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Archive for gennaio 2022

LIBRI:
Erich Przywara, Analogia entis, Johannes-Verlag, Einsiedeln 1996 (AE)

ARTICOLI:
Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval
théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335 (SP).
Chantal Beauvais, “Edith Stein et la modernitè”, Laval théologique et philosophique, 58 (1) 2002, 117-136
(SM).
Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, die Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und
phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543 (BWWI)
Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch einer Gegenüberstellung“, in: Edith Stein, Freiheit und Gnade, ESGA 9, Herder, Freiburg Basel Wien 2014, 7 p. 119-142 (HP).

L’impossibilità di una piena filosofia dell’essere presso la Stein (una volta posta a confronto con Maritain e con il concetto di atto di esistere) viene non poco moderata allorquando ne accostiamo il pensiero a quello di Erich Przywara. Anche quest’ultimo rientra però (come Maritain, Scheler, Walther e Ingarden) tra le frequentazioni reali della pensatrice. Tra l’altro egli fu uno dei protagonisti tanto della sollecitazione allo studio di Tommaso (che la Stein intraprese e condusse sempre con molte esitazioni per la paura di non conoscere bene il pensatore) quanto della sollecitazione a continuare a filosofare anche nel corso della vita monastica. Quindi stiamo qui parlando di una realtà, e non invece di una ipotesi basata su una teorica extrapolazione del pensiero steiniano. In altre parole, nel contesto degli stretti contatti tra Stein e Przywara, sicuramente la pensatrice deve essere stata consapevole di una reale possibilità di concepire una filosofia dell’essere, cioè una piena onto-metafisica (piena ontica), pur restando sulle posizioni di un inderogabile essenzialismo (piena noetica). E sicuramente il nucleo di tale consapevolezza consistette nel far proprio quel concetto tomista di “analogia entis” (di fatto la relazione esistente tra l’ente umano e l’Ente divino) che costituisce poi il contesto più generale entro il quale si svolgono le riflessioni di Przywara.
È anche vero però che Przywara sostiene al proposito una posizione metafisico-filosofica molto originale, molto indipendente e soprattutto (come vedremo) molto più unitaria, forte e convincente di quella della Stein. Egli infatti non abbracciò né il tomismo (sebbene sia stato uno studioso attentissimo di Tommaso) né tanto meno la Fenomenologia. Pertanto, non essendo condizionato né dall’uno né dall’altra, poté sostenere l’impossibilità di ridurre la filosofia metafisica tanto alla posizione idealistica quanto a quella realistica. Potremmo dire quindi che Przywara sostenne senz’altro una tesi che è in disaccordo con ciò che ho detto nella IV lezione, ossia sostenne che una piena filosofia dell’essere è possibile in piena concordanza con una filosofia della coscienza (o dell’essenza). E di questa presa di posizione dobbiamo quindi prendere assolutamente atto nel cercare di dare un volto ben definito al pensiero steiniano. Del resto questa è anche la tesi interpretativa che sostiene la Beauvais nell’articolo sopra menzionato (SP). Peraltro vedremo poi che sia Przywara che Beauvais portano in primo piano un tema connesso a quello che stiamo trattando, e cioè il coinvolgimento della Stein in quella grande discussione sulla natura e posizione della moderna filosofia cristiana che vide coinvolto ovviamente anche Maritain. Oltre a ciò direi che la relazione tra Stein e Przywara ci lascia comprendere molto meglio anche in che modo la prima andò poco a poco intendendo quella relazione tra filosofia e onto-metafisica entro la quale iniziò infine a delinearsi proprio la mistica − in quanto concentrazione su un’onto-metafisica ormai sublimata e de-filosofizzata nel senso che essa poco a poco si riduce alla semplice e pura presenza di Dio nella mente e nella vita di chi se ne occupa. E così perveniamo a quella che forse fu la vera natura del pensiero steiniano e che si rivelò solo nell’ultimissima fase mistica della sua opera.
In questa lezione mi baserò quasi esclusivamente sul libro di Przywara AE (integrandolo con alcune riflessioni della Beauvais). Tuttavia devo dire che il contenuto di questo libro è estremamente ampio, denso, sottilmente analitico, minuziosissimo, complesso; e quindi anche molto difficile da leggere, da comprendere e soprattutto da riassumere. Per cui dovrò limitarmi a trattare solo alcuni aspetti in esso affrontati sorvolando invece totalmente su altri.

I- La metafisica come filosofia dell’essere: unità di meta-noetica e meta-ontica.
Nella parte introduttiva del suo libro Przywara ci lascia sinteticamente comprendere la natura e gli scopi del suo progetto filosofico [AE, I p. 7-10, I, I, 1-2 p. 23-31]. Esso consiste infatti sostanzialmente in un pieno recupero di quel concetto antico di essere (l’”on” come concepito in Aristotele) che è oggetto di una incondizionata metafisica entro la quale di fatto l’essere ha di per sé una valenza ideale o di pensiero (come del resto avvenne anche entro la riflessione scolastica sui Trascendentali). Si tratta per la precisione della metafisica concepita (sempre secondo la tradizione aristotelica) come scienza di quell’essere che è posto dopo la “fisica” (e quindi oltre la “Physis”) – ossia oltre il campo del mero sensibile −, il quale costituisce l’invisibile fondamento dell’ente (sostanza prima). E così di nuovo ci troviamo di fronte all’atto di esistere (CFR Maritain). Qui viene però la seconda fondamentale presa di posizione di Przywara, che consiste nella critica alla filosofia moderna. Quest’ultima infatti ha per lui posto oltre la fisica quel campo dello “psichico” (coscienza) che non solo non costituisce affatto l’essere (fino ad assumere, ad esempio in Sartre, la valenza dello stesso Nulla) ma inoltre non è affatto il campo di una metafisica. Ebbene, sulla base di queste fondamentali prese di posizione possiamo comprendere che per Przywara è assolutamente ovvio sia il fatto che noetica ed ontica non si escludono in alcun modo (in quanto entrambe campi dell’essere), sia il fatto che esse vanno intese come il campo della metafisica stessa, e quindi vanno propriamente definite come “meta-noetica” e “meta-ontica”. È ovvio anche che già solo così possiamo comprendere che l’essere è saldamente unitario grazie a quell’analogia che ne rinsalda le parti. Però più avanti vedremo poi che non si tratta di altro se non della necessaria relazione tra uomo-mondo e Dio.
