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Archive for the ‘RACCONTI BREVI’ Category

Il racconto narra del re Agide IV, che visse a Sparta tra il 265 ed il 241 a.C., ed inoltre vi regnò per pochi anni, entrando poi nel novero di quei re per così dire veramente “galantuomini”, i quali pagarono il loro purissimo idealismo politico con il ludibrio e la morte.

Vittorio Alfieri ne parlò in una delle sue tragedie, non a caso dedicata al quel Carlo I di Inghilterra che, come Agide ed altri pochi altri re di questa fatta, trovò la morte nel corso della rivoluzione di Cromwell. E peraltro proprio per le sue convinzioni religiose.

La vicenda è narrata da un punto di vista molto personale, il cui nucleo è quello del valore da noi attribuito alla politica ideale, cioè intensamente etica, vissuta da un Agide immaginario (e molto autobiografico) sullo sfondo di un processo di evoluzione spirituale che lo porta poco a poco a chiarire il mistero dell’identità profonda, divino-umana, di ogni uomo.

Anche in questo racconto trovano voce molte letture contemporanee allo scritto, letture filosofiche e letterarie : ‒l’Apologia di Socrate ed il Critone di Platone, Il Poema sulla natura di Parmenide, gli scritti dei filosofi presocratici, la metafisica indù dei Veda, della Baghavadgita e delle Upaniṣad, la metafisica mazdeico-avestica e la metafisica ebraica dello Zohar (molte delle riflessioni qui esposte sono quelle già da noi trattate nel saggio La rivolta della fedeltà in nome del mistero e contro la ragione).

Anche qui si rende presente comunque l’Oblomov di Gončarov, da noi considerato prototipo umano della Quiete come supremo valore metafisico. Ed inoltre lo scenario storico-culturale è dedotto dall’opera di Arnold Toynbee dal titolo “Il mondo ellenico”, entro il quale è nata in noi la suggestione del possibile operare entro la vicenda di Agide del mistero delle due divinità concorrenti con il Cristianesimo al tempo dell’Impero romano, e cioè Mitra e Giove Dolicheno.

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Si tratta del racconto di un percorso spirituale nel contesto di un’esperienza esistenziale estrema e finale, nel corso della quale si verifica la ripresa di contatto da parte del protagoista con una vecchia casa di famiglia da tempo derelitta ed abbandonata.

L’intera vicenda si svolge in San Giovanni, una cittadina limitrofa a Napoli e da tempo ingoiata nella sua degradata periferia industriale. È quindi una storia dedicata al valore degli emarginati e degli ultimi, che si tratti di uomini o anche di cose.

Ciò che viene descritto è comunque un vero percorso di resurrezione, che si compie sullo sfondo di un misterioso processo che a sua volta, decorrendo sotto gli eventi, punta al raggiungimento di una condizione di stasi e quiete ponentesi interamente al di fuori dei valori così ossessivamente perseguiti dalla moderna società.

Il tessuto narrativo si interseca comunque con una riflessione filosofica incentrata  sulle tesi esposte dal filosofo goriziano Carlo Michelstaedter nel libro dal titolo “Persuasione e rettorica”, che egli scrisse come tesi di laurea poco prima di suicidarsi.

Come ulteriori presenze filosofiche e letterarie fanno capolino nel tessuto narrativo anche l’Apologia di Socrate di Platone, I pensieri di Confucio, e l’Oblomov di Gončarov.

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 El Alamein Nov 42 / fine maggio 43 in tunisia

 

 “Sperae ! Cahi no areal e na hora adversa / que Deus concede aos seus / para o intervallo em que esteja a alma immersa / em sonhos que são Deus. / Que importa o areal e a morte e a desventura / se com Deus me guardei? É O que eu me sonhei que eterno dura, / É Esse que regressarei” (Fernando Pessoa, Mensagem, III, I, I)

 

Não tem nome entre nós a sombra agora errante nas margens dos rios soturnos ; o seu nome é sombra também. Morreu pela Pátria, sem saber como nem porquê…”(Fernando Pessoa, Livro do Desassossego, pag. 262)

 

 

Cronaca:

Dopo una lunga e spasmodica attesa e dopo tante discussioni, il 17 di Settembre finalmente ricevemmo l’ordine di attaccare la postazione di artiglieria costiera tedesca di capo Mounda.

