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Posts Tagged ‘meister eckhart e il buddhismo buddhismo scuola di Kyoto giappone zen teologia negativa apofatismo morte di dio nichilismo metafisica teologia secolarismo anticristo’

Il caso di Meister Eckhart è davvero emblematico dello stato attuale degli studi filosofico-religiosi. Uno stato che può venire definito almeno problematico, dato che entro tali studi vengono ormai sostenute le più bizzarre idee di religione e di esperienza religiosa. E questo fenomeno coinvolge tanto il moderno neo-nichilismo filosofico buddhista (del quale ho già parlato a proposito di Nishida Kitarō, in un post che comunque non era una lezione di filosofia) quanto anche il tenore fortemente immanentista e secolarista dell’attuale filosofia religiosa più in generale [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018].
Sono entrambi fenomeni abbastanza sconcertanti per l’uomo religioso, dato che in essi si accetta come evidenza il famoso fenomeno della «morte di Dio» mentre nello stesso tempo si dà per scontato che la secolarizzazione immanentizzante sarebbe ormai l’unico modo per vivere l’esperienza religiosa. E al di fuori di tali prospettive si tende a non voler vedere assolutamente altro. Secondo questi studi, insomma, l’esperienza religiosa dovrebbe oggi rassegnarsi a non essere più assolutamente quello che essa è stata fin dai primordii dell’umanità, e cioè rapporto della terra e dell’uomo con il cielo e con il Trascendente.
Nello stesso tempo, inoltre, sembra che si tenda a sostenere che, qualora non si ammetta questo, allora bisogna essere pronti a proclamare (coerentemente) la fine della religione. Infatti pare che la religione del Trascendente sia ormai divenuta insostenibile sul piano filosofico e teologico, a causa dei tremendi fatti storici che l’hanno sfidata e vinta ed a causa anche dello stato attuale delle conoscenze scientifiche.
Ed è davvero una strana presa di posizione, questa. È infatti un po’ come dire: − «Finiamo di uccidere ciò che è moribondo e poi non ci pensiamo più perché tanto di ciò che era vivo e vero noi ci costruiremo un feticcio»
Ebbene questa serie di prese di posizione ci ricorda molto da vicino quanto abbiamo visto commentando i “Dialoghi dell’Anticristo” di Solov’ëv (decima lezione). In altre parole (per quanto a qualcuno ciò possa apparire forse anche esagerato) sembra proprio che entro l’attuale filosofia religiosa parli una vera e propria voce demoniaca. Il cui scopo dichiarato appare essere infatti quello di allontanare per sempre l’uomo da Dio, una volta cancellata per sempre la dimensione trascendente di quest’ultimo. Ed inoltre viene proposto apertamente di sostituire l’adorazione di Dio con l’adorazione di un feticcio.
E si badi bene che ciò viene affermato da uomini che fregiano sé stessi del titolo di “teologo”.

Ma tant’é! Questo è quanto offrono oggi in generale gli studi filosofico-religiosi e si può trovare qualcosa di diverso solo in una nicchia molto ristretta. Quindi in qualche modo dobbiamo accontentarci di ciò che c’è. Bisogna però dire che fortunatamente esistono anche degli studi eckhartiani di tenore molto diverso, ed ai quali ci si può quindi riferire in una lettura del pensatore tedesco che sfugga al riduzionismo secolarista e nichilista [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014; Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014; Marco Vannini (a cura di), Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013; Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012].
In ogni caso, come oggetto di uno studio dell’attuale filosofia religiosa secolarista ed immanentista, mi sembrano particolarmente emblematici alcuni studi che sono stati condotti sulla prossimità tra Eckhart e il buddhismo zen professato in Giappone presso la scuola di Kyōto a partire dagli inizi del XX secolo.
Ne esaminerò a mo’ di esempio in particolare due [Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Raquel Bouso, “Action et contemplation: sur une lecture eckhartienne de Shizuteru Ueda”, Théologique, 20 (1-2) 2012, 313-339] Nel loro contesto viene esaltata al massimo la valenza secolarista, immanentista e nichilista del pensiero eckhartiano ed essa viene inoltre messa in relazione con una corrente di studi filosofico-teologici ermeneutici che è tutta occidentale (Schürmann, Caputo, Haas, Largier). E con quest’ultima siamo nel pieno di una teologia moderna, decisamente anti-metafisica, secondo la quale dovremmo ormai accontentarci della pura ed unilaterale immanenza mondana dell’esperienza religiosa.
