa che il pensatore ateniese è stato un teorico delle “forme” molto prima della Scolastica medievale. Ma in termini molto più pratici ciò significa che Platone ci permette di considerare come assolutamente reale ciò che intanto è assolutamennte invisibile ed intangibile, ossia è ben aldilà del sensibile. E questo è esattamente il Dio che noi possiamo «toccare» nel corso dell’esperienza religiosa. Lo dice in maniera chiarissima Guardini nel suo splendido libro sulla preghiera [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, II, 10 p. 81-89]. Dio è l’Essere stesso in tutta la sua incontestabile evidenza proprio in quanto noi ci troviamo così immersi in esso da non poterlo assolutamente vedere. Ma del resto parla in questo senso anche quell’episodio evangelico in cui Gesù, apparso nella tempesta come un fantasma, chiede a Pietro di camminare sulle acque per raggiungerlo e toccarlo con mano. È evidente che per fare questo non è possibile non dover superare un vero e proprio abisso – è esattamente l’abisso che separa il sensibile dal sovra-sensibile.
Ebbene in questo sente di poter e dover credere l’homo religiosus. Egli sa bene (se non è appena un superstizioso, un idolatra ed un beghino) di star facendo in tal modo una scommessa terribile. Dato che è ben possibile che essa possa venire persa. Eppure sa anche di non avere altra scelta che credere in questa presenza, in assenza della quale il mondo diviene qualcosa di oggettivamente intollerabile. E ciò ci riporta a quanto ho già detto nella lezione sulla relazione tra platonismo e Gnosi.
In ogni caso (per quanto la dottrina platonica della Realtà possa a buon diritto venire contestata, e peraltro proprio da parte cristiana) proprio il platonismo è ciò che ci permette di rivolgerci a Dio come ad una Persona, ossia come un «vivente-nel-mondo». Osando perfino spingerci fino a chiedergli aiuto nelle nostre faccende esistenziali concrete. E questo viene ancora una volta confermato puntualmente da Guardini [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 11 p. 66-76, V, 10 p. 444-452, VI, 1 p. 489-497, VI, 2 p. 497-504].
È vero che questo può anche venire considerato idolatria. Ma intanto è anche vero che (come vedremo nella prossima lezione), se si abolisce questo aspetto dell’esperienza religiosa (il misterioso contatto immanente con un Dio che intanto resta trascendente), allora non resterà che una religiosità meramente immanentista, secolarista e mondanista. Ed in quest’ultima Dio è di fatto solo un grande assente. Quindi si può dire quello che si vuole (invocando l’autenticità di una religiosità immanentista pienamente espressa dalla prassi buddhista), ma intanto di questo genere di religiosità l’uomo comune (cioè tutti noi) davvero non sa che farsene.

Non avevamo mai affrontato finora in maniera diretta una specifica scuola di pensiero, e qui si tratta in particolare del platonismo. Ma perché farlo se ho detto più volte che intendo dedicare queste lezioni a quanto della filosofia può davvero interessare l’uomo che si limita a vivere la sua esistenza quotidiana? Interessarsi del platonismo può aggiungere qualcosa di utile alla vita che viviamo ogni giorno ed ai problemi che in essa siamo chiamati ad affrontare? Mi riferisco in special modo a ciò che abbiamo discusso nelle lezioni dedicate ai fenomeni della nascita-esistenza-morte.
Bene. Il platonismo è stato ed è senz’altro una delle scuole di pensiero più sofisticate dal punto di vista filosofico. Non a caso esso non si è mai limitato alla sola visione del suo fondatore, Platone, ma si è esteso in ogni possibile direzione assumendo così nel tempo ogni possibile valenza – dalle valenze più prossime alla metafisica religiosa, all’esoterismo ed alla mistica, fino alle valenze più prossime alla scienza rigorosa, come la logica, la filosofia della coscienza (entro la quale rientra anche la Fenomenologia husserliana), la teoria della conoscenza, la filosofia della scienza (epistemologia), la filosofia della matematica e la filosofia della mente. Anzi se si getta uno sguardo sulle teorie filosofiche che negli ultimi due secoli si sono presentate come “platoniche” si resterà stupiti del fatto che del pensiero di Platone sembra non resti in essa se non una traccia molto debole e lontana [L. J. Boch, “Platonism and its relation to modern though”, The Speculative J. of. Philosophy, 19 (1) 1885, 33-52; Paul Natorp, “Platons Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Berlin : Holzinger 2013; John E. Jalbert, “Husserl’s Position Between Dilthey and the Windelband-Rickert School of Neo-Kantianism”, Journal of History Philosophy, 6 (2) 1988, 279-296; Francisco Gonzales, “Dialectic as ‘philosophical embarassement’ : Heidegger’s critique to Plato’s method”, Journal of the History of Philosophy, 40 (3) 2002, 361-389; Nishida Kitarō, John W.M. Krummel, “The issue of consciousness”, Philosophy East and West, 62 (1) 2012, 44-51; Robert Arp, “The pragmatic value of Frege’s Platonism for the pragmatist”, The Journal of Speculative Philosophy, 19 (1) 2005, 22-41; Guillermo E. Rosado Haddock, “Why and how Platonism?”, Logic Journal of IGPL, 15 (5-6) 2007, 621-636 (2007) ; Guillermo E. Rosado Haddock “Husserl’s epistemology of mathematics and the foundation of platonism in mathematics”, Human Studies, 4, 1987, 81-102]. Qui, infatti, il pensiero platonico viene preso in considerazione solo nel contesto di questioni gnoseologiche ed epistemologiche, ignorando così totalmente la sua dimensione metafisica, metafisico-religiosa, mistica ed esoterica. Emblematiche in tal senso sono le teorie filosofiche specialistiche a base vagamente platonica che sono state sviluppate da alcuni degli Autori citati (Natorp, Frege, Husserl, Lotze etc.) Nel mio saggio dedicato al pensatore ateniese ho parlato a tale proposito di un evidente e molto deleterio “riduzionismo” [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. Tuttavia, persino quando Platone viene preso in considerazione per questioni non scientifico-rigorose, come ad esempio per l’etica, il suo pensiero viene comunque assoggettato ad un notevole riduzionismo [Jyl Gentzler, “How to know the Good. The moral Epistemology of Plato’s Republic”, The Philosophical Revue, 114 (4) 2005, 469-496]. In questo articolo, infatti, l’Autore (Gentzler) nega addirittura quello che è il tratto più tipico del pensiero platonico, e cioè la postulazione di un’intuizione immediata di entità etiche trascendenti ed oggettive (l’Idea di Bene) da parte della mente (o meglio anima) umana.
Inoltre va tenuto presente che in una qualche misura il platonismo può venire considerato il prototipo di quella presa di posizione idealistica che abbiamo esaminato nella seconda e nella diciassettesima lezione.
In verità, comunque, ritengo che la vera natura di questa scuola di pensiero venga descritta in maniera equilibrata quasi solo da uno dei suoi maggiori studiosi, e cioè Gerson [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276].
Insomma, che il platonismo venga interpretato o meno in maniera corretta, certo è che in via di principio esso è troppo complesso, in termini filosofici, per poter interessare l’uomo comune.
Tuttavia è anche vero che le cose non stettero affatto così nell’antichità – almeno fino a quando il platonismo restò in auge pur attraverso continui alti e bassi, e cioè fino all’avvento della famosa seicentesca Scuola di Cambridge. Allora, infatti, il platonismo era una tipica «filosofia di vita», cioè una visione filosofico-metafisica che affrontava le più scottanti questioni in cui l’uomo si imbatte nel corso della sua esistenza.
Ebbene risiede proprio qui, allora, il punto di snodo tra questa scuola di pensiero e la complessiva dottrina antica che fu definita come “Gnosi”. Una dottrina costruita in effetti proprio sull’impianto generale della visione platonica (oltre che orfico-pitagorica); dato che essa postulava la tragica caduta dell’anima umana (in sé di origine pienamente divina) nel mondo, nel tempo e nel corpo. E su questa base essa teorizzò il recupero della dignità divina da parte dell’uomo per mezzo di un atto mistico-religioso di tipo sostanzialmente conoscitivo, ossia il superamento dell’oblio (del tutto simile a quello supposto da Platone entro la dottrina della reminiscenza o anamnesi) della propria natura divina.
Ovviamente tale presa di posizione comportava una considerazione radicalmente negativa di tutto ciò che era «mondo» − il tempo, lo spazio, il corpo, la carne, la soggezione alle leggi della Natura, la mortalità.
Ed inoltre uno dei tratti metafisici di tale dottrina era l’implacabile accusa rivolta al Dio creatore giudaico-cristiano, in quanto supposto responsabile di una nascita carnale che equivaleva alla massima umiliazione dell’uomo. Questo Dio veniva infatti sospettato essere il Serpente stesso sotto mentite spoglie, ossia Colui che aveva tentato di convincere l’uomo a non mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza. E così tale Dio veniva accusato di essere appena una divinità inferiore di tipo demonico, ossia un malefico “Demiurgo”. Anche questa denominazione è chiaramente di origine platonica, sebbene essa fu usata da Platone in senso diametralmente opposto.
Ebbene, in qualche modo la Gnosi non è mai stata archiviata del tutto, sebbene oggi non rientri più nel corrente dibattito filosofico. Possiamo, infatti, ritrovarne i tratti portanti perfino ancora ai giorni nostri in un pensatore come Cioran [E.M. Cioran, Il funesto Demiurgo, Adelphi, Milano 1986]. In questo libro l’Autore sostiene infatti che la nascita è da considerare senza mezzi termini una vera jattura, e quindi ad essa non vi è altro rimedio se non la morte.
Ecco quindi spiegato per quale motivo noi tutti (quali uomini comuni) abbiamo tutte le ragioni per riflettere sulle relazioni esistenti tra platonismo e Gnosi.

Alcuni scritti che ho recentemente letto [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344] mi danno quindi l’occasione di trattare questo teme. Ed esso è per la verità un tema che si presenta ad ogni studioso del platonismo, e cioè appunto il rapporto da sempre esistito tra quest’ultimo e la Gnosi. Tuttavia questo tema è stato trattato nel contesto di una letteratura davvero sconfinata, della quale ho di tanto in tanto richiamato alcune voci nel corso di queste lezioni ma che non posso certamente richiamare in questa lezione.
Al proposito bisogna però tenere presenti due elementi fondamentali di orientamento, che sono poi l’uno l’opposto dell’altro. Da un lato nulla è più lontano dalla Gnosi come lo è il platonismo, dato che la prima dottrina si basa sul mito mentre la seconda sulla ragione. Dall’altro lato invece Platone stesso può venire considerato di fatto uno gnostico (come del resto lo stesso Plotino) in quanto ha posto le Idee (cioè la sostanza intellettuale) non solo come supremo Principio di essere ma inoltre anche come la Realtà stessa.
E questo viene ampiamente attestato da Inge [R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900 p. 328-329].
Detto questo bisogna dire che però questa valenza gnostica del platonismo (e dei suoi principali pensatori) va ammessa in senso molto lato, e cioè solo in quanto tale dottrina costituisce un «onto-intellettualismo» (nel senso che ho appena chiarito). Tuttavia la vera Gnosi pone miticamente al di sopra di ogni cosa l’Intelletto stesso (il Nous) in quanto suprema Realtà ed anche suprema entità divina [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, cit., p. 122-126]. E questo non è assolutamente quanto affermano Platone, Plotino ed ovviamente anche la metafisica cristiana. Insomma solo nella Gnosi l’Intelletto viene identificato con Dio stesso.
In particolare la presa di posizione gnostica è stata tangibilmente presente (come dice Hadot) anche nel pieno del Neoplatonismo pre-cristiano (detto anche «pagano»); nel contesto di quella specifica “rivelazione” (fonte scritturale della riflessione metafisico-religiosa) che fu costituita dagli oracoli caldaici. Ma il Neoplatonismo pre-cristiano ebbe anche un’altra rivelazione, e quest’ultima fu proprio il platonismo stesso, ossia l’intera serie degli scritti di Platone (in particolare la Repubblica, le Leggi, il Timeo, il Fedro e il Parmenide).
E quest’ultima, come abbiamo visto, è da considerare una Rivelazione fortemente impregnata di razionalismo metafisico.
Ecco allora che lo stesso Neoplatonismo pre-cristiano si scinde in due filoni. Il primo filone fu quello di ispirazione platonica, e vide come protagonisti soprattutto Plotino oltre che Proclo – il quale però non mancò di riferirsi anche agli oracoli caldaici [Giovanni Reale, Proclo di Costantinopoli ultimo grande esponente del pensiero greco-pagano, in: Giovanni Reale (a cura di), Proclo. Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005 p. XIII-LIII]. Il secondo filone fu quello di ispirazione gnostico-caldaica, con pensatori come Porfirio ed anche (almeno in parte) Giamblico, Damascio e Numenio.
Il risultato netto di tale bilancio è insomma che il main stream del Neoplatonismo non fu affatto gnostico.
Del resto basti pensare all’impegno che fu profuso da Plotino (non meno di Origene) nel tentare di confutare gli gnostici. E questo vale ovviamente ancor più per Platone, al cui tempo la Gnosi non era nemmeno ancora una presenza dottrinaria.
In ogni caso va precisato che, se in generale è stato sempre ammessa la relazione esistente in generale tra Platone e la Gnosi [Harold Tarant, Gnosticism, in: Richard H. Popkin (Ed.), The Columbia History of Western Philosophy, Columbia University Press, New York, 1999, I p. 100-102; Birger A. Pearson, “Gnosticism and Platonism: with special reference to Marsanes (NHC 10,1)”, The Harward Theological Review, 77 (1) 1984, 55-72; Vladimir Kharlanov, Clement of Alexandria on trinitarian and metaphysical relationality in the context of deification, Vladimir Kharlanov (Ed.), Theosis II: Deification in Christian Theology, James Clarke & Co., 2012, 3 p. 83-99; John D. Turner, “The gnostic sethians and middle Platonism: interpretation of the ‘Timaeus’ and ‘Parmenides’”, Vigilia Christianae, 60 (1) 2006, 9-64; R. Van den Boeck, “The present state of gnostic studies”, Vigilia Christianae, 37 (1) 1983, 41-71; Alexej Kanenskikh, “Syzygies in Philo of Alexandria”, Schole, 3 (2) 2009, 445-449], è anche vero che alcuni (come Guardini) hanno chiarito come in verità il pensatore ateniese non sia mai stato in alcun modo uno gnostico [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171]. Guardini, infatti, sostenne che Platone fu propriamente sostenitore di una visione spiritualista e trascendentista dell’essere. Più precisamente la sua equiparazione del mondo ideale con la vera Realtà avrebbe voluto sostenere molto più la sostanziale spiritualità dell’essere che non invece sostenere un dualismo svalutante il mondo immanente.

Ma andiamo più a fondo in tale differenziazione seguendo da vicino la falsariga degli scritti che ho preso in considerazione.
Hadot sottolinea innanzitutto che il platonismo riemerse nella speculazione ellenistica (greco-romana) − dopo la grande e lunga crisi seguita alla morte di Platone − proprio in coincidenza con il nascere del Cristianesimo. Proprio la dottrina platonica, quindi, governò la grande metamorfosi della religiosità romana che si apprestava allora a divenire monoteistica, politica ed imperiale, cioè teocratica e fortemente trascendentista. E ciò avvenne peraltro in perfetta continuità tra Paganesimo e Cristianesimo. In altre parole possiamo dire che il platonismo cristiano nacque esattamente nel seno di un Paganesimo che intanto stava vivendo una grande trasformazione religiosa.
Non bisogna dimenticare però che (come sottolineato sempre da Hadot), oltre che Atene e Roma, forse il principale crogiolo di tale trasformazione fu Alessandria d’Egitto. Città e scuola di pensiero nella quale si fusero inestricabilmente elementi greco-pagani, giudaici, cristiani ed anche gnostici. Il che è stato sottolineato anche da altri studiosi [Paul Carus, “Gnosticism in its relation to Christianity”, The Monist, 8 (4), 1898, 502-546].
Inge chiarisce che la Gnosi costituì però una sorta di indesiderato effetto collaterale (e peraltro anche tardo) di tale scuola di pensiero. E lo stesso Carus sostiene che la Gnosi condannò sé stessa al fallimento a causa dell’eccesso di visionarietà che la contraddistinse. Ma comunque è incontestabile che tale dottrina si intrecciò intimamente con la metafisica platonica pagana e cristiana. Peraltro (come sottolineato da Inge) nel momento in cui il Neoplatonismo pagano aveva raggiunto il suo apice con Plotino, il Neoplatonismo cristiano aveva intanto già cominciato ad esistere da tempo (con pensatori quali Clemente, Giustino, Teofilo, Anassagora). E di lì a poco avrebbe raggiunto esso stesso il suo culmine con pensatori quali Origene e Agostino
Tuttavia la Gnosi emerse appunto da una dimensione piuttosto degenerativa della metamorfosi metafisico-religiosa pagana, e quindi si pose per entrambe le due dottrine in campo (Paganesimo e Cristianesimo) come elemento più di sviluppo negativo (espressione di “crisi”) che non invece positivo. Hadot ci mostra infatti come tale dottrina nacque da un individualismo ripiegato su sé stesso che fu il frutto dell’imminente crollo dello Impero romano, e quindi si pose da un lato come considerazione negativa del mondo e dall’altro come psicologia depressiva e solipsistica (preoccupazione per la “salvezza” individuale, inquietudine personale etc.). Un siffatto atteggiamento non era mai esistito nel mondo-greco romano, e si sviluppò peraltro nel pieno del Paganesimo per diventare solo dopo un elemento tipico del Cristianesimo. Tuttavia fu solo quest’ultimo a schivare le possibili conseguenze negative che la Gnosi avrebbe potuto avere sull’intera metafisica religiosa di quel tempo, e cioè un davvero radicale e perfino distruttivo pessimismo cosmico. Inge, infatti, sottolinea come uno dei fattori causali della vittoria del Cristianesimo sul Paganesimo fu rappresentato proprio dal fatto che solo il primo ingaggiò una violenta lotta contro la Gnosi (in quanto eresia) per poi alla fine avere la meglio. E così si può dire che fu proprio il Cristianesimo a mantenere il platonismo totalmente immune dalla Gnosi come era stato già con Platone. Con quest’ultimo, infatti, il mito venne ammesso ma non riuscì mai a prevalere sulla ragione. E si può pensare che più o meno lo stesso sia accaduto anche entro il platonismo cristiano.
Ecco che allora si delinea in maniera chiara un ulteriore elemento di chiara differenziazione tra platonismo e Gnosi. Ed esso consiste in un dualismo ontologico che però mai scade in radicale disprezzo pessimistico verso il mondo immanente. In particolare, dice Hadot, la complessiva metafisica religiosa platonica si mantenne razionalistica nel concepire l’intera dottrina dell’anima e nel porla inoltre anche in relazione ad una prassi catartica psico-spirituale (riscatto dalla “carne” come via di “salvezza”). La Gnosi invece si occupò dell’anima solo per decretarne e descriverne la caduta in quanto elemento critico e fondamentale dell’intera sua cosmo- ed antropogonia. Possiamo avere la misura di questo nella descrizione dei tragici eventi che caratterizzarono il destino della “Sophia” – una volta appartenente al mondo trascendente e poi trascinata per inganno nel mondo immanente in cui essa subì esattamente il destino dell’anima penosamente imprigionata nel corpo [Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014].
A tutto ciò vi è da aggiungere però anche un elemento di vantaggio della metafisica religiosa pagana rispetto a quella cristiana. E tale elemento chiama di nuovo in causa il platonismo. Sempre Hadot sottolinea infatti che, se la fonte della Rivelazione cristiana fu di fatto solo il mito, invece la fonte della Rivelazione pagana fu multiforme. Esso infatti comprendeva in sè il mito, la specifica tradizione civile (storia della città che risaliva ai primi legislatori-fondatori e per questa via fino all’Origine divina) e inoltre la “legge” quale elemento insieme civile e cosmico. Questi due ultimi elementi possono però venire abbracciati dalla Ragione da intendere in particolare come l’Intelligenza che regge l’intero cosmo a partire da quell’Uno-Dio-Bene che poi è molto prossimo all’Intelletto in quanto entità trascendente (il Nous). E qui Platone (unitamente all’intero platonismo a lui succeduto) esercitò (specie attraverso la Repubblica e le Leggi) il ruolo di una vera e propria fonde rivelazionale. Il platonismo ha quindi sempre avuto insita in sé questa valenza di metafisica religiosa (addirittura con il significato di Rivelazione) unita intimamente alla componente razionalistica. E senz’altro anche il platonismo cristiano si è sempre mantenuto su questa linea.

Tuttavia, se Hadot si sforza di osservare le cose senza prendere posizione (a favore del Paganesimo o del Cristianesimo), Inge (da teologo cristiano) tende a sottolineare molto più i punti a favore he secondo lui sono da assegnare al Cristianesimo. E quindi, proprio in forza di questo, ci mostra il platonismo anche sotto un’angolatura per certi versi critica.
In generale però egli sottolinea che il platonismo fu un prezioso elemento di raccordo tra Paganesimo e Cristianesimo, e quindi ebbe il grande merito di evitare quello scontro frontale tra le due dottrine che avrebbe totalmente vanificato la grande affinità esistente tra di esse nel momento della grande metamorfosi subita dal Paganesimo. Egli ritiene inoltre che in particolare il platonismo cristiano continuò ad esercitare questo ruolo anche dopo il tramonto del Paganesimo, ponendosi come fattore di equilibrio tra Ragione e Fede, e quindi anche come fattore pacificatore, anti-dogmatico e stimolante la tolleranza.
Nel complesso egli sostiene quindi che il platonismo costituì un elemento di vera e propria continuità tra Paganesimo e Cristianesimo. In particolare, però, egli vede nel platonismo cristiano un’aspirazione a Dio come Bene (esattamente sovrapponibile in Plotino ed in Agostino) la quale addirittura sarebbe divenuta poi la vera e propria macchia indelebile che avrebbe reso imbarazzante tale dottrina nel corso dell’intero pensiero cristiano.
Tuttavia, da teologo cristiano, Inge si sente in dovere di criticare e condannare il dualismo platonico in ogni sua forma – sia nella sua versione pagana che in quella cristiana. E così di fatto (almeno da questo punto di vista) egli ri-assimila almeno parzialmente il platonismo stesso alla Gnosi.
Cionondimeno, però (in baso a quello che abbiamo visto poc’anzi), le considerazioni di questo Autore ci mostrano che in ultima analisi non fu affatto gnostico né il Neoplatonismo pagano né quello cristiano.
Il dualismo tipico del platonismo costituisce tuttavia un fattore di disturbo proprio in quanto esso ha rischiato continuamente di risucchiare verso la Gnosi la complessiva metafisica religiosa del tempo. E ciò avviene secondo Inge in relazione ad un particolare elemento, ossia l’opposizione esercitata dal dualismo contro qualunque avvaloramento del mondo immanente specie allorquando esso viene identificato con ciò che è “essere”. Il tratto fondamentale di tale opposizione consiste per l’Autore nell’aver voluto concepire la più vera ed autentica Realtà come quella trascendente che è rappresentata dalle Idee, cioè dalla sostanza intellettuale.
Inge definisce questa tendenza come un eccesso di spiritualità che si traduce nel rifiuto del “materialismo escatologico” tipicamente cristiano, e che include la fede in realtà come l’incarnazione e la resurrezione della carne. Dall’altro lato però lo studioso intravvede nel platonismo anche un contemporaneo curioso difetto di spiritualismo a causa della tendenza ad attribuire una letterale onticità alla sostanza intellettuale trascendente (Idee).
Si tratta così dell’invenzione di sana pianta, da parte del platonismo, di una sorta di strano mondo sensibile trascendente (che addirittura sarebbe l’unico davvero reale). Ma questo secondo Inge può venire spiegato solo come l’artificiosa pretesa di popolarizzare un idealismo filosofico e metafisico-religioso. Cosa comunque impossibile, dato che concetti del genere potevano venire recepiti solo dai saggi (eletti ed aristocratici) e mai invece dalle masse. Le quali non a caso finirono per prestare fede sempre più solo al Cristianesimo.
A questo punto viene però una vera e propria condanna del platonismo cristiano. Dato che quest’ultimo avrebbe preteso di interpretare il “Regno dei Cieli” allo stesso modo della dottrina platonica delle Idee, ossia secondo quello stesso idealismo che l’Autore considera fallimentare per definizione. E così si può bene ipotizzare che il platonismo cristiano sia costantemente restato confitto nel Cristianesimo come una sorta di strano corpo estraneo dottrinario, in cui si sono sempre mescolati intellettualismo élitario e creduloneria superstiziosa.
Ebbene quali conclusioni si possono trarre da tutto questo riguardo al possibile rischio di scivolamento del dualismo platonico nella Gnosi?
La risposta è evidente in base ad un bilancio di tutte le considerazioni svolte da Inge. Egli ritiene infatti che il rischio sussista solo per il platonismo pagano ma per nulla o molto meno per quello cristiano (a meno che esso non indulga a quella visione del Regno dei cieli che ho appena commentato). Ciò significa allora che, nonostante ciò che ci fa vedere Hadot, in realtà il dualismo platonico pre-cristiano (pur non essendo affatto schiavo del mito e pur costituendo una metafisica razionalista) ha sempre corso il rischio di sfociare in una presa di posizione gnostica. E ciò avviene evidentemente proprio a causa di quella visione che scelse costantemente di vedere la Realtà solo nel mondo ideale-trascendente.
Tuttavia bisogna intanto chiedersi se tale dottrina non sia stata metafisico-religiosamente giustificata nonostante il suo rischio di scivolare nella Gnosi. Come si può, infatti, concepire l’essere in maniera metafisico-religiosa senza credere almeno in una certa misura che la vera Realtà è solo quella trascendente? Si tratta insomma della famosa dottrina della Prima e perfetta creazione originaria. Ne abbiamo parlato in alcune lezioni precedenti.
Ebbene a questo punto è vero che il Cristianesimo professò una sorta di tendenziale materialismo metafisico – ossia una dottrina secondo la quale bisogna prendere atto del fatto che il mondo, il corpo e la carne sono quello che sono, ossia non solo sono entità sensibili ma sono anche la realtà nella quale siamo effettivamente immersi. E qui pesa molto un giudizio radicalmente anti-platonico ed anti-idealista, che consiste nell’accusa di sognare quando ci si sforza di relativizzare l’esistenza del mondo sensibile per avvalorare invece l’esistenza del mondo ultra-sensibile.
Ma intanto in fondo a cosa ci si riferisce quando cristianamente si parla del Regno dei Cieli? Ci si riferisce forse al mondo sensibile e corporale-carnale accettato incondizionatamente così com’è? No affatto! Ci si riferisce invece a questo mondo solo nel potenziale di trasfigurazione spirituale che esso contiene in sé grazie all’Incarnazione di Cristo accompagnata dalla Resurrezione. Ci si riferisce quindi a qualcosa che è un «di là da venire», e non invece una realtà «attuale». Anche se vi sono teologi come Guardini che sottolineano con forza la possibilità di una trasfigurazione hic et nunc, e quindi pre-escatologica [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Tuttavia anche in questo caso si tratta pur sempre di una trasfigurazione, e pertanto di qualcosa che ancora non è qui.
Dunque non vi è anche in questo credo qualche traccia del disprezzo gnostico per il mondo? Ed allora è proprio vero che il Cristianesimo ha cancellato totalmente in sé stesso quella commistione con la Gnosi della quale restò invece vittima il Paganesimo? Insomma è veramente difficile non nutrire dubbi in tal senso. E del resto vi è chi ha affermato che la mistica (di qualunque tipo, inclusa quella cristiana) è sempre “gnostica” per definizione [Fernando José Da Silva Monteiro, “Meister Eckhart e a gnose mística”, Problemata, 6 (2) 2014, 346-360].
Quindi è opinabile che se la Gnosi è lontanissima dalla prassi religiosa ordinaria, essa non lo è poi così tanto allorquando ci si sposta verso il campo della mistica, ossia quella prassi che punta al vissuto diretto e non indiretto di Dio (unione mistica).
Ebbene allora il tipico dualismo platonico si offre qui come un elemento tendenzialmente «negativo» ma dalla portata in definitiva «positiva» in termini metafisico-religiosi. Esso insomma finisce per avere un valore proprio in quanto comporta il costante rischio di scivolamento verso la Gnosi.
A questo punto bisogna però sottolineare che la Gnosi è una dottrina che deve sempre venire maneggiata con molta prudenza. In essa è infatti fortemente incline a concepire in modo titanistico se non demonico l’ascesa umana verso Dio, ossia appunto l’unione mistica. Questo può venire dedotto anche dallo stesso Hadot, il quale sottolinea come in Plotino stesso (così come in tutto il Neoplatonismo pagano) l’ascesa a Dio venne intesa come una prassi inscritta totalmente entro l’esistenza carnale e mondana, ossia la prassi misterico-iniziatica [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, cit. p. 119-122]. E lo stesso viene sottolineato in uno degli articoli che discuteremo a proposito dei nuovi studi che si propongono di assimilare Meister Eckhart al Buddhismo zen − l’ascesi che reca all’unione mistica dovrebbe venire intesa come pienamente inscritta nella vita terrena, e quindi come “azione” invece che come “contemplazione” [Raquel Bouso, “Action et contemplation: sur une lecture eckhartienne de Shizuteru Ueda”, Théologique, 20 (1-2) 2012, 1 p. 314-321].
Se però teniamo conto di quanto dice Florenskij [Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 2014], ci rendiamo immediatamente conto degli immensi rischi connessi con un’ascesi a Dio concepita in tal modo. Proprio nell’atto ascensivo umano, infatti, tendono a presentarsi entità spirituali della cui vera identità divina non si può essere assolutamente certi. E quindi è molto più prudente attendere umilmente che il divino si manifesti a noi discensivamente, e cioè per Grazia. Di tutto questo ho comunque parlato diffusamente nel mio saggio dedicato alla “Sophia” [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017].