Due distaccamenti si sarebbero uniti sulla spiaggia provenendo da due opposte direzioni.

Il grosso, formato da tre compagnie di fanteria del 17° reggimento di fanteria della Acqui, mortaisti e mitraglieri, e guidato dai capitani Balbi e Bianchi, proveniva per via Skala da sud-est e cioè dalle nostre forze stanziate a Sami, mentre due plotoni, costituiti da fanti di marina, proveniva da nord, cioè da Argostoli. Io appartenevo a quest’ultimo gruppo, e ne ero capo con il grado di tenente.

L’intera operazione era coordinata dal maggiore Altavilla che si muoveva insieme alle compagnie di Balbi e Bianchi.

Eravamo tutti ansiosi di entrare in azione, visto che da troppo tempo il generale Gandin esitava a prendere una decisione, e la nostra manovra rientrava in un piano prevedente sostanzialmente un attacco da varie direzioni alle posizioni tedesche della penisola di Paliki. La postazione tedesca di capo Mounda, situata molto più a sud-est rispetto alla penisola, apparteneva comunque all’apparato difensivo di quest’ultima, dato che serviva a proteggerla dall’eventuale arrivo di forze navali in nostro aiuto.

Eravamo stati posti in pre-allarme circa una settimana fa, ed in gran segreto, visto che i tedeschi erano da tempo diffidenti nei nostri confronti e di conseguenza stavano cercando di consolidare e rafforzare le loro posizioni. Poi giunse l’ordine definitivo. La partenza, dopo che i preparativi fossero stati ultimati, era stata prevista per la mattina.

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 “Ogni uomo, chiunque egli sia, sicuramente conserva il ricordo di qualcosa che gli è accaduto che egli considera, oppure è incline a considerare come qualcosa di fantastico, di eccezionale, di quasi miracoloso, sia esso un sogno, un incontro, una profezia, un presentimento, o qualcosa del genere1

 

Qui è stato il paradiso terrestre dell’umanità : gli dei scendevano dai cieli e stringevano legami di parentela con gli uomini…Oh, qui vivevano degli uomini meravigliosi! Essi si destavano e si addormentavano felici ed innocenti ; i prati e i boschi echeggiavano dei loro canti e delle loro allegre grida ; la grande sovrabbondanza di forze intatte veniva profusa nell’amore e nella gioia innocente. Il sole li inondava di calore e di luce rallegrandosi dei propri splendidi figli “ 2

 

 

Cronache di quassù.

 

Come sia giunto in questa terra non saprei, ma sono qui in carne ed ossa.

C’è qualcosa alle mie spalle, qualcosa di confuso ed irritante, come quei pensieri oscuri che covano in un angolino della nostra coscienza mettendoci di malumore.

Mi sembra che questo qualcosa sia un passato che mi riguarda, nello stesso tempo una sensazione di respirto contratto, un’angustia, o meglio tale se paragonato alla leggerezza che sento.

Mi verrebbe voglie di dirmi che non mi sono mai sentito così bene come adesso. Ma questo significherebbe altro se non che c’è stato un tempo della mia vita in cui non stavo bene.

Un tempo passato, dunque?. Un tempo che non fa parte di questa mia vita attuale?.

Ma questo è impossibile – io, per come mi definisco, sono sempre stato io e sono sempre stato qui.

 

Sono nei pressi di un immenso prato ai limiti di un bosco. Il bosco è alle mie spalle. Non ricordo di avervi camminato eppure deve essere stato così.

Ho appena fatto alcuni passi a ritroso allontanandomi dalla luce ed approfondendomi nel bosco, ma mi sono fermato sorpreso dal buio che vi regna. Come ho potuto avventurarmi qui dentro?.

In fondo al prato ci sono delle case e tra queste c’è la mia. La raggiungerò.

 

Sono seduto alla mia scrivania.Perchè mi viene voglia di dire: “…dopo tanto tempo!”?.

Se ero appena uscito a fare una passeggiata…

Sento di non essere solo in questa casa, in realtà non lo sono mai stato, anche se essa sembra vuota.

