(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona
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Introduzione.
Definire cosa sia una «filosofia religiosa» (FR) è in sé estremamente difficile. E, conseguentemente, lo è ancora di più definire se e quando essa sia davvero autentica. Inoltre, a queste difficoltà, si aggiunge il fatto che oggi si tende ad intendere la FR non solo nei modi più diversi ma anche intuitivamente molto inappropriati. Vedremo ad esempio che in genere si tende ad intendere come FR quella che è appena una filosofia della religione (FdR), cioè lo studio scientifico (in via di principio imparziale e quindi privo di fede) del fenomeno religioso.
A fronte di questo si può dire che FR (ed anche estremamente autentica) dovrebbe essere di fatto solo la teologia, e precisamente una teologia che, per perseguire i suoi fini specifici, si serva così tanto degli strumenti della filosofia da scegliere di essere di fatto «filosofica», ossia di basarsi sul filosofare stesso nella sua pienezza e appropriatezza. Questo però solleva una miriade di difficoltà che rendono in problema quasi impossibile da risolvere.
Diciamo subito però che in Bonaventura c’è la possibilità di trovare la soluzione quasi ideale a tutte queste difficoltà, dato che nessuno come lui sembra essersi posto il problema dell’assoluta necessità di una filosofia che fosse integralmente religiosa invece si essere semplicemente «pura». Vedremo però (specie nelle conclusioni) che questa nostra affermazione ha dei limiti ed inoltre che la costruzione di questa piena FR risente dei caratteri di un ambiente di pensiero che è stato unicamente quello medievale. E questo relativizza alquanto quella definizione bonaventuriana di FR che a prima vista sembra assoluta e paradigmatica. Il che pone poi il problema del se, dopo Bonaventura, ci siano state forme di FR davvero piene ed autentiche, e se esse siano costruibili ancora oggi. Vedremo tra poco che questo problema rinvia all’annosa (e mai risolta) questione della relazione tra Ragione e Fede.
Quali sono, comunque, le difficoltà sollevate dal porsi della teologia filosofica come autentica FR?
Il filosofare del teologo implica innanzitutto (per definizione ed in via di principio) l’abolizione totale dell’oggettiva differenza tra Ragione e Fede che invece lo stesso Bonaventura (riletto ed analizzato da Gilson in maniera estremamente approfondita sapiente) ammette ed accetta, sebbene tentando nello stesso tempo di risolverla nel senso della conciliazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura, Jaca Book, Milano 2017II p. 105-112]. E dobbiamo ricordare a questo punto che la riflessione filosofico-metafisica tradizionalista, basando il proprio filosofare sulle Verità assolute ed eterne contenute nella Rivelazione universale (detta “Scienza sacra” originaria, e considerata in realtà sovrumana ossia divina), ha affermato in effetti quella che è la vera definizione paradigmatica di FR. In essa infatti Ragione e Fede sono assolutamente una sola ed unica cosa [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72, 7, p. 101-131, 10, p. 145-156]. Anzi la Fede viene addirittura riassorbita interamente nella Ragione (meglio definita come Intelletto), dato che la relazione con Dio è vista come unicamente intellettuale e conoscitiva. Tale posizione potrebbe apparire a prima vista come equivalente a quella secolarista di Habermas, nella quale la Fede viene completamente ridotta a Ragione. Ma non è così perché in quest’ultimo caso la Ragione, riassorbendo la Fede, non si impregna di essa (ossia non diviene un conoscere religioso) ma invece la annienta. Nella visione dei pensatori tradizionalisti invece la Ragione cessa di essere a-religiosa ed immanente, e così, impregnandosi di Fede, diviene religiosa e trascendente. Cioè finisce per assimilarsi all’Intelletto divino.
In ogni caso si configura così una sorta di «intelligenza di fede»; che ha sempre una valenza tanto filosofica che religiosa, e quindi configura senz’altro un’autentica e salda FR – in essa in particolare tutte le verità sono insieme intellettuali e religiose. Del resto il riassorbimento totale della Fede nella Ragione esclude recisamente l’ammissibilità di una Fede presa in considerazione da sola, ossia un cieco ed unilaterale fideismo.
In ogni caso questa definizione tradizionalista di FR si rende non poco sospetta dato che essa prevede unicamente l’autonoma ascesa dell’Io umano al divino (nel corso una «teoresi filosofica» concepita soprattutto al modo del Neoplatonismo pagano) senza alcun intervento da parte di quest’ultimo, e soprattutto senza l’amoroso offrirsi discensivo di Dio alla conoscenza per mezzo della Grazia. In altre parole questa definizione di FR si pone largamente al di fuori della tradizione cristiana main stream, comparendo invece solo in forme di Cristianesimo eterodosso (se non eretico, come quello gnostico o simile), oppure ponendosi apertamente come neo-pagana. Menzioneremo diverse volte (attraverso i suoi esponenti) questo polo di pensiero e richiameremo la definizione con la quale spesso lo abbiamo designato: − «onto-intellettualismo». Con esso intendiamo un Essere divino-trascendente che equivale totalmente alla sostanza intellettuale. E quest’ultimo è stato teorizzato in campo cristiano in primo luogo da Eckhart [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, I, 6-10 p. 111-115]; però con la contemporanea teorizzazione di un auto-annientamento dell’Io umano perché Dio possa effettuare la sua discesa verso l’immanente (Amore, Grazia) rendendosi così conoscibile. Il che secondo lui è assolutamente impossibile in assenza dell’auto-annientamento dell’Io.
Ma prendendo in considerazione Habermas, vediamo una teologia realmente filosofica chiamata a sottomettersi per definizione al concetto filosofico moderno di «ragione», cessando così di fatto di essere una teologia vera e propria per trasformarsi davvero totalmente in una sorta di «teologia filosofica». La quale, a sua volta, ambisce ad essere molto più una filosofia (specie nel senso moderno del termine) che non invece una teologia. E così si dissolve per sempre la possibilità di una FR.
Da tutto ciò dobbiamo dedurre che – sebbene lo stesso Bonaventura si sia allineato prudentemente all’intero pensiero medievale nell’ammettere la distinzione da mantenere tra Ragione e Fede (sostanzialmente nel timore che la seconda svanisca nell’unirsi alla Ragione) – di fatto un’autentica FR non insorge mai se questi due elementi non si fondono completamente fra loro; come abbiamo visto avvenire solo nel pensiero tradizionalista. Questo, invece, non è di fatto mai avvenuto davvero integralmente nel pensiero cristiano, incluso quello di stampo platonico. Infatti una teologia filosofica come quella teorizzata da Habermas ha i caratteri della sola Ragione, e non quelli della Fede. E quindi non è per nulla una FR.
Eppure l’intero pensiero cristiano ha finito sempre per concepire una simile teologia – lui stesso lo sottolinea [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, Feltrinelli, Milano 2022, Prefazione p. 1-8] −, vedendosi così non poche volte costretto a considerare l’ambito della Fede come completamente separato da quello della Ragione, e quindi vedendosi costretto a smantellare tanto la teologia filosofica quanto la possibilità di una FR. Pertanto il titanismo dell’Io (nella conoscenza di Dio) è uno svantaggio del pensiero tradizionalista che però viene controbilanciato decisamente dalla sua capacità di porre le condizioni davvero ideali per una FR.
Vi è poi la presa di posizione dell’intero razionalismo metafisico (che Malebranche rappresenta in pieno), secondo il quale la FR più autentica non sarebbe altro che una metafisica totalmente assimilata alla più pura filosofia, e secondo la quale Dio non sarebbe altro che l’estrema istanza della conoscenza, ossia il luogo dei cosiddetti “principi primi”. Laddove invece Bonaventura (per bocca di Gilson) ci dimostra che questa non è per nulla una vera metafisica religiosa ma è invece nient’altro che una filosofia pura rivestita di una veste metafisica [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128, IV p. 139-140]. In essa infatti Dio non è altro che il supremo luogo della Ragione intesa in senso unicamente umano e quindi naturale.
Ebbene, se si resta intrappolati entro questa serie di difficoltà non si riuscirà mai a districare la complessa matassa, e quindi non si riuscirà mai a definire cos’è una FR e quando essa sussiste realmente ed è davvero autentica. Eppure Bonaventura (almeno secondo Gilson ed almeno parzialmente, ossia formalmente) sembra essere stato capace di riuscire in questo intento.
E quindi la sua riflessione ci servirà come guida per poter definire una FR – sebbene tutti i limiti (prima menzionati) che essa comunque avrà. È vero infatti che anche per lui quest’ultima non è altro che una teologia filosofica (entro la quale Ragione e Fede sono insieme unite e distinte). Ma nello stesso tempo non lo è affatto nel senso che oggi (per esempio in Habermas ed inoltre nell’estremamente ricca attuale riflessione «scientifico-teologica») viene dato al termine. Essa è infatti un filosofare che prende le mosse dalla più alta Verità oggettiva (Rivelazione cristiana) per poi ritornare ad essa (dopo aver compiuto pienamente il suo usuale percorso) dando così compimento alla la più alta aspirazione della filosofia, e cioè giungere al possesso pieno della Verità. E, come poi vedremo, qui la via per giungere a questo risultato non è altro che il Cristo stesso offerentesi come la più piena Verità.
Su questa base condurremo la nostra riflessione, che si baserà quindi sostanzialmente su cinque testi: − Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura (LFB) [Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura…cit.], Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911], Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999], Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991], Jürgen Habermas, una storia della filosofia (USF) [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit.].
Per poter utilizzare il contenuto dei testi di Malebranche e Habermas cercheremo in un primo paragrafo di specificare più dettagliatamente il concetto di FR che può venire derivato dalle loro riflessioni.
Tuttavia, in base a quanto abbiamo accennato più su riguardo al pensiero tradizionalista, altro nostro scopo in questo articolo (oltre quello di rintracciare la definizione di FR) è quello di riprendere una problematica metafisico-conoscitivo che abbiamo già trattato in altri scritti e che riguarda sostanzialmente la potenza straordinaria della conoscenza intellettuale. Ebbene Bonaventura stesso concepisce qualcosa di simile nel considerare pienamente possibile la conoscenza di Dio. Tuttavia egli assegna precisi limiti a questa conoscenza, e quindi pare differenziarsi non poco dai moderni pensatori tradizionalisti, i quali hanno visto nella conoscenza intellettuale di Dio (CIAD) una forma di conoscenza che non ha alcun limite e che (come abbiamo già visto) costituisce anche il corpo stesso di una FR senz’altro ideale e paradigmatica.
Con ciò appare dunque chiaro che le due problematiche – FR e conoscenza di Dio – sono strettamente intrecciate tra loro. Non sembra essere dunque un caso il fatto che Bonaventura (differenziandosi da moltissimi pensatori della sua epoca), nel mentre concepì la pienezza della FR, fu anche uno dei pochi che ritiene pienamente possibile la conoscenza di Dio da parte dell’uomo.
Le uniche eccezioni appaiono essere qui gli averroisti. I quali, nel concepire un Intelletto divino-trascendente impersonale che supera ogni altro intelletto (situato a livello ontologico più basso), di fatto abbraccia totalmente in sé questi ultimi, e quindi rende in tal modo possibile la conoscenza di Dio in una maniera però solo passiva e indiretta.
In ogni caso – anche se in alcun modo si potrebbe dire che Bonaventura è assimilabile al moderno pensiero tradizionalista – si può dire che la sua riflessione sulla FR e sulla conoscenza di Dio tende ad appaiarsi in modo estremamente suggestivo a questa sfera di pensiero, che intanto però non può in alcun modo venire inclusa nella tradizione cristiana. Paradossalmente però essa ci offre una definizione di FR che appare essere la più impeccabile, completa ed autentica.
1- La FR secondo la moderna FdR e secondo la metafisica razionalista del XVIII secolo.
Menzionando queste due possibili istanze di giudizio sulla religiosità della filosofia, abbiamo in realtà preso in considerazione un orizzonte estremamente ampio ed estremamente eterogeneo di riflessione filosofica.
La moderna FdR è infatti un fenomeno dominato (più o meno, a seconda dei vari pensatori e delle varie aree) da laicismo, scetticismo e perfino ateismo, ossia è una filosofia a-religiosa o anche addirittura apertamente anti-religiosa. Ed è paradossale che questo atteggiamento venga oggi condiviso perfino da molti teologi nel concepire una sorta di moderna «religiosità senza religione» i cui caratteri principali vogliono essere quelli dell’immanenza secolare, della pura storicità ed umanità (con l’abolizione definitiva di ogni pretesa di trascendenza e sovrannaturalità della relativa istituzione). Caratteristico in questo senso è lo sforzo di moltissimi moderni teologi cristiano-cattolici rivolto a superare il teismo nel concepire una del tutto nuova religione «post-teista» − menzioneremo a tale proposito una ricchissima letteratura che però non è altro che un campione di una messe davvero sterminata di articoli che intanto cresce sempre più nel tempo [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417; Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-89; Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191; Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571; Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338; Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in: Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194]. E tutto questo ha come conseguenza che la stessa dimensione specificamente confessionale ed istituzionale delle varie dottrine religiose perde autenticità, valore ed anche credibilità.
In tal modo, peraltro con la premessa del massimo valore attribuito alla dimensione ecumenica (ritenuta a sua volta perfettamente parallela ad un globalismo accettato come dato di fatto incontrovertibile), si tende ormai a concepire la religione come un mero atteggiamento (appena naturale e fisiologico) dello spirito umano (o meglio della mente umana), che si traduce a sua volta in strutture istituzionali per definizione assolutamente secondarie e deboli (in quanto a ruolo e valore) dal punto di vista religioso, dato che esse sarebbero state erette nel tempo su basi assolutamente inautentiche e quindi inconsistenti.
Va notato inoltre che tale ridefinizione decostruttiva della religione non può essere altro che l’opera di osservatori del tutto esterni al fenomeno religioso. Essi sono insomma dei pensatori che si pongono nella posizione di «filosofi della religione», e quindi nella posizione di studiosi imparziali che in via di principio non professano alcuna fede né sono in alcun modo coinvolti nelle strutture e nella vita che caratterizzano la fede stessa. Ebbene, in questo modo non può configurarsi in alcun modo una «filosofia religiosa» (FR), ma invece solo una «filosofia della religione» (FdR), ossia una scienza della religione che (almeno in via di principio) è assolutamente priva di fede. Alla FdR si affiancano poi altre pure scienze empiriche (imparziali e scettico-atee) del fenomeno religioso (caratterizzate dallo stesso atteggiamento): − psicologia, sociologia etc. Ed in tal modo potremmo dire che ancora una volta Ragione e Fede vengono fuse tra loro. Non però al modo dei pensatori tradizionalisti (i quali riassorbono la seconda nella prima), ma invece con la totale abolizione della Fede a favore del prevalere assoluto della Ragione. In altre parole il definitivo e completo trapasso della FR in FdR coincide storicamente con la scomparsa di fatto della religione (ossia della Fede). Cosa che poi va di pari passo con il progressivo sgretolarsi e dissolvere di quasi tutte le istituzioni e strutture religiose.
Intanto è veramente paradossale (se non scandaloso) che questo atteggiamento verso la religione venga condiviso anche dagli stessi teologi confessionali. Non a caso essi hanno dato vita ad una ormai rigogliosissima ricerca «scientifico-religiosa» nel contesto della quale la riflessione teologico-filosofica non prende più a proprio riferimento normativo il contenuto delle Scritture (Rivelazione con relative Verità di fede) ma invece unicamente i risultati della scienza sperimentale empirica (specie quella cognitiva). Secondo la quale la dimensione religiosa non è altro che un aspetto naturale della funzione mentale senza alcun relativo oggetto reale connesso, ossia senza l’esistenza di alcun Dio. A proposito del post-teismo abbiamo citato molte voci della vastissima letteratura nata ad opera di questi teologi uniti ai filosofi.
