(*) Dottore di ricerca in filosofia presso la FLUL di Lisbona.
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Introduzione.
Nonostante le perplessità sospettose e critiche su Malebranche che avevamo espresso nei nostri ultimi scritti al riguardo e pubblicati anche su Academia Edu [Vincenzo Nuzzo, “Recensione: un’immagine critica di Malebranche come metafisico, filosofo, teologo e uomo religioso”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ > ; Vincenzo Nuzzo, “Definizione, legittimità e limiti di un’autentica filosofia religiosa. Bonaventura a confronto con Malebranche, Habermas e i pensatori tradizionalisti”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ >; Vincenzo Nuzzo, “La gnoseologia di Malebranche e il nuovo paradigma conoscitivo onto-metafisico nelle science empiriche (Wolfgang Smith)”, Il Corriere Metapolitico, 2024 (in via di pubblicazione)], la lettura Beatrice K. Rome dal titolo “The philosophy of Malebranche” (PM) [Beatrice K. Rome (a cura di), The Philosophy of Malebranche. A study of his integration of faith, reason and experimental observation, Henry Regnery Company, Chicago 1963] ci ha permesso di vedere il nostro pensatore sotto una luce molto diversa. In questa luce egli è apparso infatti come uno dei più originali e geniali filosofi del suo tempo (quello in cui dominò la metafisica razionalistica con vertice in Leibniz) e forse anche dell’intero pensiero umano. E vedremo poi che l’originalità filosofica di Malebranche consiste in particolare nella simultaneità in lui di un’epistemologia platonica (essenza) con un’onto-metafisica realista (esistenza) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIab p. 129-139]. Insomma Dio non è per lui affatto il puro intelligibile di Platone (anche se contiene le idee necessarie per conoscere) perché Egli è in primo luogo Essere. Pertanto Egli è la “Pura Ragione” (la fonte primaria dell’intelligibilità) soltanto nella misura in cui è il Dio-Essere per eccellenza. E cioè null’altro che quel “Colui che è” dell’Esodo biblico, a sua volta corrispondente all’”Io sono Colui che sono”, che non a caso i più forti pensatori cristiani (come ad esempio Agostino ed Eckhart) avevano posto al centro del loro pensiero.
In generale per il pensatore (così come per tutto il pensiero cristiano a differenza di Platone ed anche di Aristotele) l’Essere non può venire ridotto al Pensiero.
Ma l’originalità di Malebranche non consiste affatto solo in questo, dato che la sua visione è talmente eterogenea da finire per apparire in molti aspetti addirittura ambigua e contraddittoria.
E comunque essa è fortemente oscillante. Cosa che può venire considerata anche un demerito, ma intuitivamente ha molto più l’aspetto di un’originalità consistente nella mancata adesione del pensatore a rigide scuole di pensiero. E va detto che nel suo caso la scuola di pensiero primaria è quella della metafisica razionalista che ebbe come principali esponenti Cartesio e Leibniz. A causa di ciò dal pensiero di Malebranche c’è da imparare molto più di quanto sia prevedibile in base ai caratteri generali della metafisica razionalista.
Il grande merito dello studio di Rome è dunque proprio quello di mostrarci questa evidenza. Il che avviene poi nell’evidenziare gli elementi emergenti soprattutto dal confronto del pensatore prima di tutto con Cartesio ma anche con molti altri suoi interlocutori (diretti e indiretti), critici ed anche affini del suo tempo (tra i quali Church, Arnauld, Régis, Leibniz, Hobbes, Hume. Bacone, Berkeley, Spinoza). Sono molto utili anche i commenti su Malebranche che la studiosa riporta da Gilson (quale rappresentante del pensiero tomista). Non a caso, infatti, Malebranche si rivela in PM anche come uno dei più forti pensatori cristiani che abbiano mai operato in filosofia. E questo contraddice gran parte delle critiche che gli avevamo rivolto nella nostra precedente recensione. Queste nostre critiche negavano infatti al pensatore lo status di rappresentante di una metafisica davvero religiosa, per cui egli restava rappresentante di una metafisica razionalistica nella quale Dio aveva unicamente una valenza gnoseologica – ossia incarnava unicamente la suprema Ragione. Evidentemente quindi la sua metafisica non fu affatto solo razionalista ma ebbe anche aspetti intensamente religiosi. E quindi essa, a causa di ciò, si pone abbastanza al di fuori dei caratteri della complessiva scuola di pensiero alla quale egli appartenne entro la storia della filosofia.
