(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona.
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Introduzione
In via di principio (ossia attenendosi a schemi interpretativi piuttosto rigidi) attribuire a Platone un’ontologia non è cosa affatto facile. Eppure vi sono nei suoi testi ed anche in letteratura numerosissime testimonianze del fatto che egli l’abbia concepita fin dall’inizio [Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 159d p. 81, 177e p. 133, 181cd -186e p. 145-157, 189a-190a p. 167-171, 193d p. 185, 202a p. 207, 206e-207c p. 223; Platone, Cratilo, Laterza, Roma Bari 2008 , 385c-386d p. 7-11; Platone, Lettere, Rizzoli, Milano 2008, 324-352 p. 133-224; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Paperback Edition. New York 1960; Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme, in: Platone Teeteto…cit., 8 p. 266-267; Davide Spanio, Il mondo come teogonia, Aracne, Roma 2012, Introd., 1-2 p. 13-24; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008, VIII p. 169-173; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI, III p. 172-176; Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014, II, III, 4 p. 315-333; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. Egli era stato in effetti un pensatore dell’essere in maniera piuttosto inapparente, sia perché pensava soprattutto alla stabilità in quanto verità dell’essere stesso, e quindi alla sua immunità del divenire, sia perché in fondo l’essere consisteva per lui nella stratificazione dell’anima, e quindi in una realtà intellettule-spirituale e non certo invece cosale.
Quindi già prevaleva nel suo pensiero un elemento ontologico che in conclusione vedremo riconfermato nelle Leggi, ossia appunto l’anima. Tuttavia ai posteri è sempre sembrato che egli non avesse formulato alcuna ontologia proprio perché quest’ultima veniva pensata in termini unicamente aristotelici e cioè dinamici, immanentisti e realisti, ossia come il processo stesso di formazione delle cose. Eppure pare che proprio quest’ultimo concetto di essere abbia cominciato a delinearsi anche verso la fine della vita ed opera ed opera di Platone, e cioè entro i dialoghi “Timeo” e “Leggi” [Platone, Timeo, Rizzoli, Milano 2003; Platone, Leggi (a cura di Patrizio Sanasi), in: C:/Users/admin/OneDrive/Desktop/Libro%20Platone%20Leggi%20.pdf]. Infatti Luciano Montoneri legge in questa parte del suo pensiero addirittura un realismo filosofico ed inoltre l’esposizione di una vera e propria Fisica [Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Forlì, Victrix 2014, VIII, p. 339-349]. Una Fisica che però costateremo essere tutt’altro che materialistica in quanto costituita in effetti unicamente dalla realtà animica. Le cose infatti vengono solo dopo quest’ultima.
Il Timeo, lo ricordiamo, contiene una descrizione estremamente dettagliata addirittura della struttura e dinamica del corpo umano in relazione ad alcune strutture e dinamiche fondamentali dell’essere [Platone, Timeo… cit., 73-90 p. 361-421]. Inoltre contiene una dottrina delle grandi rotazioni cosmico-trascendenti che sono causa dell’essere, ed infine ci offre una visione d’insieme dell’Essere originario e totale nello ”sferoide” [Platone, Timeo…cit., 33b-36c, pag. 197-205, 44d-48a p. 241-253].
Il discorso condotto nelle “Leggi” è invece abbastanza diverso già solo per il suo titolo, dato che il dialogo concerne in quasi tutta la sua estensione la struttura legislativa dello Stato, ovvero della città. In via di principio, dunque, nulla è più lontano di questo da un discorso sull’Essere. Discorso che invece Aristotele avrebbe sviluppato in maniera estremamente diretta, formulando così anche una definizione dell’Essere che sarebbe restata per lungo tempo paradigmatica per ogni ontologia.
E tuttavia nel capitolo X dell’opera di Platone sopravviene effettivamente una descrizione dell’Essere che nello stesso tempo fonda l’intera etica ed anche la stessa realtà legislativa.
Il discorso riprende qui la realtà più volte descritta dell’anima, ma la pone questa volta alla radice dell’Essere stesso, ossia dà ad essa una veste decisamente cosmico-ontologica oltre che onto-generativa; e quindi se vogliamo perfino realistica (come dice Montoneri). L’anima insomma finisce per apparirci come l’equivalente dei grandi circoli cosmici che muovono sé stessi, e quindi è la massima espressione di quel «causa sui» che giustifica ogni cosa (essere) ed ogni divenire, ossia ogni movimento che noi possiamo riscontrare nell’essere.
Ora a prima vista è difficile dire quale sia il motivo di un approccio così singolare all’ontologia come scelta di Platone. Ma essa intanto è reale. Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che, come dicono Friedländer e perfino Romano Guardini [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2004, I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 260-279] Platone fu sempre (e lungo tutto il suo pensiero) prima un teorico dell’etica politica e solo dopo un filosofo. L’altra spiegazione è poi la straordinaria genialità, originalità e profondità di pensiero di quello che è stato senz’altro il maggiore filosofo della storia. In ogni caso la ragione di questa assimilazione tra leggi ed essere ci risulterà man mano più chiara ed inoltre anche di importanza assolutamente centrale.
Bene, prima di addentrarci in maggiori particolari di questa dottrina, dobbiamo prendere atto del fatto che (prescindendo dall’ontologia aristotelica) alcune ontologie moderne hanno chiamato in causa in vari modi proprio Platone. E ci riferiamo per questo all’espressa ontologia di Nicolai Hartmann [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941] ed inoltre al discorso su filosofia e scienza svolto da Whitehead [Alfred North Whithead, Scienza e filosofia, Castelvecchi, Roma 2014].
A questi due autori aggiungeremmo anche quell’altra espressa ontologia che fu di Christian Wolff, e che rientra in un razionalismo metafisico che senz’altro riconosce tra i suoi padri (sebbene molto alla lontana) anche Platone stesso [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006]. In ogni caso il pensatore tedesco non parlò mai in quest’opera del filosofo ateniese. E quindi esso vi ricorre solo come suggestione e richiamo alla lontana nel contesto di quel razionalismo filosofico che aveva avuto intanto una lunghissima storia, e quindi in qualche modo (sebbene con le dovute cautele) si può ritenere sia iniziato proprio con Platone.