Bene. Eckhart viene ricondotto da tali studi esattamente entro questa sfera di riflessione. Ma è proprio vero quanto sostengono i teorici di questa approssimazione? Insomma è proprio vero che Eckhart sia stato come questi studiosi ce lo presentano? Intanto gli studi alternativi che ho poc’anzi citato ci mostrano un quadro sensibilmente diverso. E quindi, a mio modesto avviso, la visione del pensatore renano fu tangibilmente diversa da come ci viene presentata nei due articoli che ora esamineremo. E le sue vere caratteristiche possono essere considerate le seguenti: – 1) decisamente fu un trascendentista anche se teorizzò l’umano-divinità in tutta la sua immanenza (come incontro di Dio nell’interiorità umana); 2) fu un sottile e sublime metafisico; 3) diede grande importanza alle opere di carità ma non pose mai il primato dell’azione sulla contemplazione né mai teorizzò una religiosità secolarista; 4) ebbe una concezione chiaramente apofatica di Dio (ponendo in evidenza la sua assoluta non determinazione e quindi relativa «negatività» ontologica), ma mai si sognò di porre una divinità così radicalmente negativa da giungere a considerarla un nulla, cioè una “vacuità”. Anzi a proposito di tale ultimo aspetto possiamo cogliere quello che è il nucleo più intimo del pensiero eckhartiano (almeno secondo gli Autori alternativi citati, specie secondo Vallin) – egli considerò Dio soprattutto alla stregua di un Intelletto in quanto purissima sostanza spirituale. E quindi ne pose chiaramente la «positività» ontologica, per quanto estremamente sottile, ossia tanto sottile quanto lo è l’Intelletto (sostanza «onto-intellettuale»). Egli insomma volle dire che Dio è un purissimo Spirito; e che quindi (nonostante la dinamicissima omni-presenza che lo reca a effondere continuamente verso il mondo) è quanto di più trascendente possa mai essere immaginato.
Bene. Chi tiene presente questi tratti fondamentali del pensiero eckhartiano non può che trovare assolutamente bizzarri (se non arbitrari, assurdi ed aberranti) i tratti che ad esso vengono invece attribuiti dagli studiosi della scuola di Kyōto e dai loro emuli occidentali. A me personalmente queste ultime sembrano le tipiche elucubrazioni da moderni e disinibiti pensatori, che appaiono venir prodotte al solo ed unico fine di farsi strada nel mondo accademico. Per cui molto spesso c’è una distanza incolmabile tra di esse e la realtà effettiva delle cose.
Ma vi è un ulteriore elemento che abbraccia tutti quelli esaminati finora – Eckhart fu senz’ombra di dubbio in primo luogo un platonico. Egli rientra infatti a pieno diritto entro l’ininterrotta linea di pensatori che prese origine dal Platone, passando poi per il neoplatonismo cristiano e spingendosi infine nel pieno del pensiero cristiano fino alla scuola di Cambridge R. [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, pp. 119-150; Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The Am. J. of Theology, 4 (2), 1900, 328-344].
Si tratta di ciò di cui ho trattato in alcune precedenti lezioni. Dunque, se è così, com’è possibile che il pensiero eckhartiano rientri in una prospettiva immanentista, anti-trascendentista, secolarista, mondanista, unilateralmente azionista, anti-contemplativa e pragmatista, anti-metafisica ed infine addirittura nichilista? Non vi è dubbio che il pensatore renano sia stato un grande protagonista della teologia metafisica apofatica e quindi teologico-negativa (insieme specialmente a Dionigi l’Areopagita e forse allo stesso Plotino), rientrando così in una tradizione di pensiero con la quale la Chiesa cristiana ufficiale ebbe sempre problemi.
Ma può bastare questo per fare di lui addirittura un nichilista ed anti-teista, cioè un teorico ante litteram della “morte di Dio”? Gli articoli che esaminerò mostrano che in realtà ciò è possibile solo se il suo pensiero viene coartato, forzato e stiracchiato ben oltre i suoi effettivi limiti. Ma intanto l’ago della bilancia (entro questa tale d’atto critica degli attuali studi eckhartiani) resta uno ed uno solo: − Eckhart fu un platonista., con tutto ciò che questo significa. E, se c’è qualcosa di certo ed inamovibile nel platonismo, questo è il suo trascendentismo [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276].
In ogni caso ricordo al lettore che oggi è abbastanza comune il tentativo di ricondurre sotto la sinistra ed imbarazzante ombra nietzschiana i pensatori antichi che hanno sostenuto l’apofatismo o teologia negativa (e che non a caso quasi sempre furono dei platonici). Basti pensare al tentativo fatto in tal senso da Yannaras con Dionigi l’Areopagita [Christos Yannaras, On the absence and unknowability of God. Heidegger and the Areopagite, T & T Clark International, London New York 2005].

Quindi è da tutto questo che bisogna partire.
In effetti gli studi di Mieth, Sturlese e Vannini testimoniano in abbondanza la dimensione platonica del pensiero eckhartiano, anche se non si esprimono esplicitamente su tale aspetto. A questo vanno intanto aggiunti altri studi di tenore non propriamente filosofico, i quali invece si esprimono chiaramente in tal senso (Vallin). Sarebbe però intanto troppo lungo soffermarsi su questi studi per porre in evidenza il platonismo eckhartiano in tutte le sue specifiche caratteristiche. Per questo rimando quindi ad un mio specifico articolo sul tema [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016].