Inoltre abbiamo già commentato i caratteri di questo scenario di riflessione attraverso diversi nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e una filosofia integralmente religiosa”, Dialeghestai, Dic 2023; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. Ebbene Habermas ci offre indubbiamente un nuovo angolo visivo dal quale osservare questo complessivo fenomeno. È certo però che anch’egli non fa altro che descrivere il moderno fenomeno della FdR.
La sua presa di posizione parte però sostanzialmente da una ri-definizione della filosofia stessa, alla quale vengono attribuiti i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 9-27]. Specialmente questo ultimo carattere di fatto spazza via definitivamente qualunque possibilità che la filosofia sia religiosa, e (come abbiamo visto) anche qualunque possibilità che esista una religione. Nello stesso tempo, indirettamente, Habermas sostiene con tutto ciò che, entro tale contesto, la religione deve definitivamente rassegnarsi a rientrare nei limiti di quella “vita razionale”; limiti entro i quali rientra anche la filosofia insieme a qualunque altra disciplina. Questo significa che, esattamente come la filosofia, la religione stessa può sussistere oggi solo e soltanto se ha i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità. Che poi di fatto non sono altro che i caratteri di una sua totale assenza. È evidente che ciò impedisce alla religione di coltivare studi metafisici e di associarsi a scienze metafisiche. E questo implica che la dimensione del Sovrannaturale deve svanire totalmente dal suo ambito.
Questa è la sola forma di religione che ormai venga ammessa dagli intellettuali e quindi dalla Cultura stessa. E quindi ciò rafforza l’ipotesi che avevamo avanzato prima: − non vi è oggi alcuno spazio per il sussistere di una FR.
Tale fenomeno rientra poi nella comune totale soggezione della filosofia e della religione alla scienza sperimentale ed empirica, che Habermas ritiene un fenomeno talmente normale da non aver bisogno di venire assolutamente discusso. In altre parole la filosofia è inevitabilmente scientifica, ed in qualche modo lo deve essere anche la stessa religione. Dobbiamo far notare che nel corso del XX secolo pensatori come Berdjaev e Jaspers si erano opposti decisamente a questa concezione della filosofia, ed inoltre avevano anche sostenuto la piena legittimità dell’esistere di una metafisica [Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Wel der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I,1 p. 11-38; Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956, IIC, I-II p. 160-188]. Sebbene per Jaspers la dimensione metafisica è pienamente immanente, corrispondendo a quell’”Omnicomprendente” (Allumafassende) che ci circonda da ogni parte come un Tutto, e nel quale siamo completamente immersi in modo che esso di fatto ci trascende come enti finiti, e precisamente al modo di un vero e proprio «oltre» che ci rinvia costantemente oltre le apparenze sensibili.
Tuttavia nemmeno una metafisica così poco ambiziosa ha più diritto di cittadinanza in filosofia e religione. E quindi, evidentemente, l’opposizione critica di pensatori come questi non ha cambiato affatto il corso delle cose. Il mondo ha infatti continuato la sua inarrestabile marcia, molto genericamente «razionalista» e scettica, verso la distruzione della religione e della metafisica.
Eppure Habermas insiste continuamente sul fatto che è sempre esistita (e continua ancora oggi ad esistere) una profonda affinità tra filosofia e religione [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., Prefazione p. 1-8, I, 2, 2-p. 60-92, I, 3, 1-2 p. 95-116, II, 1, 1-4 p. 168-277, 1 p. 421-424]. Anzi in realtà questa è una sua tesi centrale, dato che il suo discorso al proposito si prolunga in tutto il saggio esaminando la religione dai più diversi punti di vista e nei più diversi contesti (incluso quello della FdR). Per cui è impossibile riportarlo per intero nello spazio di questo articolo. In generale però egli vede nella religione un fenomeno sostanzialmente inautentico, in quanto esso sarebbe apparso insieme alle grandi immagini del mondo (tutte falsificanti per quanto possenti) che sono insorte nell’”età assiale”, ossia alla radice delle grandi Civiltà planetarie nel contesto delle quali è nata di fatto anche la filosofia. E per questo il discorso religioso si è presentato fin dall’inizio come pensiero connesso intimamente al pensiero filosofico. Tuttavia egli ritiene anche che il possibile valore attuale della religione (proprio nel tenere conto delle sue profonde consonanze con la filosofia) si riassuma nell’ipotesi che essa sia sempre stato sempre nient’altro che uno dei tanti fenomeni dello “spirito oggettivo”, e quindi abbia sempre avuto una valenza sostanzialmente sociale e culturale (molto più che gnoseologica ed anche autenticamente religiosa). È evidente quindi che egli attribuisce al fenomeno religioso un valore solo nella misura in cui esso viene inteso in modo riduzionistico e demistificante – il che significa innanzitutto che nel suo contesto non si manifesta affatto l’evidenza di Dio. Anche se esso appare essere ancora oggi associato intimamente alla filosofia. E ciò ovviamente non implica assolutamente l’insorgere di una FR, ma al massimo invece di una FdR per definizione atea, scettica e critica.
Comunque proprio su questa base egli sostiene che le due discipline alla fine condividono i tre fondamentali ed obbligatori caratteri (modernità, secolarità e post-metafisicità) che una moderna razionalità deve necessariamente avere. Tale razionalità non è più infatti nemmeno quella kantiana, che intanto aveva impregnato di sé la “filosofia del soggetto” (nel corso del XIX secolo e parte del XX) [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 17-26, I, 1 p. 27-59, I, 4, 3 p. 145-152, 3 p. 429-435]. Non è cioè la Ragione umana trasformata in istanza trascendente, assoluta ed universale. È invece una razionalità profondamente intrecciata alla più immanente e relativa dimensione antropologica e storica, e quindi reca impressi in sé i caratteri della società e della cultura locali. In altre parole essa si presenta in una veste decisamente relativa, che quindi trascina nel relativismo tutto ciò che le si sottomette, specie filosofia e religione.
La razionalità è insomma per Habermas un fenomeno sostanzialmente umano in quanto sociale, storico e culturale. In questo senso la dimensione gnoseologica diviene decisamente secondaria rispetto a questi due ultimi aspetti.
Abbiamo in tal modo ricostruito sinteticamente i caratteri dello sguardo che oggi l’intera filosofia post-moderna (unita alla stessa teologia di punta) getta sulla FR. Ed abbiamo mostrato che si può ben dire che si tratta appena del punto di vista di una generale FdR – sebbene focalizzata sulla dimensione sociale-culturale (e dunque ermeneutica e comunicativa) del pensiero umano.
Questo è il primo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo ed è evidente che per esso non esiste né può esistere alcuna vera FR, ma invece appena qualcosa che pretende illegittimamente di esserlo. Infatti la filosofia secolare non può assolutamente ospitare in sé contenuti autenticamente religiosi (come dottrine metafisiche, fede nel Sovrannaturale e nell’Invisibile etc.), dato che essi contraddicono frontalmente la razionalità. E nello stesso tempo la religione (inclusa la teologia) non può in alcun modo essere «filosofica» senza doversi intanto sottomettere alle norme logico-filosofiche che le rendono assolutamente impossibile essere un’autentica FR. E così essa non può essere altro che una FdR. Ma abbiamo visto che quest’ultima cessa perfino di essere una religione.
Tuttavia veniamo ora al secondo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo, ossia la complessiva presa di posizione di quella metafisica razionalista del XVII secolo che trovò uno dei suoi vertici in Malebranche. A prima vista questo punto di vista non ha assolutamente nulla a che fare con quello di Habermas e della complessiva FdR. Non fosse altro che perché essa è e vuole essere espressamente una metafisica, e precisamente una metafisica religiosa. Ma non si deve dimenticare che questa riflessione volle fondare una metafisica appunto «razionalistica», e quindi una scienza secondo la quale il supremo Trascendente e Sovrannaturale (Dio) non era altro che la Ragione umana una volta universalizzata ed assolutizzata. In essa Dio non è dunque altro che il luogo supremo dei “principi primi” razionali che regolano la conoscenza dell’essere [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit., I, 163-168, p. 47-53; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, III, p. 44-67].
Per questo tale metafisica fu sostanzialmente una gnoseologia (dalla vaga veste religioso-cristiana), mentre non fu in alcun modo una sorta di onto-metafisica, ossia una metafisica dell’essere (com’era stata esemplarmente quella di Aristotele). In altre parole essa costituì una sorta di divinizzazione della mente umana razionale nel suo rinchiudersi in sé stessa ed osservare il mondo esteriore unicamente attraverso il filtro dei principi razionali essi stessi divinizzati. Lo scopo di questa osservazione «da dentro» fu poi principalmente quello di purificare razionalmente i selvaggi e caotici oggetti esteriori (gli oggetti della Natura) per trasformarli in perfetti intelligibili, cioè in idee di cose. Solo in questo modo si pensava infatti che il mondo potesse venire davvero compreso. Ed infatti l’attività conoscitiva che fu qui all’opera fu una sorta di scienza della Natura resa infallibile e perfetta (in particolare la Fisica matematica) dall’applicazione ad essa di una filosofia rigorosamente razionalistica. Il cui aspetto religioso è comunque assolutamente secondario.
In questo senso – per quanto ciò possa sembrare strano − tale visione filosofica ha anticipato piuttosto suggestivamente i caratteri che secondo Habermas competono oggi obbligatoriamente alla filosofia ed alla religione, e cioè modernità, secolarità e post-metafisica. Infatti la stessa dimensione secolare viene fortemente rappresentata in questo tipo di riflessione filosofica dal fatto che in essa la metafisica è fortemente vincolata agli oggetti reali, e più precisamente quelli estremamente puri e indubitabili che vengono concepiti dalla scienza fisico-matematica [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, IV, 393-395, p. 39-40, I, 263, p. 70, III, 420-421, 425-426, p. 99-102; [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., 2, p. 22-43, 3 p. 44-67; Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Questa presa di posizione trova una fortissima affermazione in Malebranche (il quale fu in definitiva un filosofo della Natura) ma del resto anche in altri pensatori metafisici dell’epoca come Suarez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011], e naturalmente lo stesso Leibniz (sebbene nel contesto di una visione molto più complessa e completa dal punto di vista religioso). È evidente comunque che Malebranche concepisce unicamente una religione rigorosamente razionale. Ed essa quindi anticipa fortemente i caratteri che per Habermas dovrebbe avere la religione moderna e secolare. Non a caso in Malebranche sembra solo apparentemente che vi sia una metafisica, ma di essa non vi è invece alcuna traccia.
Ora, una volta detto tutto questo, è evidente che, anche partendo da questo punto di vista, non può in alcun modo sussistere una FR. Non può sussistere per diversi motivi: − 1) perché la metafisica religiosa concepisce Dio quasi allo stesso modo della Ragione umana universalizzata ed assolutizzata (ossia unicamente come un’istanza gnoseologica sebbene trascendente e divina); 2) perché la metafisica nel suo complesso è fortemente vincolata agli oggetti sensibili, sebbene trasformati in puri intelligibili (tra i quali quelli colti dalle scienze fisico-matematiche); 3) perché queste due prese di posizione escludono decisamente che tale metafisica prenda in considerazione in divino come ente sovrannaturale e come vero Spirito, cioè in sintonia con quanto è contenuto nella Rivelazione; 4) perché questo genere di metafisica non solo è essa stessa una scienza empirico-naturale ma sta anche in profonda sintonia con quest’ultima.
L’unico aspetto che manca qui è quello di una esplicita presa di posizione filosofico-teologica che ponga sé stessa come scienza imparziale della religione, ossia la FdR. La metafisica razionalista ebbe infatti per davvero l’ambizione di rappresentare (e anche difendere apologeticamente) la religione stessa, e precisamente quella cristiano-cattolica, e pertanto volle essere una vera e propria FR. Ed in effetti, se davvero bastassero le sue riflessioni e proposizioni per configurare una FR, in tale pensiero quest’ultima potrebbe e dovrebbe venire rintracciata. Ed invece le cose non stanno affatto così. Nel complesso infatti l’esistere di una FR viene decisamente escluso dalla rigorosa razionalità (peraltro immanentista e scientista) che questa visione filosofica pretende che la religione debba avere.
A questo punto dovremmo però dire più esplicitamente quali sono i caratteri specifici di un’autentica FR. Essi sono in parte già emersi (sebbene quasi solo in negativo) nel corso dell’analisi che avviamo fatto. Ma il nucleo di questi caratteri emerge in maniera chiarissima e forte (e peraltro in positivo) proprio nella riflessione di Bonaventura – un’autentica FR è in primo luogo quella che, nel suo filosofare, parte dai contenuti della Rivelazione, ossia le Scritture (supreme Verità oggettive), e ad essa poi ritorna nel trovare così compimento alla propria opera; ossia nel fare ciò che a cui ambisce ogni filosofia, ovvero trovare la verità. In assenza di questo primario carattere non sussiste alcuna FR – sebbene abbiamo visto che essa può sussistere in una maniera molto forte (pensatori tradizionalisti) oppure meno forte (Bonaventura).
Vedremo che questo comporta poi tutta una serie di ulteriori caratteri tipici di una FR. Ma, invece di metterci noi stessi ad argomentare su questo piano, lasceremo il campo per questo all’esposizione del pensiero di Bonaventura che è stata fatta da Gilson.
2- La definizione di FR emergente dal pensiero di Bonaventura.
La posizione estremisticamente religioso-filosofica assunta da Bonaventura (configurante una FR non solo autentica e piena ma anche esemplare) è piuttosto intuitiva per chi aspira a questo genere di disciplina.
Pertanto non solo è prevedibile nei suoi aspetti ma è anche necessariamente affatto unica. Abbiamo infatti in più sedi sostenuto che essa si ritrova in tutti i pensatori di quella che abbiamo definito come «linea platonica» dei pensatori cristiani (con vertice in Origene, Agostino, Dionigi l’Areopagita, Scoto Eriugena, Meister Eckhart e Cusano). E del resto anche Gilson identifica proprio questa linea nella sua storia del pensiero cristiano [Etiénne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, IV-V p. 265-363]. Lo fa però nel focalizzarsi specificamente sull’epoca decorrente tra XI e XII secolo, e menzionando soprattutto i pensatori della Scuola di Chartres (tra i quali in particolare Giovanni di Salisbury), oltre che una serie di pensatori fortemente speculativi (come Bernardo di Clairvaux, Guglielmo di San Teodorico, Ugo da San Vittore etc). Inoltre egli specifica che l’opera di questi pensatori fu quella di opporsi al riduzionismo logico dei dialettici (come Gerardo di Czanad e Pier Damiani). E dietro questi ultimi vi è senz’altro l’intero movimento aristotelico di pensiero (con al vertice Tommaso d’Aquino e Alberto Magno), che Gilson critica apertamente nel parlare di Bonaventura. Certamente la stagione di questi ultimi pensatori fu successiva (XIII secolo) a quella menzionata da Gilson, ma comunque raccolse molti frutti del pensiero dei secoli antecedenti.
Vedremo però che l’appartenenza di Bonaventura alla corrente platonica dei pensatori cristiani solleva non poche difficoltà dopo che si è compreso a fondo il suo pensiero, oltre la che la sua definizione di FR. Discuteremo queste difficoltà nelle conclusioni. Vedremo però soprattutto che senz’altro Bonaventura può venire considerato parte della linea di pensatori cristiani che abbiamo appena menzionato, sebbene quasi mai in linea con un davvero pieno ed integrale platonismo.
In ogni caso, una volta specificato questo, il paradigma estremamente generale di un’autentica FR appare essere quello da noi già menzionato – un filosofare che trova nella Rivelazione gli oggetti da indagare (le possibili verità) e sempre in essa poi li ritrova (una volta elaborati completamente) anche alla fine del suo percorso. In altre parole questa filosofia parte dalle supreme Verità religiose per poi pervenire infine a Dio stesso quale suprema e unitaria Verità.
