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Archive for giugno 2023

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Introduzione.
Nicolas Malebranche appare essere un caso davvero singolare della filosofia. Ed infatti non solo la storia della filosofia ha guardato al suo pensiero con i più diversi atteggiamenti, ma inoltre, quando lo si legge, si viene colti da sentimenti molto contrastanti. Specie se lo si legge come esponente di una poderosa metafisica religiosa, che (iniziata con Cartesio) ha visto la presenza di autentici giganti del pensiero come Leibniz e Spinoza. Infatti, una volta approfondita, la sua dottrina filosofico-metafisica (ed inoltre dai fortissimi risvolti teologici), oltre ad affascinare notevolmente, suscita anche notevoli perplessità. E non solo etico-religiose ma anche epistemologiche (sebbene queste siano senz’altro minori).
Innanzitutto non sembra essere affatto un caso che egli sia rimasto nel dimenticatoio della filosofia per molto tempo [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Nella sua dottrina erano state infatti evidenziate notevoli insufficienze se non aporie (Watson). Ed infatti l’analisi testuale alla quale ci dedicheremo in questa recensione ne metteremo noi stessi in evidenza molte. Watson (citato qui da Walton) afferma che addirittura molti abbiano negato a Malebranche lo status di filosofo.
Tuttavia nello stesso tempo (Rodis-Lewis) pare che (a causa del suo sforzo di dissolvere pregiudizi tentando di dare un contributo alla ricerca della verità in filosofia) egli abbia rappresentato qualcosa di estremamente valido e nuovo nel contesto del pensiero occidentale, e precisamente qualcosa di anche molto promettente [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Questa sua novità consisteva in particolare nello sforzo di cercare una fondazione comune per fede e ragione, ma infine anche perfino per l’osservazione sperimentale (consistente specialmente nella fisica). Intanto però molti critici hanno sottolineato che il prezzo di questa operazione (in particolare un’ontologia consonante con la fisica) fu il ricadere del suo pensiero nel misticismo e nell’irrazionalità. Ed in effetti costateremo più volte che (specie nel tentare di dare un fondamento filosofico alla teologia cristiana) la sua logica è spesso traballante e caratterizzata da salti iperbolici che mancano di un’argomentazione davvero fondata.
Altro aspetto rilevante è quello che consiste nel fatto che il suo pensiero pare sia stato paradigmatico per una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
E questo sarebbe vero soprattutto a causa del suo grande sforzo di riconciliare una metafisica davvero profonda con le pur recalcitranti evidenze fattuali e mondane. Si tratta insomma con ciò del nucleo della visione di Malebranche, e cioè di quella teodicea che − nel porre Dio come Essere assolutamente perfetto e Causa di ogni minimo evento, essere ed azione – vuole giustificare la creazione di un mondo perfetto ad onta perfino della schiacciante evidenza del male. Non a caso per Black questa teodicea è stata definita “vendicativa” (“vindicative”) a favore della divina Provvidenza, e quindi non solo forte ma anche provocatoria ed aggressiva, se non crudele.
Non è un caso che il moderno pensiero religioso (basato ormai sulla scienza cognitiva) non perda una sola occasione per considerare qualunque teodicea come ormai superata dall’evidenza del male esplosa recentemente nella storia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”. < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. E bisogna dire che vi sono non poche ragioni per ritenere questo di fronte a teodicee così disinvolte come quella di Malebranche.
Possiamo dire quindi che Malebranche – nel suo progetto di fondare e giustificare filosoficamente il Cristianesimo – si è limitato, molto disinvoltamente, a fare semplicemente da solo, ossia senza tenere nel minimo conto i più rilevanti contenuti della Rivelazione. Non è un caso quindi che egli abbia incentrato il suo progetto filosofico-religioso su un totale disprezzo dell’uomo e anche del mondo stesso. Anzi si può ben dire che la sua rientra tra le concezioni più pessimistiche dell’uomo e del mondo che si siano ma viste in filosofia (probabilmente non molto lontana da quella manichea). Il che poi si fa risentire in una dottrina totalmente deterministica della libertà umana; che solo finge di prendere in considerazione quest’ultima per poi negarla nei suoi principali fondamenti. Egli infatti credo troppo poco nell’uomo per poter pensare per davvero Dio gli abbia affidato il compito di scegliere tra bene e male. E così perviene alla conclusione che l’uomo viene costantemente condotto da Dio verso il bene. Cosa che ovviamente abolisce in partenza la libertà.
E tutto questo è davvero eclatante se si considera che uno dei maggiori esponenti del Personalismo cristiano (peraltro anche non poco riformatore), cioè Nikolaj Berdjaev, abbia incentrato la sua rilettura del Cristianesimo proprio sul valore fondamentale che andrebbe attribuito all’uomo proprio a causa della libertà che lo contraddistingue in quanto ente metafisico [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, Prefazione, p. VII-IX, II p. 110-113, V p. 172-185, XIII p. 358-361; Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, ibd., 1 p. 3-8; Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 1 p. 28-38, II, 1 p. 54-59, IV, 3 p. 191-194, V, 4 p. 260-261; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002I, p. 8-25, I p. 32-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-84, V p. 85-93, V p. 97-100, VI p. 101-109, VIII p. 160-166; Vincenzo Nuzzo, Il moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA 2023 (in via di pubblicazione)].
Ed a questo si aggiunge peraltro che, nel leggere Malebranche, ci si rende ben presto conto del fatto che il suo progetto di difesa della fede cristiana è e vuole essere puramente filosofico, e quindi incentrato unicamente sulla più pura e rigorosa Ragione. Non a caso egli non solo contesta qualunque autorità in campo religioso e culturale (specie l’erudizione), ma inoltre sembra non intendere affidare un ruolo molto importante perfino ad alcune importanti affermazioni della Rivelazione cristiana. Inutile dire che il risultato netto di tutto ciò, per l’uomo di fede, è estremamente deludente. Il che significa che, con il suo complessivo progetto (ormai comunque sicuramente molto datato sia teologicamente che filosoficamente) egli scontenta sia il non-credente che il credente. Ma, oltre a ciò la sua metafisica unilateralmente razionalista scontenta anche colui che vede in questa disciplina ancora una scienza che (aldilà di tutte le svariate forme che ha assunto nella storia del pensiero) è autentica solo quando si basa unicamente sulla Rivelazione. Non a caso nell’ultima sezione vedremo che la sua visione si attirò gli strali di un pensatore protestante (quasi pro-ateo) come Bayle (che aveva duellato anche con Leibniz) e di due credenti come Arnaud e Bossuet. Bayle in particolare rigettava radicalmente l’identificazione del Cristianesimo con la morale, e quindi meno che mai con un razionalismo morale.
Insomma possiamo ben dire in anticipo che il Malebranche religioso si è prodotto in concetti ed affermazioni che risultano molto spesso non solo inaccettabili ed aberranti, ma perfino scandalosi. E pertanto, almeno da questo punto di vista, la sua filosofia manca di qualunque valore. Meno che mai di un valore cristiano.
Ma, dopo aver precisato questo, bisogna anche dire che dalla lettura dei suoi testi si deduce un elemento filosofico-metafisico davvero originale ed anche molto interessante. Ed esso è dottrinariamente anche fondamentale. La sua dottrina si basa infatti principalmente su una sorta metafisica dalla valenza fortemente epistemologica (ma anche religiosa), secondo la quale il mondo intelligibile (il mondo delle idee) è più vero di quello sensibile, e quindi rappresenta l’unico modo di conoscere quest’ultimo. E questa dottrina richiama chiaramente Platone quale autorità incontestabile. Il che (almeno da questo punto di vista) elimina in partenza qualunque possibile svalutazione della metafisica di Malebranche.
Oltre a ciò appare evidente che il suo concetto di Essere sfugge a qualunque previa determinazione formale ed ad ogni staticità, ed quindi è solo dinamico in quanto sostanziale sistema di relazioni [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. In questo senso esso è solo Ordine o anche Giustizia. Non è dunque assolutamente statico Fondamento trascendente (ma immanentizzato) che giustifichi l’esistenza degli enti. Dunque non si tratta affatto del concetto di Essere che la metafisica aveva fino ad allora sempre preso in considerazione a partire dalla sua concezione aristotelica. L’ontologia di Malebranche si basa quindi su concetti metafisici estremamente nuovo ed originali che divergono sia da quelli di Cartesio sia da quelli della classica onto-metafisica della Scolastica. La sua è infatti una metafisica che intende primariamente fondare in maniera ineccepibilmente razionale e Leggi che regolano il divenire mondano e naturale, ossia il funzionamento dell’universo. Ciò che egli vuole è che da questo divenire svanisca qualunque caso. E proprio per questo egli identifica con Dio la Ragione universale.
Ma di questo parleremo più diffusamente nel corso della recensione

In questa recensione non ci baseremo purtroppo sul libro più importante di Malebranche, e cioè “La recherche de la verité” (LRV). E tuttavia gli articoli che abbiamo consultato ne espongono ampiamente il contenuto, che poi non è molto diverso da quello delle opere che abbiamo letto (in particolare “Pensieri metafisici”) – specialmente l’articolo di Walton [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Le opere che abbiamo consultato sono invece tre, e cioè le seguenti: − “Pensieri metafisici” (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911]; “Conversazioni cristiane” (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999]; “Trattato della Natura e della Grazia” (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991]. Vorremmo solo avvertire il lettore che il materiale esposto in queste opere è comunque rappresentato da un’argomentazione estremamente ricca, complessa ed articolata, della quale quindi noi potremo riportare solo alcuni passaggi. Per cui per una completa comprensione del pensiero di Malebranche non basterà affatto la lettura di questa recensione ma bisognerà dedicarsi anche alla lettura delle opere originali.

Andando con ordine affronteremo in sequenza i principali temi trattati da Malebranche, e cioè i seguenti: − 1) Definizione di Dio; 2) Teodicea; 3) Concetto di metafisica; 4) Teoria della conoscenza e della percezione; 5) Concetto di mondo e di Natura (il panteismo); 7) Chi fu Malebranche?.