Partiamo comunque da questo e cioè dal fatto che Eckhart può avere senz’altro esposto una visione molto originale, ma è intanto altamente improbabile che ciò sia avvenuto nel senso sostenuto dagli studiosi della sua approssimazione al buddhismo zen.
Vediamo quindi cosa hanno da dire questi ultimi.
Gli autori esaminati (Vianello e Bouso) sostengono in generale la grande somiglianza tra la riflessione eckhartiana e quella del Buddhismo zen nipponico (scuola di Kyōto), rappresentato da pensatori come Ueda Shizuteru, lo stesso Nishida Kitarō, ed infine Nishitani Keiji. Tuttavia entrambi prendono onestamente atto anche della differenza che esiste tra i due tipi di riflessione. Cionondimeno essi presentano un’immagine del pensiero eckhartiano che sorprende non poco il pensatore di impronta filosofico-religiosa trascendentista e platonica.
In ogni caso va fatto notare che Vianello ha fondato a Venezia il Centro Studi Maytreia (replica italiana della scuola di Kyōto), e la Bouso menziona inoltre Amador del Vega quale fondatore di una simile scuola di pensiero in Spagna.

Partiamo da Vianello. Molto in generale egli sostiene che Plotino ed Eckhart sono i protagonisti occidentali di una vera e propria trattazione del Nulla (Assoluto divino in quanto Nulla). Tuttavia egli precisa anche che in fondo nel caso dell’Oriente (Buddhismo) nemmeno si può davvero parlare di nichilismo. Perché quest’ultimo ammette comunque almeno una pregressa e tradizionale onto-metafisica, e quindi ammette sia pure relativamente una concezione «positiva» dell’essere, per quanto ormai archiviata. Pertanto, dato che in Oriente non vi è alcuna onto-metafisica, nel suo contesto la negazione dell’essere coincide con l’affermazione totale e radicale del solo Nulla. Al contrario quella di Plotino ed Eckhart è da considerare come una metafisica ed un’onto-metafisica. Sul piano religioso essa dovrebbe quindi venire definita come una “mistica del nulla”. Cionondimeno sembra che quest’ultima possa comunque configurare un nichilismo.
Lo studioso dice questo perché ci racconta quanto fu dedotto dal pensatore Ueda Shizuteru. Il quale negli anni ’60 si recò a Marburg (presso Ernst Benz) per studiare i rapporti tra Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico. La descrizione dei dettagli degli studi di Ueda è estremamente ricca, e quindi devo rinviare gli interessati all’articolo (che peraltro sono pronto ad inviare a chi me lo richieda). E lo stesso vale per l’articolo della Bouso. Intanto mi limiterò a commentarne gli aspetti più importanti del primo scritto, e sintetizzerò il più possibile alcuni temi in esso trattai.
Ueda sostiene che il Dio con il quale Eckhart prevede l’unione intima (specie per mezzo dell’auto-nientificazione della creatura umana, ossia la rinuncia al proprio Ego) è di fatto quello stesso Uno-Dio plotiniano che è talmente trascendente da essere radicalmente sovra-essenziale, e quindi è un “nulla di tutto” [Giovanni Reale, Plotino come «Erma bifronte», in: Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, p. I-LXXX]. Come venne effettivamente previsto da Plotino, per mezzo del concetto di “aphairesis” (Reale), questo Dio ultra-trascendente può venire raggiunto solo attraverso una progressiva spoliazione di qualunque determinazione ontologica, ossia per mezzo di un estremo atto di “purificazione”. Ora, è plausibile che Eckhart abbia tenuto presente tale dottrina plotiniana nel teorizzare un supremo divino che certamente non può venire concepito per mezzo del letterale “teismo” – che prevede un «dio» (ontico e personale) invece di una non definita “deità” (“Gottheit”). Tuttavia è assolutamente assurdo sostenere che per questa via il pensatore tedesco abbia in tal modo teorizzato (specie per mezzo dell’atto di immersione umana nel Nulla divino) un radicale passaggio dall’Essere al Nulla, in seguito al quale (prendendo il Dio-Nulla come prototipo di ogni ente) si è costretti poi ad affermare la sostanziale nullità di tutte le cose. Questo è quanto teorizzato senz’altro dal Buddhismo.