In qualche modo fanno qualcosa di simile anche pensatori come Agostino (considerando la Trinità come il modello stesso della realtà e soprattutto della mente ed anima umana), Scoto Eriugena (riflessione sulle quattro divisioni dell’Essere a partire dal livello creante e increate ossia dal mondo divino), Dionigi l’Areopagita (nel considerare compiuta la conoscenza di Dio ben oltre il livello sensibile e simbolico, e quindi nel pieno di supreme Verità che non conoscono alcuna contraddizione logica), e Meister Eckhart (considerando il mondo delle Verità ultra-logiche, mondo della Grazia, come in continuità ininterrotta con il mondo sensibile, ossia il mondo della Natura). Tuttavia – stando almeno a quanto dice Gilson – una chiara ed esplicita formulazione della FR si ritrova in primo luogo in Bonaventura.
Cercheremo quindi di evidenziare gli aspetti principali di questa visione, ponendoli volta per volta in correlazione con la negazione della FR che abbiamo riscontrato in Habermas, nella FdR e in metafisici razionalistici come Malebranche.
Tuttavia la ricchezza estrema degli aspetti del pensiero bonaventuriano che vengono evidenziati da Gilson ci rende impossibile trattarli tutti. Per cui questo articolo non può certo sostituire la lettura del libro.
Il nostro scopo è appena quello di isolare e discutere alcune delle questioni che il pensiero di Bonaventura solleva.
2.1 La definizione di filosofia e di FR.
La definizione bonaventuriana della filosofia si colloca entro l’aspirazione della Chiesa cristiana (maturata appunto nel XIII dopo la definitiva ammissione dell’aristotelismo come modello unico di pensiero e l’esclusione di ogni platonismo) a costruire un’unica filosofia, strettamente unita alla teologia, con l’ambizione di raccogliere l’intera conoscenza delle cose (e quindi ontologica in senso enticista, cosmologico, naturalista ed immanentista) escludendo intanto la validità di qualunque altra filosofia (che essa fosse pagana o cristiana) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XXV]. ll paradigma di questa filosofia venne poco a poco considerato quello scolastico, con vertice in Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno.
E questa fu poi la presa di posizione ri-attualizzata dall’enciclica “Amore Patris”, di Leone XI, che diede successivamente vita al movimento neo-scolastico e neo-tomista verso la fine del XIX secolo. Ma con questa presa di posizione era ed è connessa anche la dogmatica e inflessibile separazione tra filosofia (Ragione) e teologia (Fede), la cui affermazione venne e viene attribuita unicamente a Tommaso, tanto che la visione di Bonaventura è stata considerata da alcuni una teologia e non una filosofia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XLII]. Insomma è come dire che, qualora il pensiero abbia un contenuto intensamente religioso e soprattutto si rifaccia alla Rivelazione (quale oggetto della propria riflessione), esso non può affatto venire considerato una filosofia, ma invece appena una teologia. Diversamente invece – ossia se il pensiero impiegato dalla teologia si muova esattamente come l’usuale filosofia (e quindi in forza della Ragione naturale) – esso costituisce una teologia filosofica.
Ed a quest’ultima aspirò esattamente Tommaso. Non più che a questo. Ma non Bonaventura! Egli aspirava − e peraltro con coriacea convinzione ed estrema forza – ad una vera e propria filosofia che contenesse oggetti religiosi e partisse dalla Rivelazione per poi ritornare ad essa come Verità assoluta divina; ma intanto non per questo mancasse di costituire una vera e propria filosofia senza essere invece appena una semplice teologia.
E ciò per lui avviene semplicemente perché questa forma di pensiero non si serve affatto della Ragione naturale, la quale appena è capace di conoscere le cose sensibili esteriori ed anche le cose interiori [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135]. Essa si serve invece di quell’Intelletto umano (che ontologicamente è intelligibile tanto quanto quello divino, sebbene su scala decisamente minore), che ha come propri oggetti solo quelli sovrannaturali, ed in maniera massima, Dio stesso. Qui l’intelletto umano appare dotato di una capacità di penetrazione nella realtà divina che deve essere senz’altro profondamente intuitiva.
E questo è esattamente quanto sostenuto da pensatori tradizionalisti come Frithjof Schuon nel contesto di una descrizione della conoscenza di Dio che non è affatto solo cristiana ma anche pagana [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza… cit., 2-3, p. 23-52, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72]. Il che avviene poi a causa di una capacità funzionale tipica dell’Intelletto (ma non della Ragione) che è quella di constatare sempre ed immediatamente l’esistenza oggettiva di oggetti. In maniera abbastanza simile si è espresso George Vallin, sebbene sottolineando molto più di Schuon la necessità che la CIAD fosse puramente intellettuale (“via di gnosi”) e per nulla fideistica (“via d’amore”) [Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012]. Il che significa che per lui l’atto dell’unione mistica a Dio (dominato com’è dalla fede e dall’amore) non rappresenta affatto una CIAD. Approfondiremo poi più avanti questo tema.
A prima vista insomma le due prese di posizione sembrano sovrapponibili. Soprattutto si è indotti a pensare che entrambe considerino l’Intelletto una facoltà che è capace di penetrare interamente la realtà divina.
Vedremo però poco a poco che non fu affatto così in Bonaventura. Né fu così per gli altri pensatori cristiani prima menzionati, con la sola eccezione (forse) di Dionigi, Eckhart e probabilmente anche Cusano.
Del resto non a caso Schuon parla dell’Intelletto come di una sorta di straordinaria forza di penetrazione nelle tenebre della realtà divina. Bonaventura ne parla invece appena come istanza di “promozione” dell’anima quale realtà intelligibile nella quale Dio da sempre soggiorna come idea. E questo poi lascia delineare (per contrasto) un altro notissimo aspetto della visione scolastica e tomista, ossia la distinzione tra l’ambito della teologia razionale e naturale (oltre che della filosofia) dall’ambito della teologia mistica. La prima infatti si limiterebbe a conoscere gli effetti della creazione divina, ossia le creature sensibili, mentre soltanto la seconda conoscerebbe Dio. Lo conosce però in maniera così oscura e confusa da non poter costituire su questo né una filosofia né una teologia razionale. Questo è infatti appena l’ambito della fede e soprattutto dell’esperienza mistica, ed esso venne considerato travalicate decisamente la sfera di azione della Ragione. Ma va intanto notato che Dionigi l’Areopagita è stato un pensatore cristiano che (specie nella sua riflessione sul Nome divino e nel contesto della sua “teologia mistica”) ha considerato possibile pienamente la conoscenza di Dio proprio in questo ambito tenebroso a causa del fatto che in esso non esiste logica e quindi non esiste alcuna definizione positiva di Dio per mezzo di attributi [Beate Beckmann, Einführung, in: Edith, Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, Herder, Freiburg Basel Wien 2003, 6 p. 15-19; Dionysius Areopagita, Von den göttlichen Namen (Übersetzt von Edith Stein), ibd. p. 85-157; Dionysius Areopagita. Mystische Theologie (Übersetzt von Edith Stein), ibd, p. 245-250; Dionigi L’Areopagita. Von dem Namen zum Unnenbaren. Johannes Freiburg 2002]. Insomma è il classico ambito, questo, della cosiddetta teologia negativa o apofatica. Che però non è l’ambito dell’indebolimento della conoscenza di Dio bensì semmai quello del suo straordinario rafforzamento. E recentemente questa è stata la presa di posizione anche dello studioso Bruno Bérard, il quale addirittura afferma che non vi è vera conoscenza di Dio senza penetrare nei misteri anti-logici che ne costituiscono la natura [Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021]. Possibilità che invece, come vedremo, Bonaventura nega recisamente, dato che per lui la conoscenza di Dio è chiara e non oscura. Ed in questo egli resta in linea con la maggior parte della riflessione teologico-metafisica cristiana, che davvero poche volte (con pensatori come Dionigi e Bérard) ha osato concepire una conoscenza di Dio oltre i limiti della teologia razionale. Con l’eccezione dei mistici, i quali però hanno sempre rinunciato per definizione a qualunque forma di indagine filosofica, limitandosi invece a mettere per iscritto in maniera meditativa le loro esperienze di relazione con Dio (vedi Teresa d’Avila e Juan de la Cruz).
Ciò non toglie che comunque il concetto bonaventuriano di conoscenza di Dio sia almeno prossimo a questa complessiva sfera di pensiero. Essa non prevede certo una conoscenza di Dio che consista nel coglimento dei misteri che ne costituiscono la “natura”, ovvero l’essenza. Egli ha sottolineato invece semmai la certezza assoluta (in quanto indubitabile) della conoscenza di Dio come oggetto, e quindi la sua assoluta chiarezza. Il che implica la conoscenza certa di alcuni suoi aspetti specifici: − l’esistenza, l’idea di Dio presente nella mente umana (intuita in modo da tutti in modo immediato ed incondizionato), l’essere Causa prima degli enti causati, o creature [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 120-123]. Tutti questi aspetti rappresentano per il pensatore un’”evidenza” assoluta di Dio come oggetto, che (pur essendo Egli altissimamente intellettuale in quanto ente intelligibile) sfiora quasi la conoscenza sensibile (quanto a chiara e piana indubitabilità). Ed inoltre le dottrine coinvolte in questi aspetti della conoscenza di Dio costituiscono per lui quella che è anche l’unica “vera” metafisica che ci sia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 139-140]. Non lo è invece per lui assolutamente quella che cerca di penetrare i misteri divini, i quali sono a suo avviso (in quanto “natura” di Dio) davvero non alla portata della nostra conoscenza. In questo, come abbiamo visto, egli cozza decisamente con pensatori come Dionigi, Schuon e Bérard. Ma intanto – dall’altro versante filosofico-religioso e metafisico – la sua visione si differenza ancora più nettamente dall’idea tomista della conoscenza di Dio, che viene intellettualisticamente costruita per inferenza (per mezzo degli strumenti logici della filosofia aristotelica) a partire dalle creature sensibili, e quindi sussiste solo in quanto “analogia”, e pertanto di fatto solo metaforicamente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128]. Conseguentemente Tommaso deve considerare la conoscenza di Dio come qualcosa di irreale di fatto. Riprenderemo poi alcuni di questi aspetti più avanti.
Tutto ciò fa sì che (secondo Gilson) la filosofia tenda per Bonaventura invariabilmente verso una “contemplazione” che è sempre “ritorno a Dio” e quindi costituisce insieme un’esperienza di conoscenza ed anche di fede; senza alcuna contraddizione tra i due termini [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III p, 68-71]. Ma oltre a ciò essa procura anche la “pace” e precisamente quella indecifrabile pace che Gesù aveva sempre promesso, identificandola con sé stesso, senza però mai spiegare cosa esattamente fosse.
Essa è evidentemente la contemplazione di Dio stesso (e quindi del mondo perfetto) in ogni cosa ed in ogni evento mondano; con la conseguenza che nulla può più può turbare l’uomo.
Ebbene Bonaventura (secondo Gilson) comprese che tutto ciò costituiva l’”illuminazione divina”, e quindi un qualcosa che è comunque gnoseologico anche se resta unito intimamente all’esperienza di fede più intensa possibile. È, diremmo, non un oggetto di pensiero qualunque, ma invece Gesù stesso come Essere, Origine di ogni cosa (Parola o Logos) e Amore. Dunque è la contemplazione della vera Realtà dominata dalla Bellezza divina, ossia il mondo in quanto Bene divino. E questo è senz’altro ciò di cui si godrà nell’aldilà pienamente. Ma intanto (nell’aldiquà e nell’oggi) di questo mondo si può avere (grazie a Gesù) una potente intuizione, accompagnata ad un’almeno parziale esperienza di esso. Ma tutto questo rappresenta una contemplazione molto più che azione (opere etc.), ossia è filosofia e pensiero. Parliamo insomma qui di una filosofia che è anche mistica. Anche questo serve a definire cos’è la FR. Essa è anche profonda esperienza di fede, ossia profonda esperienza religiosa che riesce ad arrivare in prossimità dell’unione con Dio.
E questo pare (stando a Gison) che sia stato desunto da Bonaventura da quanto San Francesco aveva praticato ed anche insegnato, e cioè il tentativo di restare sempre in presenza di Dio. Ma, diversamente da Francesco (dedito all’estasi quasi continuamente). l’attività della quale qui si parla è di caratura decisamente inferiore, cioè è appena quella di quegli “speculativi”, uomini che non possono rinunciare a pensare nemmeno nella più intensa fede [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III, p. 84]. E quindi distano sempre fatalmente dalla pienezza dell’estasi. Anzi la loro “ascesi” finisce per essere la “scienza” stessa.
Pertanto è anche in questo complessivo modo che ci può descrivere l’autentica FR – un’attività di pensiero che non è né quella della filosofia ordinaria (pura Ragione) né quella della piena ascesi mistica (pura Fede).
È insomma un’attività in cui il pensiero assomiglia moltissimo alla meditazione ed alla preghiera. E quindi quasi le vicaria.
Ma − ancora più semplicemente e sinteticamente – l’effetto di tutto ciò è che Dio diviene comunque “l’oggetto stesso di ogni vera filosofia” [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94]. Può dunque sembrare anche eccessivo, però, almeno da questo punto di vista, non solo la FR è pienamente giustificata, ma è anche l’unica vera forma di filosofia che esista e che possa venire praticata. Essa infatti tocca quasi ordinariamente l’oggetto intelligibile più alto che si possa mai concepire.
Ovviamente parliamo qui della filosofia così com’è stata concepita prima che venisse travolta dal moderno secolarismo post-metafisico al quale la inchiodano pensatori come Habermas. In questa forma, infatti, essa non tende ad alcun alto oggetto intelligibile, anzi fa esattamente il contrario.
Tutto ciò comporta per Gilson anche una serie di questioni che poi tratteremo più approfonditamente discutendo del tema della relazione tra Ragione e Fede. La filosofia di Bonaventura non manca infatti di concepire la differenza che deve venire ammessa tra le due. Tuttavia nello stesso tempo ci fa notare che la prima, quando è pura (ossia naturale ed unilaterale), comporta una “certezza” della verità che non solo riguarda appena la conoscenza delle cose ma inoltre non è affatto attaccata al proprio oggetto come accade quando si colgono le verità credute, ossia le verità di fede. Perché in questo caso alla conoscenza si aggiunge anche l’amore. E questo ha una serie di conseguenze che discuteremo poi più avanti.
Il che senz’altro riduce di molto la distanza tra Ragione e Fede, sebbene non l’annulli del tutto.
Ma il punto davvero decisivo è, secondo Gilson, che una “metafisica della mistica” sarebbe del tutto impossibile se Ragione e Fede differissero per davvero ed in un modo estremo (e dunque inconciliabile) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 105-112]. E questo è esattamente ciò che viene concepito dal tomismo nel differenziare rigorosamente una teologia razionale-naturale quale unico modo (ma solo riduttivo e indiretto) di conoscere Dio. È ciò che avviene per la via dell’ineccepibile dimostrazione logica.
La quale però, come ci mostra Bonaventura, non implica affatto che per mezzo di essa noi veniamo a conoscere per davvero Dio. Certamente non ne veniamo a conoscere la natura, ma soprattutto non ne veniamo a conoscere nemmeno per davvero l’esistenza – la quale invece già splende in noi come Idea, in tutta la propria indubitabilità senza bisogno di alcuna dimostrazione logica e senza nemmeno il bisogno di passare per il livello delle creature sensibili. Dunque – grazie all’apporto di Bonaventura – comprendiamo che è del tutto inutile l’opera della Ragione tenuta lontano dalla presunta contaminazione della Fede.