La definizione di Dio e il progetto filosofico-religioso in generale. Il Cristianesimo razionalista di Malebranche (sezione 1).
Non vi è dubbio che per Malebranche Dio è l’Essere perfettissimo del quale un tempo parlava anche il Catechismo cattolico [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181 p. 53-55, I, 179-188 p. 60-67, I, 263 p. 70]. Ma lo è in una maniera molto specificamente caratterizzata in termini filosofici, ossia come Ragione suprema ed universale [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23 p. 33-35, I, 163-168 p. 47-53, I, 177-181p. 53-55] e come Causa altrettanto suprema e prima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31 II, 49-51 p. 41-42, IV, 328-329 p. 44-45, I, 163-168 p. 47-53, I, 130 p. 67-68]. Egli è cioè in primo luogo ciò da cui tutto dipende nell’esistere, agire e perfino sentire delle creature, della Natura e di qualunque corpo fisico cosmico. Da ciò deriva che i suoi attributi sono anch’essi altrettanto specifici: − Perfezione, Giustizia, Ordine, Potenza, Gloria, Infinità, Immensità, Eternità, Ragione, Governo, Signoria. Senz’altro essi si potrebbero sintetizzare nell’attributo costituito dalla Maestà.
Dio insomma è per Malebranche un vero e proprio Monarca assoluto in quanto Ragione e Causa di tutto.
È evidente quindi che questo è un Dio dei filosofi e degli scienziati. Non dei teologi né degli uomini di fede in generale. Egli è insomma in primo luogo ciò in virtù di cui il mondo esiste e funziona in ogni momento della sua esistenza, quindi ben al di là del complesso contesto teologico-rivelazionale della creazione.
Insomma è un mondo che non marcia come deve senza la continua e inflessibile conduzione divina.
È evidente che ciò rende molto ben caratterizzato il progetto di Malebranche di giustificare il Cristianesimo su base filosofica. Egli non lo fa infatti con l’obiettivo primario (apologetico) di difendere filosoficamente il Cristianesimo stesso dalle accuse ad esso rivolte (come i titoli dei suoi libri fanno immediatamente pensare), ma lo fa invece con l’unico obiettivo di filosofizzare il Cristianesimo e peraltro in una maniera molto estremisticamenre razionalista (e conseguentemente anche la Religione in generale). Va quindi inteso in questo modo il fatto (rilevato da Black) che il suo pensiero costituirebbe il paradigma stesso di un “teologia filosofica”. Lo è infatti allo stesso identico modo in cui la teologia oggi si presenta dopo aver fatto suo totalmente il pensare ed il linguaggio filosofici in seguito all’opera di alcuni decisivi pensatori moderni (specie Husserl e Heidegger) mediante la quale essi hanno di fatto rifondato il filosofare stesso. Insomma questa “teologia filosofica” non è altro che una filosofia. E lo è nel modo più estremistico che si possa pensare, cioè in obbedienza a concetti ed approcci che spesso con la vera teologia non ha nulla a che fare; come ad esempio la più rigorosa logica oppure un esistenzialismo sconfinante addirittura nel nichilismo
E questo è stato da noi commentato in diversi scritti (vedi articoli precedentemente citati).
Evidentemente Malebranche (come del resto anche Leibniz e Spinoza) anticipava l’insorgere successivo di questa tendenza della teologia. Con il suo pensiero, quindi, non si tratta tanto di risolvere in maniera soddisfacente l’eterno conflitto Ragione/Fede, ma semmai si tratta solo di ridurre totalmente il secondo termine al primo. In altre parole sembra che per il nostro la Religione debba rientrare totalmente nell’ambito conoscitivo della Filosofia. Cosa resti a questo punto della fede è difficile dirlo, sebbene il pensatore francese si soffermi molto su contenuti di fede ed anzi alle volte li ponga addirittura alla base della sua argomentazione filosofica (specie in relazione alla figura di Gesù Cristo). Ma cosa ne resta intanto della fede vissuta, ossia (per così dire) della franca «pietas», ossia del vivere in una maniera quanto più possibile religiosa? Che ovviamente con la filosofia può anche non aver assolutamente nulla a che fare.
Evidentemente assolutamente nulla.
Dunque purtroppo Malebranche sbarra decisamente questa strada. E questo è esattamente il motivo per il quale il fedele e credente, dopo essere stato abbagliato dai titoli dei suoi libri (ed anche da alcune sue affermazioni molto contemplative e pie), resti decisamente deluso (se non nauseato) dal discorso filosofico-religioso di questo pensatore. Ed in particolare, come poi vedremo, soprattutto dalla sua teodicea.
Dunque diremmo proprio che egli non va considerato affatto tra gli esponenti di un’autentica filosofia-religiosa e specialmente cristiana (se non in maniera puramente formale). E questo è del resto il tratto comune di quella metafisica razionalista che (prendendo le mosse non a caso da Cartesio) vide come suoi protagonisti anche Leibniz e Spinoza. Insomma di questo genere di metafisica l’autentico homo religiosus non può farsene assolutamente nulla. E lo capiremo ancora meglio approfondendo ulteriormente la definizione di Dio propostaci da Malebranche
Innanzitutto, molto curiosamente, da questa immagine di Dio sono svaniti alcuni significativi attributi che la metafisica (sia pagana che cristiana) Gli aveva sempre riconosciuti – come Unità, Bontà e Bellezza. Anche questi attributi avevano in verità una fortissima caratterizzazione filosofico-razionalistica (fondando non a caso un molto decisa gnoseologia), ma comunque mantenevano un costante rapporto non solo con la Teologia bensì anche con la Rivelazione stessa. In virtù di esse, infatti, Dio restava Colui che aveva creato il mondo sostanzialmente per amore, e si presentava quindi come un Padre ripiegato amorosamente sulle sue creature. E si badi bene che anche Tommaso d’Aquino sostenne, in maniera abbastanza simile a Malebranche (e quindi configurando una sorta di Filosofia della Natura su basi metafisiche), una sorta di “intelligent design” divino che si basava su un’intelligenza infusa nella Natura fin dall’inizio e moventesi autonomamente [Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; Andrea Sangiacomo, “Aristotele, Heerebord and the polemical target of the Spinoza’s final causes”, J. of the Hist of Phil., 54 (3) 2016, 395-420; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358]. Anche l’Aquinate sostenne insomma che Dio era la sostanza suprema dalla quale la Natura desumeva la sua capacità di procedere razionalmente verso il bene. Ma comunque non senza un franco e coerente Amore.
Bene dov’è in Malebranche l’Amore di Dio per le creature e per il mondo? La risposta è semplicissima e netta: − non c’è affatto. Perché l’infinita perfezione di Dio si risolve nel fatto che Egli ama unicamente sé stesso e quindi fa tutto ciò che fa unicamente per la propria Gloria [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III, p. 44-67, Dialogo V-VI, p. 87-126; [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXIV p. 84-85, III, I, I p. 150-151]. Un concetto questo che sembra approssimare molto il pensiero di Malebranche a quello del neoplatonismo pagano nel quale non c’è affatto un amoroso Dio personale ma solo un maestoso e regale Uno divino. E su questo faremo ulteriori considerazioni più avanti. Ebbene, non abbiamo trovato traccia di una letteratura che provasse questo aspetto, ma comunque il nucleo stesso del pensiero di Malebranche è ispirato in modo chiarissimo e diretto alla dottrina delle idee di Platone. E questo può avere il suo significato. Sebbene egli sia fortemente ostile verso qualunque autorità dei filosofi antichi, così come spesso anche contro la stessa autorità della Rivelazione cristiana [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 238, 241 p. 76-78; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 22]. Insomma il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore ripiegato sull’uomo e sul mondo né provvidenzialmente è tanto meno kenoticamente. Anzi Egli disprezza decisamente la creatura umana finita, in quanto a Lui infinitamente inferiore, fino a venire considerata da Lui un integrale “nulla”; e quindi ha creato il mondo unicamente ai fini dell’avvento di Gesù Cristo (il suo Figlio prediletto) ed inoltre per la sua Chiesa; considerazioni che ritroviamo soprattutto in TNG cioè nella sua trattazione della teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31, Dialogo VI p. 109-112; Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, II–IV p. 73, I, I, VI p. 75, III, 238, 241 p. 76-78, I, II, XXIV p. 84-85, I, II, XXVI p. 85, I, II, XXVIII p. 86-87, I, II, XXXVI p. 90-91, II, I, II p. 108-109, II, I, IX p. 112].
Più precisamente Dio (in quanto luogo delle idee conoscibili) è la Ragione universale nella quale la nostra anima abita in quanto “sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. E questa è la base della sua teoria della conoscenza e della percezione (che poi esamineremo in dettaglio) in quanto noi conosciamo le cose reali del mondo solo e soltanto attraverso le idee delle cose stesse che contempliamo unicamente “in Dio” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, I, IX p. 112, II, I, II p. 108-109, I, II, XXXVI p. 90-91, I, 20-23, p. 33-35, I, 179-187, p. 60-66; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 47-48] per l’intermediazione della nostra anima, o meglio ancora del nostro “spirito” (dato che il pensatore francese, diversamente da Platone ed anche da Agostino) non attribuisce all’anima alcuna funzione conoscente.
Dunque Dio viene rappresentato da lui come il padrone della nostra mente, e quindi come
l’origine vera della nostra vita psichica [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 8-9, p. 40-41]. Infatti in effetti noi non siamo affatto causa delle nostre idee, dato che non sappiamo nemmeno cosa esse siano e quindi non abbiamo alcun reale potere su di esse. L’unica cosa, egli dice, è “che tu vuoi pensare ad un quadrato, e l’idea di questo quadrato si presenta in te”. Ma di questo è responsabile solo Dio, e dunque è Lui il padrone della nostra mente, l’origine del nostro psichismo. Non a caso è stato sottolineato che Malebranche non ha un chiaro concetto di mente come quello di Cartesio, dato che non ammette affatto la migliore conoscenza della mente rispetto a quella del corpo [Lawrence Nolan, John Whipple, “Self-Knowledge in Descartes and Malebranche”, Journal of the History of Philosophy, 43 (1) 2005, 55-81]. Per cui di conseguenza egli non concepisce l’auto-conoscenza. Questo però solo sul piano puramente gnoseologico. Perché invece, sul piano della metafisica teologica, egli (in pieno accordo con Agostino), parla del Cristo come “verità interiore” che continuamente ci istruisce e perfino risponde alle nostre domande [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 3-21].
Ecco allora che, invece di essere Amore, Dio è invece in primo luogo Causa primaria di tutto ciò che avviene nel mondo e nella Natura, quindi è alla radice di qualunque legge fisica specie sulla base delle primarie leggi semplicissime e razionalissime mediante le quali Dio agisce (le Leggi della comunicazione del movimento). Quindi Malebranche presuppone una causalità del tutto trascendente in una Natura che in ogni suo aspetto esprime l’azione di Dio – fino nei minimi dettagli, ossia fin dentro gli atomi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 59, p. 43, II, 65-66, p. 43-44]. Ecco quindi l’intelligenza intrinseca inseminata da Dio nella Natura ed agente in maniera in maniera assolutamente autonoma una volta messa in modo. Il risultato di ciò è una Natura dominata totalmente dalla volontà e dalle leggi del Dio-Causa, quindi una natura razionale in quanto divina ed insieme divina in quanto razionale.
Su questa base egli nega anche che l’anima (e non Dio) sia l’origine della vita, e quindi sgombra il campo da tutte quelle dottrine metafisiche che considerano l’animicità come equivalente alla vitalità degli esseri.
E ciò non è sorprendente per un razionalista, dato che l’anima esprima una dimensione irrazionale, istintuale e sentimentale, quindi l’esatto contrario della Ragione.
In campo fisico poi la sua visione al riguardo è estremamente radicale, dato che egli arriva a negare ogni meccanicismo (come quello cartesiano) nel sostenere che la causa del movimento del corpo non è affatto il movimento di un altro corpo (per mezzo dell’urto), ma è invece solo la Causalità divina assolutamente primaria. Anzi proprio su questo si basa famoso “occasionalismo” (detto anche “volontarismo”) da lui sostenuto – secondo il quale le “cause occasionali” (le effettive leggi immanenti della Natura) non producono alcun effetto se dietro di esse non spinge la Causa divina primaria. Per cui secondo lui è solo Dio a fare assolutamente tutto mediante la sua azione “sempre uniforme e costante”, e ciò a causa della sua “volontà immutabile” e delle sue “leggi inviolabili”. Per cui ciò elimina la rilevanza di ogni causalità naturale; dato che essa è totalmente subordinata alla Causa suprema. Ma Malebranche si spinge anche oltre passando dalla dimensione esteriore a quella interiore, e quindi sostiene che è inefficace da sola anche la nostra stessa volontà come causa, e che quindi l’anima imprima al corpo il movimento e vita.
Questi sono per lui tutti falsi principi che noi abbiamo desunto dai filosofi pagani (considerati come «autorità» incontestabile), ma che non hanno alcuna validità. Ed è chiaro che qui egli sta accusando Aristotele, ma in qualche modo ed in parte anche Platone, altro grande protagonista della dottrina dell’anima come principio di movimento e di vita. Però più in generale sta accusando il ben più vasto concetto pagano di «mondo divino» (mondo pregno di presenze divine), che trovò la sua espressione tanto in religione che nella metafisica filosofica. E ciò fino a sconfinare nella parte più teurgica del Neoplatonismo (Giamblico, Porfirio etc.) [Giuseppe Muscolino, Magia, stregoneria, teosofia e teurgia. La trasformazione del neoplatonismo, in: Giuseppe Girgenti, Giuseppe Muscolino (a cura di), Porfirio. Filosofia rivelata dagli oracoli, Bompiani, Milano 2011, p. CXVII-CCCXIX; Giuseppe Muscolino, “The Eastern Contaminations on the Porphyrian Thought in the Philosophy from Oracles: Magic, Demonology, Theurgy”, Medieval Sophia, 13 (2013) 126-139; “Giuseppe Muscolino, “Porphyry and Black Magic”, The International Journal of the Platonic Tradition, 9 (2015) 146-158].
Ecco allora che la definizione di Dio si raccorda in Malebranche alla sua estremamente specifica interpretazione del razionalismo metafisico. Che egli applica alla Natura nel sostenere che Dio è Causa e Ragione prima di essere qualunque altra cosa [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. In particolare egli sostiene che nel mondo non vi è in realtà alcun potere, nemmeno quello della volontà, per cui esso è in sé assolutamente immobile. E da questo scaturiscono conseguenze che riguardano anche la conoscenza del mondo stesso (che poi esamineremo più in dettagli). Questo perché per lui il corpo è in sé morto nonostante l’unione anima-corpo, a meno che Dio non voglia accordare il suo volere con il nostro. Ecco che ancora una volta il principio di movimento non è affatto l’anima, ma invece è di gran lunga antecedente ad essa, cioè è Dio. Pertanto “le creature non sono unite altro che a Dio, e non dipendono essenzialmente e direttamente da lui”, dato che esse sono per natura impotenti soprattutto perché non dipendono affatto le une dalle altre. Si tratta insomma di una modificazione del principio di “analogia entis” sostenuto da Tommaso, ed in virtù del quale veniva postulata la stessa dipendenza totale delle creature dal Creatore. Simile a Tommaso è anche il concetto di Provvidenza divina che da ciò scaturisce. Solo che esso è vincolato esclusivamente al principio di causalità. Infatti per Malebranche le creature sono dipendenti dal Creatore unicamente in forza delle leggi divine “per le quali egli regola il corso ordinario della provvidenza”. Per questo la Sua volontà spiega tutto prima. Ed esattamente per questo da ciò scaturiscono anche conseguenze conoscitive. Dio infatti è Colui che ha addirittura voluto che io avessi certe sensazioni ed emozioni nel mentre nel mio cervello si verificano simultaneamente certi movimenti. Ed ha voluto anche che le “modalità” dell’anima (termine che sta per «facoltà») fossero reciproche. E solo su questa base che si può secondo lui concepire l’unione anima-corpo − ossia solo come “reciprocità” delle parti di cui siamo composti, e pertanto in modo funzionale e non invece fisico e sostanziale. Però tutto ciò è solo il frutto dei “decreti” divini. Sono essi infatti che (in quanto costituenti totalmente l’anima) mi uniscono al mio corpo.
In tal modo si delinea quella mirabile “connessione” che Dio ha dato da sé stesso a tutte le sue opere, invece di aver prodotto delle “entità connettenti” (com’è l’anima rispetto al corpo).
E non pensarla così è per lui solo il frutto del nostro orgoglio, dovuto a sua volta all’impressione che l’azione dei corpi ha avuto su di noi. È insomma questo il prodotto del Peccato e della Caduta, le quali hanno nascosto “l’azione visibile del creatore” ed inoltre la “sapienza infinita della sua provvidenza ordinaria”.
Quindi egli dice che semmai l’anima è unita a Dio, dato che i decreti divini sono “i vincoli indissolubili di tutte le parti dell’universo e la connessione meravigliosa della subordinazione di tutte le cause”. E diremmo che qui traspare piuttosto chiaramente (non sappiamo però se solo indirettamente ed involontariamente) la dottrina plotiniana della «non discesa» dell’anima rispetto all’Uno divino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16, p. 1655-1661].
Ne consegue allora che assolutamente nulla è oggetto immediato della nostra conoscenza, ma solo tramite la Conoscenza e Ragione divina. Ecco che noi vediamo il mondo esteriore per mezzo dell’anima non direttamente, ma solo perché essa “contempla le bellezze del mondo archetipico e intelligibile che è nella ragione”. E qui si lascia chiaramente riconoscere la doppia dottrina del mondo delle idee come radice di ogni conoscenza (Platone) e quella dell’innatismo delle idee che era del resto già stata sostenuta da alcuni pensatori cristiani di osservanza platonica, come ad esempio Bonaventura.
Possiamo chiaramente vedere in tale contesto come il razionalismo metafisico della Natura di Malebranche si esprime proprio nel Dio-Causa. Ed in particolare possiamo scorgere nella mirabile “connessione” il perfetto meccanismo razionale che per lui è rappresentato dall’universo dominato da Dio in ogni suo minimo aspetto. Naturalmente il pensatore si sforza di dare anche una veste teologica a questa dottrina, interpretando la omni-valente e dominante Causalità divina come Provvidenza. Questo sforzo produce però un risultato molto poco convincente, perché l’immagine di Dio da lui presentataci resta quella di un Dio puramente metafisico, che è più un Principio razionale dell’Essere che non una Persona.
Non è un caso quindi che la sua dottrina finisca per raccordarsi al razionalismo divino più impersonale e gelido possibile. Infatti il suo razionalismo metafisico finisce per configurare un panteismo molto simile a quello di Spinoza [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Egli sostiene infatti che la sostanza divina è dappertutto e quindi è in definitiva immanente; e “non solo nell’universo ma infinitamente più in là”.
Tuttavia nessun panteismo può raccordarsi con la fede nell’esistenza di un Dio supremo che è Ragione e Causa. E quindi è evidente che egli può intendere il panteismo solo come contenimento del mondo in Dio.
Infatti egli dice che Dio non è affatto compreso nell’opera sua (ossia l’universo o mondo visibile), ma essa è invece compresa solo e soltanto in Lui, e quindi essa “sussiste nella sostanza che lo conserva con la sua efficacia e onnipotenza”. Quindi noi siamo totalmente immersi in Lui, ed è in lui soltanto che abbiamo vita e moto. Come dice l’apostolo (Paolo): “In ipso enim vivimus movemus e sumus”. Ecco dunque l’immagine di un Dio che (proprio essendo Causa primaria e dominante) è Vita per eccellenza. Egli è la Vita stessa della quale partecipiamo come viventi e nella quale esistiamo. Ed infatti Malebranche stesso sottolinea che si tratta anche di un panteismo che è anche (e forse soprattutto) “panenteismo”. Infatti, egli dice, dire “Dio è dappertutto” equivale perfettamente al dire che “tutto è in Dio” invece che «Dio è in tutto». Questo perché Egli eccede incommensurabilmente in grandezza il mondo, e quindi non potrebbe mai essere contenuto nel mondo stesso – come avviene nel più classico e semplicistico panteismo. Egli è infatti l’infinito stesso.
Dio, egli dice, non è né nel nostro giardino né nel cielo, ma è “tutto intero ovunque egli è”. Pertanto il concetto di «tutto in Dio» (che richiama alla lontana quello di «Dio è in tutto») significa in primo luogo che Egli è «sempre-tutto-intero» dovunque sia, in qualunque luogo limitato si trovi.
Di nuovo si affaccia qui quindi una suggestione teologica e perfino mistica. Si delinea infatti quel concetto di «in Dio» del quale fu protagonista Paolo, ma che trova un suo lontano riscontro perfino nel Vedantismo indù [Ananda K Coomaraswamy., La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017; Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007]. Ma le premesse filosofico-razionalistiche e gnoseologiche lo neutralizzano comunque totalmente. Specie perché il concetto di «in Dio» (nella sua piena autenticità) allude per definizione ad un riassorbimento totale dell’uomo in Dio che non ha alcun senso al di fuori del presupposto rappresentato dall’incommensurabile Amore in virtù del quale Dio ci vuole tutti per sé nonostante la nostra deplorevole finitezza. E questo è l’esatto contrario di un Dio che invece ama solo sé stesso e ci disprezza come creature indegne della Sua infinità. Questo però è il Dio del quale parla Malebranche.
In ogni caso va sottolineato che quella del possibile panteismo di Malebranche non è solo una vaga suggestione, bensi invece (secondo la studiosa Rome) sembra essere un tratto fondamentale del suo pensiero, tanto che esso è strettamente legato all’occasionalismo [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review),Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Infatti per la studiosa l’occasionalismo (basato appunto su Dio come Essere presente a tutti i livelli: trascendente e immanente) si basa su due principi: − 1) la nozione di creazione; 2) una causa occasionale non può agire in virtù di una relativa essenza e quindi essa semplicemente non agisce (anche se così ci sembra). Per cui in Malebranche la giustificazione degli esistenti non è affatto puramente idealistico-gnoseologica come in Cartesio (per relazione interiore tra idee), ma sussiste solo sulla base di una creazione spontanea che a sua volta deriva dall’auto-amore di Dio. Quindi la relazione tra Essere ed esseri non è per lui affatto logicamente necessaria. E quindi essa va conosciuta empiricamente e non deduttivamente. Pertanto il potere creativo di Dio va conosciuto solo a posteriori. Ne consegue che l’occasionalismo è “una giustificazione metafisica degli esseri” entro la quale tutto comincia non dall’Essere o dagli esseri, ma solo da entrambi. Ne deriva che l’ontologia di Malebranche sfugge completamente qualunque dicotomia tra ragione e sensi. In ogni caso, una volta così interpretato, l’occasionalismo del nostro pensatore non è affatto una dottrina che ponga la pura necessità intelligibile degli esseri creati (necessità puramente ideale indipendente dall’esistenza), ma invece prende pienamente atto della giustificazione della loro esistenza unicamente in base all’atto arbitrario della creazione. Solo che ritiene quest’ultimo l’atto di un Dio che non si limita solo a creare l’esistente, ma inoltre ne regola l’esistenza come infallibile Ragione e Causa.
In ogni caso ciò resta comunque in forte contrasto con un Dio d’amore, e quindi rappresenta un «in Dio» che non ha alcun autentico significato religioso. Infatti non si tratta affatto solo di questa scarsa autenticità teologica dell’«in-teismo». Perché con ciò finiamo per toccare l’estremamente controversa concezione del male secondo Malebranche, e quindi quella fortissima teodicea “vendicativa” che arriva ad essere addirittura cinica, gelida e violenta (e che Arnaud giustissimamente contestò). Da tutto quello che abbiamo detto, infatti, scaturisce che, qualora esistessero solo leggi naturali, in assenza dell’agire costante della perfetta e buona Causa divina che le governa con pugno di ferro, allora nel mondo esisterebbe indubbiamente solo il male. Il Bene sta dunque unicamente nel governo razionale che Dio esercita nel mondo. Non certo nell’Amore divino. Ma anche questo governo è inflessibile, dato che esso si disinteressa totalmente dal male circostanziale del mondo (catastrofi naturali, malformazioni umane, mostri etc.) in vista dei fini incontestabilmente positivi che comunque ci sono ma solo Lui vede [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 245-246, p. 69-70]. Infatti, le generali leggi semplicissime da Dio prescritte, si manifestano comunque (al fondo di tutto nella Natura) producendo così la stessa bellezza, ricchezza e fertilità del mondo: − crescita e produttività degli alberi, fertilità vegetale e animale, ed infine anche il certissimo riprendersi della Natura dopo la devastazione delle catastrofi. Insomma ovunque domina in definitiva più il Bene (che noi però non vediamo) che non il Male. Ed allora (dice Teodoro, il protagonista dei dialoghi di Malebranche): − “Nulla è più bello, più magnifico dell’universo che questa profusione di animali e di piante quale noi l’abbiamo riconosciuta. Ma credetemi nulla è più divino del mondo con il quale Dio ne riempie il mondo, nulla più divino dell’uso che Dio sa fare di una legge così semplice che sembrerebbe non essere buona a nulla”.
Eppure paradossalmente – sia pure con tutta la prudenza necessaria e nonostante l’evidente crudeltà della sua teodicea – si può dire che il fortissimo accento posto da Malebranche sull’Onnipotenza divina (quale sua quasi unica manifestazione nel mondo) faccia della sua dottrina religiosa una delle poche che si presti a concepire la piena legittimità del concetto di «aiuto divino», ossia l’intervento diretto di Dio nel mondo e nell’esistenza umana in chiara violazione delle leggi della Natura [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 104, p. 71, I, 178, p. 71]. E questo è del resto perfettamente plausibile in base a due presupposti filosofico-metafisici ed in parte perfino scientifico-naturali: − 1) Dio non è affatto separato dal mondo e dalla Natura; 2) il suo saldissimo ed esclusivo governo del mondo e della Natura non ammette deroghe, per cui la sua volontà è immediatamente connessa all’effetto. Insomma non c’è (crediamo) alcun filosofo che abbia osato sostenere che, se Dio proprio lo vuole, assolutamente nulla si può frapporre all’aiuto da Lui concretamente portato all’uomo nel suo dolore e/o nella sua sventura. Non a caso il pensatore francese concepisce il miracolo come uno dei pochi casi in cui la perfetta Causa prima si fonde così tanto nella sua azione con le cause occasionali da dare ad esse la precedenza. Infatti, egli dice, “quando Dio fa un miracolo e non agisce in conseguenza delle leggi generali che ci sono conosciute, io pretendo o che egli opera in conseguenza di altre leggi che ci sono sconosciute, o che ciò che egli allora fa è atto cui è determinato da certe circostanze che ha avute i vista da tutta l’eternità formando questo atto semplice, eterno, immutabile che inchiude le leggi generali della sua provvidenza ordinaria, e ancora le eccezioni di queste medesime leggi”. Ma del resto lui stesso è imbarazzato davanti a questo come filosofo, pur essendo costretto ad ammetterlo in forza dei principi da lui stesso affermati. Infatti fa dire a Teodoro che l’agire divino per “volontà particolari” sembra “così indegno di un essere immutabile e di una intelligenza che non ha confini” che c’è da essere sorpresi che i miracoli siano così comuni. E così sospetta comunque che il tutto possa essere solo effetto di superstizione.
Tuttavia ciò resta fortemente relativizzato dalla costatazione che il Dio di Malebranche è amoroso solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo) e sommamente perfetto nella sua razionalità. Insomma l’affermazione categorica del fatto che Egli ama sé stesso è una delle più forti affermazioni della dottrina di Dio come «causa sui»; che pure era stata già presente nella metafisica religiosa sia pagana che cristiana. Ed è del tutto plausibile quindi che questo venga oggi fortemente contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale. Non vi è dubbio che essi abbiano perfettamente ragione in questo. E questo viene fortemente evidenziato da uno dei passaggi delle CC [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31]. Qui infatti Teodoro afferma che noi tendiamo erroneamente ad applicare la nostra fallace logica alla volontà divina. Eppure essa è immutabile esattamente come la sua legge, dato che esse sono identiche alla sua “sostanza”. Dato che “Dio agisce sempre secondo la sua sostanza senza smentirsi mai”. Inoltre “si compiace di essere com’è” (ossia ama solo sé stesso), [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit.,]. e per questo la sua creazione è destinata unicamente a mostrare sempre Lui e solo Lui. Essa è insomma totalmente indifferente alla creatura umana. L’uomo invece non può agire secondo la sua natura perché essa è corrotta e soggetta ad errori. Ecco allora che il Dio di Malebranche è amoroso solo molto relativamente, ossia solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo e sommamente perfetto nella sua razionalità. Questo viene contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale.
Lo stesso discorso si applica al tema della relazione tra Dio come infinito e quella creatura che, essendo finita, è (secondo Erasto) un “nulla” esattamente quanto lo può essere un granello di sabbia rispetto all’immensità del globo terrestre [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 32-33].
Teodoro gli fa eco affermando che Dio agisce solo attraverso la sua volontà, per cui ogni sua azione è ispirata all’amore che porta solo ai propri attributi, specie l’infinità (suo attributo tra i più essenziali). Per questo Egli non poteva prevenire il peccato di Adamo, ma bastava invece appena dotarlo di “qualità eccellenti” come la libertà di amare. Però solo al fine di poter poi meritare la giusta ricompensa; e quindi non per il valore da attribuire all’amore ma solo per il valore da attribuire alla giustizia distributiva. Ecco insomma delinearsi un aspetto fondamentale della Preveggenza o Provvidenza divina. E questo è accaduto perché la Sua perfezione infinita (il compiacimento di sé) non rendeva necessario interessarsi del finito se non per mettere in evidenza la perfezione della sua preveggenza (che è attribuzione all’uomo dell’amore per il bene nonostante il suo così squalificante Peccato). Dio infatti non era certo interessato al culto di una creatura finita che è nulla. Si conferma insomma qui che l’uomo per Dio è solo un nulla, mentre l’unica cosa che Egli ama è solo sé stesso. Per cui Egli non considera affatto importante la sua creatura rispetto a sé stesso. Ecco allora diventare chiaro che, nella sua creazione del Primo uomo, Egli stava già pensando al secondo Uomo e secondo Adamo (Cristo) ed inoltre alla sua Chiesa. Insomma “…il suo fine non riguarda l’uomo terrestre, l’uomo profano allo stato di natura”. Egli si compiace solo invece dell’uomo-dio, e precisamente di quello davvero integrale (in quanto esclude totalmente l’uomo), cioè Cristo. Ecco perché, allora, Dio non si è mai pentito di aver fatto l’uomo (dato che Egli guardava molto più lontano). Cosa del resto impossibile a causa della sua immutabilità. Allo stesso modo Egli non si è pentito di aver fatto la Legge ebraica. Ecco perché non aveva bisogno di prevenire il peccato di Adamo avendogli donato “in anticipo tutte le grazie e qualità convenienti alla natura umana”. Lasciando peccare Adamo, Egli insomma guardava già al Figlio. Insomma si può ancora una volta dire che Dio è amoroso solo unicamente dall’alto e nella più assoluta perfezione razionale − in quanto ama la sua perfezione ed infinità in virtù della quale prevede tutto infallibilmente. Il suo amore per l’uomo è pertanto in realtà amore per sé stesso, unito al disinteresse per una creatura che per Lui è nulla.
A ciò va inoltre aggiunto che anche, nel contesto di questo discorso, Dio viene presentato da Malebranche come la causa di tutto ciò che avviene nella più ordinaria fisica, ossia nel pieno contesto delle leggi naturali. Anch’esse pensate solo come manifestazione della sua perfezione e non certo a favore dell’uomo. Ed ecco quindi che emerge di nuovo la gelida spietatezza della sua teodicea, entro la quale è perfettamente contemplata la ferocia delle leggi naturali.
Insomma, in estrema sintesi, tutto ciò significa che il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore. Eppure qui ci troviamo nel contesto di quelle che egli chiama “conversazioni cristiane”.
Il che appare essere davvero mostruoso.
Ma del resto ciò si spiega molto bene con il fatto che, così come il nostro pensatore in metafisica rifiuta sdegnosamente l’autorità degli antichi (e perfino quella di moderni come Cartesio), in religione rifiuta l’autorità della Rivelazione e talvolta perfino dei Padri della Chiesa. E questi lo porta ad affermazioni teologiche estremamente radicali che spesso sfiorano molto da vicina l’astrusità e l’assurdità.
Non a caso [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit. Dialogo V p. 89-90I] egli afferma che, a causa della caduta dell’intera umanità nel disordine (a causa del Peccato trasmesso da Adamo per via addirittura generativo-genetica a tutte le generazioni umane successive), “tra Dio è l’uomo esiste un’inimicizia”. E questo per un fatto più ontologico che non morale, ossia per qualcosa che risiede nella sostanza dell’uomo senza che egli ne sia nemmeno responsabile fino in fondo, cioè perché in sé i corpi non sono sottomessi allo spirito. È per questo che l’uomo, del tutto incapace di auto-controllo, è anche del tutto capace di un peccato che poi consiste soprattutto nelle passioni carnali ossia nella tendenza al piacere. E non è in alcun modo capace di tenersi lontano da questo peccato. E così, egli dice, legge dello spirito e legge del corpo sono radicalmente in conflitto tra loro. E lo stesso accade tra l’uomo interiore e all’uomo esteriore. Ma quando ci si chiede come sia possibile ristabilire l’ordine, egli risponde che non ci può affidare né alle dottrine dei filosofi pagani né nemmeno a quelle di cosiddetti “deisti”, ossia coloro che si basano solo sul valore della Rivelazione e non invece su quello della Ragione. Quello di Malebranche è insomma una specie di anti-teismo ante litteram e quindi appare essere ancora una volta (in forte anticipo) in sintonia con le prese di posizioni dei moderni ricercatori cristiani che in Teologia si affidano non solo alla più laica filosofia (specie gnoseologica) ma anche alla scienza sperimentale stessa. Tuttavia ciò viene fortemente relativizzato da quello che il pensatore dice dopo. Dato che egli dice che questi “deisti” (con i quali forse egli intende i monoteisti non cristiani, ossia Ebrei ed Islamici, oppure forse anche i cristiani più legati all’idea di un Dio unicamente Trascendente e quasi biblico, come ad esempio i più radicali tra i protestanti) non ammettono un Mediatore che riconcili gli uomini a Dio. E questo Mediatore è Gesù Cristo.
Tuttavia ciò avviene attraverso “l’eccellenza del suo sacrificio”, unito al suo Sacerdozio (in virtù del quale può intercedere presso Dio invocando la Sua Misericordia ed il anche il Suo aiuto agli uomini) ed infine unito al Suo potere di inviare su di noi lo Spirito Santo. E fin qui tutto bene. Ma questo accade secondo lui per un motivo più profondo, e cioè per una dignità di persona che Malebranche non accorda affatto all’uomo, che è poi l’unica cosa che lo ha reso degno del supremo sacrificio, ossia la Croce. Egli dice infatti che “è necessario che una vittima più degna di tutte le creature della grandezza e saggezza di Dio subisca il colpo che doveva renderli eternamente infelici” – rendere gli uomini felici. Ed è solo per questo che Cristo “è il vero figlio di Dio che può farci accettare come suoi figli adottivi”. Infatti il Creatore ha fatto tutto per suo Figlio ed attraverso di Lui. Ha creato uomo e mondo solo per questo scopo. Che poi altro non è se non la sua Gloria. Non a caso manca qui totalmente l’accento posto sulla principale motivazione del sacrificio di Cristo (che è poi il Padre stesso, cioè Dio, grazie alla relazione uni-trinitaria), e cioè un incommensurabile amore. Quell’amore per il prossimo che Gesù aveva insegnato nel Vangelo come la più alta delle virtù dell’uomo convertito al Regno dei Cieli. È l’amore in nome del quale Dio (in Cristo) si spoglia totalmente della sua perfezione e della sua trascendenza, trasformandosi non solo nell’ultimo degli uomini, ma accettando anche le umiliazioni ed i tormenti più inconcepibili. Un Dio che è suprema Ragione non avrebbe mai agito così. Intanto però è chiaro che, grazie all’unità trinitaria, il Padre non comanda solo al Figlio. ma è anche identico a Lui. Quindi chi scende sulla terra per subire alla fine l’onta della Croce è Dio-Padre stesso.
Quanto poi agli uomini essi (almeno in via di principio) meritano solo per il Dio di Malebranche solo la punizione. E quest’ultima (nel contesto della crudeltà della sua teodicea) va peraltro da loro pienamente accettata proprio perché punta a fini decisamente buoni. In altre parole, se fosse stato solo per l’uomo, Dio non avrebbe nemmeno richiesto il sacrificio riparatore del Suo Figlio. E quindi, se dagli eventi congiunti di Incarnazione-Croce-Resurrezione è scaturita l’umano-divinità, questo non è avvenuto affatto perché Dio ha amato talmente l’uomo da volerlo simile a sé. È accaduto invece solo perché Egli ama unicamente sé stesso. Mentre invece non ama in alcun modo l’uomo.
Questo disprezzo divino per l’uomo ha poi anche precisi risvolti gnoseologici negativi degli altrettanto negativi aspetti ontologici [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 107-110]. Tipica dell’uomo, secondo Malebranche, è infatti la pretesa di perseguire la verità mediante prove astratte e ragionamenti basati su una ragione completamente svincolata da quella divina, e così si allontana da Dio e dalla fede. Il che sottolinea peraltro che a fede per Malebranche è un’esperienza unicamente filosofica e astratta entro la quale l’amore non ha quasi alcun posto. Ma, pur restando in questo contesto gnoseologico ed astratto, egli si spinge ancora più oltre nel negare addirittura che Dio voglia la relazione dell’uomo con Lui. Ed in termini più specificamente filosofico-religiosi ciò si giustifica perché Dio è Spirito per eccellenza e quindi soltanto “vuole essere adorato in spirito e verità”. La relazione con Dio deve essere quindi sostanzialmente di adorazione per un Essere che si considera irraggiungibilmente superiore a sé stessi in quanto uomini. E per questa adorazione non serve affatto il corpo ma serve invece una “disposizione totale” dello spirito nei Suoi confronti. Non bastano quindi affatto i semplici movimenti dell’anima (cioè i sentimenti) o anche i giudizi degni da essa espressi. È vero però che lo spirito umano è capace di conoscere e volere. Ma è assolutamente necessario che esso lo faccia allo stesso modo in cui Dio conosce ed esprime le sue volontà. Pertanto, egli aggiunge, prima noi dobbiamo esaminare il giudizio che Dio esprime rispetto a sé stesso e poi dobbiamo considerare ciò che siamo rispetto a lui, cioè delle creature finite che non valgono un soldo bucato. E tali siamo anche per Dio stesso. Insomma ognuno dei due sa molto bene cos’è. Infatti Egli sa di essere infinito mentre noi sappiamo molto bene di essere finiti. E pertanto Egli sa che ciò che è limitato in quanto individuo equivale al nulla. E così deve essere considerato. Ecco che Dio ci giudica del tutto inadatti a qualunque relazione con lui. Ma intanto, dice Malebranche, può aver creato universo ed intelligenze solo desiderando che si uniscano a Lui nel constatare la sua Gloria. E quindi ha previsto il culto degli uomini per compiacerlo. Il che nuovamente equivale all’esprimere lo stesso giudizio che Egli emette su sé stesso. Il culto di Dio (ossia la vita liturgica stessa della Chiesa) non è altro che puro rispetto.
Intanto l’adorazione di Dio è possibile (per le ragioni prima discusse) solo attraverso il Mediatore. Ed in questo consiste il Cristianesimo. Ma a ciò egli aggiunge che è allora del tutto logico il fatto che solo fuori del Cristianesimo l’uomo attribuisce a sé stesso un valore.
A questo punto emerge in modo lampante che non solo in Malebranche (come rigoroso filosofo) manca totalmente il rispetto verso la Rivelazione cristiana (la quale non afferma affatto ciò che afferma lui) ma manca totalmente anche il rispetto verso quella Rivelazione che è ben più ampia e profonda di quella cristiana, ossia la cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale (SSOP), ossia la Scienza divina stessa – la cui esistenza e definizione è stata sottolineata da vari Autori, dei quali qui citiamo solo alcuni [René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 15-59; Swami Sri Yukteswar, La scienza sacra, Astrolabio, Roma 1993, p. 31-57; 107-117; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988; George Vallin, La prospettiva…cit.; Marsilio Ficino, Disputa contro il giudizio degli astrologi, in: Ornella Pompeo Faracovi (a cura di), Marsilio Ficino. Scritti sull’astrologia, Fabbri, Milano 1999, p. 63]. Entro tale Rivelazione, infatti (che corrisponde peraltro a molte forme di Sapienza pre-cristiana, include anche la stessa Cabbala ebraica e giunge perfino nel pieno del pensiero dei Padri greci della Chiesa), non solo la dignità umana viene ritenuta indiscutibile ma inoltre viene chiaramente concepito il valore dell’uomo come paradigma dell’Essere stesso, ossia come Uomo prototipico. Ecco dunque davanti a noi il Pananthropos, il Macroanthropos e l’Adam Kadmon [Giovanni Reale, Roberto Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in: Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011, V, II p. LXXXIX-XCIV, V, VII p. CII-CV, VI, p. CXII-CXXIV; Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibd. XXI-XXII, 64-68 p. 37-39, XLIII-LII, 128-150 p. 65-75; Filone, Le allegorie delle leggi, ibd. III, LVI-LXXII, 162-178 p. 253-259; Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, 1, 48-56, p. 389-397; Ilaria Ramelli, La dottrina dell’apocastasi eredità origeniana nel pensiero escatologico del Nisseno, ibd., I, 4 p. 751-803; Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre & Frederick Tristan (a a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 79-172; Jean Libis, L’Androgino e il Notturno, ibd., p. 11-32; Elemire Zolla, L’Androgino alchemico, ibd., p. 173-200; Giulio Busi ( a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 32-36, p. 64-79, p. 113-114, p. 119-125; Libro dei consigli di Zarathustra, in : Alessandro Bausani (a cura di), Testi religiosi zoroastriani, Edizioni Paoline, Roma 1964, p. 30; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 133-148; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-41].
Ma basterebbe solo una delle affermazioni sull’uomo a parte “Corpus Hermeticum” per provare questo fatto senza ombra di dubbio: − Perciò, o Asclepio, l’essere umano è un grande miracolo, un vivente degno di rispetto e di onore. Esso infatti passa alla natura di un dio, come se egli stesso fosse un Dio; conosce il genere dei demoni, in quanto sa di essere sorto insieme a loro, dalla stessa origine; disprezza in sé stesso, la parte dotata di sola natura umana, poiché ha riposto la propria fiducia nella divinità dell’altra parte. Di che felice mescolanza è composta la natura umana! È unita agli dèi poiché, grazie al suo carattere divino, è ad essi imparentata, mentre disprezza quella parte di sé che la rende terrena […] È situato, dunque, in una posizione intermedia tanto felice da amare gli esseri inferiori ed essere amato a sua volta da quelli superiori. Coltiva la terra, si mescola agli elementi grazie alla velocità del suo pensiero, discende nelle profondità del mare con l’acutezza della sua mente. Tutto gli è lecito: nemmeno il cielo gli sembra troppo alto, poiché lo misura da vicino, per così dire, grazie alla sagacia della sua mente. Nessuna nebbia dell’aria offusca l’attento sguardo del suo animo; la densità della terra non riesce a impedire la sua opera; la profondità abissale delle acque non smussa il suo sguardo, che in essa penetra. Esso è tutte le cose e dovunque al contempo” [Asclepio. Questo Asclepio per me è come il sole. Di Ermete Trismegisto. Libro Sacro dedicato ad Asclepio, in: Ilaria Ramelli, Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2016, 4-8 p. 521-527]. Del resto entro il pensiero di Meister Eckhart il valore dell’uomo era stato affermato con una forza straordinaria proprio come nucleo profondo dell’umano-divinità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 14-17 p. 71-74, Prol., 10-14 p. 87-91; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 5-13; ibd. Predica 2 (Q 24), p. 17-27]
Insomma, di fronte a tradizioni e pensieri così poderosi, il concetto di disprezzo di Dio per l’uomo secondo Malebranche diviene assolutamente insostenibile.
Tutto ciò si significa allora che l’epistemologia davvero estrema di Malebranche è giustificata senz’altro dal fatto di avvenire dentro la stessa Ragione divina, ma anche dal fatto che il potere intellettuale umano è davvero di grande portata. E questo egli pretende di dimenticarlo completamente.
Pertanto con queste idee aberranti Malebranche è decisamente fuori squadra non solo rispetto alla Rivelazione ed al pensiero cristiano ma ancor più nei termini di un’autentica filosofia religiosa. E del resto questo fu il rischio corso dall’intera metafisica razionalista post-cartesiana.
Non a caso poco più avanti le sue argomentazioni filosofiche a sostegno del Cristianesimo finiscono per diventare addirittura teologicamente del tutto sconclusionate proprio per quella logica lacunosa, astrusa e contraddittoria della quale abbiamo già parlato nell’Introduzione [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 110-126]. Infatti, dice Teodoro, per adorare Dio “in spirito e verità” non è necessario soltanto pensare come Lui (Ragione), ma anche volere come Lui (Fede-Opere). E qui viene richiamata la polemica tra Paolo e Giacomo (Chiesa cristiana di ispirazione giudaica ed in parte gnostica) rispetto al valore che ha la carità (opere) rispetto alla pura fede in linea a sua volta con la Legge. Ovviamente si conclude per il pari valore di questi due diversi atti della vita cristiana. Ma Malebranche non si accontenta affatto di questo e si chiede quindi se la morale cristiana ci insegni proprio questo. E così afferma nuovamente che Dio si compiace solo di sé stesso, e quindi si compiace delle creature soltanto “nella misura in cui partecipano del suo essere”.
E sottolinea così con forza straordinaria solo il primo dei Comandamenti: − «Amerai il Dio tuo più di te stesso». Ecco quindi da parte dell’uomo un amore che non è certo infinito, ma che comunque non conosce limiti perché preferisce Dio alle cose, considerando esse come un nulla. Ecco perché, dunque, dato che gli altri uomini sono “della loro stessa natura”, li si può amare come sé stessi (amore del prossimo). Ed ecco quindi la carità. Ma questo per Malebranche non è affatto il punto. Il punto consiste invece nel pensare e volere come Dio fa e vuole. E quindi ancora una volta l’amore agapico (ossia il nucleo più intimo del Cristianesimo) diviene del tutto secondario a fronte di un Dio che in primo luogo è assolutamente perfetta Ragione universale.
Sullo stesso tenore si muove poi il tentativo di Malebranche (per bocca di Teodoro) di spiegare gli apparenti «scandala» delle Scritture ed in particolare del Vecchio Testamento. Si tratta in particolare della spiegazione del fenomeno del tutto non naturale della pioggia di manna che accompagnò l’esodo del popolo ebraico. Che gli scettici ritengono naturalmente una mera favola. Ebbene, la conclusione del pensatore al riguardo è che invece solo appellandosi a Dio come Ragione universale si possano comprendere, spiegare ed accettare fenomeni come questi. Infatti egli afferma che Dio ha compiuto questi miracoli proprio affinché noi lo conoscessimo esclusivamente per la via della ragione. Il che significa che per lui nella Rivelazione cristiana non vi è la benché minima traccia di misteri.
Abbiamo già parlato di come egli veda la figura di Gesù Cristo in CC, ma vale la pena si soffermarsi di più su questo tema, dato che abbiamo già detto che (grazie all’unità uni-trinitaria) Cristo è Dio stesso.
Quindi parlando della sua definizione da parte di Malebranche stiamo ancora parlando della definizione di Dio.
Ebbene per Lui Cristo è il Maestro (ossia la verità interiore che incessantemente ci istruisce) solo in quanto, esattamente come Dio, è ancora una volta la Ragione universale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I-II p. 3-43]. Cristo è insomma la stessa Sapienza divina che genera in noi le idee che ci permettono di conoscere il mondo sensibile. Solo in questo senso Egli è il Maestro. Non un Maestro di verità etiche ma invece un Maestro di verità gnoseologiche. Ossia è solo in questo senso la “verità interiore”. Egli è insomma (come Dio) la Ragione che ci permette di conoscere veridicamente le cose. Dunque è un’entità gnoseologica.
Altre idee circa Cristo (e ovviamente circa Dio) si ritrovano poi in TNG, libro che serve sostanzialmente l’idea di teodicea che Malebranche sviluppò e non caso fu scritto in risposta alle obiezioni di Arnaud e più in generale al Giansenismo [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
Arnaud aveva sostenuto infatti che non è un vero provvidente un Dio che di fatto si disinteressa del male come avviene chiaramente in Malebranche. E Black dice che questa polemica toccava comunque l’occasionalismo (o volontarismo di Bas van Fraassen) in quanto idea secondo la quale, essendo Dio l’unica Causa di tutto, le cause occasionali agiscono solo se in concordanza con questa Causa suprema.
Dunque gli argomenti circa Cristo e Dio che ritroveremo in questo libro stanno in stretta connessione con la spietata teodicea di Malebranche. Quindi si può dire già in partenza che sono idee religiosamente, teologicamente ed eticamente negative.