Tuttavia ciò non può in alcun modo essere quanto teorizzato invece da un pensatore cristiano, il quale non solo non rinnegò mai l’ontologicità di Dio (come nel concetto di Incarnazione, a sua volta connesso a quello di una presenza reale del Dio vivo nel mondo) ma addirittura la affermò con una decisione ed una coerenza che forse non trovano eguali in tutto il pensiero cristiano. In altre parole, pur teorizzando chiaramente la radicale sovra-essenzialità di Dio (con tutta la relativa «negatività» ontologica che spetta a un Dio Trascendente che si rispetti), egli prese più che mai sul serio il concetto di Incarnazione. Il suo concetto di “nascita divina” implica infatti proprio questo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Per Ueda invece (almeno così come ci viene presentato da Vianello), proprio in relazione a questo, il pensiero eckhartiano (per quanto viene ammesso come ancora in parte teistico) sarebbe addirittura equiparabile al radicale nichilismo buddhista, e cioè alle teorie del “no-self” o anātman (radicale negazione della sostanza in ogni sua forma, inclusa quella della persona umana). Insomma Eckhart sarebbe stato il protagonista di una dottrina del “vuoto” che oltrepassa perfino l’”ontologia” stessa – dato che porre il vuoto implica farlo in maniera davvero estrema.
E questo mi sembra totalmente ingiustificato. Certamente Eckhart si oppose all’enticismo tomista – specie affermando che Dio non è affatto “un filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart…cit. p. 49-59 ; ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79] −, ma lo fece solo perché nello stesso tempo affermò la totale «onto-intellettualità» dell’Essere che è autentico Fondamento dell’ente, ossia affermò la radicale «onto-spiritualità» dell’essere giustificato dall’esistenza divina (si veda per questo la ventunesima lezione che ho dedicato allo Spirito). Ma questa è ancora ontologia senza nemmeno l’ombra di un dubbio.
Bisogna comunque precisare che Vianello modera queste sue estreme affermazioni sostenendo che in Occidente (Eckhart e Plotino) venne sostenuta in primo luogo una “mistica del nulla”, e cioè una dottrina della vacuità che aveva il senso principale di sostenere il percorso di unione a Dio. Intanto però egli dice anche che questa stessa mistica rientra pienamente nella stessa “méontologia” (negazione di ogni ontologia) che fu sostenuta in Oriente. Inoltre l’Autore aggiunge che in Occidente prevalse intanto sempre un’onto-metafisica (metafisica dell’essere) che risaliva fino a Parmenide. Il che spiegherebbe perché la radicale affermazione del nulla da parte di Eckhart rientrò in quella sparuta tradizione che sempre generò “scandalo” presso i pensatori ed i teologi. Anche questo però non ha alcun senso sulla base delle precisazioni che ho fatto poc’anzi. È vero, infatti, che il pensiero eckhartiano fu sempre così ardito da suscitare imbarazzo e sospetto, ma non per i motivi addotti dal Vianello.
Meno giustificate ancora sono quindi le conclusioni che l’Autore trae (concludendo circa il pensiero di Ueda). Egli prende infatti atto del progressivo affermarsi in Occidente (almeno da Nietzsche in poi e con acme in Heidegger) di una sempre più decisa affermazione del “Nulla” in quanto Essere. E ritiene quindi Plotino ed Eckhart tra i maggiori anticipatori di questa presa di posizione tutta moderna. Peraltro egli dà totalmente per buone le considerazioni nietzschiano-heideggeriane circa la necessità di prendere atto di un nichilismo storico (a sua volta prodotto del fallimento di qualunque espressa ontologia, inclusa quella scientifico-empirica) che non dovrebbe venire né negato né ostacolato. Infatti solo accettandolo e perfino impersonandolo sarebbe possibile reagire alla distruzione della Tradizione causata dalla Modernità. E solo su questa base poi sarebbe secondo Vianello possibile riformulare una religione (e relativa teologia) che ormai prenda pienamente atto della necessità di vivere il divino esclusivamente nella dimensione immanente. Insomma, esattamente come teorizzato da Heidegger, bisognerebbe rassegnarsi a prendere atto del fatto che la manifestazione divina nell’immanente cancella in un solo colpo il Dio Trascendente e l’Essere trascendente stesso; impedendo così di continuare a considerarli come punto di riferimento dell’uomo nel corso della sua esperienza religiosa. Ne consegue quindi la necessità di cancellare ogni onto-metafisica tanto filosofica quanto religiosa.
Ed abbiamo visto commentando Nishida Kitarō che ciò significa in definitiva una sola cosa, e cioè neopaganesimo, ossia abbandono del Cristianesimo.