Hartmann, comunque (in modo simile a molti filosofi moderni), tratta di Platone in una maniera decisamente negativa – egli infatti non solo annovera il suo pensiero in quelle dottrine unilaterali e moniste (ossessionate dall’unità dell’essere) che pretendevano di ridurre tutto ad un solo principio (nel caso specifico l’Idea), ma inoltre lo ritiene essere uno dei principali responsabili del dualismo che spesso era scaturito da queste visioni, ossia la tendenza a separare nettamente l’essere ideale da quello reale. Whitehead è stato invece decisamente molto meno severo verso Platone, anzi non ha nascosto una notevole ammirazione verso il suo pensiero. E tuttavia nemmeno così ha reso giustizia alla vera natura del suo pensiero. Lo ha infatti ritenuto il protagonista di una serie di idee (sostanzialmente intuitive e fortemente contemplative, se non mistiche) che in qualche modo hanno offerto alla scienza basi preziose per potersi sviluppare. Anzi in qualche modo lo ha ritenuto (diversamente da Aristotele, che invece era egli stesso uno scienziato) il prototipo del filosofo che serve la scienza pur senza né concepirla né praticarla; ossia intuendola al confine del proprio filosofare. Quanto poi a Wolff abbiamo già detto in che modo il suo pensiero può comunque richiamare Platone per alcuni aspetti.
Ora, entrambe le prime due letture di Platone appaiono abbastanza riduttive e per molti versi anche ingiuste se non erronee. Innanzitutto chi ha approfondito davvero il pensiero di Platone sa bene che il dualismo da lui sostenuto fu solo apparente – e questo viene affermato non solo da suoi studiosi ma anche da filosofi antichi che si ispirarono al suo pensiero [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I-II p. 959-1151; Gregorio di Nissa, Dell’anima e della resurrezione, ibd. I, 7, 44-48 p. 381-387, III, 72-77 p. 417-423, V, 5, 121-128 p. 473-481]. Egli infatti volle semmai offrirci un’immagine totalizzante e continua dell’Essere (sebbene pensata mediante progressivi livelli ipostatici procedenti dal trascendente verso il reale), entro la quale la distinzione tra essere ideale ed essere reale serviva solo a dimostrare che la vera cosa è in realtà l’Idea. Ed essa lo è non in quanto isolata in un mondo trascendente (l’essere ideale), ma invece in quanto posta in continuità ininterrotta con la cosa reale. Di quest’ultima infatti l’Idea è paradigma e modello. Tuttavia nell’esserlo è dotata di un’effettiva onticità, per quanto affatto equiparabile a quella corporea e materiale. Di questo decisivo aspetto abbiamo comunque trattato intensivamente nel nostro saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. Ma esso viene confermato anche dalla magistrale analisi del concetto di Idea platonica che è stata fatta dal Prof. Reale [Giovanni Reale, Per una nuova… cit., II, VI, p. 158-213]; oltre che anche da altri studiosi [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 241; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154].
Quanto poi alla lettura di Platone che viene fatta da Whitehead, non crediamo affatto che il pensatore ateniese vada preso in considerazione unicamente per i servigi da lui prestati alla scienza empirica ed al suo sviluppo. Questo intendimento risente infatti fortemente della del tutto fuorviante e distorta ri-lettura di Platone che iniziò con Schleiermacher nel XIV secolo, attraversò poi molti sistemi filosofici del XX secolo (tra i quali la Fenomenologia husserliana, con l’appendice di Lotze, e la Filosofia matematica di Frege) per culminare infine in Natorp e nel neo-kantismo.
E bisogna ricordare a questo punto che proprio Hartmann ha ritenuto la vera ontologia del tutto incompatibile con una simile presa di posizione [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I, 4d p. 55-57]. In tale contesto interpretativo, comunque, Platone è stato di fatto ridotto al pensatore della Ragione per eccellenza. Laddove come tale egli avrebbe semmai potuto venire scelto come modello da un Wolff e dai suoi simili. Mentre invece, entro il sistema filosofico platonico, la Ragione occupa un posto appena come facoltà dell’anima e più ancora come emanazione dell’Intelletto divino. E non a caso esattamente in questa sua forma noi la ritroviamo nelle Leggi.
Whitehead mette comunque in luce una forte tendenza di Platone ad affermare il valore dell’”armonia” dell’Essere, quale “proporzione” e “misura”, e ciò per mezzo dell’accento da lui posto sulla scienza matematica [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. E questo aspetto è realmente presente nel dialogo, sebbene (come vedremo) con un significato abbastanza diverso da quello sottolineato dal filosofo inglese. Inoltre tale elemento ci porta nuovamente molto vicino a quella visione ontologica di Wolff, anche entro la quale l’appello alla matematica ha un senso molto diverso da quello platonico – essa rientra infatti in una sapienza filosofica che non solo punta all’esattezza assoluta dei supremi Principi logici (dai quali ogni cosa viene dedotta) ma inoltre resta in intima connessione con gli aspetti unicamente quantitativi della realtà ossia ai cosiddetti “fatti” dell’esperienza [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006, I, 12-19 p. 75-82, I, 27 p. 87-88, II, 34-36 p. 92-94, III, 139 p. 175-178].
Ma vedremo che nelle Leggi di Platone le cose stanno in modo molto diverso per quanto riguarda il valore attribuito alla matematica.
Tuttavia Whitehead sostiene inoltre che l’accento posto da Platone sulla matematica in particolare anticipava una scienza che voleva avere la precisione logica che è appunto propria della matematica stessa [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4-5 p. 22-39]. Questo sarebbe stato infatti per lui l’insegnamento svolto nell’Accademia. Ma – a parte il fatto che l’insegnamento svolto da Platone nell’Accademia fu sostanzialmente ed interamente mistico ed esoterico, e quindi metafisico-religioso e non logico [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 80-88, II, IA, 1 p. 419-429; Giovanni Reale, Per una nuova …cit., I, III, p. 75-111; Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 11-36; Alexandre Koyré, Discovering… cit., p. 1-7; Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10, Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136, II, V p. 167; Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3 p. 45-52, 5 p. 63-67, 6 p. 77-84] −, quello che dice Whitehead ancora una volta è verosimile semmai per un pensatore come Wolff, ma non per Platone. Spicca a tale proposito infatti il senso evidente di quanto Platone affermò nella sua VII lettera a proposito dell’insegnamento unicamente orale che egli svolse nell’Accademia (cioè del tutto al di fuori della materia scritta dei Dialoghi) [Platone, Lettere…cit., VII, 341cd p. 193]: – “Non esiste nessun mio scritto sull’argomento; né mai esisterà. Non si tratta assolutamente di una disciplina che sia lecito insegnare come le altre; solo dopo lunga frequentazione e convivenza col suo contenuto essa si manifesta nell’anima, come la luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco…”. E la scintilla è appunto, secondo Friedländer, il simbolo che più pienamente incarna la natura esoterica dell’insegnamento di Platone – si tratta infatti di una conoscenza misterica e profondissima che di colpo erompe, invadendo e pervadendo l’anima dopo una lunghissima e faticosissima preparazione. Pertanto semmai lo studio della matematica fu in Platone funzionale a questo ed affatto invece fine a sé stesso.
