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Archive for ottobre 2017

ABSTRACT.
Abbiamo appena ultimato un articolo con questo titolo, nel quale ci siamo sforzati di riflettere sul senso e valore che può avere il Leopardi inteso come filosofo, e precisamente nel contesto dell’oggettivo peso che oggi (nella filosofia e nella scienza) il «mondo» ha quale luogo incontestabile di esistenza, pensiero ed esperienza. Per la precisione abbiamo trattato questo tema per mezzo di un’indagine testuale condotta sostanzialmente sulle sue prose, e segnatamente per mezzo del volume che raccoglie le sue opere complete [Rolando Damiani (a cura di), Giacomo Leopardi. Prose, Voll. II, Mondadori, Milano 1996]. Avevamo del resto già trattato questo tema in precedenti articoli (tutti presentati su questo blog), dedicati al «mondo» come problema filosofico. Ma abbiamo fatto tutto ciò mostrando gli approcci alla questione che esistono a partire da punti di vista molto diversi tra loro (sostanzialmente da un lato quello del moderno iper-realismo filosofico-scientifico, e dall’altro lato quello metafisico-religioso platonico-gnostico). A questo complessivo tema abbiamo anche dedicato un saggio, dal titolo Il giudizio sul mondo. Un’etica della sventura [< https://cieloeterra.wordpress.com/2017/10/18/l-giudizio-sul-mondo-unetica-della-sventura/ >], che abbiamo altresì presentato in questo blog. Ebbene, proprio nel contesto della riflessione condotta in questo saggio, si manifestava a noi la presenza di Leopardi. Senza che però noi abbiamo potuto offrire spazio alla riflessione sulla sua visione. Per cui il presente articolo viene anche a sopperire a tale carenza, in obbedienza all’estrema rilevanza delle prese di posizione poetico-filosofiche del recanatese. Egli infatti aggiunge alla complessiva problematica filosofica del mondo una serie di elementi davvero di fondamentale importanza. Ma, nel caso specifico, il suo contributo alla questione non può essere colto ed apprezzato se non si risolve prima il problema della plausibilità effettiva della sua natura di «filosofo».
Pertanto proprio questa questione abbiamo cercato di risolvere preliminarmente nel nostro articolo, giungendo così in particolare alla conclusione che Leopardi fu incontestabilmente un filosofo. Ma egli lo fu comunque in maniera largamente divergente da quelli che sono i canoni per mezzo dei quali oggi il filosofare tende a venire definito.
Al suo tempo la differenziazione avvenne in particolare nei confronti del concetto illuminista e romantico di filosofia (laddove poi entrambe le visioni attribuivano il massimo valore alla Ragione). Ma ai nostri tempi la differenziazione avviene anche nei confronti sia dell’idealismo e del realismo nella loro forma più attuale, sia anche in relazione alla specifica visione filosofica esistenzialistico-nichilistica. Sta di fatto che comunque quest’ultima visione è proprio quella che pone il problema del «mondo» nella maniera in qualche modo più simile al modo in cui lo pone anche il Leopardi; ossia come un’evidenza alla quale non è in alcun modo possibile sfuggire. Meno che mai è possibile sfuggire ad esso per mezzo dei così pesanti condizionamenti che sul mondo sono sempre stati esercitati dalla presa di posizione idealistica.
In ogni caso l’elemento che è apparso caratterizzare più tipicamente l’idea leopardiana di «filosofia», si è rivelato essere quello della più vasta possibile erudizione letteraria. Elemento che poi porta con sé inevitabilmente anche la necessaria dimensione «poetica» che ha una siffatta filosofia; ossia la sua estrema prossimità alla creatività immaginifica come valore intellettuale. E ciò comporta necessariamente anche la non identificabilità della filosofia così intesa con la sola Ragione quale criterio determinante. L’intendimento della filosofia come erudizione letteraria comporta infine anche la totale giustificazione, nel contesto del lavoro filosofico, del ricorso a testi ed autori che invece di norma la filosofia moderna tende a considerare del tutto secondari. Di tale maniera, allora, il lavoro filosofico si avvale costantemente dell’apporto della Cultura umana nella sua interezza.
Il confronto con il problema della filosoficità dell’opera del Leopardi ci ha condotto comunque anche alle differenziazioni che è necessario fare nel contesto della stessa assimilabilità del suo pensiero a quello esistenzialista-nichilista.