Tutto questo è comunque quanto viene affermato effettivamente dal Buddhismo zen (specie dal maestro Joshū) nel sostenere che l’esistenza evidente della “rosa” è pienamente sufficiente a manifestare l’esistenza di Dio senza che sia nemmeno necessario né parlarne (religiosamente) né invocare Dio stesso quale “senso” dell’ente. La rosa esiste insomma totalmente “senza perché”. Ed esattamente così essa va considerata come espressione del divino. Secondo il Vianello questa fu anche l’idea di Eckhart (come l’Autore giustifica prendendo a modello una poesia di Silesius, che effettivamente fu un poeta e pensatore di ispirazione eckhartiana). Si tratta insomma della dottrina dell’”ohne warum” in quanto ontologia priva di qualunque sostegno trascendente; specie il sostegno costituito da un ben definito Dio Personale che sia creatore ed anche ordinatore razionale del caos mondano. Ora, è vero senz’altro che il pensatore renano sviluppò una dottrina denominata in questo modo (”ohne warum” delle cose) – il cui intento era quello di sottolineare la necessità di riconnettere continuamente l’ente a quella sua Origine che sconfinava nel Nulla apofatico divino [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, I, 5 p. 63-73, II, 10 p. 99-101, III, 13-14 p. 123-131, IV, 17 p. 163-170, V, 23 p. 230-231; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 5-13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79 ; Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 47 (Q 47), p. 664-673, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 14-17 p. 71-74, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125, II, 142-149 p. 231-237].
E ciò avviene sostanzialmente perché secondo Eckhart Dio non «è» ma semmai sempre solo «diviene», cioè si riversa costantemente fuori di sé stesso (secondo il modello trinitario) configurando un dinamismo dell’essere nel quale l’Origine è costantemente connessa al mondo ed all’uomo.
Tuttavia per Vianello questa non sarebbe invece altro che la teorizzazione della “morte di Dio”. Anche se egli ammette intanto che in Eckhart ciò non implica affatto l’affermazione dell’inesistenza di Dio, ma semmai invece appena la rinuncia alla sua definizione (apofatismo, o concezione negativa del divino trascendente). In questo senso il pensatore renano avrebbe postulato chiaramente un Dio-Nulla (in quanto Origine delle cose, ossia «Principio»), così come Plotino avrebbe postulato un Uno-Nulla. Il Vianello precisa però che questo non giunse mai alla postulazione di uno “zero” assoluto in quanto Principio delle cose (come accade nel Buddhismo).
Peraltro a tutto ciò si aggiunge (in una maniera a prima vista coerente) la teorizzazione eckhartiana di un atto di auto-annientamento della creatura umana che permette a Dio di essere un Nulla in maniera esponenzialmente maggiore, ossia arretrando rispetto al mondo in modo che esso possa esistere a fronte della sua Onnipotenza ed Omnipresenza.
Insomma tutto ciò sembra estremamente coerente, e quindi si sarebbe portati a credere che Eckhart si sia fatto davvero sostenitore di una sorta di un nichilismo purissimamente metafisico per molti aspetti molto simile a quello buddhista (per quanto comunque per certi versi diverso). E peraltro il nucleo di questa visione consisterebbe esattamente nell’accettazione del concetto di “morte di Dio”.
Ma il problema sta a mio avviso nella possibile portata etica che tale concetto assume immediatamente non appena esso cessa di costituire una sofisticata e cervellotica metafisica intellettualistica. Allora esso diviene infatti letterale, e quindi assume nell’orecchio dell’ascoltatore esattamente il senso recondito che ha − «Dio era una mera invenzione, e quindi, una volta smascherato, è ormami svanito. Dio non c’è più! Anzi non c’è mai stato!». Bene – pur volendo ammettere anche tutte le possibili assonanze tra il pensiero di Eckhart e quello buddhista (ma solo molto alla lontana e vagamente) – è assolutamente impossibile che il concetto di “morte di Dio” ne sia stato addirittura in nucleo. E il motivo sta nuovamente nei paraggi della dottrina dell’Incarnazione divina così come condivisa ed affermata con forza dal pensatore renano. Egli non avrebbe mai potuto condividere un nichilismo metafisico che così seriamente minaccia il concetto di Incarnazione. Proprio lui affermò infatti che l’uomo realmente distaccato dal mondo (e quindi puro) è in grado addirittura di “comandare” a Dio ingiungendogli di manifestarsi e di venirgli in soccorso [Meister Eckhart, Predica 12 (Q 14), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart… cit., p. 171-181].
È evidente quindi che quelle del Vianello (e pertanto anche di Ueda) possono essere solo elucubrazioni personali, e peraltro pochissimo giustificate.

Ma veniamo ora all’articolo di Bouso.