Nel complesso è quindi chiaro che in questo modo Przywara concepisce una filosofia dell’essere che si basa su presupposti tomistico-aristotelici, mentre esclude decisamente la riduzione dell’essere alla coscienza sostenuta dalla Fenomenologia di Husserl. Di quest’ultima egli sembra però accettare la non esclusione del noetico da parte dell’ontico. Ma questo chiama in causa molto più la Stein che non invece Husserl. Tuttavia senz’altro contraddice Maritain, e quindi ci offre già una via per mitigare l’insufficienza della filosofia dell’essere steiniana che abbiamo visto nella IV lezione. Non a caso Przywara non nasconde la sua opposizione alla neo-scolastica [AE, II, 4 p. 309].
Dunque, sulla base di questa sua radicale critica alla filosofia, va detto che Przywara, nel sostenere questa perfetta conciliazione di noetica ed ontica, non perde mai di vista la metafisica come obbligato punto di riferimento. Solo questa scienza è infatti per lui in grado di considerare come essere tanto il contenuto della coscienza quanto la sostanza del mondo. Pertanto la “domanda circa l’essere” resta in piedi sia che si ponga al centro la coscienza (soggetto) sia che si pongano al centro le cose del mondo (oggetto). Ciò significa tuttavia che la filosofia (con la sua dogmatica scissione tra idealismo e realismo) non potrà mai affermare la conciliazione tra noetica ed ontica. E questo coinvolge almeno in parte anche la Stein. Inoltre la metafisica, avendo al suo centro la dimensione del “meta”, tende per Przywara del tutto naturalmente ad affermare la fondamentale importanza del “formale” (così come la filosofia moderna stessa) – ossia la dimensione dell’atto di conoscere −, ma senza con ciò per nulla essere obbligata a togliere di mezzo l’essere (ossia l’atto di esistere). Pertanto non vi è alcun primato della conoscenza o dell’essere. Vi è soltanto il fatto semplicissimo di una conoscenza che sussiste tanto dal punto di vista del soggetto interrogante (meta-noetica) quanto dal punto di vista dell’oggetto interrogato (meta-ontica). Ne consegue che la metafisica è un’Erkenntnistheorie di per sé e del tutto naturalmente.
Inoltre, dato che in tal modo i Trascendentali (o Universali) risultano essere insieme (e senza alcuna contraddizione) categorie formali sia della conoscenza che dell’essere, appare chiaro che non è assolutamente necessario alcun atto di riduzione trascendentale. Ed ecco che vengono esautorati insieme Cartesio, Kant e Husserl. Quanto in particolare a quest’ultimo, è evidente che l’atto di coscienza sviluppa di per sé delle categorie ontiche, e non invece solo noetiche. Ebbene, tutto questo significa che, se la Fenomenologia non può configurare una filosofia dell’essere, ciò accade perché essa si rifiuta di essere una piena metafisica, e quindi di accettare quella compresenza di meta-noetica e meta-ontica che l’atto di riduzione trascendentale non può in alcun modo permettere. Esso infatti al massimo si limita a truccare la noetica da ontica – come avviene nella riflessione di Husserl sulla relazione tra noetico e noematico, e quindi anche nel contesto della dottrina dell’intenzione e della costituzione. Quanto alla Stein possiamo supporre tanto che ella abbia sottovalutato tale riduzionismo comportato dalla Fenomenologia, quanto che invece si sia sentita in buona fede legittimata a concepire una filosofia dell’essere ultra-fenomenologica nonostante l’essenzialismo che le proveniva da Husserl. E questo mitigherebbe senz’altro il giudizio di insufficienza al quale siamo giunti nella IV lezione, ma intanto rafforzerebbe le ragioni per considerare la filosofia dell’essere steiniana come possibile solo sulla base del superamento completo della Fenomenologia di Husserl.
Posto questo, possiamo entrare un po’ più in profondità nelle riflessioni di Przywara sulla perfetta conciliabilità di meta-noetica e meta-ontica. Già in questa introduzione egli afferma che non si tratta di primato, ma invece appena della scelta di procedere all’indietro (verso la coscienza), corrispondente al “so-sein” (meta-noetica), oppure di procedere in avanti (verso l’essere), corrispondente al “da-sein” (meta-ontica). Va però tenuto assolutamente presente che si tratta in entrambi i casi di essere, e quindi di esistenti, cioè tanto l’uomo pensante (coscienza) quanto gli enti. Già qui, insomma, risulta chiaro che quella da lui delineata non è affatto una qualunque metafisica filosofica (come vedremo più avanti) ma è invece una metafisica molto specifica, ossia di natura fortemente teologica in quanto incentrata sulla natura creata degli enti. Egli la definisce come “metafisica creaturale”.
Se poi andiamo più in profondità in questo discorso [AE, I, I, 2, 3 p. 31-36; I, I, 3, 1-3 p. 36-58] possiamo capire ancora meglio su quali basi Przywara sostiene la perfetta conciliabilità di noetica ed ontica. Egli riafferma infatti che le due dimensioni intimamente congiunte del “Sosein” e “Dasein” configurano la stessa “formula formale costitutiva della metafisica”. Tuttavia egli individua in ciascuna di queste due dimensioni anche due tradizionali forme opposte e concorrenti di metafisica, e cioè quella apriorica (“Sosein”) e quella aposteriorica (“Dasein”). La prima privilegia il soggetto (il domandante), mentre la seconda privilegia l’oggetto, ossia quanto sta davanti al soggetto, cioè il “Gegenstand”. A favore della prima sta il fatto che il “Sosein” è effettivamente l’essere ideale dal quale tutto dipende, ossia il “formale” corrispondente ai Trascedentali (“prius”). A favore della seconda sta il fatto che obiettivamente l’oggettualità ci appare incarnare l’essere in maniera certamente più pregnante e convincente. Proprio qui infatti va anche per lui cercato l’atto di esistere nella sua impositività ontologica (CFR Maritain). Questi due opposti primati non sono però affatto in grado di sostituire una visione integrale dell’essere, che implica l’inclusione delle due dimensioni, ossia ideale e reale. Quindi, se ammettiamo che la Stein (per mezzo di Przywara) sia stata consapevole di questo, l’insufficienza della sua filosofia dell’essere ne viene molto mitigata.
Su questa base il nostro pensatore torna all’assetto dinamico di questa complessiva visione dell’essere.