E qui è emersa immediatamente la distinzione da fare tra la presa di posizione leopardiana verso il mondo, e quella che è invece la presa di posizione verso il mondo tipica del realismo esistenzialista. Essenziale per il poeta è infatti il giudizio etico-estetico da emettere sul mondo, giudizio che poi comporta inevitabilmente anche la severa condanna del mondo stesso quale disvalore. E questo esautora totalmente la neutralità del giudizio che invece il realismo filosofico (esistenzialista o meno) esige nel porre il mondo come un’evidenza assolutamente inoppugnabile. Nel contesto di tale presa di posizione va però ancora fatta la distinzione tra il realismo esistenzialista (che ammette comunque una certa deteriorità del mondo in quanto luogo di ineluttabile mortalità) ed il realismo invece filosofico-scientista che al contrario si disinteressa totalmente di tale aspetto (ritenendolo del tutto ininfluente ai fini del primario atto, che è rappresentato dal porre l’ineluttabile esistenza del mondo quale obbligatorio punto di riferimento di ogni pensare, sentire e agire umani).
In relazione a quest’ultima serie di aspetti – e nonostante l’esistenza di una messe abbondantissima di moderne interpretazioni, che vogliono vedere in Leopardi proprio un diretto antesignano del nichilismo europeo stesso –, abbiamo poi potuto costatare che è nei fatti impossibile ricondurre per davvero il pensiero del nostro a tale visione. Intanto però l’esame testuale aveva già suggerito molto direttamente che ben più plausibile è invece la necessità di ricondurre il pensiero leopardiano alla visione gnostica. E ciò segnatamente per il così grande peso che ha in esso il mondo stesso (come problema), e soprattutto il giudizio di condanna da esprimere su di esso. Pertanto abbiamo messo in risalto le evidenze che sussistono in letteratura anche per questo genere di interpretazione, sebbene in misura sensibilmente minore.
Una volta accertato tutto questo, si è però imposto il problema rappresentato dall’inspiegabile comparire in Leopardi di una dottrina gnostica solo riduttiva ed incompleta. Nei testi infatti essa si presenta soltanto nella sua parte più pessimistica e distruttiva, ma non invece nella sua parte più ottimistica e costruttiva. Intanto però era già emerso un nucleo filosofico-dottrinario ancora più profondo della visione leopardiana circa il mondo. Si tratta cioè del sostanziale amarissimo rimpianto del poeta per la perdita irreparabile di quel mondo dell’infanzia; il quale poi, una volta spogliato del velo rappresentato dalle solo effimere immagini poetiche che lo ricoprono (immagini appena illusorie e che quindi non salvano affatto questo mondo dal suo tramonto nell’età adulta e poi anche con la morte stessa), mette chiaramente allo scoperto l’elemento davvero più fondamentale della visione leopardiana. Quest’ultimo è cioè la nostalgia per una perfezione originaria del tutto sovrannaturale e trascendente. Ma il sussistere di quest’ultima deve comportare inevitabilmente anche la presenza dell’anelito a quella Fine che si raggiunge effettivamente (dopo la morte) per mezzo del ritorno di tutto l’essere al Principio. E con ciò vediamo di fatto ricostituita nella sua integrità l’intera dottrina gnostica.
A nostro avviso, dunque, il perché essa non compaia in tale forma completa nell’opera leopardiana, trova un accenno di una spiegazione nell’inevitabile religiosità tendenziale di quella sua visione del mondo (di stampo gnostico), la quale esige così tanto un giudizio di condanna, da dover poi escludere qualunque possibile scetticismo religioso.
Di quest’ultimo il Leopardi si fa indubbiamente interprete (nel contesto del suo così radicale pessimismo verso il mondo).
Ma a nostro avviso ciò avviene solo per il timore che una visione religiosa confessionale (e quindi necessariamente retorica) venisse a mitigare quel giudizio che per lui era indispensabile. È possibile dunque che proprio qui possa essere ritrovata la ragione per l’ipotetica rinuncia del poeta all’esposizione integrale di quella visione gnostica, che anch’essa indubbiamente (almeno in una certa misura) comporta lo stesso identico rischio comportato dal fideismo religioso confessionale.
Abbiamo però concluso dichiarando che per fare chiarezza su tali aspetti occorrerebbero studi testuali ben più approfonditi.