Infatti vi regna un perfetto silenzio, com’è sempre stato.

Stranamente me ne meraviglio.

Fuori, oltre le finestre c’è uno spazio aperto adorno di alberi, viali e cespugli fioriti. E tra questi altre case simili a questa. Altre case che sono questa, come se tra esse non ci fosse alcuno spazio.

 

Ora lui è qui.

Sento il tocco caldo e confortante della sua mano sulla mia spalla. Non ho bisogno di voltarmi a guardarlo per sapere chi sia lui.

E’ lui, è Michal.

«Non voltarti….», mi dice «sai già che nel volgersi fisico c’è una rotazione profana. Tu non hai bisogno di voltarti per sapere chi sono e chi sei». Questo diceva il grande Proclo, discepolo di Plotino.

«Si, Michal», gli rispondo.

 

Ora so dove sono. Il che significa che so anche dove finora sono stato. E’ curioso, proprio l’essere stato altrove, il saperlo, ti rivela dove invece sei realmente sempre stato.

Bisognerebbe dirlo questo a chiunque pianga il passato, nel lasciare il luogo dove è nato….

 

Michal mi ha condotto all’Università di Bersabeia, il luogo in cui vengono prodotti i sogni…(qui Michal parla alla coscienza dell’uomo che sogna).

Nel sogno viene riprodotto il nostro dialogo.

 …………………….

Il testo di complessive 70 cartelle è in possesso dell’autore : una copia in cartaceo verrà senz’altro spedita al lettore interessato che ne facesse richiesta

1 Fjodor Dostoevskij, L’adolescente, pag. 416

2 ibidem, pag. 569

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 …………….

 L’antica Irlanda

 

Quanto a me, ecco, oramai, direbbe un eroe tragico, il destino mi chiama!”1

 

Maharaj : C’è un’unica soluzione : scoprire chi sei. Qual’è la causa del tuo essere, del tuo ‘io sono’?. Un tempo non avevi nozione di essere o di essere stato. Ma, in questo momento, tu sai di essere. Perchè?. Scoprine la causa. Solo tu puoi sapere perchè sei, solo tu sai perchè ti è stato offerto di essere. Non chiedere ad altri, ma ricerca da solo. E non preoccuparti degli altri, occupati solo di te stesso” 2

 

Conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche con il cuore3

 

Então à montanha foi dito que saisse da água. / imediatamente houve grandes montanhas4

 

La mia patria era la contea del Clare, in Irlanda. Ma ormai da tempo non più.

La mia casa era in un luogo isolato, in piena campagna, e solo pochi selvaggi tratturi passavano da quelle parti. Così vedevamo solo di rado la faccia di altri uomini che non fossero quelli della nostra famiglia e delle pochissime altre che vivevano nei nostri dintorni.

La nostra casa, isolata anche dalle altre si trovava allo sbocco di una valle tra due alture coperte di boschi che di allungavano in un sistema di alte giogaie che chiudevano la valle ad est.

Aldilà di esse scorreva placido e maestoso il lontano Shannon.

Altre più basse alture si estendevano dallo sbocco della valle in poi verso il mare, poco prima del quale si susseguivano ondulate e brulle colline coperte di erba.

Dal luogo dove eravamo, il mare distava all’incirca tre giornate di viaggio, camminando di buon passo

La costa laggiù era un susseguirsi continuo di baie e piccole insenature con rocce basse e frastagliate, spiagge di ciottoli e lagune chiuse da basse creste rocciose che si prolungavano nel mare, alternate a catene di scogli ravvicinati, che, lasciando tra essi strettissimi passaggi, si susseguivano continuando la linea rocciosa che separava quasi completamente le lagune dal mare aperto. Il mare all’interno era cristallino e quando il sole brillava nel cielo sereno, esso acquistava tutti i toni del verde smeraldo e del celeste acquamarina, mescolandosi con le smaglianti pagliuzze d’oro dei fantasmagorici e cangianti riflessi del sole sui ciottoli del fondale.

Una di queste lagune, ampia, aperta e selvaggia, era meta preferita delle mie escursioni.