È del tutto ovvio quindi che ritroviamo qui una visione che corrompe l’idea di Cristo in quanto unico fine della Gloria divina (in stretta concorrenza con l’uomo), e quindi rende la creazione un atto divino narcisistico invece che di donazione kenotica di sé [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXVI p. 85-91].
Per Malebranche, infatti, la ragione sottolinea l’assenza totale di relazione che vi è tra l’imperfezione delle creature e il più che perfetto progetto (ossia l’infallibile piano divino previsto dalla teodicea) per mezzo del quale esse vengono prodotte. E ciò a causa del loro limite ontico. Assolutamente insuperabile. Quindi la ragione ci dice che è impossibile che Dio abbia fatto l’uomo per esserne onorato, cosa che è palesemente inficiata dal grandissimo numero di coloro che lo disonorano. Pertanto la concezione della creazione come perfetta (in quanto avente come fine l’uomo) viene a mancare totalmente se non si suppone che essa puntava invece solo al Figlio.
Tuttavia poco dopo Malebranche afferma che l’opera di misericordia di Dio si incentra nel Peccato umano perché solo così gli uomini avrebbero potuto sperimentare la Sua esistenza. Ma ciò è contraddittorio perché il pensatore ci ha spiegato finora a sufficienza che Dio aveva invece previsto il Peccato e lo aveva anche salutato come possibilità per far emergere il vero scopo della sua creazione, e cioè Gesù Cristo come Redentore. Questa idea sembra dunque stare in forte contrasto con l’idea che Cristo sarebbe stato creato solo per la Gloria ed onore di Dio. E ciò è a nostro avviso solo uno dei molti esempi delle contraddizioni logiche che affliggono la dottrina di Malebranche. In ogni caso immediatamente dopo il pensatore afferma che, se non fosse vero tutto questo, Dio avrebbe lasciato Adamo nella perfezione, caratterizzata dall’assenza di concupiscenza. La sua Caduta si giustifica quindi solo nel fatto che voleva risollevarlo in Gesù Cristo. Questa idea, dunque, non solo aggrava le contraddizioni rilevate prima, ma inoltre razionalizza il Peccato e la Caduta così annacquando e banalizzando il mistero che esse invece rappresentano.
Ci ritroviamo quindi di fronte ad un nuovo attentato di Malebranche ai misteri cristiani in nome della balzana idea che Dio sarebbe in primo luogo la Ragione universale.
E a questo si aggiunge peraltro un’ulteriore argomentazione che basa l’esistenza di Gesù Cristo sul ribrezzo invincibile che Dio proverebbe per l’uomo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, II-VII p. 109-112].
Tale argomentazione giunge alla fine di una lunga argomentazione per mezzo della quale il pensatore cerca di saldare la riflessione sull’Ordine della Grazia con quella sull’occasionalismo.
Egli dice infatti che, siccome gli uomini sono avvolti nel peccato, e per giunta sono anche creature largamente inferiori a Dio, solo per Gesù Cristo (unica Persona caratterizzata da dignità e santità) e soprattutto per il suo sacrificio, noi possiamo riconciliarci con Dio ed avere così accesso alla Grazia. Grazia che quindi sarebbe condizionata, e non invece del tutto incondizionata, come invece il puro sacrificio d’amore di Cristo lascerebbe pensare. Eccoci insomma di nuovo davanti ad una inaccettabile negazione dell’Amore quale attributo primario della Persona di Dio. Quindi per lui Gesù Cristo è causa della Grazia in quanto è Causa generale al pari di un Dio assolutamente perfetto e razionale. Malebranche dichiara però di cercare ciò che “regola e determina l’efficacia della causa generale” ossia “causa seconda, particolare, occasionale”.
Ebbene, la causa seconda o occasionale determina per lui l’efficacia delle leggi a loro volta poste costantemente in relazione con la Causa generale. Così come l’urto dei corpi determina l’efficacia delle leggi del movimento. Altrimenti non resterebbe altro che l’intervento di Dio con volontà particolari. cosa che egli ritiene però inammissibile. È per questo, dunque che le leggi dell’unione anima-corpo sono rese efficaci dai mutamenti che hanno luogo nell’una e nell’altro. Ma essi (nascostamente e alla lontana) vengono comunque causati direttamente da Dio e non dalla Natura. E di questo si occupano quindi le leggi della Natura senza (apparentemente) l’intervento della volontà particolare di Dio. Pertanto anche nell’Ordine della Grazia vi deve essere qualche causa occasionale che esprima le leggi al fine dell’efficacia.
E questa causa per lui va scoperta.
L’argomentazione che serve a questo scopo è la seguente. Sia nell’ordine sensibile che in quello intelligibile le cause occasionali sono in rapporto con il fine per il quale Dio istituisce le leggi stesse che regolano ogni cosa. E questo determina la presenza o assenza di relazioni necessarie tra eventi dell’universo sempre solo secondo l’Ordine stabilito da Dio (esempio: il corso dei pianeti in relazione ad un mal di denti oppure ad un banale movimento del braccio) Ciò significa che per lui ciò che è ragionevolmente reale è del tutto verosimile nella Natura.
Intanto il fine di Dio è comunque quello unire anima e corpo e quindi di determinare sentimenti nell’anima solo quando nel corpo si verificano alcuni mutamenti. Quindi secondo lui è nel corpo e nell’anima che bisogna cercare le cause occasionali.
Questo però non basta. Perché intanto la primaria volontà di Dio era quella di formare la sua Chiesa mediante Gesù Cristo, e quindi Egli ha potuto cercare solo in Lui le cause occasionali. Pertanto le ha cercate nelle creature unite a Lui quali membra del Corpo alle quali lo “Spirito di Gesù Cristo” trasmette la sua vita e santità. In tal modo la “pioggia della Grazia” non cade su di noi nel contesto dell’Ordine cosmico retto dalle leggi naturali, dove dominano effettivamente solo i corpi; laddove poi i corpi suscitano nell’anima solo “sentimenti puramente naturali”. La pioggia della Grazia cade invece su di noi unicamente secondo lo stesso Ordine della Grazia e soltanto entro il suo ambito.
Intanto però neppure i nostri desideri sono cause occasionali della Grazia. Essa infatti non ci viene concessa quando vogliamo e a volte viene addirittura concessa proprio a chi non la vuole. Ed in effetti i desideri rientrano in cause che hanno certamente il loro effetto. “Le leggi generali che diffondono la grazia nei nostri cuori non trovano dunque nelle nostre volontà nulla che determini la loro efficacia” come invece accade infallibilmente nell’Ordine naturale retto dalle leggi della Natura.
Ecco allora che per lui l’Ordine della Grazia è radicalmente opposto all’Ordine della causalità naturale
E quindi, sulla base di tutto questo, solo Gesù Cristo può procurarci e soprattutto “meritarci” la Grazia.
Dato che la causa dell’efficacia delle leggi naturali (nella loro subordinazione alle Leggi generali divine) non risiede affatto in noi.
Eccoci insomma nel complesso di fronte ad un’ulteriore razionalizzazione naturalistica di una verità altamente teologica e di un sublime mistero divino. La concessione della Grazia starebbe infatti per il pensatore in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo (leggi che in primo luogo reggono la dimensione fisica del cosmo, cioè il movimento in generale). Inoltre l’intera argomentazione appena esposta (come forse il lettore avrà giù notato) contiene notevoli e veri e propri salti logici (specie dalla Filosofia della Natura alla Teologia) ed ai quali Malebranche pone rimedio del tutto arbitrariamente, così che esse restano pochissimo convincenti.
Infine dalla definizione di Cristo passeremo nuovamente alla definizione di Dio come si ritrova in TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., XXII p. 82-83]. E qui di nuovo la definizione di Dio si rinsalda con la sua teodicea. Egli sostiene infatti che, molto in generale, l’aver predisposto un mondo che marcia praticamente da solo secondo le semplicissime ed universali leggi della comunicazione del movimento (e senza l’intervento di volontà particolari, se non in casi rarissimi), indica che Dio “desidera che tutte le sue creature siano perfette”. Per cui non vuole gli effetti indesiderati e il male (bambini che muoiono o nascondo deformi, mostri, catastrofi etc.). Insomma Egli non ha affatto creato il mondo perché questo accada. Ma intanto se intervenisse con volontà particolari – dato che, per evitare questi effetti, non c’è altro modo che far deviare il progetto avviato originariamente da Dio (e che conteneva anche questo) − ciò contraddirebbe la Sapienza originaria del suo progetto, ossia il famoso infallibile piano divino. Ed ecco dunque un altro debolissimo, ed anche non poco cinico (se non ipocrita), artificio argomentativo per giustificare il male, ma sempre in nome della perfezione del proposito (Sapienza), cioè in nome della Perfezione di Dio quale aspetto essenziale primario della sua essenza. Il che esclude di nuovo totalmente l’Amore quale primario attributo divino.
Eccoci insomma di nuovo tremendamente delusi come fedeli e credenti. Quelle considerazioni sulla Grazia che avrebbero dovuto dare forza e fondamento all’intendimento di Dio come Amore fanno invece l’esatto contrario, e cioè non fanno altro che rinsaldarsi agli aspetti filosofico-religiosi ed etico-religiosi peggiori del pensiero di Malebranche, ossia l’intendimento di Dio come una gelida e indifferente Ragione universale (peraltro narcisisticamente innamorata solo di sé stessa) e la postulazione di una teodicea che è in fin dei conti totalmente indifferente al male mondano ed umano in nome della sola perfezione indiscutibile del progetto di questo Dio unicamente metafisico-razionale.
E la cosa peggiore è che in questa visione viene coinvolta anche la Persona di Cristo, ossia quella dovrebbe essere la più chiara manifestazione di un Dio che è unicamente Amore.

La teodicea di Malebranche (sezione 2).
Era inevitabile che questo aspetto venisse già trattato (nelle sezioni precedenti) nel tentare di dare al lettore un’idea della definizione di Dio e di Cristo che Malebranche ci offre. Per cui non dovremo qui soffermarci su aspetti che abbiamo già trattato. Ma seguiamo comunque l’ordine espositivo che abbiamo già seguito nell’esaminare una dopo l’altra le tre opere PM, CC e TNG.
La postulazione più diretta della teodicea sta in PM nell’intendimento di Dio come protagonista del governo inflessibile oltre che sapiente (cioè impeccabilmente giusta) del mondo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 130, p. 67-68]. Malebranche sottolinea infatti l’impeccabile giustizia con la quale Dio governa il mondo nonostante la schiacciante evidenza del male. E questo si spiega perché Egli è immutabile, nonostante gli eventi catastrofici (ma sempre solo occasionali) che sembrano contraddirlo. Essi infatti denotano solo il deplorevole divenire, e quindi non indicano per davvero il cambiamento nella causa che li produce.
Dato che il divenire non è altro che una mera apparenza dell’essere. Quindi bisogna prendere atto del fatto è che “Dio segue inviolabilmente le medesime leggi”, ed inoltre che “la sua condotta non ha alcuna relazione con la nostra”, sottomessa come essa è fatalmente e tragicamente alla dimensione del divenire che caratterizza il mondo. Quindi se c’è male nel mondo ciò è dovuto in primo luogo al divenire dell’essere terreno ed in secondo luogo alla libertà dell’azione umana, la quale a sua volta si lascia passivamente sottomettere al divenire. Intanto però nella Causa suprema delle universali e perfette Leggi dell’essere non c’è alcuna contraddizione.
Ora, come abbiamo già accennato, noi non sappiamo (per nostra ignoranza) se il pensiero di Malebranche si rifaccia in tutto questo a certa metafisica teologica pagana di stampo fortemente platonico e soprattutto neoplatonico. Ma da quanto abbiamo appena detto sembrerebbe senz’altro di si. Infatti questo concetto di impeccabile governo del mondo, nonostante il male, richiama molto da vicino i concetti pagani del Fato come indifferente ma sapiente «giustizia distributiva» − manifestato dalle varie entità divine ritenute responsabili di questo, e cioè “Adrastea”, “Dikè”, “Heimarmené”, “Themis”, “Anánke” e perfino la raccapricciante e violentissima “Nemesis”, della quale Proclo ha diffusamente parlato [Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, VI, 23, 100-109 p. 991-1005]. Del resto l’etimologia stessa del termine «teo-dicea» si rifà espressamente a “Dikè” cioè l’implacabile Giustizia divina in forma di legge governante gli enti cosmici. E peraltro anche la dottrina stessa di relazione tra causa ed effetto richiama in Malebranche la dottrina di Proclo [Proclo, Elementos de teologia, Buenos Aires:Aguilar 1975, 7-39 p. 28-60, ibd. 56-65 p. 70-79,75-86 p. 87-95].
Insomma il concetto di teodicea è di per sé molto sospetto. E forse proprio perché tende a razionalizzare fortemente un profondo ed insondabile mistero divino.
Ma comunque ci chiediamo cosa mai questo abbia a che fare con il Cristianesimo. Ma siccome la teodicea ha avuto come protagonista anche un altro grande esponente della metafisica razionalistica cristiana, ossia Leibniz, questa perplessità va estesa anche a lui. E l’unica spiegazione di questo sta secondo noi nella soggezione passiva di questi pensatori cristiani a quella rigorosissima e gelida esattezza matematica che Cartesio aveva introdotto non solo nella filosofia ma perfino nella metafisica cristiana.
Insomma si è portato a chiedersi se Malebranche (nonostante la sua manifesta avversione per il pensiero antico) non abbia in qualche modo subito influssi metafisico-religiosi di stampo pagano.
In ogni caso a ciò vanno aggiunte le ulteriori, ed ancora più ciniche ed inquietanti, considerazioni de nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 225-226, p. 68-69]. Dio, egli dice, potrebbe bene eradicare il male dal mondo ma così dovrebbe mutare le leggi semplici che segue per seguire invece le “leggi naturali” che lui stesso ha stabilito; ma non certo per gli effetti mostruosi che dovevano produrre, bensì invece per gli “effetti più degni della sua sapienza e bontà”. Dunque egli “permette” il male ma non lo vuole né lo fa, dato che esso è una conseguenza naturale della sua legge.
Insomma ne dobbiamo dedurre che ciò che nelle leggi divine (trascendenti) è perfetto, invece nelle leggi naturali (altrettanto divine) divine è fatalmente imperfetto. Ma questo sarebbe non solo normale bensì anche supremamente razionale. Perché intanto la Causa prima e suprema resta dominante e perfetta nelle sue intenzioni, solo che gli effetti si allontanano da essa (di nuovo esattamente come pensava anche Proclo).
In altre parole ci troviamo di fronte ad una dottrina così piena di contraddizioni, e così cinica ed ipocrita, che essa deve necessariamente prestare il fianco a non poche obiezioni.
Anche in CC troviamo degli elementi di teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 30].
La questione scaturisce da un passaggio del dialogo tra Erasto e Teodoro. Il primo dice che esiste una difficoltà consistente nel fatto che Dio ha previsto dall’eternità le conseguenze delle cose, prevedendo così perfino il Peccato originale. E quindi perché mai ha creato l’uomo e peraltro lo ha creato libero? Perché mai insomma ha stabilito un ordine che poi doveva essere capovolto in quanto corrotto? Non sarebbe stato meglio creare una Natura incorruttibile o prevenire la Caduta di Adamo?
Ebbene Teodoro gli risponde provocatoriamente che semplicemente non lo sa, e accennando quindi al fatto che si tratta di un mistero. Ma Malebranche non sembra affetto volersi accontentare dell’esistenza di quest’ultimo. E così fa aggiungere a Teodoro di aver già dimostrato che Dio è Causa. Per cui egli ritiene che le obiezioni a questa così schiacciante evidenza possono venire solo “dalle tenebre dello spirito”, ossia (per dirla alla platonica) dall’ignoranza. Quindi aggiunge che quando una verità si mostra con evidenza non bisogna smettere di credere in essa in nome delle obiezioni. Ebbene su questa base egli comunque cerca di rispondere all’obiezione: − Dio ha concepito l’uomo libero in quanto creatura fatta per amare il bene. Laddove il bene è ovviamente Dio stesso in persona. E ciò perché il bene deve venire necessariamente scelto, e non deve invece imporsi all’uomo come avverrebbe entro qualunque impulso generato dall’influsso sensibile. La scelta del bene è quindi una sorta di suprema prestazione etica-cognitiva dell’uomo (come direbbe Scheler). Ma intanto l’uomo ama solo ciò che vede, oltre ad essere soggetto anche ad errore. Perciò, se Dio non l’avesse creato libero (mentre però intanto lo conduce continuamente verso ciò che è bene) si dovrebbe ammettere che Dio stesso è laa causa del peccato a causa dei movimenti sregolati della volontà. Di nuovo insomma viene in primo piano il governo divino del mondo come elemento ineliminabile dell’etica stessa. Insomma è cose se si volesse dire che Dio continua a guidare Lui stesso l’automobile cosmica per evitare che il fresco patentato combini dei guai che comprometterebbero in modo imbarazzante il suo insegnante.
È una soluzione questa. Ma è davvero onesta e credibile se teniamo conto del concetto del concetto di libertà colto davvero nella sua integrale autenticità?
E quindi è molto utile confrontare qui la teodicea di Malebranche con quella di Dostoevskij che è stata magistralmente illustrata da Berdjaev (come abbiamo già visto citando questo pensatore a proposito del valore dell’uomo e della sua libertà). In Dostoevskij infatti Ivan Karamàzov rifiuta qualunque teodicea (in quanto causa certa di male, e soprattutto del male che colpisce i bambini) a costo di mettere in discussione lo stesso bene della libertà che Dio ha concesso all’uomo. E questo perché la libertà umana causa tanto il bene quanto il male. Per Malebranche invece essa causa sempre il bene solo perché Dio intanto guida costantemente l’uomo evitando che la sua volontà devii dal giusto percorso (a causa della sua tendenza agli errori, ed a causa della sua soggezione alle apparenze (dato che esso crede solo a ciò che vede). Non solo, ma per Malebranche la conduzione continua di Dio è assolutamente indispensabile per evitare che Egli stesso resti coinvolto nelle deviazioni umane verso il peccato, e quindi divenga complice del male. Comunque la libertà umana (diversamente da quanto afferma Dostoevskij con estrema onestà) è per lui finalizzata al solo bene e solo per questo è giustificata. Malebranche considera comunque il libero arbitrio addirittura come una vergogna per l’uomo perché lo obbliga ad accettare la conduzione divina.
Ora non vi è alcun dubbio che ci troviamo qui di fronte a due molto diverse soluzioni al problema del male in stretta relazione all’autenticità dell’ispirazione che le guida – quella di Dostoevskij si sottomette all’obbligo dell’autenticità fino allo strazio subito a causa della lampante contraddizione, mentre quella di Malebranche si serve senza il minimo scrupolo di artifici pochissimo autentici proprio perché razionalistici per evitare i disagi dell’autenticità. Quella di Dostoevskij si espone coraggiosamente all’abisso dell’irrazionalità imposta dall’evidenza del male in relazione alla libertà umana, e quella di Malebranche invece codardamente ed ipocritamente ne rifugge.
E quindi, una volta servitisi di questa comparazione, non resta davvero molto più da dire circa la qualità etica delle riflessioni di Malebranche. Essa è completamente dominata dalla cinica ipocrisia farisaica che è tipica della razionalità una volta applicata all’etica. Lo stesso sarebbe accaduto a Kant non molto tempo dopo.
E peraltro questo giudizio di valore viene ulteriormente aggravato dalle considerazioni che il pensatore francese aggiunge, e che secondo le quali il fine della libertà non sarebbe affatto la scelta tra il bene e il male, laddove in quest’ultimo rientra il piacere. La libertà concerne invece solo e soltanto la scelta tra amare o non amare Dio, all’unico fine, ovviamente, di renderGli Gloria. Ma Dio sapeva che il libero arbitrio concesso all’uomo non è altro che una “vergogna”, perché con certezza assoluta, in assenza della conduzione divina, lo inclina sempre verso il male (il piacere) e mai verso il bene. La Sua infinita Sapienza ha quindi concesso questa dotazione (totalmente negativa) all’uomo solo perché, prevedendo che l’uomo certamente avrebbe cessato di amarlo, avrebbe dunque peccato. E quindi avrebbe avuto bisogno del Suo aiuto per mezzo della Redenzione di Cristo. E questo dunque avrebbe indotto gli uomini ad amarlo. Dunque il risultato finale di tutti questi eventi – infallibilmente previsti dalla Preveggenza divina – sarebbe stato invariabilmente la Sua Gloria. Ma niente altro!
Ebbene, se la teodicea di Malebranche, posta di fronte a quella di Dostoevskij, naufraga in una codarda ipocrisia al cospetto del mistero estremamente complesso e profondo della libertà umana, qui essa ricade nel ridicolo di una teoria pretenziosa, paradossale e grondante di assurdità. E qui davvero (come hanno detto alcuni) c’è da chiedersi se egli sia stato davvero un filosofo. Non a caso uno dei suoi interpreti, Rodis Lewis, ha definito del tutto assurda la sua dottrina della scelta [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263[.
Ma veniamo ora a TGN, che fu poi un libro dedicato proprio alla teodicea in risposta agli argomenti di Arnaud e dei giansenisti. Vale la pena quindi di gettare su di esso uno sguardo di insieme prima di entrare nell’analisi delle singole argomentazioni.
In generale in questo libro vengono sostanzialmente esposti tutti gli argomenti contro l’idea che Dio possa venir ritenuto responsabile a qualunque titolo del male. Ma soprattutto Malebranche tende a difendersi dall’accusa di aver sostenuto che Dio sia indifferente al male del mondo e dell’uomo. Difesa però impossibile, dato che abbiamo già più volte visto che egli afferma proprio questo, sebbene (con un’argomentazione che molte volte ricade nell’assurdo) faccia sforzi immensi per dimostrare che non è così. Il risultato di questi sforzi è però assolutamente fallimentare.
Pertanto non c’è da meravigliarsi di questo visto che il pensatore impiega appena artifici debolissimi, ed anche non poco cinici, incentrati tutti sulla Perfezione divina originaria (col il conseguente Piano infallibilmente sapiente) quale sua essenza e quindi come indiscutibile nella qualità dei suoi propositi: − Dio può volere solo il Bene. Ma questo viene presupposto più che dimostrato. E peraltro, come abbiamo già visto più volte, senza alcuna menzione dell’Amore. Per Malebranche, infatti, lo stesso Ordine della Grazia non è altro che l’infallibile Ragione divina. Inoltre esso non è altro che il desiderio di Dio di procurare a sé stesso una Gloria infinita perché Egli, come ormai sappiamo, ama solo sé stesso. Ecco insomma che l’essenza dell’Ordine della Gloria si risolve nell’assolutamente inaccettabile (oltre che ridicola) postulazione di un vero e proprio narcisismo divino.
E quindi, in questo inquietante e scoraggiante scenario, l’unica cosa che prevale è l’attribuzione a Dio della sola assoluta Maestà di un Monarca assoluto.
Pertanto – come abbiamo già accennato −, se estendiamo un po’ il nostro sguardo sullo scenario filosofico del tempo, e quindi sull’intero progetto della metafisica razionalista (Malebranche, Leibniz e perfino Spinoza), esso assume i caratteri di un tentativo di fusione tra il razionalismo cartesiano (in forte sintonia, a sua volta, con la Filosofia e Scienza della Natura) e, dall’altra parte, gli antichi contenuti della Religione ebraica (incentrata nella Legge) uniti a diversi aspetti della metafisica religiosa pagana (Plotino, Proclo). Indubbiamente quindi quella qui all’opera è una metafisica corrotta in partenza dal suo razionalismo. Razionalismo che in ogni caso vuole essere tanto sovrannaturale e trascendentista che naturale ed immanentista; cioè vuole tenere d’occhio tanto il più alto e sublime intelligibile quanto il più ordinario e rozzo sensibile. Come del resto appare evidente in un altro progetto metafisico di quell’epoca, e cioè quello di Suárez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011] –, sebbene con toni molto più equilibrati di quelli di Malebranche. Sta di fatto però che, se una metafisica vuole essere autentica, essa deve fare una scelta coraggiosa e radicale: − o si occupa del Sovrannaturale e del Trascendente (attribuendo ad essi un valore ed un ruolo primari), oppure si occupa dell’immanenza e del naturale. Tuttavia è ovvio che quest’ultima disciplina non sarà più una metafisica ma sarà invece solo una scienza naturale. E quindi, qualora pretenda comunque di essere ancora una metafisica, si potrà solo coprire di ridicolo. Non è un caso quindi che il progetto della complessiva metafisica razionalista abbia conosciuto un fallimento storico-filosofico definitivo. Infatti non c’è stato un solo filosofo ad essa successiva che abbia rinunciato a criticarla.
Questa insufficienza assume però forme ancora più eclatanti in Malebranche.
Perché in lui la metafisica razionalista è travestita di forme cristiane incentrate soprattutto nella Maestà divina. Quindi questa è una metafisica mentitrice e corruttrice in quanto è solo falsamente religiosa, perché essa si basa solo sulla filosofia e non sulla Rivelazione, e meno ancora sulla Scienza Sacra. E ciò nel contesto di una visione creazionista-fisico-razionalista. Del resto era stato così già in Cartesio – al cui pensiero Alexandre Koyré tentò di attribuire lo status di un’autentica metafisica cristiana [Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005]. Questa metafisica è dunque in verità unicamente figlia della Filosofia e Scienza della Natura (specie fisico-mateatica), ed inoltre del razionalismo idealista cartesiano (anch’esso fortemente scientista). Non ha a che fare quindi né con la Rivelazione né con i misteri divini, che essa infatti sottopone ad una totale riduzione e ad uno svelamento profano per mezzo della Ragione, togliendo così ad essi la loro natura nella presunzione che Dio sia null’altro che somma Ragione universale. Emblematica per questo è la deformazione dell’idea della creazione come un evento che punterebbe unicamente al Cristo (in concorrenza dell’uomo); e peraltro nemmeno per il valore in sé dell’Incarnazione (quale donazione kenotica di sé da parte di Dio), ma invece unicamente per la sola Gloria divina. Tutto questo si può constatare in varie sedi del pensiero di Malebranche dove il razionalismo applicato alla Rivelazione annacqua e banalizza i misteri rendendoli così del tutto razionali.
Questo è lo scenario generale nel quale si muove la teodicea sostenuta in TGN,
Qui in generale Malebranche sostiene la necessità ed inevitabilità del Peccato secondo la Ragione divina.
E su questo si basano moltissime argomentazioni non solo aberranti ma che logicamente fanno anche acqua da tutte le parti; soprattutto perché pretendono di essere razionalistico-scientiste ed insieme teologico-metafisiche. E così esse saltano a piè pari la Rivelazione o la stravolgono razionalisticamente.
Si può dire quindi che Malebranche e Leibniz anticipino la teologia filosofica non meno aberrante e pretenziosa di Hegel, e, dopo di lui, la logica aberrante ed astrusa all’estremo della più recente filosofia.
E questo si associa peraltro ad un radicale pessimismo verso l’uomo e la sua volontà e libertà, per questo ritenuto indegno per definizione dell’amore di Dio. Infatti il Peccato non sarebbe mai stato perdonato bensì sarebbe stato solo previsto da Dio ed unicamente per la Sua Gloria; cioè sarebbe stato perpetrato da un ente del tutto inconsistente e solo maligno (forse già da prima del Peccato).
Quindi quello di Malebranche è anche una specie di gnosticismo alla rovescia – che presuppone la malignità demoniaca dell’uomo creato di fronte a un Dio che è perfetto in tutti i sensi.