N.B.: L’autore sarà lieto di fornire (a chi gliene volesse fare richiesta scritta) una copia cartacea dell’articolo completo che costa di circa 15 cartelle Word.

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Abbiamo appena ultimato un articolo dedicato all’esplorazione della possibile prossimità esistente tra il pensiero di Léon Bloy e quello di Simone Weil. Ed in tale lavoro si sono poi delineate due ulteriori specifiche questioni; e cioè quella del valore da attribuire all’Ebraismo religioso e quella del posto che la dottrina gnostica (specie nella sua dimensione platonica) può assumere nelle due visioni congiunte.
Preliminarmente abbiamo però dovuto chiarire due aspetti prevalentemente filologico-filosofici.
Il primo aspetto consiste nella possibilità reale di attribuire a Bloy la natura e qualifica di «pensatore». Ed abbiamo pertanto esposto i motivi per i quali ciò ci sembra non solo possibile ma anche necessario.
Il secondo aspetto consiste nella mancanza (almeno per quanto a noi risulta) di prove documentali di un’effettiva relazione tra i due autori. Laddove poi una di tali prove potrebbe consistere nell’eventuale lettura delle opere di Bloy da parte di Simone Weil. Tuttavia, aldilà della stretta relazione che vi fu tra Bloy e l’amplissimo circolo di intellettuali cattolici che ruotò intorno ai coniugi Maritain, non ci sembra che vi siano altri indizi per una prossimità (anche solo indiretta) tra i due pensatori. A nostro avviso non resta pertanto altro che ritrovare tale prossimità (solo vagamente filologico-documentale) nel fatto che entrambi furono dei ferventi mistici.
In ogni caso la nostra indagine ha messo in luce le somiglianze, tra Bloy e Weil, che effettivamente possono essere ritrovate nell’analizzare i testi del primo; ricollegando poi così gli elementi in essi identificati con altrettanti relativi luoghi testuali e dottrinali del pensiero della seconda. Ci riferiamo comunque in particolare ad uno specifico testo dell’opera di Bloy, e cioè La salvezza dai giudei. Proprio questo testo pone in primo piano il tema dell’Ebraismo religioso; e che l’autore mette sul tappeto come una vera e propria “questione giudaica”. È immediatamente evidente il fatto che già solo questa definizione porta con sé rischi davvero molto grandi di avvalorare (se non impersonare) l’effettivo anti-semitismo che traspare innegabilmente nei testi dell’autore. Tuttavia ci siamo anche sforzati di mostrare come l’intento di fondo di Bloy – e cioè quello di additare nella spregevole antropologia etico-politica universale del Mercante e dell’Usuraio l’unico colpevole del prolungarsi infinito dell’Agonia di Cristo, ed in tal modo anche il solo colpevole dell’irrimediabile bruttura del mondo (specie quello moderno) – riscatti pienamente le specifiche forme retoriche con le quali il suo discorso si presenta a noi. In ogni caso è proprio in relazione a tutto questo che nei testi di Bloy emergono anche significativi appigli per sospettare in lui una presa di posizione fortemente gnostica. Anche quest’ultima fu infatti (ed in maniera molto simile a quanto sostenuto dal nostro autore) fortemente critica verso il Dio vetero-testamentario (da essa identificato come un vero e proprio maligno Demiurgo).
Tutta questa serie di elementi può poi essere ritrovata anche nel contesto del pensiero di Simone Weil – sebbene entro un discorso le cui forme sono spesso molto diverse. In ogni caso ciò che ci è sembrato approssimi più i due autori è il fatto che entrambi imperniano la propria concezione dell’Essere (e quindi del Mondo stesso) su una visione metafisico-religiosa e teologica al centro della quale sta proprio il fenomeno del rovinoso abbassamento volontario di Dio per mezzo dell’Incarnazione e della Croce. Ecco allora che il fenomeno dell’interminabile Agonia di Cristo (molto direttamente sottolineato da Bloy) si propone a noi come un modello per concepire l’Essere ed il Mondo partendo primariamente da un punto di vista valutativo e quindi davvero strenuamente etico. Si tratta insomma di un modello che non consente in alcun modo di ammettere sconti di pena a quel mondo immanente la cui essenza vuole essere espressamente deteriore. Ed è chiaro che si tratta molto più del mondo etico-civile (ossia quello umano) e molto meno invece del mondo immediatamente naturale.
Ebbene questo ci è sembrato essere il frutto più rilevante dell’indagine che abbiamo intrapreso. Il pensiero dei due autori congiunti si offre quindi a noi come un unico luogo di pensiero, nel quale noi possiamo ritrovare le ragioni davvero profonde per un vissuto del mondo che vuole essere estremamente disincantato senza però inclinare in alcun modo allo scetticismo religioso. L’invito che i due pensatori congiunti ci rivolgono è infatti radicalmente contrario a quest’ultimo.

PS.: L’autore sarà ben lieto di mettere a disposizione il testo completo dell’articolo (in forma cartacea) a chi gliene facesse richiesta scritta. Il testo completo consiste di 14 cartelle Word