E riafferma la necessità di una semplice scelta tra le due direzioni che essa contempla: – 1) verso avanti (nel senso dell’”evoluzione”), dalla coscienza all’essere, e quindi dal “Das” (essenza-idea, o noetica) al “Was” (cosa, o ontica); 2) verso indietro (nel senso della “devoluzione”), dall’essere alla coscienza, e quindi dal “Was” al “Das”. È evidente che la prima direzione raffigura la filosofia dell’essere come correntemente viene concepita, ossia come esterioristica (così di fatto compare anche in Maritain). La seconda direzione invece raffigura la filosofia della coscienza incentrata sulla riduzione trascendentale. Ed è chiaro che c’è bisogno di entrambe queste visioni. Ebbene potremmo assumere che la Stein giunse forse ad intuire la qui indicata possibilità di sviluppo della sua filosofia dell’essere (sviluppo che avrebbe potuto eliminare l’insufficienza), e tuttavia sta di fatto che ella non si mosse in questo senso dato che infine si dedicò alla sola mistica.
Le due visioni artificiosamente contrapposte vengono comunque definite da Przywara come metafisica eidetico-deduttiva e metafisica morfologico-induttiva. La prima è di stampo platonico e la seconda è di stampo aristotelico. Esse rappresentano null’altro che i due campi dell’essere indagati dalla metafisica integrale, e cioè il campo dell’essenza ideale o “eidos” (Sosein sopra il Dasein) e il campo dell’essenza cosale o “morphé” (Sosein nel Dasein). L’accento posto sull’essenza già ci mostra la necessaria complementarietà delle due dimensioni. Ed in effetti la Stein deve essere stata ben consapevole di ciò per mezzo di Jean Hering, il quale esaminò a fondo proprio tale problematica (BWWI). In ogni caso la completezza del quadro si ottiene per Przywara solo allorquando si concentra il proprio sguardo sull’elemento sintetico-unitario dell’inteso scenario, ossia la dimensione del “Sosein-in-sopra-Dasein” (“Sosein-in-über-Dasein”). Cosa di cui è però capace solo la metafisica creaturale. In ogni caso egli sottolinea che, così come l’essenza, anche la dimensione dell’”atto” sta al centro di entrambi i campi e relative metafisiche – atto di conoscenza (eidetico-deduttiva) e atto di esistere (morfologico-induttiva).
E questo ci indica ancora una volta che egli fu ben consapevole del peso e dello spessore dell’atto di esistere del quale parlava Maritain.

II- La tensione tra metafisica, filosofia e teologia.
Sulla base di tutto ciò potremmo dunque pensare che non ci sia da fare altro che sommare ed unire queste due metafisiche. Ma Przywara ci avverte che ciò è impossibile finché restiamo nell’ambito della sola filosofia, entro la quale le due metafisiche saranno sempre mutuamente esclusive [AE, I, I, 4, 1 p. 60-66; I, I, 4, 3-4 p. 72-83]. Bisogna quindi fare un ulteriore passo senza il quale non si perviene alla visione unitaria della metafisica creaturale, e cioè bisogna aggiungere la teologia alla filosofia. Il che implica poi anche la pienezza della dimensione religiosa del pensiero, e quindi la pienezza dell’idea di Dio. Le due metafisiche tra loro concorrenti sono infatti al massimo capaci di raffigurare o un divino Alto oppure un divino Basso, ma mai e poi mai un divino integrale e quindi pieno. Che è poi l’unico capace di intrattenere una relazione con la creatura. Ed è evidente che quest’ultimo genere di divino può delinearsi solo in forza dell’analogia. Non a caso proprio qui Przywara ne parla come la dimensione unitario-dinamica che ha al suo centro il “tra” (“Zwischen”). Teologicamente a questa unità dinamica corrisponde la dimensione del “Gott über-in-Geschöpf” (“Dio-sopra-nella-creatura”). Naturalmente, in assenza della complementarietà, sussiste invece un Assoluto soltanto falso; che è poi tipico della filosofia nelle sue due fondamentali postulazioni del principio di contraddizione o identità, il quale a sua volta è incompatibile con l’analogia – quella parmenidea che lo afferma (quale Assoluto unilateralmente statico-ideale) e quella eraclitea che lo nega (quale Assoluto unilateralmente dinamico-reale).
La tensione esistente tra filosofia metafisica e teologia si lascia quindi riassumere nel riconoscere o meno il vero Dio nell’essere scoperto oltre la “Physis”. E per Przywara questo lo fa senz’altro una teologia filosofica come quella di Tommaso, ma non lo fa in alcun modo una filosofia ad impronta teologica come quella di Hegel e Kirkegaard.
È dunque su questa base che, secondo lui – pur ammettendo la tensione naturalmente esistente tra metafisica filosofica e teologia − è necessario vedere nella teologia la scienza che completa il cammino della filosofia (e metafisica) portandola così a compimento ed inoltre addirittura liberandola (come vedremo più avanti). Vedremo poi che significato abbia questo rispetto al delinearsi di una piena filosofia cristiana sia per Przywara che per Stein. Per il primo si tratta in particolare dell’assenza di conflitto tra Fede (o Grazia) e Ragione (o Natura). Ebbene tutto ciò per lui non elimina affatto l’assoluta impossibilità del reciproco dedursi l’una dall’altra da parte di metafisica filosofica (uomo-creatura) e teologia (Dio). Tuttavia però in ogni caso sottomette la prima al condizionamento indispensabile dell’esperienza, e quindi alla dimensione teologica del Dio incarnato.

III- Il concetto di analogia.
Finora abbiamo visto delinearsi più volte il principio dell’analogia. Ma Przywara lo analizza e discute molto in dettaglio [AE, I, II, 7-8 p. 142-210; II, 1, 5 p. 225-227]. Molto in generale esso corrisponde per lui alla stessa metafisica nella sua interezza e integralità, e cioè anche alla filosofia dell’essere nella sua pienezza. Nel ritenere questo, il suo punto di riferimento filosofico è rappresentato in primo luogo dal concetto di analogia di Aristotele. Sebbene egli prenda atto anche del fatto che lo Stagirita è stato il primo a porre con rigore il principio di contraddizione comportato dalla logica. Poi però ha anche tentato di superarlo entro una concezione unitaria e dinamica dell’essere, che (come abbiamo visto) viene resa del tutto impossibile dal principio di contraddizione. Ed in questo è cruciale il concetto di analogia in quanto relazione orizzontale e verticale tra gli opposti dell’essere (cioè alto e basso, potenza ed atto, e finito ed infinito).