Ma veniamo ora all’analisi delle singole argomentazioni per mezzo delle quali si dipana il complessivo progetto portato avanti in TNG.
Anche Malebranche, come Leibniz, sviluppa la teoria di una molteplicità di mondi ipotetici dei quali solo uno è il migliore («migliore dei mondi possibili»), e quindi quello che ha il diritto di esistere. Che è poi quello in cui viviamo. Questa sarebbe stata insomma l’idea sviluppata da Dio nella scelta delle proprietà del mondo che si apprestava a creare. In particolare il nostro pensatore afferma che Dio avrebbe potuto fare anche un mondo più perfetto di quello in cui viviamo (senza alcuna carenza, come, ad esempio, nella differente quantità di pioggia che cade in vari luoghi), ma per questo avrebbe dovuto mutare la semplicità delle sue vie e pertanto moltiplicare notevolmente le leggi grazie alle quali il mondo sussiste [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Ma la conseguenza di questo (per il razionalismo di Malebranche paradossale) sarebbe stata che il mondo sarebbe stato complesso e perfetto quanto Dio, con la conseguenza ancora peggiore che gli uomini avrebbero poi adorato un mondo altrettanto complesso e perfetto. E non Dio. Ecco dunque la ragione ultima dell’assolutamente necessaria imperfezione del mondo – cioè la necessaria sproporzione in perfezione tra Dio e mondo. È per questo quindi che l’imperfezione del mondo attuale non elimina l’estrema semplicità delle leggi naturali, la quale (anche per mezzo dell’imperfezione stessa) rende il mondo degno della sapienza del suo Autore. In altre parole l’uomo deve venerare Dio per la sapienza della sua creazione (consistente in leggi semplici) sentendosi così a Lui inferiore in sapienza; e questo a costo di dover subire l’imperfezione del mondo, e quindi il male e dolore. Dunque l’idea principale del migliore dei mondi possibili resta sempre quella della semplicità e sufficienza (poche e non molte) delle leggi della comunicazione dei movimenti (che vige ad esempio pienamente in Fisica). La quale stabilisce poi la giusta (o sapiente) proporzione tra la qualità dell’azione di Dio e quella della Sua opera, ed inoltre stabilisce la giusta (o sapiente) proporzione esistente tra le indifferenti leggi naturali e il mondo in cui esiste l’uomo. Quest’ultima implica inevitabilmente il male, dato che (in forza delle antecedenti e perfette leggi semplicissime dell’intero Essere) deve necessariamente trascendere gli interessi di quella creatura umana che non è nulla e non conta nulla. Ma intanto rivela un Dio perfetto nella sua Sapienza ed inoltre rende il mondo degno di quest’ultima. Cosa che mai sarebbe avvenuta se invece il mondo fosse stato invece perfetto (e per questo anche complesso nelle sue leggi). Il criterio della perfezione è dunque per Malebranche la semplicità stessa delle leggi (in cui consiste la sapienza dell’autore), dato che essa sarebbe mancata in un mondo necessariamente complesso in quanto perfetto. Ma il prezzo da pagare per questo è l’assoluta indifferenza al male di queste leggi ed anche della Sapienza che le sorregge. Insomma, al di là dell’astrusità prepotente dell’argomentazione (tipica dei razionalisti convinti), siamo ad uno dei più cinici artifici per evitare l’affronto del tremendo tema del male. Inoltre Malebranche presuppone (malignamente) una certa cinica furbizia di Dio nel creare un mondo imperfetto quanto basta per poter venire adorato. E quindi il principio dominante nella creazione del mondo da parte di Dio sarebbe solo quello di venire adorato per la sua Sapienza.
Tutto questo significa dunque che (diversamente da Dostoevskij) Malebranche non affronta affatto coraggiosamente il tema del male, ma si limita a schivarlo barcamenandosi in esso nel modo meno autentico possibile. E peraltro lo fa ricorrendo al più rivoltante cinismo. Il che conferma poi in pieno l’accusa di Arnauld.
Malebranche sostiene comunque che il discorso è molto diverso se passiamo dalla Causa generale (sapienza infinita) e le cause particolari (intelligenze limitate) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XVIII-XX p. 80-82]. Queste ultime sono quelle leggi naturali “costanti ed immutabili”, oltre che universali – in virtù delle quali nel mondo tutto accade sempre allo stesso modo, e quindi sussiste un Ordine caratterizzato anche dalle sue carenze e disuguaglianze, cioè da una certa quota di difettività e male – che sono assolutamente inesorabili, e i cui effetti sono stati previsti infallibilmente da Dio. Ma, a causa della dominante reggenza delle superiori e semplicissime Leggi ancora più generali, le pur infime leggi naturali fanno marciare il mondo (almeno apparentemente) da solo e quindi senza alcun bisogno dell’intervento di Dio con volontà particolari. Proprio per questo gli effetti dell’azione delle leggi naturali (benefici o meno che siano) sono assolutamente prevedibili. Ne consegue che (secondo uno degli assiomi della metafisica razionalistica) il mondo è un meccanismo esatto che Dio mette in modo una volta per tutte perché produca tutti i suoi effetti. E secondo Malebranche per questo le leggi naturali servono a produrre tutto il bello che vediamo ed inoltre anche a porre rimedio ai sempre possibili mali.
Ancora una volta però prevalgono qui il cinismo e l’ipocrisia. Perché entro questo pur perfetto meccanismo c’è pienamente posto per il male in forza di un’indifferente (in quanto rigorosamente razionale) sorta giustizia distributiva della Natura. Si tratta dell’emergere in questo contesto di quell’antica e pagana idea del Fato che abbiamo già illustrato. Questo però a Malebranche non interessa affatto, dato che per lui l’elemento primario e di maggior valore è la perfezione razionale del Piano divino.
E questo viene puntualmente confermato più avanti laddove egli constata (con la più sconcertante disinvoltura) che Dio si disinteresserebbe totalmente dei mali circostanziali (ossia i meri effetti intermedi del Piano) per il bene finale al quale punta il suo progetto. Il valore primario e fondamentale è infatti per lui l’immutabilità dei propositi, che quindi non può deflettere di fronte all’insorgere di solo temporanee imperfezioni, le quali non inficiano affatto la bontà dei fini (come la distruzione di una vigna appena fatta crescere ad opera della grandine, e ciò in perfetta concordanza con le leggi della Natura).
Del resto tutto diviene chiaro se si tiene conto di quello che Malebranche dice subito dopo: − “La regola essenziale della volontà di Dio è l’ordine”. Il quale precede la Bontà e la Giustizia. Ciò che ha portato il male è stato infatti il disordine del Peccato, in forza del quale le leggi naturali (in sé buone) hanno reso l’uomo infelice e quindi pienamente passibile di punizione. In particolare la legge dell’ordine “vuole che il giusto non soffra nulla senza meritarlo” ed essa rientra nell’essenza di Dio. Emerge quindi da qui idea sostanzialmente giuridica che Malebranche ha di Dio e del mondo ideale sovrannaturale (Prima creazione) in quanto buono, cioè un mondo nel quale non esiste il male. In esso si vive felici solo finché non si trasgredisce, altrimenti ci si merita pienamente la punizione. Orbene infinite letture cristiane di questa realtà (e non solo cristiane) mostrano che non era affatto questo il senso della Prima creazione, e quindi della creazione di Adamo in quanto Uomo prototipico. Egli aveva infatti un immenso valore proprio in quanto paradigma ideale di tutto l’Essere, rivelando così un ruolo che era quello dell’Uomo prototipico ancora più originario, ossia il Logos cristico. Il quale era esso stesso null’altro che Uomo nell’accezione più metafisicamente integrale della parola. Ma oltre a ciò Malebranche ignora ancora una volta la Rivelazione cristiana dimenticando la fondamentale ed emblematica figura di Giobbe, ossia il giusto che soffre comunque il male. Il disordine causato dal peccato non si risolve quindi affatto nel suo aver generato un uomo cattivo per natura che deve quindi (almeno in via di principio) necessariamente venire punito. Il vero Dio infatti non guarda affatto all’uomo in questo modo. Altrimenti perfino nel Vecchio Testamento non avrebbe raffigurato la figura di un Giobbe. Dio certamente permette il male in forma di prova, ma con il proposito di venire prima o poi in soccorso dell’uomo dopo aver messo alla prova la sua fede. E questa sembra una prospettiva del tutto sconosciuta a Malebranche.
Pertanto la visione razionalistica di Malebranche ancora una volta semplifica e nasconde i misteri divini. E lo fa trasformando in senso meramente e piattamente giuridico la realtà del Peccato originale in relazione al mondo perfetto della Prima creazione. E questo ancora una volta mistifica ed occulta il tema del male, che invece è estremamente più complesso di quanto il razionalismo di Malebranche (ed altri) intenda farci credere.
Più o meno lo stesso accade in altre sedi di TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, XXXVI, p. 91]. E di questo abbiamo già parlato illustrando l’idea secondo la quale il Peccato di Adamo sarebbe stato previsto da Dio unicamente per la sua Gloria. Anche questa idea, insomma, razionalizza il Peccato e la Caduta annacquando e banalizzando il grandissimo mistero che essi rappresentano. Abbiamo anche già parlato dell’idea secondo la quale il fine della creazione divina (nell’impeccabile previsione del Peccato stesso) sarebbe stata unicamente l’insorgenza di Gesù Cristo e della Chiesa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, VII p. 111-112]. Ed anche questa non è altro che una razionalizzazione naturalistica di una verità teologica e cioè di un mistero divino. Infatti qui la concessione della Grazia divina starebbe appena in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo. Ed inoltre, ancora una volta, l’intera argomentazione di Malebranche a tale riguardo contiene lacune logiche riempite da lui del tutto arbitrariamente.
A tutto questo si aggiungono poi in TNG alcune altre considerazioni del pensatore sulla libertà, che vanno ad integrale quelle già da noi esposte commentando CC.
In generale egli svaluta la libertà umana affermando che noi uomini amiamo Dio unicamente in forza di una coercizione da Lui esercitata. E questo spiazza decisamente ogni nostro moto volontario, o scelta.
Malebranche dice infatti che il movimento dell’anima verso il bene è “invincibile” (in virtù della coercizione divina esercitata su di essa) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, II p. 151]. Essa dunque non dipende affatto da noi, specie non dalla nostra volontà di essere felici terrenamente. Dunque
è solo Dio come Causa dominante che ci fa vedere con chiarezza la necessità di amare il vero bene. Quindi, anche quando interviene “la libera scelta della volontà” umana, data la coercizione di fondo, gli uomini possono amare solo Dio. Insomma Malebranche svuota totalmente di contenuto e valore il libero arbitrio e non pensa affatto che l’uomo, attraverso la libertà naturale (della quale è stato dotato da Dio stesso), possa davvero scegliere il bene. Ecco emergere insomma di nuovo una concezione del tutto pessimistica dell’uomo. Il risultato stesso della libertà umana è dunque totalmente predestinato da Dio. Quindi, diversamente dalla teodicea di Dostoevskij, la libertà umana non prevede affatto la tragica ma anche grandiosa scelta tra male e bene. E questo, si dica quel che si dica, non è altro che negazione della libertà.
Il che è confermato da ulteriori affermazioni del pensatore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, IX p. 157-158]. Egli sostiene infatti che l’Adamo non ancora decaduto era pienamente libero in quanto riconosceva in Dio l’unico bene ed anche la vera causa del suo piacere. Insomma egli era pienamente libero perché si conformava alla Ragione divina nella sua perfezione. Ne risulta che Dio è addirittura l’unico piacere al quale siamo attratti davvero invincibibilmente, e precisamente senza nemmeno l’esercizio della volontà. Il che rende quindi del tutto non interessante qualunque altro piacere. Malebranche ne conclude che “…la libertà più completa è quella degli spiriti che in qualsiasi momento possono vincere i piaceri più grandi, è quella degli spiriti nei confronti dei quali nessun movimento verso i beni particolari è invincibile”. E questa è solo la libertà antecedente al peccato. Invece “la libertà più imperfetta è quella di uno spirito rispetto al quale ogni movimento verso un bene particolare, per quanto piccolo esso appaia, risulti invincibile in qualsiasi sorta di circostanze”. Insomma anche qui viene totalmente mortificato il libero arbitrio come autentica e piena scelta, dato che la perfetta libertà è per Malebranche solo quella sostenuta da un determinismo coercitivo. E questa è un’idea francamente del tutto aberrante. Questa idea puramente coercitiva (del tutto assurda) della libertà si ritrova peraltro anche più avanti [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XVIII p. 166-167].
Laddove egli sostiene che la libertà è totalmente assente nell’uomo, per venire sostituita dalla coercizione verso Dio come Bene, ci si rende conto del fatto che la Luce del Riparatore (Cristo) agisce in noi stessi a differenza dei piaceri sensibili che invece esercitano una continua pressione su di noi dall’esterno. Quindi questa luce non tocca affatto la nostra anima (cioè i nostri sensi), nella quale l’istinto al piacere viene inseminato fatalmente dalla pressione esteriore.
Ne risulta una sorta di nostro agire autonomo (in quanto agenti in forza della sola sollecitazione interiore), che pertanto equivale all’agire guidati dalla sola Ragione, e consiste nel consentire all’impulso esercitato su di noi da Dio verso il Bene. Questa, egli dice, è una sorta di azione messa in atto senza sentimento e unicamente in nome del dovere. E Malebranche stesso dice che essa è pienamente libera solo perché, in quanto è astratta e intelligibile, è del tutto priva di gusto. Il che denuncia la totale assenza della pressione dell’istinto in questo moto dell’anima. È del tutto evidente che una siffatta libertà puramente asettica (in quanto razionale, astratta, intelligibile e perfino deterministica) non può essere affatto quella vera libertà che invece viene minacciata continuamente dall’oscuro (del tutto sensibile ed anche sporco) abisso del male ma intanto in questo abisso si libra e vola senza alcuna costrizione.
Inoltre ulteriori argomentazioni di Malebranche dimostrano che egli considera sì il libero arbitrio ma solo in quanto fortemente relativo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, XI p. 159]. E comunque questo relativismo è ancora una volta vincolato al grado di ragione con il quale si opera la scelta. Infatti egli dice che è altrettanto lecito pensare che “secondo l’ordine originario della natura” tutti gli uomini siano egualmente liberi. Ma con ciò non si considera la corruzione esercitata dalla concupiscenza causata dal peccato. Anch’essa è infatti presente in tutti gli uomini, e quindi rende del tutto relativa la pienezza della libertà. Ecco insomma emergere di nuovo la visione totalmente pessimistica della natura umana.
Eppure Malebranche, nonostante tutto questo, non rinuncia a tentare di presentarci una libertà che rappresenta una scelta [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXIII-XXVI p. 169-172].
Egli sostiene infatti che, allo stesso modo in cui la concupiscenza non ha distrutto la libertà umana, anche la Grazia non è in verità per nulla invincibile per quanto efficace essa sia. Dunque “essa non occupa l’anima in modo tale da trascinarla verso il bene senza scelta…”, e quindi del tutto senza libertà e consenso. Proprio per questo meritiamo particolarmente quando le cediamo. Ecco che qui inizia a venire dato valore alla libertà come scelta. Ma comunque la Ragione e la conoscenza occupano ancora un ruolo critico in questo atto. Esse insomma continuano ad essere dominanti.
Susseguentemente viene infatti presupposto che l’amore davvero puro per Dio è retto dalla sola Ragione e non dalla benché minima traccia di piacere, il che significa, per Malebranche, che ciò avviene in piena libertà ossia appunto per scelta. Ma comunque per lui non c’è alcuna libertà senza il perfetto conformarsi alla Ragione. E quindi nuovamente – anche se viene postulato l’atto della scelta come sua radice – la libertà appare essere solo relativa all’esercizio della pura Ragione. Il culmine di questa dottrina della scelta si ha quando Malebranche vede in Cristo il suo paradigma. Il massimo di questa capacità, egli dice infatti, si ha in Gesù Cristo (in quanto essere “impeccabile”). E ciò perché Egli “amava il Padre suo non per istinto del piacere ma per scelta e ragione, l’amava perché vedeva con la sua superiore intuizione quanto era degno d’amore”. Infatti ”la libertà più perfetta è quella di uno spirito che ha tutta la luce possibile e che non è determinato da nessun piacere, perché ogni piacere preveniente o di altra natura produce naturalmente qualche amore e, se non si resiste al piacere, quest’amore determina efficacemente il movimento naturale dell’anima verso l’oggetto che ci è gradito”.
Dunque la piena libertà per Malebranche non espone affatto alla scelta straziante tra bene e male (come soggezione alla necessità, inclusa quella del piacere), ma è invece una piena e purissima razionalità che procede verso il Dio-bene senza alcun condizionamento (nemmeno quello della costrizione esercitata dall’istinto stesso che reca a Dio). È una sorta di facoltà conoscitivo-razionale sovrannaturale ossia puramente spirituale. Non a caso essa non avviene sulla terra ma solo nel cielo (infatti è solo di Adamo e di Gesù Cristo). Essa insomma ignora totalmente il male. Quindi è scelta solo nella misura in cui è applicazione del determinismo della Ragione: − è scelta solo in quanto ragione. Non vi è alcun dubbio circa il fatto che qui la scelta viene di certo presupposta, ma senza alcuna convinzione e senza alcun rispetto per la sua effettiva realtà. Realtà che come dice Dostoevskij (Berdjaev) è inevitabilmente tragica, e perfino dionisiaca. Altro che puramente razionale dunque. Infatti di questa scelta non si può in alcun modo prevedere il risultato. Che quindi può essere anche il male più devastante.
E questo viene confermato dall’idea che per Malebranche la scelta del male non è affatto positiva, ma invece solo negativa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXXI p. 176]. Infatti, dice il nostro pensatore, quando due oggetti si presentano in un uomo ed egli sceglie (ossia “si determina rispetto ad essi”), non manca mai di farlo dal lato in cui trova più ragione e piacere ed in cui si trova più bene. Infatti l’anima vuole ed ama unicamente per amore del bene, e quindi la sua volontà è solo movimento verso di esso. Ma la scelta viene a mancare quando a prevalere è il piacere sensibile che turba lo spirito. Qui infatti semplicemente si sospende il proprio giudizio, rinunciando così all’esercizio della ragione.
Ed in questo modo non ci si determina, cioè non si sceglie verso i falsi beni. Perché l’anima non può non conoscere i falsi beni, e quindi l’andare verso di essi è solo sospensione di conoscenza.
Ecco allora che l’eventuale scelta del male (quale bene sensibile) – che intanto una corretta dottrina della scelta non può affatto escludere − non è affatto positiva (com’è l’esercizio della volontà in un determinato senso) ma è invece solo negativa, cioè è di fatto sospensione di conoscenza. Laddove invece la pienezza di conoscenza condiziona sempre la scelta, altrimenti essa da sola non sarà mai capace di esercitare la sua funzione.
Insomma nulla come questa argomentazione poteva confermare che la dottrina della scelta di Malebranche (sebbene espressamente invocata) è in verità totalmente deficitaria e fallimentare. E ciò conferma che egli non ha in effetti alcuna intenzione di affermare un concetto di libertà colto davvero nella sua pienezza.

Il concetto di metafisica di Malebranche (sezione 3).
Ancora una volta esamineremo a questo scopo le tre opere PM, CC e TNG.
Tuttavia non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, dato che finora è divenuto più volte chiarissimo cosa Malebranche intenda per metafisica. Almeno secondo il nostro giudizio, essa è chiaramente una solo falsa metafisica proprio perché è integralmente razionalista e non è nemmeno affatto religiosa (anzi addirittura cristiana) come pretende di essere. E per quanto ci riguarda una metafisica non è tale se non concepisce come sommo Principio l’entità trascendente che più radicalmente sta oltre il sensibile – che esso sia un Dio personale o anche un puro Uno dalla valenza divina. Proprio in questo senso fu religiosa la metafisica più trascendentista che vi sia mai stata, cioè quella di Platone, ed inoltre la metafisica più immanentista che vi sia mai stata, cioè quella di Aristotele.
Ma quella di Malebranche è semmai (un po’ come anche quella di Suárez e di Leibniz) una metafisica in primo luogo gnoseologista, dato che pone come sommo principio la perfettissima Ragione universale quale radice di tutte le Leggi dell’essere e del conoscere. Il suo Dio quindi è al massimo una entità supremamente logico-matematica. E quindi non è né il Dio del Vecchio Testamento né quello del Nuovo, né nemmeno lo stesso Allah o qualunque divinità personale. È insomma lo stesso identico Dio di Cartesio, ossia il sommo garante di tutte le certezze conoscitive.
Certo non vi è dubbio che l’occasionalismo di Malebranche è stato ed è considerato una teoria metafisica del Governo del mondo e della Natura [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Ma intanto, commentando le varie sue opere abbiamo visto che anche che ciò ha molto più di scientifico che non di religioso. Essa insomma concerne molto meno la “giustificazione degli esseri” (Rome) e molto invece più le Leggi che regolano il funzionamento ordinario dell’universo. E quindi anche per questo quella di Malebranche non è una vera metafisica – dato che essa non è una vera ontologia. Non a caso le teorie della creazione che essa espone sono più le teorie di un Fisico che non di un metafisico. Ma abbiamo anche visto che la dottrina metafisica di Malebranche dovrebbe essere anche come paradigma di una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)]. Se non fosse che abbiamo constatato che essa di Teologia non contiene davvero nulla, se non appena degli astrusi surrogati di questa disciplina. L’unico interprete critico che sembra avvicinarsi alla corretta interpretazione della natura della disciplina coltivata da Malebranche è Walton, il quale dice appunto che si tratta di null’altro se non di un’epistemologia metafisica [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161].
In ogni caso i libri di Malebranche contengono idee di tipo metafisico e quindi vale la pena di esaminarle.
Sono presenti infatti i concetti di sostanza, di spirito, di anima, di corpo, di causa etc.
Ora di concetti di anima e corpo parleremo a proposito della teoria della conoscenza e percezione. Del concetto di causa invece abbiamo parlato finora abbondantemente. E quindi non ci resta che parlare degli altri concetti.
Iniziamo quindi da quello di sostanza. Che forse è il solo concetto nel quale Malebranche pensa in maniera davvero autenticamente metafisica. Sostanza è per lui senz’altro Dio stesso [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Ne abbiamo del resto già parlato a proposito della definizione di idea di Dio come la realtà in cui noi come creature sussistiamo. Con ciò emerge la sua ubiquità e quindi la sua natura davvero primaria di “estensione” infinita. Ed entrambe vengono spiegate a causa della non-corporeità di Dio che lo rende un’entità assolutamente a-locale.
Pertanto la sostanza (in quanto incorporea ed a-locale) resta intera nonostante sia tendenzialmente divisa per il fatto di trovarsi dappertutto, ossia essere ubiquitaria. Ma proprio per questo essa è ciò in cui tutto si trova ed esiste – come avviene appunato «in Dio». Ma proprio questo costituisce quell’estensione infinita (ossia l’immensità divina) che sta all’estensione spaziale ordinaria (locale e finita) come il tempo sta all’eternità. Ne consegue, secondo Malebranche, che i corpi sono estesi solo nella misura in cui lo sono entro l’immensità di Dio. Esattamente così come tutti i tempi si succedono solo nella misura in cui lo fanno nell’eternità di Dio. E proprio per questo, così come Dio è immensamente esteso, esso non conosce scansioni del tempo (passato, presente e futuro) e quindi “non è stato, non sarà”. Ma invece semplicemente “è”. È comunque a causa dell’infinita capacità di contenimento di tale immensità divina che “il mondo è in Lui” nel mentre Egli è dappertutto. Va però anche detto che Malebranche si oppone radicalmente all’onto- metafisica tradizionale nel criticare severamente il concetto di sostanza aristotelico, il quale assomiglia molto più ad una oggettualità sensibile che non invece ad un’entità radicalmente intelligibile [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 420-421, 425-426, p. 99-102, IV, 29-31 p. 102-103 IV, 313 p. 103, III, 318-319 p. 103-104]. E questo, nel mentre lo approssima all’onto-metafisica platonica, nuovamente sottolinea che la sua metafisica tende molto più a raffigurare un supremo Principio regolativo di tipo razionale-matematico che non un vero e proprio Dio.
Tale carattere è infatti perfino quello dell’ubiquitaria sostanza divina. Peraltro deve essere proprio a causa di questa sua fondamentale aspirazione scientista (in principio molto poco autenticamente metafisica) che egli attribuisce ai libri di Aristotele errori ed oscurità a josa, negando così alle sue dottrina qualunque autorità. E la responsabilità di questi errori (concernenti per lui molto direttamente il concetto di sostanza) sarebbero dovuti all’uso scorretto della logica puramente astratta come mezzo per rendere reali delle entità invece assolutamente immaginarie, e quindi del tutto assenti nella Fisica. Si presenta insomma in questo la quota di empirismo che poi avrebbe retto il pensiero di Kant e che portò proprio ad un’abolizione definitiva della metafisica. Pertanto è plausibile che il pensiero razionalista del XVII secolo (Malebranche, Leibniz, Spinoza) abbia definito sé stesso come «metafisica» ma non lo sia mai stato e probabilmente nemmeno aveva voluto mai esserlo. Si ha insomma l’impressione che in quel periodo si sia usato il termine «metafisica» senza assolutamente voler intendere con esso davvero una metafisica ,ma semmai una scienza naturalistica che ancora usava un linguaggio matematico.
In ogni caso il difetto fondamentale della sostanza aristotelica sarebbe il suo voler essere non estensione infinita ma invece semmai “essenza”. Il che per Malebranche non è altro che il frutto di un’operazione di pensiero entro la quale si tolgono alla materia tutti i suoi reali attributi per lasciare in piedi solo il più irreale di tutti, e cioè appunto l’essenza. Ne scaturisce così un “qualche cosa” (aggiunto artificiosamente all’estensione) che non possiede più alcun attributo e pertanto non è affatto conoscibile. E quindi non ha alcun diritto di costituire l’intelligibilità della cosa nella sua massima formulazione. Insomma, egli dice, in tal modo svanisce ogni “idea intelligibile” della cosa.
In altre parole nuovamente qui si affaccia in anticipo il criticismo di Kant, dato che non stiamo parlando di altro se non dell’«in sè» in quanto assolutamente inconoscibile. Ma, oltre a ciò, nuovamente in questa sede (nonostante la chiara invocazione di Platone nell’intelligibilità della cosa in quanto idea) sta parlando molto più il fisico che non il metafisico. La sostanza di cui egli parla è infatti estensione e non essenza, ovvero è la dimensione reale del mondo, sebbene colto per mezzo di un pensiero e linguaggio metafisico. Non è invece affatto la forma astratta che precede questa realtà e la trascende. E quindi si sta parlando di qualcosa di realmente esperibile, sebbene soltanto entro le speculazioni di fisici e matematici, che astraggono dal mondo della mera esperienza sensibile per indurre da essi un mondo di oggetti intelligibili. Vedremo poi che la teoria della conoscenza di Malebranche si incentra proprio su questa dottrina.
Prova di ciò è del resto la sua assimilazione totale di metafisica, matematiche pure e tutte le scienze universali in quanto riflessioni su oggetti che sembrano chimerici ma sono reali proprio in quanto puramente intelligibili [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181, p. 53-55]. Per la precisione esse sono il frutto dell’
attaccarsi dello spirito umano ad un Dio che è il più puro e perfetto possibile tra gli enti. E questa non è altro la visione del mondo intelligibile, tuttavia colto nella sua concretezza scientifica. Peraltro egli precisa che proprio così si delinea la differenza esistente tra “fede”o Evangelo, e “filosofia”. Laddove della prima sono capaci gli uomini “più grossolani” (i quali vedono in Dio solo il creatore) mentre gli altri lo conoscono nella conoscenza delle verità pure. Insomma la ragione non lo considera affatto per le sue opere bensì invece per la sua essenza, cioè “in sé stesso ossia per questa grande e vasta idea di essere infinitamente perfetto che egli racchiude”. In altre parole constatiamo di nuovo qui che la sua para-metafisica, che è anche pretenziosamente religiosa, non è in verità altro che la suprema scienza dell’intelligibile, e quindi molto più fisica matematica che non autentica metafisica. Del resto qui la fede viene decisamente disprezzata al cospetto della ragione, ossia la filosofia come scienza fisico-matematica.
Pertanto appare evidentissimo che tra i suoi intenti non vi fu affatto quello di riconciliare Fede e Ragione, ma semmai quello di affermare il riassorbimento totale della prima nella seconda.
Ma veniamo ora alle possibili definizioni di metafisica presenti nelle altre due sue opere, CC e TNG. In CC vi è davvero poco rispetto a questo, se non la costatazione che in quest’opera Malebranche intende fondare una fisica totalmente retta dalla Ragione e Volontà divina. Questa è probabilmente la risposta intenzionalmente metafisici-religiosa alla puramente empiristica scienza della Natura di stampo galileiano e baconiano. L’elemento decisivo è qui in particolare quello di una Causa unica e suprema che sarebbe divina. Quindi il ragionamento condotto dal pensatore appare davvero bizzarro. Eppure – almeno per quello che lui dice − non lo è se si tengono presenti i dubbi che le cause relative causano nella fisica classica.
Più di questo dal libro non è deducibile se non alcune osservazioni nelle quali Malebranche rivendica la conoscenza dei fini (o cause finali) alla religione e non alla fisica [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., DIALOGO III, p. 44-67]. E con ciò egli intende il conformarsi alla volontà divina per mezzo dei “precetti” da Lui per sempre statuiti. Tuttavia ventila che questi fatti puramente etico-religioso potrebbe comunque collimare con i principi della stessa fisica, e precisamente nella forma della postulazione dei supremi principi della comunicazione del movimento. Principi che certamente la fisica considera indubitabili secondo l’esperienza, ma che comunque nulla vieta che restino vigenti solo finché non interverrà la Resurrezione.
In altre parole Malebranche qui esprime lui stesso un certo dubbio circa il fatto che la sua metafisica religiosa abbia davvero anche una valenza pienamente scientifica, e cioè fisica.
In TNG non abbiamo comunque trovato alcun riferimento alla definizione di metafisica da parte di Malebranche.

La teoria della percezione e della conoscenza. L’idealismo relativo di Malebranche (sezione 4).
Qui partiremo prima dalla teoria della percezione (che è più basilare) per poi passare solo dopo alla trattazione della teoria della conoscenza. Tuttavia i due temi sono spesso strettamente intrecciati per cui molto spesso sarà impossibile separarli.
Questo è comunque uno degli elementi dei quali gli interpreti critici moderni si sono maggiormente occupati nello studiare il pensatore. Non a caso se ne occupa molto direttamente Steven Nadler il cui libro viene presentato in recensione da Jolley [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. In questo libro però si trova poco più di quanto si possa rilevare leggendo le opere di Malebranche che abbiamo studiato. Si viene a sapere che le idee di Malebranche sono rappresentazioni e concetti logici e non invece immagini degli oggetti. Si constata che la teoria della percezione del pensatore è completamente diversa da quella ordinaria della psicologia (e quindi anche da quella dell’empirismo) in quanto per lui le idee sono costitutive della percezione senza però essere esse stesse oggetto di percezione.
E pertanto in alcun modo esse vanno considerate (come pensano invece gli empiristi) il prodotto della percezione stessa. Infine per Nadler andrebbe considerato che per il pensatore il termine “percezione” viene inteso in modo equivoco in quanto si tratta tanto di percezione di idee quanto di percezione di oggetti o corpi materiali (ossia la classica e ordinaria percezione). Ma intanto egli intende la percezione delle idee in termini puramente intellettuali (ossia come puramente interiore conoscenza delle cose), con la conseguenza che la percezione dei corpi materiali sarebbe in tal modo solo inferenziale
Tutto questo però, come abbiamo già detto, può venire dedotto anche dalla lettura dirette delle opere di Malebranche che abbiamo menzionato, sebbene tra esse manchi la fondamentale opera “La recherche de la verité”. Quello che però sembra sfuggire a Nadler è che la teoria della percezione di Malebranche (conoscenza delle cose per mezzo delle solo interiori idee delle cose) è e vuole essere sostanzialmente (almeno in un certo senso ed in una certa misura) metafisica, ossia vuole affermare che il vero mondo è quello intelligibile. E quest’ultimo è per lui null’altro se non il mondo della cui conoscenza noi siamo capaci solo contemplando le idee di cose che sono presenti in Dio come Ragione universale.
Dunque, almeno in questo senso, Malebranche esprime un’intenzione autenticamente metafisica ed anche metafisico-religiosa. Ma aspetti come questi non interessano agli studiosi moderni, i quali cercano nella filosofia solo teorie puramente epistemologiche. E così accade anche per il nostro pensatore.