Su questa complessiva base cercheremo ora di riassumere i contenuti e gli elementi di valore che caratterizzano il pensiero di Malebranche una volta osservato da un punto di visto come quello di Rome. Ma dobbiamo preliminarmente chiarire che (entro questa recensione) il nostro principale obiettivo di ricerca è lo stesso di quello degli studi che abbiamo condotto finora su Malenbranche, e cioè comprendere bene il suo inquadramento in quella metafisica razionalista del suo tempo che oggettivamente si presenta con i caratteri di una solo apparente metafisica religiosa.
1- Malebranche e Cartesio. I caratteri generali del pensiero di Malebranche e la sua epistemologia o teoria della conoscenza.
Uno dei principali meriti di Rome (PM) è quello di porre a confronto i due filosofi mostrandoci come tra di loro vi siano state grandi convergenze e grandi divergenze allo stesso tempo. E con ciò possiamo riconoscere anche alcuni tra i caratteri più generali del pensiero di Malebranche.
Peraltro il più rilevante di tali caratteri (nettamente distintivo rispetto a Cartesio) è che per lui Dio è la Ragione stessa ma non è invece affatto l’Idea (Pensiero), bensì è l’Essere per eccellenza.
Il che ha immediatamente un grande significato, dato che il pensiero di Malebranche si pone nel solco dell’ontologia più che non nel solco della gnoseologia. Con la conseguenza che la sua appartenenza alla metafisica religiosa appare molto meno intensa di quella di altri pensatori del tempo.
Tuttavia Rome ci mostra per questo anche alcuni ben precisi motivi filosofico-dottrinari che lo giustificano. Uno di questi, come abbiamo appena detto, è che la filosofia di Malebranche sembra a prima vista un’epistemologia (come quella di Cartesio), ma poi, a ben guardare, appare essere soprattutto un’ontologia. E quindi – più che rientrare nei limiti della metafisica razionalista − si presta a venire fruttuosamente confrontata con un serie di altre ontologie antiche e moderne. Anzi addirittura si presenta come un metro di paragone paradigmatico per tali ontologie.
E questo può venire considerato lo spunto più rilevante per la comprensione di Malebranche che lo studio di Rome ci consente. Il problema al proposito è anche che il pensatore oscilla fortemente tra l’idealismo (in parte cartesiano ed in parte platonico) ed il realismo, sfuggendo però all’identificazione con entrambi. E questo, come abbiamo già visto, è forse l’aspetto più stupefacente, creativo ed originale di tutto il suo pensiero. Addirittura infatti molte volte la sua dottrina sfiora l’idealismo estremista di Berkeley. Alla fine dei conti comunque si può e di deve dire che la filosofia di Malebranche è di fatto in primo luogo realista sebbene con forti punte di idealismo. È su questa base che la sua metafisica resta in concordanza con l’ontologia cristiana, a sua volta giustificante il riferimento obbligato al mondo creato come luogo di esperienza probante. Almeno in una certa misura si tratta insomma di una visione filosofica tendenzialmente idealistica alla quale però non ripugnano affatto le prove di realtà [[Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V-VI p. 305-316]. Il punto è tuttavia che Malebranche non si aspetta affatto queste prove dai sensi (percezione), bensì molto più dalle verità matematiche applicate ai fatti. E questo perché per lui (come anche per Cartesio) solo queste verità sono indubitabili in quanto auto-evidenti. È soprattutto in questo senso, dunque, che il suo pensiero rientra senz’altro nei limiti della metafisica razionalista del suo tempo.
Molto in generale, comunque, Malebranche si distingue da Cartesio soprattutto perché considera gnoseologicamente fallimentare per definizione la conoscenza dell’anima (introspezione, auto-conoscenza, conoscenza interiore, esame interiore) e dunque la conoscenza del “Sé” (come lo definisce Rome). E di questo parleremo in un paragrafo a parte dedicato solo a questo importantissimo tema filosofico-psicologico. Comunque, sempre in grandi linee e grossolanamente, Malebranche non appare essere affatto diverso da Cartesio (Rome afferma infatti che egli comincia dove l’altro finisce) a causa della grande relatività del suo scetticismo ed empirismo; relatività che riconduce poi all’altrettanto evidente idealismo di massima del suo pensiero [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. E ciò riguarda la critica all’intendimento dell’idea come pura rappresentazione, che a sua volta riguarda molto da vicino la critica del pensatore all’innatismo delle idee sostenuto da Cartesio. Cosa della quale parleremo nell’apposito paragrafo.