Quindi, su questa base, Przywara va delucidando fino in fondo il concetto di analogia seguendo il cammino di Aristotele in compagnia di Tommaso ed Agostino. E, seguendo questo cammino, noi ci ritroviamo in primis di fronte al concetto elementare di analogia − corrispondente al principio di identità, quale fusione degli opposti, laddove invece il principio di contraddizione nega l’analogia –, che insorse nella metafisica filosofica pre-cristiana. Tale concetto è però anche fatalmente riduttivo, in quanto la fusione degli opposti impedisce il delinearsi dell’intera estensione dinamica dell’essere. Quest’ultima si delinea pertanto solo nella metafisica cristiana per mezzo di quel concetto di “analogia entis” che davvero pone gli opposti in relazione tra essi specie nel postulare il rapporto esistente tra uomo-mondo (creatura) e Dio. Posta come analogia entis, l’analogia si presenta allora come il comunicarsi di Dio alle cose (quale loro pienezza) nel permettere che esse partecipino di Lui. Egli è in particolare ciò che sta in relazione con le cose. Perciò è Ens pur non essendo affatto una cosa; e quindi lo è unicamente per una necessità etico-religiosa, o teologica, e non invece ontologica. Nel complesso si tratta del mezzo di relazione con l’Alto, e quindi della perfezione della Natura in quanto tendenzialmente divina. Ecco che il concetto tomista di analogia appare essere incentrato proprio in questo, ossia nella relazione tra basso ed alto; così che l’analogia equivale alla stessa perfezione-bellezza dell’universo.
Qui vediamo quindi fusi insieme i due misteri dell’umano-divinità e della perfezione di un cosmo pur impregnato di male. Tuttavia si tratta di una perfezione solo ineffabile del cosmo (e che quindi solo la teologia negativa può cogliere), e quindi si lascia riconnettere in definitiva ad una relazione tra Dio e uomo-mondo che ricalca in gran parte la kenosis divina (cioè l’Incarnazione). Solo in questi termini si tratta quindi di un’illustrazione dell’umano-divinità, e cioè solo in quanto relazionale (non invece per davvero ontologica). Mentre Przywara sostiene intanto che nelle due opposte forme di metafisica pre-cristiane (platonico-trascendentista ed aristotelico-immanentista) l’analogia riduzionista reca sempre ad un inevitabile fallimento (per eccesso o per difetto).
Comunque, affidandosi qui ad una ricca sequenza di formule analitiche molto dettagliate e complesse (che prendono a fondamento specialmente il pensiero di Aristotele e Platone), Przywara cerca a tale proposito di mostrarci il sussistere di un tendere “verso oltre” (“über hinaus”) − ascendente (verso Dio) e discendente (da Dio) − che però non si traduce mai in una riduzione ad uno dei due termini, ossia uomo-mondo e Dio. Proprio per questo in tale relazione persiste sempre una tensione dinamica (mai totalmente risolta) – il cui costante segno è il medio “tra” (“Zwischen”) – in forza della quale l’analogia è autentica relazione in quanto reciproca. Il che ci mostra che la natura ontologica dell’analogia è ben più propriamente relazionale.
In ogni caso per lui Aristotele ci ha offerto l’immagine più pregnante di questo “tra”; mostrandoci un’opposizione ritmica inesauribile, che lascia sempre qualcosa (nel mezzo) di non ancora consumato, solo sbozzato e monco (il “kolobon”, “verstümmelte”, o “torso”). Specie nel senso che resta parte e intero nello stesso tempo. In generale si tratta (come vedremo) del movimento incessantemente trasformativo dell’essere, che si riassume poi nella grande dinamica potenza-atto. Infatti in termini conoscitivi ciò esprime anche l’incessante dinamica di conoscenza completa del mondo. In ogni caso si tratta dell’infinito movimento orizzontale dell’essere verso un divino che comunque in Aristotele è appena immanente.
In generale, comunque, tale movimento rispecchia il passaggio dalla possibilità alla realtà, laddove quest’ultima costituisce l’essere divenuto già ciò che doveva divenire, e quindi di fatto l’atto di esistere (CFR Maritain). Tuttavia questo movimento unicamente orizzontale è per Przywara del tutto insufficiente a raffigurare l’intera portata dell’analogia quale dinamica dell’essere. Perché ad esso deve venire aggiunto quel movimento verticale il quale soltanto ci restituisce per davvero il Tutto. E solo nel contesto quest’ultimo si può riconoscere la pienezza dell’analogia come relazione tra Dio e l’uomo-mondo. Quindi a fronte di questo l’atto di esistere finisce di nuovo per impallidire in quanto appena luogo forte dell’essere sul piano esclusivamente orizzontale. Invece per Przywara (in concordanza con il nucleo forte dell’”analogia entis” in Tommaso) la prospettiva dell’analogia deve essere ben più complessa in quanto totalizzante, e quindi deve esprimere l’ineffabile e del tutto contro-razionale (pertanto ultra-filosofica) somiglianza nella radicale differenza che esiste nell’universo grazie all’amore divino.
Raffigurando tale totalità dinamica (sconfinante dal visibile all’invisibile e dal naturale al sovrannaturale) Tommaso, quindi, si differenzia radicalmente da Aristotele. E così egli porta a compimento quell’intersecazione tra verticale e orizzontale che Przywara ci indica come le due componenti fondamentali dell’analogia – la dimensione verticale (“ano”, ανω) che incide perpendicolarmente su quella orizzontale (“ana”, ανά). Laddove la prima dimensione compare unilateralmente in Platone mentre la seconda in Aristotele. E una volta posto questo si potrebbe dire che l’analogia di Tommaso equivale molto più al ciclo neoplatonico di manifestazione-ritorno osservato in particolare nelle sue direttrici verticali parallele (tendenzialmente in continuità fra loro): − da alto a basso / da basso ad alto. Proprio a causa di questo l’analogia mette allo scoperto la realtà di Dio come ciò da cui tutto proviene e verso la quale tutto fluisce. E quindi il concetto assume un significato dinamico molto specifico, nel senso che esso illustra l’esatto contrario di un Principio statico originario, ossia un essere che vibra del divino in ogni sua parte a causa della relazione dinamica che costantemente sussiste con esso. Il che equivale poi alla stessa dinamica intra-trinitaria. Peraltro Przywara (ricordandoci al proposito Pitagora) sostiene che proprio in ciò consiste la dimensione noetica dell’essere, ossia quella sua realtà di pensiero che oserei definire come «sottigliezza» dell’essere. Dunque è in questo senso dinamico-ritmico che per lui l’analogia “è” l’essere stesso (e pertanto non è affatto un suo carattere accidentale). Anche in questo modo, quindi, le riflessioni di Przywara ci permettono di ricostruire l’immagine di un’autentica filosofia dell’essere che sussiste senza in alcun modo dover riposare unicamente sull’atto di esistere (CFR Stein/Maritain).