Resta infatti anche così l’impossibilità di conoscere la natura di Dio, e quindi i misteri che la caratterizzano (che abbiamo visto invece ammessa da altri autori). Di Dio invece noi conosciamo indubitabilmente l’esistenza per il semplice motivo che Egli stesso si è inseminato nella nostra mente come idea innata, ovvero la conosciamo solo interiormente. E più di questo di Lui non sappiamo né possiamo sapere. Il che ci mostra di nuovo – sebbene dall’altro versante rispetto a quello di Tommaso e del tomismo − la grande distanza che vi è tra la dottrina bonaventuriana della conoscenza di Dio e quella dei pensatori tradizionalisti. In altre parole Bonaventura ci dice che Dio può e non può venire conosciuto.
Tutto questo implica che, secondo lui, la filosofia non solo può coesistere con la fede ma addirittura deve. Infatti, se non ne accetta la “luce”, essa si perde nell’”orgoglio”, nell’”amore di sé” e nella “volontà di bastare a sé stessi”, ovvero in una vera e propria perdizione e follia. E cosa, se non questo, cioè la follia aberrante ed il protagonismo titanistico, caratterizza la filosofia moderna?
Oltre a ciò però emerge in tal modo un altro carattere fondamentale dell’autentica FR, ovvero il suo essere appena momento di un cammino che è destinato a procedere incessantemente oltre. E che quindi, se si arresta entro i limiti della filosofia in sé (o pura), finisce per condannare il pensatore ai peggiori errori possibili (appunto le aberrazioni del pensiero). La più autentica FR è dunque anche un filosofare che abbia saputo andare oltre i limiti della filosofia ordinaria. La FR è pertanto l’unica che sia capace di non funzionare “come a vuoto”, ossia di essere un pensare che non ha una vera presa sulla realtà − nonostante tutte le arie che si dà e l’importanza che attribuisce a sé stessa. Ecco che l’espressione qui usata da Gilson definisce in uno solo colpo ciò che è un’autentica FR – essa consiste nel “partire dalla fede per attraversare la luce della ragione e pervenire alla soavità della contemplazione”. Del resto questa espressione descrive perfettamente quello che abbiamo visto essere l’atto e carattere fondamentale della FR, e cioè il suo partire sempre dalla Rivelazione ed operare poi sui contenuti si quest’ultima.
Per questo essa è indubbiamente anche una teologia; ma affatto solo questo! Tuttavia questa così intima prossimità della filosofia alla teologia non ha affatto il senso di istituire una sorta di «teologia filosofica», la quale non è altro se non una teologia obbediente al rigore di pensiero della filosofia ordinaria. Questo è il senso e ruolo che è stato attribuito dalla scolastica alla cosiddetta teologia razionale, ma in fondo è anche quello che è stato attribuito da Habermas ad una riflessione filosofico-religiosa che costantemente rende omaggio alla scienza empirica e si sottomette totalmente ad essa. Il senso di essa deve invece essere tutt’altro. E precisamente, come sostiene Bonaventura, è quello di scegliere tra le questioni filosofiche che devono essere chiamate in causa affinché il teologo possa svolgere la sua attività di pensiero Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., p. 139]. Tuttavia la chiamata in causa di questioni filosofiche non implica affatto la necessità di occuparsi filosoficamente del reale di tipo sensibile, ossia occuparsi di quella conoscenza delle cose che giustamente la teologia ha teso a definire come “vana curiosità”. E Gilson fa benissimo a ricordarci che la filosofia cristiana è stata definita ufficialmente così proprio perché essa aveva ambito a questo risultato per mezzo della scolastica tomista, ossia ad una “sistematizzazione totale del sapere umano”.
La scelta di questioni filosofiche da parte della filosofia dovrebbe quindi, secondo Bonaventura, implicare unicamente questioni metafisiche, e precisamente solo tre tra le tante: − creazione, esemplarismo e ritorno a Dio.
Dell’esemplarismo parleremo a proposito della dottrina delle idee.
Altri argomenti per definire un’autentica FR emergeranno comunque più avanti anche nel trattare di altri aspetti del pensiero bonaventuriano.
2.2 Ragione e Fede.
Abbiamo appena toccato questo tema, ma esso trova (da parte di Gilson) una trattazione ben più approfondita. E quindi dobbiamo dedicare ad essa un paragrafo specifico.
Abbiamo visto che il tema sta in relazione a quello (di importanza filosofica straordinaria) della certezza di verità [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94, II p. 101-114]. E qui emerge nuovamente l’aspetto assolutamente centrale della differenza esistente tra la conoscenza filosofica e quella teologica. La prima infatti è costantemente riferita all’esteriore, ossia ad entità mondane che devono letteralmente afferire allo spirito umano per poter venire conosciute. Laddove, invece, in assenza di tale azione esse resterebbero totalmente sconosciute. E l’intero campo di questa conoscenza corrisponde non solo all’estensione della scienza empirica ma anche a quello della filosofia stessa. In entrambi i casi è infatti all’opera la Ragione naturale; con la conseguenza (almeno in campo filosofico) dell’importanza fondamentale della dimostrazione logico-razionale, e quindi anche della riflessione. In altre parole anche qui (come nella teologia razionale) la certezza di verità viene appena costruita, e dunque è sempre un punto di arrivo.
Ben diversamente accade invece per la teologia (non razionale) concepita da Bonaventura. Essa infatti fa riferimento unicamente alla Scrittura e quindi alle cose credute in quanto verità per definizione; delle quali pertanto si è certi in partenza. In altre parole quindi la certezza di verità qui non viene affatto costruita ma sussiste invece in partenza, ossia viene trovata già pronta. Naturalmente qui dimostrazione e riflessione non giocano alcun ruolo.
Per quanto possa sembrare strano, però, a rigor di logica in questo ambito non vi è alcuna vera traccia della FR. Assistiamo invece appena alla differenza oggettiva esistente tra teologia e filosofia: − la teologia inizia dalla Verità (rivelata), ossia dove la filosofia finisce. Inoltre, mentre la filosofia parte unicamente dalla Ragione (quale potenziale facoltà produttivo-costruttiva) per arrivare a Dio, la teologia parte da Dio per arrivare agli effetti. Naturalmente però qui si intende senz’altro una filosofia che abbia quella valenza teologica che abbiamo descritto prima. E quindi, una volta accoppiate queste due azioni della conoscenza, non saremo più davanti alla semplice differenziazione tra filosofia e teologia, ma vedremo iniziare a delinearsi la FR. Almeno nell’intendimento di Bonaventura. Infatti il partire dalla verità già pronta non resta sterile e passivo (fondando così unicamente la Fede), ma invece diviene immediatamente attivo e produttivo – esso offre infatti al filosofare il materiale (l’oggetto) del quale esso ha bisogno per esplicarsi. E questo materiale non è altro che la Verità divina stessa.
È evidente comunque che la certezza filosofica (razionale) non ha nulla a che fare con la certezza di fede.
E qui Gilson ipotizza una sorta di “filosofia ideale” (quella ordinaria o anche pura) che in via di principio avrebbe il diritto di contenere solo il primo tipo di certezza, e che coincide pienamente con la Ragione naturale. Sta di fatto però che in tal modo si conoscono soltanto le cose naturali esteriori. E quindi, inevitabilmente, il campo della Ragione resta radicalmente separato da quello della Fede. Tuttavia Bonaventura sostiene che, se ciò avviene, è solo perché Dio ci ha dotato di una Ragione che è capace di conoscere le cose naturali.
Ebbene deve essere stato proprio questo ciò che è potuto anche bastare ad alcuni filosofi. Sia in generale sia anche nel concepire una FR. Ad esempio pensatori come Malebranche e Leibniz hanno potuto ritenere la filosofia ordinaria basata su questa Ragione naturale come una vera e propria FR – o meglio una filosofia il cui ambito di azione si estende dalle cose sensibili fino a Dio. Bonaventura ci fa notare però che, anche se questa Ragione ci è stata fornita da Dio, essa non manca comunque di essere fallace, e quindi di produrre fatalmente errori (ossia una fatale incertezza che non si confà per nulla alla conoscenza degli intelligibili).
E quindi essa non è per nulla adatta a conoscere Dio, nel caso del quale noi abbiamo una conoscenza indubitabile proprio perché essa non prevede né può prevedere alcun errore. Ecco allora che la Ragione naturale non basta in ogni caso ed ancor più nel caso della conoscenza di Dio. Dato che in questo caso essa ha bisogno dell’illuminazione divina e quindi di Cristo in persona. Da questa illuminazione scaturisce poi la fede. Ed ecco allora che quest’ultima è semmai una conoscenza più alta e non invece più bassa. Infatti solo con il suo apporto la Ragione raggiunge le verità più alte ed ambite dalla filosofia.
A nostro avviso tutto ciò significa che, per conoscere Dio, è necessaria una Ragione superiore e sovrannaturale. E questa crediamo che sia null’altro che l’Intelletto.
Ecco che allora, quando avevamo visto profilarsi la FR dalla congiunzione tra filosofia e teologia (con la nascita di una teologia filosofica), era accaduto che la Ragione, insufficiente da sola, si era unita alla Fede.
Ed è probabile che proprio questa unione dia luogo alla facoltà dell’Intelletto, che abbiamo visto capace di profonde e possenti constatazioni intuitive, assolutamente certe ed oggettive, di oggettualità avvertite come indubitabili, e senza intanto doversi affatto esporre ad un incerto cammino di riflessione (quello della Ragione) che è invece continuamente esposto al dubbio e da esso minato. Anzi l’Intelletto non compie alcun cammino, bensì invece è un raggio conoscitivo che viene scoccato dalla mente come una freccia, ed in men che non si dica raggiunge il proprio obiettivo. In altre parole esso possiede quella capacità di certezza assoluta e originaria che è soltanto della Fede e non della Ragione – infatti la Ragione al massimo «diviene» certa, mente la Fede «è» certa in partenza.
Bonaventura però almeno formalmente continua a ribadire che la Ragione resta distinta dalla Fede.
Nel senso, però, che con la Ragione non si può credere. Il che però – sulla base di tutto ciò che abbiamo visto finora − non significa affatto che essa possa raggiungere la verità indipendentemente dalla fede.
In questo senso, pertanto, la filosofia si rivela tutt’altro che autonoma, ossia “autosufficiente”. E quindi, ancora una volta, la FR non solo appare essere pienamente giustificata, ma appare anche essere la filosofia per eccellenza. Non vi è infatti una verità più salda e certa se non quella che viene colta grazie alla fede.
E questa, per Bonaventura, non è poi altro che Cristo stesso in quanto ultima Verità dell’Essere.
Il problema non appare essere quindi quello della separazione tra Ragione e Fede (che in via di principio può venire ammessa, ed in una certa misura lo deve anche, almeno formalmente), ma appare essere quello della possibilità reale di una filosofia completamente separata dalla teologia (e quindi priva di qualunque contenuto religioso) proprio in quanto basata su una Ragione che viene ritenuta potere tutto. In questo senso Gilson non esita a dire che Bonaventura “volge le spalle alla filosofia separata” e quindi a quella dei “tempi moderni”. E quindi il pensatore esautora quella che da molto tempo viene considerata in Occidente la definizione stessa di filosofia, e che abbiamo visto riaffermata in pieno da Habermas come assetto definitivo della disciplina. E questo è ciò che Gilson ci mostra essere nient’altro che la realizzazione dell’ideale, nato con in Rinascimento (da Bacone, a Cartesio, Leibniz ed infine Comte), di realizzare un sistema di conoscenze umane completamente unificato, il quale aveva quindi bisogno di essere privo di qualunque contraddizione interna (come quella tra Ragione e Fede) e pertanto aveva bisogno di essere rigorosamente «razionale» in quanto retto unicamente dalla Ragione. E questo era stato del resto lo stesso scopo della filosofia greca specie in quanto “filosofia prima” ossia filosofia scientifico-naturalistica ed insieme metafisica di Aristotele. In fondo, dice Gilson, la stessa teologia razionale (tomistico-scolastica) aveva ambito a questo stesso ideale. Ma intanto aveva compreso perfettamente che la “conoscenza razionale” non è affatto possibile solo dal punto di vista della Ragione. Ed allora non resta che dover supporre che la filosofia retta unicamente dalla Ragione (a sua volta separata rigorosamente dalla Fede) è appena sufficiente per la conoscenza delle cose, mentre invece la teologia (nella sua autenticità e pienezza) tende a cogliere il significato che ogni conoscenza ha nel rapporto che unisce a Dio cose e uomini.
Ed eccoci di nuovo di fronte alla definizione di FR.
2.3 La conoscenza di Dio e le prove della sua esistenza.
Come abbiamo già visto, Bonaventura sostiene che la conoscenza di Dio è perfettamente possibile semplicemente perché la sua esistenza è immediatamente evidente. E se tale conoscenza appare impossibile, ciò accade secondo lui solo perché gli intelletti “troppo carnali” dei filosofi tendono a fermarsi ai dati sensibili senza mai pervenire alla naturale e necessaria conclusione del ragionamento [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 117-129]. Vi è dunque anche per Bonaventura una possibilità reale di conoscenza intellettuale di Dio (CIAD).
Prudentemente egli distingue però tra la conoscenza della natura di Dio − che ci è preclusa perché essa implica la “comprensione” di qualcosa alla quale dovremmo necessariamente essere ontologicamente eguali (come accade per le cose sensibili) – ed “apprensione” di qualcosa nel senso che la sua verità ci diviene immediatamente manifesta. E questo è esattamente ciò che accade per l’esistenza di Dio.
Rispetto a questa possibilità (apparsa sempre inammissibile) sono state sempre sollevate molte obiezioni.
Ma esse sono per Bonaventura facilmente superabili.
Innanzitutto l’esistenza di Dio ci appare manifesta sebbene, in quanto oggetto, ecceda incommensurabilmente i limiti del nostro intelletto. Per di più in essa vi è addirittura un vantaggio rispetto alla conoscenza delle cose, dato che tra il conoscente ed esse vi è sempre una naturale distanza, mentre quest’ultima non c’è affatto tra Dio e l’anima umana, entrambi sostanze intelligibili e quindi profondamente comuni (sebbene su una scala diversa). Inoltre la conoscenza di Dio non è affatto impossibile perché in essa il finito si troverebbe di fronte all’infinito. E ciò perché quest’ultimo non è “di massa”, ossia concernente la grandezza, ma invece è ciò che è a causa della sua assoluta “semplicità” che lo rende “assoluto”. E proprio per questo Dio è presente ovunque (e precisamente “nella sua interezza”) nonostante noi sensibilmente non lo percepiamo. Esso insomma (sebbene Gilson qui non lo dica) non è altro che l’Essere nel quale noi siamo immersi avvertendone immediatamente la presenza ma senza poterlo percepire. Oppure, come dice Guardini [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana: Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89] noi non vediamo né tocchiamo Dio semplicemente perché siamo immersi dentro di Lui essendone così circondati da ogni parte.
È a causa di tutto questo, dice Gilson (cioè molto semplicemente), che il nostro intelletto è capace di conoscere Dio sebbene Egli “ecceda il pensiero da tutte le parti”.
Su questa base il pensatore distingue due forme di conoscenza di Dio: − innata e secondo il principio di causalità (ossia attraverso le creature). Gilson parla anche di una terza forma ma poi è difficile nel testo comprendere in cosa essa consiste.
La conoscenza innata consiste nel fatto che Dio è una verità innata per ogni anima razionale. Il che però non significa che per questa via sia possibile coglierne la natura. Gilson sembra stato perfettamente consapevole dell’argomento bio-evoluzionistico che oggi la FdR (specie quella retta dalla filosofia della mente o cognitivismo) ha fatto completamente suo, sostenendo che l’idea di Dio rientra naturalmente e fisiologicamente nel pensiero umano senza che questo corrisponda per davvero ad un essere divino.