Per concludere possiamo quindi dire che basicamente il platonismo è da considerare come distinto dalla Gnosi sia nella sua versione pagana che nella sua versione cristiana. Tuttavia esso mantiene con la Gnosi stessa delle relazioni che vanno anche oltre l’ovvio argomento dell’attribuzione di piena onticità alla sostanza intellettuale.
Infine si può ben sostenere che il platonismo cristiano (data la sua ininterrotta continuità con quello pagano) è stato sempre almeno tendenzialmente prossimo ad alcuni aspetti della Gnosi. Ciò avviene senz’altro per l’intermediazione del classico dualismo platonico. E quest’ultimo comporta quindi inevitabilmente una certa svalorizzazione del mondo così com’esso si presenta sensibilmente.
Del resto bisogna dire che è quasi impossibile condurre una vita religiosa se intanto non si coltiva una certa distanza dal mondo sensibile con tutte le sue dolcissime promesse e tutte le sue amarissime disillusioni. A questo punto, quindi, se l’homo religiosus non è in una qualche misura pessimista al modo degli gnostici, finisce per essere non solo ingenuo ma anche alla fine non troppo credente come invece dovrebbe essere.

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Non vi è forse nessun concetto che distingua più nettamente la filosofia moderna da quella antica come lo fa il concetto di Spirito. Tuttavia ciò avviene in negativo.
Ricordo ancora la passione con la quale affrontai molto anni fa il testo di Dilthey dedicato a questo tema [Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Bompiani, Milano 2007], per poi restare spaventosamente deluso dopo solo una decina di pagine dall’inizio della lettura. Lo Spirito come lo intendeva il pensatore tedesco non era affatto quello come lo avevo sempre inteso io (spontaneamente ed inoltre per formazione cristiana). Ebbene, in quella fase di letture filosofiche avide ma disordinate e ingenue, ciò iniziò a farmi comprendere molto presto quanto la disciplina che avevo sempre amato (la filosofia) era ormai molto diversa da quella che veniva praticata ormai da almeno due secoli. Non a caso la nostra preparazione liceale in filosofia, dopo essersi soffermata prevalentemente sul pensiero antico, aveva avuto il suo culmine in Kant e poi aveva sorvolato piuttosto rapidamente su tutti i filosofi successivi arrestandosi più o meno proprio nei paraggi di Dilthey (una lettura che proprio per questo da allora in poi avevo sempre sognato di fare). Ma poi ancora dopo, riprendendo in tarda età a studiare filosofia per mezzo del mio dottorato, ho vissuto una delusione non minore nell’approfondire il pensiero di Husserl (a margine dei miei studi su Edith Stein). Il concetto husserliano di Spirito non era infatti molto diverso da quello di Dilthey. A questo punto manca soltanto di menzionare Hegel. Ma confesso senza alcuna vergogna che proprio per questo motivo mi sono sempre rifiutato di leggere i suoi testi, limitandomi così a sapere di lui appena quanto si apprende nei manuali liceali ed in alcuni saggi che ne ricordano il pensiero.
Insomma ciò che da sempre l’uomo comune ha inteso come «spirito» non è affatto ciò che con questo termine (e concetto) è stato e viene inteso dalla filosofia moderna. E tale intendimento distingue quest’ultima non solo dalla filosofia antica ma soprattutto appunto dall’uso linguistico e concettuale dell’uomo comune. Il più spontaneo, usuale e tradizionale intendimento del termine è infatti quello di un’entità che l’esatto opposto della Materia. Non a caso, dopo lunghi anni di riflessione primariamente fenomenologico-husserliana, la Stein stessa approdò alla fine proprio a questo così tradizionale ed antiquato concetto di Spirito [Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 26, i-j p. 380-386]. Concetto che è poi quello più esplicitamente religioso e quindi anche cristiano.
Di fatto, insomma, la filosofia moderna ha iniziato a identificare lo Spirito sia con la Ragione che con l’Io auto-cosciente e conoscente stesso; ed infine anche con il mondo di prodotti della Ragione umana, ossia l’edificio della Cultura. E non vi è dubbio che anche la responsabilità di questo fenomeno vada attribuita a Cartesio. Ma, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, tale intendimento moderno del termine si è prolungato ben oltre la visione del pensatore francese pervenendo così fino ad alcuni filosofi dei quali ho parlato molto spesso, e cioè appunto Husserl e Edith Stein. Forse solo in Kant non si trova traccia del termine, ma si tratta di un’eccezione. E del resto Kant risente in un indebolimento progressivo del concetto di Spirito che si era già manifestato perfino in pensatori molto pronunciatamente metafisici come Leibniz. Quest’ultimo infatti fu uno degli esponenti di spicco di quella metafisica che giustamente Scheler avrebbe poi definito come assolutamente inconciliabile con la religione [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018].
Sta di fatto però che, dopo Kant, il concetto di Spirito assunse con Hegel un ruolo di assoluto primo piano, e proprio in quanto Ragione ed Io. Intanto due pensatori e studiosi del nostro tempo hanno tracciato una storia del pensiero post-hegeliano, mostrandoci il proseguire di tale percorso fin nel pieno del XX secolo nella forma dello “spiritualismo” sviluppatosi in Francia nel contesto della rivista “Esprít” – che vide attivi pensatori come Blondel ed altri [Michele Federico Sciacca, Filosofia e Metafisica, L’Epos, Palermo 2002; Alberto Caturelli, Michele Federico Sciacca, Ares, Milano 2008]. E non dev’essere un caso che proprio in tale contesto iniziò a svilupparsi quel personalismo francese (rappresentato da Mounier, Peguy ed altri) che poi recentemente ha avuto il suo culmine in filosofi come Ricoeur e Guardini, e che intanto aveva messo l’accento sul concetto di unicità irripetibile dell’individuo umano. Il pensiero di Edith Stein si era intanto mosso in una sfera filosofica per certi versi molto prossima a quella qui descritta (sviluppando il concetto di unicità personale, accanto ad un intendimento fortemente spirituale dell’Io ed anche del mondo con il quale l’Io sta in relazione). Si veda per questo la sedicesima lezione dedicata all’uomo. In ogni caso la pensatrice tedesca (in continuità con Husserl) può venire considerata uno dei protagonisti della visione che riconosce l’intima relazione esistente tra Spirito trascendente (Io umano) e Spirito immanente (mondo).
La pensatrice distinse al proposito uno Spirito soggettivo ed uno Spirito oggettivo (in intima relazione tra di loro specie per mezzo del vissuto delle cose in quanto valori), ed infine identificò poco a poco quest’ultimo come il Logos cristico obiettivato nel mondo, ossia come una sorta di ”ontologia cristocentrica” [Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, 5,2-3, p. 106-118, II, I, 2, p. 182-184, II, 2, 1-4 p.217-309, “Osservazioni conclusive”, p. 312-327Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 1-4, p. 18-26, II, III, 2-3, p. 30-32, VII, II, 1-3, p. 78-92, VII, III, 1-4, p. 103-127; Edith Stein, Potenza … cit., II, 1-3 p. 72-90; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VIII, 3,1-3, p. 422-439].
Di questo però parleremo più avanti.
Sta di fatto però che − anticipato dai corrosivi aforismi di Nietzsche – il percorso successivo della filosofia moderna ha decisamente sorpassato, surclassato ed eclissato il concetto di Spirito. Ed in tal modo oggi assolutamente impensabile che un filosofo parli di «spirito». Infatti risulta addirittura ridicolo il considerarlo come il polo opposto della Materia (spiritualismo metafisico) e lo stesso considerarlo come l’equivalente della Ragione e dell’Io auto-cosciente e conoscente (spiritualismo filosofico). Ma soprattutto risulta ridicolo tematizzare la sua esistenza in quanto entità ontologica. Ecco che lo Spirito viene oggi considerato come una mera invenzione della religione e della metafisica, e quindi come un concetto da usare in maniera al massimo metafisica e comunque di interesse unicamente storico e non più invece affatto filosofico.
In parole molto semplici, insomma, oggi per il filosofo parlare di «spirito» non significa più assolutamente nulla e non ha più alcun senso.

Dunque è del tutto vano rivolgersi ai pensatori più o meno attuali per trovare una discussione del concetto e termine «spirito». Vano è allo stesso modo rivolgersi al pensiero moderno antecedente, e cioè quello che prese le mosse da Cartesio. Infatti ancora oggi quando noi uomini comuni (da non filosofi militanti) rivolgiamo la nostra attenzione allo Spirito, lo facciamo attendendoci di ritrovare qualcosa di diverso dalla Ragione e dall’Io. Ci aspettiamo insomma di ritrovare qualcosa di molto simile a quanto è presente nel pensiero autenticamente metafisico (in gran parte antico) ed ancor più negli scritti di un po’ tutte le religioni del mondo, incluse quelle non monoteistiche e perfino animiste. Anzi forse proprio in queste ultime il concetto di Spirito ha il suo significato più forte (ed anche provocatorio), ossia quello della sottilissima e misteriosa sostanza quintessenziale che impregna di sé tutto l’universo. Mi riferisco ad esempio al concetto di “Great Spirit” che era comune presso gli indiani del Nord America – e che uno studioso canadese ha recentemente considerato come possibile termine di paragone dell’ontologia cristocentrica sviluppata dalla Stein.
Pertanto anche rispetto a questo tema filosofico, noi non abbiamo alcuna scelta e dobbiamo quindi rivolgerci a sfere di pensiero radicalmente diverse dalla filosofia moderna. Sostanzialmente di tratta dei seguenti ambiti: − 1) quello dell’antica filosofia metafisica; 2) quello religioso (corrispondente a vari generi di Sacre Scritture planetarie); 3) quello «esoterico-sapienziale» nel senso più lato del termine.
E quest’ultima sfera di conoscenza unisce in sé molti testi religiosi (unitamente ai commentari filosofico-metafisici sviluppatisi nel tempo su di essi) ed inoltre anche quel vasto campo di recenti studi su questo materiale che vengono usualmente definiti come “tradizionali” (vedi lezione diciannovesima). I testi religiosi (e relativi commentari) ai quali qui mi riferisco includono una vasta ed eterogenea gamma di tradizioni religiose e metafisico-religiose sia occidentali che orientali – testi mitico-misterici orfico-pitagorici, testi mitico-misterici caldaici ed egizi (Corpus Hermeticum), scritti mazdeico-avestici, scritti cabbalistici, Veda, Upanishad, Bhagavādgīta, Zohar etc.
E bisogna dire che, a parte una certa differenza esistente tra Occidente e Oriente, in tutti questi scritti il concetto di Spirito è praticamente sempre quello che abbiamo indicato, e cioè quello di significato specificamente religioso. In quanto entità ontologicamente opposta rispetto alla Materia, lo Spirito sta dunque a designare l’entità divina stessa nella sua abissale distanza rispetto a tutto ciò che è mondano.
Ma in questo intero contesto l’uomo è stato sempre inteso come una sorta di intermedio tra le due opposte dimensioni, e cioè tra divino-spirituale e mondano-materiale. Per questo l’uomo è stato sempre inteso come uno Spirito immerso nella realtà mondano-materiale (e quindi corporale). Tale intendimento sostanzialmente esoterico è stato poi fatto proprio un po’ da tutti i testi religiosi designati come Sacre Scritture rivelate ai quali si riferiscono i grandi Monoteismi.
Il che significa, quindi, che la filosofia moderna stessa (a partire da Cartesio in poi) ha raccolto esattamente tale eredità metafisico-religiosa (e per certi versi perfino esoterico-sapienziale ed animistica) del concetto di «spirito». Lo ha fatto però fin dall’inizio con un intento fortemente riduzionistico che era incentrato su due fondamentali istanze: − 1) elidere le valenze più ontologiche dello Spirito per conservare solo quelle gnoseologiche; 2) cancellare sempre più la presenza divina (prima costantemente intravista tra le maglie dell’uomo inteso come Spirito) per identificare infine lo Spirito con il solo essere umano.
Ed esattamente in quest’ultimo assetto noi troviamo l’intendimento filosofico di Spirito da Hegel in poi (inclusi anche gli antecedenti leibniziani). In Cartesio invece le cose non stavano ancora affatto così, data l’evidente persistenza presso di lui di una metafisica religiosa (vedi quinta lezione).

Ebbene in tal modo si delinea un elemento chiave per la trattazione dello Spirito che intendo fare in questa lezione, e cioè l’elemento ontologico, che d’ora in poi possiamo definire come «onto-spirituale». E tale elemento a sua volta corrisponde ad una «esserità» (o più precisamente «onticità») dello Spirito che per molti versi sconfina addirittura in una sua tendenziale materialità e corporalità. Riprenderemo questo tema parlando della «corporalità spirituale».
In ogni caso l’isolamento dell’elemento onto-spirituale ci permette di selezionare meglio ciò di cui possiamo trattare e ciò di cui non possiamo trattare nel corso di questa lezione. Già da tutto ciò che ho detto finora appare infatti evidente che il tema «spirito» offre materiale per una trattazione che sicuramente equivarrebbe ad un trattato di storia della filosofia. E non è certo questo che possiamo fare qui. Abbiamo intanto visto che possiamo piuttosto agevolmente escludere l’intera filosofia moderna. Ma che fare con quella antica, che di certo non è meno ponderosa di quella moderna? È evidente che nemmeno di quest’ultima possiamo qui trattare in maniera sistematica. Potrò quindi limitarmi solo ad alcuni accenni in tal senso. Tuttavia abbiamo a disposizione almeno alcune direttrici tematiche sulle quali lavorare. E proverò qui ad anticiparle prima di poterle sviluppare. La prima direttrice è quella della relazione tra dimensione onto-spirituale («esserità» dello Spirito) e dimensione onto-intellettuale («esserità» dell’Intelletto). E la seconda direttrice è quella della relazione tra Spirito trascendente e Spirito immanente.
Innanzitutto la dimensione onto-spirituale esclude quella gnoseologica ed epistemologica ma intanto anche le richiama. Per cui, accanto alla Spirito come Essere si delinea senz’altro anche lo Spirito come Conoscenza, e quindi nuovamente ci ritroviamo di fronte alla realtà dell’Intelletto (vedi ventesima lezione). Sta di fatto però che, proprio a causa della prevalenza della dimensione onto-spirituale (entro l’antica metafisica filosofica, entro le varie religioni ed anche entro gli scritti esoterico-sapienziali), in questa sfera di pensiero l’Intelletto è stato sempre concepito nella sua valenza ontica. Ed ecco che allora noi ci ritroviamo di fronte a quella dimensione «onto-intellettuale» dello Spirito che appare essere inseparabile dalla dimensione onto-spirituale. Ciò significa, quindi, che (almeno secondo questo genere di antica metafisica) lo Spirito è intanto Conoscenza in quanto è nello stesso tempo anche Essere. E per comprendere meglio cosa va inteso con questo dobbiamo rifarci a quanto abbiamo visto in diverse delle lezioni precedenti, ossia all’equivalenza tendenziale tra Idea e cosa. Ma di questo parleremo più avanti.
In secondo luogo il concetto tradizionale di Spirito evidenzia immediatamente due dimensioni, e cioè quella trascendente e quella immanente. La prima corrisponde alla dimensione divina mentre la seconda corrisponde alla dimensione mondano-materiale. Infine la prima corrisponde genericamente alla dimensione soggettuale mentre la seconda corrisponde genericamente alla dimensione oggettuale. Laddove poi quest’ultima equivale più o meno al mondo in quanto realtà spirituale, ovvero ciò che spesso viene definito come «spirito oggettivo».

Prima di entrare però nel merito di questa trattazione, vorrei fare un breve percorso a volo d’uccello sulla filosofia antica che ha trattato per davvero dello Spirito. Il che è di per sé estremamente controverso, dato che il concetto e termine era di fatto assente nel pensiero pre-cristiano occidentale.
Il problema diviene infatti delicato già con Platone, dato che non pochi critici si sono chiesti se nel suo pensiero vi sia stata o meno la nozione di spirito. Secondo alcuni sì [Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 1 p. 78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 p. 149-155, II, I, V, I p. 174-183;Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171], secondo altri invece no. Anzi per questi ultimi sarebbe iniziata proprio con Platone la tradizione filosofica di identificare lo Spirito con la Ragione. Il che poi significa anche dover considerare il pensatore ateniese come il protagonista di una visione incentrata sul più rigoroso razionalismo, e quindi lontanissima dalla metafisica ed ancor più dalla metafisica religiosa.
Ma a questo punto entrano in gioco di nuovo i critici che ammettono la presenza del concetto di Spirito nel pensiero di Platone. La maggior parte di costoro infatti ammette senza alcuna difficoltà che egli sia stato un pensatore metafisico-religioso; e qualcuno lo ha ritenuto addirittura estremamente affine al Cristianesimo, mantenendosi così sulla scia di un’idea agostiniana [Werner Beierwaltes, Deus est Esse – Esse est Deus, in: Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, p. 3-9; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto platonico, in: Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, p. 257-293; Endre von Ivánka, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964; Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? p. 55-75; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates… cit. p. 260-279; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 10-14 p. 87-91, I, 2-5 p. 107-111].
Dunque proprio quest’ultimo deve essere un elemento chiave per l’attribuzione a Platone di un concetto di Spirito. Infatti il non considerarlo un pensatore metafisico-religioso ci costringe di fatto o a negare che tale concetto sia stato presente nel suo pensiero, oppure che esso abbia avuto appena lo stesso significato di Ragione che esso ha avuto da Cartesio in poi. In ogni caso sono molteplici i punti di abbordaggio per delineare in Platone un concetto di Spirito che abbia i triplice significato da me prima illustrato.
Si potrebbe ben dire che è Spirito quell’Eros il quale venne da lui concepito come una forza di spinta ascensionale che trascinava con sé tanto la Conoscenza quanto l’Essere (vedi prima Montoneri); muovendo così quest’ultimo in una direzione che poi il neoplatonismo avrebbe concepito chiaramente come “ritorno” dell’intero essere al Principio. Si potrebbe dire che Spirito è quel livello ontologico dei Principi che il Prof. Reale [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010] ha supposto come prossimo all’Uno divino e ha considerato di natura onto-intellettuale proprio a causa della sua superiorità rispetto al mondo delle Idee. E di questo passo si potrebbe investire l’intero pensiero di Platone.
Tuttavia a mio avviso è meglio selezionare uno solo dei tanti possibili elementi di abbordaggio. E quest’ultimo consiste per me ancora una volta nella già menzionata valenza ontica della dimensione intellettuale, ossia consiste nell’equivalenza tra Idea e cosa. Su questo non c’è qui da spendere molte parole, visto che ne abbiamo parlato già nelle scorse lezioni (specie equiparando il supremo livello dell’idea-essenza a quello dei Trascendentali indagati nella Scolastica). In ogni caso si tratta comunque di un supremo livello di essere entro il quale l’Idea si presenta nella forma di un supremo e paradigmatico Individuo che è caratterizzato dalla massima pienezza di essere possibile. A questa conclusione si può infatti pervenire leggendo ciò che dice il Prof. Reale nel sostenere che Platone è un pensatore dell’essere [Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008, VIII p. 169-173; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione … cit., II, VI, III p. 172-176]. Tale supremo Individuo ideale è per la precisione la «possibilità di essere» stessa in quanto essenza e forma di tutte le cose, ossia il modello ideale al quale è chiamato a conformarsi ogni possibile Essente.
Ma intanto si tratta comunque di un’idea, e quindi di una sostanza intellettuale. E proprio questo abbiamo designato prima come dimensione «onto-intellettuale». Ora però quest’ultima dimensione tende a venire considerata la pienezza di essere stessa, cioè la più integrale e totale «realtà», nel contesto di una determinata visione metafisica che può bene venire definita come «onto-intellettualismo». Essa consiste sic et simpliciter nel considerare l’essere pieno come caratterizzato unicamente dalla natura intellettuale, o anche ideale – insomma, secondo questa visione l’essere non è altro che Intelligenza e nello stesso tempo è supremo Io.
In Occidente il culmine di tale visione è stato raggiunto con Meister Eckhart e con il suo amico Dietrich von Freiberg [Mojsisch Burkhard, Dietrich von Freiberg. Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980] In Oriente tale visione corrisponde abbastanza bene all’idealismo vedantico, a sua volta in stretta correlazione con la visione di Śankara – il quale riteneva l’essere come qualcosa che in via di principio resta da sempre avviluppato nell’Io divino sommamente unitario, ovvero il supremo Sé [Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì 2007, I, II, p. 138-162].
Ebbene, per gli scopi specifici di questa lezione, si può ben dire che affermare l’onticità dell’Intelletto implica affermare anche la stessa onticità che si addice allo Spirito, e quindi implica farsi sostenitori di una sostanza onto-spirituale. Infatti Intelletto e Spirito condividono la stessa straordinaria sottigliezza di essere – per cui entrambi possono apparire l’esatto contrario del così pesante essere concreto (materia, mondo, corpo) nel mentre però intanto hanno ottime probabilità di costituirne la più estrema pienezza. Il che significherebbe che (contrariamente alle apparenze) l’essere è tanto più pieno quanto più è sottile e rarefatto, cioè quanto più è lontano dalla pensantezza e soldidità dei corpi materiali.
Nel contesto dell’onto-metafisica questa visione è stata comunque sempre minoritaria per due sostanziali motivi: − 1) perché di impronta sostanzialmente platonica; 2) perché di impronta sostanzialmente gnostica.
E per comprendere quest’ultimo aspetto basti leggere il libro di Vallin poc’anzi citato, nel quale si sostiene che l’unica vera e possibile relazione con l’Uno divino si basa sulla totale affinità onto-intellettuale che esiste tra esso e l’uomo. In altre parole, secondo questa visione, l’uomo è di per sè già un dio, e lo è in quanto è di natura onto-intellettuale. È per tale motivo, dunque, che non è data alcuna ascesa a Dio che non avvenga per via puramente intellettuale (e non invece agapico-erotica) e che quindi non giunga alla totale assimilazione a Lui da parte dell’uomo. Questa complessiva visione ricalca le linee generali di quella visione gnostica secondo la quale l’uomo non è altro che una particella dell’Uno divino (“Eone”) – ossia è un Ente ed insieme Idea da sempre presente nella mente divina −, che è stata attirata fuori da tale unione a causa di un inganno perpetrato dal finto Dio creatore o Demiurgo [Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014]. L’uomo quindi non deve fare altro che riconquistare la sua perduta dignità e natura integralmente divina, cosa che avviene proprio per la via di un’ascesa unicamente intellettuale.
Di tutto questo ho trattato specificamente in un mio articolo [Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255].
Ora è ovvio che Platone non ha mai detto cose di questo genere, ma comunque nel suo pensiero ci sono non pochi appigli per extrapolazioni in questa direzione. Non per nulla entro il medioplatonismo ed il neoplatonismo (successi nel tempo al pensatore ateniese) sono fiorite visioni di tipo esplicitamente gnostico. Si pensi all’eresia valentiniana ed a quella ariana.
E con ciò abbiamo detto cosa è accaduto dopo Platone. Intanto di Aristotele non è nemmeno il caso di parlare, dato che per lui lo Spirito non può che essere quella “sostanza seconda” la quale di onticità non è ha assolutamente nessuna. Né comunque mette conto di parlare di Spirito a proposito di altre scuole filosofiche greche e greco-romane, dato che in esse il concetto di Spirito è stato sempre molto sfumato. Fanno eccezione a questo forse solo i concetti di Intelligenza cosmica di Anassimene e dello Stoicismo, ed infine il concetto ancora stoico di Anima Mundi.
In ogni caso dal neoplatonismo in poi si diparte un filone di pensiero cristiano nel quale i concetti che ho appena illustrato si sono manifestati costantemente anche se non sempre con la forza ed esplicitezza che avrebbero potuto avere. Infatti il timore di sconfinare nell’eresia gnostica è sempre stato sempre molto forte e condizionante. Tra i pensatori di questo filone mi limito a segnalare i seguenti: − Gregorio di Nissa, Agostino, Scoto Eriugena, Bonaventura, Bernardo di Clairvaux, Eckhart, Cusano, Giordano Bruno.
Intanto però il brusco mutamento di indirizzo filosofico-metafisico della dogmatica cristiana (in direzione dell’aristotelismo) faceva sì che il concetto più propriamente religioso di Spirito subisse una certa dissociazione da quello più propriamente metafisico. Infatti fu ben presente ai pensatori di questa nuova linea (in primis Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) il rischio di sconfinare facilmente dal concetto sostanza onto-spirituale a quella di sostanza onto-intellettuale. E ciò comportava il grave rischio (in quest’epoca dogmatica temuto più che mai) di indebolire l’intendimento di Dio come Essere; finendo (come accadde in Eckhart) per intenderlo come puro Intelletto. Accadde quindi che il concetto metafisico stesso di Spirito cominciò a venire temuto, con la conseguenza che esso venne lasciato così com’era entro le Sacre Scritture (Rivelazione) senza più includerlo nel logos filosofico. Laddove esso rischiava fortemente di essere imbarazzante se non pericoloso. Non a caso Eckhart per poco non andò al rogo a causa della sua visione. Mentre a Giordano Bruno ciò accadde per davvero. E non certo (come si sostiene oggi) perché sarebbe stato (come si usa dire) una sorta di libero pensatore ante litteram. La verità è che ciò accadde perché egli fu un fervente platonico.
Non a caso entro la filosofia cristiana da quest’epoca in poi si iniziò a parlare molto più di anima che non di spirito. L’anima è infatti molto più prossima dello spirito ad una dimensione ontologica in sintonia con il sostanzialismo aristotelico.
Probabilmente, insomma, già a quest’epoca la strada era ormai aperta per l’intendimento riduttivo di Spirito che si sviluppò poi in Cartesio. E quindi con ciò possiamo considerare chiusa qui la nostra breve carrellata lungo la filosofia antica in relazione al concetto di spirito.
Resta solo da menzionare qualche elemento dello scenario che ricollega la Scolastica cristiana al XVII secolo. In questo periodo vi fu infatti la filosofia della Natura di maggiore impronta spiritualistico-platonica (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno), vi fu lo spiritualismo sostanzialista-immanentista di Spinoza e vi fu infine lo spiritualismo fortemente razionalista di Leibniz.