Una volta premesso tutto ciò, quindi, tenteremo una rilettura sintetica delle Leggi che metta in luce l’ontologia in essa esposta allo scopo di verificare se possa o meno venire ridotta ad una scienza dell’essere puramente razionalistica come quella sostenuta soprattutto da Wolff e da Whitehead; oppure possa tradursi in un realismo «in-mondanistico» ed immanentistico come quello di Hartmann, del quale la metafisica costituisce appena gli sfumati e remotissimi margini. E peraltro anche quest’ultimo pensatore ritenne che una siffatta ontologia debba stare in stretta sintonia con la scienza [Nikolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1949, II p. 11-20, IV p. 27-35, VII p. 51-59; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 19 p. 33-35, 21 p. 37-38, I, I, 4ac p. 51-55, II, I, 13a p. 101-102, II, III, 20c p. 144-146, IV, II, 42ad p. 267-273, IV, III, 47ad p. 293-298]. Naturalmente non crediamo affatto che tali assimilazioni siano possibili.
Ma quello che dice Whitehead potrebbe fare pensare che sia così. In ogni caso solo l’analisi testuale delle Leggi lo potrà dimostrare.
Per l’ontologia di Hartmann bisogna però fare un discorso a parte. È vero che di certo nemmeno lui svaluta la Ragione. Però è troppo avverso a tutte le forme di ontologia condizionate dal razionalismo e mentalismo per poter venire considerato un sostenitore del culto della Ragione entro la scienza dell’Essere. Anzi egli sostiene espressamente che la presa di posizione razionalistica (incentrata nell’atteggiamento “riflessivo” e quindi sulla riduzione dell’Essente mondano alla rappresentazione ed al pensiero, è quello che più ha nuociuto all’ontologia quale equilibrato e sobrio realismo filosofico [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I 3c p. 48-49, I, I, 4d p. 55-57, II, III, 10a p. 83-84, II, I, 13ab p. 101-104, III, I, 22dc p. 153-156, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157, IV, II, 42c p. 270-271]. Pertanto è possibile che tutto sommato i suoi giudizi radicalmente negativi su Platone possano venire moderati tenendo conto di un’ipotetica somiglianza (sebbene molto alla lontana, e solo da questo punto di vista) tra la sua ontologia e quella del pensatore ateniese. Del resto egli punta lo sguardo sull’Essente in quanto irriducibile. E più o meno lo stesso fa Platone nel Teeteto.
A questo scopo esamineremo pertanto sinteticamente il contenuto delle Leggi allo scopo di dare un’immagine chiara dell’ontologia da essa contenuta, nel mentre contemporaneamente faremo riferimento ai pensatori menzionati laddove ciò si rivelerà utile (oltre i richiami ad essi che abbiamo già fatto).
1- L’ontologia di Platone nelle Leggi.
Il dialogo inizia [Platone, Leggi…cit., I p. 4-16] con un discorso molto generico nel quale emerge comunque già il fatto che la legge promuove “beni” (ossia “virtù”), che sono sostanzialmente più divini che non umani. Ed in generale si tratta del distacco dal piacere ed inoltre della disponibilità a sottomettersi a pratiche che favoriscano la capacità di sacrificio (gli esercizi faticosi). Ed il tutto tende quindi allo sviluppo di un atteggiamento anti-egoistico, anti-edonistico ed anti-solipsistico. Si tratta insomma di fatto della capacità di auto-dominio, ossia il controllo delle passioni.
E bisogna ammettere che questa così sublime ed integra morale pagana avrebbe dovuto essere oggetto di ammirazione (e non di disprezzo) da parte dei cristiani.
Ma già laddove Platone vede nell’educazione dei fanciulli la base stessa della legge [Platone, Leggi…cit., II p. 17-27], emerge il valore di quelle armonia e proporzione numerica che abbiamo vista sottolineato da Whitehead. In altre parole la virtù e la connessa legge hanno anche un versante numerico in quanto connesse al comportamento armonico che scaturisce dall’abitudine all’auto-dominio. Platone sottolinea però il fatto che questa tendenza proviene agli uomini dagli dèi, come si può del resto constatare entro le narrazioni mitiche.
In ogni caso emerge nel dialogo da subito [Platone, Leggi…cit.III p. 28-40] che gli elementi fondanti della legge (in quanto costituzione) sono l’anima e la conoscenza che la contraddistingue, opposta com’è all’ignoranza e quindi in concordanza con l’azione della Ragione. Si tratta dell’antica idea di Platone (giunta a maturazione dopo l’influsso orfico-pitagorico ed espressa soprattutto nel Fedone) secondo la quale l’anima è un’entità insieme etica e gnoseologico [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2005; Raphael, Iniziazione… cit., p. 31-44; Paolo Scarpi, Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007, III, F4 p. 425; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates….cit., p. 145-285; Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I p. 35-39, I, I, I p. 41-46; Luciano Montoneri, Il problema… cit., IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155]. Ma essa assume ora un aspetto anche ontologico. Ecco infatti emergere il nucleo stesso dell’ontologia platonica nelle Leggi, ossia l’anima stessa, ed appunto nella sua dimensione non solo etica ma anche gnoseologica. E ciò ci riporta certamente in una certa misura a Wolff, con la sua ontologia fondata su principi razionali assolutamente certi che sono però anche principi dell’essere [Christian Wolff, Discours…cit., II, 30 p. 90, II, 33 p. 91-92, II, 36 p. 93-94, III, 69 p. 117 III, 73 p. 121-122, III, 93-94 p. 133-135, III, 111-112 p. 146-147], III, 117–18 p. 154, III, 125 p. 161-162, III, 128 p. 165-166]. Sebbene abbiamo già constatato il significato molto diverso che ciò ha rispetto al razionalismo della visione filosofica e dell’ontologia platonica.