Ma questo per Bonaventura non è affatto conoscenza dell’esistenza di Dio, bensì semmai inganno su di essa, e quindi “idolatria”. Comunque il nucleo di questa conoscenza è la profonda comunanza dell’anima e Dio in quanto entrambi enti intelligibili. Cosa per cui Dio non può che essere presente conoscitivamente nell’anima dato che è presente in essa mentre l’anima è intelligibile a sé stessa. E questo è un po’ il senso semplificato dell’argomento agostiniano. L’espressione «Dio è in noi» (oppure «Dio non ci abbandona mai») significa che noi lo ospitiamo dentro in fondo senza nemmeno saperlo. Anzi spesso dubitando fortemente che sia così. Eppure è sufficiente che prendiamo profondamente contatto con noi stessi in quanto anima per rendere Dio immediatamente presente per mezzo di noi stessi. La nostra stessa anima, insomma, è la presenza di Dio in noi.
E tutti questi sono (come sottolinea Gilson) elementi di una metafisica bonaventuriana profondamente ispirata appunto ad Agostino. Il che significa che secondo lui la conoscenza di Dio coincide sostanzialmente con l’auto-conoscenza. Laddove recentemente noi stessi abbiamo mostrato che quest’ultima è il nucleo di un’autentica Psicologia sacra, ossia una psicologia basata più sulla crescita spirituale che non sulla conoscenza naturalistica della mente [Vincenzo Nuzzo, La psicologia sacra, Victrix, Forlì 2023]. Ancora una volta comunque ciò elimina il problema della sproporzione in grandezza tra l’intelletto umano e Dio (in quanto oggetto), dato che ciò che è all’opera non è una conoscenza in senso ordinario (richiedente la similitudine all’oggetto conosciuto) bensì una conoscenza che è relazione tra due entità; anzi si tratta della relazione tra due persone. E ciò comporta esattamente la conoscenza di Dio per mezzo della Sua esistenza – esistenza ovviamente prevalentemente interiore e come tale certissima (idea innata di Dio).
La seconda via della conoscenza di Dio è per Bonaventura la costatazione del fatto che Dio è Causa di tutte le cose, e quindi questa via passa per le creature sensibili. Nessuna via è però più lontana dalla conoscenza di Dio come oggetto (natura di Dio) dato che Egli è immensamente più che una cosa, ossia è “pura spiritualità”. E quindi questa prova di esistenza è una delle più dimesse e insufficienti quanto a qualità, ed inoltre è non poco riduttiva. Essa è infatti estremamente umile, pochissimo ambiziosa e del tutto anti-intellettualistica. Specie a paragone con la pesante argomentazione logica che invece Tommaso pone proprio a questo punto, cioè nel partire dalle creature sensibili.
D’altro canto però proprio l’umiltà semplice di questa prova rappresenta la convinzione profondamente francescana di Bonaventura secondo la quale “la natura intera proclama l’esistenza di Dio come una verità indubitabile”, e quindi pone nel modo più forte ed esplicito possibile la “presenza di Dio nella natura” stessa. Dato però che né la percezione sensibile né l’argomentazione logica servono a fare questa costatazione, è più che mai evidente che essa stessa deriva in verità dalla presenza dell’idea innata di Dio nella nostra anima. Quindi la specie di evidenza sensibile che deriva dalle creature non è altro, secondo Gilson, che il ritrovamento di questa idea, ovvero di fatto la sua reminiscenza. In altri termini noi soltanto ci illudiamo di vedere Dio nelle cose, anche se è del tutto vero che Egli è presente dappertutto.
In accordo con Anselmo (argomento ontologico) Bonaventura è comunque consapevole di quella “necessità dell’essere divino” che si comunica immediatamente al pensiero. Insomma egli ammette che Dio può venire concepito come evidente in quanto essere del quale nulla è più grande. Ma intanto c’è una via molto più semplice a nostra disposizione ossia quella del semplice pensare Dio, ossia l’idea di Dio – essa lo rende immediatamente esistente allo stesso modo dell’argomentazione antecedente. Ma qui l’interiorità della conoscenza appare essere ancora una volta una risorsa straordinaria, dato che Dio è in primo luogo in un oggetto interiore. Ed in questo, come dice Gilson, letteralmente “l’intelligibile divino aiuta il nostro intelletto a conoscerlo”. Perché se Egli fosse un oggetto esteriore sarebbe così eccedente il nostro intelletto da essere assolutamente inconoscibile. Intanto comunque – è lecito arguire da questa complessiva dottrina – se Dio non fosse presente in modo innato ed effettivo come idea nella nostra mente, noi, in quanto esseri naturali, non potremmo nemmeno lontanamente immaginarcelo. Infatti, comunque si voglia intendere la genetica delle idee, è certo che in Natura non vi è alcun oggetto reale e sensibile che si possa trasformare in noi nell’idea di Dio (passando per i sensi). Non vi è insomma alcuna esperienza mondana che sia capace di contenere un oggetto così infinito e soprattutto incomprensibile ed ineffabile. E quindi da ciò si può dedurre che quella che a prima vista sembra essere una pura fantasia generata dalla nostra mente, invece è esattamente il contrario, e cioè è una reale presenza che si manifesta a noi come qualunque oggetto interiore, ossia come idea, e che, proprio come tale, noi non avremmo mai potuto fabbricare. Insomma Dio è un oggetto nel senso della radicale alterità, e cioè è a noi totalmente esteriore. E proprio come tale ci invade e ci sorprende inimmaginabilmente con la Sua presenza in noi stessi (sebbene non si possa dire in alcun modo «da dove» Egli ci provenga). Di conseguenza possiamo dire che Dio «è costantemente con noi» proprio perché ci è stata da Lui stesso concessa la possibilità di pensarlo – infatti ogni volta che Lo pensiamo, Egli si rende realmente presente a noi. Sebbene intanto nel mondo sensibile circostante non cambia assolutamente nulla. Anzi molto spesso le cose divengono addirittura molto peggiori di quanto erano prima.
Ma, partendo da tutto questo, Gilson deduce il sussistere di due teorie della conoscenza di Dio completamente diverse tra Tommaso e Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135137].
Il primo vede infatti l’intelletto posto in relazione al sensibile (come un fascio di luce che illumini) – concependo così la relazione tra interiore ed esteriore che da sempre è stata usuale in filosofia −, mentre in secondo vede una fenomenologia tutta interiore che corrisponde alla produzione dell’anima (in quanto intelligibile simile a Dio) da parte dell’intelletto. E questo significa che non è nemmeno necessario (come fa Tommaso) porsi la questione del se l’esistenza di Dio sia o meno una “res nota”. Perché, se è tale, lo può essere solo attraverso un’inferenza dai sensi, che segue poi inevitabilmente la via (pochissimo autentica) di una “costruzione analogica” operata dal nostro intelletto. L’esistenza di Dio è evidente invece in un modo del tutto indipendente dall’azione del nostro intelletto a partire dal sensibile, ossia come idea che è già presente nella nostra mente, e quindi non è in alcun modo provenuta dal mondo oggettuale sensibile.
In tal modo Bonaventura contraddice frontalmente la genesi delle idee a partire dal mondo sensibile che venne concepita soprattutto da Locke [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022], sebbene poi vedremo che in parte la ammette. E qui diviene utile il confronto con la teoria delle idee di Malebranche, la cui visione almeno in questo è estremamente simile a quella del nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35, IV, 393-395, p. 39-40, I, 8-9, p. 40-41, III, 413-415, p. 58-60, (III, 420-421, 425-426, p. 99-102; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., III, p. 44-67].
Per Bonaventura, insomma, Dio non si costruisce ma si semplicemente si trova. E si trova perché Egli stesso si lascia trovare essendo a noi infinitamente più vicino di quanto possiamo mai immaginare.
Insomma Dio non è un’idea che venga dalle cose (e nemmeno dall’azione della nostra stessa mente) ma si rende presente in maniera del tutto originaria nella nostra anima, ossia senza alcuna provenienza riconoscibile. Il che sottolinea poi la sua assoluta libertà e volontà nel compiere questo atto. Il quale è infatti un atto di puro amore.
2.4. La dottrina delle Idee applicata da Bonaventura al Cristianesimo (esemplarismo). Aristotele e Platone.
L’intera dottrina delle idee alla quale si riferisce Bonaventura si concentra nel suo nucleo metafisico-religioso, e cioè nel concetto di Dio come Causa prima di ogni cosa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 140-141]. Come tale esso è la “sostanza universale increata” che è il “il punto di partenza di tutte le cose”, ovvero (in termini causalistici) è la causa efficiente. Da un altro punto di vista Egli è il principio, il mezzo e il fine di tutte le cose. Questo significa però che Egli è causa in quanto modello e precisamente la “causa esemplare” di tutte le cose, ossia l’idea intesa quale modello. Dio insomma è l’Idea stessa (quale modello).
Il Prof. Reale, nell’analizzare la teoria delle idee di Platone, aveva visto proprio in questo una tra le particolari valenze attribuite all’idea dal pensatore ateniese [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. Che però ne ha anche altre. E rimandiamo per questo ad una serie di nostri scritti su Platone e sul platonismo [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018, p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, p. 41-68; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016]. Pertanto è evidente che almeno in questo il pensiero di Bonaventura intercetta uno dei momenti più alti e geniali del pensiero di Platone. E tuttavia Bonaventura non sta pensando alla dottrina delle idee di Platone, bensì in primo luogo a Dio come Causa di tutte le cose. La visione di Platone è dunque per lui appena un mezzo per esprimere idee sostanzialmente cristiana. Non è invece per lui una dottrina alla quale egli dichiari l’appartenenza.
In ogni caso è evidente che (esattamente secondo la visione di Platone) la valenza di modello delle cose fa dell’idea ciò in cui assenza la cosa non avrebbe mai avuto né forma né esistenza né individualità. Non solo, ma Gilson sottolinea qui anche la portata teoretico-conoscitiva del concetto di idea-modello – perché in forza di esso noi non conosciamo mai “cose” ma invece solo idee. E questo ci riporta di nuovo decisamente alla dottrina delle idee impiegata da Malebranche.
E quindi è chiaro che con ciò stiamo parlando di un Principio assolutamente primo. E questo Principio è assolutamente trascendente, affermando così, con il suo esistere ed agire, che il mondo immanente dipende strettamente da quello trascendente. E questa è ancora una volta un’affermazione non solo cristiana ma anche integralmente e fortemente platonica. Il pensatore ateniese riteneva infatti che soltanto il mondo delle cose ideali (trascendente), cioè il mondo delle idee, era davvero dotato di realtà. Cosa che possiamo dedurre direttamente dal Fedone [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2000, I, XLIX p. 127] ed inoltre è stata constatata in modo chiarissimo da molti suoi antichi successori (Proclo) ed interpreti moderni (tra i qiali alcuni cristiani come Guardini) [Giovanni Reale, Il «Platone» di Friedländer: la sua importanza e la sua portata storico-ermeneutica, in: Paul Friedländer, Platone… cit., 2 p. XI-XII; Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, IV, 6-8, 22.10-27.5 p. 483-487; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 255-256: Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 5 p. 149-150; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. E questa realtà coincideva totalmente con la verità. Checché ne dicano i critici tale visione lega quindi molto fortemente Bonaventura al pensiero di Platone (e ciò perfino oltre le intenzioni del pensatore). Ovviamente però in quest’ultima mancava sia la concezione di un Dio personale sia la sua collocazione al di sopra del mondo delle idee. Tuttavia evidentemente – aldilà di queste differenze teologico-confessionali − non vi è poi molta differenza tra l’affermare che l’idea è modello perché è la vera Realtà ed è modello in quanto è Dio come Causa di ogni cosa. Non a caso entrambe queste idee ci riportano alla dottrina del Logos come origina remota di tutte le cose. Pertanto possiamo dire che Bonaventura è stato di fatto un platonico anche senza volerlo esplicitamente.
Tuttavia, sebbene tutto questo leghi decisamente Bonaventura a Platone – distanziandolo invece decisamente da Aristotele (cosa che qui Gilson sottolinea fortemente specie a proposito del ruolo e valore del mondo trascendente verso quello immanente) −, almeno per il commentatore non configura un «platonismo» (aperto ed esplicito) del pensatore, ma invece delinea molto più una delle forme della metafisica cristiana, e cioè il cosiddetto “esemplarismo”. Dottrina che pare Bonaventura considerasse non solo la più autentica e pregevole metafisica cristiana (in quanto più fedele alla Rivelazione specie per mezzo della Creazione) ma anche la più autentica e pregevole metafisica in assoluto. Oltre a ciò Gilson sottolinea la distanza che vi è tra Bonaventura e Platone a causa del fatto che il primo sostiene il concetto dell’idea come modello rifacendosi unicamente alla dottrina rivelazionale del Verbo incarnato (idea passibile di trasformazione in cosa), dottrina della quale Platone non avrebbe mai potuto sapere nulla dato che la sua visione filosofica si basava unicamente sulla Ragione naturale. Questo è però ciò che dice Gilson. Se invece si legge Friedländer si potrà constatare che le idee di Platone erano molto più profondissime e fulminanti visioni contemplative ed intuitive che non invece costrutti razionali-naturali. Un esempio per questo è la sua dottrina dell’”Arrheton”, ossia il profondissimo (centrale) ed altissimo (verticale) Indicibile che per lui fondava l’intera realtà [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 77-88, II, IA, 1 p. 419-429]. E del resto abbiamo appena visto che – sebbene in modo solo implicito – la dottrina delle idee-modello di Platone riconduce direttamente alla dottrina del Logos cristico.
Tra l’altro Gilson sottolinea anche che per Bonaventura la realtà di Dio come Causa-Idea era il culmine stesso della metafisica, oltre il quale si entrava nel campo della conoscenza della sua natura o essenza (Trinità), e quindi rappresentava un limite assoluto della conoscenza di Dio. Di nuovo quindi viene contraddetto da Bonaventura quanto sostiene Bérard della conoscenza dei misteri cristiani. Tuttavia è davvero difficile comprendere chi dei due abbia ragione.
Ma il concetto di Dio-Idea comporta anche quello della relazione esistente tra Dio e la molteplicità delle idee corrispondenti alle cose (altro aspetto fondamentale della dottrina platonica delle idee). E così procediamo oltre nella comprensione dell’impiego bonaventuriano di questa dottrina. Qui è infatti implicato il problema della conoscenza di sé stesso da parte di Dio, atto fulmineo e totalizzante nel contesto del quale egli viene a conoscere tutte le idee che si trovano in Lui [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 142-143]. Si tratta insomma di un’altra forma di descrizione di Dio come «Atto puro», ossia unità immediata di potenza ed atto. E di nuovo così siamo di fronte al fenomeno dell’auto-conoscenza o conoscenza interiore, entro la quale il soggetto equivale all’oggetto, e quindi in esso insorge necessariamente quella che Gilson chiama “somiglianza”. Laddove quest’ultimo concetto ci riporta di nuovo molto direttamente alla valenza di modello dell’idea.
Con tutto ciò si delinea quindi una conoscenza completamente diversa da quella esteriore. Nella quale l’oggetto esteriore è qualcosa che viene ad aggiungersi al campo conoscitivo eccedendo così la presenza del soggetto ed inoltre rappresentando necessariamente qualcosa di diverso (alieno) rispetto ad esso.
Nella conoscenza interiore non vi è invece nulla di tutto questo, dato che Dio è un oggetto interiore, e quindi in questa sede non vi è nulla di diverso tra soggetto ed oggetto. Ora, posto tutto questo e ritornando allo schema della produzione della cosa da parte dell’idea, ne risulta che, nel corso di quell’atto creativo divino che è anche atto auto-conoscitivo, si verifica un fenomeno di “espressione” del Dio-Idea (Verbo in quanto contenente la molteplicità delle cose ossia tutti i “possibili”) che costituisce necessariamente anche un fenomeno di “somiglianza”. E quest’ultimo fenomeno riproduce poi immediatamente la relazione esistente tra idea e cosa che sussiste nell’idea come modello. Ne risulta che, con la creazione, l’intera Natura si sforza di somigliare al suo Creatore che contiene a sua volta tutte le idee corrispondenti alle cose esistenti (che esse siano state già create o debbano ancora esserlo). Quindi esprime ciò che Dio è: − Verbo.