La sabbia della spiaggia era di un puro color avorio e preceduta di pochissimo da una fittissima vegetazione di pinastri che in alcuni punti si spingeva fin quasi nell’acqua. La linea rocciosa che separava lo specchio d’acqua dal mare aperto era molto distante dalla spiaggia, direi almeno due terzi di miglio, così che lo sguardo poteva spaziare a lungo prima di incontrare la spessa linea candida della risacca oceanica.

Ci andavo in autunno ed in primavera quando il lavoro dei campi e la custodia del bestiame mi lasciavano tempo e quando le condizioni climatiche non lo proibivano.

Qualche volta invece ci arrivavo pascolando l’intero gregge, dopo una settimana o più di transumanza tra le colline e le brughiere .

Abbandonavo il gregge dentro uno steccato che io stesso avevo costruito, lasciandovi a guardia i cani e mi spingevo nel profondo bosco di pinastri fino a raggiungere la spiaggia dopo circa un’ora di cammino. Nel bosco di spingevano diversi ruscelletti provenienti dalle vicine colline ed in un punto essi si univano in un profondo e cupo stagno dall’acqua verde scuro, sulle cui sponde pure spesso mi soffermavo prima di giungere alla spiaggia.

Qui mi piaceva sostare distendendomi sulla riva erbosa a contemplare i grossi gabbiani che attraversavano l’occhio di cielo che lo sormontava mentre ascoltavo il lontano rombo del mare che si spingeva fin lì portato dal vento.

Giunto presso la spiaggia, costruivo una piccola capanna di tronchi e canne in immediata prossimità della spiaggia e passavo intere giornate a guardare il mare che rumoreggiava e biancheggiava al di là della bassa scogliera, disseminata quà e là di più alti roccioni, che chiudeva la laguna.

Credo che proprio lì siano nati in me tutti i pensieri della mia inquietudine e vi siano stati seminati da qualche divinità delle acque, forse dalla stessa Boyne, i semi che sarebbero poi germogliati nelle mie estasi future.

 

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Eres sueño de un dios; cuando despierte

¿ al seno tornará de que surgiste?

¿ serás al cabo de lo que un día fuiste?

¿ parto de desnacer será tu muerte?//

¿El sueño yace en la vigilia inerte?

Por dicha aquí el misterio nos asiste;

para remedio de la vida triste,

secreto inquebrantable es nuestra suerte1

 

 

Cos’era stata la mia vita fino al momento di decidere cosa fare di essa?.

Me lo sono chiesto più volte in quell’ultimo anno, prima di decidere di lasciare la mia casa per andare per il mondo.

Era stata bella o è brutta?.

Non aveva senso questa domanda, questa fu l’unica conclusione alla quale fui capace di giungere.

Vivevo solo nella casa di mio padre, fatta eccezione per la sua saltuaria compagnia.

Ed ero proprio ciò che si dice un sognatore.

E cos’è il sognatore se non un uomo solo ?.

Egli, come dice il poeta, vive nel suo cantuccio inaccessibile, rintanato nel suo guscio da tartaruga come se volesse nascondersi perfino dalla luce del giorno. La tartaruga, sapete, è un animale e una casa.

Uno che non sa ricevere nemmeno un visitatore, e che davanti a questi si confonde e balbetta, incapace com’è di dar brio alla conversazione.

 

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Quando i Tuatha de Danaan furono sconfitti dai Milesiani, una parte di loro fu guidata da Mannanán figlio di Lêr verso “a paradise over-seas… situaued in an unknownable island in the west…a land of perpetual pleasure and feasting, described varously as the ‘Land of Promise’…’Nreasal’s Island’ (Hy- Breasail)… some pioniers in the Spanish seas thought they had discovered it, and called the land that they found ‘Brazil’…”1

 

la più grande condanna del Brasile è quella di essere stata sempre considerata un Paradiso…”

 

Ilha na mesma latitude do sul da Irlanda…è o nome de um antigo semideus pagão e ambas as sílabas Bres e ail denotam admiração. Consiste em un grande anel de terra em torno de um mar interior pontilhado de ilhotas.