Quanto abbiamo detto finora include anche le riflessioni contenute nella seconda parte di AE, ossia quella in cui il pensatore rispose alle obiezioni sollevate riguardo al suo concetto di analogia. Ora però entreremo più profondamente nel merito di questa sua difesa del concetto [AE, II p. 213-246; II p. 303-312; II p. 313-334]. E i temi qui trattati ci faranno tornare alla questione della relazione tra metafisica, filosofia e teologia.
Innanzitutto egli afferma che il concetto di analogia si colloca sostanzialmente nel contesto dell’ascesa ad una filosofia liberata da parte di un trascendentalismo filosofico ed insieme teologico. In tal modo quindi giunge a compimento il percorso da un’ontologia dell’”essere creaturale” ad un’ontologia “della relazione tra Dio e creatura”, con il conseguente delinearsi di una filosofia dell’”Imago Trinitatis” quale filosofia orami pienamente liberata. L’evidente intervenire del concetto di analogia in questo trapasso è per Przywara la prova evidente che non è possibile concepire una filosofia dell’essenza in assenza di una filosofia dell’esistenza, proprio in quanto la loro relazione costituisce una questione squisitamente religiosa. Essa concerne infatti quella relazione tra alto e basso che in fondo metafisica e religione postulano in maniera molto simile – sebbene la metafisica si preoccupi appena della relazione esistente tra le cose naturali (“Physis”) ed il loro Fondamento invisibile, mentre invece la religione si preoccupa direttamente della relazione esistente tra creatura e il Dio vivente. Ecco dunque delinearsi di nuovo quella questione dell’umano-divinità che per Przywara non è assolutamente possibile risolvere sulla base della filosofia dell’essenza, e che pertanto richiede anche la filosofia dell’esistenza allo scopo di identificare i due poli (creatura e Dio) tra i quali scocca l’analogia. E la necessità di tale inderogabile compresenza rende di nuovo problematica la filosofia dell’essere così come si presenta presso la Stein.
Tutto ciò implica comunque per lui il necessario coinvolgimento della teologia. E proprio quest’ultima appare essere entrata definitivamente in gioco a partire dal IV Concilio Vaticano (diretto da Pio IX nel 1869-1870) del quale Przywara menziona in particolare il famoso documento “De Fide et Ratione”. Con ciò secondo lui la Chiesa ha voluto porre l’accento sull’aspetto ineffabile dell’analogia, in sé naturalmente impossibile a causa dell’irrecuperabile differenza tra Dio e uomo [AE, I, I, 4, 6 p. 92-97]. Il coinvolgimento della teologia consiste quindi nell’entrata in gioco di quei misteri della Rivelazione e dell’Incarnazione in assenza dei quali l’analogia entis diviene insostenibile ed anche del tutto incomprensibile.
Insomma Przywara intende l’analogia anche come relazione inestricabile tra Ragione e Fede, e quindi tra filosofia e religione. È per questa via che secondo lui la filosofia viene “liberata” dalla peccaminosità che è propria della pura logica (sempre fatalmente naturalistica), la quale inevitabilmente neutralizza il concetto di analogia (specie affermando il concetto a danno di qualunque mistero). E così la dimensione chiave dell’”in-über” (che concilia i termini in sé inconciliabili dei binomi concetto / mistero e apriorico / aposteriorico) può assumere le due direzioni e forme di: “dall’in al sopra” (aposteriori) e “dal sopra all’in” (apriori).
In questo modo, però, l’analogia si presenta come deciso superamento della logica in quanto dimensione del puro logos [AE, I, II, 5-6, p. 99-141]. In verità, dice Przywara, essa è di per sé implicata nella filosofia dell’essere in quanto onto-logia. Il che di nuovo evidenzia la compresenza inevitabile di noetica e ontica. Tuttavia ciò configura fatalmente un’oggettualità che compare solo in maniera mediata dal soggetto, e ciò fa sì che la logica fallisca in partenza nello sforzo di cogliere l’essere (a causa dello jato che insorge tra i due termini). Ecco allora che la logica dovrebbe umilmente trascendersi in direzione dell’analogia per eliminare la mediazione obbligata costituita dal soggetto e così stabilire una vera relazione tra sè stesso e l’oggetto. Ecco in tal modo delinearsi la metafisica creaturale e quindi una piena filosofia dell’essere. Proprio qui Przywara ci mostra però che in fondo lo stesso Aristotele pose l’accento sulla logica per mezzo dell’affermazione categorica del principio di identità − “ciò che è, è”. Il suo obiettivo era qui quello di garantire l’indubitabilità della conoscenza dell’essere. Tuttavia, come abbiamo già visto, egli si spinse anche oltre questo limite mostrandoci (come del resto anche Platone con la “diade”) quel doppio volto dell’essere che può trovare riscatto solo puntando lo sguardo sul punto medio tra i due poli. Questi poli sono poi la potenza, in quanto infinito, e l’atto, in quanto finito nel senso specifico di compiuto. Ma la relazione tra finito ed infinito non è solo il mero divenire creaturale, bensì è anche la relazione stessa tra creatura e Dio, nel senso di partecipazione del divino da parte della creatura. E qui possiamo riconoscere il completamento cristiano (Agostino e Tommaso) della metafisica aristotelica con incluso il concetto di analogia. Przywara sottolinea però che già in Aristotele il vero “prius” viene considerato l’atto e non la potenza. Il che collima (entro la teologia metafisica cristiana) con il fatto che la mera potenza incompiuta (ossia la creatura) non condiziona per nulla l’esistere pieno dell’atto. Dato che Dio è equivalenza perfetta ed eterna di potenza ed atto – in quanto Atto puro e Realtà “eterna”, quindi assolutamente incondizionata. Messe così le cose, anche Przywara si rivela di nuovo consapevole dell’importanza capitale dell’atto di esistere, in quanto luogo decisivo dell’essere (CFR Maritain). Ma intanto egli non manca di sottolineare che la potenza è non meno decisiva in quanto innesco continuo di quel dinamismo che scardina l’identità ponendola in costante relazione con l’alterità. Ecco quindi che la dimensione etico-religiosa e teologica viene a portare ordine in una questione metafisica in sé piuttosto intricata e contraddittoria.