Con questa dottrina ci troviamo quindi al cospetto della più generale dottrina della «presenza di idee creative nella mente divina», modello che è stato costantemente presente nella metafisica cristiana ed è stato impiegato in modi diversi dai più diversi pensatori. E tra questi vi fu peraltro anche lo stesso Tommaso, che, almeno in questo, fu non anche platonico [Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, III, p. 103-107].
Vedremo però che Bonaventura solo adombrò questa dottrina ma si rifiutò di accettarla nella sua integralità. Però è certo che, se lo avesse fatto, sarebbe dovuto venire definito come effettivamente platonico.
Ebbene con tutto ciò perveniamo secondo Bonaventura ad un altro culmine della metafisica – la somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di idea-modello che caratterizza Dio) è l’espressione del Padre per mezzo del Figlio, il Verbo. Ma con ciò abbiamo anche un punto di appiglio molto forte all’ontologia di nuovo per mezzo del fenomeno dell’espressione – l’essere (il mondo) non è altro che l’auto-rappresentazione di sé stesso da parte di Dio in quanto infinita possibilità di cose. Sta qui dunque il vero principio dell’Essere – le cose “possono essere” (e saranno, cioè esisteranno) in forza delle possibilità (ideali) contenute nell’”essere infinito” che è Dio. Il quale non ha che da pensarsi in un sol colpo perché l’Essere sussista in un sol colpo.
Successivamente Gilson si addentra in un chiarimento dell’espressione del Verbo per mezzo del tema rivelazionale della “Parola”. Ma per questo rimandiamo il lettore al libro.
Ciò che è importante sottolineare è invece che Bonaventura fu perfettamente consapevole che non si può parlare di un’effettiva presenza di idee entro l’Essere di Dio (dato che Egli è assoluta e inscindibile unità), ossia nella Sua essenza, ma solo invece a livello immanente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 148-151]. E questa precisazione fa di lui un pensatore che sfugge decisamente alla visione platonica più integrale; specie perché egli si rifiuta di ammettere l’identità ontica tra il «mondo delle idee» e la realtà di Dio.
La molteplicità delle idee dunque non significa altro che l’espressione divina (a partire dalle idee) si pone in relazione alle cose e non invece a Dio stesso (nella sua essenza). La molteplicità delle idee sussiste insomma unicamente in relazione alla pluralità delle cose. Ne consegue che la molteplicità delle idee può aumentare all’infinito in ragione della molteplicità del reale che essa deve esprimere. Pertanto l’espressione viene richiamata dal basso (nel mentre invece è convergente in direzione dell’alto e del vertice, cioè verso l’Unità divina). Cosa che avviene (come in Aristotele) lungo la linea di sviluppo di individui-specie-generi.
E questo significa che allora la dottrina della presenza di idee creative in Dio non è in fondo altro che una metafora per rendere comprensibile l’ineffabile.
Questo è vero però solo apparentemente. Infatti, dall’altro lato, è anche vero che per Bonaventura l’Unità divina costituisce la Verità delle cose. E quindi in questo senso per davvero esistono idee nella mente divina che l’atto divino di auto-conoscenza coglie in un sol colpo. Ecco allora che è del tutto secondaria la molteplicità di idee colta appena in rapporto alle cose, mentre invece è assolutamente primaria la molteplicità di idee (sebbene solo metaforica, in quanto esprimente le infinite possibilità del tutto ideali delle cose) primaria nella mente divina.
Gilson ricollega comunque questa problematica alla concezione della “scienza divina” in Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 152-156]. Laddove quest’ultimo (differenziandosi così decisamente da Malebranche) si rifiutò categoricamente di ritenere che questa scienza dipenda dalle cose esistenti. Invece le idee corrispondono integralmente all’Essere divino stesso. E quindi Dio, nel Suo conoscere, non fa altro che conoscere sé stesso. Ed ecco che di nuovo si delinea il fenomeno della somiglianza – perché la conoscenza di Dio da parte dell’uomo (e di sé stesso da parte di Dio) assomiglia alle cose non perché le imiti ma solo perché le esprime. Il che significa che la valenza di cose che le idee hanno è in verità unicamente trascendente e non immanente. Cosa che di nuovo si concilia perfettamente con la dottrina di Platone, secondo la quale le idee quali cose rappresentano quella vera Realtà che è solo trascendente.
Ne risulta che per Bonaventura non può esistere nulla di simile all’«analogia entis» tomistica (la quale, aristotelicamente, inverte la somiglianza tra idee e cose, facendola partire dall’immanente invece che dal trascendente). Inoltre a causa di tutto ciò la scienza divina condiziona l’essere delle cose in quanto radicalmente anteriore ad esse, e quindi può modificarle senza prendere in alcun modo parte al loro continuo cambiamento. È evidente anche che l’atto conoscitivo divino avviene totalmente nell’eternità e non invece nel tempo.
Da tutto ciò appare evidente che l’impiego della dottrina delle idee fa solo apparentemente di Bonaventura un platonico (sebbene abbiamo visto che ci sono anche momenti forti di tale prossimità di pensiero). Senz’altro essa lo distanzia infinitamente da Aristotele − del quale non a caso egli condannò decisamente la critica alla dottrina platonica delle idee (e proprio per questo vide nell’aristotelismo un luogo di “fitte tenebre” dottrinarie) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 141] − ), ma intanto lo approssima unicamente alla portata platonica che ha la Rivelazione cristiana in alcuni suoi aspetti come la dottrina del Verbo. Quindi semmai possiamo dire che il pensatore rappresenta uno dei momenti più alti di un platonismo profondamente riveduto e corretto dal Cristianesimo – la cui metafisica non coincide affatto integralmente con quella del pensatore ateniese, sebbene abbia con essa molte tangibili affinità.
Ma del resto Bonaventura si distanza tanto da Aristotele che da Platone nella sua dottrina della creazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VI p. 175-190]. In essa infatti egli considera un vero e proprio sproposito metafisico concepire (come avviene in Platone) l’esistere di una materia senza forma eterna che poi prenda forma ad opera delle idee.
In ogni caso (come avviene anche in Malebranche) Bonaventura deve venire considerato platonico (che egli lo abbia voluto o no) dal punto di vista teoretico-conoscitivo – la conoscenza ha infatti come proprio oggetto le idee e non le cose, e conseguentemente le idee non provengono affatto dalle cose.
Vedremo però più avanti che questa dottrina bonaventuriana è abbastanza più diversificata di quanto possa sembrare in base a quanto abbiamo appena detto.
L’esposizione di questa intera dottrina va completata però con la discussione di una dottrina dell’analogia che potremmo considerare opposta a quella di Tommaso, e che forse rappresenta anche il contesto più ampio in cui vanno collocate la dottrina delle idee e quelle della somiglianza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 191-195]. Peraltro Gilson la definisce immaginifica e simbolica, e quindi una dottrina che sembra essere più poetica che non rigorosamente filosofica.
In generale si tratta del fatto che (in perfetta coerenza con la dottrina dell’idea-modello e con quella della somiglianza) il mondo creato viene considerato come qualcosa che mostra chiaramente impresse in sé le tracce della presenza e dell’azione divina. Dal punto di vista metafisico la questione si interseca con la discussione sull’Essere divino, a sua volta legata alla dottrina della creazione dal nulla – con al centro la questione del se l’Essere divino crei il nuovo, aggiungendo così ulteriore essere al proprio (e dimostrando così l’insufficienza di quest’ultimo), o se invece l’Essere divino produca la creatura a partire dal proprio stesso essere (esponendosi così alla divisione ed allo svuotamento). Ma tutte queste discussioni (sostanzialmente critiche) sfuggono, dice Gilson, alla riflessione medievale nella quale si pone pienamente quella di Bonaventura. Ed ancora una volta il paradigma platonico di pensiero appare qui decisivo, dato che, una volta posta la difettività ontologica del mondo delle cose (immanenza) rispetto a quello delle idee (trascendenza), allora appare evidente che le appena citate discussioni sull’Essere divino riguardano in verità solo quello mondano (il solo passibile di diminuzione ed aumento etc.). Ma proprio questo atto filosofico ci rivela che in verità noi guardiamo all’universo sulla base di un’analogia, a causa della quale ciò che è immanente assomiglia a ciò che è trascendente. L’analogia è quindi un movimento dall’alto al basso (secondo il fenomeno della somiglianza) e non dal basso all’alto (lungo la linea dell’inferenza pensante).
Per la precisione, però, non si tratta di un’analogia “equivoca” (entro la quale l’essere trascendente venga concepito sul modello dell’essere immanente o “universo dato”, come del resto in qualche modo avviene entro l’«analogia entis»), bensì si tratta di un’analogia “univoca”. E quest’ultima giunge fin quasi alla perfetta “identità” esistente tra l’essere immanente e quello trascendente, senza che però il secondo si riduca mai al primo. Proprio per questo l’identità è in verità impossibile a causa della radicale diversità dell’essenza mondana da quella divina, in forza della quale poi il mondo non deriva per davvero da Dio (come nel paradigma emanazionista) ma appena gli assomiglia. Questo è insomma il senso profondo della creazione. La creazione si compie quindi secondo il paradigma della somiglianza. Cosa che genera una profonda discontinuità tra l’Essere divino ed il mondo.
Ecco allora che il concetto di somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di modello dell’idea rispetto alla cosa) finisce per appaiarsi a quello di “analogia universale”.
Ma questo complessivo assetto genera comunque per Bonaventura una realtà dominata dai “rapporti” esistenti costantemente tra trascendente ed immanente. Il che ci riporta molto suggestivamente ad Eckhart, ossia alla continuità ineffabile che egli intravvede tra trascendente divino ed immanente umano-mondano e che si riassume poi nei concetti di “nascita divina”, di creazione continua e di profonda identità ontico-dinamica tra Dio e uomo [Meister Eckhart, in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, Predica 1 (S 87) p. 5.13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79, ibd. Predica 13 (S 102), p. 186-203, ibd. Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München 2014, Einl, p. 17, I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, III, 13-14 p. 123-131 IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174].
E proprio in forza di ciò si spiega per Bonaventura la natura e struttura della creatura, ossia del prodotto divino di ciò che è immanente e mondano [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 198-206]. Ecco allora che egli (adombrando fortemente Proclo) distingue tre livelli creaturali a secondo della loro decrescente grado di lontananza dalla Causa divina: − “ombra”, “vestigio”, “immagine”. L’immagine è quella meno lontana dalla Causa divina e rappresenta per la precisione l’anima. In ogni caso egli distingue l’immagine in qualitativa e quantitativa, laddove questa seconda esprime molto meno l’essenza o idee, limitandosi a riprodurre (ma molto alla lontana) appena la struttura della realtà trascendente. Quindi l’immagine qualitativa si presta molto meglio ad esprimere l’idea trascendente divina che si manifesta nel mondo. L’anima è quindi la più alta e nobile espressione creativa di Dio. Non a caso Egli soggiorna in noi proprio in quanto ha infuso in noi (in via di principio enti unicamente naturali) la sostanza spirituale costituita dall’anima.
Anche questa complessiva dottrina dell’analogia ci mostra pertanto nel pensiero di Bonaventura qualcosa che è fortemente influenzato dal platonismo, ma non senza una serie di limiti e correttivi (spesso addirittura contraddicenti Platone) che derivano dal suo scrupoloso riferirsi alla sola Rivelazione cristiana.
E questo conferma sicuramente la natura di autentica FR che questo pensiero costituisce, dato che esso non lo sarebbe se si rifacesse invece semplicemente ad un pensatore mondano come Platone.
2.5 Assetto e ruolo della metafisica in Bonaventura.
Riguardo a ciò ci sono prima di tutto da ricordare alcuni aspetti dei quali abbiamo già trattato.
Innanzitutto appare chiaro che per Bonaventura non vi è FR senza una profonda riflessione metafisica.
Ed in essa vengono decisamente superati i limiti della Ragione naturale ai quali invece si attiene scrupolosamente la filosofia non religiosa. Questo superamento dei limiti della Ragione naturale non implica però per lui la possibilità di una conoscenza di Dio che si addentri nei misteri della sua natura.
Infatti la sua metafisica impone a sé stessa dei precisi limiti in questo senso. Da tutto ciò risulta che, quando la FR perseguita da Bonaventura si rifà alla Rivelazione (come suo punto di partenza e suo oggetto di riflessione), intende con questa anche una materia sublimemente metafisica, ma comunque non oltre certi limiti. Abbiamo già visto però che Bérard ci indica una prospettiva completamente diversa. Egli infatti intende la metafisica come quella forma di conoscenza che per definizione penetra profondamente nei misteri divini. E proprio per questo essa contraddice ogni principio logico (specie quello di contraddizione) dato che pensa delle realtà (come quella trinitaria) entro le quali la contraddizione logica è la regola.
Abbiamo anche visto che Bonaventura impiega nella sua metafisica un concetto di analogia universale che differenzia questa dottrina dal suo versante enticista di stampo scolastico-tomista, ricollegandosi quindi molto più al ruolo e valore assegnato da lui all’idea trascendente come autentica dimensione divina posta alla radice di qualunque cosa del mondo.
A ciò si aggiunge però infine il versante in gran parte teoretico-conoscitivo della sua metafisica, e cioè quello riguardante anima ed intelletto. E qui usciamo decisamente da una metafisica che concerna anche lontanamente i misteri divini per entrare in un campo in cui ciò che si compie è una conoscenza metafisica dei fenomeni e degli enti della Natura. Si tratta insomma di una conoscenza metafisica della fisiologia della Natura, e quindi si tratta in fondo una scienza empirica illuminata dalla metafisica (molto simile a quella di Suárz). Ci troviamo insomma nel campo in cui il pensiero bonaventuriano venne probabilmente influenzato di più dalla metafisica scientifico-naturalistica e pragmatica di Aristotele.
Non crediamo che valga la pena di soffermarsi molto sul concetto bonaventuriano di anima qui discusso da Gilson; che appare venire da lui mutuato in gran parte da Agostino, e quindi (per via piuttosto indiretta) anche da Platone. Non a caso la sua dottrina entra in conflitto in molti punti con quella tomista, mutuata invece da Aristotele.
Gilson conduce comunque un discorso metafisico piuttosto complesso su come Bonaventura intenda le facoltà o funzioni dell’anima, del quale però riteniamo utile riportare soltanto alcuni aspetti più rilevanti.
Proprio la distanza esistente dalla dottrina dell’anima tomista (enticista e naturalista sul modello di Aristotele) fa si che Bonaventura sottolinei l’insuperabile differenza ontica (differenza di essere) che vi è tra Dio e l’anima umana, nonostante Egli l’abbia creata e le abbia anche concesso il privilegio straordinario della conoscenza e dell’intelligenza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII p. 293-300]. Dio in quanto Essere ha quindi per lui una relazione con l’anima solo in quanto è Causa esemplare (e non invece di continuità ontologica). Il che implica qui inevitabilmente la dottrina della creazione dal nulla – dato che, se Dio non trae l’anima dal proprio stesso Essere, deve necessariamente prenderla da fuori di sé, e dunque da quel Nulla che egli poco a poco trasforma in Essere. E naturalmente questo esclude la possibilità che in Bonaventura si possa trovare qualunque trattazione dell’anima (spesso emergente invece in Tommaso) come una sorta di sostanza universale immanente che impregni di sé tutti gli esseri viventi dato che manifesterebbe direttamente la presenza divina nella Natura – ossia come una sorta di animicità diffusa delle cose − cosa che poi giustifica la supposizione di una sorta di intelligenza intrinseca (“intelligent design”) presente immanentemente nella Natura (in quanto infusa in essa da Dio) e quindi operante in modo autonomo [Marie George “What Would Thomas Aquinas Say about Intelligent Design?”, Blackfriars, 94 (1054) 2013, 676-700].