Quello che è inoppugnabile è comunque il fatto che Malebranche si differenzia fortemente sia dalla metafisica (esteriorista) di Aristotele che da quella (interiorista) di Cartesio a causa del suo forte non-concettualismo e quindi non-intellettualismo. E questo è un altro elemento di forte originalità del suo pensiero.
In ogni caso la differenza principale tra Cartesio e Malebranche (e quindi anche il nucleo stesso della filosofia di quest’ultimo) sembra stare (almeno sulla base dello studio di Rome) in un’epistemologia nel complesso dai caratteri molto specifici, e che soprattutto non si lascia separare da una franca ontologia.
Uno degli aspetti di tale epistemologia consiste in ogni caso nella differenza del ricorso di Malebranche alla matematica (specie alla geometria) ed ai suoi principi, a confronto con quello di Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, Iab p. 7-19]. Ciononostante però il suo ricorso alla matematica si basa sullo stesso metodo della “Mathesis Universalis” di Cartesio, ossia sull’aspirazione ad una razionalizzazione della conoscenza che segua le linee portanti di questa scienza. In tal modo Malebranche si aspettava l’insorgere di una conoscenza razionale totalmente interiore basata sull’intuizione di idee intelligibili delle cose (che in Cartesio sono però le idee innate ossia create), che i sensi però non forniscono affatto, essendo essi per natura confusi ed inaffidabili. Tale conoscenza consiste insomma in una razionalizzazione delle cose che è basata sull’applicazione ad esse dell’esatta proporzione o relazione matematica, entro la quale in verità non vengono conosciute le cose bensì soltanto le relazioni tra le cose. Ad esempio l’estensione sensibile (caratterizzata dalla differente grandezza delle cose) è in gran parte solo illusoria ed apparente proprio in quanto è fatta appena di cose separate e non invece di rigorose e certe proporzioni matematiche. L’esempio classico addotto a tale proposito è l’illusione di una differente grandezza del sole a seconda della sua distanza dal nostro punto di osservazione.
In altre parole, come Cartesio, Malebranche aspirava fortemente ad una purificazione razionale della conoscenza del mondo esteriore. Eppure la conoscenza illusoria (ossia delle apparenze) non era altro che la più usuale e intuitiva ontologia del pensiero umano, intesa come la visione di un mondo di cose per nulla ancora razionalizzato dal soggetto. Ne consegue che la vera conoscenza del mondo è per lui unicamente basata su esatte relazioni tra idee, ed affatto invece sulla percezione sensibile di cose esteriori. Solo queste relazioni sono infatti immutabili a differenza della relazione tra cose. In questo senso quindi egli non fu per nulla empirista.
Ma qual è esattamente, allora, la differenza di questa visione rispetto a quella di Cartesio?
Essa consiste sostanzialmente nei seguenti aspetti: − 1) nel considerare l’idea il vero oggetto della conoscenza; 2) nel forte incidere in essa di un certo empirismo e sperimentalismo baconiano (che modifica sensibilmente l’impiego della matematica e la dottrina della “Mathesis universalis” così come anche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza) ; 3) nel già commentato forte incidere in essa di una franca ontologia (che pone in primo piano l’esistenza invece dell’essenza); 4) nella dottrina dell’occasionalismo che considera Dio l’unica vera causa svalutando così le cause fisiche (unicamente occasionali e circostanziali).
Il primo punto non richiede commenti in quanto rappresenta senza alcun dubbio l’aspetto più idealista ed anti-empirista della dottrina di Malebranche. Ma riguardo a questo punto va detto comunque he Malebranche e Cartesio si distinguono per l’atteggiamento gnoseologico positivo del primo e negativo del secondo. Il nostro pensatore infatti non attribuì alcun valore fondamentale al dubbio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. Ma a ciò si aggiungono altre differenze tra i due pensatori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201] che convergono tutte nel fatto (fortemente sottolineato da Rome) che Cartesio fu un radicale filosofo dell’essenza (come anche Duns Scoto e Suarez) per il fatto di ritenerla il fondamento della determinazione e quindi capace di generare l’esistenza. Per questo il pensatore postulò (diversamente da Malebranche) l’assenza totale di necessità in Dio e nell’Essere, l’inerzia della materia-estensione e la totale secondarietà del movimento all’estensione stessa (di per sé inerte). Si trattava insomma dei tratti di un Essere che consisteva totalmente nell’essenza e non nell’esistenza, e che quindi veniva determinato dall’essenza stessa per cui non era affatto di per sé determinato (e quindi necessario).