Ma veniamo ora alla trattazione degli elementi prevalenti dello Spirito che ho già anticipato prima.
Della dimensione onto-intellettuale ho di fatto già parlato a proposito di Platone. Qui vanno quindi solo aggiunte alcune considerazioni.
Come ho già accennato, l’onticità attribuibile all’Intelletto è più o meno equivalente a quella attribuibile allo Spirito. Lo Spirito infatti corrisponde di per sé a quella straordinaria sottigliezza di essere che è propria anche dell’Intelletto. E proprio in forza di questo esso possiede quelle straordinarie caratteristiche di indipendenza dal vincolo spaziale-locale che ne fanno qualcosa di non solo dinamico ma anche alitante per definizione – Spirito come Vento, insomma, e quindi Pneuma. Nella metafisica religiosa ebraica ciò corrisponde al concetto di “Ruah” ed in quella vedico-vedantica a quello di “prāna”. Ed a tali valenze simboliche corrisponde poi anche quella di Fuoco, ossia elemento che dissolve la solidità compatta trasformandola in elemento aereo ed ascendente (e proprio per questo poi purifica).
Per tale motivo, quindi, lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui ne si ammette il dinamismo, la forza di penetrazione dei corpi e della materia (ossia di tutto ciò che è compattamente solido) ed infine anche la capacità onto-formante nel senso della spinta alla concretizzazione di ciò che è (di per sé) igneo ed aereo. In altre parole lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui si è disposti ad ammettere che esso viola totalmente le leggi della Natura.
Intanto comunque lo Spirito in quanto Essere (sostanza onto-spirituale ed onto-intellettuale) è la suprema «Idea in quanto cosa», e quindi è in qualche modo la completezza stessa dell’essere in quanto suprema Individualità (supremo Essente, corrispondente poi all’ente per eccellenza), che costituisce poi anche la stessa Totalità di Realtà (ossia tutto ciò che possibilmente esiste). Pertanto ciò ci suggerisce molto da vicino la completezza di una realtà corporale in quanto nettamente delineata. Ciò avviene però al supremo livello dell’essere, e quindi ci suggerisce non solo la dimensione della pienezza ma anche quella della Totalità di Essere. Ecco allora che la sostanza onto-spirituale si presenta a noi con le caratteristiche di una suprema Corporalità, che nello stesso tempo è il modello costitutivo di ogni corpo (in quanto idea-possibilità-forma-progetto), è anche la Corporalità in quanto Totalità esaustiva ed è infine la Corporalità in quanto perfezione originaria dell’essere. Eccoci insomma davanti al quel concetto di “corporalità spirituale” che fu sviluppato specialmente dalla Patristica cristiana, in relazione a sua volta alla dottrina di una Prima Creazione caratterizzata dall’assoluta perfezione incorruttibile (vedi lezione quindicesima).
Intorno a questo concetto si è sviluppato nel XIX e XX un movimento di idee metafisiche definito come “materialismo spirituale”, che ha ruotato specialmente intorno ad Aurobindo [Satprem, Mère. Il materialismo divino Ubaldini, Roma, 1978]. Ma sinceramente questo mi sembra un pensiero troppo ambiguo e denso di rischi per poter venire davvero seguito.
In ogni caso la dottrina greco-ortodossa della corporalità spirituale è stata capace di ridurre notevolmente l’opposizione tra Spirito e Corpo, suggerendo così sul piano teologica una teoria della resurrezione dei corpi ben più esplicita e forte [Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre &. Frederick Tristan (a cura di), Androgino, ECIG Genova 1991, p. 79-150; Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2006, V, 108-128 p. 457-481, VI, 129-160 p. 483-519]. Infatti presso i Padri latini quest’ultima teoria è stata invece sempre un po’ più annacquata per paura di istituire pericolose assimilazioni tra realtà spirituale (divina) e corporale (mondana). In ogni caso l’integrale dottrina della corporalità spirituale implica che lo Spirito, nel corso della sua azione onto-formante, informa di sé stesso così tanto la Materia da trasfigurarla definitivamente secondo la propria natura. E questo risale poi alla natura puramente onto-spirituale (nell’esatto senso della corporalità spirituale) che il mondo possedeva originariamente entro la Prima Creazione (essendo totalmente interiore all’Uno divino). Le conseguenze di tutto ciò sono due sul piano teologico: −
1) la Resurrezione di Cristo comporta la realizzazione massima della corporalità spirituale (dato che la sua nascita e morte avevano già trasfigurato per sempre la dimensione corporale mondana, la quale invece prima era stata corrotta senza rimedio dalla Caduta); 2) la Resurrezione dei morti comporta il raggiungimento di una corporalità ancora più piena di quella ante-mortale e mondana.
Non a caso Gregorio di Nissa parla della morte fisica come di una “seconda morte” susseguente alla “prima morte” − rappresentata dalla nascita (in quanto imprigiona l’anima spirituale nel corpo) −, che è in verità una rinascita, ossia è liberatrice [Gregorio di Nissa, Sull’Anima e la Resurrezione, in: Ilaria Ramelli, Gregorio di Nissa… cit., I, 7, 44-48 p. 381-387 III, 1, 68-72 p. 411-415].

Ebbene, questa è una delle più rilevanti conseguenze etico-religiose della postulazione di una sostanza onto-spirituale. Ma essa ha delle precise conseguenze anche nel contesto dell’altro elemento che vorrei esaminare, e cioè la differenza tra Spirito trascendente ed immanente. Infatti la corporalità spirituale non sussisterebbe mai se non vi fosse intanto una continuità tra queste due dimensioni dello Spirito. E tale continuità si manifesta proprio nel corso dell’azione onto-formante. Il fatto interessante è però che tale azione viene attribuita allo Spirito non solo entro le visioni religiose ed entro il grande schema metafisico di sempre (che vede lo Spirito come opposto della Materia), ma anche entro la stessa filosofia moderna.
La stessa visione di Husserl era infatti ancora imperniata proprio su questo, anche se poi il pensiero successivo si è decisamente allontanato da tale idea.
In ogni caso, prescindendo dai vincoli dell’attualità storica, si può presumere che religione, metafisica e filosofia convergano nel concepire uno Spirito trascendente – inteso come Dio-Persona (religione), o come supremo Soggetto egoico divino intelligente-creante-ordinante (metafisica), o come semplice soggetto egoico auto-cosciente e conoscente (filosofia) – che sta in costante ed intima relazione con lo Spirito immanente costituito a sua volta dal mondo materiale già formato. Tale già compiuto atto di formazione implica poi la riduzione del caos materiale molteplice ad un ordine costituito dalla differenziazione in enti esistenti (o oggetti) ben separati tra loro ed inoltre interamente intelligibili. Un siffatto Spirito corrisponde poi a vari aspetti della stessa realtà immanente: − in termini religiosi corrisponde al mondo creato, in termini metafisici corrisponde all’universo perfettamente ordinato ed intelligibile (grazie all’azione di un Intelligenza cosmica), ed in termini filosofici corrisponde al mondo degli enti conoscibili (a sua volta poi equivalente a quel mondo che viene umanizzato a Cultura invece che sola Natura). Rispetto a quest’ultimo intendimento va però tenuto presente anche quello di pensatori come Max Scheler e Edith Stein, secondo i quali lo Spirito oggettivo consiste in primo luogo negli enti che si presentano a noi come “valori” – costituendo in tal modo un cosmo dal significato primariamente etico. E rispetto a queste cose-valori il soggetto è costantemente chiamato a prendere posizione tenendo presente l’obbligo di scelta tra bene e male e quindi esercitando in tal senso la sua volontà libera.
In ogni caso al fondo di tutto ciò vi è l’aspetto più importante. E quest’ultimo corrisponde ad un generale atto di obiettivazione dello Spirito trascendente (colto con accenti e con intensità molto diversi dalle varie discipline impegnate in questo campo), in forza del quale esso si trasfonde completamente nella dimensione immanente finendo per impregnarla completamente.
La conseguenza di ciò è quindi l’insorgere di un «mondo spirituale» che però non c’era affatto prima dell’atto compiuto dallo Spirito trascendente. E rieccoci quindi al grande schema metafisico-religioso dell’opposizione radicale tra Spirito e Materia – opposizione che però evidentemente (come ottimamente sostenuto da Edith Stein) è soprattutto interazione. Ciò significa che, in via di principio, lo Spirito è in realtà sempre solo trascendente, per cui un qualcosa come lo Spirito immanente può essere solo un suo prodotto, ossia qualcosa che appunto prima non c’era. Tuttavia, una volta che è nato ciò che prima non esisteva, ossia lo Spirito immanente, esso non è affatto meno «spirito» di quello trascendente, e pertanto la trasformazione è definitiva. Anzi si può dire che il tal modo lo Spirito stesso conquista una pienezza che esso prima non aveva, allorquando era unilateralmente trascendente. Ciò che è avvenuto è dunque una compenetrazione tra elementi opposti che ha davvero dello stupefacente nella sua pienezza di essere. Per cui ciò che ne nasce è una sorta di vero e proprio nuovo elemento ontologico. Eccoci quindi di nuovo al cospetto di ciò che prima abbiamo discusso come “corporalità spirituale”.
Nel complesso si tratta pertanto di una serie di caratteristiche ontologiche che vengono aggiunte dallo Spirito alla realtà mondano-materiale (e quindi anche corporale), nel mentre intanto però anche lo Spirito stesso si arricchisce di caratteristiche immanenti che esso prima non possedeva. Esso insomma diventa «corpo», nel mentre intanto il corpo stesso diventa «spirito». Ma questo implica anche una certa reciprocità ontologica tra i due elementi – implica cioè che il corpo diviene «spirituale» mentre lo spirito diviene «corporeo». La dimensione della corporalità spirituale corrisponde quindi ad una sorta di misteriosa e sorprendente coincidentia oppositorum, entro la quale appaiono fusi perfettamente in un binomio ontico del tutto nuovo dei caratteri ontologici che prima erano non solo radicalmente diversi ma erano anche irrecuperabilmente tra loro separati (e quindi erano riduttivamente unilaterali). In altre parole, così come prima non vi era alcuno Spirito immanente, non vi era intanto nemmeno alcunché di simile ad una corporalità spirituale. Quest’ultima insorge infatti soltanto allorquando lo Spirito trascendente ha già impregnato di sé il mondo immanente.
Tutto questo significa infine, però, che l’intera realtà mondano-materiale-corporale ha acquisito con lo Spirito una sottigliezza di essere che prima non aveva affatto. E che pertanto, se costituisce un «essere» (perfino nella sua pienezza), lo è innanzitutto perché non ha più nulla della compattezza solida, impenetrabile e statica che è tipica della realtà materiale. In questo senso l’intervento dello Spirito inverte totalmente le caratteristiche dell’essere da esso impregnato. E, come ho detto prima, nasce insomma qualcosa che la Natura non conosce affatto. Ossia, come dice Eckhart, la realtà Sovrannaturale si pone in continuità con la Natura trasfigurandone totalmente le caratteristiche [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München, 2014, I, 1 p. 25-37].
Bisogna dire comunque che − se è vero che la Patristica greca ha sviluppato questa serie di concetti in concorrenza con una metafisica occidentale che fu ben più radicale nell’opporre Spirito e Materia, e se inoltre è vero che in Occidente è stata comunque concepita una relazione tra Spirito trascendente e immanente (in religione, metafisica e filosofia) −, la pienezza dello Spirito immanente è stata in verità concepita solo presso alcune dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Mi riferisco in particolare a quel concetto di “mondo divino” (o anche “mondo animato” da presenze divine) che fu analizzato in maniera molto precisa da María Zambrano in un suo affascinante libro [Marìa Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996], e che esisté soltanto nella cultura mitologica greco-romana (oltre che ovviamente nell’animismo di sempre), nel pensiero neoplatonico, ed infine nella metafisica religiosa orientale vedica e vedantica. A mio avviso solo presso quest’ultima il concetto si trova nella sua forma più esplicita e forte. Il che avviene per mezzo dell’immagine di un ineffabile e profondissimo centro di ogni cosa che è nello stesso tempo anche il centro dei centri, ossia il centro assoluto dell’essere. Si tratta del cosiddetto jīvātma, che poi altro non è se non l’espressione più piena della totale impregnazione spirituale dell’essere immanente-mondano [René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adeplhi, Milano 1975, 73-74 p. 377-380]. Infatti il concetto qui è così forte che lo Spirito impregnante di sé tutte le cose finisce per far svanire lo stesso Spirito trascendente nella sua attualità, ossia quello Spirito che resta sospeso verticalmente sul mondo perfino dopo il suo atto di obiettivazione immanente.

Ebbene, a mio modesto parere, si può parlare di una visione filosofico-metafisica spiritualistica («spiritualismo») solo quando viene concepito qualcosa di così esplicito e forte come ciò che ho appena descritto. Sta di fatto però che intanto il termine «spiritualismo» è stato impiegato per descrivere correnti di idee filosofiche moderne come quelle che ho menzionato all’inizio sulla base di Sciacca e Caturelli.
In altre parole l’intero post-hegelismo (almeno da un certo momento in poi) sarebbe stato uno spiritualismo filosofico molto intenso. Dopo ciò che abbiamo appena visto, è però evidente che si tratta appena di un’approssimazione retorico-filosofica a quella che può venire considerata una vera visione spiritualistica. Quest’ultima è pertanto sostanzialmente extra-filosofica e forse anche (secondo l’intendimento di Scheler) extra-metafisica.
Ecco allora che per poter concepire i due elementi fondamentali della dimensione spirituale (quello dell’onticità intellettuale e quello della relazione tra trascendente ed immanente) noi dobbiamo ritornare a quella sfera esoterico-sapienziale di conoscenza della quale abbiamo parlato all’inizio. Ad essa va aggiunta naturalmente anche la religione. Ma sta di fatto che quest’ultima non sempre ha il coraggio di professare idee metafisiche estreme, come invece dovrebbe senz’altro fare. Mi riferisco in particolare al concetto cristiano di Eucaristia. Ebbene nulla manifesta più pienamente tale concetto meglio di quella corporalità spirituale una volta che essa venga concepita nei termini radicali che ho illustrato prima. In essa insomma lo spirito è carne e la carne è spirito senza più alcuna differenza tra i due elementi – e ciò esattamente secondo l’intendimento paolino e giovanneo. Eppure non è così che l’Eucaristia viene spesso intesa.
Dato che oggi più che mai sta prevalendo in teologia una forte relativizzazione razionalistica della molto forte dimensione onto-spirituale ad essa connessa. In parole povere si stenta a credere che l’Eucaristia rappresenti il toccarsi e fondersi effettivo della realtà spirituale e corporea – si stenta a credere insomma che lì ci sono per davvero il Corpo e il Sangue di Cristo.
È ovvio che qui siamo al cospetto di una delicatissima e complessissima questione di relazione tra Fede e Ragione. Ed è inoltre altrettanto evidente che non tutti possono essere interessati a cose come queste.
Il problema di fondo è però, per noi uomini moderni, la nostra disponibilità e capacità di vivere effettivamente ancora una concezione intensamente spiritualistica dell’essere. Ed abbiamo visto finora che il farlo non implica affatto abbandonarsi ad una rigida e sterile opposizione tra Spirito e Materia. Implica invece l’esatto opposto.

Ecco allora che (com’è finora avvenuto più volte nel corso di queste lezioni), nell’affrontare il tema dello Spirito, noi ci ritroviamo su un piano in cui la filosofia religiosa (specie se intensamente metafisica) offre a noi uomini comuni la possibilità di vivere in maniera estremamente concreta una visione che invece resterebbe totalmente astratta (e quindi esistenzialmente sterile) sul piano della filosofia più ortodossa e laica. E, come abbiamo potuto ben vedere, la chiave di tutto sembra risiedere proprio nel concetto di corporalità spirituale. Esso sembra infatti equivalere esattamente al suo opposto concettuale, ossia la «spiritualità corporea». In altre parole il prendere filosoficamente in esame lo Spirito non ci obbliga affatto ad allontanarci dal corpo, dalla carne e da mondo. Anzi!
Ebbene, tutto ciò offre a noi uomini comuni almeno la possibilità di guardare in un’altra prospettiva quelle circostanze in cui la dimensione corporea è per noi più un peso che non una risorsa. Si tratta insomma di quelle circostanze in cui esso è stato abbandonato dalla forza vitale che usualmente lo anima (come avviene nella malattia, nella vecchiaia o negli stati di esaurimento psico-fisico), oppure quelle circostanze in cui la corporalità mondana è esattamente il terreno sul quale le leggi della Natura esigono implacabilmente che noi paghiamo il fio dei nostri passati errori. La visione spiritualistica dell’essere (relativizzando tutte le caratteristiche della corporeità mondana in quanto Natura) ci permette in questo caso la stessa libertà (almeno interiore) che abbiamo visto possibile quando riusciamo a superare il concetto di spazio in direzione di quello di infinito ed il concetto di tempo in direzione di quello di eternità.
Inoltre proprio in tali estreme circostanze qualcosa di misterioso (spesso proprio la sorprendente resilienza che constatiamo in noi senza sapere da dove venga) ci informa del fatto che noi, in quanto enti spirituali, viviamo molto più nella dimensione ontologica interiore che non in quella esteriore. E quindi godiamo di una libertà e di una capacità di non venire pesantemente condizionati dall’ambiente, che non possiederemmo mai se invece fossimo degli enti non spirituali, ossia se fossimo degli enti unicamente carnali e/o materiali.

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Come ho detto più volte nel corso delle lezioni tenute finora, la moderna filosofia non è in fondo altro che una grande “teoria della conoscenza” (definita spesso Erkenntnistheorie secondo la dominante tradizione tedesca). Per sintetizzare userò da ora in poi la sigla TDC.
Ed ho anche spesso ricordato che così è stato almeno da Cartesio in poi.
Tuttavia non bisogna dimenticare che proprio da Cartesio in poi ciò che veniva posto in primo piano non era tanto la fisiologia della conoscenza quanto invece semmai la sua possibilità in assoluto; ovvero, detto più tecnicamente, la fondamentale «problematicità» che è caratteristica della conoscenza (problematicità della conoscenza, PDC). Il che significa che per il filosofo l’atto di conoscenza non è per nulla ovvio, come lo è invece per lo scienziato della Natura (specie il neuroscienziato) e per l’uomo comune. In altre parole dietro l’intera TDC filosofica c’è l’ipotesi di uno scetticismo di fondo; ed in assenza del quale, peraltro, si presume che diventi di fatto impossibile conoscere in maniera appropriata, cioè veritativamente.
E per questo dobbiamo senz’altro rifarci nuovamente a Cartesio. Dato che il suo «cogito» presuppone inevitabilmente un «dubito». Tuttavia sia il «cogito» che il «dubito» rinviano al soggetto quale momento decisivo della conoscenza. Infatti proprio la presenza dirimente di un soggetto impone la necessità della PDC – ciò significa che la conoscenza non può per davvero avvenire senza che essa venga validata nell’unico luogo dell’essere in cui emergono realmente il «cogito» e il «dubito». Ecco che allora non è data né è possibile alcuna conoscenza davvero valida oggettivamente, e quindi valida in maniera assoluta. La conoscenza invece può essere valida solo soggettivamente. Questo però non elimina un certo inevitabile difetto fondamentale della conoscenza stessa, e cioè il fatto che essa avviene nel soggetto, e quindi lontano dal mondo, ossia lontano dall’oggetto da conoscere.
Tutto ciò esprime comunque la classica presa di posizione idealistica in relazione alla TDC, e che ha dominato di fatto l’intera filosofia da Cartesio in poi.
Facendo una grande sintesi potremmo dire che la dottrina della PDC pone la potenzialità e non invece attualità della conoscenza.
Tale presa di posizione archiviò per sempre quella che possiamo considerare l’antica TDC, e cioè quella onto-metafisica. Secondo quest’ultima, infatti (specie secondo l’approccio aristotelico prima e tomistico poi), l’ente esistente è vero di per sé, ossia oggettivamente ed assolutamente. Proprio per questo motivo era stato sempre molto diffuso il concetto di «verità dell’essere». Il che significava poi che Conoscenza ed Essere non venivano affatto considerati separati. Il cambio di prospettiva imposto da Cartesio fu pertanto decisivo perché egli inferse il primo grande colpo alla TDC fino a quel momento imposta dalla metafisica.
Ma per chiarire ulteriormente il senso di tutto ciò rinvio il lettore alla quinta lezione, dedicata appunto a Cartesio.
In ogni caso, allorquando si è voluto contestare la problematicità della conoscenza (PDC) non si poteva che chiamare in causa esattamente il pensatore francese. È ciò che ha fatto ultimamente Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001], sostenendo che (sostituendo la Ragione con la facoltà dell’Intelletto) la conoscenza cessa senz’altro di essere problematica – specie nel senso che essa è da considerare attuata ed efficace sempre, comunque e senza il minimo dubbio. Un’altra confutazione di Cartesio è stata fatta dal famoso António Damásio [António Damásio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995; António Damásio, O livro da consciêcia, Temas e Debates, Lisboa 2010]. E questo non può stupirci affatto dato che questo studioso è un neurofisiologo (o anche neuroscienziato), e quindi non può che sostenere la fisiologia della conoscenza, ossia la sua ordinaria attualità ed infallibilità.
Il che sottolinea poi la stranezza che la PDC ha sempre avuto per la scienza empirica. Chi infatti ha studiato l’anatomo-fisiologia del cervello umano (come fanno medici, biologi, psicologi e neuroscienziati) non può né comprendere né accettare (nemmeno minimamente) che al fondo della conoscenza venga posta un’ipotesi scettica, ossia in definitiva un’ipotesi negativa. Insomma non può assolutamente venire accettato che, per poter descrivere la conoscenza, ci si debba porre primariamente il problema di cosa essa non è capace di fare. L’ipotesi della scienza empirica è invece decisamente e dogmaticamente positiva, e lo è sostanzialmente perché essa si attiene a fatti semplici ed elementari – quando interviene la funzione conoscitiva (della quale la mente umana è dotata per natura), è come se essa avesse già raggiunto il proprio scopo senza che nulla possa interporsi su questo cammino. In altre parole il concetto bio-medico di «funzione» si oppone radicalmente a qualunque concetto di «problematicità». E qui ci troviamo esattamente davanti alla dottrina dell’attualità e non invece problematicità della conoscenza.
Per la verità, da medico, devo sinceramente ammettere che anche me il concetto di PDC ha sempre fatto un po’ sorridere, se non sghignazzare. Infatti chi non è integralmente filosofo non può non trovare molto bizzarra questa dottrina.
In ogni caso questa serie di obiezioni a Cartesio sostiene in ultima analisi che soggetto ed oggetto sono ben più prossimi di quanto si possa mai pensare; anzi si può anche arrivare a dire che tra essi non vi è in realtà alcuno jato. Tuttavia va comunque fatta un’altra osservazione su tali obiezioni. Va cioè notato che Smith e Damásio (il primo fisico sub-particellare oltre che filosofo, ed il secondo neurofisiologo) hanno in comune il fatto di contestare la divisione ontologica radicale operata tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’idealismo cartesiano, e cioè la presupposizione di uno jato incolmabile tra questi due elementi.
È esattamente per questo motivo, infatti, che la filosofia ha concepito una dottrina come quella della PDC – in via di principio la conoscenza è impossibile per il semplice fatto che il soggetto è così ontologicamente diverso dall’oggetto da rappresentare una realtà totalmente inconciliabile con esso. E tale inconciliabilità può venire intesa come lontananza nello spazio, o anche come sfasatura nella relazione. Infatti la dimensione ontologica del soggetto corrisponde al mondo interiore, mentre la dimensione ontologica dell’oggetto corrisponde al mondo esteriore.
E così la domanda che sempre si è posto il filosofo rispetto alla conoscenza (in primis Cartesio) è stata la seguente: − come possono così precisamente incontrarsi (nell’oggetto conosciuto) il conoscente (soggetto) ed il conosciuto (oggetto) se questi due ultimi sono così diversi e lontani tra loro? Al filosofo, insomma, è sembrato stranissimo (se non impossibile) che un nulla di essere com’è il soggetto (fatto di pura interiorità, cioè un finto spazio pieno di entità solo astratte, ovvero la mente) possa realmente (ed anche attualmente) intercettare l’essere più pieno che esista (ossia quello mondano-esteriore). Si tratta in definitiva della problematicissima relazione esistente tra Idea e cosa, che abbiamo finora più volte esaminato specie quando abbiamo parlato di Platone.
In termini di neurofisiologia si tratta invece della semplicissima ed intimissima relazione esistente tra due entità della Natura, e cioè mente (o idea) e mondo (o cosa). E quindi in tale contesto non sussiste nessunissimo problema. Tuttavia per la filosofia non è affatto così; dato che ad essa la dimensione soggettuale-interiore (corrispondente alla mente ma in fondo anche all’anima e perfino allo spirito) è sempre apparsa come radicalmente trascendente il mondo esteriore (con tutto ciò che è connesso: corpo, carne, materia, molteplicità, divenire). Tale dimensione ha infatti sempre ricordato alla filosofia il supremo Soggetto conoscente e trascendente, e cioè Dio.
In ogni caso va detto, anche se solo per inciso (si veda per questo la seconda lezione), che idealismo e realismo – pur teorizzando entrambi la PDC − hanno dato alla questione due soluzioni abbastanza diverse.
Il primo ha infatti considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione soggettuale-interiore (cioè mentale). Il secondo invece ha considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione oggettuale-esteriore. In altre parole il primo ha affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia un’idea della cosa (ossia il conoscente, o anche conoscibilità della cosa), mentre il secondo ha invece affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia una cosa esistente, alla quale si relazionI l’idea (ossia il conosciuto, o cosa in quanto esistente).
Così, nel contesto dell’empirismo (che in qualche modo si approssima al realismo, pur essendo comunque una variante dell’idealismo), l’ipotesi realista ha lasciato supporre che la rappresentazione (idea) insorga unicamente nel contesto della percezione. La quale se ne sta poi immediatamente al ridosso della cosa, ossia dell’oggetto in quanto esistente.