Ma vediamo cosa si può scoprire dalla lettura delle sue opere e cominciamo da PM.
Bisogna premettere però che i contenuti dedicati dal pensatore a questo tema sono troppo abbondanti per poter venire riportati integralmente in questa recensione. Perciò ci limiteremo ad illustrarne gli elementi più rilevanti rinviando il lettore al libro per gli eventuali approfondimenti; oltre che alle opere critiche scritte su Malebranche, come quelle che abbiamo menzionato nell’introduzione e ricordato poc’anzi.
In questo libro emerge immediatamente il legame che il pensatore stabilisce tra la percezione e l’anima, e quindi si delineano da subito i due temi congiunti della relazione anima-corpo e del possibile ruolo conoscente dell’anima. Che però vedremo negato a più riprese da Malebranche. Come vedremo dopo, infatti, l’anima è per lui l’organo stesso della percezione.
Innanzitutto il nucleo della sua teoria della percezione consiste nella convinzione che la conoscenza è unicamente interiore (per mezzo delle idee delle cose) dato che il mondo fuori di noi è appena un’illusione
[Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 57-58, p. 25-26, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35]. Ciò significa che noi in verità percepiamo i corpi esteriori unicamente nella nostra interiorità, e che quindi alcuno stimolo esteriore agisce sugli organi percettivi affinché si formi in noi l’immagine di un corpo. Ciò che conta è insomma unicamente l’oggetto mentale o ideale.
In termini fenomenologici si tratta dell’«oggetto di coscienza». E quindi in qualche modo la teoria conoscitiva di Malebranche sembra anticipare le idee di Husserl. Cosa della quale però parleremo solo più avanti.
Insomma il concetto principale del pensatore è che è solo entro lo spirito (rappresentato funzionalmente dall’anima) che avviene la percezione (e quindi poi anche la conoscenza). Non invece nel mondo esteriore.
Infatti egli sostiene che gli oggetti esteriori sono del tutto invisibili allo spirito (data la differenza invalicabile di sostanza che li divide) e quindi non hanno alcuna reale possibilità di agire dall’esterno su di esso – come invece si crede che accada (per mezzo degli organi percettivi) entro l’ordinaria teoria della percezione.
Ne risulta che noi percepiamo gli oggetti unicamente “in mente” (nel contemplare le relative idee) nel mentre però ci illudiamo di vederli esteriormente. Dunque il mondo esteriore non è quello che vediamo davvero, ma appena quello che crediamo di vedere. Ecco che allora, secondo Malebranche, per “idea” va inteso “l’oggetto immediato, o il più prossimo dello spirito quando esso percepisce qualche oggetto”. In altre parole l’idea di cosa è la cosa stessa.
Ma per essere più precisi si tratta della cosa della quale noi cogliamo (interiormente) per davvero tutti gli aspetti ossia la reale unità; cosa che Malebranche intende più come “bellezza” che non come verità – il mondo intelligibile è pertanto un modo di bellezze. Quello che esiste fuori di noi è invece pura e caotica materia informe, quindi soltanto bruttezza. Quindi non vi è esteriormente alcun oggetto nella sua unità.
I veri e pieni oggetti sono quindi solo “in mente”. Ecco che il circolo che noi cogliamo esteriormente (ossia quello meramente fisico) non sarà mai così perfetto come quello che noi cogliamo interiormente (ossia quello intelligibile). Ed è evidente che qui Malebranche si riferisce alla conoscenza dei puri oggetti matematici come quella davvero paradigmatica.
Tutto questo però comporta una completa disconnessione tra l’anima (nella quale avviene la percezione) ed il corpo a sua volta contiguo al mondo esteriore. In termini percettivi ciò significa che l’anima non prende contatto né con l’uno né con l’altro. E quindi è solo un’illusione quella di andare a passeggio (grazie all’anima) per il mondo esteriore cogliendo gli oggetti di cui esso è disseminato. Malebranche esprime questo con la seguente affermazione: − “Non vi è relazione necessaria tra le due sostanze di cui siamo composti”. E questa è chiaramente un’affermazione cartesiana.
E con ciò egli afferma, proprio come Cartesio, che non vi è alcuna unità anima-corpo, né alcun effetto dell’uno sull’altro. Egli ammette solo la simultaneità (voluta da Dio) della presenza di alcuni sentimenti nell’anima con alcuni movimenti verificantisi nel cervello; ma ciò solo in virtù dell’azione di quella Causa suprema divina che vuole esattamente questo. Va però notato che, se per Cartesio, è l’anima a non agire sul corpo, per Malebranche è il corpo a non agire né sull’anima né sullo spirito. Laddove invece lo spirito agisce sempre sia sul corpo che sull’anima. Quindi la sua dottrina sembra paradigmatica di quella della formazione spirituale del corpo e del mondo.
Il pensatore però ammette che vi siano comunque dei presupposti corporei per la percezione, dato che il vedere le cose dipende al verificarsi di movimenti del cervello, ed a questi movimenti le idee sono congiunte. Tuttavia anche qui interviene l’illusione che si tratti di percezione sensoriale ossia esteriore. In altre parole la conoscenza intelligibile abolisce totalmente la percezione.
La realtà più generale di questa teoria resta comunque quella più metafisica. E cioè che la conoscenza avviene nella Ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”.
Questo è da considerare il nucleo della teoria della percezione di Malebranche. Il discorso continua poi investendo altri aspetti di esso ma potremo limitarci a trattarne solo di una parte.
Veramente decisivo appare essere il concetto di “rivelazione” che il pensatore impiega quando passa dai fondamenti della teoria della percezione a quello della certezza circa l’esistenza dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. E questo rinsalda la teoria della percezione a quella della primaria ed assoluta Causalità divina che agisce in ogni circostanza ed in ogni fenomeno. Malebranche sostiene infatti che è del tutto ovvio che noi sentiamo il nostro corpo, e quindi siamo certi della sua esistenza. Il che costituisce poi una certa imbarazzante prova dell’esistenza del mondo esteriore. Ma quest’ultima viene inficiata dal fatto che noi abbiamo bisogno costantemente di un’esperienza interiore del nostro corpo e cioè di quella “rivelazione” di esso che otteniamo quando avvertiamo ad esempio il dolore per una puntura. Cosa per mezzo della quale abbiamo anche una rivelazione dell’esistenza del mondo esteriore.
Tuttavia è qui che interviene infallibilmente la suprema Causalità divina. Perché la catena di eventi non è affatto autonoma e casuale come sembra. E questo sempre a causa della disconnessione tra mondo-corpo ed anima della quale Malebranche è convinto. La verità è infatti secondo lui che è solo Dio a provocare nell’anima i sentimenti (non è invece affatto la percezione come evento esteriore passante per il corpo) in relazione ai mutamenti del corpo. I quali avvengono poi in forza dell’unione del corpo all’anima che sussiste non su base meramente naturale ma invece solo in obbedienza alle superiori Leggi generali dell’Essere.
Il dolore, dunque, non ci perviene per la via del buco che l’agente pungente causa nel corpo, né l’anima produce da sola questo sentimento. È invece Dio a farlo per mezzo del “sentimento con cui egli ci colpisce”, che è poi il modo in cui egli ci rivela cosa accade fuori di noi (ossia fuori della nostra anima), e cioè nel nostro corpo e nei corpi che ci circondano, ovvero gli oggetti esteriori.
E tutto ciò sta in relazione con la sua idea negativa della volontà umana, dato che essa è direttamente condotta da quella espressa dalla suprema Ragione divina. Egli sostiene infatti che il volere umano al massimo riesce a far insorgere idee nella mente, cioè nell’anima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 328-329, p. 44-45]. Essa è invece incapace di muovere qualunque corpo, e quindi perfino di muovere un braccio e perfino un dito. Quanto poi agli eventi esterni, essi non sono altro che l’occasione (“causa occasionale”) perché perfino in questo si manifesti l’azione della Causa universale. È dunque solo Dio a muovere tutto
Intanto Malebranche nega molto direttamente l’unione anima-corpo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 148-148, p. 45-47]. Egli dice infatti che questa idea è solo ingenua dato che la parola “unione” a proposito dei corpi non significa assolutamente nulla (non significa in particolare che vi sia una vera unione tra parti). Quindi si può parlare semmai di azioni reciproche esistenti tra i corpi, ma non di un’unione tra loro come accade alle parti. E lo stesso accade per il corpo e l’anima in quanto sostanza radicalmente diverse.
Ne consegue che in qualche modo Malebranche ammette una qualche unione anima-corpo
Egli postula l’unione anima-corpo (sebbene la neghi in termini strettamente argomentativi) ma nel senso che il corpo agisca sull’anima. Quindi, come abbiamo detto, dissocia la loro esistenza in un dualismo simile a quello cartesiano. Ma la sua dissociazione dell’anima dal corpo non ha un senso negativo (nel senso materialista di negazione del corpo animato o di negazione dell’anima) bensì invece positivo. Perché egli non solo afferma l’esistenza dell’anima (e perfino le attribuisce funzioni di mente) ma inoltre annovera l’anima a Dio, cioè allo spirito. Ed ecco dunque un chiaro concetto di anima spirituale, che nel XX secolo è stato espresso in filosofia ad esempio da Edith Stein, e solo parzialmente in linea con la Fenomenologia husserliana (dato che ella tese a ridurre l’anima allo Spirito inteso specificamente come “Pneuma”) [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9, 8 p. 385-387; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima”, Prospettiva Persona, 95-96 (2016). 92-95]. La Fenomenologia steiniana ci ha offerto un concetto simile ma nel concepire un’unione molto stretta tra anima e corpo ed anche nel postulare l’azione decisa della prima sul secondo. In ogni caso, comunque, Malebranche, ponendo chiaramente il dualismo anima-corpo, e considerando l’anima non estensione (“res cogitans”), la rende lontana dal conoscibile che è solo ciò di cui possediamo l’archetipo, ossia tutto ciò che è esteso (sensibilmente ed intelligibilmente).
Qui di fatto considera impossibile qualunque l’auto-conoscenza. Dunque per lui il Sé non è affatto un oggetto di conoscenza. Infatti, come egli dice, intuisco al massimo “chi sono” (“sum”) ma non “ciò che sono”. Pertanto, essendo unito intimamente a me stesso (al mio interiore), io non posso essere oggetto per me stesso. Inizia dunque forse proprio con Malebranche la tradizione della negazione filosofica dell’auto-conoscenza. E questo è senz’altro un aspetto molto importante della sua epistemologia.
In ogni caso il punto cruciale di tutto è un culto della Ragione di tale entità che è capace di portare addirittura all’estasi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. Infatti è proprio ad un’estasi che perviene Aristo dopo essersi convinto delle argomentazioni di Teodoro e Teotimo. Le quali riguardavano l’azione ubiquitaria e dominante della Causalità divino-razionale suprema – essendo la sola a causare perfino l’unione di anima e corpo, in obbedienza alle sole Leggi della comunicazione del movimento ed in concorrenza con la mera causalità naturale −, e far sì, quindi, che l’anima umana sia unita unicamente alla Ragione universale, così da essere capace di conoscere esclusivamente nel contemplare interiormente una varietà di bellezze intelligibili.
La nostra anima, dice infatti Teotimo, non è unita al corpo “secondo idee volgari” ma è unita “immediatamente e direttamente a Dio solo”. È solo per questo che siamo presenti (cioè siamo tutti esistenti), convinti della stessa verità e “di uno spirito medesimo”. Dio ci congiunge per mezzo del corpo “in conseguenza delle leggi dell’unione dell’anima e del corpo”. Leggi che sono supremamente trascendenti ed universali. Ma, egli aggiunge, siamo ancora più congiunti per mezzo dell’anima.
È in essa infatti che si verifica la conoscenza del mondo attraverso l’intelligibile mondo delle idee.
L’anima è dunque la mente immanente e particolare che è intimamente unita in ogni momento alla Mente universale. Infatti è in essa che Dio trasforma i suoni in parole in modo che poi (per mezzo delle idee) ne cogliamo anche il senso. È che siamo uniti alla Ragione universale che illumina le intelligenze, aggiunge Aristo. Infatti anche lui si è ormai convinto del fatto che non c’è nulla di visibile che possa agire sull’anima “se non la sostanza efficace e intelligibile della ragione”.
In questo si riassumono i tratti fondamentali della teoria della percezione ed anche della teoria della conoscenza; entro un’impostazione radicalmente razionalista sia della conoscenza stessa che della realtà mondana. Tutto risale alla sola Ragione universale e tutto è soltanto da essa causato e giustificato – tanto quanto avviene interiormente, quanto avviene esteriormente, quanto infine avviene entro la relazione tra interiore ed esteriore (ossia nell’atto stesso di percezione e conoscenza del mondo). Non c’è dubbio però che (pur con tutte le sue insufficienze e contraddizioni) questa sia una teoria razionalistico-mistica della conoscenza stessa.

Ma veniamo ora a porre l’accento più decisamente sulla teoria della conoscenza per mezzo dell’affronto del classico tema della relazione esistente tra interiore (o mente o soggetto), e mondo esistente fuori di noi nel quale si presume che esistano oggetti, che quindi dovrebbe essere l’oggetto della conoscenza. E si presume anche che questi oggetti esistano del tutto indipendentemente dalla nostra esistenza oltre al fatto di esercitare sugli organi sensori gli stimoli che permettono prima di percepirli e poi di conoscerli.
Questa è per così dire la teoria più intuitiva della conoscenza (come rapporto tra soggetto ed oggetto) ed essa è decisamente realista, sebbene un po’ in tutta la filosofia è stata considerata come «ingenua» e cioè non filosofica. I segni di questa accusa si avvertono anche in Malebranche, sebbene egli non usi mai il termine «ingenuità». E quindi la sua complessiva visione filosofica può ben venire considerata idealista.
Sebbene Nadler, uno dei suoi interpreti la definisca come realista, aggiungendo che anche tutti i cartesiani lo sarebbero [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. Egli ammette però che probabilmente Malebranche non può realmente venire coinvolto nella disputa idealismo / realismo. E tra poco vedremo che ciò ha le sue ragioni nel sostenere questo. Più avanti però chiariremo definitivamente tale questione.
In ogni caso sembra decisamente idealista una dottrina entro la quale si postula che tutto ciò che sembra avvenire nel mondo avviene invece solo nello Spirito.
Abbiamo già visto come il pensatore affronti il tema della certezza che possiamo avere dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. Ed abbiamo visto che egli la risolve ponendo una sorta di “rivelazione” dei corpi esteriori che si manifestano a noi grazie alla Causalità divina. In ogni caso nel dialogo i diversi interlocutori stessi ammettono che comunque resta il dubbio circa l’esistenza dei corpi esteriori. E Teodoro è costretto, per risolverla, a ricorrere addirittura alla credenza religiosa, affermando che la è Rivelazione a rassicurarci su questa esistenza parlando di un mondo creato. E quindi essa va considerata assolutamente ovvia. Tuttavia ciò avviene al di fuori di qualunque teoria della conoscenza. Perché, allorquando ci spostiamo sul piano di quest’ultima, dobbiamo riaffermare che però i corpi che “non sono visibili per sé stessi” né possono agire sul nostro spirito. Quindi il nostro spirito può conoscerli solo nelle idee “che li rappresentano” oppure per mezzo dei sentimenti dovuti all’unione dell’anima al corpo.
Ci troviamo quindi nuovamente nel contesto di una teoria chiaramente idealistica. Sebbene in essa manchi completamente qualunque effettiva relazione tra soggetto ed oggetto. La conoscenza avviene infatti unicamente in sede interiore, e cioè di fatto servendosi unicamente delle idee delle cose. Si tratta quindi di un idealismo solo relativo. Proprio per questo si può dire che Malebranche concepisce la conoscenza come ascesa teoretica verso l’intelligibile, nella misura in cui essa si distacca dall’illusione della percezione e del mondo fuori di noi. Questa sorta di ascesa teoretica può venire concepita sulla base delle riflessioni che seguono [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. Malebranche parte dalla costatazione che Dio vede in sé stesso l’estensione intelligibile, ossia “l’archetipo della materia di cui il mondo è formato e dove abitano i nostri corpi”. Intanto le nostre anime abitano in questa ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”. Ed (su un livello più basso, ossia mentale-funzionale) accade che la nostra mente è connessa con questa ragione a causa delle leggi dell’unione dell’anima con il corpo. In virtù di tutto ciò l’oggetto matematico lo percepiamo in tre modi: lo concepiamo, lo immaginiamo, lo sentiamo e lo vediamo.
Al livello massimo della conoscenza, però, si delineano oggetti puramente spirituali come l’“estensione intelligibile”, la quale si applica al nostro spirito allo spirito con confini indeterminati ma comunque distanti da un punto determinato e tutti in un medesimo piano. È questo che determina la nostra concezione del circolo come intelligibile. Che poi per Malebranche è il circolo più reale. Quando invece noi lo immaginiamo, questa immutata estensione (distante da un punto) “tocca leggermente” il nostro spirito. Quanto lo sentiamo e lo vediamo esso tocca poi la nostra anima.
Eccoci dunque di fronte alla funzione conoscente dell’anima che per Malebranche è indubbiamente tra le più basse forme di conoscenza. Ed essa non a caso è luogo di percezione. Dunque la percezione è la forma più bassa della conoscenza, che è invece massima nella conoscenza spirituale.
Intanto c’è da constatare che (per mezzo della conoscenza intelligibile) Dio ci può permettere di “rappresentarci tutti gli esseri materiali” semplicemente a causa della relazione tra estensione e spirito; che è del tutto indipendentemente dalla percezione.
Ecco dunque la contemplazione delle bellezze intelligibili. Ed ecco dunque anche il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, che in verità si verifica solo in alto e non in basso. Quindi essa è del tutto disconnessa dalla percezione. Il che conferma che egli non considera affatto la conoscenza come relazione reale tra soggetto ed oggetto.
Ma comunque il pur relativo idealismo di Malebranche non si basa sulla negazione dell’esistere di una realtà visibile, bensì invece si basa sul supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. In questo quindi, come abbiamo già anticipato, egli anticipa l’oggetto di coscienza di Husserl e forse anche la riduzione trascendentale (basata sulla messa tra parentesi dell’ingenuo mondo fuori di noi: vedere oggetti esteriori). Possiamo comprendere questo ancora meglio attraverso le riflessioni di Malebranche [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 393-395, p. 39-40]. Il pensatore dice infatti che può anche darsi che l’essenza della materia non sia affatto l’estensione. Quello che importa è che però (interiormente) “il mondo che immaginiamo formato di estensione, paia somigliante a quello che noi vediamo”, sebbene esso invece esso non sia affatto materiale. Del resto “Non è assolutamente necessario di esaminare se fuori effettivamente vi sono degli esseri che fanno riscontro alle idee, perché noi non ragioniamo su tali esseri ma sulle loro idee”.
E con ciò in un solo colpo il pensatore sgombra il campo dal valore e ruolo attribuibile alla coscienza (come luogo terminale della percezione), dato che la sua anche solo probabile esistenza non ha alcun senso. Pertanto per lui il criterio che davvero conta è il nostro pensare (a proposito delle proprietà delle cose) se le sensazioni (puramente interiori) che noi ne abbiamo si accordino davvero con l’esperienza. Del resto, egli aggiunge, ciò si cui ragioniamo nella fisica sono cose di cui “nessuno dubita”. E quindi in effetti la natura non è affatto nascosta. In altre parole, nonostante il radicale idealismo della sua concezione della conoscenza, la sua occupazione di fisico gli rende possibile ammettere comunque una certa esteriorità (sia pure solo metaforica) dell’esistenza di un mondo fuori di noi fatto di oggetti. E questo nuovamente lo approssima almeno parzialmente a Kant.
Questa è insomma la teoria della percezione e quella della conoscenza secondo Malebranche, che nei PM emerge in una maniera sufficientemente chiara.

Vediamo ora se si possono trovare ulteriori elementi in CC e TNG.
Innanzitutto va detto che le obiezioni di Aristarco presentano una posizione molto simile a quella che poi sarebbe stata dell’empirismo [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 17]. Con diversi argomenti l’interlocutore di Teodoro sostiene infatti che le sensazioni (a loro volta provenienti dal mondo esteriore) causano qualunque effetto e modificazione nell’anima. A ciò Teodoro risponde che invece la Causa superiore è superiore proprio “perché agisce in noi”. Mentre per lui tale superiorità non è affatto alla portata della capacità di azione degli oggetti esteriori né delle forze nude della Natura. Pertanto qualunque modificazione interiore (ossia la percezione stessa che equivale ontologicamente all’anima) si spiega solo interiormente, ossia laddove non vi è alcuna distanza tra la causa e l’effetto. È evidente la svalutazione qui di qualunque genere di causalità ordinaria di tipo meccanicistico (dominata dalla legge dell’urto) come quella posta invece da Cartesio. Essa non gioca alcun ruolo nella percezione. Ed abbiamo visto che infatti Aristarco rappresenta la posizione di Cartesio. Cartesio quindi, anche se pone la dissociazione tra sostanza animica e sostanza corporea, concepisce di fatto al modo ordinario degli empiristi.
Quindi anche in CC Malebranche [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 27-28] critica l’ordinaria fisiologia della percezione (ossia quella dell’empirismo), mostrandoci che essa sembra un’evidenza ovvia solo nella misura in cui è effetto del disordine causato dall’ordine della Caduta: E quindi in realtà essa è straordinaria e non ordinaria, perché non riflette affatto la relazione tra spirito e corpo esistente nella Prima Creazione
Nella quale non vi era alcuna relazione centripeta tra ambiente esterno (corpi) e spirito (soggetto), ossia non vi era alcuna relazione (afferente o efferente) tra soggetto e oggetto. E questo ci spiega perché abbiamo constatato che egli non concepisce affatto la teoria della conoscenza nei termini usuali, ossia appunto come relazione tra soggetto e oggetto.
Egli sostiene infatti che, nell’istituire la Natura, Dio ha creato nell’uomo spirito e corpo. Ed inoltre, per garantire la conservazione della sua creatura, ha stabilito che quando nel corpo vi siano movimenti nell’anima si determinino diversi sentimenti. Movimenti che avvengono in una parte del cervello, che però Malebranche non ammette essere la ghiandola pineale (come fa invece Cartesio). In tal modo egli sta insomma giustificando anche l’istinto di sopravvivenza, ossia la pulsione umano-animale all’auto-conservazione. Questo però comporta comunque un certo influsso esteriore, che però non esisteva assolutamente prima del Peccato originale – condizione nella quale lo spirito era integralmente disconnesso dalla dimensione corporale. Dato che esso rappresentava l’unica forma di Essere esistente.
Con la conseguenza di una conoscenza purissima nella sua pienezza, dato che la corporalità non interferiva. Questa condizione ontica però esiste ancora perfino dopo il Peccato. Ma, a causa di tale interferenza, essa non avviene senza sforzo. E comunque, dopo il Peccato, l’influsso dei corpi esteriori si traduce anche nell’effetto soverchiante dei piaceri sensibili sullo spirito umano. Ecco delinearsi quindi in modo generale il potere causale degli oggetti. Ii quali si spingono fino al cervello lasciando tracce profonde, e così nell’anima si producono movimenti che la indirizzano l’uomo “forzatamente” verso gli oggetti sensibili. Questo significa allora che Malebranche in qualche modo ammette anche (in quanto ovvia e ragionevole) la teoria ordinaria e centripeta della percezione, ma la ritiene assolutamente straordinaria e non invece ordinaria. Essa sussiste infatti unicamente nell’Ordine degenere della Caduta. E per questo motivo essa è solo teorica, dato nel mondo (in forza della misericordiosa Grazia divina) domina nei fatti la suprema Causa divina. Quindi non si verifica. Infatti il perfetto ordine naturale stabilito da questa Causa non potrebbe tollerare la mutabilità della volontà umana, la quale, nel caso del vigere dell’ordinaria percezione, risponderebbe sempre autonomamente alle sollecitazioni esteriori.
Ecco allora che la decisione di Dio a mantenere le leggi naturali persistenti anche dopo il Peccato originale esprime quindi quell’Ordine della Grazia, che, fondendosi perfettamente all’Ordine della Natura, persegue lo scopo di porre il rimedio al disordine del peccato per mezzo del prevalere di circostanze decisamente non ordinarie. E quindi questo giunge fino a revocare la fisiologia psico-corporea.
Altro aspetto di questo tema (trattato in CC) è quello della relazione tra percezioni e idee [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Dialogo III, p. 55-58]. Infatti per Malebranche non sono affatto le percezioni a fondare le idee, ma sono invece le idee (eterne e divine) a fondare le percezioni. Perché essa stabiliscono cos’è esattamente la cosa percepita. Ne risulta che occorre un’oggettualità ideale stabile perché la cosa possa venire percepita così com’è. In particolare, egli dice, non è affatto vero che ciò che possiamo percepire di una cosa “è compreso nel concetto, cioè nella percezione che la rappresenta”. Perché così sia le percezioni umane dovrebbero infatti essere le stesse di quelle divine. Per questo motivo noi conosciamo le cose solo attraverso le idee eterne che ci colpiscono; e intanto esse sono comuni allo spirito e a Dio. Pertanto è senz’altro vero che l’anima è capace di percepire, ma solo quando la ”sostanza efficace della divinità” (sostanza divina) la colpisce direttamente. Questa insomma sembra essere l’unica dottrina dell’anima conoscente che Malebranche possa sostenere. Del resto egli afferma esplicitamente altrove che l’anima è “una sostanza che pensa, che sente, che vuole, che ragiona” [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogio VI, 117].
Ma sembra pensarla diversamente, invece, laddove sostiene che, in via di principio l’anima (pur essendo incontestabilmente luogo di percezione) non ha affatto conoscenza di ciò che accade nel mentre si sta verificando un evento che causa sensazioni. Infatti il nostro corpo prova dolore o piacere prima ancora che l’anima se ne sia accorta [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 14]. E questo fenomeno diviene assolutamente eclatante presso bambini piccoli e idioti, ossia in caso di oggettive limitazioni cognitive. Questo significa quindi che (sebbene con molte incertezze ed in una maniera molto debole) Malebranche attribuisce comunque all’anima il ruolo di sostanza conoscente. Ma del resto ciò risulta comunque molto problematico, dato che egli concepisce l’anima come equivalente di fatto ai sensi.
Del resto, secondo lui, nel postulareo l’ordinaria fisiologia della percezione (basata sulle idee di cose come modificazioni dello spirito causate dagli oggetti percepiti), si afferma che il processo è del tutto casuale (e quindi banalmente tautologico: noi percepiamo il percepibile e basta), non essendovi in verità alcun modello (essenza-idea) per la cosa che percepiamo. Quindi noi sappiamo che percepiamo qualcosa ma non sappiamo cosa. Pertanto non si è certi affatto del fatto che ciò che percepiamo sia distinto dalla percezione che ne otteniamo. Si parla insomma di una percezione fisiologica in quanto immediata, ossia non condizionata dalle idee. Si tratta insomma di una teoria solo apparentemente ovvia ma in realtà basata sulla rinuncia a qualunque tentativo di vera fondazione, e quindi spiegazione.
E qui bisogna dire che, almeno in questo campo, Malebranche si è prodotto in una riflessione filosofica davvero fondata.
Lo possiamo comprendere ancora meglio se seguiamo l’argomentazione del pensatore.
Infatti Teodoro (in risposta alle obiezioni tendenzialmente empiriste di Aristarco) afferma che – qualora seguiamo l’ordinaria teoria della percezione – dobbiamo dire che l’oggettualità esteriore costituita dalla sfera non è né un’idea di cosa presente nello Spirito divino né una sfera ideale completamente distinta dalle modalità dello spirito (cioè dalla percezione). Essa è invece una modalità dello spirito in quanto noi ne abbiamo la rappresentazione. E così l’unica cosa che di essa si può dire è quello che è racchiuso nella sua rappresentazione presente nella nostra anima. Ma anche se questo può sembrare ovvio e ragionevole, esso invece non è altro che una banale tautologia, secondo la quale noi possiamo percepire quello che possiamo percepire. E quindi da ciò non si evince nemmeno che ciò che percepiamo (il «cosa» o «cio che è» «è» ) sia esattamente come lo percepiamo. Perché in tal modo le idee non sarebbero distinte dalle percezioni.
Ecco che allora, secondo Malebrance, invece della rozza fisiologia della percezione (puramente tautologica e senza spiegazione) vige semmai la dottrina del modello ideale delle cose, in forza della quale le cose percepite sono un «cos’è» ben definito che viene percepito esattamente così com’è (anche se il suo aspetto non è così perfetto come quello delle idee). Per questo motivo non può sussistere alcun dubbio circa il fatto che: − 1) quando percepiamo noi percepiamo sempre «qualcosa»; 2) quando percepiamo noi percepiamo esattamente la cosa esistente così com’è (in quanto frutto della creazione secondo idee). Pertanto, anche se in tal modo non è postulabile alcun realismo − affermante l’assolutezza esistente della cosa esteriore ed il suo effetto sulla percezione (quale unica forma di inizio della conoscenza) −, invece è sostenibile un sano idealismo della conoscenza. Ma intanto (nonostante tutte queste precisazioni limitanti), la percezione è un fenomeno di certo non soggetto ad alcun dubbio
E nell’ambito di tale discorso Malebranche afferma che proprio questo è in verità il fondamento stesso della certezza della scienza. Secondo il quale è vero “non solo tutto ciò che lo spirito percepisce immediatamente e direttamente esiste davvero” ma è vero anche “che è sempre come lo si percepisce”.
In effetti, egli precisa, le idee di cose presenti in Dio sono impartecipabili; quindi ciò che si percepisce per mezzo di esse è oggettivamente imperfetto. La conseguenza è che mai “gli oggetti sensibili non si percepiscono in sé stessi”. Ed ecco affacciarsi di nuovo una prefigurazione della teoria kantiana della conoscenza, secondo la quale l’«in sè» resta inevitabilmente inconoscibile. Ma intanto gli oggetti sono esattamente come vengono percepiti, anche se in circostanze immanenti, e quindi di tendenziale imperfezione. Si percepisce infatti perfettamente che, ad esempio, i corpi sono divisibili e in movimento.
E questo perché il concetto di estensione che abbiamo è lo stesso del quale Dio si è servito per crearli. Quindi “le creature sono conformi all’idea del Creatore, al modello eterno sul quale le ha plasmate”, e proprio per questo sono conoscibili come idee-essenze.
Malebranche però non intende schivare il problema rappresentato da quegli oggetti ideali che rischiano fortemente di essere totalmente inesistenti nell’esperienza. Il problema inizia nel dialogo con l’affermazione provocatoria di Aristarco, secondo la quale è preferibile comunque credere alla “visione immediata e diretta degli oggetti in sé stesso”. Ma Teodoro oppone a questo errore proprio l’evidenza di quegli oggetti che noi vediamo in sogno durante un delirio febbrile in virtù di una vibrazione del tutto simile all’oggetto esteriore, e che insorge solo nello spirito senza alcun corrispettivo esteriore (quindi per davvero senza alcuna stimolazione sensoriale). Quindi realmente è possibile vedere anche ciò che non esiste. Ma questo riconferma per lui che noi non vediamo mai “direttamente i corpi come sono in sé stessi”, bensì ne vediamo solo le idee che li rappresentano. Del resto (nel nostro spirito) noi non siamo in grado di concepire uno spazio infinito, ossia spazi ulteriori che superino i limiti celesti. Quindi la nostra stessa idea di estensione non è infinita.
Insomma questo significa che la teoria percettiva di Malebranche si sposa fortemente con il suo idealismo della conoscenza. Ed esso richiama Kant in quanto, in luogo delle condizioni a priori per la conoscenza esperienziale, egli pone la Ragione universale quale fonte delle idee di cose per mezzo delle quali soltanto noi possiamo cogliere le cose del mondo esteriore.
In ogni caso si arriva ad un superamento definitivo dell’ordinaria teoria empirista della percezione mediante ulteriori considerazioni del pensatore. Teodoro constata infatti che lo spirito umano è limitato mentre invece le idee che esso ospita possono essere illimitate come lo è effettivamente quella di estensione. È evidente quindi che, allorquando noi concepiamo questa idea, si verifica una modificazione del nostro spirito. Ma essa non può insorgere assolutamente né in virtù delle capacità intrinseca dello spirito umano né in virtù di una comunicazione di esso con i corpi esteriori. Infatti entrambi sono fatalmente limitati. Ecco che noi nello spirito concepiamo per definizione una cosa limitata, e quindi la «cosa pensata» effettivamente è infinitamente molto più piccola dell’oggettività infinita che esso può comunque ospitare, e che è comunque reale anche se puramente intelligibile. Ne consegue che lo spirito umano (non essendo affatto in grado di “comprendere tutta la realtà intelligibile dell’idea”) non può affatto percepire l’intero mondo esteriore, essendo esso ben più complesso ed ampio del nostro mondo interiore ed inoltre dotato di una vera onticità – dato che esso include oggetti finiti ed infiniti, ma comunque entrambi coglibili solo in quanto intelligibili. Infatti, precisa Teodoro, le idee sono infinite mentre le percezioni “sono modificazioni transitorie e limitate”. Per questo esse non possono venire quindi essere non causate “dall’azione dei corpi che ci circondano”, bensì invece solo dalla stessa “realtà intelligibile” (il mondo delle idee) ed anche “efficace” della “Ragione sovrana che ci penetra”.
Ecco che con queste riflessioni viene definitivamente superato ed invalidato il mero fisiologismo naturale della percezione, in quanto non solo transitorio ma anche limitato. Esso infatti non rispecchia affatto la vera onticità ideale delle cose che è in realtà immensa. Ma nello stesso tempo viene in tal modo assunta una posizione anti-idealista. Che consiste in questo − il mondo interiore è insufficiente (spazialmente e quanto a capacità di coglimento) per rappresentare l’intero mondo esteriore.
A questo punto possiamo giungere a delle conclusioni anche rispetto all’appartenenza del pensiero di Malebranche all’idealismo o al realismo. Ed in tal modo possiamo anche comprendere perché alcuni interpreti ritengano il suo pensiero realista. Ma lo possiamo fare solo in modo condizionato, come vedremo tra poco.
Il pensatore non nega affatto l’esistere di un mondo di oggettualità esteriori, anzi lo afferma al massimo grado nel concepirlo come il luogo di oggettualità che solo apparentemente sembrano meramente corporali ma in verità sono unicamente intelligibili. Esso include infatti tanto oggettualità finite quanto oggettualità infinite. È insomma una realtà caratterizzata dall’immensità. E proprio questo è il mondo con il quale si confronta la Fisica, essendo costretta a ragionare sui puri oggetti matematici che fondano le realtà corporee e le loro relazioni. È quindi un errore fare equivalere l’oggettualità di questo mondo alla mera e volgare esteriorità di esso rispetto all’interiorità conoscente entro la quale non ci percepisce altro che realtà intelligibili – ossia un’esteriorità esistente in quanto del tutto indipendente dall’esteriorità. Pertanto il vero contenuto di questo immenso mondo esteriore (che poi è quello creato da Dio e nel quale noi confusamente sentiamo di esistere) è rappresentato dalle idee delle cose e non invece dalle cose corporee.
Ecco allora che noi prendiamo atto proprio di questo allorquando siamo consapevoli di conoscere il mondo esteriore solo per mezzo della contemplazione delle realtà intelligibili.
E dunque è vero che Malebranche può venire in qualche modo considerato idealista perché afferma il primato della conoscenza interiore. Ma. dall’altro lato, non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che può esistere un mondo esteriore «senza coscienza». Inoltre è vero altrettanto che Malebranche può venire in qualche modo considerato realista perché ammette l’esistere di un immenso mondo «esteriore» che trascende infinitamente la finitezza dell’interiorità spirituale umana. Ma intanto non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che possa esistere una coscienza «senza mondo».
Ne consegue quindi che molto probabilmente egli non può venire considerato né idealista né realista.
Ma comunque tale questione ci riporta ad una suggestione che ci ha colpito più volte nel corso della lettura dei testi, e cioè quella che lascia pensare ad una certa relazione del pensiero di Malebranche con quello fenomenologico di Husserl e Stein. E non ci sembra che in letteratura vi siano indicazioni per questo.
In ogni caso il pensatore francese pone come primaria un’oggettualità mentale di tipo ideale che, entro la conoscenza, occupa totalmente il luogo dell’oggettualità esteriore. Non solo ma sembra volerci fare anche capire che è solo ingenua una conoscenza che prenda in considerazione dogmaticamente il solo oggetto esteriore nel suo impositivo esistere. E questo lascia fortemente pensare all’«oggetto di coscienza» che Husserl ritenne quello indubitabilmente vero in virtù dell’”intuizione essenziale” [Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão (trad), Edmund Husserl, Investigaçõs Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, § 17, 67-68 p. 87-89]. Del resto egli stesso parla della conoscenza delle idee di cose come essenze, laddove invece per lui quella che sembra la conoscenza più autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza integralmente realistica di un mondo esteriore è dunque solo credenza cioè ingenuità.
Per quanto ne sappiamo non sembra che questa dottrina abbia influenzato in qualche modo la Fenomenologia husserliana, ma è comunque che per qualche via indiretta (magari per mezzo di Berkeley e dell’Idealismo tedesco) sia pervenuta ad essa. Oppure è anche possibile che essa si sia sviluppata nel XX secolo sulla base di premesse filosofiche insorte molto prima.
Esaminando infine TNG, sembra che l’unico luogo in cui Malebranche parla della conoscenza è quello in cui ritiene quest’ultima davvero “chiara” (invece di essere un confuso sentimento) solo quando accompagna il movimento della volontà il vero Bene, e cioè Dio [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, V p. 153].
Ma questa affermazione ci dimostra anche che le abbondanti considerazioni neutralmente gnoseologiche del pensatore ebbero sempre come sfondo uno scenario etico-religioso, sebbene anch’esso fortemente condizionato dalla gnoseologia. Il che significa che questo autore non andrebbe studiato solo per la sua teoria della conoscenza.
Nello stesso tempo, però, bisogna ammettere che quest’ultima trova in Malebranche una trattazione non solo molto ricca ma anche estremamente originale ed infine non poco convincente. E questo viene peraltro provato dalle ipotetiche connessioni tra essa ed una teoria della conoscenza che si sarebbe sviluppata solo allorquando la filosofia cessò di interessarsi completamente di metafisica ed anche di religione, cioè la Fenomenologia. In altre parole la teoria della conoscenza di Malebranche merita di venire studiata anche separatamente rispetto agli contenuti del suo pensiero. Ed inoltre bisogna anche dire che essa è forse l’unica parte della sua visione che non presenta le oscurità, astrusità ed assurdità che invece abbondano nelle altre sue parti.