E infatti tutto quello che Whitehead dice rispetto a questo è radicalmente diverso da quanto sostiene invece Platone. Il filosofo inglese sottolinea cioè a questo proposito che si tratta di principi astratti opposti ai meri fatti ossia all’immediata esperienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 1 p. 7-12]. In particolare si tratta di una generalizzazione induttiva prendente le mosse dai fatti che troviamo sostenuta anche in Wolff [Th. Arnaud, W. Feuerhahn, J.-F. Goubet et J.-M. Rohrbasser, “Christian Wolff le «maître des allemands»”, in: Christian Wolff, Discours…cit., p. 22-25]. Ed essa poi reca all’elaborazione di generali ed estremamente ampie leggi di natura [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Whitehead sottolinea che in questo la filosofia e la scienza concordano fortemente, sebbene la prima preceda di molto (nel tempo e nell’agire) la seconda con le sue intuizioni. Dato che, quanto era stato un tempo intuito astrattamente, poi con la scienza empirica finisce per diventare oggetto di una precisa misurazione quantitativa.
Ma a questo punto questo universo di pensiero appare essere lontanissimo da Platone, dato che per lui la conoscenza razionale non solo è connessa con una sostanza oggi considerata totalmente irrazionale, come l’anima, e tuttavia inoltre è connessa con fatti reali di tipo etico e non meramente cosale, come l’organizzazione legislativa dello Stato e della società. Ed ecco quindi che il razionalismo attribuito da Whitehead a Platone si rivela essere (almeno nel contesto delle Leggi) del tutto erroneo. E conseguentemente lo è anche l’attribuzione a Platone di un interesse specifico per la scienza (come poi vedremo nella seconda sezione). In particolare (in riferimento a quello che abbiamo posto in luce nell’Introduzione) tutto questo non significa affatto che Platone avesse intenzione di comprendere il mondo (cioè l’essere) per mezzo della matematica. Tanto è vero che, come vedremo, egli pone alla radice dell’essere una realtà radicalmente metafisico-etico-gnoseologica come l’anima. Semmai egli ritenne invece la matematica uno strumento per dare una forma concreta alla tendenza dell’essere (in quanto dominato dall’anima) ad assumere l’assetto dell’armonia, della proporzione e della misura. E ciò, ancora una volta, riguarda molto più l’etica che non invece la matematica in sé. Ancora una volta insomma l’insegnamento della matematica si rivela essere nel suo pensiero un mero strumento per assurgere ai livelli più eccelsi della conoscenza metafisico-religiosa ed esoterica.
Non a caso, proprio in questa parte del dialogo (dopo aver discusso delle narrazioni religioso-mitiche del diluvio, ossia le grandi catastrofi che ciclicamente distruggono le Civiltà), Platone ci mostra come il venire a mancare dell’armonia sul piano politico (che a sua volta è connesso all’uso di un Intelletto di origine divina e spinge quindi verso la solidarietà) è la causa effettiva del fallimento e del tracollo di grandi potenze (come quella di Sparta). E il male è qui per lui quell’ignoranza che poi altro non è se non il mancato ricorso all’anima da parte dell’uomo.
Infatti l’essere diretti dall’anima equivale per lui all’essere diretti dalla Ragione, e ciò spinge naturalmente verso l’armonia. Il problema delle leggi (così come dell’essere) è dunque in effetti il problema del difetto dell’orientamento dei desideri dell’anima all’Intelletto (che è poi sostanzialmente divino).
Ecco quindi che inizia con ciò a divenire chiaro il perché della sua ontologia inserita entro una trattazione delle leggi. Le leggi infatti riflettono l’ideale assetto etico dell’essere che è orientato appunto all’armonia, alla proporzione ed alla misura. L’essenza di ogni legislatività è dunque questa – che essa si manifesti nelle cose della Natura o invece nella società.
Ma nella sezione successiva Platone afferma anche che ciò non avviene senza l’intervento del divino, che non a caso genera le leggi proprio secondo questi principi [Platone, Leggi…cit. IV p. 41-49].
Non a caso, in assenza di tale intervento, le leggi meramente umane non riescono ad avere alcuna stabilità, venendo così continuamente soverchiate dall’urto delle casuali circostanze mondane ed esistenziali, e quindi rischiando continuamente di deragliare in tal modo dai principi che devono strutturarle e regolarle. Ecco perché, in questa parte stessa del dialogo, egli ricorre di nuovo al mito religioso menzionando il Regno di Crono come il modello assoluto dell’assetto legislativo (e conseguentemente dello stesso essere) in quanto retto direttamente dall’Intelletto divino. Esso è dunque anche il modello sia della stabilità delle leggi sia della felice stabilità dell’essere.
E di nuovo emerge qui allora uno dei contenuti del Timeo unitamente alla riaffermazione di quella perfetta misura dell’essere che senz’altro per lui va ritrovata nelle proporzioni matematiche.
L’Intelletto divino è infatti caratterizzato dal fatto di essere principio e fine di tutto nel compiere in maniera impeccabile e perfetta il suo percorso rigorosamente circolare. Il conformarsi al dio rende quindi capaci gli uomini di imitare questa perfetta armonia. Il che si lascia poi riassumere nel seguente principio di governo e legge: − “Il simile ama il suo simile, quando è moderato, mentre le cose che non hanno misura non si amano fra di loro e non sono amate da ciò che contiene la misura. Il dio è per noi misura di tutte le cose”.
Ecco dunque che, a contraddizione decisa della lettura di Whitehead, appare chiaro che il riferimento alla matematica di Platone è sostanzialmente etico-religioso ed affatto invece scientifico. Scientifico lo è semmai solo molto secondariamente.
Del resto, laddove egli parla di una cura dell’anima da parte del singolo (che sta in perfetta sintonia con i principi affermati dalla legge), ci dimostra che il fine stesso della legge è sostanzialmente etico ed anche tendenzialmente religioso, dato che esso consiste nel porre l’uomo in una condizione che sia all’altezza del valore ontologico dell’anima ed anche del suo possesso [Platone, Leggi…cit., V p. 50-58].
Il discorso del dialogo si sposta comunque poi direttamente sull’anima a partire dal capitolo IX [Platone, Leggi…cit. IX p- 100-102], nel quale viene fatto un accenno ad un aspetto di quella tripartizione dell’anima stessa, che è attestato essere una produzione intellettuale di Platone sulla base della dottrina orfico-pitagorica. L’anima infatti si rivela qui essere il punto di riferimento principale della tendenza al delitto a causa delle sue tendenze tra le quali l’ira (anima irascibile come opposta a quella razionale).
E veniamo con ciò al capitolo nel quale emerge finalmente un’ontologia incentrata esattamente nell’anima in quanto essere primario ed anche principio di essere [Platone, Leggi…cit. X p. 113-125].