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Abbiamo appena ultimato un saggio dedicato specificamente alla riflessione filosofico-metafisica sul mistero del dolore e della sventura. In particolare l’indagine si concentra sulla specifica tipologia umana che più intensamente ed apertamente manifesta esistenzialmente questo mistero nella propria stessa carne. Essa è infatti costituita da quel genere di uomini, la cui esistenza è così caratterizzata da eventi dolorosi e mal-venturati, che essi stessi devono giungere prima o poi alla consapevolezza dell’essere predestinati «per natura» a questo genere di eventi.
La nostra tesi è però che ciò che più conta in tale fenomenologia (e nel relativo percorso esistenziale) non è tanto l’arrendersi fatalista a tale costatazione, quanto invece piuttosto proprio l’approdo attivo alla superiore consapevolezza che da essa alla fine può scaturire. Consapevolezza che da un lato coglie l’essenza qualitativa della propria natura personale e dall’altro lato coglie anche l’essenza qualitativa dello specifico destino legato a tale natura. Laddove poi la dimensione qualitativa di tale essenza è sempre inquietantemente prossima allo stesso mistero del male. In entrambi i casi, pertanto, l’atto di conquista della consapevolezza costituisce di fatto l’atto di penetrazione (sempre molto difficile e doloroso) di un vero e proprio mistero. Atto che poi, nel corso della nostra indagine, si è rivelato tutt’uno con la prassi costituita dal platonico-delfico «conosci te stesso»; ossia un processo per mezzo del quale poco a poco si giunge a mettere allo scoperto quella che è una vera e propria identità occulta. Identità sulla quale però la maggior parte degli uomini manca di interrogarsi. È così che allora la serie di eventi che tocca a coloro la cui esistenza viene costantemente marchiata a fuoco dal dolore e della sventura, si rivela costituire in effetti una delle più efficaci vie per approdare alla risposa alla domanda circa il «chi sei?» di ognuno di noi. E dunque ciò mette allo scoperto una natura che non può non essere elettiva, ossia non può non differenziarsi da quella di un’altra, radicalmente diversa, categoria di uomini, e cioè coloro che nella loro esistenza sperimentano mediamente quasi solo felicità e buona ventura (o fortuna). Tale categoria di uomini finisce pertanto per rivelarsi da un lato «media», e dall’altro lato anche difettiva. La sua medietà stessa, dunque, va perfettamente di pari passo con la difettività.
Questa serie di evidenze lascia così venire allo scoperto in maniera piuttosto intuitiva la dimensione naturalmente «gnostica» della fenomenologia propria del dolore-sventura. Quindi tale dimensione non può che divenire sempre più evidente man mano che la riflessione sul tema si approfondisce. Ed infatti non a caso gli aspetti rivelatisi poco a poco come i più importanti della nostra indagine, rispetto a questa tematica, ci sembrano essere stati sostanzialmente due.
Il primo aspetto è stato rappresentato dall’illustrazione di una «casuistica» poetico-letteraria, filosofica e metafisico-religiosa nella quale è stato possibile prendere atto dell’effettivo sussistere dei termini della questione (così come finora illustrati) ed inoltre anche dell’effettivo sussistere delle differenziazioni antropologiche or ora menzionate.
Ma il secondo aspetto è stato invece l’esplicitazione e giustificazione della relativa questione nel contesto della riflessione filosofico-metafisica che di essa (più o meno direttamente) si occupa. È stato quindi principalmente con questo che la nostra indagine si è confrontata nella sua parte più rilevante. E così in tale contesto sono emersi due principali elementi filosofico-metafisici ed etico-filosofici: – 1) la questione del «mondo»; 2) la primarietà in valore del giudizio soggettivo sul mondo. Entrambi di per sé ancora una volta estremamente prossimi alla presa di posizione gnostica.
In ogni caso sia l’uno che l’altro elemento ci hanno portato a muoverci sul piano di quella moderna riflessione filosofica, che si è sviluppata nel corso dell’idealismo fenomenologico, a sua volta in relazione fortemente conflittuale con il sempre più prepotente realismo. Il primo infatti ha sempre posto un forte accento sul ruolo dirimente del soggetto in qualunque presa in considerazione del mondo, e così ha posto inevitabilmente l’accento anche su quella presa di posizione «valutativa» che è sempre esclusivamente soggettuale, e quindi intellettuale (nel senso dell’auto-consapevolezza).
In tal modo, dunque, questa visione filosofica ha sempre (più o meno direttamente ed intensamente) configurato una «filosofia dei valori». Il realismo filosofico, invece, spingendo fortemente verso un’accettazione del mondo assolutamente incondizionata, ha sempre sostenuto la posizione diametralmente opposta. E cioè quella posizione che, negando al soggetto qualunque primarietà ontologica (e conseguentemente anche qualunque valore dirimente), considera il mondo totalmente auto-giustificato proprio perché ad esso (quale Natura) non va attribuito alcun senso assiologico («valori»).
La nostra indagine ha dovuto quindi occuparsi molto direttamente di tale questione. E così è risultato costantemente evidente quanto lontano un siffatto realismo filosofico sia lontano da quella visione gnostica, che invece è indubbiamente idealista.
Proprio su questo sfondo è emerso pertanto il valore primario da attribuire alla presa di posizione filosofico-metafisica di tipo «idealista». E questo ha costituito poi la base per la discussione della parte più significativa della dottrina metafisico-religiosa del Fato, ossia quella contenuta nel Vedānta (da noi illustrato per mezzo della base testuale offertaci da Coomaraswamy). Anche tale complessiva dottrina (per l’accento da essa posto proprio sulla dimensione intellettuale del vivere) è risultata fortemente approssimabile a quella della Gnosi occidentale. Ed entrambe dunque (insieme alla parte dell’idealismo filosofico che è più interessata all’etica) appaiono offrire un decisivo supporto al valore da assegnare al giudizio soggettivo sul mondo; e ciò ovviamente nel contesto di una sostanziale visione pessimistica di quest’ultimo (altro aspetto molto caratteristico della Gnosi).
Per tutti questi motivi, dunque, la fenomenologia così squisitamente esistenziale dell’uomo connatalmente infelice e mal-venturato si lascia in definitiva riportare al vasto e profondo orizzonte filosofico-metafisico or ora illustrato. E ciò sottolinea ancora più fortemente il fatto che l’aspetto più pregevole dell’esperienza del dolore-sventura sta proprio nel processo di progressiva conquista di consapevolezza; che appunto trova il suo culmine nella presa di posizione soggettivo-assiologica verso il mondo. E tale presa di posizione (specie per mezzo del richiamo a pensatori come Jonas e Arendt) si è mostrata essere poi davvero importante in quel contesto moderno, nel quale la de-eticizzazione della cultura e dell’agire umani (massima proprio nel realismo filosofico oggi alleato con la scienza tecnologica) comporta ormai un’immensa minaccia per la sopravvivenza dell’uomo e della Terra stessa.
La nostra complessiva indagine quindi, ci sembra aver rivelato che la trattazione di un tema apparentemente appena intimistico sfocia in realtà molto naturalmente verso un orizzonte di pensiero del quale l’uomo moderno è chiamato a tenere ormai strettamente ed urgentemente conto.