Bene! Le obiezioni a Cartesio ed alla PDC hanno un loro indubbio fascino ed anche una non indifferente capacità di convincere. Il che ha peraltro contribuito non poco all’indebolimento dell’influsso di Cartesio stesso entro l’attuale TDC. Tuttavia anche queste obiezioni non sono prive di difficoltà. E ciò avviene non solo per le loro debolezze, ma invece soprattutto perché la postulazione filosofica della PDC ha delle sue ragioni di essere che sono davvero incontestabili.
Insomma, si può affermare quanto si vuole che soggetto e oggetto stanno a immediato ridosso l’uno dell’altro. Ma intanto ciò non spiega in alcun modo quell’autentico misterioso enigma della conoscenza, che venne perfettamente esemplificato da Edith Stein a proposito del “castagno fiorito” [Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, V, 6 p. 161-182].
Si tratta precisamente di questo – come faccio io a dire che è proprio un castagno fiorito quella cosa indistinta e sconosciuta (quel generico “qualcosa”) che ho appena visto davanti a me? Ebbene, lo posso fare solo perché dentro di me, al cospetto di quell’indistinto e generico qualcosa, viene innescato un processo interiore che alla fine mette capo al riconoscimento di un’essenza (a sua volta unicamente interiore), e cioè quella del castagno. In questo momento io posso quindi rispondere alla domanda “cos’è questo?” per mezzo della menzione dell’essenza, cioè dello specifico «è» di quella specifica cosa – “questo è un castagno!”.
Ecco allora che l’essenza (“cos’è questo?”) costituisce la forma conoscitiva della cosa, mentre invece il castagno costituisce la cosa stessa, ossia il “questo”.
Ma come avviene questo misterioso processo, che bypassa e salta totalmente lo jato effettivamente esistente tra la forma conoscitiva e la cosa da conoscere? La Stein si guarda bene dal dircelo perché, nell’esporre questa dottrina, ella si rifà al venerato maestro Husserl. Il quale con ossessività maniacale aveva «descritto» i percorsi mentali per mezzo dei quali secondo lui avveniva questo fenomeno, che potremmo definire come «intuizione essenziale». Tuttavia non ne aveva affatto svelato il mistero.
Non a caso la «descrizione» voleva essere appena una presa d’atto di ciò che realmente accade (la conoscenza come “fenomeno”). Non voleva invece in alcun modo essere un’esplorazione analitica del perché ciò accade. Il timore di Husserl era infatti di sconfinare nella metafisica.
Ed egli sapeva molto bene che quest’ultima non era altro che la metafisica platonica della conoscenza, ossia quella dottrina che postula la conoscenza previa (da parte della mente-anima umana) di tutte le possibili verità conoscitive relative agli oggetti. Ed in effetti il mistero della conoscenza consiste proprio in questo – come mai io sono dotato nella mia mente di immagini mentali di una cosa specifica che corrispondono ad essa così precisamente pur essendo appena delle idee?
Torniamo insomma alla pienezza del problema posto dalla filosofia come PDC – vi è un’insuperabile differenza ontologica tra idea e cosa. Ma nello stesso tempo ci avviciniamo all’esplorazione del misterioso «perché» di tutto questo. Infatti l’unico modo di spiegare questo mistero è quello di presupporre la presenza effettiva di idee innate nella nostra mente. E questo lo aveva pensato Platone non solo prima di qualunque altro filosofo occidentale, ma anche con una chiarezza ed una limpidezza che erano e sono totalmente priva di astrusità. Mentre l’astrusità (concettuale e terminologica) abbonda ad esempio presso un pensatore come Husserl.
Nel complesso si può quindi dire che hanno insieme ragione e torto sia i filosofi moderni nel porre la PDC, sia anche tutti coloro che si oppongono alla legittimità e perfino veridicità di tale ipotesi.
La ragione consiste nel sottolineare l’effettivo mistero costituito dall’atto di conoscenza in sé (concepito astrattamente ed ontologicamente, cioè come momento dell’essere), in quanto incontro davvero inverosimile tra due «sostanze» radicalmente diverse e lontane tra loro. Usando il linguaggio di Cartesio possiamo ben dire che si tratta dell’incontro tra la “res cogitans” e a “res extensa”.
Il torto consiste nel mancare di constatare che, per quanto teoricamente problematico, l’atto di conoscenza avviene effettivamente ossia attualmente, e quindi esso dimostra quanto reale sia l’incontro tra le due «sostanze». Dunque sul piano pratico è assolutamente ridicolo supporre e/o porre la PDC. Tuttavia bisogna anche dire che l’atto critico di messa a nudo di tale ridicolo è drammaticamente esposto alla mancanza, nel suo contesto, di una vera e propria TDC. In altre parole chi contesta la PDC dispone di argomenti piuttosto poveri e deboli per spiegare l’atto di conoscenza su un piano che non sia appena quello della costatazione di meccanismi fisiologici, ed inoltre rifiuta totalmente di prendere atto della misteriosità dell’atto di conoscenza stesso. Insomma in tal ambito si è perfettamente in grado di illustrare il «come» della conoscenza, ma non si è quasi per nulla in grado di illuminare il suo «perché». In definitiva gli oppositori della PDC sono tutti dei pragmatisti. Ma nell’esserlo sono anche estremamente banali e superficiali nella loro argomentazione. La quale consiste appena in quanto segue: − «Ciò accade semplicemente perché accade. Punto!».
Ora, tenendo conto delle questioni poste dalla PDC, il vero e profondo «perché» potrebbe invece venire descritto nel modo seguente: − perché mai accade che due «sostanze» fatte per non entrare in contatto l’una con l’altra, invece lo fanno e lo fanno peraltro continuamente e con estrema efficienza? È evidente che questa domanda conduce poi a quella ancora più fondamentale, che è poi è tipicamente filosofica − «cos’è mai la conoscenza?», ossia «qual è l’essenza della conoscenza?». Ebbene, la risposta universalmente fornita dalla filosofia moderna a tali domande è consistita sempre nella radicale differenza tra Conoscenza ed Essere. Abbiamo visto prima che invece la filosofia antica aveva sempre preferito postulare l’identità tra Conoscenza ed Essere.
Ma con ciò ritorniamo di fatto alla stessa PDC, dato che, con il constatare la differenza tra Conoscenza ed Essere, non si è spiegato assolutamente nulla ma si è invece preso semplicemente atto di un preciso fatto onto-metafisico – l’essenza della Conoscenza e l’essenza dell’Essere sono radicalmente divergenti.
La Conoscenza designa la sfera di essere corrispondente al soggetto, all’Io, all’oggetto già conosciuto (reso intelligibile), all’interiorità ed alla mente. L’Essere designa invece la sfera di essere corrispondente all’oggetto, al non-Io, all’oggetto non ancora conosciuto (non ancora intelligibile), all’esteriorità ed al mondo.

In ogni caso Smith e Damásio affermano in modo diverso l’ovvietà (assolutamente non problematica) dell’atto di conoscenza.
Il secondo (Damásio) lo fa sul piano puramente scientifico-empirico, sostenendo che mente e mondo fanno entrambi parte della Natura, e quindi non vi è assolutamente alcun mistero nel loro costante incontro.
Per questo egli critica il “dualismo” cartesiano ritenendolo completamente errato. Ma lasceremo da parte tale osservazione dato che essa rientra nel campo della scienza e non della filosofia.
Il primo (Smith) – essendo realmente anche un filosofo, oltre che uno scienziato della Natura – lo fa invece appunto sul piano filosofico, e quindi chiama in causa la radicale differenza che vi è tra Ragione ed Intelletto. Egli critica quindi Cartesio per il suo dualismo a causa del fatto che esso istituirebbe un supposto inevitabile “biforcazionismo” tra soggetto conoscente e mondo unicamente perché il pensatore francese tenne presente la Ragione non invece l’Intelletto. La critica di Smith è quindi rivolta in fondo all’intera moderna TDC, dato che invece quella antica (incentrata in Tommaso d’Aquino) era basata sull’Intelletto e non sulla Ragione. E proprio per questo, del resto, essa postulava l’identità tra Conoscenza ed Essere, ossia l’assenza di qualunque jato tra soggetto ed oggetto.
Ebbene, l’Intelletto soggettuale possiede secondo Smith un’affinità addirittura naturale (oltre che totale) per l’oggetto mondano, ossia è fatto esattamente per entrare in intima relazione con esso come avviene appunto nell’atto di conoscenza. E l’intimità del contatto è proprio il fattore chiave di questa interazione, dato che l’Intelletto possiede una capacità di penetrazione profonda dell’oggetto − corrispondente poi all’”intus-legere”, e quindi all’etimologia stessa del termine “intelletto” [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, IVb p. 54-55] – il cui aspetto principale è l’”intuizione” e non invece il raziocinio. Ecco allora che, finché l’atto soggettuale di conoscenza è e resta appena il raziocinio (proprio della Ragione), è inevitabile che il soggetto sia e resti ontologicamente separato dall’oggetto per mezzo di uno jato davvero insuperabile. Ed ecco allora davanti a noi il nucleo stesso della PDC. Se però, invece, l’atto soggettuale di conoscenza viene visto nell’«intuizione intellettuale», allora svanisce ogni distanza ontologica tra soggetto conoscente ed oggetto. Quindi svanisce anche la supposizione di una PDC.
Qualcosa di molto simile viene affermato anche da Frithjof Schuon nel sostenere che, proprio sulla base di tale capacità di penetrazione caratteristica dell’intelletto, il soggetto umano è perfettamente in grado di conoscere a fondo perfino l’Assoluto divino [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72].
Insomma Smith sembra in tal modo aver risolto ed archiviato quella dottrina della PDC che intanto non era mai stata dismessa dalla filosofia. Tranne nelle forme di ultimissimo realismo filosofico che però hanno abbracciato definitivamente e totalmente la presa di posizione della scienza empirica.
Si potrebbe dire allora che il mistero dell’atto di conoscenza viene svelato anch’esso allorquando si chiama in causa l’Intelletto e non la Ragione. E del resto la Stein (che abbiamo visto protagonista della descrizione dell’atto di riconoscimento del castagno fiorito) parla di Intelletto in quanto Spirito anche perché differenzia nettamente quest’ultimo dalla Ratio, nonostante la prossimità che essa ha all’atto intellettuale e conoscitivo [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VII, II, 1 p. 99-100].
Ciononostante però forse Smith semplifica un po’ troppo le cose. Egli infatti non parla per nulla della problematica conoscitiva centrale, ossia quella del riconoscimento dell’essenza della cosa. Il suo tema è invece la straordinaria e sorprendente intensità di conoscenza che è stata raggiunta per mezzo dei moderni strumenti a disposizione della fisica sub-particellare. I quali appaiono in grado di permettere ormai una penetrazione conoscitiva dei fondamenti più invisibili e più ultra-percepibili della cosa mondana; penetrazione conoscitiva che a sua volta è molto più intuitiva che non rigorosamente razionale.
Infatti le caratteristiche delle particelle sub-atomiche sfuggono totalmente alle leggi razionali dello spazio geometrico cartesiano, e quindi possono venire colte solo facendo appello ad una sorta di metafisica scientifica. E questo secondo Smith è possibile solo invocando l’intuizione intellettuale in luogo dell’argomentazione razionale. La sua tesi è pertanto che sarebbe sempre esistita una possibilità di piena penetrazione conoscitiva della più intima costituzione della cosa mondana, che ultimamente è stata appena slatentizzata dall’avvento di strumenti assolutamente rivoluzionari.
Ciò che dice lo studioso è insomma estremamente affascinante (anche perché egli si appella in fondo ad una perfetta conoscenza intuitivo-intellettuale della Natura che era stata già esposta molto tempo fa da Tommaso). E tuttavia la sua tesi appare non poco stiracchiata e forzosa. Essa inoltre non tocca affatto il tema centrale della PDC, e cioè quello del riconoscimento dell’essenza della cosa.
In ogni caso però anche Schuon (nel trattare della perfettamente plausibile conoscenza umana dell’Assoluto divino) chiama in causa esattamente quella capacità di penetrazione che è solo dell’Intelletto e non invece della Ragione. E quindi l’argomentazione di Smith non deve poi essere così lontana dalla verità.
E cioè molto probabile che, da Cartesio in poi, noi tutti siamo stati tratti in inganno dal fatto che abbiamo attribuito al soggetto conoscente la Ragione e non invece la capacità di penetrazione intellettuale.
Pertanto è altamente probabile che la complessiva dottrina filosofica della PDC sia del tutto artificiosa e perfino del tutto inconsistente.

Bene! Quale lezione noi uomini comuni possiamo trarre da tutto questo?
A mio avviso si tratta di fare una sorta di bilancio delle argomentazioni e delle obiezioni che ho finora illustrato. Come abbiamo visto, il torto e la ragione stanno qui dappertutto e da nessuna parte. E quindi è possibile che noi possiamo davvero vedere le cose come stanno solo se mettiamo insieme tutto ciò che abbiamo visto finora tentando di ottenere un quadro di insieme e ottenendo così un risultato netto.
Ebbene, al netto delle varie argomentazioni presentate, io direi che prevale decisamente il bizzarro paradosso costituito dal considerare la conoscenza come problematica. Tutti noi conosciamo e lo facciamo peraltro continuamente – che ciò avvenga in maniera ordinaria o anche straordinaria. Tutti insomma pratichiamo efficacemente la conoscenza, e di certo senza nemmeno essere consapevoli della sua problematicità.
In altre parole la perfezione dell’ordinaria fisiologia della conoscenza ci dispensa pienamente dal dover professare qualunque teoria della PDC.
Resta però comunque il problema più propriamente filosofico, e quindi esso non viene affatto eliminato da ciò che non facciamo ordinariamente, spontaneamente e con perfetta efficienza. Risulta quindi chiaro che la dottrina filosofica della PDC non può né deve concernere in verità alcuno scetticismo gnoseologico (come però avviene correntemente). Essa cioè non può mettere in dubbio il perfetto compimento (del tutto ordinario) dell’atto di conoscenza. Può invece al massimo mettere a nudo il mistero della conoscenza.
Qui viene però il punto decisivo.
Per divenire pienamente consapevoli del mistero della conoscenza, noi abbiamo davvero bisogno della lezione filosofica, ed in particolare di quella moderna? Io direi di no. Ed il motivo l’ho già menzionato prima – chi ha posto per primo e pienamente il mistero della conoscenza è stato Platone. Ma intanto egli non si era nemmeno sognato di tematizzare una PDC. Egli invece si era limitato a fare ciò che il filosofo è di fatto costretto a fare (se è davvero onesto) qualora il suo cammino viene sbarrato dal mistero – egli si è rivolto al mito, ed in particolare a quello orfico. E così è giunto alla conclusione che l’unico modo per illuminare (anche solo debolmente) il mistero della conoscenza consiste nell’ammettere che il «conoscere» è esattamente come si mostra a noi ordinariamente, cioè è appena un «ri-conoscere». È in definitiva il ritrovare in qualcosa di sensibile (percezione) una conoscenza dell’essenza (di quella sconosciuta cosa) che è infallibile solo perché un tempo già la si possedeva. Ed ecco la teoria della reminiscenza. Che è poi la postulazione di un pieno possesso, da parte nostra, di una vera e propria perfetta conoscenza previa di ogni cosa.
Ma qui ci viene di nuovo incontro il concetto di «intuizione intellettuale». Evidentemente, infatti, tra quest’ultimo e la conoscenza previa vi sono rapporti molto stretti. Insomma, allorquando io osservo che l’intuizione intellettuale mi permette di conoscere infallibilmente proprio l’essenza della cosa che intanto ho davanti percettivamente (permettendomi così di gridare con giubilo «questo è un castagno fiorito»), ciò significa che io, esattamente in quel momento, sto ri-conoscendo qualcosa che un tempo già conoscevo perfettamente. In altre parole io sto ri-attualizzando la conoscenza previa della quale da sempre ero in possesso; e che però dalla mia nascita in poi è stata occultata dall’oblio causato dalla carne.
Ebbene tutto questo è stato illustrato in maniera davvero esemplare da un grande pensatore platonico-cartesiano moderno e cioè il russo-francese Alexandre Koyré, allievo di Husserl [Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York 1960].

E su queste ultime notazioni credo proprio che possiamo finalmente fermarci.

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Quello che ho detto del tempo nella diciottesima lezione vale più o meno anche per lo spazio.
Anche lo spazio è infatti una continuità, e pertanto il concetto di «sostanza» si presta bene a raffigurarlo (insieme al connesso concetto di «causalità»). C’è tuttavia una rilevante differenza tra le due dimensioni ontologiche. Ed essa consiste nella differenza esistente tra dinamismo e stasi – infatti l’essenza del tempo è il dinamismo, mentre l’essenza dello spazio è la stasi.
Ho concluso la precedente lezione dicendo che in verità l’essere va considerato dinamico, e quindi non posso qui contraddirmi affermando l’esatto contrario. Su questo aspetto potrò però essere più chiaro solo alla fine di questa lezione. In realtà ho però anche detto che l’essere non è né dinamico né statico, ma è semmai invece un insieme inestricabile di queste due dimensioni. E così posso ora aggiungere che l’essere dinamico alla fine sfocia sempre nell’essere statico nel momento in cui configura una Totalità. Quest’ultima può essere di certo una totalità infinita ma non per questo cessa di essere ciò che è, ossia una incommensurabile Unità. E come tale è inevitabilmente statica, ossia è e resta uguale a sé stessa. Il che avviene poi inevitabilmente nel tempo, ossia avviene perennemente. Quindi la Totalità quale Unità «è e resta perennemente identica a sé stessa», cioè resta identica a sé stessa sia spazialmente sia anche temporalmente. Come ho detto poc’anzi, alla fine di questa lezione potremo giungere alle definitive conclusioni circa questo aspetto.

Ci troviamo comunque in tal modo davanti alla stessa distinzione che abbiamo riscontrato per il tempo – vi è insomma uno spazio immanente ed uno spazio trascendente. Lo spazio immanente corrisponde all’effettiva estensione (che noi cogliamo molto distintamente per mezzo dei sensi), mentre lo spazio trascendente corrisponde ad una solo apparente estensione.
L’estensione spaziale effettiva è dunque quella che è caratterizzata dalla consecuzione (o sequenza) di luoghi in quanto punti, ed essa è talmente serrata da suggerirci sempre l’immagine di una linea. La linea è insomma una somma di punti, o anche luoghi. E su questo poi la filosofia ha iniziato a riflettere molto precisamente già da Aristotele in poi. Infatti nelle “Categorie” egli fa un’analisi molto precisa ed esaustiva della linearità spaziale. Ma non mi soffermo su questo perché dovrei entrare molto in dettaglio.
L’estensione solo apparente è invece quella che è caratterizzata da una linea (quale insieme di punti) in assenza però di una vera continuità. Infatti ogni suo luogo o punto essa rinvia alla Totalità dell’estensione, ed è quindi essa stessa un Tutto. Tale discorso è molto simile a quello che abbiamo fatto al riguardo della Totalità del tempo trascendente, ossia l’eternità. La differenza sta solo nel fatto che, mentre li si trattava dell’«eternità di un quando», qui invece si tratta dell’«ubiquità di un dove». In altre parole qualunque «dove» dell’estensione trascendente è sempre anche un «dovunque», e quindi configura sempre un «tutto spaziale». Invece qualunque «quando» del tempo trascendente è sempre anche un «sempre», e quindi configura un «tutto temporale».
Inutile dire che, almeno da Kant in poi, questo genere di discorso sullo spazio trascendente (così come sul tempo) è divenuto filosoficamente insostenibile. Kant direbbe che esso non trova alcun riscontro nell’esperienza, quindi è un assurdo logico costruito artificiosamente dalla mente (una “chimera” o “paralogismo logico”), e pertanto è privo di qualunque effettiva realtà. I moderni filosofi analitici e del linguaggio troverebbero inoltre in questo discorso tutta una serie di esiziali cortocircuiti logici che secondo loro hanno piena giustificazione nelle false connessioni tra cose che tende a venire istituita dalla mente soggettuale. E che poi sono prive di qualunque presa nella realtà oggettiva.
Tuttavia – anche se non potrei menzionarne i luoghi specifici – nel pensiero antico lo spazio trascendente veniva considerato esattamente come io l’ho poc’anzi descritto. E prova può esserne il fatto che il discorso tomista sull’Atto puro (vedi lezione diciassettesima) si presta bene a venire extrapolato in questo senso – lo spazio trascendente insorge quando viene abolita la necessaria progressione di essere da potenza ad atto (cioè da possibilità a realtà), e quindi viene abolita la sequenza di luoghi. In questo caso il singolo luogo (potenza) è sempre ontologicamente equivalente alla totale estensione dello spazio (atto); ossia la potenza è sempre già tradotta in atto.
È evidente che con ciò si è sempre descritto lo spazio corrispondente al livello divino di essere – caratterizzato dall’eternità così come anche dall’ubiquità (o omnipresenza). Ed in effetti, se ci riportiamo al concetto gregoriano di “adiastáto”, possiamo constatare che lo spazio eterno è esattamente privo di estensione, e quindi non è assolutamente sequenziale.
Intanto bisogna registrare la davvero fondamentale riflessione cartesiana sullo spazio, che identificò quest’ultimo esattamente come “res extensa”, ossia attribuì ad essa esattamente il carattere essenziale dell’estensione. Per Cartesio insomma lo spazio non è altro che estensione, e quindi è invariabilmente sequenza. Ebbene, questo non è solo lo spazio immanente ma è anche il modello ontologico per qualunque genere di possibile spazio. Per cui non vi è per lui alcun altro spazio; meno che mai uno spazio trascendente. Quest’ultimo può infatti corrispondere al massimo a quella “res cogitans” che è la sostanza della mente, e come tale è un flusso più che non una sequenza.
Kant venne infine a dirci che, se è vero che lo spazio esiste primariamente nella nostra mente (come “a priori”), intanto esso viene però proiettato sulla realtà presentandosi così a noi invariabilmente proprio come una sequenza, e precisamente una sequenza casuale. Pertanto, pur essendo in principio soggettivo, per lui lo spazio oggettivo è comunque lo stesso di Cartesio.
E credo che di più davvero non ci sia da dire sulla classica trattazione filosofica dello spazio. Almeno io personalmente non ho studiato così approfonditamente il tema da poter elencare ulteriori dottrine che lo teorizzino.