Riguardo al secondo punto Rome [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, IIc p. 25-35] ritiene che per Malebranche la matematica fu una perfetta ed insuperabilmente esemplare scienza universale (quanto ad evidenza, certezza esattezza e rigore), ma comunque restava del tutto insufficiente da sola (senza esperienza, fatti e prove sperimentali, cioè scienze fisiche). Ciò in quanto puramente essa di per sé (ossia da sola) è puramente a priori, e quindi per definizione non è provata.
Per rendere più chiaro il processo, ritenuto necessario in alternativa, è utilissima l’immagine fornitaci da Rome – Malebranche riteneva che si dovesse rendere tangibile l’intelligibile per mezzo di linee tracciate su carta (e ciò costituiva per lui la geometria stessa) ma sempre tenendo in mente un’idea. La studiosa sottolinea anche che Cartesio abbandonò egli stesso nel tempo lo sperimentalismo al quale inizialmente aveva creduto. lasciandosi andare a d un radicale apriorismo. Quindi in questo senso Malebranche e Cartesio partirono da radici filosofiche comuni. Tuttavia va detto anche che (come precisa Rome) Bacone ritenne disdicevole per l’esperimento anche la minima dose di apriorismo, e cioè anche la minima dose di deduzione; in quanto essa anticipava il risultato e quindi finiva per compromettere un risultato dell’esperimento che doveva essere invece del tutto aperto. E bisogna dire che la scienza empirica si attenne da allora in poi (e fino ad oggi) proprio a questo, costituendo così una linea teoretico-conoscitiva che non sentì mai le esigenze alle quale poi Cartesio avrebbe dato corpo.
Fatto sta che, in conflitto con tutto ciò, Cartesio sviluppò il metodo dell’esame interiore, in forza del quale tutto si aspettava che sarebbe stato conoscibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, III p. 41-54].
Ma è evidente che questa presa di posizione è del tutto incompatibile con l’esteriorismo empirista al quale prestò invece fede Malebranche (nel non trascurare l’apporto di Bacone alla conoscenza). A causa di questo suo empirismo (che lo induceva a non perdere mai di vista la verità dei fatti dell’esperienza), il nostro pensatore ritenne che le idee fossero presenti naturalmente nella percezione e non fossero state invece mai create ed infuse da Dio nella mente umana [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II p. 55-58, II, IIb p. 60-63]. E per questo si oppose all’innatismo delle idee cartesiano assumendo così una posizione decisamente criticista che poi avrebbe trovato espressione prima nell’empirismo e poi in Kant. A causa di ciò egli non fu mai tanto scettico quanto lo fu invece Cartesio, e quindi conservò (sebbene nel sospetto metodico) una certa fiducia nei sensi.
In particolare ciò riconduce di nuovo (secondo Rome) Malebranche a Bacone, dato che quest’ultimo esigeva il ritorno discensivo obbligato ai sensi (nell’esperimento) dopo aver contemplato l’intelligibile ed universale. Il che comporta il vincolo dell’intelletto ai sensi.
E questa fu effettivamente anche la posizione di Malebranche. Per Rome ciò fu anche il contrario della tendenza di Cartesio (affatto condivisa da Malebranche) a considerare unicamente l’uomo come fonte della verità, togliendo quindi al mondo ed alla Natura questo carattere. Cosa che Malebranche non poté condividere proprio a causa della sua tendenza al realismo con il valore attribuito all’esistenza, all’essere ed al mondo esteriore. Pertanto tale realismo, anche se nato nel seno dell’idealismo cartesiano, stava già preparando l’empirismo che si sarebbe sviluppato nel XVIII secolo. Ciononostante non va dimenticato che restò comunque in Malebranche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza. Ma comunque (come abbiamo appena visto), Rome sottolinea a tale proposito anche l’importanza della messa alla prova della pura conoscenza (relativa a puri oggetti ideali) mediante l’esperienza e l’esperimento, e quindi in relazione alle cose concretamente esistenti. E con ciò esprime anche la sfiducia nei sensi che Malebranche indubbiamente nutrì, senza però cessare di considerare i sensi come fondamentali per la conoscenza. Nonostante questo la sua teoria della conoscenza fu abbastanza apriorista da ritenere che la vera scienza si occupa di pura conoscenza (leggi universali). Tuttavia va tenuto conto che questo lo pensava anche uno scienziato naturale come Newton. In ogni caso, nonostante tutto ciò, per Malebranche il vero oggetto di conoscenza restò comunque l’idea.