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Un inquietante e mostruoso esercito di strani uomini ibridi, per metà scienziati e per metà filosofi, ha ormai invaso la conoscenza, ed in particolare la prassi stessa della teoria del conoscere e pensare, riportandola così alla realtà naturale quanto più elementare possibile, e cioè quella fisico-biologica: – il cervello!
Si tratta evidentemente di un nuovo ed estremamente virulento Positivismo. Esso poggia infatti su una teoria cognitiva la quale, di concerto con la più avanzata fisica matematico-cosmologica (teoria quantistica), ha raggiunto ormai un tale grado di perfezione e potenza, da permetterle di parlare dall’alto pulpito del livello proprio solo di una scienza tecnologica. Una scienza ormai in pieno possesso della Potenza. Essa infatti ormai crea cervelli, oltre che limitarsi a studiarli, ossia studia il proprio oggetto nel mentre lo lascia vivere dopo averlo fatto nascere dal nulla, ossia artificialmente. È ciò che oggi si definisce come “intelligenza artificiale”, ossia il nucleo di una robotica sempre più avanzata.
Nell’ormai lontano 1895, Hans Jonas [Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997] aveva già descritto tutto questo. E per tale motivo useremo proprio la sua analisi come base per commentare il fenomeno. In particolare egli aveva mostrato l’ormai intima ed inestricabile relazione che il “conoscere” scientifico intrattiene con il “fare” tecnologico, ossia con la produzione industriale [I, 1, 1-6 p. 7-19, IV p. 55-64]. Ed in tale contesto egli aveva fatto anche notare che ormai la nuova scienza tecnologica applicata alla biologia non si limitava più a studiare un ente «già dato» in Natura, ma invece lo generava del tutto ex novo per poi poterlo studiare davvero intimamente [VII p. 122-154].
Ma intanto non vi è dubbio che tutto ciò costituisce un estremamente moderno faustismo. Non a caso lo scienziato impegnato in questa prassi si muove e si esprime esattamente come un Titano nietzschiano, estasiato dalla sua stessa totale disinvoltura morale, ossia del suo totale ed entusiastico fregarsene totalmente dell’etica (a vantaggio della conoscenza pura, dice lui!). E costui non è altro che un Faust, cioè lo scienziato ormai liberatosi con immenso sollievo dagli ammuffiti gabinetti di studio e così anche dall’oppressione etica dell’ideale [Johann Wolfgang Goethe, Faust, Garzanti Milano 2004, I, 398 p. 35, I, 1828-1829 p. 133, I, 2038-2039 p. 147]. Così egli grida a sé stesso: – “Flieh! Auf ! hinaus ins weite Land!” (“Fuggi! Alzati” Fuori nel vasto mondo!”). Ed a lui farà poi eco Mefistofele stesso, invitandolo così ad intonare il peana stesso di una tale così elettrizzante esperienza: – “Laß alles Sinnen sein, und grad’ mit in die Welt hinein“ (“Lascia stare ogni pensiero, e vieni, immergiti con me nel pieno del Mondo”; “Grau, teurer Freund, ist alle Theorie und grün des Lebens goldner Baum” (“Grigia, caro amico, è ogni teoria, e verde invece è l’Albero dorato della Vita”). Costui si sente dunque approdato alla Vita, abbandonando così il puro Pensiero. Ma più precisamente si tratta di quella pienezza di vita che può venirci procurata solo dall’oramai totale rinuncia alla morale.
Conseguentemente costui si bèa proprio della sua immoralità. Infatti ne va incredibilmente fiero. E così letteralmente gode nell’ostentare quella ostentata vanagloria narcisistica, che va poi di pari passo con la potenza che egli intanto si sente passare per le mani e scorrere nelle vene. È un inebriato, è un Sileno in piena estasi. È un coribante dionisiaco.
E non a caso ha una sete insaziabile del sangue dei suoi nemici, ossia di chi gli si oppone nelle argomentazioni, e magari gli rivolge accuse ed ingiurie. Egli sa infatti di avere trovato la chiave stessa della gioia illimitata come immunità da qualunque onta. E questa chiave consiste esattamente nell’avere ormai da tempo oltrepassato la soglia del binomio bene-male. È questo ciò che lo rende del tutto immune dall’accusa di commettere il male, ed inoltre fa sì che l’accusa di infamia lo riempia addirittura di orgoglio. Dunque è esattamente a questo che sono ispirate tutte le sue azioni, reazioni ed esternazioni. Ecco che non a caso il suo aspetto spaventa alquanto i suoi interlocutori. Perché esso assomiglia molto a quello di un vero e proprio Satan. Ma la trappola da lui costantemente preparata è esattamente questa – egli vuole stupire e sorprendere proprio attraverso lo spavento! Egli è colui che tende trappole! (altro…)

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ABSTRACT.