A questo punto non mi resta che rifarmi, quindi, agli studi tradizionali che ho già altre volte menzionato nel corso di queste lezioni. I quali a loro volta si rifanno ad una riflessione metafisica che in Occidente è avvenuta soprattutto nel neoplatonismo (specie con Plotino), mentre in Oriente è avvenuta con i Vedanta ed in parte anche con il Buddhismo.
Secondo questa tradizione di pensiero (che potremmo genericamente definire «platonica») lo spazio immanente non esiste affatto almeno quanto non esiste affatto l’essere immanente. Essi sono certamente evidenti ai nostri sensi (tanto che all’uomo comune può sembrare una vera follia negare che esista qualcosa come lo spazio esteso), ma in verità tutto ciò è solo frutto di illusione.
Ebbene per tutto questo mi è sempre sembrata paradigmatica la riflessione condotta su tale aspetto da René Guénon [René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi, Milano 2006, 1-4 p. 19-55]. Egli sostiene in particolare che l’intera fisica moderna ha commesso il grave errore di scambiare la massa elementare con la corporalità elementare – come se, insomma, noi cogliessimo percettivamente ciò che è elementarmente quantitativo (cioè la struttura fondamentale delle cose, o enti) in quanto corpo. È un fatto, del resto, che l’intera fisica moderna (dalla filosofia della Natura rinascimentale in poi) ha descritto tutto il possibile in termini di relazioni tra “corpi”. Guénon sostiene invece che la corporalità è l’esatto contrario di ciò che è fisicamente elementare, e cioè la massa che noi (su sollecitazione della scienza) crediamo di cogliere come dimensione quantitativa basica. Quest’ultima è infatti quanto noi usualmente definiamo come «corpuscoli» (molecole, atomi etc.), che si ritiene poi vadano a costituire le cose del mondo in quanto corpi. Tutto ciò, dice lo studioso, non è altro che il livello più infimo dell’essere, ossia quello che appunto corrisponde alla “materia” bruta e primordiale.
E quest’ultima è “quantità”, in luogo di “qualità”, esattamente perché non è organizzata in alcuna struttura. Dunque essa è solo puro caos, e pertanto non può essere nemmeno intelligibile.
Per questo si tratta di massa e non di corporalità. Quest’ultima è invece organizzata e composta per definizione, e pertanto è perfettamente intelligibile.
È evidente, quindi, che quanto non ha alcuna struttura non può nemmeno in alcun modo costituire la struttura fondante la realtà. Ossia (nella questione che stiamo dibattendo) la struttura fondante la realtà non può essere affatto lo spazio occupato dai corpi che a loro volta stanno tra loro in relazione dinamico-causale. Tutto ciò significa allora che è stata del tutto arbitraria l’assunzione di poter toccare il fondamento delle cose semplicemente portando l’indagine sempre più in basso lungo i livelli di essere. Tutto ciò ha avuto quindi solo il significato di pervenire al supremo «basso». Ma non ha significato affatto pervenire ad una spiegazione ultima.
In altre parole l’accusa di Guénon alla moderna scienza empirica (con al centro la fisica della massa e dei corpi in relazione causale tra loro) è quella di averci condotto a conoscere un mero nulla, ossia di averci portato a non conoscere affatto.
Ecco che allora ciò che ci viene dato come struttura fondamentale della realtà, è in verità una costruzione totalmente artificiosa ed irreale. In tal modo, infatti, dice Guénon, ci viene dato appena di venire a sapere del livello di essere che si trova al di sotto (“infra”) del vero ed autentico livello basilare della realtà, che è appunto caratterizzato dai corpi (in quanto strutture composte e complesse, e non invece elementari).
È in tale contesto che, secondo lo studioso, è nata nella scienza della Natura l’idea dello spazio come estensione fondamentale, ossia contesto nel quale dei corpi elementari starebbero in relazione tra loro costituendo così il tessuto sottilmente quantitativo di qualunque forma di realtà. È evidente che allora, se pure tale spazio può venire concepito, esso non può venire affatto inteso come il fondamento della realtà. E quindi diviene giustificatissimo considerarlo appena un’illusione dei sensi. Esso, infatti, corrisponde perfettamente al luogo più infimo ed oscuro dell’essere in cui regna in verità il più puro caos, e cioè quello corrispondente alla materia bruta. Anzi per Plotino questo è il luogo in cui non regna altro che il male stesso.
Del resto non è affatto difficile provare la veridicità di tutta questa dottrina. Basta infatti che io mi giri intorno nella mia stanza e non vedrò altro che corpi, cioè strutture complesse e composte invece che elementari – tali sono la sedia su cui siedo, il tavolo al quale mi appoggio, e le mura che mi circondano etc. Io non percepisco altro che questo, e quindi addirittura non ho alcuna prova dell’ipotetico spazio invisibile che (come continuità infra-sensibile) connette tutte queste cose. Di certo io intanto «mi oriento nello spazio», cioè identifico delle grandi direttrici che mi fanno sentire al centro di uno spazio ben ordinato.
Ma anche questo non è che un insieme composto e complesso, ossia è un blocco corporale e quindi è una Totalità corporale.
È ovvio però che qualunque moderno scienziato della Natura (ancor più coloro che hanno approfondito la fisica sub-particellare) potrebbe solo sbellicarsi dalle risate di fronte ad una dottrina come questa.
Sta di fatto, comunque, che essa non ha alcuna pretesa di essere una dottrina scientifica, bensì vuole essere solo una dottrina metafisica, e specificamente onto-metafisica. Abbiamo anche visto che peraltro l’argomentazione non è priva di una sua logica ineccepibile.
A questo va aggiunto però che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo iniziò a svilupparsi quella teoria “gestaltica” che diede ragione dell’essere proprio come insieme di Totalità corporali organizzate ed esso stesso alla fine Totalità corporali organizzata [Barry Smith (ed), Foundation of Gestalt Theory, Philosophia Verlag, München Wien 1988]. Ma sta di fatto che questo era stato già perfettamente intuito da Platone nel Timeo.

Che dire allora?
La visione metafisica (specie se orientata «platonicamente») ci permette di non incorrere in una molto probabile illusione nella quale sembra incorrere perfino la scienza empirica più rigorosa e realista. E si noti bene che questa è una metafisica davvero estrema. In essa è infatti del tutto assente perfino quel concetto di sostanza che, da Aristotele in poi, è stato impiegato proprio per giustificare l’idea di una spazialità fondamentale. Infatti nell’argomentazione di Guénon non vi è alcuna traccia di tale concetto. E del resto, altrove nello stesso libro, egli identifica la dimensione qualitativa dell’essere (ossia quella per lui davvero rilevante) con l’”essenza”; laddove invece la dimensione quantitativa viene da lui identificata con la “sostanza”.
Ecco allora che l’onto-metafisica di stampo aristotelico si presenta come un vero e proprio materialismo a fronte di quella platonica. E sembra quindi che proprio da tale materialismo (che esso sia scientifico o addirittura metafisico) si debba fuggire per non cadere in una delle più robuste illusioni che caratterizzano la nostra esistenza, cioè quella di vivere restando costantemente immersi in uno spazio. Del resto va al proposito anche osservato che sia il concetto di «spazio» che quello di «mondo» sono sostanzialmente metafisici e non scientifici. Nessuno di noi infatti si imbatte, nel corso dell’esperienza sensibile, in un oggetto riconoscibile come spazio o mondo. E ciò rende le cose davvero paradossali.

Bene! Allora quale lezione possiamo trarre da tutto questo, sintetizzando la questione a vantaggio dell’uomo comune? Se lo spazio (immanente) è in verità solo un’illusione, quale ricaduta può avere questa consapevolezza nella nostra esistenza quotidiana?
Io direi che la principale ricaduta è quella che ho evidenziato anche alla fine della lezione sul tempo. Infatti l’assenza di un fattuale «dove» corrisponde abbastanza bene all’assenza di un fattuale «quando».
E pertanto, quando io soggiorno in un luogo (avendo così davanti a me la prospettiva di dovermi penosamente ed interminabilmente trascinare da questo luogo ad altri luoghi successivi) in verità non sono affatto davvero lì, ma sono invece in qualunque possibile luogo dell’infinità corrispondente allo spazio trascendente. Ecco allora che la dimensione dell’eternità (corrispondente al tempo trascendente) equivale alla dimensione dell’infinito (corrispondente allo spazio trascendente).

In verità non è affatto difficile rappresentarsi questa costante relazione esistente tra lo spazio immanente e quello trascendente. Anzi essa ha perfino una sua stringente logicità di tipo simbolico-geometrico.
Tale logicità consiste in due fatti appaiati e interconnessi tra loro. Il fatto che lo spazio immanente è una Totalità unitaria solo potenziale, cioè per davvero molteplice, e quindi per davvero essa consiste in una sequenza di punti-luoghi (i molteplici «dove»); e il fatto che lo spazio trascendente è invece una Totalità unitaria pienamente attuale, cioè per davvero unitaria, e quindi per davvero essa consiste in un solo punto (che a sua volta in maniera sublime corrisponde ad una linea priva di estensione sequenziale). Ecco che la Totalità unitaria potenziale è l’effettiva spazialità intesa come sequenza, mentre la Totalità unitaria attuale è la super-spazialità infinita.
Un diagramma può servire a comprendere meglio questa relazione. Esso consiste in definitiva in un semplicissimo triangolo la cui base poggia sulla linea dello spazio immanente mentre il suo vertice tocca un punto della linea dello spazio trascendente. Possiamo facilmente constatare come un solo punto dello spazio trascendente (quello toccato dal vertice del triangolo) abbraccia in sé un intero segmento della linea dello spazio immanente (corrispondente alla base del triangolo). E così possiamo dire che i due punti (apparentemente) separati da questo segmento sono in verità uniti nel punto trascendente. Tutto questo può del resto valere anche per la relazione tra tempo immanente e tempo trascendente. Per cui ciò che vale per l’infinito vale anche per l’eternità. Pertanto, così come l’intero tempo di un’esistenza (o anche di un mondo) può essere ricompreso in un solo punto dell’eternità, allo stesso tempo l’intero spazio di un’esistenza (o anche di un mondo) può venire ricompreso in un solo punto dell’infinito.
Bisogna far notare che questa serie di immagini teoriche non è altro che la conseguenza della dottrina filosofico-metafisica (prevalentemente platonica) secondo la quale l’Uno (cioè il Punto supremo, o anche Principio) contiene in sé totalmente la molteplicità immanente.

Ebbene, tutto ciò ha una conseguenza estremamente importante dal punto di vista metafisico-religioso, che è stata analizzata in maniera profondissima da Edith Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006]. Uno degli aspetti della località rigorosamente determinata è infatti quello della nostra finitezza di enti umani. Noi, insomma, sentiamo di non avere il diritto di considerarci anche appena un po’ più grandi di quel punto infinitesimo ed insignificante che effettivamente siamo nell’universo. In verità, però, noi siamo dei finiti in costante relazione con l’Infinito. E quindi siamo potenzialmente degli enti infiniti.
Dunque, così come noi viviamo nell’eternità ogni attimo della nostra esistenza, allo stesso modo viviamo nell’infinito non solo in ogni luogo in cui ci intratteniamo ma addirittura anche nel luogo che più ci intrappola nello spazio immanente (quello caratterizzato da un limite insuperabile), e cioè il «noi stessi» in quanto individui corporali (dotati di un’identità che in primo luogo è differenziazione, cioè netta separazione da tutto ciò che non siamo). Ma in verità noi viviamo ben oltre questi limiti. E ciò ci viene attestato proprio da Edith Stein nel sottolineare un aspetto dell’ente umano che ha una sua precisa validità filosofica oltre che metafisico-religiosa – l’uomo in quanto spirito (o più precisamente anima spirituale), e quindi Io spirituale, trascende sé stesso quale corpo proprio non essendo in alcun modo sottomesso al vincolo della localizzazione [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, II, IIB, 6 p. 191-193, II, III, 4-5 p. 226-229 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 5, 3 p. 115-116, II, Intr. II, 1, 1 p. 157-163, II, 2, 3 p. 240-255; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 22-23 p. 321-344; Edith Stein, Endliches …. cit., VII, 2-4 p. 307-323, VII, 9, 8 p. 385-387]. La spiritualità umana differisce da quella vegetale esattamente per questo motivo. E quindi essa è nella sua essenza perfettamente equivalente al senso più ardito che ha la parola “spirito”, e cioè quella di “Pneuma” o “Ruah”, cioè “alito” (Hauch), soffio che «va dove vuole». Per la pensatrice, infatti, la nostra vita intellettuale è spirituale proprio per questo; in quanto essa, per definizione, si muove in ogni direzione dello spazio e del tempo senza alcuna limitazione. E questo è poi anche uno degli aspetti sviluppati da Agostino (vedi diciottesima lezione) nel sottolineare la facoltà della memoria di cui dispone l’anima conoscente – essa è vissuto quotidiano e costante dell’eternità.
In termini filosofico-gnoseologici ed anche in termini neuro-fisiologici si tratta del fenomeno della “ripresentazione”. Il quale poi ci riporta a quanto abbiamo visto a proposito del saggio di Ricoeur dedicato alla memoria (vedi ottava lezione).
Ebbene il divenire consapevoli di tutto ciò può essere per ognuno di noi ben più che un’astratta e cervellotica consolazione. Può essere infatti consapevolezza della speciale natura ontologica dell’intellettualità che ci contraddistingue come enti umani, e cioè consapevolezza della natura spirituale di tale status. E ciò significa in primo luogo trascendenza del mondo in quanto sconfinata libertà.
Ma, in termini più specificamente religiosi, ciò implica inoltre la straordinaria similitudine del nostro essere con quello divino. Si tratta insomma di quanto continuamente ci ricorda la davvero straordinaria preghiera del Pater Noster – noi viviamo corporalmente nella spazialità immanente, ma in verità nello stesso tempo (grazie al nostro discendere dal Padre in quanto «figli») viviamo nell’eternità. Il che significa che, allorquando noi veniamo letteralmente dilaniati o stritolati dalle molteplici conseguenze della sequenza spazio-temporale, in realtà noi non siamo affatto lì, ma invece siamo del tutto al sicuro sotto le ali del Padre. Ciò avviene specialmente nella forma davvero atroce del dover pagare a caro prezzo fino all’ultimo dei nostri passati errori; e spesso addirittura essendo totalmente innocenti, a causa del fatto di aver commesso errori solo in piena buona fede e magari anche con ottime intenzioni.
In ogni caso, se nemmeno questo serve a farci sentire meglio come individui (comunque gettati nel mondo e inchiodati da altri aspetti, ben meno gradevoli, della consapevolezza intellettuale), almeno può servire ad avere un maggiore rispetto per il nostro prossimo umano. Infatti, per quanto spregevole quest’ultimo possa essere, comunque parteciperà anch’esso della straordinaria dignità che ho appena descritto.

Ma c’è un ulteriore aspetto da tener presente quando si intravvede l’orizzonte trascendente ed infinito della spazialità. Ed ancora una volta esso ha una stretta relazione con la dura condizione rappresentata dalla nostra finitezza. Si tratta in particolare di un aspetto etico che sta in connessione con la spazialità intesa come (in primis) località delimitata. Di tutto ciò ho parlato comunque nel saggio da me dedicato al valore che a mio avviso dovrebbero ritornare ad avere i piccoli luoghi [Vincenzo Nuzzo, Localismo. Il valore sacro del piccolo luogo, Victrix, Forlì 2020].
Il fatto è insomma che (sulla base di quanto abbiamo visto finora), allorché noi ci troviamo confinati in un luogo molto drasticamente circoscritto (come avviene per ogni piccolo luogo tagliato fuori dall’intensissima rete di scambi che caratterizza invece i grandi luoghi civici), noi possiamo avere una ragionevole dose di certezza che è così solo apparentemente. È così, infatti, solo sul piano di una consapevolezza che tiene presente il solo spazio immanente, ossia quello impostoci dall’illusione sensoriale quale incontrovertibile evidenza. Non è così invece tutte le volte che la nostra consapevolezza inizia a tener presente (e magari anche contemplare) il concetto di spazio trascendente. Ecco che allora l’uomo si ritrova proiettato di colpo in quell’infinito che è insieme anche eternità. Egli si ritrova quindi a vivere in una condizione in cui il muro (apparentemente impenetrabile) delle apparenze viene continuamente trapassato (o letteralmente sfondato) in direzione di una dimensione esistenziale radicalmente diversa da quella immanente.
È insomma come se noi vivessimo contemporaneamente in due mondi, in due dimensioni parallele dello spazio ed anche del tempo – quella immanente (nella quale siamo immersi corporalmente) e quella trascendente (della quale partecipiamo in quanto enti spirituali).
Ebbene, io personalmente conosco due circostanze in cui è possibile vivere tutto ciò in una maniera estremamente concreta, ovvero per mezzo di atti simbolici dal significato molto forte.
La prima di queste circostanze è molto in generale l’esperienza religiosa, e più in particolare la preghiera.
E senz’altro qualcuno potrebbe a buon diritto aggiungere a quest’ultima l’esperienza della famosa «meditazione» (sebbene io resti convinto che la prima è infinitamente superiore alla seconda).
La seconda di queste circostanze è l’attività intellettuale-spirituale stessa, e più precisamente quella davvero intensa. Anche di questo ci ha parlato Edith Stein descrivendo lo straordinario quanto ordinario fenomeno dell’”assorbimento intellettuale” – quando io sprofondo in un pensiero (che sia da me prodotto o venga solo letto) è come se perdessi ogni connessione con lo spazio circostante [Edith Stein, Psicologia… cit., I, 2, 2 p. 60-65]. Cioè è come se vivessi per davvero nell’infinito.
Ma torniamo brevemente sul fenomeno della preghiera. Personalmente da molti anni vivo quotidianamente questa esperienza e mi sforzo anche di comprenderla ogni volta sempre più profondamente per mezzo delle intuizioni che essa provoca in me. E ciò che posso dire è che essa è un’esperienza propriamente ontologica più che gnoseologica. Insomma, quando io (come uomo) prego, è come se mi immergessi una realtà trascendente – che poi è l’essere divino stesso al quale in quel momento sto elevando la preghiera (il Padre, Gesù Cristo, Maria Vergine, uno dei tanti santi…). L’infinito e l’eterno sono queste Persone divine in cui la preghiera ci immerge per mezzo di quel vero e proprio mantra che è la formula linguistica rituale da noi recitata. Per questo non importa tanto se molto spesso, nel mentre preghiamo, noi ci allontaniamo da ciò che stiamo dicendo recitando per davvero solo con le labbra.
In ogni caso resta infatti sempre una certa dose di immersione del nostro essere nell’essere divino che ci trascende. E quindi, quando noi non partecipiamo più mentalmente al contenuto della formula recitata, è come se essa stessa si incaricasse di trasportarci mantenendoci in alto e sollevandoci verso il divino.
Credo che sia stato esattamente per questo che qualcuno (non ricordo più chi) ha affermato che la preghiera è in sé impossibile all’uomo. Per cui, se dipendesse solo dall’uomo, essa non raggiungerebbe mai Dio. Pertanto, quando si prega, è sempre Dio per primo a muoversi per venirci incontro. Il resto viene fatto dal nostro sincero desiderio ed ancor più il nostro amore per il «colui» che stiamo pregando.
Su questa serie di aspetti consiglio chi fosse interessato di leggere lo straordinario libro di Guardini dal titolo “Introduzione alla preghiera” [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009].

Ma tale discorso sulle possibilità che sono alla portata della più ristretta località ci riporta ad un aspetto che abbiamo finora toccato solo marginalmente, e cioè l’ipotetico valore superiore della stasi rispetto al valore del dinamismo. Anche di questo aspetto ho trattato approfonditamente nel mio articolo dedicato all’onto-dinamismo, e cioè al dinamismo dell’essere [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Abbiamo visto che sono in fondo statici sia lo spazio trascendente che lo stesso tempo immanente. Entrambi sono infatti delle Totalità proprio in quanto costituiscono dei blocchi ontologici e cioè delle vere e proprie Unità singolare. La nostra logica ci impedisce di rappresentarci coerentemente tali Unità, dato che esse sono nello stesso tempo limitate ed illimitate – tali sono infatti tanto l’infinito (spaziale) quanto l’eternità (temporale). E ciò non avviene invece per alcun ente unitario che noi incontriamo nell’esperienza; dato che essi sono tutti esclusivamente delimitati. Ecco allora che l’infinito spaziale è una sorta di super-luogo, dato che (in quanto Unità singolare) non vi è assolutamente nulla al di fuori di esso. Esso occupa infatti tutto lo spazio possibile. Pertanto è come se fosse un unico luogo infinito. Quanto all’eterno temporale esso è parimenti una sorta di super-momento (o super-attimo), dato che al di fuori esso il tempo cessa totalmente di scorrere. Ma esso non scorre nemmeno al suo interno, dato che si tratta appunto di un attimo eterno, ossia una frazione infinita di tempo che però occupa tutto lo spazio possibile del tempo.
A mio avviso è sempre stato esattamente questo il significato dell’espressione «eterno presente» − concetto forzato e tradito invece da Nietzsche, che ne volle fare una sorta di infinito circuito avvolto su sé stesso (“eterno ritorno all’uguale”).
Da tutto ciò discende allora che – almeno entro un discorso sull’essere in cui domini l’etica ossia il giudizio di valore a sua volta gerarchico – la stasi appare ricomprendere totalmente in sé il dinamismo, rendendolo così ad essa relativo e pertanto di valore decisamente secondario.
Possiamo quindi sì affermare che stasi e dinamismo si lasciano in via di principio concepire come contrari, e possiamo sì a questo aggiungere anche che in qualche modo il dinamismo porta la stasi ad un compimento che essa altrimenti non avrebbe mai – sia nel caso dello spazio che del tempo. Infatti, la Totalità non insorge mai se luoghi e momenti non si distribuiscono su una linea dinamica e quindi fluente. E tuttavia questo non è che l’inizio del discorso. Se però portiamo invece il discorso fino alle sue estreme conseguenze, noi vediamo apparire il tempo eterno (tempo trascendente) e lo spazio infinito (spazio trascendente). E qui ricompare quindi davanti a noi la stasi nella forma specifica di un valore davvero supremo. Cosa che poi ci permette di contemplare l’Uno divino nella sua dimensione effettivamente suprema, ossia il livello ontologico nel quale non esiste altro che l’immobile e totale Quiete.
A questo tipo di considerazioni ci conduce un altro grande autore appartenente alla sfera degli studi tradizionali, e cioè il nostro L.M.A. Viola – laddove egli esplora i vari gradi della dimensione sovra-essenziale dell’Uno divino così come essa si è presentata nel pensiero occidentale soprattutto neoplatonico [LMA Viola, Essere Italiani, Victrix, Forlì 2015, I, I p. 21-34]. Ma anche in Oriente questo concetto è stato espresso con forza nell’immagine del Principio quale “mozzo della ruota”, e quindi immobile centro dei centri dal quale emanano per irradiazione tutti i possibili gradi di realtà (ovviamente decrescenti dal centro verso la periferia) [ Ananda K. Coomaraswamy, L’esemplarismo vedico, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 13 p. 209-229; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd.., 21 p. 371-376].
Inoltre direi che in Occidente forse nessun filosofo è riuscito a descrivere tutto questo meglio di Scoto Eriugena, nella sua discussione dell’intero ciclo onto-evolutivo nascente dall’Uno e ritornante infine all’Uno come definitiva e suprema Stasi [Nicola Gorlani (a cura di). Giovanni Scoto Eriugena. Divisione della Natura, Bompiani, Milano 2013].
Una volta chiarito tutto questo possiamo comprendere ancora meglio perché il piccolo luogo civico ha un valore infinitamente superiore al relativo grande luogo nonostante la sua così miserevole delimitazione.

Dunque tutto ciò può dirci la filosofia sulla realtà dello spazio. Questa volta però abbiamo constatato che dobbiamo rivolgerci ad una sfera di studi che la disciplina ufficiale perfino disconosce come discorso filosofico. Ossia dobbiamo rivolgerci a quella metafisica davvero estremista che viene esposta solo nel contesto degli studi tradizionali. Per il resto la filosofia dello spazio può dire davvero molto poco a noi uomini comuni.

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Il problema del tempo è stato costantemente affrontato in filosofia. Tuttavia vi è un deciso spartiacque tra trattazione antica e moderna del tema. I pensatori antichi, infatti, hanno sempre trattato del tempo come una dimensione dell’essere che si presenta costantemente sullo sfondo dell’eternità, la quale a sua volta veniva identificata non con l’infinità del tempo ma invece con l’assenza del tempo. Gregorio di Nissa, ricollegandosi a Plotino, definisce molto bene l’eternità in questi termini – essa è per lui infatti caratterizzata dallo status ontologico dell’”adiastáto”, ossia l’assenza di qualunque dimensione dell’essere e cioè più precisamente l’assenza di “estensione” [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381]. In tal modo l’eternità corrisponde esattamente a quel supremo livello ontologico che può solo venire definito come “hyperousios”, ovvero sovra-essenziale. E questo è poi per l’intero platonismo (pre-crsistiano e cristiano) il livello corrispondente all’Uno divino, ossia il livello che sta al di sopra dell’Essere stesso.
In altre parole i filosofi antichi guardavano ad un tempo immanente e nello stesso tempo ad un tempo trascendente – il primo percepibile sensibilmente (e quindi apparentemente molto reale) ed il secondo invece sovra-sensibile (e quindi di fatto così poco percepibile da sembrare del tutto irreale).
Il primo (il tempo immanente) veniva considerato equivalente all’essere molteplice che i nostri sensi colgono come una miriade non coordinata di enti e di qualità, e nello stesso momento colgono come realtà perennemente in movimento (laddove poi tale movimento corrisponde abbastanza bene alla transizione continua che c’è da un aspetto all’altro aspetto dell’ente). Quasi tutti i pensatori antichi, però (con pochissime eccezioni, come ad esempio Eraclito, Democrito e forse anche Epicuro), non si accontentarono affatto di tale assetto dell’essere temprale in quanto assoluto. Essi lo videro invece come fortemente negativo soprattutto perché impediva di conoscere l’ente nella sua completezza, e quindi rendeva in definitiva impossibile la scienza. In questo l’ostacolo principale veniva colto nell’essere inteso come puro divenire, quindi come qualcosa che non era mai possibile abbracciare con lo sguardo in una Totalità solidamente essente, e cioè in possesso di quella stabilità che poi era in primo luogo del singolo ente.
Per tale motivo, allora, l’essere inteso come divenire veniva di fatto considerato equivalente al Nulla, ossia al non-essere. Dunque l’avversione dei filosofi antichi per il tempo immanente (equivalente a sua volta quasi interamente al divenire) non era solo di carattere gnoseologico-epistemologico, ma era invece anche di carattere etico-metafisico. In altre parole il tempo immanente veniva considerato una forma degenere (e perfino malefica) di essere. Tanto che esso veniva considerato equivalente al Nulla, ed il alcuni casi (come presso Plotino) veniva considerato equivalente al Male stesso.
È evidente che ciò ci rinvia fortemente alla visione orfico-pitagorico e platonica dell’essere; entro la quale la qualità e consistenza dell’essere stesso peggiorava progressivamente dal Trascendente verso l’immanente, per raggiungere a tale livello la natura di un effettivo Nulla, o almeno la natura di un essere totalmente illusorio. Inoltre veniva considerata totalmente negativa anche la conoscenza dell’essere che si svolgeva a tale livello. Essa infatti veniva considerata pura “ignoranza”.

