Abbiamo appena ultimato un saggio dedicato specificamente alla riflessione filosofico-metafisica sul mistero del dolore e della sventura. In particolare l’indagine si concentra sulla specifica tipologia umana che più intensamente ed apertamente manifesta esistenzialmente questo mistero nella propria stessa carne. Essa è infatti costituita da quel genere di uomini, la cui esistenza è così caratterizzata da eventi dolorosi e mal-venturati, che essi stessi devono giungere prima o poi alla consapevolezza dell’essere predestinati «per natura» a questo genere di eventi.
La nostra tesi è però che ciò che più conta in tale fenomenologia (e nel relativo percorso esistenziale) non è tanto l’arrendersi fatalista a tale costatazione, quanto invece piuttosto proprio l’approdo attivo alla superiore consapevolezza che da essa alla fine può scaturire. Consapevolezza che da un lato coglie l’essenza qualitativa della propria natura personale e dall’altro lato coglie anche l’essenza qualitativa dello specifico destino legato a tale natura. Laddove poi la dimensione qualitativa di tale essenza è sempre inquietantemente prossima allo stesso mistero del male. In entrambi i casi, pertanto, l’atto di conquista della consapevolezza costituisce di fatto l’atto di penetrazione (sempre molto difficile e doloroso) di un vero e proprio mistero. Atto che poi, nel corso della nostra indagine, si è rivelato tutt’uno con la prassi costituita dal platonico-delfico «conosci te stesso»; ossia un processo per mezzo del quale poco a poco si giunge a mettere allo scoperto quella che è una vera e propria identità occulta. Identità sulla quale però la maggior parte degli uomini manca di interrogarsi. È così che allora la serie di eventi che tocca a coloro la cui esistenza viene costantemente marchiata a fuoco dal dolore e della sventura, si rivela costituire in effetti una delle più efficaci vie per approdare alla risposa alla domanda circa il «chi sei?» di ognuno di noi. E dunque ciò mette allo scoperto una natura che non può non essere elettiva, ossia non può non differenziarsi da quella di un’altra, radicalmente diversa, categoria di uomini, e cioè coloro che nella loro esistenza sperimentano mediamente quasi solo felicità e buona ventura (o fortuna). Tale categoria di uomini finisce pertanto per rivelarsi da un lato «media», e dall’altro lato anche difettiva. La sua medietà stessa, dunque, va perfettamente di pari passo con la difettività.
Questa serie di evidenze lascia così venire allo scoperto in maniera piuttosto intuitiva la dimensione naturalmente «gnostica» della fenomenologia propria del dolore-sventura. Quindi tale dimensione non può che divenire sempre più evidente man mano che la riflessione sul tema si approfondisce. Ed infatti non a caso gli aspetti rivelatisi poco a poco come i più importanti della nostra indagine, rispetto a questa tematica, ci sembrano essere stati sostanzialmente due.
Il primo aspetto è stato rappresentato dall’illustrazione di una «casuistica» poetico-letteraria, filosofica e metafisico-religiosa nella quale è stato possibile prendere atto dell’effettivo sussistere dei termini della questione (così come finora illustrati) ed inoltre anche dell’effettivo sussistere delle differenziazioni antropologiche or ora menzionate.
Ma il secondo aspetto è stato invece l’esplicitazione e giustificazione della relativa questione nel contesto della riflessione filosofico-metafisica che di essa (più o meno direttamente) si occupa. È stato quindi principalmente con questo che la nostra indagine si è confrontata nella sua parte più rilevante. E così in tale contesto sono emersi due principali elementi filosofico-metafisici ed etico-filosofici: – 1) la questione del «mondo»; 2) la primarietà in valore del giudizio soggettivo sul mondo. Entrambi di per sé ancora una volta estremamente prossimi alla presa di posizione gnostica.