In questa ricerca abbiamo cercato di esaminare il pensiero di Maurice Merleau-Ponty (MP) sullo sfondo dell’«iper-realismo» intanto sviluppatosi sulle ceneri non solo dell’idealismo fenomenologico husserliano ma anche dell’intero tradizionale idealismo filosofico moderno. Parliamo comunque di «iper-realismo» nel senso che esso non si identifica affatto con il tradizionale realismo filosofico. E ciò viene illustrato proprio da MP nel suo sforzo di elaborare una nuova ontologia che prescinda completamente da qualunque forma di «pensiero dell’essere» (sia quello idealista che quello realista). Al realismo tradizionale egli rimprovera infatti di aver concepito appena una singolarità ontica (ente), e non invece una vera Totalità di Essere immanente; ossia il Mondo stesso come unico contesto ontologico nel quale può e deve essere concepita l’esistenza di qualunque ente (pensante o meno). L’«iper-realismo» storico-dottrinario da noi in tal modo constatato ha assunto comunque la forma specifica di una visione filosofica, la cui aspirazione è quella di convergere ormai totalmente con l’usuale realismo che è stato sempre della scienza empirico-naturale. E proprio in tale contesto realistico (filosofico e scientifico insieme) abbiamo dovuto constatare la scomparsa di fatto dell’uomo quale autentico oggetto di indagine specie da parte della Filosofia. Scomparsa che poi è andate inevitabilmente di pari passo con la totale svalutazione di qualunque forma di giudizio soggettivo sul mondo. Cosa che ha poi portato con sé un notevole ridimensionamento della dimensione etica del pensiero filosofico.
Specificamente nel pensiero di MP ciò si manifesta con la totale inclusione dell’uomo (quale soggetto pensante) entro quell’orizzonte del mondo la cui sostanza viene considerata esclusivamente corporea e carnale. Un mondo che in tal modo appare totalmente auto-giustificato in partenza; e quindi sfugge ormai totalmente a qualunque giudizi etico. Proprio in questo senso ci è sembrato che la visione del pensatore costituisca una forma di esistenzialismo immanentista il quale resta poi fortemente in linea con le tendenze generali dell’«iper-realismo» da noi intanto constatato.
Ebbene, dopo aver analizzato testualmente gli aspetti del pensiero di MP che più ci sono sembrati giustificare l’attribuzione del suo pensiero a questa forma estremamente moderna di realismo, abbiamo utilizzato i dati raccolti per trarre conclusioni circa i limiti obiettivi che sono da riconoscere a tale visione. Limiti che ci sono sembrati in particolar modo etici. Dato che (in accordo con la radicale critica alla scienza che è stata svolta negli ultimi decenni da Hans Jonas e Hanna Arendt) una filosofia ormai completamente arresasi alla più moderna scienza empirico-naturale appare essere definitivamente impossibilitata ad esercitare su quest’ultima il ruolo di custode del valore degli autentici fini umani. Fini che non si riassumono affatto né nella conoscenza analitica esaustiva della Natura, né meno ancora nello sviluppo sempre più vertiginoso della tecnologia (sorretta dalla scienza). La convergenza di filosofia e scienza sul più recente «iper-realismo» ha però esattamente questo come proprio oggetto. Ed il settore di studi in cui ciò appare più evidente è quello relativo all’intelligenza artificiale e quindi alla robotica.
Nelle conclusioni abbiamo inoltre esaminato anche il valore delle argomentazioni anti-idealistiche di MP. Valore che è da ammettere incontestabilmente. E ciò dato che effettivamente l’idealismo filosofico ha sempre fin troppo mortificato la possibilità di concepire un autentico realismo; ossia di concepire un mondo esteriore ragionevolmente indipendente dalla coscienza. Tuttavia proprio in relazione a questo abbiamo dovuto rilevare che le giustificazioni di tale anti-idealismo si riducono notevolmente se la visione presa in considerazione è invece l’idealismo proprio della più radicale metafisica religiosa. Esso infatti non ha mai messo in forse la giustificazione di un mondo esteriore.

ATT: l’autore sarà ben lieto di mettere a disposizione (a chi gliene facesse richiesta scritta) una copia cartacea dell’articolo, che consta di 22 cartelle.

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Caro amico,
ho preso atto di tutto ciò che mi hai detto non solo con piacere, ma anche assumendolo come stimolo ad una mia certa auto-critica. Focalizzato infatti nella mia critica al classico empirismo scientifico, ho trascurato di prendere in considerazione i nuovi criteri mediante i quali una scienza del tutto nuova (ultra-particellare e non più meccanicistica) ormai definisce sé stessa.
E sì che avrei dovuto, dato che sono da un po’ entrato in contatto proprio con un gruppo di filosofi e scienziati americani (guidati dal cosmologo e filosofo Wolfgang Smith), i quali stanno tentando un’operazione di nuova riconciliazione della più estrema scienza fisico-cosmologica non solo con la filosofia ma anche addirittura con la metafisica religiosa.
Hai certamente colto nel segno intuendo che la mia posizione anti-scientifica nasce da quelle esperienze negative, al cospetto delle quali tu stesso (con grande generosità) hai parlato a favore di un certo ridimensionamento auto-critico dell’oggi fin troppo frequente fanatismo autarchico, auto-referenziale e dogmatico dello scienziato. È vero, mi sono scontrato con la scienza già negli anni in cui lavoravo (anche come ricercatore) alla Clinica Pediatrica di Napoli.
Ero cresciuto alla scuola di un grande teologo innovatore aversano (Prof. Vincenzo Romano), ora deceduto, dal quale avevo imparato dietro le apparenze dei fenomeni naturali ed inoltre un concetto alternativo di medicina (che mi aveva già portato all’omeopatia). Ma soprattutto fu subito disgustato dall’evidente tendenza a confondere l’arte medica con la conoscenza pura ed asettica. Mi feci ad esempio obiettore contro la pratica di fare biopsie epatiche (dolorose e pericolose) ai bambini solo per avere dati obiettivi in più nei lavori clinici. E ricordo che vivevo con angoscia lo svenamento a morte dei bambini alla ricerca non solo di una diagnosi impossibile, ma anche proprio per avere dati per le ricerche cliniche. Ricordo lo scherno sprezzante con il quale venivano accolte le mie idee. E tante altre cose. Poi sono venuti i miei scontri molto diretti con la medicina tradizionale in quanto omeopata; ed inoltre quelli dovuti all’opposizione del paradigma psico-somatico a quello meramente organicista nello studio delle patologie.