Il concetto di mondo e di Natura ed il tendenziale il panteismo (sezione 5).
Abbiamo già preso atto abbondantemente di come Malebranche vedesse il mondo e la Natura. Ed alla fine della quarta sezione abbiamo constatato che questa visione ha anche dei risvolti vagamente realisti.
Nonostante questi ultimi però egli sembra considerare il mondo reale come largamente illusorio rispetto al mondo reale. E ciò ad onta di quella sua occupazione di fisico che (come ritiene Rome) lo pose in stretta relazione non solo con Cartesio ma anche con lo sperimentalismo di Bacone [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Insomma, nonostante il suo molto estremistico idealismo metafisico-religioso (di stampo senz’altro platonico), Malebranche fu senz’altro anche un filosofo e scienziato della Natura. E quindi non poteva non vedere il mondo anche al modo imposto da questo ruolo. Del resto l’accento da lui posto sulle più semplici, trascendenti e divine Leggi del mondo (quelle Leggi della comunicazione del movimento, che rivelavano per lui unicamente l’azione della suprema Causa divina) non gli impedì di prendere atto dell’esistere ed agire delle immanenti leggi della Natura; ed anche della loro inesorabilità. E queste ultime sussistono solo in un mondo considerato indubitabilmente esteriore.
In ogni caso la sua postulazione di una suprema Causa divino-universale, presiedente ad ogni inferiore causalità (la quale, come lui dice, agisce fin dentro la realtà degli atomi), non poteva non configurare, almeno in una certa misura, una visione panteista del mondo. Di questo abbiamo del resto già parlato ed abbiamo anche visto che (introducendo nel panteismo un forte condizionamento etico- e metafisico-religioso) egli intende il mondo molto più in modo panenteistico, ossia lo considera come esistente totalmente entro la realtà di Dio.

Ma vediamo ora quali elementi vi sono per questo nelle opere che abbiamo esaminato.
Gli elementi panteistici presenti in PM li abbiamo già esaminati. Ma comunque in quest’opera vi sono ulteriori elementi riguardanti la sua considerazione del mondo e della Natura.
Innanzitutto il mondo sensibile gli sembra addirittura disgustoso rispetto a quello intelligibile, a causa delle “bellezze” che solo in quest’ultimo possono venire contemplate [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21]. Quindi la sua occupazione di Fisico non gli impedisce di guardare molto pessimisticamente (come del resto avviene anche per l’uomo) a quel mondo sensibile che del resto, conoscitivamente, aspetta di venir riscattato per mezzo delle verità fisico-matematiche. Infatti egli ritiene che la parte migliore dell’Essere (ed anche dell’uomo), se ne sta nel mondo intelligibile e non in quello sensibile. Inoltre egli guarda negativamente al mondo anche perché, sul piano della conoscenza, esso è del tutto illusorio per il fatto che “noi non percepiamo per sé stessi gli oggetti fuori di noi” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 373, p. 25]. A ciò si aggiunge il fatto che egli è convinto che gli oggetti da noi percepiti nell’anima non si trovano di certo “nell’aria” come noi invece tendiamo ingenuamente a credere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 57-58, p. 25-26].
Ed a tale proposito egli precisa che quelle proprietà oggettive dei corpi (da lui chiamate “modalità”) non sono altro che “relazioni di distanza”. Un’idea questa che sarebbe poi stata ripresa da Bergson molto tempo dopo [Henri Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 2022]. Insomma egli sostiene che nessuna cosa è davvero nel mondo (nemmeno il dolore nel corpo) ma tutto è invece solo nell’anima; il che riguarda poi soprattutto le qualità dell’oggetto [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31]. E altrove aggiunge la percezione è sempre solo “mia” e non invece dell’oggetto al quale sembra appartenere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. – producendosi così di nuovo in un’affermazione che richiama molto da vicino la Fenomenologia husserliana.
In definitiva quindi la conoscenza del mondo è solo interiore, nel mentre però noi abbiamo l’illusione che le cose siano fuori di noi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 116-117, p. 31-33].
Insomma, nonostante il realismo al quale abbiamo accennato alla fine della quarta sezione, è evidente che Malebranche non presta alcun vero credito all’esistere di quel «mondo fuori di noi» (esteriorità totalmente indipendente dall’interiorità) che invece per i veri realisti è un dogma indiscutibile. Tale era esso infatti per la Scolastica nonostante il suo approccio metafisico agli enti. Ed infatti Malebranche contestò veementemente questa visione nel configurare un’onto-metafisica completamente diversa.
L’idealismo però è comunque tangibile presso il pensatore, sebbene per mezzo di una presa di posizione molto originale, e cioè quella secondo la quale non si tratta affatto di negare l’esistere di una realtà visibile, ma invece si tratta di supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. Possiamo comprenderlo bene laddove egli parla del sole come oggetto intelligibile (ossia quello davvero reale e quindi oggettivo), che noi non percepiamo mai se non nelle sue illusorie apparizioni dovute al moto di dell’astro (più o mano grande, più o meno altro, più o meno chiaro) [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 118-120, p. 38-39].
Ma passiamo ora a CC.
Attraverso le riflessioni condotte da Malebranche in quest’opera comprendiamo che il suo panteismo è in effetti soprattutto quello del mondo intelligibile interno a quello sensibile. E questo per il fatto che la Causa di ogni cosa, Dio, ossia la Ragione universale e Sapienza assoluta, si presenta come un intelligibile realmente oggettuale (idee di cose) che è dappertutto e vede ogni cosa a distanze incommensurabili [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I, p. 17-18]. Abbiamo già esaminato questo concetto discutendo l’ubiquità di Dio in quanto immensità. Ma questo panteismo è legato soprattutto all’omnipresenza della Causa suprema in ogni minimo evento e fenomeno. Il che è poi legato alla Sapienza omnisciente.
Infatti essa conosce il momento esatto in cui la spina (o il fuoco) colpisce il nostro corpo per causare “contemporaneamente” la sensazione nella nostra anima. E, sottolinea Malebranche, questo essa non lo sa certo da noi visto che noi non ne abbiamo ancora nemmeno consapevolezza. Né lo sa dalla spina che non è intelligibile (visto non esistono rapporti tra corpi e spiriti). Né infine lo sa dalla materia che è appena sostanza inerte. Potrebbe saperlo da un’altra intelligenza ma così avremmo un regresssum ad infinitum.
Ed allora bisogna presupporre un’Intelligenza suprema che sa di questo “in sé stessa e per sé”. E questa intelligenza “Non può essere che Dio, cioè un Essere la cui potenza è infinita e la cui volontà è la sola causa di tutte le cose”. Infatti solo in Dio le “volontà sono efficaci”, prescindendo così dalla vista cortissima delle cause e volontà naturali. Dunque tutto ciò accade perché Dio ha una visione perfetta di ogni cosa: − “vede in sé e per sé stesso l’essenza e il movimento dei corpi”. Si tratta quindi insieme di immanenza intelligibile e infallibile preveggenza.
Per cui (come dice Erasto) la causa del dolore non è affatto l’anima che lo sente né la spina, ma invece solo nella Potenza superiore che “prevede” (infallibilmente e nell’eternità) il momento esatto in cui la spina mi ferirà. Il che accade perchè i corpi non possono né istruire gli spiriti né avere su di essi qualunque efficacia. Pertanto la Potenza superiore può conoscere quest’attimo “soltanto da sé stessa”. Dunque ne risulta una prova davvero singolare dell’esistenza di Dio: − “se Dio non ci fosse” io non verrei punto dalla spina, non sentirei niente, né vedrei né conoscerei nulla. Pertanto Dio è pienamente presente nel mondo e nella Natura (immanenza panteistica) in quanto è Causa diretta degli eventi (senza la sua preveggenza nulla accade), del sentire, del vedere e del conoscere. Dio è panteisticamente immanente in quanto Vita che tutto muove, e che a sua volta dipende strettamente dalla Sapienza preveggente. Che poi è quella Ragione universale in virtù della quale tutto esiste ed accade. Si tratta insomma delle funzioni che in un panteismo molto più semplicistico (in quanto nemmeno minimamente razionalistico) venivano attribuite all’anima.
E proprio per questo nella metafisica pagana ed anche nella moderna Sofiologia di parlava di “Anima Mundi” [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, Vb p. 74-75; Samuel D. Cioran, Vladimir Solov’ëv and the Knighthood of the Divine Sophia, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1977]. La quale era poi un’entità semi-divina molto prossima alla Sapienza divina in forma di Sophia [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Non sappiamo se Malebranche abbia mai avuto conoscenza ci queste dottrine, ma di certo nel suo razionalismo metafisica se ne intravvedono molte tracce. In ogni caso lo stesso pensiero cristiano ha finito per assumere queste idee nel presupporre un infallibile Piano divino che non a caso è stato sempre considerato razionale. Così esso si presenta infatti nell’”intelligent design” tomista del quale abbiamo già parlato.
Abbiamo però anche visto che il razionalismo metafisico non è affatto sempre così impeccabile, dato che esso tende a cadere in non poche aporie ed anche vere e proprie assurdità.
Esso sfiora addirittura il ridicolo di fronte a misteri come quello della concezione del Figlio come Redentore del Peccato Originale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 36-37]. Malebranche infatti postula una relazione uomo-dio che sarebbe possibile non per mezzo del Figlio (cosa del resto teologicamente del tutto plausibile) ma per mezzo del fatto che Dio avrebbe creato il mondo non per l’uomo ma solo affinchè emergesse la presenza del Figlio. Cosa che, come abbiamo già visto, lo induce a pensare che Dio ha forse addirittura voluto (oltre che previsto) il Peccato umano solo perché il Figlio realizzasse l’opera di Redenzione. Ed inoltre secondo lui noi siamo divenuti figli di Dio solo per mezzo di quest’ultimo evento, mentre non lo siamo mai stati per un’originaria amorosa volontà divina.
E questo costituisce secondo noi solo pura retorica teologica, cioè la ricerca di spiegazione razionale per un fenomeno che invece è solo un insondabile mistero. Infatti il Peccato come giustificazione dell’esistenza Figlio-Redentore è un’idea che teologicamente sfiora davvero il ridicolo dato che rende l’amore di Cristo un fenomeno unicamente necessario e razionale
Ma una volta messe da parte queste insufficienze, è chiaro che Malebranche (come Leibniz) concepisce la razionalità dell’ordine divino soprattutto nella Natura, cioè in un cosmo perfettamente ordinato da leggi naturali (da Lui volute e non dal mondo) e nonostante il Peccato. Ecco di nuovo la teodicea. Infatti per lui le leggi attuali della Natura sono esattamente le stesse (e perfette) come quelle da Lui stabilite prima del Peccato. E questo è certamente un’idea molto attraente.
Ma anche in CC si presentano riflessioni sul mondo.
Proprio quello che abbiamo appena detto fa emerge di nuovo il profondo pessimismo di Malebranche verso un mondo in cui, a causa del disordine introdotto dal Peccato, noi uomini siamo schiavi della carne, e quindi lontani da quello spirito che pure è la nostra sostanza per volontà divina [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit.,Dialogo I p. 20]. E del resto proprio questa fatale difettività – al di là dell’ideologia filosofica razionalista – giustifica l’azione continua della Causa suprema divina nel mondo e nella Natura. In altre parole essa sembra solo gelida e indifferente ma per questo motivo è anche amorevole.
Altre considerazioni sul mondo convergono poi con quelle rilevate in PM mettendo in luce il fatto che quando io guardo il mondo sensibile in effetti non vedo altro che il mondo intelligibile [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 46-47, p. 52-53]. Inoltre, a causa dell’incorruttibilità della divina sostanza, le idee che Dio ospita nella sua mente sono altrettanto incorruttibili. Tale quella di estensione che riguarda così da vicino il mondo sensibile. E tuttavia l’estensione voluta da Dio nel creare il mondo è corruttibile in quanto soggetta a mutamento, corruzione e generazione. Per cui il mondo è quello che è, e Lui lo sa benissimo.
E così noi uomini possiamo rassegnarci a questo in quel “sentimento” (corrispondente alla percezione) che ci comunica la pura essenza dell’oggetto presente solo nella mente divina. Laddove questo sentimento è appena credenza, mentre solo la visione dell’essenza è conoscenza. Ma intanto, grazie alla partecipazione della Ragione divina (che trova poi sua espressione) possiamo vedere il vero oggetto nascosto dietro questo sentimento. E questo è davvero incorruttibile. Ed allora, grazie a questa partecipazione (concessaci per Grazia da Dio), noi possiamo vedere un mondo del tutto diverso da quello corruttibile che i nostri sensi ci impongono, ossia un mondo che nella sua vera realtà è intelligibile. Un mondo che è costituito da “tutte le idee e tutte le verità immutabili”.
Ed ecco che di nuovo ci possiamo riconnettere da ciò alla Fenomenologia husserliana, secondo la quale la vera conoscenza è solo quella delle essenze, mentre l’apparente conoscenza autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza realistica di un mondo esteriore è insomma appena credenza. cioè ingenuità.
Le altre riflessioni sul mondo presenti in CC le abbiamo già discusse nelle sezioni precedenti.
In TNG ci sono comunque ben poche considerazioni sul mondo.
In primo luogo è evidente che Malebranche è ben lungi da pensare che il mondo sia in mano a Satana, quale Signore delle leggi della Natura. Egli la pensa invece in modo del tutto contrario, nonostante il suo giudizio sostanzialmente negativo sul mondo stesso.
Secondo il nostro pensatore il mondo è stato tratto dal nulla da un Dio perfetto; atto per il quale l’uomo deve rendergli incondizionatamente onore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, III p. 73]. E questo viene da lui giustificato mediante il solito argomento secondo il quale, una volta tolto Gesù Cristo, questo Dio potrebbe produrre solo null’altro al di fuori di sé.
In ogni caso per lui il mondo è (ontologicamente) in primo luogo la continua manifestazione della potenza divina [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XII p. 77-78]. Infatti secondo Malebranche l’idea dell’Essere perfetto implica due attributi per la creazione: − Sapienza senza limiti e Potenza irresistibile. La Sapienza gli rivela infinite idee di opere e tutte le vie per realizzare i suoi progetti. La Potenza lo rende padrone e signore di tutte le cose, ed inoltre radicalmente autonomo, a tal punto che la sua volontà viene eseguita non appena egli vuole qualcosa. E per questo Egli non ha bisogno nemmeno di strumenti, dato che la sua volontà è efficace di per sé. Insomma la Sua Potenza non differisce minimamente dalla Sua Volontà.
Ebbene la via da Lui preferita a tutte le altre (entro tale contesto di attributi) è stata la creazione di in mondo visibile, “dal quale e nel quale egli forma quel mondo invisibile che è l’oggetto del suo amore”.
Amore che però resta rivolto solo a sé stesso.

Chi fu Malebranche come filosofo, metafisico, religioso e scienziato? (sezione 6).
Data l’originalità della sua filosofia è indispensabile comprendere la persona, la psicologia e la vita di Malebranche; specie quella filosofica. Ebbene chi fu Malebranche?
Ebbene veniamo a sapere che egli nacque a Parigi nel 1638, e fu un giovane introverso, malaticcio, pigro e meditativo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., Prefazione p. 5-14]. Ma fu anche intellettualmente molto inquieto, e proprio questo lo condusse a Cartesio, che costituì poi la radice di tutta la sua filosofia (nonostante le differenze tra di loro che comunque poi si delinearono). Pare inoltre che nel corso della sua vita di filosofo gli sia tata tributata una grande e vasta gloria. Tanto che pare egli abbia contribuito a far diventare la filosofia una disciplina di interesse per l’uomo comune. Il che suona abbastanza strano.
Veniamo anche a sapere che incrociò molto direttamente Berkeley, ma che poi entrarono in conflitto.
E questo appare del tutto ovvio data la somiglianza dei rispettivi idealismi. Secondo il prefattore (Mario Novaro) pare infine che la sua svalutazione delle cause occasionali equivalga fortemente alla critica di Hume alla causalità. Cosa però ben strana, dato che egli pose poi una Causa ancora più alta e possente di quella naturale. Del resto abbiamo visto che la sua teoria della percezione è ben anti-empirista. Il suo panteismo lo rende ovviamente affine a Spinoza, che però pose una sostanza divina mondana assolutamente statica.
La sua lotta contro l’antica metafisica (“la filosofia vana”) lo rende inoltre ovviamente simile a Hobbes, Bruno e Galileo.
Veniamo anche a sapere [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Introduzione, p. V-XXXVI] che egli con CC intese davvero fare apologia del Cristianesimo, sebbene opponendosi ai principi cartesiani (che pare nel dialogo venga rappresentato da Aristarco). E chissà se non sia dovuto proprio a questo il fatto che egli fece uscire anonima la prima stampa del libro. Dietro il libro ci sarebbero comunque gli argomenti sviluppati antecedentemente nella Recherche. Oppositore delle tesi di Malebranche sarebbe stato comunque non solo Arnaud, ma anche Bayle e Bossuet.
Alfonso Ingegno, nella sua Introduzione a TNG, non fa altro che riconfermate che anche dietro questa riflessione vi fu il materiale della Recherche [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Introduzione, p. 5-65].
Poi, come tutti i già discussi prefattori dei libri di Malebranche, egli si dedica ad un’analisi dei temi in esso trattati che ne conferma l’appropriatezza senza esprimersi in alcun giudizio sulla qualità delle tesi.
E questo è tipico tra i critici di filosofia. Si da infatti per scontato che qualunque pensatore abbia il pieno diritto di dire quello che vuole ed anche come lo vuola. E non si va mai oltre questo. La nostra idea di Filosofia è però diversa, e per questo abbiamo incentrato questa recensione in gran parte su una critica alla qualità delle tesi di Malebranche che spesso i è tradotta in un negativo giudizio di valore.
Questo è quello che si può venire a sapere circa la persona di Malebranche, sia nei suoi aspetti filosofici che umani.
A nostro avviso comunque c’è da dire qualcosa di più su di lui. La sua visione filosofica infatti (prescindendo dal grande valore oggettivo della sua epistemologia) tradisce infatti la psicologia di un uomo che non a caso ha voluto raffigurare la perfezione del mondo unicamente per la via di una Ragione divina tanto perfetta quanto del tutto indifferente al male. Male che, entro questa ottica, è sicuramente circostanziale e individuale, e quindi in questo senso forse perfino irrilevante rispetto alla perfezione del Piano di fondo.
Ma sta di fatto che esattamente questo è il male con il quale ha a che fare ognuno di noi nel corso della sua esistenza. Anche se si considera che esso è in fondo inevitabile in un mondo inevitabilmente imperfetto. Ma Malebranche ci lascia completamente soli proprio con questa così fondamentale esperienza del male.
E questo è del tutto incomprensibile per un uomo che, oltre che un filosofo, fu anche un chierico. Ma del resto sarebbe incomprensibile anche per un puro filosofo.
E quindi noi diremmo che Malebranche fu in definitiva un uomo molto oscuro (se non sinistro) nella globalità dei ruoli che esercitò e delle idee che sviluppò nel loro contesto. Ossia fu probabilmente un uomo talmente condizionato dall’ossessione della perfezione razionale da arrivare a dimenticarsi completamente dell’uomo e dei suoi bisogni. Ora, lasciando stare anche la dimensione filosofica di tale atteggiamento, diremmo che sul piano psicologico ed emozionale ciò denota una deplorevole chiusura in sé stesso, che senz’altro arriva a configurare anche un solipsismo gelido e indifferente, e che inoltra denota la chiusura dell’uomo in pensieri tanto profondi quanto oscuri e negativi. E questo è del resto un atteggiamento perfettamente prevedibile in chi fa dell’impeccabile razionalismo la sua religione.
Su questa base possiamo allora dire che, come uomo e filosofo, Malebranche abbia apportato alla consapevolezza umana qualcosa di davvero apprezzabile? Ebbene, la nostra risposta a tale domanda è senz’altro negativa.
Quindi, se proprio dobbiamo dire chi fu Malebranche come uomo, ci vediamo costretti a dire che forse fu uno che avrebbe fatto meglio a tenersi per sé le proprie idee.

Conclusioni.
I commentatori appena discussi non trovano alcuna pecca nel complessivo pensiero di Malebranche e quindi non hanno assolutamente nulla da dire sul suo valore. Già nell’introduzione ci eravamo però trovati di fronte ad una situazione diversa. Perché in essa abbiamo constato l’esistere di studioso che non gli hanno risparmiato critiche.
In ogni caso il pensiero di Malebranche è multiforme, complesso e profondo. E quindi sicuramente ha un grande valore oggettivo. Abbiamo visto peraltro che la sua epistemologia è estremamente ben pensata, ed offe così in anticipo notevoli argomenti per confutare le tesi che gli empiristi di lì a poco avrebbero sviluppato assimilando la teoria della percezione e della conoscenza a quella ordinaria della psicologia empirica.
Eppure abbiamo constatato che la visione di questo pensatore presenta molti elementi controversi. E quindi ora cercheremo di riassumerli.
Almeno dal nostro punto di vista essi consistono nel fatto che egli intende presentarsi come un metafisico cristiano, ma in un contesto di pensiero rigorosamente razionalista. E questo ha davvero pesanti conseguenze, specie di fede. Il Dio di Malebranche è infatti null’altro che la stessa Ragione universale. Niente altro. Ossia è l’istanza massima per l’affermazione di qualunque verità ed inoltre per la conoscenza del mondo. La dottrina idealistica del pensatore fa infatti in modo che noi concepiamo la conoscenza del mondo unicamente come impiego delle stesse idee di cose che sono presenti nel seno di Dio-Ragione.
Oltre a ciò Egli è Causa e Volontà suprema che esautora tutte le cause e volontà inferiori, e quindi giustifica dall’alto in maniera perfetta (in virtù della sua insuperabile razionalità) l’esistere, sentire, pensare ed agire di qualunque ente. E tutto questo genera un contesto di realtà davvero difficile da fare proprio e da applicare all’esistenza.
Abbiamo constatato però che Malebranche intanto ha un’idea decisamente pessimistica sia del mondo che per l’uomo. Per cui le buone intenzioni di questo progetto di perfezione del mondo (e dell’uomo in esso esistente) vanno riportate unicamente all’amore che Dio prova unicamente per sé.
Da qui una delle idee più assurde che in pensatore abbia sviluppato, e cioè quella secondo la quale la Sua creazione del mondo sarebbe stata giustificata solo dal desiderio si fare emergere la figura di Cristo, e non invece dal desiderio che esistesse l’uomo ed anche il mondo stesso. E da questa idea deriva poi quella ancora più assurda secondo la quale Dio avrebbe addirittura voluto espressamente il Peccato Originale perché poi Gesù Cristo lo potesse dirimere. A tutto questo è poi legata anche una dottrina assolutamente aberrante della libertà e della scelta.
Ebbene, se queste idee (come ritengono i suoi prefattori) sono state il frutto dello sforzo di difendere il Cristianesimo dalle accuse che intanto esso iniziava a ricevere, diremmo che il risultato di ciò non è stato affatto quello desiderato. Ne esce fuori infatti un Cristianesimo nel quale non solo viene totalmente deformata l’idea di Dio ma che addirittura rischia fortemente di scivolare nel cinismo indifferente, se non nella crudeltà. Questo infatti abbiamo visto che è esattamente ciò che accade nella teodicea di Malebranche. Non a caso il Cristianesimo da lui presentatoci manca totalmente l’idea dell’amore divino.
Tutto questo significa però che stiamo giudicando il pensatore su un piano etico-religioso e teologico.
Ma è proprio così che bisogna giudicarlo? Oppure bisogna trascurare questi aspetti per prendere in considerazione solo quelli filosofici?
Abbiamo già detto che Malebranche costruisce un’epistemologia di tutto rispetto. E questo è senz’altro u punto forte del suo pensiero dal punto di vista propriamente filosofico. In particolare si tratta di una visione idealistica che permette di superare il realismo ingenuo in maniera molto simile a quella della Fenomenologia husserliana. E tuttavia, anche nel suo contesto, risulta abbastanza paradossale una visione nella quale il mondo reale esteriore viene conosciuto solo interiormente, e cioè non per mezzo delle cose reali effettivamente percepite ma invece per mezze delle sole idee di cose.
Ma – bisogna ancora chiedersi −ci sono ulteriori aspetti filosofici rilevanti nel suo pensiero?
È davvero difficile dare una risposta positiva.
Il suo razionalismo è infatti così estremistico e dogmatico da pretendere di assumere addirittura una valenza teologica, ossia spiegare Dio e renderlo presente nella nostra esistenza. Il suo causalismo supremo si basa anch’esso su un’idea sostanzialmente teologica e quindi ha facile gioco nello sgominare la causalità naturale mostrandoci nel mondo una realtà in cui la Ragione divina penetra in ogni minima piega dell’essere. Ma questo intanto nella piena tolleranza e giustificazione del male. E questo se non è assurdo è almeno non poco cinico.
Quanto poi all’insufficienza della metafisica del pensatore abbiamo già detto.
Visto però che è stato detto (dal prefattore di PM, Mario Novaro) che Malebranche avrebbe reso la filosofia oggetto di interesse dell’uomo comune, allora probabilmente bisogna discutere soprattutto del suo valore per quest’ultimo soggetto. Ci chiediamo allora quale interesse possa mai avere una visione che guarda unicamente all’immenso e perfettissimo Progetto razionale di Dio, senza che Egli si preoccupi minimamente del fatto che le Leggi da Lui previste implicano necessariamente il male (come effetto temporaneo sì ma comunque per Dio assolutamente irrilevante); ed inoltre nel nutrire divino un profondo disprezzo per l’uomo e per il mondo stesso.
Può essere sostenibile per l’esistente un Progetto perfetto e dai fini ineccepibili che però ignora completamente il suo grido di dolore per la sventura e gli eventi avversi che lo colpiscono?
È credibile che ciò accada? A nostro avviso assolutamente no. Per cui la visione di Malebranche deve essere interessante (ed ancora oggi) solo per i filosofi (sostanzialmente per la sua epistemologia) ed anche per i metafisici che riescono ancora a condividere la sua interpretazione a nostro avviso assolutamente insufficiente (se non aberrante e deviante) di questa disciplina. Insomma, una volta posto questo, è chiaro che il progetto filosofico-metafisico di Malebranche non è mai assolutamente uscito dall’ambito dell’Accademia.
Al cospetto di tutto questo diremmo quindi che il pensiero di Malebranche è certamente troppo sostanzioso per non meritare di venire studiato. Ma intanto presenta troppi aspetti controversi per non essere considerato una visione per molti aspetti largamente paradossale ed assolutamente non condivisibile.
E con questo giudizio crediamo che la nostra recensione possa anche concludersi.