In ogni caso anche lui vede nell’anima una sostanza vivificante e movente; solo che la Vita non si identifica in essa con la propria sostanza, e quindi l’anima non la possiede affatto ma essa invece le proviene da fuori cioè da Dio («ab alio»).
Per il resto egli concepisce l’anima in una maniera piuttosto usuale per la metafisica antica (sia cristiana che pagana), e cioè come una sostanza provvista di materia e forma; e, come tale, caratterizzata da un certo grado di stabilità a sua volta in relazione alla sua capacità di sussistere da sola («subsistenza») ed inoltre di subire solo a livello materiale la mutevolezza dell’essere. Questa è quella che in qualche modo costituisce la tendenziale spiritualità dell’anima e quest’ultima sta poi fortemente in relazione con la sua individualità (che non dipende invece affatto dalla materia, o corporeità, anche se la presuppone). Naturalmente questi caratteri stanno in relazione con il carattere tipico dell’immortalità dell’anima. E l’intero insieme, come giustamente sottolinea Gilson, fa di quella bonaventuriana una visione ben degna di comparire nel contesto del tipico personalismo cristiano.
Abbastanza significativa è comunque è la differenza tra Bonaventura e Tommaso nel concepire l’anima come «forma corporis». Questo perché per il primo essa è già insieme di forma e materia, mentre per il secondo è unicamente una forma che trova la propria materia (da formare) unicamente nel corpo. Ne consegue che, almeno secondo Gilson, l’anima è una sostanza (e dunque è qualcosa di onticamente superiore) solo per Bonaventura, ma non lo sarebbe per Tommaso. Questa però ci sembra una conclusione abbastanza discutibile, dato che (notoriamente) per Tommaso l’anima è comunque la sostanza che impregna di sé l’intera Natura, ossia è il fondamento insieme metafisico e vitale di quest’ultima.
Altro rilevante aspetto della metafisica bonaventuriana è per Gilson quello legato all’intelletto, nel contesto del quale si ritrovano poi (ancor più che a proposito dell’anima) tutti gli elementi della teoria della conoscenza: − sensi, immaginazione, ragione etc. Eccoci dunque chiaramente di fronte ad una trattazione metafisica della Natura dal punto di vista teoretico-conoscitivo. Gilson ritiene comunque la teoria dell’intelletto uno degli aspetti più tipici e rilevanti della metafisica cristiana (insieme all’esemplarismo) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 317-318]. E tuttavia va detto che questa metafisica è stata sempre commista ad elementi che oggi rientrano nella fisiologia del sistemo nervoso e della mente, e che invece allora rientrava nello studio delle facoltà dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 318-326].
Il più elementare di questi elementi è quello dei sensi, a quel tempo posti a loro volta in rapporto con relative facoltà o funzioni dell’anima. Qui il discorso di Gilson si fa abbastanza complesso perché tocca la domanda circa l’identità o meno di tali facoltà con la sostanza animica. E a tale riguardo le opinioni furono troppe per poter venire ri-discusse in questa sede. Ciò che conta è però che Bonaventura ritenne (secondo la tradizione agostiniana) che le facoltà animiche fossero appena degli accidenti, che quindi andrebbero sempre ridotti alla vera sostanza ad essi sottostante, che è solo l’anima. Tali facoltà o funzioni sono principalmente memoria, intelligenza (o intelletto) e volontà. Si tratta insomma delle facoltà dell’anima razionale (legate propriamente al conoscere). Quelle invece dell’anima vegetativa e sensitiva (vegetare, muovere, sentire) sono di ordine decisamente secondario ed inferiore (in quanto legate alla funzione basica del sentire), e quindi per Bonaventura devono interessarci meno. Sono esse infatti quelle che restano legate strettamente ad un organo corporeo (quello che oggi conosciamo come organo di senso), mentre le funzioni superiori non lo sono affatto. In ogni caso questi due livelli funzionali (conoscere, legato al pensiero) e sentire (legato al corpo) sono entrambi in grado di cogliere le famose “specie sensibili” che esistono nella materia degli oggetti.
A causa di questo (ossia in relazione al livello ontologico delle specie sensibili che possono cogliere) i sensi vanno per Bonaventura ordinati gerarchicamente secondo un valore decrescente: − vista, tatto, gusto, udito, olfatto.
Ma per lui non raggiungiamo il livello più rilevante delle funzioni animiche se non ci soffermiamo sull’intelletto. Qui Gilson sviluppa una discussione sulla relazione tra intelletto agente ed intelletto possibile che ancora una volta vede opinioni molto diverse che non possono venire qui riportate [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II, p. 336-343]. E ricordiamo al proposito che Dietrich von Freiberg (ispiratore ed amico di Eckhart) fu uno dei protagonistici di questa dottrina [Dietrich von Freiberg, Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980]. Va detto quindi soltanto che Bonaventura prese in considerazione questi due aspetti dell’intelletto non tanto come diversi e gerarchicamente ordinati, quanto piuttosto come coordinati tra loro in modo tale che l’intelletto agente di fatto fornisce all’intelletto possibile il potere di agire e non solo invece di patire. Dal punto di vista metafisico il tema è comunque rilevante perché implica la determinazione del luogo in cui l’essere umano riceve l’”illuminazione intellettuale” da parte di Dio; in modo tale da poterlo poi conoscere ed inoltre anche conoscere le ordinarie verità. E comunque Bonaventura esclude qualunque illuminazione diretta dell’anima da parte di Dio, dato che essa porrebbe in continuità i due termini. Cosa per lui inammissibile. Il che ancora una volta ci permette di cogliere la grande distanza che lo divide della dottrina onto-intellettualista (pensatori tradizionalisti) della conoscenza di Dio – entro la quale tale conoscenza è pienamente possibile fino alle sue estreme conseguenze, dato che Dio ed uomo sono essenzialmente entrambi sostanze intellettuali. Oltre a ciò egli (mantenendosi nella scia della tradizione agostiniana) ritiene l’anima attiva quanto lo è lo stesso intelletto possibile una volta che abbia ricevuto potere dall’intelletto agente.
È su questo registro che continua la discussione da parte di Gilson delle varie prese di posizione dei filosofi del tempo (sulla quale però non ci soffermeremo). Interessante è comunque la dottrina di Bonaventura riguardo all’azione dell’intelletto rispetto agli oggetti. In tale contesto alcuni filosofi del tempo (risalendo quasi direttamente a Platone) ritengono la conoscenza “innata”, e non “acquisita”, perché essa ha come proprio oggetto le idee degli oggetti (a quel tempo menzionati come “principi primi” o anche “universali”) e invece non gli oggetti sensibili e reali in carne ed ossa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II p. 342-351].
E qui ci troviamo di nuovo direttamente al cospetto di Malebranche. Ma il Bonaventura pienamente aristotelico (e quindi pragmatico scienziato della Natura e studioso di fisiologia) non è affatto di questa opinione allorquando la conoscenza riguarda effettivamente il mondo esteriore. In questo caso infatti gli sembra assolutamente ridicola una conoscenza puramente ideale degli oggetti, e ritiene quindi strettamente necessario l’intervento dei sensi (sia pure rappresentanti l’intelletto possibile) che estraggono le specie sensibili dagli oggetti esistenti. Solo che questa è per lui una conoscenza solo confusa e generica del mondo di cose, e non certo invece la conoscenza della loro essenza – con la quale sconfiniamo invece decisamente nel mondo dell’’intelligibile. Egli ammette però che senz’altro innato è lo strumento necessario per questa complessiva conoscenza, ossia l’intelletto. Naturalmente, di converso, per lui non è assolutamente per la via sensibile che è possibile conoscere gli intelligibili, ossia i principi primi. Per essi egli invoca pertanto una conoscenza per nulla sensibile e tutta invece meditante e pensante (dunque esclusivamente interiore), ossia una conoscenza che si avvale per essa unicamente delle idee. E qui egli converge nuovamente con Malebranche ed in gran parte anche con Platone. Tale conoscenza è quindi per lui giocoforza innata. In altre parole noi possediamo già fin dalla nascita dentro di noi le idee delle cose, ed esse quindi non ci provengono (come pensarono pensatori come Tommaso e Locke) affatto dai sensi e quindi dagli oggetti. Tuttavia esse agiscono comunque nel contesto della conoscenza sensibile. Infatti, laddove si conosce sensibilmente un oggetto corporeo, esso (per mezzo dell’intervento della relativa idea innata) viene sollevato dall’opacità che affetta sempre la conoscenza sensibile ed acquista così la chiarezza luminosa dell’intelligibile. Il che avviene per mezzo di un’”immagine” dell’oggetto da noi costruita interiormente sulla base della sollecitazione sensibile. Questa immagine richiede però l’idea per poter insorgere. In tal modo veniamo a conoscere l’essenza della cosa, sia pure in modo mediato. Diversamente stanno le cose invece per gli enti incorporei che vengono colti da noi immediatamente come intelligibili (quindi in assenza di qualunque immagine).
E tra questi Bonaventura menziona soprattutto l’anima e Dio. È esattamente per questa via che riemerge quindi il tema cruciale della conoscenza di Dio in quanto idea presente nella nostra mente in maniera giocoforza innata (dato che non ci proviene dal mondo sensibile). E (come abbiamo già visto) in questa sede Bonaventura sviluppa la conoscenza di Dio lungo la falsariga della dottrina agostiniana, ossia in relazione alle facoltà conoscitivo-animiche (intellettuali) superiori di memoria, volontà ed amore. E naturalmente è implicata qui di nuovo l’autoconoscenza – l’uomo ama Dio al quale è simile (nella stessa struttura della propria mente, che è trinitaria), in quanto, ricordandosi di sé stesso e volendo naturalmente amarsi, finisce per amare anche il Dio che soggiorna in lui in quanto idea innata.
Il discorso di Gilson sulla dottrina teoretico-conoscitiva di Bonaventura continua poi nuovamente toccando aspetti fisiologici della funzione gnoseologica dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, III p. 352-361]. Anche da questo discorso estrarremo solo ciò che più direttamente ci interessa. Qui si delinea infatti una “ragione superiore” che coglie sempre oggetti superiori anche quando è rivolta ad oggetti inferiori, e quindi di fatto in tutto riconosce Dio. La “ragione inferiore” resta invece legata si soli oggetti inferiori. Ed in relazione a questo tutte le facoltà dell’anima possono quindi venire distinte considerando una conoscenza degli oggetti indiretta ed imperfetta in quanto totalmente riflessa (“per speculum”) oppure diretta (“in speculum”) in quanto riconosce nello specchio gli oggetti così come sono nella loro integralità. Ecco di nuovo la conoscenza degli oggetti intelligibili. Su questa base poi Bonaventura finisce per differenziare due sovrapposti livelli intellettuali superiori al livello dei sensi: − lo spirito (“spiritus”) e la mente (“mens”).
Il primo (spirito) sarà ragione (“ratio”) se conosce “per speculum”, e invece intelletto (“intellectus”) se conosce “in speculum”. Il secondo (mente) sarà intelligenza (“intelligentia”) se conosce “per speculum”, e invece “apex mentis” o “synderesis” se conosce “in speculum”.
Ecco insomma qui descritta di fatto la differenza esistente tra la Ragione e l’Intelletto. Laddove entrambe le facoltà rientrano nello Spirito, ma l’Intelletto sicuramente ne rappresenta di più le straordinarie capacità conoscitive. Inoltre, nel contesto della mente (superiore di per sé allo spirito), si lascia riconoscere una sorta di apice conoscitivo che appare essere anche più potente dell’intelletto ed inoltre è anche il momento più alto della conoscenza. Esso certamente è il livello conoscitivo che si associa all’unione mistica. E si potrebbe pensare che esso rappresenta l’intelletto nella sua capacità di penetrare i misteri divini. Gilson però non commenta affatto questa realtà della mente.
Altro interessante spunto è rappresentato dallo studio della relazione tra “essenza” e “verità”; tema che è di tipo puramente teoretico-conoscitivo, e quindi per nulla religioso. Secondo Gilson, Bonaventura aveva postulato che la conoscenza di una verità presuppone sempre la verità di un essere. Ma intanto un essere che venga posto entro un puro atto di pensiero costituisce per davvero un’essenza (e quindi pone anche un’esistenza). Mentre ciò non avviene quando l’essere appena si presenta ad un pensiero già formatosi e sussistente.
In questo ultimo caso il pensiero, nel cogliere l’essenza dell’essere, si limita a cogliere solo la verità. E quindi l’atto di riconoscimento di un’essenza prelude al coglimento di una verità, la quale a sua volta non sussiste senza un relativo essere. Del resto però se noi concepiamo appena una pura essenza, non vi sarà alcun contenuto da conoscere, e quindi è come se non avessimo pensato alcunché. E questo caso estremo ci mostra come sia sempre necessaria un’”adequazione” dell’intelletto al proprio oggetto. Cosa che nel pensiero di allora veniva indicato come la verità stessa.
I due momenti gnoseologici sono quindi profondamente coordinati tra loro. La verità esige l’essere e la sua “concezione” in un pensiero davvero puro. Ovvero, altrimenti detto, essa esige l’immutabilità dell’oggetto conosciuto e l’infallibilità della conoscenza. Le eventuali deficienze di questi aspetti generano comunque le condizioni stesse per l’incertezza, che affliggono ordinariamente qualunque tipo di ragionamento, tanto filosofico che scientifico.
Ed ecco dunque che in Bonaventura la dimensione teoretico-conoscitiva viene integrata da quella conoscitivo-religiosa (ossia di fatto la FR). Infatti inizia a delinearsi l’assoluta necessità della conoscenza delle “ragioni eterne”, che nell’uomo può avvenire solo e soltanto con il soccorso di Dio. Con questo atto divino soltanto inizia a delinearsi presso l’uomo la possibilità della “certezza”, della quale in assenza di Dio non è nemmeno il caso di parlare. E tuttavia qui le cose si fanno abbastanza difficili. Perché, come dice Gilson, la principale certezza che l’uomo vorrebbe è quella di Dio – del quale però non ci è negata solo la visione, ma anche l’integrale conoscenza. E si badi bene che Dio è anche il “principio primo” e quindi il massimo della certezza conoscitiva ordinaria. Tuttavia le ragioni eterne divine intervengono unicamente nell’offrirci quella certezza della verità che altrimenti non potremmo mai avere. E questo genera quella “scienza perfetta” che, come dice Gilson, “si compirà solo in Dio”. Ed ecco anche descritto il fenomeno dell’illuminazione intellettuale dell’uomo da parte di Dio.
Ebbene tutto questo diviene in Bonaventura attuale e perfino ordinario in un’autentica e piena FR, e precisamente nel senso che “l’uomo non può conoscere alcuna verità senza Dio” anche se non potrà mai vederlo. La FR ha allora anche un versante pragmaticamente teoretico-conoscitivo – essa è infatti quella filosofia che, a causa nel suo mancato sottrarsi all’illuminazione divina (che le viene dalle Scritture, a loro volta sede di supreme verità, oltre a venirle anche ordinariamente per pura ed amorosa verità divina), si rende capace di una certezza della quale è perfino ridicolo parlare nella restante filosofia ed ancor più nella scienza. Questa può essere quindi considerata l’idea bonaventuriana della stessa filosofia pura. Come possiamo però facilmente constatare il fenomeno dell’illuminazione divina, sebbene colpisca esattamente l’intelletto, non conferisce all’uomo alcuna capacità conoscitiva straordinaria, e quindi non lo mette affatto nelle condizioni per conoscere Dio penetrandone completamente la natura. Questo fenomeno non genera quindi affatto quella CIAD che abbiamo visto presupposta dai moderni pensatori tradizionalisti. Esso invece riguarda appena l’ordinaria conoscenza delle verità filosofiche, e quindi ha una portata unicamente teoretico-conoscitiva. Se dunque l’illuminazione divina viene accettata solo dall’autentica FR (e non invece dall’ordinaria filosofia laica e secolare di cui ci parla Habermas), essa non pone però affatto le condizioni basilari per quest’ultima. Ma semmai rende quest’ultima appena capace di ammettere umilmente che la pura e ordinaria filosofia da sola, priva com’è del soccorso divino, non è in grado di conoscere nemmeno le più ordinarie verità.