Tuttavia non si tratta affatto solo di questo. Infatti il nucleo della mia posizione anti-scientifica dipende molto più dal pensiero giudicante (valutativo e non puro) che non invece dalle esperienze (negative). Si tratta insomma in primo luogo del mio aver sposato una presa di posizione filosofica, e precisamente quella di una filosofia non pervertita dall’amplesso con la scienza. Ebbene questa presa di posizione esige espressamente l’evidenziazione di una deteriorità oggettiva della scienza in tutte le sue forme, anche quelle più estreme, avanzate, sofisticate, e quindi più lontane dal così rozzo paradigma tradizionale. Tutto questo però affatto per partito preso (e quindi per pura ideologia contrapposta ad un’altra ideologia), ma invece per i motivi oggettivi ben precisi che tra poco ti illustrerò. In ogni caso è di certo il fanatismo orgoglioso, sprezzante, autarchico ed intollerantemente libertario, della scienza (in quanto fattore di distruzione del mondo e soprattutto umiliazione dell’uomo), ciò che la vera filosofia ha oggi secondo me il dovere di combattere in campo aperto. Tuttavia non vi è dubbio circa il fatto che questa lotta deve essere in primo luogo cavalleresca, e quindi onesta e leale. Essa non può quindi in alcun modo sfuggire il confronto, laddove esso sia davvero possibile (ossia presso i migliori tra gli scienziati). E pertanto non può esimersi dall’obbligo di quella “gentilezza”, della quale molto giustamente tu parli. Del resto quando questi presupposti del confronto vengono accettati dallo scienziato (come accade nel tuo caso), allora di fatto non sussistono più le dis-virtù fanatiche di cui ho parlato prima. E così di fatto non esiste più quello scienziato invasato (di tipo fortemente titanico-nietzschiano) il quale, con malsano desiderio, cerca espressamente lo scontro ed il sangue.
Ebbene, quando tutto ciò svanisce dallo scenario, direi che le ragioni della lotta vengono decisamente a decadere. Mentre emergono invece chiaramente quelle di un confronto che può essere solo benvenuto. Infatti, per quanto si possa essere convinti delle proprie tesi, certo è che nessuno di noi può pretendere di possedere la verità, e quindi di non aver nulla da imparare dal proprio interlocutore. Ed allora è ben possibile che (come dice il mio amico Smith parafrasando Guénon) l’«era della quantità» sia ormai alla fine, e che pertanto fra non poco non vi saranno più ragioni di lotta (specie se cruenta) ma invece solo di confronto costruttivo. Può darsi insomma che filosofi e scienziati (veri, in quanto onesti e scrupolosi) stiano iniziando a intravvedere insieme il nuovo orizzonte conoscitivo universale che intanto si sta delineando. E vedrai tra poco che anche l’autore al quale mi riferisco intuisce una possibile prospettiva di questo genere.
Non si può negare però che filosofia e scienza naturale siano due ambiti di sapere che possono e debbono restare rigorosamente separati. Ed in questo senso sono totalmente d’accordo con chi afferma che la filosofia non può in alcun modo essere “scientifica”. La differenza tra i due ambiti non deve però affatto essere concepita (né da un lato né dall’altro) in termini di valore differenziale. E tuttavia l’esistenza di tale separazione è impossibile se la moderna scienza naturale non smette finalmente di proporsi come l’unico genere di conoscenza che oggi sia possibile, affidabile e credibile. Nel fare questo, essa deve però nuovamente concedere alla filosofia di essere l’unica forma di conoscenza che ha per davvero gli strumenti, il diritto ed anche l’autorità, per poter elaborare teorie realmente globali dell’essere. All’elaborazione di queste ultime, invece, la scienza naturale dovrebbe rinunciare del tutto. Ed i motivi di tale rinuncia ti risulteranno particolarmente evidenti in ciò che tra poco ti dirò. Infatti, per sua propria intima costituzione (e soprattutto per propria volontà), la moderna scienza naturale incorre inevitabilmente in difetti strutturali che sono così grandi e rilevanti, da doverle imporre (qualora essa ne divenga consapevole) un’umiltà auto-critica di non scarsa entità. E che dovrebbero quindi anche motivarla ad accettare (almeno per certi aspetti) nuovamente una certa subordinazione alla filosofia (specie se metafisico-religiosa). Subordinazione che però può essere solo benevola, sensata e costruttiva. Non invece di principio e fanatica, come è avvenuto in passato.

Ebbene, per motivarti meglio le ragioni di tutto questo, parafraserò alcune parti del libro di Hans Jonas (Tecnica, medicina ed etica); la cui tesi centrale è proprio che la moderna scienza va senz’altro giudicata (ed in parte condannata) in primo luogo a causa della sua inappropriatezza etica. (altro…)

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OSSERVATORE INQUIETO E NATURA INQUIETA. IL MODERNO RICERCATORE NARCISISTA.
Non ci ha mai colto il sospetto che l’immagine rivoluzionaria di Natura suggeritaci dalla nuova fisica cosmologica sia ben più voluta che non invece reale? Hans Jonas (Tecnica, medicina ed etica) testimonia che è proprio l’innovazione prodotta dallo strumento (tecnica) sempre più raffinato (allargamento del campo visivo sull’essere), ciò che stimola nella scienza (sapere) continue nuove idee e teorie circa l’essere. E queste ultime servono poi a loro volta la tecnica. Perché da esse nascono strumenti sempre più sofisticati e possenti. Ma queste nuove idee e teorie non servono forse anche l’ego del ricercatore, ed inoltre la giustificazione ad essere di istituti di ricerca sempre più finanziati ed estesi, con tutte le carriere che poi si in essi fioriscono e si moltiplicano? E questa non è forse in primo luogo una «sovra-struttura» (giustificata solo da sé stessa), più che invece una struttura oggettivamente giustificata (Marx)?
Il principio di indeterminazione di Heisemberg non ha forse statuito che l’oggetto di osservazione non va considerato più indipendente dalla presenza dell’osservatore? E dunque non potrebbe essere che un «osservatore inquieto» (il moderno conoscente) induca nell’essere la distorsione (puramente soggettiva) rappresentata da una Natura inquieta. E cioè quella sorta di iper-Natura che (come avviene oggi nella fisica sub-atomica) si moltiplica continuamente sotto i nostri occhi?
Ebbene, non è forse proprio questo il meccanismo centrale del cancro quale malattia del tempo?