Riguardo al terzo punto (ontologia) va detto che esso è intrecciato anche con il terzo in quanto investe il causalismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : I, IIIa p. 42-44 ]. Infatti − negando totalmente ogni causa finale ed ammettendo solo cause efficienti – Cartesio aveva abolito ogni legame tra mondo attuale ed Origine divina, considerando pertanto il mondo come spiegato autonomamente.
Ed a ciò si aggiunge che egli ritenne le cose come “estensione” in quanto esse sarebbero tali fin dall’inizio in primo luogo per essenza (ossia primariamente), e non invece in forza della creazione (ossia secondariamente). Insomma, anche se create, esse dovevano essere necessariamente così (in forza di un oggettivo dover essere ideale), cioè così come erano state pensate e poste in essere da Dio originariamente. Oltre a ciò – differenziandosi fortemente da tale concezione (certamente molto idealistica) − Malebranche non negò mai l’esistenza degli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, Ib p. 60-63]. E quindi assunse anche in questo una posizione realista nonostante l’idealismo della sua principale dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza.
Vedremo ulteriori aspetti di questo carattere della visione di trattando specificamente della sua ontologia.
Riguardo al quarto punto spicca in Malebranche un razionalismo basato specificamente sull’idea di Dio come vera Causa e quindi sull’idea della più perfetta relazione possibile riconoscibile tra potere (causa) ed effetto [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. In particolare, dice Rome, questa dottrina si poneva in conflitto con l’idea di Hume secondo la quale la causalità sarebbe la meno chiara e distinta delle idee. Invece, secondo Malebranche, una volta ricollegata al Dio-Causa, essa sarebbe una delle idee più chiare e distinte che ci siano. E ciò perché esprimerebbe la connessione necessaria sussistente tra l’Essere infinitamente perfetto e gli effetti, a sua volta fondata nel potere divino e nella sua volontà ovvero nella sua onnipotenza (che può essere solo efficace). Si tratterebbe insomma della più perfetta connessione possibile tra potere ed effetto.
E tuttavia ciò avviene per Malebranche perché lui di Dio teneva presente in primo luogo la perfezione dell’Essere e solo dopo il potere, ossia l’attività. Ma tutto ciò ci riconnette con la sua visione della relazione tra essenza ed esistenza, entro la quale egli divergeva totalmente da Cartesio. Per lui infatti la nostra mente non ha alcuna idea chiara del potere e quindi dell’attitudine creativa di Dio, ossia dell’efficacia creativa (che poi altro non è se non la relazione tra essenza ed esistenza). Al massimo invece abbiamo un’idea sufficientemente chiara di Dio come Essere (il che richiama poi la primarietà ontologica dell’esistenza). E così al massimo possiamo comprendere il fatto che Dio pone in essere delle esistenze. Al di fuori di questo ambito non vi era per lui altro che un vuoto, inconsistente e massimamente insicuro intellettualismo astratto (ossia un essenzialismo). Che poi effettivamente non fu molto diverso entro la Scolastica e la visione di Cartesio.
Tale dottrina (nel suo complesso) è a sua volta connessa con l’occasionalismo di Malebranche, ossia la totale svalutazione delle cause “occasionali” e cioè fisiche, ordinarie e circostanziali, e quindi appena circostanziali; dunque l’unica forma di causalità che ordinariamente (naturalisticamente) si prende in considerazione.
E l’aspetto epistemologico di questa complessiva visione è l’idea di Dio come Colui che è in possesso dei più perfetti possibili principi di conoscenza (ossia di nuovo le verità matematiche), dai quali derivano poi gli altrettanto perfetti principi dell’essere, in modo tale che ne scaturisce la creazione di un mondo anch’esso altamente perfetto. Ed è evidente che qui viene allo scoperto anche in Malebranche una delle principali aspirazioni della metafisica razionalistica (con capostipite in Leibniz), ossia l’aspirazione a dare conto della perfezione incontestabile del mondo creato da Dio, che a sua volta riposa sui principi eterni e trascendenti della matematica.