Ed infatti, laddove Przywara si sforza di illuminare la fondamentale relazione tra “ana” (aná, ανά) e “ano” (ανω) [AE, I, II, 7, 1-6 p. 142-202], egli ci spiega che il primo sta a indicare la dinamica orizzontale potenza-atto nella sua forma metafisica più immediata (e quindi come eternamente irrisolta tensione tra opposti), mentre il secondo sta a indicare la verticale dinamica-potenza atto nella sua forma metafisico-religiosa e quindi come relazione tra creatura e Dio (di fatto tra basso ed Alto). È pur vero però che anche la prima forma di dinamica potenza-atto piega in qualche modo verso l’alto, essendo (già in Aristotele) tendente verso il divino. Quindi, semplificando l’intero schema, potremmo dire che tutto può venire ridotto alle due branche verticali del circolo neoplatonico manifestazione-ritorno, e cioè quella dominata dall’immanenza trascendente (da creatura a Dio) e quella dominata dalla trascendenza immanente (da Dio a creatura).
Per comprendere totalmente il concetto di “analogia entis” dobbiamo comunque ritornare alla relazione tra filosofia dell’essenza e filosofia dell’esistenza [AE, I, II, 8, 1-2 p. 203-210, II p. 213-246]. Per Przywara la prima senz’altro si distingue perché essa pone l’accento sul solo atto di conoscenza. Tuttavia una gran parte di essa ha per lui sempre teso a prendere l’esistenza a proprio oggetto dopo averla trasformata in essenza, e quindi averla posta come livello “formale” dell’essere. In tale tendenza rientra senz’altro anche la Scolastica. Una pura filosofia dell’essenza è invece quella che trova il suo paradigma in Parmenide e Cartesio. La vera e propria filosofia dell’esistenza è invece quella che fa per davvero dell’esistenza stessa il proprio oggetto senza assolutamente trasformarla in essenza (come avviene nel vitalismo, nelle dottrine della fusione tra soggetto ed oggetto (Bergson e Jaspers) e nella filosofia dell’esistenza puramente soggettiva di Heidegger).
Ma, entro tale contesto, Przywara riconosce nella metafisica corrispondente alla filosofia dell’esistenza quella che, riconducendo l’essenza all’esistenza, finisce per affermare un Dio unicamente immanente. Essa ha il vantaggio, rispetto alla filosofia dell’essenza (la quale riconduce l’esistenza all’essenza, e quindi afferma un Dio unicamente trascendente), di approssimarsi non poco al tragicismo insito nella teologia cristiana. Ma, se questo tragicismo si incentra nel solo Peccato, in assenza di Incarnazione e Resurrezione, ne risulta appena un “tragico profano” (peccaminoso e pagano), e non invece un “tragico sacrale” (liberante e cristiano). Ed ecco quindi riaffermata in maniera definitiva la necessità assoluta della teologia rispetto alla pura filosofia. Il che ci dà poi la perfetta misura del vero e più profondo perché del dover riconoscere l’inestricabile connessione tra essenza ed esistenza. Perché Dio e uomo (in intima relazione analogica tra loro) sono entrambi caratterizzati da essenza ed esistenza (dato che l’Assoluto divino stesso è essenza ed esistenza, come avviene appunto nell’Atto puro di Tommaso). E ciò è vero per il fatto che non si tratta con ciò di un’immersione di entrambi nell’ordine naturale (entro il quale rientra poi fatalmente la filosofia con la sua distinzione netta tra essenza ed esistenza), ma si tratta invece di un’immersione di entrambi nell’ordine della Sovra-Natura (che, grazie alla creazione ed incarnazione, vige anche immanentemente). Ecco allora che il tragico liberante (genuinamente teologico-cristiano) è ciò che è proprio in quanto non contrappone mai essenza ed esistenza, come fa invece la filosofia ponendosi così necessariamente come peccaminosa. Ed ecco allora profilarsi la dottrina gnostica come filosofia per eccellenza.

IV- Le conseguenze di Przywara per l’interpretazione del pensiero steiniano.
Abbiamo già visto più volte come Przywara – pur supportando la compresenza in Stein di essenzialismo e filosofia dell’essere (sulla base della possibile e legittima coincidenza tra meta-noetica e meta-ontica) − ci offre sia la possibilità di mitigare (se non di cancellare) l’insufficienza della filosofia dell’essere steiniana rispetto all’atto di esistere (CFR Maritain) sia anche di confermarla. E questa (come poi vedremo alla fine) può venire considerata la conclusione più generale di questa discussione.
Ma comunque l’altro tratto generale è costituito dal fatto che Przywara sembra aver percorso un cammino ben più compiuto di quello steiniano nello sforzo di conciliare noetica ed ontica. Il che ci porta a supporre una probabile interruzione dello sviluppo del pensiero steiniano (forse dovuta al finale brusco irrompere della mistica) verso una filosofia dell’essere che sia pienamente integrata con l’essenzialismo.
Questo avviene, secondo me, perché l’ampiezza di sguardo di Przywara è molto maggiore nel progetto di abbracciare essenza ed esistenza. Tale ampiezza lo porta ad affermare un interiorismo che non ha affatto bisogno di sacrificare l’esteriorismo, cosa per cui viene a mancare qualunque traccia di riduzione all’ideale. La Stein invece si allontanò dall’interiorismo di Husserl (approdando all’esteriorismo tomista-aristotelico) per poi tornare all’interiorismo con Agostino. E con quest’ultimo ritornò quindi la riduzione del reale all’ideale. Possiamo avere la misura di ciò laddove Przywara afferma (basandosi sulla sola teologia) che Dio, essendo anteriore a qualunque essenza, trascende di gran lunga sia il reale che l’ideale [AE, I, II, 7, 6 p. 180].