E di tutto questo bisogna tenere strettamente conto. Perché la definizione bonaventuriana di FR che ne scaturisce è decisamente riduttiva.
Conclusioni.
In questo articolo abbiamo esaminato in particolare il pensiero di Bonaventura sulla base dell’esposizione e discussione che ne fa Gilson. Abbiamo invece parlato solo marginalmente di Habermas e di Malebranche.
Ed abbiamo visto emergere nel pensatore medievale non solo i tratti della più autentica FR ma anche altri aspetti del suo pensiero che sono o meno collegati con quest’ultima: − la relazione tra Ragione e Fede, la conoscenza di Dio e precisamente della sua esistenza, la dottrina delle idee da lui applicata alla conoscenza di Dio, la sua metafisica, ed infine (nel contesto di quest’ultima) la sua concezione di anima ed intelletto, oltre ad una serie di importanti correlati teoretico-conoscitivi connessi con questi ultimi due aspetti.
Ebbene cosa tutto questo può avere a che fare con Habermas e Malebranche – i quali di trovano su una lunghezza d’onda filosofica completamente differente?
Rispetto al primo la risposta è semplice ed è stata da noi anche già data – Bonaventura contraddice frontalmente l’idea che la filosofia, per essere tale, non possa e non debba essere religiosa. Anzi egli sostiene l’esatto contrario (perfino in base agli ultimi aspetti puramente teoretico-conoscitivi che abbiamo esaminato) – per lui di fatto non vi è alcuna filosofia in assenza della dimensione religiosa del pensiero, ossia senza chiamare in causa Dio (e la sua Rivelazione) addirittura nella conoscenza delle ordinarie verità filosofiche e scientifiche. Per il resto Habermas sostiene inoltre una dottrina della relazione di Ragione e Fede che non fa altro che pretendere di confondere tra di loro questi due atti, facendo così sparire tra di essi qualunque differenza. Bonaventura invece afferma che la Ragione al massimo grado è la Fede stessa, e quindi comporta la piena accettazione dell’esistenza di Dio e l’accoglimento della sua illuminazione. Quanto alla metafisica (specie se religiosa), per Habermas di essa non si dovrebbe più nemmeno parlare (così come di concetti come quello di anima).
Ma veniamo ora a Malebranche. Abbiamo visto più volte che il pensatore francese ambì a costruire anche lui una sorta di non poco ambiziosa FR. Essa infatti ambiva a spaziare senza alcun limite tra la conoscenza degli oggetti sensibili e quella dei massimi oggetti intelligibili, tra i quali ovviamente Dio. Tuttavia egli non si sognò nemmeno di considerare come supreme verità quelle contemplate nella Rivelazione, e quindi non ritenne assolutamente possibile considerare il filosofare come un atto di pensiero che parta da esse per poi ritornarvi in forma di verità ormai illuminate direttamente da Dio e così rese assolutamente certe.
Per lui, infatti, le verità della religione non erano altro che le stesse della filosofia pura, e quindi erano subordinate a quest’ultima senza avere alcuna relazione con la Rivelazione. Conseguentemente gli oggetti del suo filosofare volevano essere gli oggetti sensibili stessi, sebbene una volta elevati dal pensiero ad intelligibili. E la presenza ed azione di Dio in questo vennero da lui viste come l’intervento di null’altro che della stessa Ragione umana, ma elevata al suo massimo grado, cioè ricondotta alla sua natura divina. Laddove invece Malebranche si appaia almeno parzialmente al pensiero di Bonaventura è nel porre il valore primario di un intelligibile pieno come l’idea di Dio. Essa fu però per lui il più alto paradigma di una conoscenza che ignorava completamente le cose sensibili (e non ne riceveva assolutamente l’influsso) per conoscere unicamente attraverso le relative idee, ossia unicamente entro la dimensione interiore del pensiero. Abbiamo visto invece che Bonaventura ammette pienamente l’azione delle cose esteriori sull’anima conoscente (ossia sulla mente) − per mezzo dei sensi ed anche perfino il loro trasformarsi in idee. Soltanto che considera la conoscenza di queste ultime (ossia degli intelligibili) come quella di grado più alto – e come tale includente anche la conoscenza di Dio.
In altre parole il confronto con Bonaventura offre la possibilità di riconoscere nella metafisica razionalista del XVII secolo qualcosa che davvero con grande sforzo può venire definita come una FR. E peraltro non senza rischiare di sbagliare.
Ma infine cosa si può dire del complessivo modo in cui Bonaventura concepì quest’ultima, e soprattutto quale ne fu secondo lui la portata? E qui non troveremo alcun corrispettivo né in Habermas né in Malebranche, bensì semmai nei pensatori tradizionalisti che abbiamo più volte finora citato, definendoli come esponenti di un «onto-intellettualismo» che sta in relazione estremamente diretta con il pensiero di Platone e con il successivo platonismo e neoplatonismo.
Abbiamo visto che il nostro pensatore considerò pienamente possibile la conoscenza di Dio, sebbene unicamente come esistenza e non come essenza. Egli giunse anche a toccare l’idea di un intelletto che possiede la massima potenza conoscitiva. Quindi, anche in Bonaventura, si sarebbe potuto vedere in esso il protagonista assoluto e possente di questa conoscenza. Eppure egli non si occupa del ruolo dell’intelletto nella conoscenza di Dio, come hanno fatto invece pensatori come Schuon, Bérard e Vallin.
Infatti anche quando parla dell’illuminazione divina, egli la intende come qualcosa che l’uomo sempre riceve, e mai invece come qualcosa che esso costruisce e raggiunge per mezzo del proprio intelletto. Quest’ultimo anzi è per Bonaventura impotente almeno quanto lo è anche la Ragione stessa. Ne risulta dunque che la definizione bonaventuriana di FR non include l’uso dell’intelletto per un’integrale conoscenza di Dio, o anche conoscenza intellettuale di Dio (CIAD). Inoltre nelle ultime battute della sezione dedicata al suo pensiero abbiamo anche visto che egli ci fornisce una definizione decisamente riduttiva di FR – un’attività conoscitiva che accoglie l’illuminazione divina unicamente per l’ordinaria conoscenza filosofica.
Ma questo significa anche che la superiorità da lui riconosciuta all’Intelletto rispetto alla Ragione non lo induce nemmeno a ritenere il primo come il protagonista di una conoscenza capace di penetrare le profondità dell’essere come invece la Ragione non può né sa fare. E con ciò ci riferiamo alle recenti ricerche e riflessioni di un pensatore come Wolfgang Smith, che peraltro trovano un certo loro corrispettivo anche in Schuon (capacità infallibilmente constatativa dell’Intelletto).
Bonaventura non rientra quindi in questo complessivo universo di pensiero, che del resto risente di condizioni e problematiche sostanzialmente moderne – come soprattutto la necessità di profonda critica (in nome della filosofia metafisica e specificamente della FR) all’egemonia sulla conoscenza che negli ultimi secoli è stata conquistata dalla scienza e che viene esercitata senza ormai alcuna opposizione. Non per nulla il nostro pensatore si occupa dell’Intelletto nel contesto di una pura teoria della conoscenza (interessata principalmente alla fisiologia di quest’ultima ancorché localizzata nell’anima) che peraltro risente unicamente di temi medievali (come ad esempio quello della relazione tra intelletto agente ed intelletto passivo).
Ora, a fronte di tutto ciò, possiamo ancora dire che Bonaventura rappresenta l’esponente di una corrente platonica del pensiero cristiano? Abbiamo già fornito diversi argomenti per la soluzione di tale questione, ma è evidente, intanto, che la risposta a questa domanda dipende dalla maniera in cui viene definita questa corrente di pensiero, insieme ai suoi modi ed ai suoi contenuti. Laddove in questo modo si potrebbe anche individuare in via di principio una definizione tipica di FR.
Sicuramente Bonaventura platonico lo è stato (come dice lo stesso Gilson) nell’attribuire (anche se indirettamente) il più grande valore alla dottrina delle idee di Platone, ed entrando per questo anche in polemica con Aristotele e Tommaso. E lo è stato anche (come abbiamo visto) per lo spontaneo collimare di alcune sue convinzioni con aspetti davvero centrali della visione del pensatore ateniese. Ma lo è stato solo per questo, dato che egli per altri versi contraddisse vivacemente Platone in molti aspetti della sua metafisica che collidevano con la dottrina cristiana.
In ogni caso non si può dire che Bonaventura sia stato un esponente della corrente platonica del pensiero cristiano se si intende quest’ultima come coincidente con la presa di posizione che abbiamo definito come «onto-intellettualismo». E per la precisione (come abbiamo già visto) questa include un’estremistica concezione della conoscenza di Dio (CIAD) ed anche un ruolo conoscitivo straordinario da attribuire in generale all’intelletto. Ebbene anche da questo punto di vista questa corrente platonica è stata solo moderna e non antica. Sebbene essa si rifaccia moto direttamente a molti aspetti dell’antico platonismo e neoplatonismo
Abbiamo visto poco fa perché questo è accaduto. Ma comunque è evidente che l’aspirazione a fondare un’autentica e piena FR non è stata l’intento primario di questo movimento di idee. Mentre lo è stata senz’altro per Bonaventura. Presso i pensatori moderni da noi considerati, la FR compare infatti solo di riflesso in una serie di prese di posizione che hanno soprattutto sostenuto la necessità di riattualizare pienamente la metafisica (dopo la sua letterale cacciata dall’ambito della conoscenza dopo Kant) ed inoltre di controbattere un razionalismo che era divenuto dominante dall’Illuminismo in poi.
Cosa della quale abbiamo poi il preciso riscontro anche in Habermas.
Ebbene questa serie di aspirazioni si è mantenuta nei limiti di un pensiero unicamente interessato ad essere tradizionalista in opposizione a qualunque modernismo (e quindi secolarismo); affermando così che la conoscenza degli oggetti intelligibili (specie dalla valenza metafisico-religiosa) era da considerare di nuovo degno e legittimo, e proprio in tale contesto prendendo ad attribuire all’Intelletto un valore alternativo rispetto a quello della Ragione. Un altro versante di questa serie di prese di posizioni inoltre ha ambito non solo a riammettere la metafisica nell’ambito della conoscenza ma anche ad impiegarla per cercare un nuovo paradigma scientifico-conoscitivo da applicare alla nuova Fisica (specie quantistica) come avanguardia della conoscenza di oggetti incorporei. Questo è stato il lavoro di pensatori di come Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023], ma anche di fisici veri e propri, come Heisemberg, nelle riflessioni filosofiche condotte a margine della scienza.
Evidentemente tutto questo non ha molto a che fare con la ricerca di una FR autentica, che ha però senz’altro fatto sentire il suo effetto non solo in Bonaventura, ma anche nei pensatori antichi che abbiamo menzionato nell’Introduzione come esponenti della corrente platonica del pensiero cristiano. E con ciò crediamo di avere risposto alla questione che avevamo posto nell’Introduzione: − molto probabilmente, dopo la paradigmatica definizione bonaventuriana di FR, non ce ne sono state più altre; e probabilmente non ci sono più nemmeno le condizioni per farla rinascere ancora.
Ecco allora che – grazie all’attribuzione a Bonaventura di quello che gli appartiene e quello che non gli appartiene – abbiamo isolato un campo di riflessione e di ricerca esclusivamente moderno che si è sempre mosso ai margini di un’autentica FR (ormai però divenuta una pura possibilità e non più una realtà) piuttosto che farne parte integrante. Naturalmente bisogna qui fare un’eccezione per pensatori apertamente religiosi (e la cui riflessioni riprese peraltro molti dei temi medievali trattati da Bonaventura) che hanno operato nel corso del XX secolo – Maritain, Edith Stein ed in generali tutti quelli che rientrarono nel fenomeno del grande revival religioso insorto in filosofia nel XX secolo (con grande partecipazione di pensatori spiritualisti e personalisti) [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/; Vincenzo Nuzzo, Moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione)]. La loro FR non era però più affatto diretta autentica come quella di Bonaventura; e questo sia per essersi appiattita su temi neo-tomisti (Maritain) sia per non aver mai rinunciato al razionalismo filosofico moderno (Stein) sia infine per il suo obbedire a criteri filosofico-metafisici molto specifici.
Nel complesso quindi possiamo concludere che Bonaventura non è certo stato estremista nella sua definizione della FR. Ma intanto ha ben isolato il tema entro la tradizione cristiana ed anche entro la filosofia in generale. E quindi ci ha fornito di essa una definizione paradigmatica ed anche estremamente forte, che forse non trova un corrispettivo neanche presso i pensatori antichi che rientrano nella stessa corrente di pensiero alla quale egli appartenne. Di certo, una volta posta a confronto con definizioni di FR ben più estremistiche (segnatamente quelle che hanno concepito una CIAD davvero integrale), quella di Bonaventura finisce per sbiadire e perfino divenire riduttiva. Sta di fatto però che, nel contesto della storia della filosofia, essa continua anche così a presentarsi a noi come paradigmatica e quindi ad avere un grande valore ed una grande originalità. Va ammesso però che tale valore può venire riconosciuto solo da coloro che intendono il filosofare come un’attività che non è affatto disgiunta dall’esperienza religiosa e quindi dalla più intensa fede.
Ma dobbiamo anche dire che guardandoci intorno non vediamo molti pensatori che siano interessati a questo genere di filosofia. Quest’ultima appare del resto piuttosto svincolata dalla dimensione accademica (o comunque scolastica) entro la quale la disciplina viene ordinariamente praticata. Ed appare piuttosto svincolata anche dall’ordinaria attività editoriale di quest’ultima. Infatti professare l’intendimento di filosofia come esperienza religiosa (specie se cristiana) non tende ad attirare molto interesse né nel mondo filosofico accademico né nel mondo editoriale. E nemmeno presso gli usuali lettori di filosofia.
Per tutti questi motivi chi oggi intendesse la filosofia come religiosa al modo di Bonaventura tenderebbe senz’altro a restare oscuro e privo della gratificazione di qualunque interesse e riconoscimento.
Ne risulta che questo genere di filosofia sembra fatto molto più per una «vita filosofica» vera e propria, ossia collimante con un filosofare che sappia e voglia essere in primo luogo esperienza individuale di vita e di crescita spirituale. Del resto noi stessi ci siamo poco a poco adattati ad intenderla proprio in tal modo.
E quindi con questo articolo noi non abbiamo affatto l’intenzione di partecipare ad un dibattito filosofico che misconosce totalmente l’intendimento della disciplina che può venire fatto risalire anche fino a Bonaventura. E per questa presa di posizione le idee di Habermas rappresentano un preciso e puntuale punto di riferimento; oltre naturalmente a quella presa di posizione (da noi definita come ricerca «scientifico-religiosa» che riflette su tutti i possibili concetti religiosi tranne che su quelli che compaiono nella Rivelazione.
Intendiamo invece soltanto sostenere – con l’appoggio di uno dei più grandi pensatori antichi che vi siano mai stati – che la FR è una forma di filosofia perfettamente possibile, praticabile ed anche legittima.
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