Ebbene, questo studio è ancora più radicale del primo nel tentare di appaiare Eckhart (per mezzo dell’approssimazione al Buddhismo) a quella moderna teologia filosofica occidentale che sostiene una radicale secolarizzazione dell’esperienza religiosa incentrata nuovamente nel concetto di “morte di Dio” e quindi orientata a fondare addirittura una “religione senza religione” (ovviamente del tutto priva di metafisica). L’Autrice chiama peraltro in causa più direttamente gli interpreti occidentali dell’approssimazione Eckhart-Buddhismo che ho menzionato prima. In ogni caso il tema centrale dell’articolo è l’attribuzione al pensatore renano di una “teoria dell’azione” (del tutto simile a quella post-moderna), secondo la quale l’azione stessa sarebbe destinata a sostituire la contemplazione annientandola completamente. Si tratta insomma ancora una volta della sostituzione dell’immanente al Trascendente nel corso dell’esperienza religiosa e perfino della mistica. In particolare (come abbiamo visto a proposito della “rosa” di Joshū e di Silesius) il primato concesso alla sola azione diviene la giustificazione piena di una “vita senza perché”, ossia una vita spesa senza preoccuparsi minimamente del “senso”. E questo genere di vita avrebbe poi una valenza intensamente religiosa e perfino mistico-caritatevole. Costituirebbe insomma la stessa mistica pratica (incentrata nelle sole “opere”) della quale parlò Eckhart
Oltre a ciò (sulla base di tale concezione) la posizione di Eckhart viene notevolmente forzata e coartata nel tentare di ricondurla alla dottrina buddhista del distacco come pura azione pratica disinteressata e per questo anche compassionevole (sebbene affatto intenzionalmente); che è poi un’immanentizzazione e banalizzazione totale della vita contemplativa e religiosa. E questo è effettivamente quanto sostengono interpreti come John Caputo e Schürmann.
Inoltre viene qui sostenuto che l’apofatismo eckhartiano andrebbe ridotto unicamente ad una discesa verso il mondo (sullo sfondo dell’atto di auto-negazione dell’ego) quale fatale e triste conseguenza dell’incontro ascendente con un Dio deludentemente negativo e quindi rivelatosi del tutto vuoto.
In altre parole Eckhart avrebbe concepito la discesa verso il mondo nel mentre cancellava totalmente la Trascendenza divina.
Ma esaminiamo ora più da vicino alcune delle considerazioni della Bouso.
Innnanzitutto mi sembra piuttosto artificiosa la riconduzione di Eckhart e del Buddhismo alla tradizione di pensiero cristiana che avrebbe avvalorato la posizione di Marta a svantaggio di quella di Maria – così come esse emergono nei due episodi evangelici della visita di Gesù a Betania (Luca e Giovanni). L’Autrice fa peraltro una dettagliata storia delle varie interpretazioni dell’episodio che si sono succede dalla patristica greca e latina in poi, con l’attribuzione a Marta della “vita activa” ed a Maria della “vita contemplativa”. L’apprezzamento dei pensatori cristiani si sarebbe spostato progressivamente dalla seconda alla prima, e la Bouso menziona soprattutto Agostino come sostenitore del privilegio accordato alla sola vita contemplativa. Eckhart si porrebbe praticamente al termine di questo percorso, essendosi fatto deciso sostenitore della sola azione, e quindi di una mistica pratica incentrata sull’azione stessa.
Peraltro va notato che – nel mentre argomenta in questo senso − la Bouso ci lascia capire che, a rigor di logica, la passività di Maria incarna il “necessario” (quanto è davvero di valore) come invece l’azione di Marta non fa. Infatti Gesù rimprovera la seconda proprio per questo. E proprio questa precisazione rende non poco illogico e contraddittorio l’intero discorso, dato che esso in fondo punta proprio alla svalorizzazione della passività contemplativa di Maria. Pertanto l’episodio evangelico parla di fatto di per sé contro la teoria sostenuta dall’Autrice.
Tuttavia nemmeno questo basta perché il giudizio positivo di valore sull’azione appaierebbe il pensatore renano a quel Buddhismo zen (specie del maestro e patriarca Huineng), secondo il quale l’atto più banale e arbitrario possibile (tagliare una canna di bambù) esprimerebbe un’azione sacra che non solo svaluta la contemplazione ma addirittura la sostituisce nel mentre la incorpora in sé. E ciò ha peraltro a che fare con quella specifica radicale negazione zen della metafisica che si è sempre espressa nelle famose risposte senza senso a qualunque genere di domanda circa il senso e la causa delle cose. Siamo insomma nuovamente di fronte a quell’immanenza che non solo sostituisce la Trascendenza ma anche addirittura la supera in valore. Ed in tale immanenza (dell’unilaterale azione mondana) andrebbe vista la pienezza dell’esperienza religiosa così come sarebbe stata concepita da Eckhart in maniera estremamente somigliante agli insegnamenti della pratica zen.
Certamente viene ammesso che il discorso religioso è solo sottinteso nella dottrina zen, mentre invece è del tutto esplicito presso il pensatore renano. Ma comunque tale discorso porrebbe un Dio manifestato totalmente e definitivamente solo nel mondo. In tale maniera il mondo stesso sarebbe da considerare come ormai divenuto pienamente divino senza più alcun bisogno di un Trascendente divino che lo fondi e lo giustifichi come tale. In altre parole bisognerebbe ammettere che Dio ha trasfuso sé stesso totalmente nel mondo in modo da venirne ingoiato totalmente e svanire come presenza. Ecco insomma una rivalutazione del mondo (quale luogo di esperienza religiosa) da considerare definitiva e totale. Ed a questo sarebbe da ricondurre quel concetto eckhartiano di “nascita divina” che pertanto avrebbe un significato unicamente immanentistico e riduzionistico. Almeno sul piano religioso del pensiero eckhartiano tale riconduzione è quindi non meno astrusa, illogica e contraddittoria della complessiva riflessione su Marta e Maria.