Poco a poco però la filosofia ha iniziato a cambiare decisamente registro nella sua visione del tempo. Essa ha cioè gradualmente iniziato a guardare al tempo come unicamente immanente; quindi immanente in senso assoluto e non più solo relativo. Di conseguenza la disciplina ha smesso poco a poco di disinteressarsi totalmente del tempo trascendente, cioè dell’eternità.
Non ho intenzione di fare qui una storia del concetto di tempo nell’intera filosofia. Sarebbe un arduo compito ed io non credo di avere le necessarie competenze per poterlo fare. Si tratta insomma di un argomento che (per poter venire trattato) richiederebbe, almeno per me, un preliminare e molto approfondito studio. Tuttavia è possibile almeno fare un’osservazione molto generale ed approssimativa sul momento in cui lo stacco è avvenuto. Io direi che il momento di viraggio (nella visione filosofica del tempo) è da considerare la transizione dal Medioevo (Scolastica) all’Umanesimo rinascimentale. Certamente, nel corso di quest’ultimo, vi fu anche un grande rifiorire di studi del pensiero antico, e quindi vi si delinearono dottrine metafisiche ed anche esoteriche (di stampo fortemente platonico) che senz’altro conservarono e svilupparono il concetto di eternità. Si pensi a pensatori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Agrippa di Nettesheim, Paracelso, e più tardi anche lo stesso Giordano Bruno (che fu un filosofo della Natura solo nel senso di essere un grande platonico ed un grande anti-aristotelico). Tuttavia non mancò molto e lo scenario cambiò decisamente con l’avvento di una filosofia della Natura immanentista (rappresentata soprattutto da Bacone) che continuò il suo corso costantemente pur nel mezzo di una perdurante visione metafisica dell’essere. Che si protrasse poi perfino oltre Cartesio arrestandosi definitivamente solo con Kant. Si pensi ad esempio alla grande scuola platonica di Cambridge, che fiorì nel pieno del XVII secolo. Pertanto possiamo dire che, tenendo fermo l’Umanesimo rinascimentale come punto di svolta, il concetto di tempo trascendente (o eternità) è restato presente in filosofia almeno finché è esistito almeno una parvenza di metafisica.
Ma comunque il momento in cui il tempo immanente divenne definitivamente assoluto (in senso ontologico) deve venire considerato quello in cui Heidegger elaborò il suo concetto di “temporalità dell’essere” [Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi Milano 1976]. E qui siamo forse anche ben oltre la stessa visione che considera il tempo immanente come assoluto e non più invece relativo (ossia assolutamente non toccato né condizionato da alcun concetto di tempo trascendente, o eternità). Heidegger, infatti, sostiene che la stessa essenza (o sostanza) dell’essere consiste nel tempo, o meglio nella “temporalità”. Quindi per lui non è nemmeno il caso di pensare ad un essere che non abbia le caratteristiche del fluente divenire, e che consista quindi in un blocco statico corrispondente ad una Totalità infinita (totalmente priva di movimento, cioè senza tempo). Insomma a suo avviso il tempo non insorge affatto nel contesto dell’essere, ma è invece l’essere stesso. E quindi è semmai l’essere ad insorgere nel tempo. In altre parole per lui essere è tempo e tempo è essere. Poi si è diffusa tra gli heideggeriani la stucchevole e frivola convinzione secondo la quale presso il primo Heidegger l’essere sia stato equiparato al tempo («essere è tempo»), mentre presso il secondo Heidegger il tempo sia stato equiparato all’essere («tempo è essere»). Ma queste sono solo astruse elucubrazioni da tecnici della filosofia che secondo me possono venire totalmente ignorate senza riceverne alcun danno.

Ebbene, tenendo conto di questo momento assolutamente terminale della riflessione filosofica sul tempo, credo che valga a questo punto menzionare almeno alcuni tra i pensatori che, nel contesto dell’intero pensiero umano, si sono soffermati più specificamente ed esplicitamente su questo tema.
Agostino di Ippona si produsse in una delle più straordinarie e profonde riflessioni sul tempo che vi siano mai state nell’intera filosofia. Ed il bello è che tale riflessione non solo superò decisamente l’intero pensiero antecedente – inclusi Platone, il platonismo ed il neoplatonismo (dato che in essi il tempo non era mai stato così direttamente tematizzato) – ma addirittura restò insuperata anche dopo, e cioè addirittura fino ad oggi. Vedremo tra poco perché. Per ora cerchiamo di penetrare il nucleo dell’argomentazione di Agostino [Agostino di Ippona, Confessioni, Paoline, Sulmona 1949, X, I-XLII p. 295- 350, XI-I-XXXI p. 353-385].
Egli si interrogò in primo luogo circa il vero e proprio mistero rappresentato dai tre momenti del tempo, e cioè passato, presente e futuro. E tale mistero coincide per lui con l’ontologia stessa di ciò che noi spontaneamente chiamiamo «tempo». Lo facciamo esattamente perché (per una misteriosa ispirazione) noi tendiamo ad abbracciare il tempo con il nostro sguardo intellettuale come se fosse un Tutto (ossia come abbiamo visto prima, cioè come se usassimo una cinepresa puntata sull’intera estensione del tempo).
Ma cosa abbracciamo con tale sguardo? La risposta di Agostino è netta: – «Nulla!». Noi infatti cogliamo il tempo come un «qualcosa» che proviene da un «dove», passa per un «qui», e procede verso un altro «dove», mentre in verità l’unica cosa che esiste è il soggetto (lo stesso «cogito-sum» di Cartesio) che ospita in sé queste concettualizzazioni di ciò che non esiste affatto oggettivamente ed oggettualmente. Insomma il tempo non è né un oggetto né è un essere. È in tal modo che Agostino coglie una delle funzioni conoscitive più straordinarie e sottili dell’anima, e cioè la memoria. E così si ricollega esattamente alla stessa riflessione fatta da Platone sullo stesso tema nel Teeteto..
Usualmente i professori di filosofia tendono a sottolineare la modernità concettuale di questa dottrina. Come se di punto in bianco, con l’Ipponate, la filosofia antica avesse smesso di colpo di trattare del tempo trascendente (l’eternità) e avesse preso ad esaminare invece il solo tempo immanente (il divenire). Per i moderni filosofi, infatti, modernità e riduzionismo sono esattamente la stessa cosa. Non a caso lo scaltro Heidegger (che non cessò mai di sfruttare, incorporandoli, diversi grandi pensatori) volle farci credere che la sua “temporalità dell’essere” avesse esattamente radici agostiniane [Norbert Fischer, ”Selbstsein und Gottsuche, Zur Aufgabe des Denkens in Augustins > Confessiones < und Martin Heideggers > Sein und Zeit“, in Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Heidegger und di christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2007, p. 55-90].
Ebbene, a mio avviso non vi è nulla di più falso in tutte queste letture di Agostino. Infatti a me sembra che egli più che mai abbia voluto sottolineare esattamente la sostanziale eternità del tempo, ossia abbia voluto trattare del tempo trascendente, e cioè quel tempo che sta così al di sopra dell’essere da assomigliare fortemente ad un nulla.
Altra grande riflessione sul tempo mi sembra poi quella di Gregorio di Nissa (della quale ho parlato prima).
Ma poi viene quell’altro immenso pensatore che fu Meister Eckhart.
Egli sostenne in generale l’ininterrotta continuità (ed anzi identità di essere) che vi è tra l’Uno divino ed il mondo, e quindi tra Sovrannaturale e Naturale. E così arrivò a concepire addirittura un divenire che altro non è se non la continuazione ininterrotta dell’eternità nel mondo immanente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. Alcuni suoi interpreti hanno parlato al proposito di “prospettivismo”, ossia di una concezione dell’essere che si identifica esattamente con la fluidità del divenire, ma senza intanto mai perdere intanto il suo ininterrotto legame con le Origini. Laddove poi le Origini non sono altro che l’Uno divino. Ciò significa che (come ci fa notare Mieth) la concezione eckhartiana dell’essere potrebbe a prima vista addirittura venire assimilata a quella nietzschiana, ossia ad una dimensione in cui non vi è altro che il movimento prepotentemente sospinto dalla volontà soggettuale. Per Eckhart infatti non vi è alcuna dislocazione tra la posizione del soggetto umano e quella del Soggetto divino; motivo per cui l’essere procedente dal Principio (l’Uno divino o Origine) procede allo stesso modo anche dal soggetto umano. Tuttavia l’inestricabile commistione esistente tra Trascendente ed immanente allontana immediatamente le suggestioni nietzschiane. L’essere fluente, quindi, non è altro che il braccio immanente ed orizzontale di una cascata verticale che emana continuamente dal Principio divino. Ho discusso questi concetti in uno specifico articolo [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Sicuramente bisogna menzionare poi anche la concezione dell’essere di Bergson (della quale ho parlato nella diciassettesima lezione). Egli vide infatti l’essere come sostanziale “durata”, e precisamente come il percorso tracciato nel tempo da un’intelligenza creativo-vitale immanente che non cessa mai di cristallizzarsi negli enti determinati, per poi di nuovo oltrepassarli dirigendosi verso nuovi obiettivi creativi.
E ciò ci riporta inevitabilmente anche alla concezione darwiniana della Natura.
Su questa lunghezza d’onda fu senz’altro anche Nietzsche nel concepire l’essere come il prodotto della sola “volontà di potenza” soggettuale [Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Milano 2005, 54-88 p. 50-63]. L’essere fu infatti per lui unicamente la volontà stessa che si pone in movimento al puro scopo di superare e travolgere ogni possibile ostacolo, impennandosi così come un’onda che poi si abbatte dilagando in maniera inarrestabile, e generando così lo stesso spazio che sussegue. Insomma anche per Nietzsche l’essere non è altro che un nulla puramente dinamico, e quindi è qualcosa che sta sempre per definizione davanti a noi come qualcosa di totalmente e perennemente nuovo. Senza mai essere esistito prima che entrasse in moto il nostro atto di volontà.
Naturalmente tale volontà non è poi altro che l’impulso ad affermarsi vitalmente posto in atto da parte di quel soggetto umano che ha ormai superato decisamente sia i freni di qualunque morale (sempre paralizzante) sia le illusioni di qualunque metafisica dell’essere.
Ebbene anche Heidegger non fu molto lontano da tutto questo. Solo che egli scelse di identificare la “temporalità dell’essere” con una dimensione dinamica che trascende il soggetto stesso, non essendo altro che il fondamento più elementare del suo esistere, ossia quella vita che ad un certo punto, fatalmente, cessa di scorrere orizzontalmente per inabissarsi nel gorgo della morte. Dunque per lui tanto l’essere stesso quanto lo stesso soggetto umano come sostanza (il Dasein, o “esser-ci”) non costituiscono altro che un “essere per la morte” o anche “essere per la fine” [Martin Heidegger, Essere e Tempo .. cit., I, II, I, 45-53 p. 283-324]. Ovvero costituiscono qualcosa di unicamente onto-dinamico.

Mi sembra che queste possano venire considerate almeno alcune tra le più rilevanti concezioni filosofiche del tempo. Sebbene io non possa essere per nulla certo del fatto che il mio elenco sia completo.
Vorrei solo fare qualche breve cenno alla concezione buddhista dell’essere, che intanto è divenuta molto in voga anche nella filosofia stessa, specie quella anglosassone.
Il Buddhismo nega recisamente che esista qualcosa come la “sostanza” (vedi diciassettesima lezione), e quindi qualcosa che unifichi luoghi e momenti separati in quanto determinati. Per cui esso non può in alcun modo ammettere il tempo come essere. Forse nemmeno come essere fluente. Ed in questo si differenzia quindi perfino da Eraclito. Il Buddhismo può solo ammettere il tempo come una mera illusione ontologica, anzi forse la maggiore tra le illusioni ontologiche. Esso, infatti, non unisce nemmeno luoghi e momenti, dato che questi ultimi nemmeno esistono (in quanto non esistendo alcuna sostanza, non vi è nemmeno alcun ente). Ma oltre a ciò (diversamente da quanto sosteneva genialmente Agostino) per il Buddhismo non vi è nemmeno la sostanza animica (ossia il soggetto) che coglie il tempo. E pertanto quella stessa continuità di essere (che il tempo suggerisce spontaneamente alla nostra mente) è qualcosa che meno che mai esiste.
In altre parole, secondo il Buddhismo, parlare della temporalità dell’essere è la stessa cosa che parlare del totale nulla di essere che il mondo immanente è – puro e deteriore prodotto dell’illusione sensibile.
È insomma qualcosa che il soggetto umano non deve far altro che superare e dimenticare allontanandosi così per sempre dal ciclo delle nascite. Quello che è certo è intanto che tale dottrina non considera assolutamente la possibilità che il tempo immanente venga superato per mezzo del passaggio in un tempo trascendente, ossia nell’eternità. Infatti l’eternità è per esso null’altro che un’inconsistente edulcorazione del concetto di continuità sostanziale, e quindi è quanto meno può esistere. Il fedele del credo buddhista non ambisce pertanto ad altro che ad unirsi al grande Vuoto nel quale per lui ultimamente consiste l’Essere.

Bene. Giunti a questo punto dobbiamo come sempre chiederci cosa di tutto questo può servirci nella nostra esistenza quotidiana di uomini comuni.
Sinceramente mi risulta difficile rispondere a questa domanda. Perché in questo caso gioca un ruolo decisivo l’ideologia per mezzo della quale noi possiamo (o anche non possiamo) filtrare ed interpretare le nostre esperienze. Ecco che allora vi saranno senz’altro alcuni che preferiranno le concezioni più radicalmente immanentistiche del tempo (come quelle di Bergson, di Heidegger e del Buddhismo). Alcuni altri preferiranno invece le concezioni più radicalmente trascendentiste del tempo, cioè quelle che negano qualunque realtà al tempo immanente (come quella platonica).
Il problema deve quindi stare esattamente nell’approccio ideologico, con tutto il dogmatismo che esso comporta. E qui Eckhart può fungere per noi davvero da felice esempio. Il problema è infatti che il tempo è immanente ed insieme sempre anche trascendente. Ma ciò sottolinea non solo una discrepanza bensì anche una continuità. Il che significa poi che il tempo è senz’altro un flusso, ma è anche una stasi. Ed esso è stasi non solo nei suoi singoli frangenti (luoghi e momenti) bensì anche nella sua Totalità. Il tempo trascendente gregoriano come “adiastáto” è infatti un’eternità di essere che è blocco temporale proprio in quanto in esso non si muove nulla, e quindi l’oggi e l’ora (il presente) equivalgono perfettamente al sempre, ossia al Tutto. Per questo si dice che qui il tempo è assente. Perché esso non si muove. E non muovendosi non ricollega più nulla. Nello stesso tempo però esso è meno che mai rappresentato da luoghi-momenti statici che abbiano bisogno di venire ricollegati. Si tratta insomma di una concezione circolare e non più lineare del tempo.
Ecco allora che forse l’uomo comune (cioè tutti noi) potrebbe e dovrebbe essere interessato solo ad una concezione del tempo che sia insieme trascendente ed immanente; cioè sia anche tempo quando sembra solo eternità e sia anche eternità quando sembra solo tempo. Ciò significa allora che noi partecipiamo dell’eternità anche quando viviamo quella faticosa e spesso estenuante marcia in cui continuamente dobbiamo passare da un luogo-momento all’altro – e spesso in questo siamo gravati da speranze che non poche volte sono altrettanto torturanti quanto lo sono le preoccupazioni.
Dunque in qualche modo noi non siamo consapevoli del fatto che, proprio allorquando con maggiore pena percorriamo questo cammino (agognando il momento in cui potremo finalmente guardare con serenità all’angoscia ed al dolore che ormai ci siamo lasciati alle spalle, e tirando così il famoso sospiro di sollievo), in verità siamo già arrivati dove volevamo arrivare. E ciò è avvenuto perché, grazie alla costante commistione tra eternità e tempo, il percorso che seguiamo faticosamente passo dopo passo è stato in verità già consumato interamente da qualcosa come la straordinaria ed altissima campata di un vertiginoso ponte.
Deve essere questo ciò a cui si allude in alcuni salmi nei quali si parla del fatto che la vita umana è in realtà un soffio o un battito di ciglia. E ci sono immagini del genere anche nella letteratura religiosa vedica e vedantica.
In questo senso, dunque, sì che il tempo immanente è un’illusione; allo stesso modo in cui lo è lo spazio.
Il che significa che la nostra esistenza si consuma in ambasce senza che vi sia poi un vero motivo per questo. Insomma in qualche modo la nostra esistenza è sempre già compiuta in ciascuno dei suoi attimi.
E dev’essere per questo che (come abbiamo visto nella quattordicesima lezione dedicata alla morte) nell’ultimo attimo della nostra esistenza noi possiamo abbracciare tutto il percorso che abbiamo fatto – perché in verità ciò che sembra esserci stato in realtà non ci è stato affatto (almeno così come ci era sembrato). In altre parole noi nasciamo, esistiamo e moriamo restando costantemente immersi nell’eternità.
È chiaro che tutto ciò resta una debolissima consolazione nel momento esatto in cui noi siamo impegnati nella fierissima lotta con la serie infinita di momenti che si distendono davanti a noi. E tuttavia, anche solo il rivolgere il nostro pensiero a tale realtà, può forse aiutarci a non arrenderci troppo facilmente.
Se riflettiamo più a fondo, però, la consolazione è di portata ben maggiore di questa.
Infatti in ogni caso non si tratta nemmeno di questo, né si tratta della magari fatua illusione che potremmo costruirci su ciò che ho appena detto. Il momento del compimento non è infatti quello in cui noi abbiamo finalmente ottenuto ciò che avevamo desiderato per tutte la vita, annullando in tal modo la discrepanza tra possibile e reale (diciassettesima lezione). Il compimento è invece il momento in cui finalmente possiamo rivolgere il nostro sguardo all’indietro e non più in avanti. Ma la cosa più importante consiste nel fatto che il nostro sguardo è ormai pacificato, ossia non desidera più. Esso, insomma, si guarda indietro e contempla l’immensa estensione di quel sentiero dell’esistenza che non aveva mai smesso di serpeggiare tra valli, lungo fiumi e sui fianchi di montagne, che non aveva mai smesso di guadare fiumi e mari, che non aveva mai smesso di saltare abissi. E vede quindi finalmente che tutto aveva avuto un senso, che tutto aveva puntato verso un unico e solo risultato, ossia verso il compimento. Il compimento è dunque semplicemente la fine del dipanarsi della linea del tempo. Non è perciò affatto il momento della soddisfazione del desiderio ma è semmai il contrario. È il momento della cessazione totale del desiderio. Tuttavia non perché il desiderio sia in sé negativo (come pensano i buddhisti, ritenendo che esso perpetui un insensato attaccamento a enti mondani del tutto illusori). No. Perché invece il desiderio non è altro che un mezzo e non un fine. Esso è infatti la forza propulsiva vitale e fisiologica (tutt’altro che ingiustificata) che ci fa muovere insieme al tempo. Essa anzi fa sì che noi lasciamo che la linea del tempo ci infilzi come una lancia, portandoci con sé nel suo inarrestabile procedere.
Ecco allora che il nostro sguardo retrospettivo coglie per davvero il tempo come Totalità.
Ma, se ora ci poniamo da un altro punto di vista – quello che ci caratterizza quando non abbiamo ancora raggiunto la fine, e siamo quindi ancora pienamente immersi nel faticoso cammino a tappe del tempo immanente −, potremo finalmente comprendere che la fine (in quanto compimento) è letteralmente implicita in ogni luogo e momento di questo cammino. Per questo, dunque, quando noi soggiorniamo in ciascuno di questi punti, è come se in qualche modo già fossimo arrivati alla fine. Ma il momento della fine è quello in cui il movimento del tempo si estingue, e quindi il nostro esistere trapassa decisamente nella dimensione dell’eternità quale assenza di tempo. Ed esattamente quest’ultima è la dimensione in cui sperimentiamo il compimento.
Tutto quello che abbiamo detto significa insomma che tempo ed eternità sono inestricabilmente frammisti, e quindi che tra di essi non vi è in verità alcuna reale discrepanza. Quando viviamo l’uno, noi viviamo sempre anche l’altro. Dunque, se il momento dell’eternità e del compimento può ben venire considerato anche quello dell’eternità, allora dobbiamo constatare che noi viviamo continuamente la nostra immortalità anche se non lo sappiamo.
E con ciò torniamo alla lezione filosofica platonica – il corpo e la materia sono la causa (in quanto “prigione” e addirittura “tomba”) per la quale la nostra anima immortale è afflitta dalla continua illusione della mortalità, la quale poi altro non è se non la sequenza continua di luoghi e momenti per i quali dobbiamo passare affinché possiamo assolvere al compito esistenziale fondamentale del movimento. Movimento che avviene appunto attraverso la dimensione del tempo.

Bene. Anche quella appena esposta potrebbe forse costituire una dottrina della “temporalità dell’essere”. Ma non distruttiva, nichilistica, cupa e mortuaria com’è quella di Heidegger, bensì invece costruttiva, positiva, luminosa e piena di vita.
Non a caso Edith Stein, nel confutare la teoria di Heidegger, oppose alla sua assoluta temporalità dell’essere (in quanto tendere alla morte-fine) il vero e proprio “sfondamento verso l’eternità” che avviene nella nostra vita grazie alla Liberazione donataci dal Cristo morto in Croce [Edith Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 449-457].
Di nuovo, insomma, possiamo ritrovare nella filosofia grandi risorse per poter «ben vivere». Ma perché sia così dobbiamo prima ripensare criticamente la disciplina, e quindi ristrutturarla e riformarla, eliminandone le parti pleonastiche ed allargando le parti troppo striminzite. Abbiamo insomma bisogno di una sorta di meta-filosofia. Per poter disporre di questo l’uomo comune ha però bisogno di una guida nei meandri spesso oscurissimi della disciplina. E questa guida non può venire offerta se non da un filosofo. Un filosofo però che non si sia mai rassegnato ad arrendersi alla congiura esoterico-conventicolare che viene imposta sempre dall’Accademia filosofica ai suoi allievi. Una congiura nella quale si deve promettere di non aprire mai e poi mai all’uomo comune le mura ermeticamente sigillate della Cittadella della Filosofia.
Come ho sostenuto nel mio saggio su questa disciplina [Vincenzo Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018], ho sempre ritenuto che il mio compito fosse diametralmente opposto. Ed è esattamente per questo che propongo le mie lezioni.