Qui il discorso inizia da quello che tutti e tre i partecipanti (l’Ateniese, cioè Platone stesso, il cretese Clinia ed lo Spartano Megillo) considerano il peggiore delitto tra tutti, e cioè quello di empietà, che di fatto consiste nell’ateismo, e quindi nel rifiuto di accettare l’esistenza degli dèi.
Platone allude al proposito (senza dirlo) ai pensatori pre-socratici (in quanto sostanzialmente materialisti ed estremisticamente naturalisti), dato che essi considerano gli elementi (enti inanimati e cieche forze elementari) come l’unica causa di tutte le cose − per il fatto di mescolarsi (a caso, ciecamente e disordinatamente) tra loro, dando così origine a tutte le forme di essere: − dalle cose, agli astri e fino agli esseri inanimati). E così viene espressamente negato recisamente l’esistere ed agire di un’Intelligenza creatrice.
Ecco allora che, nel ricercare il vero elemento che può essere considerato l’origine e causa di tutto, ossia l’anima (a sua volta espressione dell’Intelletto divino), Platone espone di fatto una vera e propria ontologia dinamica che contempla anche il divenire. Non vi è dubbio che si tratti di una radicale novità entro il suo pensiero; che (come abbiamo già visto) fino a quel momento si era fermato a considerare l’essere in maniera statica in quanto costituito da livelli sovrapposti dei quali quello delle Idee era il più alto ed anche paradigmatico. Al di sopra di esso c’era poi quell’Uno divino che fissava e riuniva ogni cosa in un’ancora più assoluta stabilità [Giovanni Reale, Per una nuova …cit., II, VI, III p. 172-176, I, VII, I-IV p. 214-227, III, XII, I-V p. 362-388, IV, XVI-XVII p. 536-582].
Comunque anche già il Timeo aveva cominciato a contraddire questo schema nel considerare l’Uno come il supremo circolo e centro (in perenne movimento) dal quale emanava l’intero Essere. Ebbene qui l’anima è quindi l’origine non solo delle cose e dei corpi ma anche dei processi di generazione e corruzione che avvengono nella Natura in maniera apparentemente autonoma.
Essa insomma viene “prima” e non “dopo” gli elementi basilari ed inanimati dell’essere. Essa è pertanto l’unica e vera causa di ogni cosa, ed è pertanto all’origine di tutto. Inoltre non è affatto soltanto all’origine delle cose, ma anche degli stessi processi di generazione e corruzione. Il che avviene semplicemente perché essa è divina (e quindi le spetta il primato assoluto entro l’essere) mentre è unicamente “mortale” (ossia temporale) tanto la realtà degli elementi inanimati quanto tutto l’essere che si presume consegua ad essi. Questa, egli dice, è la vera “essenza dell’anima”, e cioè il suo esistere molto prima dei corpi e di qualunque cosa sia corporea. E così gli elementi (solo apparente causa di tutte le cose) sono in effetto appena il prodotto dell’anima.
Possiamo pertanto constatare che qui si delinea chiaramente un’ontologia ormai dinamica, dato che l’anima è all’origine anche dei processi immanenti di formazione. Inoltre viene sottolineato anche un aspetto che ci lascia nuovamente comprendere il senso etico-religioso (e non scientifico) del razionalismo di Platone. Egli afferma infatti che chi non comprende queste cose (come accade ad atei e pre-socratici) professa semplicemente una “stolta opinione”, che a sua volta deriva da un cattivo uso della Ragione.
Oltre a ciò egli corregge il confuso e contraddittorio concetto di Natura affermato dai presocratici affermando così che la “natura vera e propria” viene in effetti prodotta anch’essa dall’anima. E quindi ciò che avviene «in natura» o «naturalmente» non implica affatto l’agire di elementi e forze cieche (non divine, e quindi non intelligenti ed agenti per caso), ma avviene invece anch’esso sotto la direzione dell’anima e quindi in maniera intelligente e razionale. Sembra insomma di vedere qui affermata una teleologia simile a quella di Aristotele. Ma Platone non ne parla espressamente ed inoltre egli non dimentica mai l’ascendenza divino-trascendente di ciò che nel mondo si muove verso un fine. Pertanto (diversamente da Aristotele) egli sostiene una causalità efficiente e non finale.
In ogni caso, come abbiamo visto, l’anima ci viene presentata come origine e causa sia dell’essere che del divenire. In particolare l’anima è l’essere stesso ed anche l’origine dell’essere.
Tuttavia l’elemento fondamentale della dottrina è la spiegazione metafisica ultima di queste capacità dell’anima in base ad un’originaria assoluta stabilità dinamica (ancora una volta circolare ed inoltre assolutamente centrale, ossia in fondo quella del Timeo), e cioè la capacità dell’anima stessa di muovere sé stessa (secondo il modello metafisico del «causa sui»). Infatti, esattamente come il supremo circolo raffigurato nel Timeo, l’anima è ciò che, restando al suo posto, ossia muovendosi circolarmente e dunque «sul posto» , e quindi trascendendo così lo spazio ed il tempo, muove alla fine tutte le cose. Essa è insomma ciò che stando ferma fa sì che le cose si muovano. E questa differenza ontologica è esattamente quella che differenza il “causante” dal “causato”. Eccoci dunque di fronte alla natura radicalmente metafisica di un’ontologia che è sì dinamica ma per nulla immanentista. Essa infatti non è per nulla indotta dall’osservazione dei fenomeni naturali mondani (come avviene invece in Aristotele) entro la quale domina una causalità temporalmente consecutiva e quindi meccanicistica. Ci troviamo infatti davanti a ciò che, solo perché “muove sé stesso”, è in grado di causare un “mutamento” che a sua volta può venire determinato solo “dal movimento che muove se stesso”. Pertanto quello dell’anima è “il movimento che causa tutti i movimenti”, e quindi è “il movimento più vecchio e potente”.
Sta qui insomma la formula di un’ontologia dinamica che può sussistere in Platone solo perché è radicalmente metafisica.
Ecco insomma la totale inversione della dottrina materialistica e meccanicistica dell’azione causante, secondo la quale gli effetti vengono prodotti da ciò che si muove. Ed in questo sarebbe poi consistita l’ontologia dinamica di Aristotele. A differenza di quest’ultima, quindi, l’ontologia di Platone è veramente una dottrina integralmente onto-metafisica. Essa trascende infatti totalmente le aspettative dell’esperienza e dell’intelligenza umana, introducendo così idee del tutto iper-razionali. Quindi vediamo bene che quello di Platone non può in alcun modo venire considerato un razionalismo. Sebbene egli veda proprio in questo la vera Ragione, ossia quella divina e non umana.