O mortal comum não pode vê-la e somente uns poucos escolhidos foram abençoados com a visão de Brazil” 2

 

 

Abitavamo in una casa di un paese chiamato San Giusto, in uno dei vicoli del paese che salivano verso la cattedrale. In quel punto sul vicolo si apriva una stretta viuzza che dopo un brusco gomito si precipitava di nuovo a forza di gradini verso il basso. Si formava dunque lì una minuscola piazzetta delimitata da un angolo retto di case incastrate l’una nell’altra, di cui la nostra era la più vicina alla ripida gradinata.

Poco al di sopra del portone di ingresso c’era un angusto balconcino che più che altro assomigliava ad un naturale foro che fosse stato aperto dagli elementi in una parete di roccia. Su di questo si aprivano le finestre della minuscola sala da pranzo, che era la prima stanza della casa e fungeva anche da cucina.

Non so se allora ne fossi cosciente – ma ora che ritorno di tanto in tanto a guardare quella vecchia casa le cui finestre oggi sembrano le orbite di un teschio, la sensazione che provo è di invincibile tristezza….

 

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Infatti, il vizio più completo è ignorare la divinità”1

 

“ “Così il figlio disse: «Io sono nel Padre e il Padre è in me»2

 

“…anteriorità e posteriorità non potrebbero cadere nell’infinito e nell’eterno. Il Padre non è prima del Figlio, il Figlio non è dopo: bensì il Padre è prima in modo tale per cui il Figlio non gli è posteriore…”3

 

Dopo aver finito di scrivere questo libro mi sono accorto che è forse necessario fornire alcune spiegazioni preliminari, specie ad un eventuale lettore analitico, che potrebbe sentirsi turbato da alcune apparenti contraddizioni logiche, specialmente per quanto riguarda le cronologie contenute nella bibliografia.

Ho l’abitudine di corredare sempre i miei scritti con delle bibliografie, sia per non dilungarmi in analisi e discussioni già affrontate in altre opere, sia per lealtà verso i testi letterati, che cerco di riportare fedelmente per non sacrificarne la bellezza con trasposizioni indirette.

Non si tratta solo di onestà, o meglio si tratta di un’onestà che è conseguenza obbligata di una precisa scelta estetica e poetica.

Tale scelta, che ho illustrato diffusamente nel mio saggio dal titolo Il poeta, un fesso che ascolta…, è in linea con una visione dell’ispirazione intesa essenzialmente come possessione dell’autore da parte di spiriti “affini”, possessione che si realizza tra l’altro mediante la lettura e l’uso di alcuni testi sincronici alla scrittura. La banale causalità delle concomitanza delle letture al testo è ovviamente, in coerenza con tale scelta poetica, assolutamente da escludere.

Anche nella stesura di questo libro dunque sono stato accompagnato dalla lettura concomitante di alcuni testi, cosa che può sembrare strana al lettore, in quanto si tratta di invenzione e non di saggistica.

Anche questa è stata però una scelta, motivata soprattutto dall’altro aspetto della mia poetica, che è quella del costante riferimento auto-biografico.

Il richiamo a letture di testi contemporanei, o letti naturalmente nel presente, sebbene scritti in date anteriori rispetto agli eventi descritti nella narrazione, ha dunque senso proprio in quanto richiamo al senso che gli eventi narrati hanno personalmente per me.

Nel caso specifico, visto che si tratta di testi in lingua originale, il fatto di riportarli nella narrazione talvolta in modo letterale, vuole avere il valore di una traduzione, anche se parziale, di testi probabilmente non ancora resi disponibili in lingua italiana.

Un ultimo aspetto che a mio avviso andrebbe considerato è che, voluta o meno, la discrepanza logica tra la cronologia degli eventi narrati e quella della bibliografia, assume un particolare valore metafisico, del quale non posso che rallegrarmi. In quanto grazie ad essa si produce un effetto di scardinamento del tempo e della logica che ha un profondo significato nell’ambito delle idee e visioni illustrate nel libro.

 

 

 

Il figlio

 

Che bisogno c’è della sopravvivenza di questi esseri volgari, la cui principale occupazione, una volta sottratti alla morte che li minaccia, sarà sempre più dissipare e divorare ?” ( Anonimo)

 

 

Mio padre non avrebbe mai voluto trasferirsi qui dall’Europa, eppure una fatalità ve lo condusse, fin a pochi anni prima della sua morte.