In tutto questo consisterebbe comunque la “mistica pratica” postulata dal pensatore renano. Schürmann ha emblematicamente definito quest’ultima come “mistica intramondana”. Inoltre si tratta in generale di una “teologia umanistica” che avvalora il solo materiale nel mentre tende di equiparare la contemplazione con l’azione mondana. Sullo sfondo di tutto ciò vi è poi ovviamente la totale cancellazione di ogni metafisica. Il che (come ho detto commentando Vianello) è senz’altro vero per il Buddhismo. Ma non è vero in alcun modo per Eckhart.
La Bouso attribuisce inoltre al pensatore renano le stesse conseguenze nichilistiche della sua teologia negativa che abbiamo visto commentando il Vianello. Ma aggiunge a questo un ulteriore elemento di accostamento con il Buddhismo. Per lei infatti (sulla base degli studi della scuola di Kyōto) l’atto di auto-annientamento umano, quale premessa per l’unione a Dio, in definitiva altro non è se non l’unione con sé stesso da parte dell’uomo (tenendo conto della totale immanenza di Dio a causa del suo volontario traslarsi in interiore homine). E tale identificazione con sé stesso non è altro che il risultato al quale punta realmente la pratica buddhista della meditazione e dell’auto-consapevolezza come realizzazioni della «buddhità» in quanto umano-divinità. Si tratta insomma di un altro modo per cancellare totalmente la presenza divina in una prassi religiosa che avviene unicamente entro lo spazio dell’immanenza. Infatti a tale proposito l’insegnamento zen è molto categorico nel senso della sparizione totale di Dio dallo scenario: − «Se tu incontri il Buddha in te stesso, allora sei lui». Ancora una volta non può essere certamente questo ciò che Eckhart ha voluto dire nel teorizzare l’incontro interiore con Dio.
In ogni caso l’Autrice si sofferma ancora su questo nel tentare di darci una visione decisamente anti-contemplativa dell’atto umano di unione a Dio secondo il pensatore renano. Esso, infatti, sfuggirebbe totalmente al concetto metafisico di contemplazione come “theoria”, e cioè movimento filosofico e religioso (mistico) verso una Verità delle cose che risiede unicamente nel Trascendente. Tale atto punta di per sè unicamente al cielo, dimenticandosi così totalmente della terra. Ed in tal modo, afferma la Bouso, è stato in fondo sempre giustificato il controllo totale del mondo da parte dell’uomo. Cosa che poi comporta di fatto anche la negazione di tutto ciò che è «altro».
Ed invece Eckhart (solidalmente con il Buddhismo, specie secondo John Caputo) avrebbe sostenuto una contemplazione puramente attiva che può sussistere solo allorché (sfuggendo all’inconsistenza ed inconcludenza dell’atto ascensivo) nel tendere a Dio si tende a discendere e non invece ad ascendere. Precisamente è necessario volgersi al pratico, quotidiano e mondano nel contesto di un atto di amorevole relazione con le creature (nel Buddhismo la “compassione”) che però esige la totale accettazione del mondo (con tutto il suo tessuto di inesorabili leggi e relazioni causali ed umane). Ebbene, come può avere sostenuto questo un pensatore che concepì senza mezzi termini la totale identità tra dimensione sovrannaturale e naturale nel contesto della perfetta unità esistente tra Natura e Grazia? [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., I, 1 p. 25-37].
Peraltro secondo l’Autrice (solidalmente con Caputo) tale dottrina (buddhista, ma valida anche per Eckhart) costituisce anche un’”etica” (sebbene assolutamente non “normativa”, e quindi non convenzionale) della totale rinuncia al proprio desiderio sia nel perseguire beni e piaceri sia anche (e soprattutto) nel volere che le cose del mondo vadano nel modo da esso desiderato. Ed il nucleo di tale dottrina sta precisamente nell’auto-negazione da parte dell’Io della propria realtà di sostanza, e quindi anche realtà di soggetto “intenzionale” che sempre avanza verso il mondo delle naturali aspettative. Il contrario di tale atteggiamento, dice la Bouso, è la libertà come illimitata apertura, nel senso di accettazione incondizionata degli eventi e degli altri così come essi sono. E tutto ciò, oltre ad essere buddhista, equivarrebbe anche alla dottrina eckhartiana dell’auto-negazione di sé stesso da parte dell’Io umano.