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Credo di poter essere matematicamente sicuro nel ritenere che i moderni retori-divulgatori della filosofia non parlano mai di questo argomento ai loro «discepoli».
E ci sono diversi motivi per questo. Il primo motivo è che è un argomento davvero ostico, per quanto esso abbia attraversato l’intera filosofia almeno fino a non molto tempo fa. Il secondo motivo è che non credo proprio che il genere di «discepoli» dei retori-divulgatori di filosofia sia interessato ad argomenti così sofisticati concettualmente. Cosa del resto anche comprensibile, dato che cosa mai l’uomo comune dovrebbe farsene di questi due concetti nel corso della sua quotidiana esistenza? Il terzo motivo mi sembra però quello più appropriato – i concetti di essenza e sostanza, ed anche la distinzione tra di essi, sono ormai totalmente antiquati (proprio in quanto squisitamente metafisici). Per cui oggi nemmeno i filosofi stessi li impiegano più. Infatti l’odierna filosofia si è ormai totalmente liberata dalla metafisica trasformandosi soprattutto in una scienza positiva della mente, ossia qualcosa di mezzo tra logica e psicologia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].
Pertanto a tale proposito va detto che, dopo la seconda rivoluzione critica (successiva a quella kantiana) inaugurata dall’ermeneutica, dalla filosofia analitica e della filosofia del linguaggio (da Heidegger, Russell e Wittgenstein in poi), concetti come quelli di essenza e sostanza sono divenuti quelli che più presentano falle di tipo logico davvero esiziali (e quindi soccombono miserevolmente ogni volta che cadono sotto l’esame impietoso dei moderni logici). In altre parole, nessun filosofo si periterebbe più di usare concetti come questi senza sentire di doversi profondamente vergognare.
Tuttavia le cose cambiano non poco se equipariamo il binomio essenza-sostanza a quello potenza-atto, e poi semplifichiamo entrambi i binomi in quello che vede come protagonisti il possibile ed il reale (o anche l’ideale e il reale). Possiamo denominarlo binomio possibile-reale o anche ideale-reale.
Ebbene questo ultimo binomio sì che interessa tutti noi, incluso il più semplice tra gli uomini. Infatti tutti noi conosciamo perfettamente la discrepanza che esiste tra quanto vorremmo che si realizzasse (il possibile o ideale) e quanto effettivamente si realizza grazie ai nostri sforzi uniti alle circostanze ambientali ed al caso (il reale). Anzi si può dire che questo sia il tema intorno al quale si avvita drammaticamente (e a volte perfino tragicamente) l’intera nostra esistenza.
Per la verità l’eterna questione filosofica idealismo / realismo (cioè la perenna disputa tra le due prese di posizione diametralmente opposte dell’intero pensiero umano) sembra approssimarsi non poco al binomio possibile-reale. Ed in effetti ho accennato a tale questione in diverse lezioni iniziali. Infatti l’idealismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ideale di essere, mentre il realismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ormai già totalmente manifestata e quindi già completamente estinta nella cosa determinata. Naturalmente questa è però una grande generalizzazione ed approssimazione, dato che almeno in Occidente la disputa idealismo / realismo ha riguardato molto poco la Realtà e molto più invece la Conoscenza. Essa si è insomma preoccupata di scegliere il luogo migliore in cui fosse possibile validare l’atto di conoscenza delle cose del mondo – la soggettività o mente (idealismo) oppure l’oggettività mondana stessa, direttamente colta per mezzo della percezione (realismo). Si trattava cioè di decidere dove (tra soggetto e oggetto) è possibile ritrovare meglio la verità nel conoscere le cose. In Oriente invece l’idealismo e il realismo si sono confrontati molto più nel tentare di decidere circa quale fosse il luogo più «reale» dell’Essere – quello trascendente-celeste (ideale) o quello immanente-mondano (reale). Personalmente ho tentato di chiarire questa discussione in alcuni miei articoli [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164 ].
Tuttavia, generalizzando ora tutto questo, possiamo dire che il mondo ideale è quello che corrisponde alla «possibilità di essere» (o «potenza», che per definizione noi cogliamo come ciò che è ancora al di là da venire e quindi non è ancora un vista), mentre invece il mondo reale corrisponde all’«essere attuale» (o «atto», che per definizione noi cogliamo come ciò che è già avvenuto e quindi sta già apertamente davanti a noi). È ovvio che un filosofo accademico considererebbe questa affermazione come solo generica, imprecisa e senza alcun interesse per la disciplina. Però per l’uomo comune (come siamo tutti noi che ora stiamo qui discutendo) le cose non stanno affatto così. Infatti il campo della «possibilità di essere» corrisponde per noi tutti a ciò che potrebbe diventare realtà ma non lo è ancora diventato; mentre il campo dell’«essere attuale» corrisponde a ciò che non è più possibilità perché è ormai già divenuto realtà.
E tra questi due estremi (separati da una linea tensiva spesso spasmodica, che è fatta di speranze, desideri, paure, angosce, ed infine anche continue gioie e delusioni) si dibatte di fatto la nostra intera esistenza.
Se dunque vi è un aspetto della filosofia che più si approssima all’esistenza di ognuno di noi, quello è senz’altro questo.
Il problema è però che il campo di elementi sostanzialmente emozionali (coinvolti nel binomio possibile-reale vissuto dall’uomo comune) è estremamente lontano dagli interessi sostanzialmente gnoseologici della filosofia correntemente praticata. E a questo punto non si tratta solo dell’insufficienza della filosofia moderna. Dato che perfino la filosofia antica è abbastanza coinvolta in questo disinteresse. Infatti proprio il padre del concetto di potenza-atto, cioè Aristotele, non si occupò affatto di ciò che interessa l’uomo comune. Egli volle invece proporre una dottrina metafisico-scientifica che spiegasse l’essere in divenire, ossia il fenomeno di sviluppo delle cose fino al loro assetto attuale ed anche usuale, ossia il mondo così come noi lo vediamo. Ciò che gli interessava era insomma di tracciare e indagare una sorta di genetica causalistica dell’essere. E questo non è certo ciò che sta al centro degli interessi e delle preoccupazioni di tutti noi nel corso del nostro esistere. Noi ci preoccupiamo infatti in primo luogo della gioia e dell’orgoglio che ci possono venir procurati dalla capacità di tradurre il possibile in reale. Ne va insomma del realizzarsi o meno delle nostre più fervide speranze.
Le cose cambiano però molto se da Aristotele ci rivolgiamo a Platone. Quest’ultimo infatti vide nella sfera ideale esattamente quella «possibilità di essere» che è paradigmatica per qualunque livello di realtà in quanto ne costituisce l’immutabile ed eterno modello. Qui siamo dunque di fronte a ciò sul cui modello viene costituita ogni cosa secondo il criterio del «meglio» (e inoltre della «misura»), e quindi insorge l’essere più buono, bello e giusto che possa esistere, ovvero null’altro che l’ordine del kósmos. Tutto ciò che si sottrae al controllo esercitato da questo modello, non è per Platone altro che materia cieca e caotica, e cioè qualcosa che nemmeno possiamo considerare «essere». È chiaro che nemmeno questo corrisponde esattamente a quanto preoccupa l’uomo comune (tutti noi) nel riflettere sulla discrepanza tra possibile e reale. Tuttavia almeno Platone si approssima a questo molto più che Aristotele.
E ciò avviene secondo me a causa di un aspetto del suo pensiero che finora abbiamo esaminato più volte, ossia la convinzione del pensatore secondo la quale la sfera ideale dell’essere rappresenta la sfera cosale più autentica, ossia più pregna di essere oltre che di verità. Insomma, come abbiamo visto già tante volte, per lui l’Idea equivale totalmente alla cosa colta nella sua dimensione trascendente, o meglio l’Idea è la cosa più autentica che possiamo mai riscontrare. Pertanto ciò che molto in generale per la filosofia di ogni tempo (in primis per Aristotele) è quanto meno può venire considerato «essere» − cioè la sfera dell’ideale (o mera e vuota «possibilità di essere», che dipende drammaticamente dalla cosa reale ed immanente per poter acquisire l’essere) – è invece per Platone ciò che è «essere» più che mai. Il che, tradotto poi nel nostro ingenuo linguaggio quotidiano (di uomini comuni), significa che la sfera di essere del possibile vale molto più della sfera di essere del reale. E quindi ciò potrebbe significare per noi che non importa affatto se realizziamo o meno tutto ciò che è possibile che si possa realizzare. L’importante è invece che contempliamo ammirati la completezza e perfezione straordinarie del livello di essere ideale, ossia quel livello di essere in cui è rappresentato «tutto-il-possibile» come ciò che più corrisponde alla vera pienezza di essere. In altre parole, in base a questo si potrebbe giungere alla conclusione che non è tanto importante che ognuno di noi riesca o meno a tradurre in realtà tutto ciò che è teoricamente possibile. Importante è invece che esista un mondo trascendente (corrispondente esattamente a quello ideale) nel quale l’essere sta nella sua pienezza e perfezione pur senza aver nemmeno subito l’onta e la sfida del processo di determinazione – processo che segue sempre grandi dicotomie, in corrispondenza delle quali qualcosa cessa di esistere perché possa esistere qualcos’altro. Ma perfino questo momento così drammatico in negativo ci rinvia al principio perfettamente posto in luce da Leibniz, e cioè quello dell’essere come caratterizzato dal fatto fondamentale di essere “qualcosa e non nulla” [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. insomma la stessa implacabile dicotomia (che sacrifica fatalmente qualcosa per qualcos’altro) ci rinvia a questa ben più grande necessità, in forza della quale sempre l’essere insorge per negazione della totale negazione dell’essere stesso, ossia il Nulla. Il che significa allora che anche una dose molto ridotta e limitata di essere resta sempre molto meglio del nulla.
Ora, è facilmente immaginabile quanto una tale riflessione possa confortarci in quella nostra esistenza che così spesso è costellata di perdite irreparabili, amarissime rinunce e cocenti delusioni – tutte esperienze che ci approssimano di molto al Nulla, anzi in qualche modo vere e proprie piccole morti. Anche in questi casi resta infatti davanti a noi non solo il nostro personale essere (ci accorgiamo infatti che, come per miracolo, noi siamo ancora in piedi nonostante la mazzata che abbiamo appena ricevuto), ma ancor più l’essere dell’intero mondo. Il sole continua a sorgere e tramontare, il vento continua a soffiare, i fiumi continuano a scorrere, l’erba i fiori e i frutti continuano a spuntare. Tutto questo può di certo anche offenderci non appena siamo stati colpiti dalla sventura. Ma, dopo un po’ di tempo, ciò inizierà non solo a consolarci ma anche a scaldarci il cuore e perfino a farci sentire una sensazione di ebbrezza.
Ebbene, forse (nel corso di queste lezioni) non ci eravamo ancora imbattuti in un caso come questo. Un caso in cui la riflessione filosofica sembra essere realmente capace di aiutarci a vivere, e precisamente grazie alla saggezza contemplativa che induce in noi. Ed abbiamo visto che di questo (come di molte altre cose) dobbiamo essere grati a Platone ed al platonismo. Sebbene qui essi siano presenti più che altro come extrapolazioni.

Detto questo, direi che è ormai conclusa la trattazione del nostro tema. Abbiamo infatti trovato l’appiglio per mezzo del quale la riflessione filosofica su essenza e sostanza riesce a divenire utile per la nostra esistenza.
Tuttavia forse vale la pena di dare un’occhiata più da vicino ai concetti filosofici effettivi di essenza e sostanza. E questo per due motivi. Il primo motivo è quello di avere delle definizioni possibilmente chiare e sintetiche dei due concetti. Il secondo motivo è quello di verificare se la filosofia pura (ma quella a-temporale o anche a-storica), che da sempre si è occupata di questi due concetti, può o meno aggiungere ancora qualcosa a quanto ho poc’anzi detto. Qualcosa che possa essere utile all’uomo comune.
Ebbene l’essenza ha sempre indicato in filosofia l’Idea e insieme anche la forma (conoscitiva), cioè quanto costituisce il contenuto puramente intelligibile della cosa reale, ossia la rappresentazione che di quest’ultima noi ci facciamo nella nostra mente allorquando, posti al cospetto di essa come una “x” (una momentanea incognita), noi ci interroghiamo circa il suo molto specifico «cos’è questo?». Ecco che nel momento esatto in cui sorge in noi l’idea che sembra rappresentare quella cosa sinteticamente in modo davvero appropriato (mediante un nome che descrive appropriatamente il suo «cos’è?»), immediatamente emerge in noi anche la sua «forma», cioè l’idea che (come uno stampo perfettamente adatto) accoglie in sé la cosa stessa rendendola un’unità inscindibile ed inoltre unica. Essa risulterà infatti per noi diversa anche dalla cosa che le assomiglia di più, ossia quella che differisce dalla sua essenza anche per un solo minimo particolare. È evidente che si tratta con ciò di un’esaustiva sintesi delle qualità della cosa che intanto i nostri sensi (percezione) colgono in modo sparso, e cioè senza poterle unificare mediante un nome.
Ancora una volta devo far notare che dobbiamo al genio di Platone – specie nei dialoghi Teeteto e Cratilo – l’esplorazione e la descrizione davvero esaustiva di tutti questi aspetti. Il pensiero successivo a lui non ha fatto quindi che utilizzare queste conoscenze basiche per svilupparle in un senso o nell’altro. Ed in generale va detto che da un certo momento in poi (dopo che fu storicamente tramontato per sempre il concetto platonico di «idea», cioè successivamente al neoplatonismo pre-cristiano e cristiano) si iniziò ad usare prevalentemente il concetto di «forma». La quale stava poi a designare in primo luogo l’aspetto conoscitivo dell’atto per mezzo del quale il soggetto si pone in contatto con il mondo. Nacque insomma proprio così in filosofia quella che fino ad oggi viene chiamata «teoria della conoscenza» (in tedesco Erkenntnistheorie).
In quest’ultima, quindi, l’essenza corrisponde esattamente a quella forma che ci permette di cogliere la cosa in quanto ente conoscibile, o anche intelligibile. E per questo, come abbiamo visto, è assolutamente necessaria l’unificazione delle sue qualità sensibili.
Abbiamo visto però che ciò implica la sintesi. Ma la sintesi suggerisce al nostro intelletto piuttosto spontaneamente l’immagine di una concentrazione di essere. In questo modo ci spostiamo pertanto dal piano conoscitivo (ed inoltre epistemologico) a quello ontologico. Ebbene, su quest’ultimo piano l’essenza sta a indicare una sorta di punto ipotetico nel quale è concentrata un’estensione molto grande (perfino infinita) di essere. Tuttavia tale dimensione ontologica dell’essenza corrisponde poi (come abbiamo visto prima) alla valenza di Realtà (paradigmatica e trascendente) che l’Idea ha avuto entro la riflessione platonica. Così possiamo ben dire che l’indagine sugli aspetti ontologici dell’essenza è iniziata di fatto con Platone, e precisamente in relazione alla sua teorizzazione dell’Uno quale supremo Principio di essere (ossia appunto un’essenza estremamente prossima alla dimensione ideale che concentra in sé tutto l’essere possibile). Questa riflessione è poi però fiorita pienamente solo nel neoplatonismo. Infatti recentemente Yount ha posto in strettissima relazione quasi tutti gli elementi della riflessione onto-metafisica di Plotino con quella di Platone [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014]. Ma intanto una simile riflessione sull’essenza era sempre stata patrimonio del pensiero orientale di tipo vedantico. Veniamo dunque proprio in tal modo a quella valenza di «realtà» che ebbe l’essenza nella riflessione orientale.
In ogni caso proprio su tale base quella complessiva sapienza metafisico-religiosa ed esoterica che dal XX secolo in poi ha definito sé stessa come “Tradizione” ha raccolto questa intera eredità sviluppandola in una serie straordinaria di immagini simboliche tutte correlate tra loro in un insieme affascinante ed estremamente coerente. A chi volesse approfondire questa sapienza simbolica consiglio vivamente il libro di Guénon e quello di Schuon [René Guénon. Simboli della Scienza Sacra. Adelphi Milano 1975; Fritjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013].
Ma veniamo ora al concetto di sostanza.
Su questo ho già detto abbastanza nella dodicesima e nella sedicesima lezione (dedicate alla nascita ed all’esistenza), e tuttavia va aggiunto qualcos’altro in modo che sia chiara la differenza tra tale concetto e quello di essenza.
In linee molto generali se l’essenza rinvia alla concentrazione di essere, la sostanza invece rinvia all’estensione di essere, e cioè alla continuità che sussiste nell’essere nello spazio indefinito che divide tra loro le cose determinate o individuali. Si può dire quindi che la sostanza è stata concepita in metafisica come l’ossatura invisibile ed intangibile che costituisce l’essere al di là delle apparenze immediatamente sensibili. Le quali ci restituiscono appena l’immagine di cose separate le une dalle altre ma intanto poste in relazione tra loro per mezzo dell’influsso che costantemente l’una esercita sull’altra. Il concetto più prossimo a tale relazione è quello di causalità, e precisamente quello di causalità efficiente, cioè quella in forza della quale l’urto di una cosa contro l’altra produce il movimento. La causalità è insomma il dinamismo che supera il vuoto esistente tra le cose determinate. Ed in tal modo risaliamo chiaramente fino alla teoria atomistica di Democrito. In ogni caso questa relazione dinamica, supposta tra le cose (estrinseche le une alle altre), ci suggerisce altre due immagini ancora più universali, e cioè quelle dello spazio e del tempo. Lo spazio infatti irrigidisce il dinamismo causale in una sconfinata foto istantanea che ci restituisce l’immagine dell’intero essere. Il tempo invece lascia fluire il dinamismo causale come farebbe una ripresa cinematografica. Esso quindi (a seconda dell’ampiezza del paesaggio abbracciato dall’obiettivo cinematografico) può mostrarci il punto specifico in cui vediamo scorrere l’essere, oppure l’intera estensione dell’essere che scorre. E proprio quest’ultima è l’immagine che ci viene in mente quando pensiamo alla parola «tempo». Devo ricordare che su questo Agostino fece delle riflessioni fondamentali nel Libro X delle sue “Confessioni”. E sinceramente queste riflessioni mi sembrano molto più appropriate di quelle che fece Heidegger coniando il concetto di “temporalità dell’essere” in “Sein und Zeit”.
Ritornando al binomio potenza-atto, possiamo qui vedere la potenza nel tempo (ossia il divenire) e l’atto invece nello spazio. Il primo equivale pertanto alla possibilità di essere ancora pienamente dinamica, mentre il secondo equivale all’essere già cristallizzato staticamente. Mi sembra che Henri Bergson abbia perfettamente descritto tutto questo nella serie di immagini per mezzo delle quali parlò dello slancio vitale come causa produttiva di qualunque ente determinato [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri Milano 1964].
Questa definizione di sostanza è comunque quella che possiamo ritrovare in filosofi post-medievali come ad esempio Spinoza, e quindi è una definizione piuttosto razionalistica e molto prossima alle scienze della Natura. Essa tende infatti a dare ragione della continuità dell’essere (cioè della Natura stessa con le sue leggi eterne) e non invece della cosa determinata nella sua dimensione metafisica.
L’altra definizione, invece (la più antica), è stata quella aristotelica prima e tomistica poi. Ne abbiamo parlato nelle dodicesima e sedicesima lezione. Ebbene, in cosa esattamente differiscono le due definizioni?
Esse differiscono per il fatto che la seconda ha solo indirettamente l’ambizione di descrivere l’estensione dell’essere. La sua primaria intenzione è infatti quella di indicarci la pienezza di essere in quell’individuo osale estremamente determinato (in verità perfettamente corrispondente all’essenza di cui abbiamo parlato prima) che costituisce l’effettivo reale.
In esso sono infatti contenuti (ad esso «ineriscono») tutte le possibili qualità astratte, la cui sintesi ci restituisce una cosa conoscibile (la cosa della quale riconosciamo il «cos’è?»). Ecco che nel mentre l’individuo sostanziale è il massimo concreto, le qualità che lo costituiscono sono sommamente astratte.
Ed Aristotele riteneva che queste ultime corrispondessero esattamente alle Idee di cui aveva parlato Platone.
Abbiamo insomma davanti a noi la differenza (istituita da Aristotele) tra “sostanza prima” (l’individuo sostanziale concreto) e “sostanza seconda”, ossia quelle qualità astratte che (nella sedicesima lezione) abbiamo visto stratificate nelle colonne delle categorie.
Anche qui possiamo e dobbiamo riportare questa serie di concetti al binomio potenza-atto. La potenza corrisponde infatti alla sostanza seconda (e quindi a ciò che potremmo definire come astratto «progetto di essere»). L’atto corrisponde invece alla sostanza prima, ossia a ciò che «esiste» incondizionatamente e primariamente, e cioè «è» prima di qualunque possibilità di essere.
È evidente che in tale visione (molto più aristotelica che non tomistica) la bilancia di valore risulta decisamente spostata dalla possibilità in direzione della realtà. E quindi lo scenario di valori, in relazione a ciò che è «realtà», è decisamente invertito rispetto a quello che abbiamo descritto con la visione di Platone. Infatti ciò che noi dovremmo venerare è quanto già effettivamente esiste immanentemente, ossia quanto già è stato realizzato. Non invece ciò che attende di venire realizzato, e come tale costituisce il modello di qualunque possibile ente.
In termini etico-emozionali ciò implica conseguenze radicalmente diverse da quelle che l’uomo comune può trarre (circa la propria esistenza) ispirandosi alla visione filosofica platonica. Ma non voglio dilungarmi oltre su questo.
È chiarissimo, comunque, che questo secondo concetto di sostanza è abbastanza diverso dal primo. Tuttavia solo il primo significato di sostanza si lascia confrontare con il concetto di essenza in modo che risulti chiara la loro più evidente differenza, ossia il fatto che l’essenza indica la concentrazione di essere e la sostanza indica invece l’estensione di essere. Quanto invece al primo significato di sostanza, se volessimo discutere la sua relazione con il concetto di essenza – com’è avvenuto rispetto al concetto greco di “ousía” – dovremmo addentrarci in riflessioni estremamente complesse e sottili, che certamente non interesserebbero il lettore.
Il lettore però, in quanto non filosofo di professione, può essere certamente interessato all’altra distinzione tra essenza e sostanza, ossia quella tra concentrazione ed estensione.
Il che significa che tale distinzione ha un certo peso anche nelle questioni quotidianamente sollevate dalla nostra esistenza. Non entrerò nel merito del numero veramente grande di immagini che sono legate alle due dimensioni qui in causa. Basterà quindi anche solo fare qualche esempio. Lascio pertanto al lettore il compito di meditare su questo aspetto in modo totalmente libero.
Il primo esempio è quello di una concentrazione di essere che corrisponde al luogo circoscritto o finito, ed un’estensione di essere che corrisponde invece all’infinito in quanto illimitato. E questo suggerisce immediatamente a tutti noi la relazione che sentiamo tra noi stessi, quali esseri finiti, e l’immenso mondo o universo nel quale si svolge la nostra esistenza
Il secondo esempio (ancora più contemplativo) è quello costituito dalla relazione esistente (nell’ambiente in cui viviamo) tra il punto e la linea, e quindi tra ciò che è racchiuso in sé stesso e ciò che invece si sviluppa incessantemente.
Vi sono davvero infinite possibili proiezioni psico-emozionali, etiche e spirituali che possono essere fatte nel momento in cui ci poniamo a meditare su immagini come queste.
Naturalmente anche la riflessione sul binomio possibile-reale si presta bene a venire sviluppata proprio in questo contesto di meditazione. Ed anche in questo lascio il lettore libero di fare le meditazioni che ritiene opportune.

Bene! Ecco che in tal modo abbiamo constatato che perfino la filosofia pura può contribuire ad arricchire (in termini di riflessione) il nostro immediato (e così spesso cieco) esistere di uomini. A patto però che da essa venga estratto ciò che davvero è utile per l’uomo. Il che può avvenire solo se gli usuali concetti filosofici (per così dire di tipo tecnico) vengano extrapolati alle dimensioni di grandi immagini e grandi questioni. Ed in questo direi che la riflessione tradizionale (cioè l’eterna Scienza dei Simboli) può dare davvero un contributo forse molto maggiore della stessa filosofia.

Ma su tutto questo dobbiamo comunque ora addivenire ad una conclusione piuttosto sintetica. Abbiamo infatti identificato due diversi aspetti filosofici nel contesto dei concetti di essenza e sostanza.
Il primo aspetto esula totalmente dalla filosofia, corrispondendo alla relazione esistente tra possibile (quale non ancora realizzato) e reale (quale già realizzato).
Il secondo aspetto rientra invece nella più classica filosofia, corrispondendo all’essenza quale concentrazione di essere ed alla sostanza quale estensione di essere.
Entrambi gli aspetti sfuggono comunque in una certa misura alla riflessione filosofia più tecnica. Anche se abbiamo visto che non pochi elementi di quest’ultima possono almeno contribuire ad alimentare la riflessione che l’uomo comune può effettivamente fare su essenza e sostanza.
Nel complesso possiamo quindi dire che abbiamo finalmente individuato un campo della riflessione filosofica, nel contesto del quale la filosofia classica ha titoli molto maggiori per offrire contenuti dei quali l’uomo comune possa fare concreto uso. Ed è estremamente significativo che tale campo sia proprio quello che ha percentualmente occupato di più il tempo e lo spazio propri della riflessione filosofica planetaria dai primordi fino ad oggi. Si tratta insomma esattamente della riflessione circa essenza e sostanza

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È recentemente uscita la monumentale traduzione (dal greco al portoghese) del Nuovo Testamento (nella versione dei Settanta) ad opera del filologo grecista e scrittore Frederico Lourenço [Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016].
Ebbene un testo di una tale rilevanza (non solo religiosa ma anche culturale) non può venire affrontato senza entusiasmo ed immense aspettative. Cosa che ovviamente riguarda in particolare il credente, oltre che il pensatore religioso. Ma, ahimè, oggi la delusione è sempre dietro l’angolo esattamente quando appare un’opera che promette così tanto. Viviamo infatti in una cultura nella quale pare proprio che più una cosa viene considerata grande più essa inclina a valorizzare la brutale decostruzione all’elementare di tutto ciò che nel mondo per millenni è stato considerato un valore. Sta di fatto che un simile criticismo decostruttivo (anzi spesso per la verità francamente distruttivo) è iniziato con Kant e Voltaire, per poi raggiungere l’acme in Nietzsche, ed infine è divenuto un implacabile ed inarrestabile tsunami che ha travolto e travolge ogni cosa.
Ecco allora che una in sé pregevolissima traduzione dal greco delle Sacre Scritture cristiane finisce per dover essere necessariamente un’opera riduzionistica, brutalmente immanentizzante, desacralizzante e demolitoria, fino a raggiungere limiti che un tempo sarebbero stati giudicati blasfemia se non eresia. Ma questi due ultimi atteggiamenti sono oggi ampiamente considerati grandi virtù invece che vizi. E quindi non poteva non accadere che l’opera di Lourenço (già di suo scrittore super-premiato) venisse in Portogallo celebrata come un grande prodotto culturale ed una grande gloria nazionale.
Lo è però davvero?

Cerchiamo di comprenderlo meglio commentando i testi introduttivi che Lourenço premette alla traduzione dei Vangeli.
In generale la presa di posizione di Lourenço si riassume nei seguenti punti:
1) Il Vangelo è un testo molto attraente nella sua semplicità non solo dottrinaria ma anche linguistica (a causa del fatto che venne scritto in un greco senza pretese dedicato a gente semplice). Punto! Per il resto è un cumulo di false verità delle quali c’è solo da dubitare perché molto probabilmente sono state solo invenzioni. Insomma il Vangelo è null’altro che un bello e struggente (ma falso) testo letterario
2) L’Autore stesso si sente estremamente gratificato per il fatto di essere un grande e geniale grecista che intanto rende democraticamente merito ai testi antichi destinati ai semplici
3) Proprio per questo egli saluta i nuovi studi biblici (ormai in corso in tutte le “grandi università” mondiali), ai quali si dedicano ormai non più quotati teologi, ma invece giovani ricercatori (dottorandi e post-dottorandi) abituati a fare i filosofi e i filologi in maniera puramente tecnica ed affatto umanistica (cioè di quelli che non sanno nemmeno la differenza tra Iliade, Odissea e Eneide). Ebbene l’Autore appare essere molto lieto che a costoro venga offerta (anche grazie al suo esempio) la possibilità di smontare totalmente la sovrastruttura del testo sacro per riportarla all’elementare più nudo ed esplicito
4) Evidentemente su questa base Lourenço si sente fiero di continuare quella tradizione critica protestante che fu fin dall’inizio basata sulla raffinata erudizione testuale, e per questo si sentì pienamente giustificata nella propria opera di demolizione della tradizione
5) Per tale motivo egli dichiara più volte di credere solo e soltanto agli studi biblistici di ultima generazione (almeno quelli condotti dal 1963 in poi, anno della sua preclara nascita), dato che essi si sono espressi in modo unanime con legittimo scetticismo (rigorosamente scientifico) rispetto a quasi tutti gli aspetti più rilevanti dei testi evangelici
6) Ovviamente, in forza della sua traduzione e lettura dei testi, l’Autore annienta totalmente la realtà e credibilità dell’effettiva ispirazione divina dell’agiografo. Ne risulta insomma che il Vangelo è appena un insieme di testi letterari umani (come del resto l’umana logica vuole).