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Il reiterato porsi di «Napoli» come un vero e proprio tema (di riflessione, dibattito e creazione artistica), e più specificamente molto spesso anche come «problema» (nel senso ancora più specifico di un problema che continua a porsi nonostante il Progresso dovrebbe aver reso impossibile tale fenomeno), fa sì che non ci si possa porre davanti a tutto questo senza interrogarsi in maniera davvero profonda [Proprio con il termine “problema” Raffaele La Capria, diversi anni orsono, definì Napoli in una nostra privata corrispondenza: – “Napoli non è una città, è un problema”]. Ebbene, mio modesto avviso è che ciò non è mai davvero avvenuto nella riflessione-dibattito intorno a Napoli che è di fatto iniziata nelle cronache storiche e di costume del XVII secolo, proseguendo poi addirittura nelle impressioni di viaggio di alcuni protagonisti stranieri del Gran Tour (tra i quali soprattutto Goethe). E naturalmente a ciò va aggiunto anche tutto quanto poi è stato prodotto autoctonamente. Ossia il bozzettismo pittorico-letterario autoctono del XIX secolo ed infine l’autentica riflessione-dibattito (prevalentemente politico-sociologica e storiografica) che è avvenuta nel corso del XX secolo ed oltre. Ciò che a mio avviso è mancato in questo contesto è infatti proprio una riflessione più metafisica e contemplativa sul fenomeno. Anche se di essa si può senz’altro trovare un prototipo proprio in Goethe – con inoltre alcuni riflessi in quella riflessione immaginifico-letteraria, che, da La Capria in poi, si è prolungata in alcune parti della più o meno recente narrativa [Annamaria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Rizzoli, Milano 1975; Antonella Cilento, Napoli. Sul mare luccica, Laterza, Roma-Bari 2006; Erri De Luca, Napòlide, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2006]. Direi però che solo in Goethe noi possiamo trovare gli accenti più autentici di una riflessione effettivamente metafisica. E ciò proprio perché essa ha teso non poco alla contemplatività.
È esattamente su questo registro che vorrei proporre al lettore le linee portanti di una siffatta riflessione. E per questo mi servirò come base testuale del saggio che elaborai anni orsono (con il titolo Napoli. Manuale per decifrazione dei Figli del Vulcano), che però mai è giunto alle stampe.
Il termine «decifrazione», che allora impiegai, punta infatti proprio al nucleo secondo me più profondo della relativa questione, e cioè la necessità di disporsi ad indagare (e così illuminare) quello che nei fatti costituisce un vero e proprio mistero. E tale mistero consiste in primo luogo nel fenomeno costituito dall’invariabilità di fatto delle forme concrete con le quali Napoli si presenta a tutti noi nel vissuto sia quotidiano che riflessivo. Tale invariabilità sfida poi molto direttamente in primo luogo le speranze che da sempre i migliori tra noi ripongono da sempre nel «cambiamento in meglio» di questa città e terra. Il che poi pone inevitabilmente lo spinoso problema costituito da quella tendenza retorica (che oggi subisce un’intensissima recrudescenza) [Una delle sue forme più eclatanti e plateali risiede nel cosiddetto movimento «neo-borbonico»] la quale – per principio, dogmaticamente e violentemente – si esprime contro qualunque tematizzazione ritenuta «pessimistica» (nel senso dell’auto-critica) della realtà partenopea. Ma sta di fatto che la soluzione di tale mistero è impossibile se non ci si interroga anche sull’essenza dell’oggetto al quale ci si trova di fronte, e cioè l’essenza stessa di Napoli nella forma specifica di «problema». E secondo me tale essenza trova la sua forma primaria molto più nella dimensione antropologico-culturale che non invece in quella politico-sociologica, civile ed economica. Questo significa pertanto che la mia analisi diverge sensibilmente da quella propria di certo «meridionalismo». Per quanto io non mi sogni nemmeno di porre in forse la qualità ed il valore delle relative riflessioni. Devo infine anche dire che la mia presa di posizione non è affatto preconcetta e di puro principio. Essa è invece maturata nel contesto di una vera e propria intensissima esperienza sul campo, e cioè l’opera che ho svolto per ben 35 anni come Pediatra di Famiglia in diversi quartieri periferici di Napoli. Qui è nata infatti in me l’intuizione che forse è esattamente in questi luoghi così estremi e tragici (autentico «retrobottega» negativo della città) che risiede l’essenza di Napoli come «problema».
E ciò mi sembra vero soprattutto perché è esattamente qui che va cercata, a mio avviso, anche la sostanza antropologica che letteralmente impregna di sé la problematicità della città. (altro…)

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