E così l’anima in generale viene posta prima di tutto ciò che è corpo.
Ma in generale emergono in tale contesto tre elementi concettuali fondamentali: − 1) la coordinazione ontica strettissima esistente tra anima ed Intelletto divino (senza la quale l’anima non potrebbe mai esercitare la funzione onto-generativa che esercita); 2) in forza di questo le facoltà animiche (opinione, ragionamenti, memoria, costumi) precedono anch’esse tutto ciò che è corporeo; 3) la natura dell’azione dell’anima è etica, oltre che ontologica, così che è solo da essa che deriva tutto ciò che è anche legislativamente rilevante, ossia il buono, il bello, il giusto ed i loro contrari (brutto, cattivo o male, ingiusto). In altre parole dall’anima deriva non solo il nudo essere ed il suo movimento, ma anche le forme più altamente spirituali-oggettive che ne scaturiscono, ovvero la struttura della Civiltà e la Storia – come affermerebbe l’ontologia di Hartmann indicandoci lo strato più alto dell’essere (umano-personale ed impersonale) [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit.]. Ed una delle conseguenze di ciò è che il contenuto etico della legge (virtù e promozione della virtù) è senz’altro di origine animica e pertanto divina.
In tal modo è stata quindi trovata l’essenza della legge, la quale evidentemente risiede nelle profondità etico-religiose dell’essere stesso. Che Platone riusciva a scrutare con una potenza di penetrazione intellettuale della quale nessun altro filosofo sarebbe in seguito stato capace [Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77-87]. Per tale motivo, dunque, secondo lui è impossibile immaginare un mondo privo di leggi, ovvero un essere che non sia divino-legislativamente normato.
Ed ecco che in questo modo possiamo definitivamente comprendere il perché della trattazione dell’ontologia nel contesto del discorso sulle leggi. L’idea di Platone è insomma che tanto l’essere che la struttura della società (in sostanza umano-spirituale) sono ispirate alla più perfetta armonia e quindi obbediscono in qualche modo ad una precisa legislatività divina il cui fine ultimo è soprattutto il Bene.
2- L’ontologia animico-etico-metafisica delle Leggi e l’ontologia razionalista-scientista di Wolff, Hartmann e Whitehead.
Abbiamo già toccato il pensiero di questi filosofi nelle nostre precedenti osservazioni. Ma ora va completato il discorso sulle loro ontologie in relazione a quella di Platone. In ogni caso abbiamo già constatato quanto le visioni di Wolff, Hartmann e Whitehead siano divergenti da quella di Platone nonostante le apparenti somiglianze che le accomunano (accomunandole peraltro anche tra loro stesse). Ma comunque il punto di partenza di queste nostre riflessioni sono in primo luogo le esplicite menzioni di Platone da parte di Whitehead nel contesto di un’ontologia la quale non è altro che quella oggi esistente in comune tra filosofia e scienza (cioè la conoscenza empiristica del mondo reale). E quindi da esse dobbiamo iniziare.
Del resto, pur essendo molto più sbilanciata verso la filosofia, anche l’ontologia di Hartmann ha tale carattere intenzionale. Quanto poi a Wolff c’era nel suo pensiero (come in quello di tutti i metafisici razionalisti del suo tempo) l’auspicio di qualcosa si abbastanza simile (almeno apparentemente). Sebbene per loro una filosofia in sintonia con la scienza empirica si basava su grandi induzioni a partire dall’essere mondano e reale (esperienziale) che puntavano verso quei Principi razionali perfetti ed universali in assenza dei quali la conoscenza è impossibile o del tutto non veridica. Ne risultava così proprio quella ontologia che Hartmann avrebbe poi rigettato, ossia quella in cui essere e mondo venivano completamente concettualizzati e quindi di fatto non corrispondevano più alla realtà tangibile.
Ma prima di tutto va qui completato il discorso di Whitehead a proposito di Platone.
Il filosofo inglese è fermamente convinto che Platone (insieme con Aristotele) sia stato ( perfino intenzionalmente) un antesignano della scienza moderna − prima per mezzo dell’elaborazione della Filosofia della Natura pre-socratica e poi aprendo la strada alla Scuola di Alessandria, secondo lui culla della scienza moderna [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Ma proprio nelle Leggi abbiamo visto come, nel momento in cui Platone si decide a dare corpo ad un’ontologia, fa l’esatto contrario del riferirsi ai pre-socratici. Anzi li sconfessa decisamente.
Evidentemente Whitehead non è mai stato profondo lettore e cultore di Platone e quindi lo conosceva solo piuttosto superficialmente, o meglio forse per preconcetti. In ogni caso egli è almeno ben consapevole del fatto che il filosofo ateniese non aveva la minima intenzione di mettere su una scienza del genere di quella aristotelica, ossia basata sull’osservazione dettagliata e sulla classificazione del reale concreto, ossia sulla tassonomia [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31].
E addirittura azzarda l’ipotesi che nella famosa VII lettera Platone si sia espressamente rifiutato di consegnare alla scienza le proprie intuizioni pre- e pro-scientifiche. Ipotesi certamente erronea dato che (come abbiamo già visto) in questo scritto Platone non volle dire altro che la famosa sua “seconda navigazione” metafisica [Giovanni Reale, Per una nuova…cit., II, IV-VI, I p.147-213], ossia quella davvero decisiva in quanto radicalmente metafisico-religiosa, era destinata ad essere oggetto di un insegnamento esoterico unicamente orale, e quindi riservato a pochissimi eletti (tra i quali non c’era certamente Aristotele). E questo insegnamento non aveva assolutamente nulla a che fare con la scienza empirica. Lo dimostra chiaramente, secondo noi, il dialogo sulle Leggi, che è uno degli ultimi scritti di Platone prima del suo ritirarsi proprio nell’intimità isolata dell’insegnamento esoterico orale. Esso contiene infatti un’ontologia che è l’esatto contrario di un’ontologia filosofico-scientifica, e quindi differisce nettamente tanto da quella di Wolff tanto da quella di Hartmann.