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Introduzione
Abbiamo già sostenuto in un precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “Il complessivo ed ultimo pensiero di Edith Stein nell’orizzonte della Fenomenologia ultra-husserliana di Karl Jaspers”, Revista Portuguesa de Philosophia, 78 (1-2) 2022, 170-224] che la dottrina steiniana dell’empatia ha una valenza unicamente gnoseologica e solo apparentemente emozionale, dato che essa è sostanzialmente allineata con l”entropatia” e soprattutto con il concetto di “inter-soggettività” del suo venerato maestro Husserl. La tesi che abbiamo sostenuto in quell’articolo è stata quindi che la dottrina steiniana dell’empatia non riguarda affatto le emozioni (e più in generale l’affettività), ma invece unicamente la dottrina della conoscenza. La riflessione condotta allora (e le relative successive letture), ci hanno indotto però a porci ulteriori problemi critici, e cioè soprattutto se è esistita davvero (entro il entro il panorama filosofico in cui operò Stein) una dottrina più appropriata di quella dell’empatia. E questo non poteva che condurci al cospetto di “Essenza e forme della Simpatia” (EFDS) di Max Scheler [Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, FrancoAngeli, Milano 2010]. Per cui ci siamo dedicati alla lettura ed analisi di questo libro. Per cui questo articolo intende innanzitutto analizzare i contenuti di questo libro paragonandolo con alcuni dei contenuti di “L’Empatia” (LE) [Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.] di Edith Stein.
Questo libro costituì in effetti una delle ricerche più precoci condotte dalla pensatrice nell’ambito della scuola husserliana, e quindi deve senz’altro avere tutti i caratteri (sempre tendenzialmente ingenui) delle opere precoci. E tra questi caratteri vi è secondo noi la forte spinta a concepire una realtà emozionale come l’empatia sotto l’influsso schiacciante del concetto unicamente gnoseologico di “inter-soggettività” sviluppato da Husserl. In parole ben più povere si è trattato, da parte di Stein, di un primo atto di deferente omaggio dell’allieva al venerato maestro. Ma, in termini filosofici, il risultato di questa operazione non poteva che essere deteriore, ossia un vero e proprio guazzabuglio di concetti, le cui caratteristiche non possono che essere la confusione e soprattutto la forte tendenza a mancare l’obiettivo (sebbene in sé lodevolisssimo) di descrivere la dimensione emozionale della conoscenza e del pensiero. Su questo però ci esprimeremo èiù chiaramente nelle conclusioni.
Ebbene tutto questo ci viene mostrato immediatamente dalla davvero magistrale riflessione di Scheler sulla tematica, il cui obiettivo principale (come dice Laura Boella nell’introduzione al libro) [Laura Boella, Introduzione – rileggere Sympatiebuch, Max Scheler, Essenza…cit., p, 7-28] fu proprio quello di postulare ed anche descrivere (con grande precisione) il valore delle emozioni rispetto -alla “vita analitico-concettuale” (1 p. 8). Laddove poi per lui l’emozione è pienamente valida (al pari della conoscenza) perché ha in primo luogo un senso etico, ossia è sostanzialmente coglimento di valori. Ebbene, a fronte di questo, è assolutamente chiaro che il pensiero di Scheler aveva in partenza possibilità molto maggiori (rispetto a quello di Stein) di cogliere l’obiettivo di mostrare la rilevanza della vita emozionale entro la complessiva vita psichica. Del resto Boella registra questo in modo che non lascia assolutamente equivoci – di fronte all’inconsistenza della dottrina dell’empatia steiniana, Scheler finì per disinteressarsi di essa per confrontarsi unicamente con il concetto husserliano di “inter-soggettività” (1 p. 10-11). Che poi era in verità l’unico nucleo del concetto steiniano di empatia. Scheler insomma comprese perfettamente che quello che Stein diceva era negativamente condizionato dal fatto che ella era “giovane” ed “allieva di Husserl” (nota 10, 1 p. 10). Del resto Boella prende atto di quello che la stessa Stein molto onestamente aveva affermato: − “L’impostazione del problema e il metodo del mio lavoro sono nati unicamente dagli stimoli ricevuti dal prof. Husserl, tanto che è davvero problematico dire quali cose, all’interno della presente esposizione, io possa definire ‘mia proprietà spirituale’”. E questo è riscontrabile effettivamente nel libro di Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., Premessa, p. 52]. Insomma la pensatrice sapeva esattamente quello che stava facendo (ossia parlare e pensare unicamente a nome e per bocca di Husserl), e quindi doveva anche conoscere il valore effettivo ed oggettivo della sua dottrina. Il che (come abbiamo detto senza mezzi termini nel nostro già citato articolo) rende molto poco fondati i tentativi dell’attuale psicologia e psichiatria fenomenologica di porre il concetto steiniano-husserliano di empatia alla base di una davvero fedele analisi della vita emozionale. Semmai questo fondamento dovrebbe venire trovato sull’opera di Scheler, il quale peraltro include nella sua riflessione la valutazione critica di un gran numero di teorie dell’empatia, tra le quali soprattutto quella di Lipps).
Resta solo il problema della ben poco chiara delimitazione del concetto steiniano di “empatia” da quello di “simpatia”, ed anche il problema del valore e significato che Scheler attribuiva al concetto di simpatia. Dal libro del pensatore questo non è facile da desumere, anche se a volte sembra che per lui il concetto di simpatia ricomprenda in sè quello di empatia. Dal commento critico di Boella si comprende però che egli affermò “l’insostenibilità teorica delle etiche della simpatia”, ma intanto (cosa sez’altro più importante), nel trattare del concetto, sgombrò decisamente il terreno dall’influsso esercitato su di esso dal concetto husserliano di inter-soggettività (1 p. 9).
Quello che non è assolutamente possibile capire da libro è se (nel contesto di una complessiva e molto variegata teoria della simpatia) Scheler concepisca o meno qualcosa di simile ad un’”empatia” (Einfülung), ossia di fatto la piena compenetrazione emozionale tra due diverse vite psichiche, cioè l’immedesimazione profonda ed emozionale tra due diversi Io. Boella (1 p. 11) ci fa capire che la sua riflessione sul tema è di fatto un “sentiero interrotto”; cosa dalla quale si può presumere che lui stesso non abbia voluto risolvere il problema, o non ci sia riuscito. Quello che è certo è che il significato dell’empatia viene da lui fortemente “circoscritto e discusso”. E vedremo che molte volte ciò corrisponde ad un suo vero e proprio esautoramento.
Qualcosa su questo ce lo dice però proprio Edith Stein [Edith Stein, L’empatia…cit. II, 3c p. 65-69] nel chiarire (facendo riferimento proprio a Scheler) che la simpatia è ben più dell’empatia, in quanto non solo è condividere ad esempio la gioia dell’altro ma è anche gioire per essa. E questo non è altro che il “con-gioire” del quale spesso Scheler stesso parla. Ma per lei è anche il vero e proprio “co-patire”, ossia un’esperienza di condivisione emozionale (esperienza vissuta) assolutamente non originaria, dato che la distanza tra i due individui viene pienamente mantenuta. E questo sottolinea un aspetto che poi vedremo essere assolutamente essenziale. Il che significa allora che ciò che contraddistingue l’empatia è l’essere invece un’esperienza vissuta originaria, ossia un’esperienza di condivisione nella quale la distanza viene a cadere completamente. Vedremo però che Scheler considera questo più un mito che non cosa realmente possibile. E tuttavia ciò trova compenso nel fatto che egli considera il co-patire come un fenomeno originario solo in senso metafisico, e quindi caratterizzante l’uomo nella sua essenza al di fuori di qualunque necessità di giustificazione tanto naturalistica quanto gnoseologica. Nel complesso potremmo quindi dire che forse l’empatia (ammesso anche che essa davvero esista) non è altro che un caso estremamente ristretto del co-sentire, e probabilmente corrisponde vagamente al “ri-sentire” e al “ri-vivere”.
In ogni caso constateremo che Scheler (quale pensatore che ebbe un senso della realtà pratica molto maggiore di Husserl e Stein, anche perché oltre che filosofo era medico), riesce più volte a presentarci la simpatia come un fenomeno tipico dello spirito umano, ma intanto assolutamente spontaneo (sebbene affatto riducibile naturalisticamente), e quindi molto più ampiamente condividibile di qualunque concetto di empatia.

  1. Il co-sentire, co-patire, ri-sentire e ri-vivere (ri-esperire), e il problema della partecipazione del vissuto dell’Io altrui.
    Quello che certamente è possibile capire dal libro di Scheler è che il co-sentire può essere considerato la forma più corretta e piena di empatia in quanto simpatia, cioè come partecipazione emozionale della vita psichica dell’altro
    Questo lo si può già capire già dalle premesse di Scheler al libro [Max Scheler, Premessa alla seconda edizione, in: Max Scheler, Essenza…cit., p. 34-38]. Infatti egli definisce il co-sentire come una funzione emozionale superiore (profondamente distinta dall’affettività, cioè dalle mere sensazioni affettive) che è di natura intenzionale e cognitivo-assiologica (corrispondente per la precisione alla “logica del cuore”) ed ha pertanto a che fare molto direttamente con i valori delle cose (non invece con le mere affezioni). Il co-sentire ha infatti la capacità di cogliere questi ultimi in una persona riconosciuta come valore in sé. E questo implica la percezione del vissuto di un altro in assenza di costrutti del genere della teoria dell’empatia (entro la quale si postula invece la nostra capacità di avvertire l’Io dell’altro per mezzo di vari tipi e modelli di prestazioni cognitive). Scheler sostituisce a tutto questo la ben più semplice capacità umana di cogliere l’altro come un valore in quanto persona e solo in quanto persona. Cosa che implica ovviamente un atto emozionale più che cognitivo. E più precisamente ciò comporta la percezione del vissuto di un altro Io. In questo senso il co-sentire (percezione e consapevolezza emozionale di un Io altrui e dei suoi vissuti) è una compartecipazione emozionale, e quindi è anche un co-patire. In termini più usuali è compassione.
    In ogni caso il co-sentire può venire considerato ciò che per Scheler rappresenta la forma più generale di compartecipazione della vita psichica altrui, ed anche il suo nucleo. Dunque è soltanto nel suo contesto che si sviluppa tutto ciò che può venire considerato come empatia e/o simpatia.
    Dunque il co-patire è in qualche modo il momento ulteriore del co-sentire nel senso dell’emozionalità [Max Scheler, Essenza…cit., A, I p. 41-43]. Ma il fatto fondamentale, per Scheler, è di tipo ontologico. Perché sia il co-sentire che il co-patire sono radicalmente originari, e quindi non sono riducibili a qualunque altra realtà (che essa sia concepita come elementarmente vitale o psicologico-funzionale). Quindi si tratta di caratteri onto-metafisici propri dell’uomo in quanto persona. In particolare si tratta della disposizione umana (metafisica) alla condivisione emozionale dei vissuti altrui, che viene prima di qualunque altra disposizione. In questo senso si tratta dell’amore. Ma più avanti chiariremo le caratteristiche specifiche di quest’ultima realtà.
    Vi sono però comunque per Scheler anche dei caratteri primitivi ed insufficienti del co-sentire, che lo rendono in qualche modo primario in quanto elementare. Infatti, in quanto disposizione, il co-sentire non ha nulla a che fare con l’etica, dato che quest’ultima è strettamente legata al comportamento, ossia alla manifestazione fattuale della disposizione. Sempre per questo esso è passivo e non attivo, dato che l’etica è attiva.
    In ogni caso il co-sentire è di natura specificamente emozionale. Vi è però qualcosa che comunque lo precede sul piano puramente cognitivo, e questo atto rientra nell’apprensione e comprensione, ossia costituisce il sapere dei vissuti altri [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 43-67]. E questo atto puramente cognitivo non ha assolutamente nulla di emozionale. Eppure esso è esattamente quanto (come precisa Scheler) viene definito come empatia, e precisamente “empatia proiettiva”. Ed ecco delinearsi quindi un altro sotto-aspetto (ma solo secondario) del co-sentire, e cioè il “ri-esperire”, o anche “ri-vivere” o “ri-sentire” il vissuto altrui. Si tratta insomma di un presupposto cognitivo della compassione (co-patire) che quindi, ovviamente, può presentarsi anche in totale assenza di quest’ultima. Siamo insomma nel puro campo del giudizio, mentre con il co-sentire ed il co-patire siamo invece nel piano della piena esperienza. Ebbene ci si può chiedere se non sia proprio questa l’empatia così come postulata e definita da Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., II, 1 p. 57-63]. È difficile dirlo ma è comunque possibile. Perché la pensatrice considera il co-patire alla stregua del mio vissuto di qualcosa di totalmente esteriore a me stesso, ossia il vissuto altrui che si manifesta attraverso l’espressione corporea (specie attraverso il viso) – ossia qualcosa che avviene nel “corpo vivo” (Leib) dell’altro esattamente come avviene nel mio. Ed in questo senso la considera un’autentica esperienza. Mentre invece abbiamo visto con Scheler che non lo è, non essendo altro che un “ri-esperire”. Ed infatti Stein stessa colloca tale atto tra i fenomeni psichici della “ripresentazione”, e per la precisazione come la ripresentazione di qualcosa di originario; sebbene il vissuto sia originario solo nell’Io altrui.
    E si badi bene che ella considera originario “qualcosa che ci è dato nella sua completezza essenziale”, e cioè l’effettivo riempimento di un’intenzione mediante un oggetto del tutto attuale di conoscenza ed attenzione. Ed il segnacolo di questa sorta di piena originarietà (trasferita in qualche modo dall’altro a me) sarebbe per lei la dimensione del “qui ed ora” (unito a quella dell’“in carne ed ossa”) con la quale io colgo il vissuto dell’Io altrui. Stein è certamente consapevole del fatto che si tratta di un’originarietà solo secondaria e non primaria, in quanto è vissuto non originario di un qualcosa che è vissuto davvero originariamente solo nell’Io altrui. Ma intanto afferma che questo vissuto non originario diviene un oggetto al pari del nostro proprio vissuto, ossia uno oggetto di conoscenza. E dunque, nonostante si tratti appena di una “ripresentazione” di qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo (e peraltro nemmeno interna a noi, ma occorrente tra noi ed un altro), ella ne parla come di una nostra effettiva esperienza, e peraltro come di un’esperienza pienamente emozionale. Ecco insomma davanti a noi i termini dell’effettiva condivisione di emozioni altri secondo la dottrina steiniana dell’empatia.
    Ora abbiamo visto che per Scheler solo il co-patire è un’esperienza, anche se essa avviene unicamente tra due Io diversi, e quindi senza la benché minima fusione. Tutto il resto invece è appena un “ri-vivere” o “ri-esperire”, o anche “ri-sentire”. E qui non solo non vi è alcuna emozione, ma addirittura si tratta di atti cognitivi solo preliminari all’emozione. Non si tratta insomma di alcun vero co-patire né di un vero co-sentire.
    Ne consegue che l’empatia (così come concepita da Stein) equipara al co-patire ed al co-sentire (esperienza primaria di condivisione emozionale) qualcosa che invece non solo è solo secondario ma è anche molto riduttivo e pochissimo autentico. E quindi non può essere un vero co-patire. Ecco dunque chiaramente davanti a noi la dimensione puramente cognitiva dell’empatia così come concepita viene da Stein. È evidente quindi che essa non può raffigurare (come invece pretende di fare) alcuna intima compartecipazioni emozionale di vissuti. Per la precisione una compartecipazione così intima da lasciarci fantasticare su un nostro letterale trasferirci nel mondo interiore altrui. E diremmo che proprio questa extrapolazione (del tutto fantastica e mitica) è ciò che ha generato presso psicologi, psichiatri ed uomini comuni (specie di fede) l’immenso fascino esercitato dalla teoria steiniana dell’empatia. Fascino che però purtroppo non ha alcuna giustificazione. Fatto sta che però essa è stata intesa come il modello stesso della compartecipazione emozionale.
    Ora se proseguiamo ora nell’esame del testo di Scheler, vedremo che la sua riflessione conferma in pieno quanto abbiamo appena detto. Egli dice infatti che il fatto che mi venga dato l’Io dell’altro (il suo vissuto) non significa affatto che stia avvenendo un fenomeno empatico, ossia qualcosa che abbia davvero una valenza emozionale (il co-patire o co-sentire). E questo perché l’altro ha una “vita intima” per me assolutamente inaccessibile, a meno che essa non venga espressa esteriormente. Questo lo constata anche Stein, ma Scheler precisa qui che (secondo la teoria dell’empatia) da tale espressione io risalgo all’esistere della vita psichica altrui (cogliendo così i suoi vissuti) solo per mezzo di un’inferenza. E questa inferenza viene spiegata entro la dottrina dell’empatia con il fatto che io e l’altro condividiamo il nostro proprio “corpo vivo” in maniera del tutto sovrapponibile. Altrimenti io non avrei colto altro che l’espressione di un vissuto senza su questo costruire alcuna esperienza empatica. In tal modo dunque la pensatrice cancella in un sol colpo quella differenza tra le vite interiori di diverse persone che invece per Scheler è assolutamente insuperabile, e che quindi non permette alcuna immediata comune esperienza.
    Un’esperienza comune (ma affatto immediata) è possibile invece solo in forza della reciproca volontà di andare l’uno verso l’altro riuscendo solo in tal modo a superare la naturale differenza. Di tale immediata comune esperienza empatica Stein parla invece a chiare lettere (sebbene ponendole comunque dei limiti). Ed abbiamo anche già accennato alla decisività del riferire l’espressione ad un “corpo vivo”. Ma in un’altra parte [Edith Stein, L’empatia…cit., III, 4-5 p. 103-167] della teoria dell’empatia (in LE) Stein afferma esplicitamente: − ”Questa dipendenza dell’esperienza vissuta dagli influssi del corpo vivente è una caratteristica essenziale dello psichico. Tutto ciò che è psichico, è coscienza legata al corpo vivente”.
    E questa affermazione viene alla fine di tutto un discorso nel quale viene postulato che il “corpo vivente” (Leib) – a differenza del “corpo fisico” (Körper), vero oggetto esterno al mio psichismo, e quindi a me del tutto estraneo – mi è dato solo come “mio” e quindi come inscindibilmente legato ad il mio Io (III, 4a p. 105). Ne consegue che, nell’espressione, esso è di fatto il portatore immediato dei miei più intimi vissuti. Sentimento ed espressione sono quindi di fatto simultanei, dato che tra di essi vi è, come dice Stein, “una connessione di essenza e di senso” (III, 4d p. 120).
    Da questa profonda unità tra Io e corpo proprio si passa poi alla postulazione un grado di estensione di questa esperienza all’individuo altrui che è tale da generare vere e proprie intimissime condivisioni di esperienze (“con-vedere”, “con-toccare”, “con-cogliere”) (III, 5 p. 124-167). E questo genera una vera e propria immedesimazione empatica, ossia l’intima condivisione dei vissuti altrui per l’intermediazione del “corpo vivo” che in entrambi gli individui è immediatamente legato all’Io. In altre parole quella che era all’inizio un’empatia puramente “sensoriale” diviene alla fine un’empatia del tutto psichica.
    Ma per Scheler ciò è più che mai impossibile, dato che la mera condivisione del corpo (per quanto similmente “vivo”) non può permettere di superare una diversità tra me e l’altro che è assolutamente insuperabile in quanto rappresenta un fatto ontologico assolutamente fondamentale, ossia radicalmente originario. E questo sostanzialmente perché ogni individuo umano è una persona assolutamente isolata per definizione e fin dal suo primo venire al mondo.
    Ecco allora che – ancora una volta − quanto da Stein (ed altri) viene considerato empatia si rivela essere niente altro che quel “ri-vivere” “ri-vivere” e del “ri-sentire” che rappresentano appena le prime componenti del co-sentire, ossia ne rappresentano appena i presupposti cognitivi senza alcuna componente emozionale.
    Per Scheler, presi in sé, questi fenomeni sono dunque connessi a forme del tutto insufficienti di co-patire (condividere per puro caso con un altro la stessa sofferenza nel corso della stessa esperienza negativa, contagio emotivo, unipatia). Ma il pensatore dice che dal “ri-sentire” si può comunque passare al vero co-patire solo quando ad esso si aggiunge l’espressa intenzione di condividere emozionalmente un vissuto altrui. Ciò è esattamente quanto abbiamo descritto prima (a proposito del superamento della differenza). Ed in questo caso siamo di fronte ad una compassione del tutto volontaria, ma per questo anche non poco artificiosa. L’unipatia (cioè la postulazione di un’unica vita psichica ai livelli psichici più vitali e profondi) è però per lui particolarmente importante perché si tratta di un’intenzione di tipo puramente vitale-affettiva, che come tale è collocata tra la coscienza ed il corpo. Ma è proprio in essa a delinearsi elementarmente quella connessione senza la quale non vi sarebbero né empatia né simpatia. In altre parole nell’unipatia non vi è differenza tra individui proprio perché ci troviamo ad un livello decisamente inferiore alla coscienza ed a qualunque dimensione cognitiva (intenzione).
    L’assoluta necessità della distanza tra persone (a livello cosciente) è comunque qualcosa che impedisce a Scheler [Max Scheler, Essenza…cit. A, III p. 67-68] di rigettare tutte le teorie della “trasmissione”, ossia tra trasmissione immediata del vissuto emozionale dall’uno all’altro. E questo è quanto il pensatore definisce come “teorie genetiche” (a anche “associazionistiche”) del co-sentire. Per lui infatti la via di questa ipotetica trasmissione è per definizione interrotta ontologicamente. E quindi non vi è alcuna possibilità che essa venga superata. E bisogna dire che la teoria steiniana dell’empatia (sebbene con tutte le limitazioni che esse pone) rientra in qualche modo in questa tipologia riduzionistica di co-patire.
    E questo lo dice lo stesso Scheler (sebbene indirettamente) riportando a questa tipologia le teorie dell’empatia di Lipps e Störring. Il problema è infatti per lui che la postulazione della trasmissione copre lo stesso fenomeno dell’espressione, in forza del quale (proprio come abbiamo visto entro l’originaria teoria steiniana), l’empatia non è altro che ripresentazione, ossia di fatto mero ricordo. E qui interviene il fenomeno della riproduzione, in virtù del quale è impossibile pensare ad un’effettiva compenetrazione tra il mio vissuto e quello altrui (ossia l’intendimento più nucleare dell’empatia).
    Di particolare importanza è comunque la menzione scheleriana della piena giustificazione della teoria metafisica della simpatia (sebbene vadano anche in essa riconosciuti molti errori) [Max Scheler, Essenza…cit. A, IV p. 78-101].
    Essa si basa sulla postulazione preliminare di una “l’unità del fondamento del mondo”, che a sua volta giustifica “l’unità dell’essere che sta a fondamento della pluralità degli io”. E ciò non è altro che unipatia, ossia la postulazione dell’unità della Vita – se vogliamo la forma più primitiva ed elementare sia di simpatia che di empatia. La giustificazione primaria di queste teorie metafisiche sta per lui nel fatto che esse pongono in evidenza più che mai l’originarietà del co-patire, ossia il fatto che esso è presente nell’essenza stessa dell’uomo, e quindi non richiede alcuna giustificazione (specie naturalistica). Per tale motivo il co-patire viene tradito da qualunque sua deduzione da altri fenomeni. E non vi è dubbio che anche la teoria steiniana dell’empatia rientri in questo ambito.
    In tale ambito metafisico egli include comunque le più diverse dottrine – da quelle antiche (vedantiche e buddhistiche) a quelle più moderne (di tipo biologistico-vitalistico). Si tratta di dottrine tutte monistiche, e che quindi indicano o una sola realtà nascosta oppure una sola via per la quale tutti i viventi devono passare. Ma ciò che più importa è che di nuovo qui il “ri-sentire” si rivela essere presupposto del pieno ed autentico del co-patire. Infatti la metafisica mette in luce sempre un conoscere prima oscuro e poi chiaro, alludendo così ad un percorso che reca poco a poco al riconoscimento della piena realtà, e quindi al superamento dell’illusione. Laddove quest’ultima non sarebbe altro che l’egocentrismo o solipsismo dell’uomo naturale − ossia l’illusione di essere il centro stesso del mondo. Questo conoscere, infatti, reca all’intendimento del co-patire come “originariamente intenzionale” (il sentire di qualcosa), e quindi come una realtà conoscitiva pre-logica. Più precisamente si tratta del coglimento del valore degli oggetti, il quale a sua volta fonda la loro conoscenza. Ma ciò non ha un significato unicamente gnoseologico, bensì etico. Infatti per mezzo di esso, come abbiamo appena visto, viene per Scheler superato l’“egocentrismo timetico”, cioè l’equiparazione dei propri valori del mondo-ambiente a quelli di chiunque altro. E ciò rende possibile una “conoscenza oggettiva del valore di un essente metafisicamente reale”, cioè affatto inesistente, che è poi questo essente in quanto “essere-così”. Insomma, in termini più semplici, impedisce il riconoscimento dell’«altro» in quanto esistente assoluto con lo stesso identico diritto che attribuiamo a noi stessi. Nella sua pienezza questo co-sentire è insomma matura e completa consapevolezza dell’esistenza degli altri. Ecco dunque il superamento dell’illusione (rappresentata dall’egocentrismo e dal solipsismo) che la metafisica permette, in modo che la vera realtà dell’esistere possa venire colta.
    È evidente che, a fronte di tutto ciò, qualunque teoria dell’empatia diviene artificiosamente intellettualistica e quindi del tutto inutile, proprio perché essa è in definitiva non etica ma solo gnoseologica. La realtà della simpatia è invece puramente etica e perfino etico-religiosa (dunque metafisica), dato che essa punta al superamento dell’egocentrismo. Infatti per questa via diviene possibile il superamento della coscienza “naturale” della propria realtà e quella della realtà altrui.
    Il che è superamento di un’”illusione metafisica” nel senso di un vero e proprio “cambiamento del cuore”. E quindi implica il riconoscimento (in sé come nell’altro) dell’esistere come “essere-così”, ovvero come persona e quindi come assoluto ontico. Da questo momento in poi l’uomo avvertirà sempre la presenza dell’altro come essenza o idea. Insomma questa è conoscenza dell’eguaglianza di valore dell’uomo “in quanto uomo”. E tutto questo sottolinea la dimensione personalistico-antropologica della dottrina scheleriana della simpatia, della quale parleremo poi più diffusamente dopo. Non solo, ma ciò ci lascia anche comprendere cosa si intenda con l’“originarietà” del co-patire o co-sentire. Infatti per Scheler il puro co-sentire appartiene all’”essenza dello spirito umano” e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”. Per la precisione corrisponde a sua volta alla costatazione del “valore dell’altro in generale”. Esso quindi non si verifica affatto nell’esperienza che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma semmai gli offrono solo oggetti da sviluppare. In questo senso, dunque, questa teoria scheleriana sorpassa di gran lunga qualunque intendimento filosofico o psicologico dell’empatia.
    Quanto poi al secondo intendimento del co-patire apportato dalla metafisica (quella di unica vita e via per tutti gli esseri umani), Scheler deve necessariamente contestarla in nome dell’accento posto sulla diversità che caratterizza le persone, e quindi in nome del suo personalismo. Ma di questo parleremo dopo.
    Infine c’è solo da ribadire che per il nostro pensatore l’unipatia pone i fenomeni del co-sentire (almeno nella loro dimensione più elementarmente vitale) decisamente al di sotto della coscienza e quindi molto lontano dalla noetica. Quindi anche in questo la sua dottrina si pone molto lontano da quella steiniana dell’empatia. Non a caso (A, VIII p. 143-147) egli sottolinea che – nonostante la valenza elementare e vitale dell’unipatia – essa in fondo rientra nei fenomeni dello spirito.
    E precisamente rappresenta una funzione originaria ed ultima dello spirito, che non deriva quindi da assolutamente nulla. In questo senso dunque la simpatia – e non invece l’empatia, che non è altro se non un costrutto filosofico molto poco autentico in quanto sostanzialmente intellettualistico – rappresenta una disposizione innata addirittura di tutti gli “esseri senzienti”.
    E ovvio quindi che il co-sentire finisce per venire frainteso se viene ridotto a qualunque dimensione puramente empirica, com’è senz’altro la psicologia evolutiva. Non a caso nel contesto di quest’ultima esso diviene appunto una mera funzione cognitiva colta nel suo progressivo maturare – ed alla quale è stata data la denominazione di capacità di “assunzione di prospettica altrui” [Petermann, M. Kusch, K. Niebank, Entwicklungpsychopathologie, Beltz, München 1998, 5, 2, 3 p. 118-122, 5, 7 p. 145-149].
    La quale corrisponde poi anch’essa alla mera comprensione dei vissuti altrui (e non invece all’intima compenetrazione emozionale tra due vite psichiche). È evidente che una simile interpretazione del co-patire non ha nulla di originariamente tipico dello spirito umano. Si tratta invece appena di un fenomeno naturale riscontrabile nell’uomo, senza che esso abbia alcun particolare senso e nemmeno una particolare intensità etico-emozionale.
  2. Simpatia ed amore. Accenni al Personalismo.
    Ma è il co-patire equivalente all’amore? Scheler dice che è così. Eppure anche questo non è affatto facile da capire nel contesto dell’indagine scheleriana; nella quale peraltro egli fa equivalere ontologicamente i fenomeni dell’amore e dell’odio (l’uno il contrario dell’altro, ma in definitiva riducibili ad un unico fenomeno) [Max Scheler, Essenza…cit., B, I-VI p. 154-166]. Certo è che per lui co-sentire ed amore-odio sono entrambi fenomeni originari, e quindi (per quanto affermi che non sono esattamente la stessa cosa), entrambi non sono affatto riducibili a fenomeni elementari e naturalistici.
    Altrettanto certo è che essi non rientrano affatto nella dimensione dell’empatia in quanto non sono in alcun modo fenomeni cognitivi. E non sono nemmeno atti del tendere, dato che nell’amore non vi è assolutamente nulla da realizzare. Per la precisione essi sono perfino indipendenti dall’elementare affettività. Infatti quando io amo qualcuno, non sarà certo il dolore che egli mi causa a diminuire il mio amore per esso. È quindi in questo senso che amore e odio sono così tanto originari e immediati, da essere assolutamente sfuggenti cioè ingiustificabili. Essi sono insomma più misteri che fenomeni. Ed in questo Scheler si rifà alla dottrina di Brentano, entro la quale amore-odio vengono considerati fenomeni assolutamente elementari ma comunque intensamente metafisici.
    In effetti amore-odio non sono cognitivi solo nella misura in cui essi comportano un’intenzione intensamente etica. Perché nell’amore l’intenzione è rivolta sempre solo verso un oggetto di valore (l’oggetto o persona amati) e non invece verso un valore astratto ed impersonale. Conseguentemente essi non sono affatto degli atti ciechi, anzi comportano l’agire di quegli “occhi dello spirito” che sono capaci di vedere nell’altro “qualcosa di diverso” dal solito. È, dice Scheler, qualcosa di diverso dall’evidenza della ragione.
    In ogni caso essi sarebbero totalmente diversi dal co-sentire soprattutto in quanto “atti”. Infatti con essi non si tratta per nulla di un atto sociale e di relazione (com’è invece senz’altro il co-sentire).
    Insomma essi non hanno affatto come riferimento l’”io” e l’”altro”. Perché sono diretti solo verso i valori di cui gli altri (“come in trasparenza”) appaiono come portatori – e precisamente una sola persona in particolare. Insomma non sono affatto atti “altruistici”. Così, ad esempio, il “dirigersi verso la comunità” non è affatto amore per l’altro. Sono però al massimo grado atti di attribuzione di valore ad una persona.
    Da tutto ciò consegue che, secondo Scheler, in generale amore e odio non sono affatto definibili, ma invece appena “intuibili”. Proprio per questo essi non sono affatto né un tendere né uno scegliere né tanto meno una reazione (passiva) a stimoli affettivi. Semmai sono invece un preferire.
    Ma, posto questo, l’amore è per Scheler soprattutto un movimento intenzionale nel quale emerge il “valore superiore” a partire da un determinato oggetto di per sé indifferente. In quest’ultimo, quindi, infine “scintilla il valore più alto”. E tutto questo si accorda pienamente per Scheler la teoria dell’eros (come movimento) di Platone. Più precisamente, nell’amore, ad un “valore già dato” (la persona di valore) si aggiunge il movimento, e questo si dirige verso valori ancora più superiori rispetto a quelli che sono giù qui. E quindi “predelinea” l’”immagine ‘ideale’ di valore della persona data”. Insomma esso intravvede un “oggetto dotato di valore”.
    Ma oltre a ciò esso ha per Scheler una caratteristica ancora più straordinaria, e cioè quella di prescindere totalmente dalla datità ordinaria. Nel senso che esso punta verso il valore superiore in assenza di datità già date (l’ipotetico oggetto oggettivamente amabile), in quanto già esistente o non ancora esistente. Esso dunque crea letteralmente la datità amabile verso la quale si muove – quindi è edificazione (fattuale) del valore ideale delle persone, cioè consiste nell’incontrare in una di esse (per partito preso) un valore superiore. E questo movimento viene risvegliato dal valore inferiore per mezzo di una percezione affettiva del valore, che desta l’amore. Il che può avvenire anche in forza della preferenza. Ma comunque (ontologicamente) l’amore è soprattutto il movimento stesso, e quindi nulla accade se esso non inizia. Esso insomma è basato su un atto di attribuzione di valore che è puramente intuitivo e quindi prescinde dall’oggettività ossia dall’effettiva amabilità di un ente. Ecco la sua originarietà. Ancora una volta è per questo che l’amore non è né ricerca né tendere. Insomma la persona amata si incontra senza nemmeno averla cercata o voluta.
    Posto questo Scheler smantella tutte le teorie nelle quali l’amore viene considerato come un atto ed una forza che si muova verso qualcosa di amabile in quanto già dato (per mezzo del tendere volere), o addirittura (pedagogia) si muova nel procurare ad un ente qualunque la dotazione necessaria per poter venire amato. Ancora una volta per questo esso è un chiarissimo e profondissimo vedere della natura amabile di una persona, in quanto intuita (senza alcuna ragione obiettiva) come portatrice di valore. E pertanto ciò avviene, per definizione, perché esso accetta l’oggetto amato esattamente “così come esso ‘è’”, prescindendo così dal presupposto di qualunque virtù o azione lodevole (ossia dover essere). È dunque in questo senso che esso coglie infallibilmente l’essenza inesauribile della persona in quanto “individuum ineffabile”.
    Su questa base Scheler contesta decisamente il neutrale e gelido (e spesso perfino crudele) amore per il Bene (così frequentemente postulato nell’antica metafisica pagana, specie in quella platonica). E ciò in quanto esso è irrimediabilmente farisaico. Esso infatti non ama il «buono» ma invece solo chi si conforma del tutto formalmente ad un Bene del tutto impersonale. Anche da ciò risulta allora che l’amore sussiste esattamente per la persona come valore incondizionato, ovvero per il “valore della persona” in sé, cioè per “la persona in quanto persona” senza se e senza ma. Quindi non per le virtù delle quali la persona è portatore, ma invece per la persona stessa in quanto valore. E questo è un amore “assoluto”. Forse, diremmo, l’unico e più autentico amore, superando esso anche lo stesso amore per Dio, che in fondo non è affatto amore per una persona, almeno quando Dio viene identificato con il Bene stesso. Si delinea quindi il fatto che esso è un “elemento ultimo” che è assolutamente semplice e per nulla composto. E infatti nell’amore per la persona rimane “un’eccedenza ingiustificabile”, cioè una totale sfuggenza. Ma questo avviene per il fatto che l’amore rinvia alla realtà ontica della persona. Perché l’uomo in quanto persona per definizione non è un oggetto, ossia non è oggettivabile.
    Ma tutto questo rende l’amore (quale atto) di importanza etico-personalistica fondamentale. Perché la pienezza della persona ci viene data proprio nell’atto d’amore. La persona mi viene data solo quando “co-eseguo” i suoi atti. E quindi il suo valore etico ci è dato nella co-esecuzione del suo atto d’amore. Essenziale quindi è il “co-amare”
    È del tutto ovvio come, con tutto ciò, si opponga a tutto questo l’interpretazione naturalistica dell’amore come pulsione erotica (“libido”) dall’ampia valenza, sia sociale sia psico-patologica, come essa è stata formulata entro la dottrina psicanalitica di Freud (B, V-VI p. 176-204). Ma non entreremo nel merito di questa discussione (rinviando quindi il lettore al libro). Va solo sottolineato che in questo contesto Scheler non include solo la dottrina psicanalitica dell’amore, ma anche altre dottrine riduzionistiche tra le quali quella dell’empatia come illusione.
    A ciò si aggiunge poi una terza parte del libro dal titolo molto interessante per il nostro tema (“L’Io altrui”, C, I-III p. 205-247). Tuttavia la trattazione di questa parte è molto confusa, poco chiara e sistematica, lacunosa e soprattutto inconclusiva. Tuttavia, anche in questo modo Scheler ci permette di trarre delle conclusioni davvero definitive circa la qualità della teoria dell’empatia in quanto teoria della relazione sociale, ossia la relazione tra “io” e “tu”. Cosa che, come vedremo, chiama in causa molto direttamente il personalismo di Guardini.
    Innanzitutto egli sottolinea che il tema della relazione tra diversi Io è effettivamente anche gnoseologico, e quindi riguarda realmente la teoria della conoscenza. Infatti si tratta sostanzialmente della conoscenza della connessione tra l’Io e la psiche degli uomini. È evidente, egli dice, che si tratta di un problema eminentemente sociologico (come del resto sottolineato anche da Lipps), ma esso riguarda anche la teoria della conoscenza. Insomma si tratta per lui del “principio di solidarietà” quale nucleo e aspetto centrale sia della filosofia che dell’intera etica sociale. Laddove è dunque evidente che la gnoseologia (teoria della conoscenza) non può essere concepita in modo puro, ma solo in connessione con l’etica e con la dimensione sociale ed emozionale. Insomma il problema fondamentale è quello dell’”uomo in quanto uomo”, perché si tratta del fatto di cosa l’uomo possa essere per un altro uomo. Il che corrisponde all’evidenza della “concatenazione ultima ontologica” tra gli uomini. Per questo però è essenziale affermare la primarietà dell’approccio fenomenologico su tutti gli altri. Dato che invece l’empirismo naturalistico (specie psicologico) non è in alcun modo capace di cogliere queste realtà.
    Proprio su questa base fenomenologica − nel porsi il problema dell’origine della coscienza altrui (Io) e della comunità −, bisogna poi chiedersi quale sia davvero il momento più originario nel quali tali fenomeni subentrano e con quali atti conoscitivi. E questo non è secondo lui possibile né sulla base di un supposto fondamentale “sapere” concernente gli altri Io (come avviene nella classica teoria dell’empatia) né sulla base della mera psicologia evolutiva. Quindi porsi il problema dell’origine comporta il prescindere sia i possibili oggetti contingenti del sapere sia anche dalle mere fasi dello sviluppo. E questo è più o meno anche quanto abbiamo sostenuto nel nostro già citato saggio sulla Psicologia Sacra.
    Rispetto poi al tema dello sviluppo psichico dell’uomo egli sostiene che la noetica sa in effetti molto più della psicologia empirica. Perché solo essa può concepire una “percezione intra-psichica” ed un “senso interno”, dato che con ciò si tratta di oggetti non identificabili ma intanto pre-conosciuti, e cioè intuiti. Si tratta insomma dell’essenza dello psichico e non invece dello psichico funzionale. Per ultimo egli afferma che l’intera serie delle questioni qui in causa è necessariamente anche metafisica dato che essa illustra un miracolo di fatto.
    Ma comunque, riguardo al tema specifico della conoscenza dell’altro Io, egli menziona l’esperimento detto di “Robinson” (uomo che dalla nascita non era mai venuto a contatto con altri uomini ma intanto ne intuiva l’esistenza). Tale esperimento dimostra quindi che vi è davvero un’“originaria certezza del tu” (Volkelt) e che essa una “certezza intuitiva” caratterizzata dal cogliere immediatamente qualcosa di non dato nell’esperienza.
    Nel complesso, comunque – egli dice −, l’intera problematica (dell’empatia) è nata sulla base della convinzione filosofica che a ciascuno sia dato “innanzitutto” solo il proprio Io e i relativi vissuti, e che solo (secondariamente) una parte di questo riguardi i vissuti di altri individui. Il problema è come queste due parti si distinguano e come l’altra parte procuri la conoscenza dell’esistenza degli altri. Ma ciò corrisponde a nient’altro che alle ipotesi sviluppate entro la teoria dell’empatia.
    Di certo a tale proposito, egli aggiunge, sono state smantellate diverse teorie erronee – come quella dell’analogia, nel contesto della quale si sosteneva che l’empatia si giustifica sulla semplicistica base della similitudine dell’altro a noi. Ma per lui anche la teoria dell’empatia come “credenza” (Lipps) è di fatto slegata da qualunque possibile e credibile deduzione cognitiva. Essa è infatti solo “cieca”. Perché in essa noi empatizziamo soltanto con dei corpi animati, e ciò è solo casualmente connesso con il riconoscimento di un altro io. Qui infatti noi semplicemente presupponiamo un essere animato ma intanto la verità è che non entriamo affatto in relazione psichica con esso nemmeno attraverso l’espressione. Insomma con ciò noi non siamo affatto al cospetto di un fenomeno “originario” bensì solo derivato. Infatti, qualora “la teoria dell’empatia fosse vera” essa dovrebbe giustificare per davvero l’incontro dell’altro attraverso il proprio Io unito ad un corpo vivo (sentimento vitale), e non invece in base alla presenza di un altro essere animato quale fatto psichico. Ed abbiamo già visto che questa giustificazione non esiste affatto, in quanto non è in alcun modo credibile. Pertanto l’empatia al massimo può essere concepita come credenza ”che il mio io si dia ancora una volta”; ossia essa constata al massimo la ripetibilità del mio Io. Noi insomma in tal modo non cogliamo in alcun modo l’essenza dell’altro Io.
    Eppure originariamente (ossia fuori delle teorie menzionate e solo derivate) è proprio quest’ultimo fenomeno quello che di verifica. Perché noi sappiamo infallibilmente (sebbene misteriosamente cioè originariamente) che c’è un altro Io oltre il nostro. E sappiamo perfino che esso è un altro individuo, o “io individuale”, senza nemmeno alcun bisogno della condivisione del corpo.
    Ne consegue che l’empatia e appena una credenza circa l’altro Io ma non è affatto una conoscenza o costatazione esperienziale. Laddove invece ciò che è in causa è proprio questo. Ma il nome di questo fenomeno non può essere certamente quello di «empatia».
  3. Simpatia e Personalismo.
    Gli accenni ad una teoria personalistica attraversano l’intera trattazione di Scheler, e peraltro proprio la parte C del libro le sottolinea di più (oltre a quella dedicata all’amore-odio).
    Intanto però vale la pena di essere più espliciti su questo, dato che evidentemente la dottrina della simpatia e quella dell’empatia si distinguono in primo luogo proprio in base al davvero esplicito Personalismo della prima. Che invece nella seconda manca quasi del tutto. Nel trattare del tema dell’empatia Stein non era infatti ancora approdata ad una decisa visione personalista.
    Quindi in questa sezione non dovremo fare altro che riprendere cose che abbiamo già detto, facendo a questo pochissime aggiunte. Ma molto in generale l’elemento basico della visione scheleriana è quello dell’insuperabile differenza ontologica esistente tre le persone. In altre parole la persona è in sé un individuo irrecuperabilmente separato dagli altri ed in via di principio non vi è nulla che possa abolire questa separazione. Per cui anche lo stesso co-sentire è in via di principio impossibile (almeno sulla base dell’empatia). Ma ciò che Scheler ci fa comprendere è che nonostante tutto esso è comunque dato – le persone umane hanno l’innata tendenza a riconoscere un “tu” oltre il proprio “io” ed a sentirsi in relazione con esso. Dunque l’elemento chiave dell’intera faccenda (ed anche forse un elemento addirittura banale nella sua ovvietà) è quello della relazione, ossia della socialità (che poi implica anche la volontà). Solo per questa via infatti due entità irrimediabilmente separate possono entrare in contatto tra loro. Pertanto il co-sentire (una volta ridotto all’osso) non è altro che una stupefacente «relazione nella differenza»; e precisamente tra due entità caratterizzate dal fatto ontologico fondamentale di essere delle «persone» (con tutte le conseguenze che ciò comporta). È altrettanto ovvio, inoltre, che il momento più alto ed intenso di questa relazione è l’amore. In ogni caso co-sentire e amore non sono altro che la relazione (assolutamente fondamentale ed originaria) che esiste tra un “io” ed un “tu”. Ma siccome questo è anche il nucleo più centrale e profondo del Personalismo, la questione del co-sentire si risolve di fatto nei termini di quest’ultimo. E qui invito il lettore a prendere in considerazione tutto quanto è stato scritto su questo tema (incluso il mio saggio) ed in particolare le riflessioni personaliste (di stampo più teologico che filosofico) di Guardini [Vincenzo Nuzzo, Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo. La rilevanza di Guardini, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione); Romano Guardini, Die Person. Der Aufbau des personalen Seins. Person und Individualität. Person im eigentlichen Sinn, in: Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988, V p. 121; Romano Guardini, Die Person. Der personale Bezug. Das Ich-Du-Verhältniss, ibd., I-II p. 132-136]. Egli vedeva infatti l’essenza della persona nella relazionalità stessa. Insomma è evidente che parlare del co-sentire implica necessariamente il parlare della persona ed inoltre della sua connaturata tendenza alla relazione. Solo nel suo contesto infatti l’atto del co-sentire assume una certa plausibilità.
    Ma intanto ciò non implica in alcun modo il postulare qualcosa di simile all’empatia. Questa dottrina infatti comporta lo sforzo di superare la differenza ontologica esistente tra individui-persone senza nemmeno prendere in considerazione relazionalità e socialità. E questo è assolutamente impossibile. Il tentativo viene invece condotto sulla base di una ipotetica (e piuttosto fantasiosa) disposizione dell’Io isolato ad avvertire l’esistenza dell’altro, con l’ulteriore conseguenza della capacità di questo Io isolato di gettare uno sguardo nei vissuti dell’altro Io e perfino partecipare emozionalmente di essi. Ma con Scheler abbiamo visto che questa teoria fallisce in molti punti, e quindi non è in grado in alcun modo di spiegare la realtà del co-sentire.
    Tuttavia questo è del resto del tutto plausibile perché l’obiettivo primario di questa teoria era quello di allargare (in maniera piuttosto maldestra) all’ambito emozionale quella che era la comunicazione conoscitiva inter-soggettiva, ossia l’universalità della conoscenza e perfino (secondo Husserl) della coscienza stessa. Non a caso al proposito Scheler [Max Scheler, Essenza…cit., IV, 5 p. 99-100] dimostra che in fondo il concetto hussserliano di “coscienza trascendentale” (Io puro) rientra in definitiva addirittura nella concezione metafisico-unipatica dello Spirito universale in quanto Vita, e quindi tutto prevede tranne le persone e la reale relazione tra di esse. E questo è da considerare senz’altro un suo attacco alla versione husserliana della teoria dell’empatia, ossia quella dell’”entropatia” [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, 1 p. 61-63, I, II, II p. 89-94, I, II, II p. 111-114, I, II, III p. 135-138, I, IV, I p. 334-337, I, IV, II p. 375-377, II, II, Introd. p. 528-533, II, III, II p. 670-680], che poi ancora una volta non è altro che la teoria dell’inter-soggettività. Abbiamo appena visto che Husserl sviluppò il concetto anche in Idee, ma Laura Boella menziona in particolare il manoscritto inedito dal titolo Zur Phänomenologie der Intersubjektivitä. Texte aus dem Nachlaß [Laura Boella, Introduzione…cit., in: Max Scheler, Essenza…cit., 1 p. 9]. Ed ella dimostra (in questa parte della sua introduzione) anche la storicità di questa polemica tra i due pensatori.
    E come si può vedere Husserl era interessato in primo luogo esattamente alla sola inter-soggettività. Certo è che, una volta constatato tutto questo, appare evidente che l’intera teoria dell’empatia (nella sua parte steiniana ed ancor più nella sua parte husserliana) fu ed è del tutto superflua nello sforzo di comprendere il co-patire, ossia di fatto quella simpatia che coincide ampiamente con la relazione inter-umana.
    Ebbene abbiamo visto che il momento filosofico-metafisico centrale di tale dottrina è rappresentato dalla persona. Ma allora cos’è esattamente la persona per Scheler? Abbiamo già visto più volta cosa sia, ma ora vale la pena di arrivare al dunque.
    La persona umana è in primo luogo un assolutamente originario “centro di atti”, e precisamente lo è in quanto capace per natura di riconoscere nelle cose del mondo esteriore un valore. Del resto a questa conclusione giunse anche Stein quando (in Der Aufbau der menschlichen Person) [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4, p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127] pervenne finalmente ad una visione personalista, sebbene su basi fenomenologiche non poco diverse da quelle scheleriane. Insomma, dal punto di vista umano, l’oggetto mondano non è affatto l’eticamente indifferente “cosa della fisica” ma è invece in primo luogo un valore, ossia un’entità etica che ha un’importanza capitale nell’agire personale. Intanto però in Scheler questa capacità di riconoscere valori non ha importanza solo nel generico agire ma invece ancor più entro la relazione umana.
    Ma comunque, proprio in quanto centro di atti, le persone sono e restano sempre diverse tra loro (anche perfino prescindendo dai corpi diversi e dalle diverse sfere di coscienza) a causa del loro “esserci” in quanto centri di atti. Esse sono autonome per definizione e quindi non possono in alcun modo venire portate a coincidenza. Insomma le persone non possono venire individuate nello spazio-tempo, come lo sono i corpi. Abbiamo anche visto che esse si presentano entro la relazione (co-sentire) specie nel contesto dell’amore, come entità che hanno valore del tutto incondizionatamente (“persona in quanto persona”), e non invece per accidentali virtù che esse possano possedere. La loro diversità sta quindi nel loro ”puro esser così sé stesse”, cioè per la loro essenza personale. Esse sono insomma irrimediabilmente diverse in quanto “individui assoluti”. Quindi il co-sentire può essere solo “rapporto reciproco”, ossia la vita stessa della comunità alla quale esse sono “destinate” quali persone; cosa che consiste nell’“essere destinati l’uno per l’altro” che è proprio degli esseri umani [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 91-92]. Eccoci insomma di fronte alla relazione io/tu del classico Personalismo. Ancora più precisamente, per Scheler, la loro relazione consiste nell’“armonica integrazione di valore”, ossia nella capacità di condividere i vissuti dei valori.
    Intanto però, ancora più originariamente, la persona sta in relazione solo con sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 63-67]. Essa è un individuo che, per sé stesso, mai permetterà l’estensione della propria realtà a quella degli altri. Infatti la relazione con il proprio corpo vivo è unicamente solipsistica e non comporta alcuna possibilità di estensione di tale esperienza a quella dell’altro. Ne consegue che non è certo nella persona − come avviene entro la teoria dell’empatia – che vi è la radice di qualunque genere e grado ci co-sentire.
    È esattamente per questo che Scheler ritiene l’unipatia [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 83-93] la radice (elementare, profonda e vitale) di qualunque relazione esistente tre le persone. Per la precisione il nostro pensatore rigetta l’unipatia come spiegazione integrale del co-patire. Infatti il co-sentire o co-patire non possono venire pensati mai come identità di essenza, ma solo nella differenza. Tuttavia egli accorda all’unipatia una notevole importanza di fondo, dato che essa pone un’unità di fondo della Vita solo entro la quale questa differenza può venire superata. Ed in particolare pone in primo piano la valenza metafisico-religiosa di questo complesso di dottrine. Perché secondo lui l’essere destinate l’una all’altra delle persone è teleologica, e quindi esige una Ragione infinita, cioè Dio. Che ha causato l’esistenza delle persone finite mentre le ha pensate (come idee): − “essere così di volta in volta in sé individuato”. Il che comporta quindi una metafisica teistica o al massimo panenteistica ma non panteistica e monistica (spirito super-personale).
    In ogni caso questa concezione del fondamento unipatico del rapporto tra le persone non va in Scheler oltre certi limiti. Ed abbiamo anche già visto perché – l’unipatia riguarda infatti un’unità che sta decisamente al di sotto della coscienza (nel pieno dell’elementare dimensione istintuale-vitale) e quindi fonda la relazione tra le persone ma non ne attinge affatto la realtà ontica.
    E ciò riguarda ancora una volta l’amore. L’amore della persona è infatti per lui del tutto “acosmico” proprio perché esso si svolge nel rapporto assolutamente esclusivo tra individui personali, ciascuna delle quali sta intanto nella sua pienezza ontologica, ossia ha valore unicamente per sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., VI, p. 116-119]. Quindi non tocca né l’universalità né l’unità della Vita (in qualunque modo essa venga concepita). E ciò accade in quanto la persona è amabile solo in quanto radicalmente originario assoluto ontologico, e cioè senza alcuna possibile spiegazione. Ciononostante l’unipatia resta presente qui almeno nella dimensione dell’”umanità” che viene sempre coinvolta nella relazione tra persone. Infatti, nel darsi ad un’altra persona come uguale al proprio Io, la persona si fonda in definitiva sull’uomo come persona (e viceversa) cioè sull’umanità (come avviene nella sempre unipatica filantropia). Insomma qui l’uomo stesso inizia a presentarsi come persona. Il che è provato dal fatto che, entro l’autentica filantropia, non si fa alcuna differenza tra uomo e uomo (né di razza e cultura né tra amico e nemico). Inoltre vi è l’aspetto fondamentale rappresentato dalla necessità del dischiudersi spontaneo (o meno) della persona (cioè la sua libertà) perché si sviluppi l’amore. Il che è tipico del concetto umanistico-cristiano di uomo in quanto persona e non invece dell’umanismo basato sul valore assoluto dell’uomo.
    Tutto il resto riguardante la persona viene detto da Scheler nei temi che abbiamo trattato nelle sezioni precedenti, per cui a tale riguardo non ci resta da dire più nulla. Quello che è certo è comunque che la sua visione del co-patire, essendo incentrata sullo status ontologico della persona, rientra in primo luogo nella visione personalista. Invece la dottrina steiniana dell’empatia rientra unicamente nella teoria della cognizione che venne fondata da Husserl per giustificare la gnoseologia in quanto inter-soggettività, ovvero sapere universale.