Tuttavia Lourenço non può non lodare il fascino della sua originale creatura. E così descrive in termini entusiastici la bellezza di testi che, pur essendo rudimentali (rispetto ai sontuosi testi epici dell’antichità), hanno surclassato in interesse e successo tutto ciò che era venuto prima di essi [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E così egli imprime su questi testi il marchio indelebile del suo apprezzamento previo, lasciandoci intanto però anche capire a cosa (secondo lui) esso è dovuto e a cosa invece non è dovuto: − “Sono testi che – con il loro messaggio sublime veicolato da parole la cui bellezza disarmante ancora fa rabbrividire chi le ha lette e rilette per una vita intera – rientrano semplicemente in una categoria a parte”. È evidente, in base a questo, che il valore dei Vangeli non consiste per lui assolutamente nel loro significato religioso, bensì invece in tutt’altro.
Dunque – dopo averci rassicurato con il suo autorevole imprimatur (che senz’altro ci impedisce di buttare subito via il libro per non riprenderlo mai più in mano) −, Lourenço sente di poter iniziare a snocciolare i motivi per i quali non vi è da credere ad una sola parola di ciò che è contenuto nei testi evangelici ed inoltre ancor più non vi è da credere ad una sola parola della costruzione dottrinaria che su di essa è stata eretta nel tempo.
Si comincia con il constatare il fatto che (come secondo lui confermato unanimemente dai biblisti degli ultimi decenni) non uno degli stesori dei Sinottici è per davvero chi sembra essere, e quindi non a caso si tratta appena di autori anonimi e tardi (operanti tutti intorno alla fine del I secolo d.C.). In altre parole i Sinottici non sono stati affatto scritti da coloro che noi conosciamo come evangelisti e discepoli di Gesù, cioè Matteo, Marco e Luca. E comunque, anche ammesso che fossero stati scritti da costoro, nemmeno si potrebbe essere certi della loro effettiva identità di discepoli di Gesù e pertanto autentici testimoni dei fatti. Un’eccezione va fatta solo per Giovanni. Ma questo per un motivo negativo e non invece positivo.
Giovanni infatti è l’unico a dichiarare esplicitamente nel testo che egli è esattamente colui che noi ci aspettiamo, ossia uno dei discepoli di Gesù, e peraltro il più amato da lui [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 313-317]. Peccato però che proprio Giovanni non sia altro che un intellettuale di tipo sacerdotale ebraico, il quale (indipendentemente dal fatto di essere stato o meno un discepolo di Gesù) non ha fatto altro che teologizzare i fatti nudi e crudi, trasformando così senza alcun diritto Gesù nel “Logos” divino e quindi producendosi nel complesso in una “finzione” teologico-letteraria bella e buona.
Ma non finisce qui. Perché poi vi è secondo lui il fenomeno lampante ed anche scandaloso di una quantità così grande di contraddizioni, omissioni e plagi (tra i vari testi evangelici) che lo studioso è costretto (per pura “logica”) a ritenere che nessun evangelista abbia detto la verità sui fatti. Il che porta poi necessariamente a supporre che non solo costoro abbiano distorto ed esagerato molte cose, ma addirittura ne abbiano inventate alcune di sana pianta [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E qui si giunge davvero al tracollo, perché su questa base non vi è una sola verità di fede che si salvi.
Circa la nascita di Gesù non si sa assolutamente nulla di certo (né circa la data né circa il luogo). Ed inoltre la verginità di Maria è una cosa così dubbia da essere addirittura costretti a supporre che essa venga semplicemente contraddetta dal fatto che Gesù ebbe dei fratelli (il che significa che Maria e Giuseppe, anche se successivamente, consumarono per davvero il loro matrimonio).
Circa la morte di Gesù non si sa nulla di univoco e anzi si è portati perfino a credere che non sia mai avvenuta. Soprattutto non si sa quando sia davvero avvenuta né cosa davvero Gesù abbia detto prima di esalare l’ultimo respiro. E qui l’Autore porta al massimo il ridicolo del testo, in quanto si sforza di dimostrare che il fatidico anno zero dell’era cristiana, ossia quello della nascita di Gesù è da spostare molto in avanti così come la sua stessa morte. Che sarebbe avvenuta non a trenta anni ma a quaranta o addirittura quarantasei anni.
Circa la resurrezione dei morti è lecito pensare che addirittura (come allora sospettarono effettivamente ebrei e romani) il corpo di Gesù sia stato trafugato dai discepoli, con la successiva invenzione poi di un sepolcro vuoto con tutti gli annessi e connessi.
Infine, pur ammettendo che gli evangelisti abbiano forzato e distorto i fatti in modo che coincidessero con le profezie del Vecchio Testamento, c’è da considerare il fatto che in quest’ultimo non vi è in verità alcuna traccia di tali profezie.
In ogni caso, per diminuire almeno un po’ la drammaticità di tutta questa distruzione (giustificando poi anche meglio il suo stesso lavoro), Lourenço dice alla fine che l’immenso numero di “difficoltà” obiettivamente presenti nel testo evangelico è esattamente ciò che costringe lo studioso a mettere spietatamente a nudo la “materialità” della lingua greca. Insomma, volendo essere più espliciti (di quanto l’Autore sia qui disposto ad essere), ciò vuol dire che bisogna fare in modo che le bugie presenti nel testo devono venire mantenute così come sono. Questa spietatezza (scettica e demolitoria) è però secondo lui benefica. Per cui la Chiesa stessa, secondo lui, dovrebbe essere la prima interessata a questa sorta di così strana, brutale e blasfema autenticità.

Passando poi alle introduzioni ai singoli Vangeli, vengono fuori per l’Autore ulteriori eclatanti «scandala» demolitori.
In primo luogo c’è da osservare che vi sono fatti rilevanti (sui quali si basano poi importantissime verità di fede) che stranamente sono presenti solo in alcuni Vangeli e non in altri. Ma per questo motivo finiscono inevitabilmente per perdere rilevanza alcuni momenti dell’insegnamento di Gesù ai quali è sempre stata attribuita la massima importanza. La tesi di Lourenço al proposito sembra insomma essere questa: − se non tutti gli evangelisti parlano di aspetti così importanti, allora può ben darsi che Gesù non abbia mai parlato di cose come queste. La tesi dell’Autore, insomma, si appaia in questo piuttosto perfettamente a quella di Renan, di Nietzsche e del suo conterraneo Saramago – Gesù non fu nemmeno lontanamente ciò che poi è stato fatto di lui.
Ecco che solo in Matteo noi ritroviamo il famosissimo e fondamentale discorso della Montagna, mentre invece non lo ritroviamo affatto in Giovanni [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Mateus, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 53-57; Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317]. Tutto il così significativo e suggestivo scenario dell’Annunciazione e della Nascita di Gesù si ritrova poi solo in Luca [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Lucas, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 217-220]. Inoltre sempre in Luca mancano tutti gli aspetti più drammatici ed anche miracolistici della vita di Gesù (Gesù non cammina sulle acque, non viene né flagellato né incoronato di spine), il che include poi anche la dolorosa e sanguinosa sua morte. Significherebbe quindi che tutta la teologia cristiana del dolore e della morte in Croce di fatto non varrebbe un fico secco.
Infine in Giovanni (oltre il discorso della Montagna) mancano completamente episodi fondamentali come la provazione nel deserto, il nome effettivo di Maria quale madre di Gesù, l’insegnamento del Pater Noster, e addirittura il presentarsi di Gesù come Messia [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317].
Inoltre (in base alla messa in dubbio dell’identità di Giovanni, che abbiamo visto prima) Lourenço menziona l’opinione del famigerato Rudolf Bultmann (il quale negò recisamente che costui possa essere stato per davvero testimone oculare di tanti importanti episodi) per giungere infine a sostenere che è del tutto lecito considerarlo addirittura un “impostore”.

Ecco, credo che davvero non ci sia bisogno di dire di più. A parte il senso di nausea e desolazione che coglie il credente davanti a queste affermazioni, è inevitabile non nutrire il sospetto che dietro di esse vi sia un’intenzione demolitoria che sfiora addirittura l’insidia satanica.
Non si può comprendere altrimenti quello che lo stesso Autore dice, e cioè di aver dedicato tutta la sua vita non solo alla traduzione di questi testi ma anche alla loro meditazione e contemplazione. Per cosa dunque?
Solo per coprire di ridicolo e di ingiurie le verità di fede che vi sono contenute?
A questo punto mi sembra addirittura non solo irrilevante ma anche estremamente ipocrita che egli difenda il suo impegno mettendo avanti la bellezza ed importanza dei testi che ha tradotto con un così grande e meritevole lavoro. Tutto ciò diviene davvero poco credibile, dato che la cosa più credibile è invece che egli abbia semmai visceralmente odiato ciò che intanto studiava.
Insomma la lettura lourençiana dei testi evangelici sembra l’esatto contrario di una lettura delle Scrittura che venga guidata dallo Spirito. E quindi risulta davvero difficile scartare l’ipotesi che egli sia stato guidato in tutto questo addirittura da una mano satanica. In ogni caso, se anche non è stato questo, non gli si può attribuire altro che quel ben noto corrosivo scetticismo ateo (venato peraltro visibilmente di odio e scherno) che da molto tempo è tipico dell’intellettuale moderno ed ancor più post-moderno.
Tutto questo però non è solo scandaloso per il credente. È invece anche estremamente sconsolante per l’uomo di cultura. Dato che è un atteggiamento di una piattezza, di una meschinità, di una scontatezza e di una banalità che davvero sono difficili da supporre in un filologo al quale viene intanto attribuito un così grande valore e viene tributata una così grande fama.
Insomma viene proprio il sospetto che l’opera “monumentale” di Lourenço (e forse anche il personaggio stesso) non sia altro che un altro dei tanti tipici bluffs culturali moderni.

In questa lezione dovrò davvero sforzarmi molto. Perché su questo tema sono stati spesi non soltanto fiumi ma invece anche oceani di inchiostro. E quindi, se pretendo di parlarne, dovrò dire necessariamente qualcosa di molto originale. Tutto questo dovrà però costituire l’esatto contrario dell’orgoglio. Per cui ciò significa che potrò parlare di questo tema solo rassegnandomi a poter dire appena qualcosina su di esso, senza quindi poter nemmeno lontanamente pretendere di essere completo ed esaustivo.

Ma partiamo da una costatazione iniziale del tutto banale, sebbene estremamente significativa – chi sia l’uomo nessuno non lo sa e nessuno può saperlo. E per vari semplicissimi motivi.
Il primo motivo è quello che noi stessi siamo uomini (noi che parliamo di noi stessi), e quindi non godiamo per definizione del privilegio di poterci guardare dall’esterno. Il secondo motivo sta nel fatto che l’uomo è oggettivamente qualcosa di troppo complesso e misterioso per poter davvero rispondere soggettivamente alla domanda circa la propria essenza ultima, ossia circa il proprio più autentico «cos’è?». In questa lezione forniremo alcune definizioni dell’essenza dell’uomo, ma comunque, sebbene estremamente ambiziose, esse sono tutte ben lungi dall’avere il potere di aver risolto per sempre il tema e problema. In altre parole l’uomo sta davanti a sé stesso come davanti ad un profondo mistero. Per definizione e senza rimedio!
Pertanto già ora possiamo iniziare a dire la cosa più conclusiva ed anche straordinaria e paradossale su questo tema: – dire cos’è l’uomo lo può dire solo chi lo conosce da cima a fondo, ossia Dio.
Si badi bene, però: – almeno per ora, con ciò non intendo fare assolutamente un’affermazione dogmaticamente religiosa. Anzi, tutt’altro! Voglio dire invece solo che, se noi dobbiamo fare lo sforzo di immaginarci chi sia colui che può davvero conoscere l’uomo da cima a fondo, possiamo solo concluderne che costui può essere solo un soggetto conoscente equivalente a Dio. Solo a questo soggetto conoscente può infatti venire attribuita l’ampiezza ed altezza di conoscenza che possono consentire di abbracciare con lo sguardo intellettuale un fenomeno ed ente così immenso e profondo com’è quello umano.
E va detto che forse solo la mente e la penna di Sofocle (Antigone) sono riusciti a ritrarre tale mistero con le dovute profondità e potenza: – “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna / è più mirabile dell’uomo:/ egli attraverso il canuto mare / pure nel tempestoso Noto / avanza, fra le onde movendo / che ingolfano intorno; / e l’eccelsa tra gli dèi, la Terra / eterna, infaticabile, egli travaglia, / volgendo gli aratri di anno in anno, / rivoltandola con i figli dei cavalli…” [Sofocle, Antigone, in: Dario Del Corno, Sofocle. Edipo Re. Edipo a Colono. Antigone, Mondadori, Milano 2010., I stasimo, 332-341 p. 281].

Dunque è da questo che dobbiamo partire.
E quindi è ora il momento di entrare nel merito delle risposte che la filosofia mette a disposizione per chiarire il nostro tema.
Tuttavia ho chiarito all’inizio di questo ciclo di lezioni (e l’ho ribadito a proposito dei fenomeni dell’esistenza) che non intendo affatto chiamare in causa l’intera filosofia, bensì solo quella che può davvero illuminare il cammino compiuto ogni giorno nell’esistenza da parte dell’uomo comune. Ma questo semplifica notevolmente il mio compito, dato che in tal modo potremo trattare solo di alcuni aspetti della visione filosofica dell’uomo. Infatti, se invece non lo facessimo, dovremmo addentrarci in dottrine di un’estensione e di una complessità per davvero sconfinate.
Basta per questo prendere anche solo brevissimamente in considerazione quelli che fin dall’inizio sono divenuti i due grandi rami filosofici della visione dell’uomo, e cioè quello platonico e quello aristotelico.
Ebbene, Platone considerò l’uomo in maniera primariamente ontologica, e precisamente in quanto ente dotato di un’anima primariamente conoscente, e quindi posta in contatto lo strato di essere più vero e reale secondo lui, e cioè quello (trascendente) delle Idee. Idee che per lui incarnavano le vere cose, ossia quelle trascendenti. Proprio per questo motivo giustissimamente il Prof. Reale ha fatto osservare che il primo e più grande pensatore dell’essere è stato Platone, e non invece Aristotele [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, V, IV p. 147-153, I, VI, I-III p. 158-176, II, VII, IV p. 217-227, IV, XVI, III p. 511-526]. Egli, infatti, individuò uno strato di essere trascendente di natura «ideale» ma insieme anche totalmente cosale (e quindi «onto-intellettuale»), che rappresenta di fatto tutto l’Essere esistente.
Il che è vero perché tutto ciò che sta al di sotto di questo strato non è altro che mero effetto (sempre più lontano dalla causa) e mera ombra – quindi è qualcosa di sostanzialmente irreale. L’uomo quindi viene definito da Platone in stretta relazione con questa specifica concezione dell’Essere. Ne consegue che la sua natura ultima viene vista esattamente in quella realtà onto-intellettuale che corrisponde poi a ciò che in filosofia poco a poco è stato identificato come «spirito» – si tratta di qualcosa che ontologicamente equivale esattamente alla dimensione intellettuale nella sua valenza cosale (Idea quale cosa, e cosa quale Idea; inoltre conoscenza che è essere, ed essere che è conoscenza).
E l’anima non è altro che l’aspetto più concreto e cosmico di tale realtà. Cosa che poi venne chiarita in dettaglio specialmente da Plotino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16 p. 1655-1661; Elena Gritti, Proclo. Dialettica anima esegesi, LED, Milano 2008, II, 1 p. 67-87]. Insomma in questo senso la natura dell’uomo è quella di un ente intellettuale-spirituale, la cui espressione più prossima al corpo è la dimensione animica. E devo a questo punto ricordare per inciso che la grande pensatrice ebreo-tedesca Edith Stein ha dato un grande contributo a questa concezione; insieme ad alcuni suoi interpreti, tra i quali io stesso [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/; Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010].
In ogni caso va sottolineato che per Platone la dimensione intellettuale, e quindi in qualche modo quella gnoseologica ed epistemologica (conoscenza), è in primo luogo ontologica, ossia è essere.
Comunque chi vorrà approfondire questo tema potrà leggere il mio saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017].
Ben diversamente stanno invece le cose per Aristotele (nonostante le apparenze). Per lui, infatti, la dimensione ideale-intellettuale non ha per definizione alcuna ontologicità. Essa è infatti appena
“sostanza seconda”, ossia riassume in sé tutte le qualità che possono venire attribuite (“dette di…”, o predicate) alla “sostanza prima”, e cioè all’individuo che intanto esiste senza aver bisogno di alcuna giustificazione ontologica (ovvero l’ente mondano colto nella sua dimensione metafisica). Insomma, tutto ciò che per Platone è l’essere stesso più pieno, per Aristotele è invece appena ciò che “inerisce” all’essere (l’ente-individuo in quanto sostanza prima). E quindi esiste per davvero solo se collocato in tale contesto. Altrimenti, preso da solo, è un puro nulla. Ecco allora che tutto quanto è umano, ossia il costituire un ente intellettuale-razionale (l’ente che «sa di sè»), è per Aristotele unicamente logico, e non invece ontologico.
Ebbene, esattamente da questo scaturisce una delle più forti, universali ed usuali definizioni filosofiche dell’uomo, ossia quella dell’uomo in quanto animale bipede e insieme razionale. Si può dire infatti che nessuna successiva concezione filosofica dell’uomo si sia discostata da questa definizione aristotelica.
Ma cosa essa ci vuol dire in primo luogo? Essa ci vuole dire soprattutto che l’uomo viene definito dal suo carattere logico universale (animale come “genere”), al quale vanno aggiunti poi gli ulteriori (e meno universali) caratteri logici (“specie”), ossia quello di bipede e di ente razionale. In altre parole per Aristotele l’uomo può venire definito nella sua essenza intellettuale-razionale senza fare alcun ricorso all’ontologia («onto-intellettualità»). Ecco che l’uomo può e deve venire definito come ente intellettuale-razionale appena in base ad una dimensione puramente logica. Il che impedisce ovviamente di dire quale sia l‘effettiva natura dell’uomo. Dato che quest’ultima può e deve venire definita solo e soltanto in termini ontologici. In altre parole, affermando che l’uomo è un “animale razionale”, Aristotele si è limitato a constatare qual è la natura dell’uomo dal punto di vista unicamente logico-razionale e, se vogliamo, puramente scientifico. Non ci ha detto però affatto «cos’è» l’uomo, cioè si è guardato bene dal fare anche un solo passo nel campo del mistero nel quale questo ente è avvolto.
Ecco. Qualunque definizione dell’uomo noi troviamo nella filosofia successiva a Platone ed Aristotele, noi dovremo inquadrarla in un una di queste due sfere dottrinarie. E quindi credo che possiamo astenerci dal dilungarci in una ricerca che seguirebbe l’intero iter della filosofia alla ricerca delle varie definizioni dell’uomo.
Il che ci permetterà quindi di concentrarci solo su alcune tra le tante concezioni.
Il criterio per la scelta di queste ultime dipende però dalle coordinate generali che già ora possediamo – l’uomo è un ente animico-razionale-intellettuale-spirituale (ente in quanto onto-intellettuale), e quindi è per natura capace di conoscenza e di auto-coscienza («sa si sè»). Pertanto possiamo già dedurne che l’uomo è un soggetto conoscente ed auto-cosciente, ossia sostanzialmente è molto più un «chi» o «colui» che non invece un mero «cosa» (un ente tra gli enti). Esso insomma è molto più un soggetto che non un oggetto. E su questo bisogna dare senz’altro ragione alle dottrine filosofiche di tipo idealistico.

Ebbene questo ci riporta però a quella affermazione solo provvisoriamente religiosa che ho fatto all’inizio – chi può conoscere l’uomo se non Dio, ossia il davvero supremo Soggetto?
Ed ora possiamo comprenderne meglio il perché. Abbiamo infatti appena visto che l’uomo è un «chi» e non un «cosa». Chi, dunque, può conoscerlo meglio se non il «Chi-Colui» per eccellenza che per definizione conosce l’uomo esattamente in quanto è un «chi» o «colui»; ossia Colui che lo conosce come un’irripetibile ed unica persona (soggetto conoscente ed auto-cosciente) prima ancora che sia venuto al mondo?
Costui è (e può essere) solo Dio.
Egli è infatti Colui che conosce ognuno di noi esattamente com’è (nella sua unicità assolutamente inconfondibile) fin dall’eternità. Egli ha insomma pensato ognuno di noi fin dall’eternità.
Ora, da questo veniamo di nuovo al problema della scelta dei pensatori, delle dottrine e dei testi che possono aiutarci ad approfondire questa materia. Anche qui le possibilità sono sconfinate. Per cui mi limiterò a menzionare (tra le mie letture) quei pensatori che più mi hanno colpito per quanto riguarda la perfezione della conoscenza dell’uomo da parte di Dio.
Si tratta di due grandi pensatori cristiani, e cioè Maritain e Guardini. Essi, quindi, potranno aiutarci a comprendere meglio questa definizione dell’uomo proprio partendo dalla perfezione della sua conoscenza da parte di Dio.
Prima di iniziare a discuterli vorrei però brevemente citare di nuovo Edith Stein. Questa pensatrice non è stata certo esplicita sul tema come lo sono stati Maritain e Guardini. Ma intanto ha sostenuto che l’uomo (in quanto ente animico-razionale-intellettuale-spirituale) è in primo luogo un irripetibile unicum, e precisamente un “Essente” (Seiende) che è poi l’esatto riflesso speculare del Logos divino [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006,VII, 9-11 p. 360-396]. Proprio in questo senso esso è l’esatta replica immanente del supremo Soggetto trascendente, che poi è l’Individuo ideale-cosale per eccellenza, ossia un supremo Ente (Essere) che è anche la suprema Idea di tutte le cose, ossia è la Possibilità trascendente di qualunque genere di ente. In questo si riassume la concezione steiniana di quei Trascendentali nei quali la Scolastica cristiana (specie tomista) volle vedere lo strato di essere nel quale esistono (entro l’essere e la mente divina) i modelli ideali di tutti gli enti creati [Edith Stein, Endliches… cit., V p. 239-279; Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXVII, 1 p. 20-25, 2 p. 26-40, 2 p. 54-58, 3 p. 56-64, 4 p. 115-126.]. Ebbene in questo uomo che è immagine speculare del Logos cristico, noi abbiamo già un ente caratterizzato dallo status di soggetto conoscente-cosciente ed anche di Intelletto, e quindi abbiamo già un sostanziale «chi» o «colui». E per la precisione si tratta di un ente umano-divino, ossia un «figlio di Dio» per natura e per elezione.
Non abbiamo invece affatto un mero «cosa» tra i tanti altri. Ma soprattutto non lo abbiamo perché si tratta di un ente assolutamente irripetibile, ossia un ente che è stato messo al mondo come un «qualcuno» e non come un «qualcosa». Il che può essere avvenuto soltanto attraverso un progetto creativo che non implicava appena il risultato finale da raggiungere, ma anche l’intimità personale con questo risultato, ossia il conoscerlo intimamente. Proprio come accade con una persona. Possiamo quindi assumere che Dio, allorquando crea ognuno di noi, già prima che ciò accada non solo ci ha davanti a sé nella nostra interezza ultima, ma inoltre già intrattiene con ognuno di noi un’intimissima relazione personale.
E ciò assomiglia molto a quella Prima creazione (creazione del mondo e dell’uomo restata interiore a Dio) della quale ho già parlato nella quindicesima lezione.
Va precisato comunque che, con questo complessivo discorso, la Stein tentò di definire quella che per lei era l’”essenza” dell’uomo, ovvero il suo preciso «cos’è?»; e quindi tentò di definire l’idea che costituisce l’uomo rappresentandone l’essere già a livello trascendente. Non a caso questo «essere» assolutamente unico-individuale dell’uomo esiste già, ed è perfettamente fissato (determinato), appunto a livello trascendente. La pensatrice, quindi, volle fare del tutto a meno del concetto aristotelico di sostanza (definente l’individuo umano), e pertanto il suo discorso ricade decisamente nella sfera platonica.
Ma differisce per questo anche da quella aristotelico-tomistica. Dato che in quest’ultima l’uomo viene definito primariamente dalla sostanza in quanto è soprattutto atto e non potenza (essenza), ossia è «atto di esistere», cioè in primo luogo è un assoluto ed incondizionato esistente (e dunque un cosa», cioè un oggetto più che un soggetto).
Esamineremo di nuovo più tra poco questo tema.

Veniamo però ora ai pensatori che parlano più direttamente dell’uomo come «chi» e/o come «colui»
Bene, Maritain, riallacciandosi alla visione tomistica (e quindi aristotelica), sembrerebbe a prima vista colui che meno giustifica questa definizione dell’uomo. Ne abbiamo appena parlato. Egli, infatti, considera l’uomo alla stregua dell’individuo così come venne definito da Tommaso, e precisamente in quanto sostanza prima immanente (alla quale tutto «inerisce»). Si tratta pertanto di un ente tra gli altri enti, e quindi in via di principio si tratta di un oggetto e non di un soggetto. Dunque la caratteristica primaria di tale ente è quella di essere un esistente (totalmente immanente) che è giustificato solo e soltanto da sé stesso nel proprio esistere. Esso è infatti la sostanza (reale) alla quale inerisce l’essenza (ideale). E pertanto per definizione non ha bisogno di alcuna essenza che lo vada a definire; cioè, per poter esistere, non ha bisogno di alcun «cos’è?» ideale e trascendente. L’individuo quale sostanza ha infatti tale elemento già in sé. Anzi l’idea-essenza non esisterebbe nemmeno senza l’individuo-sostanza che lo contiene.
Tuttavia, riferendosi sempre a Tommaso, Maritain aggiunge a ciò qualcos’altro, e cioè che questo apparente assoluto oggetto è invece (stupefacentemente) il soggetto per eccellenza. Però non lo è affatto di per sé, bensì sollo per concessione divina. Nel crearlo, infatti, Dio lo pone come “suppositum” perché esso in generale è sì un oggetto tra i tanti, ma nello stesso tempo (in quanto creato) è in ultima analisi un’Idea divina incarnata, e quindi è di fatto l’oggetto di un’affermazione soggettiva divina circa un ente che potrebbe esistere in quanto determinato [Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014, I, 4 p. 47-50]. Proprio come tale, esso è anche l’oggetto di un’affermazione conoscitiva soggettiva umana di tipo scientifico. Pertanto, a causa di tutto questo, esso è un oggetto pienamente esteriore che per nulla è mai separato dal soggetto conoscente (come invece l’idealismo aveva ipotizzato). Il realismo tomista, insomma (qui ripreso da Maritain), nega semplicemente che possa esistere un puro oggetto separato dal puro soggetto, e quindi afferma che ogni oggetto è sempre anche un soggetto (è sempre il soggetto di un’affermazione soggettuale che non è mai separata dal mondo cosale). E viceversa. Comunque tutto ciò non esclude che tale soggetto-oggetto sia intanto in primo luogo di un esistente pienissimo; dato che esso (nel mentre viene «affermato», e quindi ricompreso in sé da parte del soggetto) è sempre totalmente esteriore a qualunque ipotetico soggetto. Il che avviene per il fatto che esso esiste nel mondo esattamente come esiste nel mondo anche il soggetto stesso. Ebbene, questa parità di status ontologico deriva semplicemente dal fatto che vi è un soggetto che li pone entrambi, e cioè il supremo Soggetto divino. Quest’ultimo è infatti Colui che pensa entrambi (facendo di entrambi il soggetto di una Sua affermazione) nel mentre li crea, ossia li mette al mondo.
Su questa base Maritain richiama quel concetto tomista di “sussistenza” che secondo lui supera e rende del tutto inutile il concetto di essenza [Jacques Maritain, Breve trattato… cit., III, 16-20 p. 93-104]. Per lui, quindi, non è assolutamente necessaria un’essenza per costituire un soggetto, ma è invece piename