Ma comunque in questa sezione Whitehead dimostra di aver ben colto la specifica natura di filosofo che caratterizza Platone: − egli era infatti l’esatto contrario di un professore. Ed in effetti per il filosofo inglese la filosofia inizia a diventare scienza solo dal momento in cui essa inizia ad essere professorale (con la fatale conseguenza, da lui tutt’altro che deplorata, di allontanarsi dalla vita e dal percorso di crescita spirituale) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Va a tale proposito però fatto notare che Hadot vede le cose in modo diametralmente opposto – per lui infatti la filosofia professorale fu l’inizio della morte di una disciplina che (proprio con Socrate e Platone) aveva dimostrato di potere e volere essere una prassi esterna alle scuole e quindi dedicata esclusivamente alla crescita spirituale dell’uomo comune e del cittadino [Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Rinaudi, Torino 2010, VIII, p. 143-166]. E siamo certi, quindi, che Platone sarebbe stato d’accordo con quest’ultimo, e non invece con Whitehead.
Per il resto il filosofo inglese ha una vaga, ma non poco fedele, intuizione di ciò che per Platone è la “Natura”, ossia ciò che abbiamo constatato proprio entro l’ontologia esposta nelle Leggi [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,4 p. 22-31]. Essa è infatti per lui l’”hypodoxé” cioè il “ricettacolo”, ossia “la nutrice di ogni divenire” in quanto priva totalmente di forma, e quindi non è affatto il comune spazio geometrico. Per Whitehead si tratta della materia così come venne poi concepita anche da Galileo e Newton. Ma il filosofo inglese sconta in questo sia i suoi preconcetti scientistici sia la scarsa conoscenza del pensiero di Platone e del suo vero spirito. Perché, stando invece all’ontologia esposta nelle Leggi, questo ricettacolo (quale luogo del divenire) non è altro che l’anima. Dunque qualcosa di profondamente diverso dalla materia (in quanto molto sottilmente metafisico), per quanto comunque esistente e reale. Ciò che però è comunque vero è che, come dice Whitehead, tale entità e realtà non ha assolutamente a che fare con lo spazio-tempo (entro il quale non avviene affatto ciò che è davvero rilevante), e quindi corrisponde secondo lui a quanto va scoprendo oggi la Fisica quantica. Ciò è vero, ma fino ad un certo punto. E questo è quanto abbiamo cercato di comprendere nelle nostre ultime ricerche, specie quelle relazionate all’ontologia invocata dal fisico quantico e filosofo Wolfgang Smith [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann” < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann>; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”.
< https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>]. Nel corso di queste ricerche è infatti emerso che molto probabilmente l’ambito di essere scoperto dalla Fisica quantica rischia fortemente di essere appena un inconsistente e vuoto artificio strumentale, che è dunque del tutto irreale e non esistente. Ed in questo caso esso non ha assolutamente nulla a che fare con il “ricettacolo” che Whitehead ritrova nell’ontologia di Platone.
La comprensione dell’intenzionale non-scientificità del pensiero di Platone viene comunque debitamente constatata da Whitehead anche più avanti [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 5 p. 31-39].
Egli afferma infatti che il filosofo ateniese (molto diversamente da Aristotele) perseguì una conoscenza in verità unicamente filosofica e non scientifica. E l’aspetto più rilevante di ciò è il suo disinteresse per il fatto, sia pur nel contesto di una conoscenza matematica dell’essere. E questo ci riporta decisamente a Wolff per il quale (come abbiamo già visto) invece il fatto esperienziale era fondamentale – solo da esso scaturiva infatti l’induzione che infine recava ai Principi certi della conoscenza e dell’essere (e quindi il fatto era per lui, come per Kant, assolutamente vincolante). Eppure, nonostante questo, Whitehead non rinuncia a pensare che la filosofia con le sue profonde intuizioni (quella di Platone ed anche di altri) sia comunque una guida per la scienza. È in qualche modo ciò è anche vero. Ma intanto – dimostrando ancora una volta di non aver compreso lo spirito del platonismo – il filosofo inglese deplora il misticismo nel quale secondo lui scivolò il pensiero di Platone presso coloro che ne furono i successori, ossia (aggiungiamo) nel medio-platonismo e nel neo-platonismo. La verità è insomma che la filosofia può essere considerata guida per la scienza empirica, ma non senza mantenere una sua visione dell’essere che, nella sua autenticità, è ineluttabilmente metafisica e quindi iper-razionale. Esattamente così è infatti l’ontologia incentrata nell’anima, esposta da Platone nelle Leggi.
In ogni caso Whitehead alla fine del suo libro spezza decisamente una lancia a favore di Platone [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 8 p. 48-50]. Egli afferma cioè che il “fatto” va effettivamente concepito in modo completo. E per questo sono indispensabili le nozioni fondamentali che solo la filosofia formula e possiede. In questo consistono le sette principali idee intuitive secondo lui sviluppate da Platone (idee, elementi fisici, psiche, eros, armonia, relazioni matematiche, ricettacolo) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Sta di fatto però che oggi secondo lui la scienza si vede costretta a fare la stessa cosa. E per questo le teorie si aggiungono continuamente alle teorie senza mai arrivare ad una fine. Il loro sviluppo si basa infatti proprio su quell’intuizione che fu il centro stesso del filosofare di Platone.
Ecco quanto era possibile desumere da Whitehead, associando al suo pensiero alcuni elementi dedotti da Wolff. Ma vediamo ora cosa di può dire di Hartmann, il richiamo al quale pure si presenta nell’esposizione di Whitehead.
Il filosofo inglese contraddice frontalmente Hartmann (pur senza nominarlo) affermando che l’omni-comprensività dei sistemi filosofici è tutt’altro che inutile per la scienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,3 p. 16-21]. Insomma i sistemi filosofici (e dunque le visioni omni-comprensive dell’essere) servono per lui effettivamente per il progresso della conoscenza. Quello che li rende deleteri è solo un loro aspetto puramente qualitativo negativo, ossia l’”errore dogmatico”, e cioè la pretesa di descrivere la complessità del mondo mediante nozioni estremamente definite, e quindi isolate nella loro specificità unilaterale. Si tratta insomma di quelle idee matematiche che invece per Wolff (e per l’intera metafisica razionalista) erano da considerare decisive per la comprensione del mondo. Ma questa critica all’antecedente filosofia è una di quelle cose che Hartmann aveva posto alla base della necessità di una nuova ontologia incentrata sul mondo reale e non sulle visioni del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung….cit., Einleitung 18 p. 31-33, I, I, 4c p. 54-55, II, II, 5a p. 57-59, II, III, 10a p. 83-84, IV, III, 46a p. 287-288]. Posto questo, per il resto Whitehead sembra concordare con Hartmann nel considerare altrettanto inefficaci sia la pura conoscenza matematica (centro dell’ontologia di Wolff) – in quanto essa non può in alcun modo esaurire la complessità del mondo – sia anche una metafisica perfetta e trionfante (alla quale tende senz’altro il pensiero di Wolff e di tutto il suo tempo) in quanto presuntivo esaurimento di tutta la possibile conoscenza. Ne deriva per Whitehead un aspetto assolutamente necessario della conoscenza scientifica moderna e cioè la sua capacità di generare appena “sistemi parziali di generalità limitata”, a loro volta incentrati su nozioni limitate. Questo è quanto è stato compreso nel XX secolo con il collasso di qualunque dogmatismo. E dogmatismo era senz’altro anche quello di Wolff. Ecco allora che, secondo Whitehead, si è stabilita tra filosofia e scienza una sorta di azione e reazione, cioè una reciprocità inscindibile. La filosofia delucida il fatto concreto (sul cui sfondo c’è l’essere esistente, cioè l’Essente) dal quale poi la scienza deve astrarre. La scienza poi trova i propri principi nei fatti ormai compresi che il sistema filosofico presenta.