Proprio prescindendo totalmente dalla questione idealismo/realismo (grazie ad un pensiero ultra-filosofico), Przywara riesce quindi a darsi davvero pienamente ad una filosofia dell’essere (com’è quella di Aristotele e Tommaso) senza sentirsi in alcun modo obbligato a rinunciare alla noetica. Cosa che invece non avvenne mai con la stessa nettezza nella Stein. Emblematica è al proposito la differenza tra la sua dottrina dell’Io-esistente e quella che possiamo ritrovare nella Stein [AE, I, II, 8, 2 p. 207-208]. Egli ci mostra infatti che, con la creaturalità, in Tommaso compare un “cogito” che però è inficiato in assenza di una relazione con l’oggetto reale a sua volta per nulla dipendente (nel suo esistere) dalla coscienza. Ecco che allora la verità non compare solo nella coscienza ma invece anche nel pieno della realtà. Ed ecco anche che l’analogia entis ci mostra proprio questo indispensabile movimento verso l’oggetto (in assenza del quale non vi è alcuna rivelazione della verità dell’oggetto stesso). Va inoltre sottolineato che Przywara ci mette in guardia dall’effetto fatale di una pura filosofia dell’essenza come quella di Parmenide, e cioè la totale “de-noetizzazione” dell’essere [AE, II, 1, 3 p. 218]. Ebbene è davvero possibile pensare – ci chiediamo − che la Stein non sia stata consapevole di questo rischio?
Inoltre sempre la capacità di Przywara di prescindere da idealismo e realismo sembra avergli reso possibile di cogliere l’unità dell’essere in maniera puramente teologica (sulla linea verticale basso-alto) senza alcun bisogno di ritrovarla nella coscienza. Pertanto, sebbene anche Przywara condivida le intuizioni della Stein circa l’onticità del supremo livello ideale (campo della noetica), nemmeno questo deve essere stato per lui un ostacolo nel continuare ad esigere la compenetrazione tra trascendente ed immanente in quanto autentica unità dell’essere.
Per il resto abbiamo più volte visto come tutte queste caratteristiche del pensiero di Przywara lo rendono immune dall’imperio esercitato dall’atto di esistere così come concepito da Maritain.
Vi è poi una serie di aspetti specifici nei quali Przywara ci lascia meglio intendere la natura del pensiero steiniano.
Poiché per lui Dio è una suprema Cosa (ossia l’ente in quanto Essere) e non invece una Persona, ciò elimina del tutto l’equivalenza tra Persona ed Essente (in quanto specchio del divino), che la Stein invece afferma in pieno [AE, II, I, p. 52]. E dobbiamo questo proprio al pieno concetto tomista di analogia entis, il quale insieme approssima e separa creatura e Creatore. Ecco delinearsi quindi un personalismo cristiano che è completamente diverso da quello che abbiamo visto nella IV lezione, e che evidentemente ha il suo nucleo motore nel concetto tomista di analogia entis.
Di valenza squisitamente tomista (e teologico) è anche il concetto di filosofia cristiana di Przywara [AE, II, 3-5 p. 306-312]. Per lui la filosofia è infatti tale solo se essa si pone nel contesto dei fenomeni rivelati, i quali si muovono dal Peccato alla Rivelazione passando per l’Incarnazione e la Croce. In tale contesto la filosofia è Ragione portata a compimento dalla Grazia non essendo affatto più con essa in conflitto. In assenza di tutta questa vincolante dimensione teologica, allora, la filosofia religiosa non giunge ad essere cristiana. Ed è opinabile che ciò sia stato vero per la Stein almeno prima della sua fase mistica (nella quale invece la Croce divenne davvero il centro della sua riflessione).
Dunque, grazie a Przywara, la filosofia religiosa può venire messa alla prova proprio nel contesto della relazione che è riconoscibile tra teologia e filosofia. Ed allora bisogna dire che, secondo lui, la filosofia del “puro pensare” è tendenzialmente senza Dio proprio in quanto è puramente assolutistica. E così torniamo a quanto già detto circa il ruolo liberante della teologia nei confronti di una pura filosofia in sé sempre peccaminosa. Qui peraltro Przywara menziona una filosofia trascendentale che deve ancora ascendere ad ontologia dell’essere creaturale in rapporto con il Creatore, ossia deve ancora passare da mera ontologia dell’”essere creaturale” ad un’ontologia “della relazione tra Dio e creatura”. In qualche modo possiamo qui riconoscere la contrapposizione tra filosofia teocentrica e filosofia egocentrica (vedi HP) che la Stein fece esplicitamente. E tuttavia ciò sottolinea che intanto è necessario anche postulare una perfetta unità dinamica tra “Sosein” e “Dasein” (a sua volta garantita dal costante “tra” dell’analogia). E questo è più difficile immaginarlo come un concetto pienamente espresso dalla Stein. In ogni caso Przywara chiarisce che [AE, I, I, 4, 4 p. 78-83] anche la teologia concepisce di certo un “primato della forma” (così come la metafisica), ma lo intende intanto come “primum in executione” in quanto “ultimum in intentione”. Ed in tal modo essa riconosce pienamente la filosofia come “primum” nel mentre però pone sé stessa come “ultimum” nel senso del compimento. E di nuovo viene qui il sospetto che la Stein sia tutto sommato rimasta entro la dimensione del “primum” senza mai riuscire ad accedere pienamente a quella successiva. Almeno prima della sua fase mistica.
Vi è infine un’ultima e davvero illuminante riflessione che Przywara fa a tale complessivo proposito, e la fa prendendo di nuovo a modello la metafisica di Aristotele [AE, II p. 314-315]. Quest’ultima, infatti, prevede un andare “oltre” che già su piano esteriore raggiunge l’invisibile, superando così il mero sensibile, per poi però completare tale atto nel rivolgersi auto-riflessivamente verso l’interiore (“noesis noeseos”, o noesi della noesi). È evidente che in tal modo metafisica dell’essere e metafisica della coscienza sono una sola cosa e pertanto per davvero noetica ed ontica sono inscindibilmente unite. Sinceramente non saprei indicare un luogo del pensiero steiniano nel quale avviene la stessa cosa. E del resto convergono con queste alcune riflessioni in cui Przywara (come abbiamo già visto) sembra in qualche modo chiamare in causa Husserl in maniera negativa, ossia come protagonista di una metafisica unilateralmente eidetico-deduttiva che esclude irrimediabilmente quella morfologico-induttiva, e così portando una frattura insanabile nell’essere [AE, I, I, 3, 2 p. 38-46]. Interessante è anche la convergenza solo parziale che esiste tra Przywara e Stein a proposito dell’Essente come immagine speculare di Dio [AE, I, II, 6, 5 p. 115-121]. In effetti il concetto di analogia entis sembra capace di farci comprendere molto meglio le cose, dato che esso è sostanzialmente della stessa natura della proposizione di contraddizione-identità (incentrato sul “se è non è; se e, è”) pur andando di molto oltre esso. L’analogia esclude infatti sia la contraddizione che la perfetta equivalenza. E così non esprime affatto la “somiglianza” (“Ähnlichkeit”) dell’Essente umano a quello divino, ma invece semmai la specularità ossia l’essere “immagine” (”Abbild”) ovvero l’essere «a somiglianza».