Io ed i miei fratelli siamo invece nati qui, e dunque questa è la nostra terra.

Laggiù, anche se potessi, non ci andrei mai. Anche se era questo che lui voleva, e che mi pregava sempre di fare, poco prima di ritornare in Europa – “Torna là, torna, figlio mio, interrompi questa catena…!”.

E poi come tornare, se io là non ci sono mai stato ?!. Cosa c’è di me laggiù ?. I suoi ricordi, il suo rimpianto, le cause dei suoi errori. Tutto suo. Io che ho a che fare con tutto questo?.

E’ questo ciò che penso ogni giorno, eppure dentro di me c’è un angolino oscuro che continua a resistere alla luce delle mie certezze, e dal quale ogni giorno a tradimento parte quell’insidiosa domanda – Perché no?. La lascio parlare quella voce solo, anche se per un po’, solo finché mi va. Poi basta, poi torno alle mie cose di sempre ed alle mie certezze, dalle quali non sono disposto ad allontanarmi.

In fondo mi interessa una sola dell’insidioso mormorio che nasce in quest’angolino oscuro della mia anima, e cioè la mia risposta – Io sono io!.

Yo soy argentino !.

 

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O patria mia, vedo le mura e gli archi

E le colonne e i simulacri e l’erme

Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi

I nostri padri antichi, Or, fatta inerme

Nuda la fronte e nudo il petto mostri….” (Leopardi)1

Per la verità non so se tutto questo sia storia, sogno o appena una privata allucinazione. E nemmeno so se ciò che viene qui narrato e considerato possa avere un vero valore storico, morale, filosofico e politico per la nostra gente ed il nostro paese.

Giudicate pure voi stessi.

L’inizio di tutto è in un lontanissimo passato, ma gli eventi di cui si narra appaiono essersi sorprendentemente svolti in fondo nello spazio di appena ventiquattrore.

Gli eventi storici da cui prende le mosse questo racconto si svolgono intorno al periodo che va tra la fine del 300 e gli inizi del 400 dC, anno dopo il quale, nel 401, i Visigoti, spinti dagli Unni, entrarono finalmente in Italia, dando così uno sfogo finale all’immensa pressione che i popoli slavo-germanici avevano iniziato ad esercitare sui confini dell’Impero Romano da oramai almeno due secoli, e così mettendo fino una volta per tutte alla millenaria potenza di Roma.

Tali eventi erano stati preceduti da un’immane catastrofe militare, quella di Adrianopoli nel 378 dC, dove l’esercito romano aveva subito un tracollo da cui non si sarebbe mai più ripreso.

Dopo questa decisiva sconfitta, nel 395 dC il generale romano Stilicone aveva poi cercato di nuovo, ma invano, di fermare i Visigoti in Tracia. Ed inoltre poi in Italia, dopo l’avvenuta invasione, nel 402 dC, si tentò ancora con la battaglia di Pollenzo, in cui truppe romane furono ancora guidate da Stilicone, di cacciare i Visigoti dall’Italia.

Tuttavia anche questo fu del tutto inutile.

Dopo pochi anni anche gli Ostrogoti avrebbero invaso l’Italia, e successivamente una massa immensa di popoli germanici, superato il Reno, si sarebbe rovesciata sulla Gallia schiacciando le truppe romane che soggiornavano al confine. Vane furono nei decenni che seguirono perfino le prodezze del magister militum Ezio, che addirittura riuscì ad infliggere una grave sconfitta agli Unni ai Campi Catalaunici nel 451 dC, in un’estrema fiammata di orgoglio militare romano. Ma intanto uno dopo l’altro, vaste aree di territorio imperiale al di fuori dell’Italia sarebbero cadute saldamente in mano barbara.

L’ora fatale per l’impero Romano era per sempre scoccata.

Tutto ciò che seguì, fino all’ascesa al trono d’Italia da parte di Odoacre nel 476 dC, non fu che la lenta agonia di un corpo ormai già votato alla morte. Ciò che recò ancora il nome di esercito romano non fu infatti in questo periodo che un’accozzaglia di truppe formate esclusivamente da ex foederati germanici, cioè soprattutto Goti e Franchi ed a cui si aggiunsero perfino degli Unni. I romani erano stati intanto del tutto privati del diritto di farne parte.