Ma c’è da considerare anche un altro aspetto, e cioè quello della tendenza all’unità che caratterizza così spesso l’approccio filosofico all’essere [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Platone per Whitehead tende fortemente a questo proprio per mezzo della matematica che prefigura l’interconnessione di tutte le cose. Ma Hartmann considera invece proprio questo la contraddizione in termini di una vera ontologia. Per Whitehead non sembra invece essere così, dato che la “Physis” per lui è, come per Platone, ciò che garantisce l’interconnessione in quanto “ricettacolo”.
Connesso con ciò vi è poi in Whitehead un ulteriore aspetto, che chiama in causa sia Hartmann che Wolff [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 6 p. 39-43]. Egli afferma infatti che la scienza prevede sempre due ordini tra loro coordinati, e cioè quello “osservazionale” (fatti) e quello “concettuale”. Ebbene Wolff concepisce una perfetta coordinazione tra il primo e il secondo per mezzo dell’induzione. Hartmann invece intende espressamente spazzare via il secondo in quanto pregiudizievole per un’autentica ontologia. Quanto poi a Whitehead, egli ritiene il primo debole per definizione, dato che i fatti sono troppo spesso vittima dell’apparenza (con conseguenze paradossali del tipo dell’immagine pre-scientifica di una terra piatta). Ne deriva che la speculazione (sostanzialmente filosofica) è chiamata ad andare oltre i fatti, e ne deriva inoltre che non serve a nulla indurre la verità da fatti che sono in sé così incerti (come invece pretende Wolff considerandoli certi per definizione).
Ebbene diremmo che tutta questa multiforme riflessione viene spiazzata in un solo colpo da un’ontologia come quella platonica. La quale aveva preso le sue decisioni prima di sottomettersi a qualunque necessità così concepita. Essa aveva infatti deciso per una visione etico-religioso-gnoseologica dell’essere, e per questo aveva posto l’anima alla radice di tutto. Dunque la si può senz’altro considerare arbitraria e falsificante quanto si vuole (ed è quello che senz’altro farebbero, di concerto, pensatori dell’essere come Whitehead, Hartmann e Wolff). E tuttavia la prova del nove della sua consistenza sta nella sua perfetta applicabilità alle leggi che regolano la convivenza sociale, ossia ad una delle realtà più rilevanti per l’esistenza umana. E questo spiega ancora una volta perché Platone abbia trattato i due problemi insieme.
Il problema insomma è che il vero filosofo deve in realtà essere un genio visionario, ossia deve essere capace di osservare le cose in profondità e ad immensa distanza dal proprio punto di osservazione, e non invece solo superficialmente e confusamente. Platone ne fu capace. Non ne furono invece assolutamente capaci pensatori come Whitehead, Hartmann e Wolff, nonostante la loro intelligenza, la potenza del loro pensiero e la pregevole preparazione filosofico-scientifica che li caratterizzò come filosofi.
Conclusioni.
Abbiamo affrontato il testo delle Leggi sostanzialmente sulla base delle sollecitazioni espresse da Whitehead nel senso di un determinato intendimento del valore della filosofia di Platone.
Abbiamo scoperto in questo testo quell’ontologia che già sapevamo di potervi e dovervi ritrovare. Ed abbiamo compreso non solo il contenuto di tale ontologia ma anche la pur paradossale relazione che Platone aveva stabilito tra essa e le leggi.
Poi, ritornando indietro ai giudizi espressi da Whitehead sul valore, senso e contenuto del pensiero di Platone, abbiamo ritrovato la possibilità di giudicare la sua ontologia sulla base dei contenuti di alcune fra le ontologie moderne. Che, nel corso della lettura di Whitehead, si presentano come riferimenti quasi inevitabili.
Ebbene quali possono essere le conclusioni di questa indagine?
A nostro avviso essa conferma che Platone ha saputo vedere le cose in maniera ben più profonda e sottile di quanto sarebbe poi avvenuto dopo di lui fino ai giorni nostri. Per tale motivo la sua ontologia può davvero fare scuola e presentarsi quindi come paradigma assoluto (ben più di quella di Aristotele). Non a caso essa sfugge all’eccessivo realismo di Hartmann, al trascendentismo razionalista di Wolff ed all’idea di Whitehead (in gran parte forzata) secondo la quale filosofia e scienza per davvero siano una sola cosa.
Platone ci dimostra invece che non è affatto così.
Un’ontologia incentrata sull’anima (e quindi sulla virtù e sul culto degli dèi) è pertanto qualcosa di assolutamente unico ed irripetibile in filosofia. E quindi ci permette di non perderci negli eccessi tanto della filosofia che della scienza. In tal modo, al suo confronto, l’ontologia di Whitehead si rivela essere null’altro che la banale presa d’atto della conoscenza scientifica del mondo, quella di Hartmann si rivela essere appena la presa d’atto del mondo così com’è, e quella di Wolff (massimamente artificiosa) si rivela essere null’altro che il frutto di una induzione del tutto fantasiosa del mondo ideale a partire dal mondo reale.
Dunque, come sempre, non ci resta che affermare che chi vuole davvero conoscere la filosofia (inclusa anche la scienza dell’essere) non deve rivolgersi a nessun altro pensatore che non sia Platone. Egli è davvero infatti il filosofo per eccellenza ed insuperato – come del resto hanno affermato alcuni tra i suoi più sensibili interpreti – [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 260-279]. E come tale è davvero l’unico vero padre della filosofia che sia mai esistito. E lo è anche allorquando non si limita a trattare del mondo ideale ma anche del mondo reale.
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