Ciò, dunque, non significa affatto che l’”È” (Ist: Io divino) “è uguale” all’”è” (ist: Io umano), ma che invece il secondo sta in relazione di somiglianza con in primo, essendone l’immagine (il che implica necessariamente anche la distanza). Qui allora l’indagine di Przywara converge con quella della Stein (Essente speculare) ma nel sottolineare intanto con molta maggior forza il concetto (teologico) dell’immanentizzazione divina, e senza nemmeno ricorrere alla metafisica (Stein) della manifestazione di essenza-idea. In altre parole l’amoroso e assolutamente sovrannaturale darsi discensivo di Dio pone le condizioni perché possa sussistere un «a somiglianza» ascensivo che altrimenti non esisterebbe mai, e quindi è soltanto unilaterale (non è affatto un «essere», ma è invece appena un «essere stato messo nelle condizioni di»). E questa può venire considerata la forma e definizione di analogia. Tuttavia va precisato anche che Przywara ci permette di intendere molto molto meglio cosa aveva in mente la Stein nel soffermarsi così tanto sulla dinamica potenza-atto. Si tratta di ciò che lui dice conclusivamente dell’analogia entis [AE, I, II, 6, 8 p. 135-141]. Infatti, dato che (come abbiamo già visto) l’analogia supera la proposizione di contraddizione in quanto illustra insieme la dimensione dinamica intra-creaturale e la relazione uomo-Dio, si può assumere che il porre la potenza implica necessariamente il porre anche l’analogia. Quest’ultima (una volta colta nella sua pienezza) sembra essere la formula generale di tutto ciò che sta già nella potenza. Oltre a ciò, però, Przywara sottolinea che non si tratta affatto solo di una dimensione ontica, bensì anche di una dimensione gnoseologica; dato che l’analogia comporta anche inevitabilmente una conoscenza di quel Dio con il quale siamo (volenti o nolenti) in relazione pur senza poter fare di Lui in alcun modo l’ordinario oggetto del nostro pensiero. E con ciò scivoliamo inevitabilmente verso quella ineffabile conoscenza di Dio alla quale la Stein si dedicò soltanto in fase mistica. Ed ecco che allora nel complesso l’analogia in quanto espressione della dinamica potenza-atto finisce per sottolineare molto più la misteriosa dimensione relazionale (propria della mistica) che invece non l’intelligibile dimensione ontologica (propria della metafisica). In sintesi si tratta dell’“analogia come relazione dell’essere diverso”.
A conclusione di tutto ciò dobbiamo pertanto sottolineare alcuni punti in cui Przywara sembra supportare e valorizzare (sebbene senza alcuna sua intenzione in tale senso) l’evoluzione che il pensiero steiniano subì nell’ultimissima sua fase mistica. In primo luogo si tratta di quell’”analoghizesthai” che si presenta come unica conoscenza di Dio possibile all’uomo, cioè unicamente per analogia [AE, I, II, 5, 3 p. 103-104]. Ne avevamo già parlato a proposito della contraddizione tra metafisica e pura logica. Il che investe poi inevitabilmente la relazione tra finito (umano-mondano) ed Infinito (divino) sulla quale la Stein si era soffermata anche prima della fase mistica del suo pensiero.

Conclusioni.
In conclusione si può dire che è tutto sommato corretto quanto ho presupposto nella premessa.
Innanzitutto direi che si può dire che l’analisi del pensiero di Przywara (avvalorata fortemente dalle certe relazioni personali e scambi di idee che esistettero tra lui e la Stein) ci mostra che quanto abbiamo visto nella IV lezione può e deve venire almeno in parte relativizzato. In altre parole non è affatto detto che la mancata presenza presso la Stein di un pieno concetto di atto di esistere renda insufficiente la sua filosofia dell’essere. È anche vero però che quest’ultima non riuscì a giungere a pienezza come vi riuscì invece quella di Przywara; e peraltro per la stessa via, ossia quella della conciliazione tra essenzialismo (noetica) ed enticismo (ontica). In questo il nostro pensatore ci offre una visione molto più convincente e forte.
Ed uno dei motivi principali per i quali ciò sembra essere accaduto, è che la Stein restò sempre entro l’orbita della filosofia, senza riuscire mai a compiere pienamente il trapasso verso la teologia. Il che supporta poi le ragioni di Guardini, che esamineremo nell’VIII lezione. La Stein senz’altro si immerse profondamente in una metafisica dalla valenza teologica. Ma intanto, in tale contesto, il suo concetto di analogia non fu così tanto decisamente teologico da perdere totalmente la sua valenza ontologica per assumere invece unicamente una valenza relazionale, e quindi unicamente etico-religiosa. In altre parole il suo concetto di un Essente umano quale immagine speculare di quello divino – per quanto molto affascinante − appare risentire ancora troppo fortemente tanto della Fenomenologia husserliana quanto della filosofia agostiniana.
Ecco allora che, per mezzo di Przywara, possiamo anche constatare che quanto non è possibile riscontrare nel pensiero steiniano maturo (quello antecedente alla fase mistica) lo si può invece (almeno accennatamente) ritrovare nella fase finale e mistica della sua opera. Pertanto, se in qualche modo (al cospetto di Przywara) si deve constatare una sorta di possibile interruzione del pensiero steiniano lungo la via di una piena filosofia dell’essere (non sbilanciata verso l’atto di esistere), allo stesso tempo si deve anche constatare che tale interruzione ebbe le sue precise ragioni a causa del fatto che la Stein si ritrovò di colpo al cospetto di quel Dio-Essere assolutamente ineffabile che lo stesso Przywara ci mostra per mezzo della sua riflessione sul concetto di analogia. E sicuramente, in quanto filosofa, restò sorpresa e schiacciata da tale Presenza. Così che alla fine dedicò ad essa tutta sé stessa, abbandonando in tal modo ogni residua riserva.
Dunque, se le cose stanno davvero come penso, allora lo studio di Przywara ci conduce all’importantissima costatazione che la filosofia dell’essere steiniana è insufficiente soltanto per il semplice motivo che la di lei decisione di darsi alla vita monastica interruppe l’evoluzione della sua visione filosofica ed anche metafisica. Il che non costituisce per nulla un fenomeno negativo.

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