Conclusioni.
Il grande sintesi si può dire che, nella vita emozionale della persona, sono per Scheler da considerare alcuni grandi e primari fenomeni: − co-patire (unito al co-sentire), amore-odio e simpatia. Il co-patire (o anche co-sentire) è un fenomeno ontologicamente originario dell’uomo ed ha senza alcun dubbio una valenza etica ed insieme relazionale-sociale. Esso fonda insomma la vita sociale nei suoi aspetti più intensamente etici specie nella forma di una tendenza spontanea alla condivisione con gli altri di qualunque esperienza (e più particolarmente nella condivisione di valori). L’amore-odio sono (emozionalmente) ancora più radicalmente originari del co-patire e per questo sfuggono anche alla stessa dimensione relazionale-sociale. La simpatia infine non è altro che una specie empatia che è però possibile solo nel volontario andare l’uno verso l’altro da parte di persone che altrimenti sarebbero tra loro insuperabilmente separate.
Oltre a ciò tenteremo ora di mettere in evidenza i punti più salienti di tutto quanto abbiamo mostrato finora. Ma innanzitutto, nel cercare di trarre delle conclusioni da tutto quanto abbiamo appena detto circa l’amore, dobbiamo dire che la dottrina scheleriana del co-patire non trova il suo riferimento solo nel Personalismo ma anche in un certo «spiritualismo» nella concezione della persona. E ciò concorda con una delle costatazioni che abbiamo fatto nel nostro già citato saggio sul Personalismo, collocando così Scheler nella corrente più spiritualista del Personalismo stesso. Infatti la radicale originarietà onto-metafisica della persona si giustifica in Scheler considerando quest’ultima appunto in primo luogo come uno spirito. Ed alcune sue specifiche affermazioni esprimono questo con particolare forza, ma ci permettono anche di capire di che natura sia (in termini filosofici) la sua dottrina.
Egli dice infatti che “il puro co-sentire appartiene all’essenza dello spirito umano”, e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”, corrispondente poi a sua volta al “valore dell’altro in generale” [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 87-88]. Quindi esso non si verifica affatto nell’ordinaria esperienza sensibile che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma intanto gli offrono solo oggetti da sviluppare.
A partire da ciò è chiaro che la compartecipazione empatica non è per nulla un atto mentale fondamentale, ma è semmai soltanto la comune costatazione di un valore (al quale segue poi un comportamento pratico), che a sua volta avviene solo una volta che l’uomo venga considerato come spirito. Pertanto alla base di ciò non vi è alcuna operazione di coscienza (nel senso del sentire i propri vissuti come quelli dell’altro). Quindi il vero co-sentire non si basa nemmeno sull’auto-coscienza. Si tratta invece solo dell’esistere, presso l’uomo, di una incoercibile ed essenziale realtà etico-spirituale.
Ecco allora che la quella scheleriana può venire considerata come una dottrina intuitivo-metafisica del co-sentire, e pertanto direttamente affermativa, assoluta e primaria. Essa è quindi del tutto giustificata rispetto alle altre che sono invece tutte deduttive e secondarie. In particolare la dottrina scheleriana del co-patire descrive un fenomeno che parla unicamente l’uomo nella sua essenza di spirito al di fuori di qualunque altra giustificazione (naturalistica, psicologica o filosofico-metafisica che sia).
Abbiamo inoltre visto che la sua dottrina non ci mostra il co-patire nella sua sola dimensione etica ma anche in quella etico-religiosa (in quanto superamento dell’egocentrismo, e quindi via di formazione della persona fino al suo massimo compimento). E indubbiamente ciò rende ancora più superflua quella teoria steiniana dell’empatia che è così artificiosa nel suo intellettualismo.
Ma naturalmente quanto abbiamo osservato rende superflue molte altre teorie del co-patire, e precisamente quelle psicologiche (e soprattutto psico-evolutive) più ancora che quelle filosofiche. Inoltre è assolutamente sorprendente che (nel cogliere il fondamento unipatico del co-patire) Scheler riesca a cogliere perfino lo strato del fenomeno che più si discosta dalla coscienza e quindi dalla noetica, ossia lo strato più vitale-istintuale del co-patire.
Insomma il co-patire appare essere un fenomeno che si spiega soltanto in base a quattro elementi tra loro intimamente congiunti: − 1) la dimensione inevitabilmente etica dell’essere ed agire umani; 2) lo status ontologico specifico che caratterizza la persona umana (differenziandolo da tutti gli altri enti); 3) la natura radicalmente spirituale di quest’ultima; 4) il rientrare pieno dell’intero fenomeno in un’antropologia non solo irrinunciabile ma anche estremamente radicale.
E ci sembra che questo avvicini molto la riflessione scheleriana a quella (altrettanto personalistica) di Berdjaev [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951; Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], il quale vede nell’uomo addirittura l’essere stesso nella sua pienezza, e precisamente un essere perfettamente identico allo Spirito. Con la conseguenza che anche le due concezioni personaliste si lasciano approssimare molto da vicino.
Ma a causa di questo riteniamo che, a fronte di tutto ciò, la pur vaga parvenza psicologica che ha la dottrina steiniana dell’empatia (nonostante la sua forte forma filosofico-gnoseologica) si dissolva completamente, dimostrando in tal modo di non essere riuscita assolutamente a cogliere l’essenza del fenomeno. Del resto abbiamo visto che Scheler respinge nettamente qualunque spiegazione psicologistica del co-sentire, dato che essa è ancora più lontana dalla capacità di cogliere la vera essenza del fenomeno. Non a caso una delle principali obiezioni di Scheler all’empatia è che la sua forma più autentica, cioè il co-sentire, è un fenomeno etico- e metafisico-religioso (cioè il superamento dell’egoismo nel riconoscimento dell’altro quale ulteriore idea-essenza; il che costituisce poi un vero e proprio “cambiamento del cuore”), e non invece un fenomeno di coscienza [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 86]. Quindi esso non è affatto un fenomeno psico-fisiologico (anche se compreso in modo filosofico e peraltro fenomenologico) com’è l’empatia steiniana. Inoltre il pensatore rileva la totale inadeguatezza dell’atto di immedesimazione (in quanto mediazione) per la pienezza del co-sentire [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 1 p. 78-82]. Ma questo è esattamente il presupposto nell’empatia.
Insomma a causa di tutto ciò la nostra personale impressione è che Stein, nel postulare l’empatia (pur nel lodevole tentativo di estendere alla dimensione emozionale il concetto husserliano di inter-soggettività), abbia preso un sostanziale abbaglio. E questo sembra essere accaduto perché, invece di riflettere come Scheler sulla vera empatia, ella l’ha invece assimilata proprio all’inter-soggettività stessa, pretendendo però intanto che essa fosse un fenomeno emozionale ed affettivo. In altre parole la teoria steiniana dell’empatia sembra essere il puro effetto passivo delle elucubrazioni intellettualistico-gnoseologiche (inutilmente complesse) di Husserl, dalle quale Stein si è fatta contagiare giungendo così al travisamento di una materia che invece Scheler spiega perfettamente, chiaramente ed in maniera molto più convincente.
Ecco allora che il co-patire (che intanto può venire denominato in molti modi, tra i quali quello di simpatia e perfino di empatia) appare essere in primo luogo un fenomeno onto-metafisico ed etico riguardante l’uomo in quanto persona ed in quanto spirito. In esso quindi non abbiamo alcun di diritto di cercare l’equivalenza con mere funzioni psicologiche come l’”assunzione di prospettiva altrui”. Né abbiamo alcun diritto di cercare la supposta quanto mitica capacità dell’uomo di entrare misteriosamente in sintonia con i vissuti altrui (fino a trasporsi addirittura nell’intimità dell’altro). Infatti non si tratta di nulla di tutto questo. Si tratta invece di qualcosa di molto più semplice. Si tratta cioè soltanto del fatto che gli uomini sono destinati per natura ad entrare in relazione l’uno con l’altro, e lo sono in quanto persone (ossia enti radicalmente spirituali). Laddove questa disposizione trova la sua massima ed estremistica espressione nell’amore. Ecco allora che in definitiva la concezione scheleriana del co-patire riesce davvero a portare a chiarezza filosofica una concezione che da sempre ha trovato la sua espressione nella Rivelazione e nella dottrina cristiane, ossia nell’insegnamento di Gesù Cristo.
Su questa complessiva base – nonostante siamo appassionati studiosi del pensiero steiniano ed inoltre ne ammiriamo immensamente la figura di donna, pensatrice e religiosa − ci sentiamo di dire che, se davvero vogliamo comprendere cosa si debba intendere per «empatia», dobbiamo rivolgerci al pensiero di Scheler e non a quello di Stein. Del resto il suo libro dedicato all’empatia si inscrive in maniera molto passiva nel pensiero husserliano, e quindi rappresenta un momento della sua riflessione nel quale ancora non si era per nulla manifestata la grande potenza, originalità e profondità di essa. E proprio per questo motivo riteniamo che l’attuale (sedicente) «psichiatria fenomenologica» dovrebbe smettere di prender a modello LE (ed inoltre lo stesso concetto di «empatia») e dovrebbe invece dedicarsi allo studio delle opere di Scheler, e quindi alla sua definizione del co-patire e del co-sentire.

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