È evidente che in questo modo – oltre a negare qualunque volontarismo attivo − viene radicalmente negata anche la possibilità che l’uomo faccia appello alla Misericordia divina nel corso delle vicende della propria esistenza. Ma pur volendo tralasciare tale aspetto, cosa mai c’entra tutta questa passività (rinunciataria, fatalista e nichilista) con il cristiano attivo sforzo sovrumano d’amore verso l’altro quale impegno e compito accettati e sopportati con lo stesso spirito che è di Cristo sulla Croce?
È perfino inutile dire che, se per davvero Eckhart avesse sostenuto ciò che gli attribuiscono gli studiosi buddhisti, per davvero (in tempi molto diversi da quelli di oggi) il processo che subì si sarebbe concluso con la condanna al rogo. Ciò che gli studiosi buddhisti vogliono attribuire al pensatore renano rischia di cancellare dalla sua visione una buona fetta di contenuti autenticamente cristiani. E questo non può essere assolutamente Eckhart.
Comunque su questa base l’Autrice giunge alla conclusione che Eckhart ed il Buddhismo zen nipponico avrebbero perseguito congiuntamente (sebbene da lontano nel tempo) un percorso che solo nell’estremo oggi è arrivato al suo compimento. Si tratta insomma delle stesse considerazioni generali fatte dal Vianello.
La dottrina è quella di una teologia filosofica planetaria (orientale e occidentale) che si concentra sulla modernità come “secolarizzazione”, caratterizzata a sua volta dalla “morte di Dio”. Il che implica poi quell’assenza di Dio (teismo e Dio Personale, entrambi surclassati dal Dio-Nulla) che permette di ri-valorizzare la sola vita attiva (unilaterale immanenza) come luogo di spiritualità. Per vivere religiosamente bisognerebbe insomma addirittura abbandonare il rapporto con il Trascendente. Eccoci, quindi, davanti al superamento della mistica (“non-mistica” secondo il concetto zen di “hishinpishugi”) in una “religione senza religione” − “…dans le monde moderne, la transcendance cède le pas à l’immanence”.
E tutto questo implica non più il distacco dal mondo ma semmai l’accettazione incondizionata del mondo, ossia esattamente quanto è stato sempre teorizzato dal Buddhismo.

Dopo aver visto tutto ciò, e dopo aver commentato alcuni aspetti più importanti delle argomentazioni dei due Autori, dobbiamo quindi constatare che tali studi eckhartiani centrati sul Buddhismo si differenziano moltissimo da quelli di natura diversa. Essi recano infatti ad un totale travisamento di Eckhart nel senso di una vera e propria inammissibile orientalizzazione e buddhistizzazione del suo pensiero.
Eclatante è ad esempio la già commentata teorizzazione di un incontro interiore umano con il solo sé stesso che addirittura sarebbe equivalente all’unione a Dio non solo nel Buddhismo ma anche presso il pensatore renano. Insomma così non solo si trascina forzosamente Eckhart dal lato nel nichilismo e dell’anti-teismo, ma addirittura lo si trascina dal lato dell’eresia anti-cristiana. Il che ha lo strano effetto di ottenere lo stesso risultato al quale puntarono i suoi detrattori intentandogli un processo per eresia la cui giustificazione non fu altra se non quella del suo intenso quanto indigeribile platonismo onto-intellettualista.
Con tutto questo non voglio affatto dire che non sia lecito accostare il pensiero eckhartiano ad una vasta serie di dottrine orientali. Questo è stato sostenuto anche da altri Autori − sebbene non con gli intenti riduzionistici di Vianello e Bouso – ed è senz’altro pienamente opinabile ed accettabile [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., V, 23 p. 223-234]. È stato insomma ampiamente riconosciuto che il pensiero di Eckhart si presta a venire collocato in un contesto fortemente “interculturale”.
Tuttavia è anche assolutamente inopinabile ed inaccettabile che Eckhart sia stato un pensatore simil-buddhista o anche solo immanentista, secolarista, nichilista, anti-metafisico ed anti-contemplativo.
Non a caso il suo discorso è stato accostato da Mieth (per mezzo di Peirce) ad una modalità di pensiero che sfugge totalmente all’usuale logica mondana nel tentativo di rendere possibile cogliere il più sublime ed alto divino-trascendente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart… cit., Einl. p. 13-16, I, 1 p. 25-37, I, 4-5 p. 56-73, V, 23 p. 223-233].
In ogni caso è assolutamente impossibile accettare che egli sia stato un pensatore della “morte di Dio” nel senso nietzschiano-nichilistico ed inoltre anche buddhista (cioè a-religioso o addirittura anti-religioso).
Del resto sostenere questo può essere giustificato quanto si vuole sul piano puramente filosofico-teologico, ma non potrà mai esserlo invece sul piano etico-religioso e quindi anche etico-filosofico ed etico-metafisico.

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