Quella che portò al trono il barbaro Odoacre, alla testa di orde di Eruli, Turcilingi, Rugi e Sciti, non fu che la marcia trionfale di una razza divenuta ormai per sempre padrona, davanti alla cui stapotenza l’Imperatore fantoccio Romolo Augustolo non potè che piegare il capo ed il ginocchio, in un atto che sancì la definitiva umiliazione della razza romana ed italica.

Tutto ciò che sarebbe accaduto in Italia, da allora fino ai giorni nostri, non sarebbe stata che l’eco, infinitamente riverberata , di questi terribili e maestosi eventi.

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Al sorgere del sole i venti cavalieri raccolti sullo spiazzo antistante la chiesa sguainarono le spade all’unisono e le levarono al cielo mentre l’ostia brillava come un secondo sole tra le mani del sacerdote che con le spalle al sole levante celebrava l’ufficio.

Poi l’ostia iniziò a librarsi in alto perfettamente allineata con la sacra spina custodita nell’ostensorio.

Una lunga guerra era finalmente terminata, una guerra in cui molte vite erano state sacrificate e molte erano state le distruzioni, ma il paese era ormai libero dai nemici.

I primi a portare la notizia nella città erano stati i venti cavalieri, mandati dal Re dal campo di battaglia lontano nelle pianure ad ovest. Il Re aveva messo a capo del drappello tre tra i migliori di essi, e questi avevano disposto per la messa di ringraziamento.

Non ebbero il tempo di riposarsi dalle fatiche della tremenda battaglia, e quando essi partirono dal campo l’esercito era ancora impegnato a raccogliere dal campo di battaglia, oltre che il grande numero di feriti e morti, anche i molti uomini esausti e resi folli dal sangue e dal terrore.

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“Oggi mi sembra proprio un giorno benedetto”, si disse Matteo uscendo di casa presto per raggiungere la sua bottega al centro del paese.

Appena uscito si riassettò il cappotto, si mise il cappello e si alitò il fiato caldo sulle mani dopo averle battute energicamente l’una contro l’altra.

Poi, sentendo le forze del mattino ascendere in lui su dalle gambe, che intanto avevano iniziato il cammino, e da quelle su poi per il dorso fino al collo e la nuca, si disse soddisfatto : “Oggi finirò il lavoro per Don Leandro, e potrò iniziare quello nella chiesa!”

Matteo faceva il falegname ed era ben conosciuto ed apprezzato in tutto il paese.

Il suo lavoro l’aveva reso abbastanza agiato da permettergli di comprare una casa lungo uno dei lunghi e graziosi viali che univano il centro del paese alla periferia ed alla campagna.

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La battaglia

Vincenzo Nuzzo


La battaglia

Il rullio dei tamburi alle nostre spalle è finalmente cessato.
Siamo davanti al nemico.
Tra poco sarà impartito l’ordine di attacco.
Ed improvvisamente, mentre a pie’ fermo attendiamo, mi coglie il lancinante ricordo dei radiosi giorni del passato.
Il nemico si tiene ai piedi delle basse alture con cui termina lo stretto pianoro alla cui altra estremità ci siamo fermati alla fine di un lungo pendio.
Finora i tamburi avevano rullato interminabilmente dietro di noi guidandoci all’attacco.
Marciavamo in file serrate, uno accanto all’altro, misurando il terreno a lunghi e risoluti passi.
Spingendo avanti le gambe rigide, ed lasciando cadere i piedi pesantemente al suolo. Risoluti. Senza esitazioni. Come ci è stato insegnato. Perchè il nostro passo cadenzato e pesante faccia tremare la terra ed i cuori.
Ma non i nostri.
E i nostri cuori non tremavamo affatto, mentre marciavamo.
Risoluti, si!. Ma risoluti a morire, prima che ad uccidere!. Sollevati, come lo si è solo prima di una battaglia. Decisi a concludere lì, se il destino lo volesse, i nostri giorni.

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