In ogni caso sia l’uno che l’altro elemento ci hanno portato a muoverci sul piano di quella moderna riflessione filosofica, che si è sviluppata nel corso dell’idealismo fenomenologico, a sua volta in relazione fortemente conflittuale con il sempre più prepotente realismo. Il primo infatti ha sempre posto un forte accento sul ruolo dirimente del soggetto in qualunque presa in considerazione del mondo, e così ha posto inevitabilmente l’accento anche su quella presa di posizione «valutativa» che è sempre esclusivamente soggettuale, e quindi intellettuale (nel senso dell’auto-consapevolezza).
In tal modo, dunque, questa visione filosofica ha sempre (più o meno direttamente ed intensamente) configurato una «filosofia dei valori». Il realismo filosofico, invece, spingendo fortemente verso un’accettazione del mondo assolutamente incondizionata, ha sempre sostenuto la posizione diametralmente opposta. E cioè quella posizione che, negando al soggetto qualunque primarietà ontologica (e conseguentemente anche qualunque valore dirimente), considera il mondo totalmente auto-giustificato proprio perché ad esso (quale Natura) non va attribuito alcun senso assiologico («valori»).
La nostra indagine ha dovuto quindi occuparsi molto direttamente di tale questione. E così è risultato costantemente evidente quanto lontano un siffatto realismo filosofico sia lontano da quella visione gnostica, che invece è indubbiamente idealista.
Proprio su questo sfondo è emerso pertanto il valore primario da attribuire alla presa di posizione filosofico-metafisica di tipo «idealista». E questo ha costituito poi la base per la discussione della parte più significativa della dottrina metafisico-religiosa del Fato, ossia quella contenuta nel Vedānta (da noi illustrato per mezzo della base testuale offertaci da Coomaraswamy). Anche tale complessiva dottrina (per l’accento da essa posto proprio sulla dimensione intellettuale del vivere) è risultata fortemente approssimabile a quella della Gnosi occidentale. Ed entrambe dunque (insieme alla parte dell’idealismo filosofico che è più interessata all’etica) appaiono offrire un decisivo supporto al valore da assegnare al giudizio soggettivo sul mondo; e ciò ovviamente nel contesto di una sostanziale visione pessimistica di quest’ultimo (altro aspetto molto caratteristico della Gnosi).
Per tutti questi motivi, dunque, la fenomenologia così squisitamente esistenziale dell’uomo connatalmente infelice e mal-venturato si lascia in definitiva riportare al vasto e profondo orizzonte filosofico-metafisico or ora illustrato. E ciò sottolinea ancora più fortemente il fatto che l’aspetto più pregevole dell’esperienza del dolore-sventura sta proprio nel processo di progressiva conquista di consapevolezza; che appunto trova il suo culmine nella presa di posizione soggettivo-assiologica verso il mondo. E tale presa di posizione (specie per mezzo del richiamo a pensatori come Jonas e Arendt) si è mostrata essere poi davvero importante in quel contesto moderno, nel quale la de-eticizzazione della cultura e dell’agire umani (massima proprio nel realismo filosofico oggi alleato con la scienza tecnologica) comporta ormai un’immensa minaccia per la sopravvivenza dell’uomo e della Terra stessa.
La nostra complessiva indagine quindi, ci sembra aver rivelato che la trattazione di un tema apparentemente appena intimistico sfocia in realtà molto naturalmente verso un orizzonte di pensiero del quale l’uomo moderno è chiamato a tenere ormai strettamente ed urgentemente conto.
l giudizio sul mondo. Un’etica della sventura.
18 ottobre 2017 di vincenzo nuzzo
[…] abbiamo anche dedicato un saggio, dal titolo Il giudizio sul mondo. Un’etica della sventura [< https://cieloeterra.wordpress.com/2017/10/18/l-giudizio-sul-mondo-unetica-della-sventura/ >], che abbiamo altresì presentato in questo blog. Ebbene, proprio nel contesto della […]