Eppure si delinea comunque qui la grande lontananza di Malebranche dalla dottrina di Dio come Causa Sui che invece Cartesio sostenne a spada tratta [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : III, I p. 120-128; Ia p. 120-127]. E ciò accade perché Malebranche, diversamente da quest’ultimo, considerò tali idee trascendenti come separate dall’essenza divina, per quanto esse fossero comunque presenti in Dio. È comunque difficile dire se egli, come Platone, considerò le idee come davvero onticamente trascendenti rispetto a Dio. Non lo lascia credere l’altro fondamentale aspetto della sua epistemologia, e cioè la dottrina della conoscenza delle cose per mezzo della visione delle idee in Dio. Ma comunque fu per questa serie di motivi che egli considerò Dio primariamente esistenza e non invece essenza. Il che comporta che la Sua sostanza non poteva venire caratterizzata dal principio del Causa Sui. Infatti se Dio (come pensava Cartesio) è primariamente essenza, allora è di per sé (ad opera della propria essenza) causa della propria esistenza, esattamente così come (sempre ad opera della propria essenza) è causa dell’esistenza delle cose.
Come poi vedremo Rome chiarisce comunque che per Malebranche l’occasionalismo costituisce in un discorso sostanzialmente metafisico applicato alla Natura ed al piano creaturale, ossia alla Fisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. E comunque si tratta di una dottrina fortemente razionalistica che emerge quando il pensatore descrive Dio come unica vera Causa di ogni cosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168].
Intanto il pensatore ritenne responsabile della distorta dottrina della causalità soprattutto l’antica metafisica di tipo scolastico, anch’essa razionalista ma in tutt’altro senso) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. Vale la pena di approfondire il perché di tale divergenza così come analizzato da Rome. Ebbene Malebranche accusò la Scolastica di comportarsi come l’uomo ingenuo, scambiando così per vere cause solo quelle immediate (come entro una causalità nella quale il corpo responsabile dell’urto viene considerato la causa). Oltre a ciò però questa scuola di pensiero (entro la propria dottrina della percezione) scambiò per cose reali quelle che invece erano solo forme (ossia essenze, e quindi cose intelligibili). Si trattava delle qualità intelligibili che costituivano le proprietà degli oggetti. Ed esse quindi non esistevano per davvero ma si limitavano a venire conosciute. Pertanto Malebranche contestava alla Scolastica di aver elaborato unicamente una gnoseologia, mascherandola però da ontologia. E come tale la contestava radicalmente.
Chiaramente sbiadiva in tal modo nella Scolastica il concetto di Dio-Essere. E in tale contesto le forme-qualità (intese come cause) risultavano essere causa di sé stesse (causa sui) facendo in modo che sbiadisse anche il Dio-Causa.
Rome sottolinea pertanto che (p. 164), almeno rispetto alla causalità, ossia rispetto al concetto di Dio-Causa, Malebranche è in effetti ben più cristiano della Scolastica, che invece si rifece quasi integralmente ad Aristotele più che alla Rivelazione cristiana. Laddove questo pensatore aveva preteso di far passare per Fisica quella che era soltanto una metafisica estremamente intellettualistica (e quindi per questo tendenzialmente razionalista). Ma a tale proposito Malebranche prese posizione anche contro la metafisica post-scolastica e moderna di Suarez.
E qui in particolare (il pensatore si oppone ad una visione metafisica della Natura (incentrata sull’intelligibile) che trascura non solo la Fisica ma anche il concetto di Essere. Sebbene la Scolastica abbia illegittimamente assimilato alla cosa concreta questa entità metafisica.
Nella lettura di Rome l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega comunque ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (in sé perfetto) domina di gran lunga su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo è stato Lui ad originare il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre perché quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti esso nemmeno esisterebbe). Pertanto l’occasionalismo ci mostra che in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Questa dottrina è insomma (almeno in un cero senso) una sorta di panteismo incentrato nel concetto teologico di Incarnazione.
Ed inoltre Malebranche (p. 171) sottolinea (diversamente da Spinoza) che non vi è assolutamente nulla di necessario nella causalità divina − come avviene invece entro la rigida connessione tra causa ed effetti. E questo è vero per lui in termini teologici, cioè a causa dell’incondizionata libertà divina; in conformità alla quale non vi è alcuna connessione necessaria tra la volontà divina – cosa per cui dalla volontà divina non ci può assolutamente aspettare ciò che umanamente ci si immagina. In termini però più propriamente filosofici con ciò sconfiniamo così di nuovo nell’ambito della concezione della relazione tra essenza ed esistenza. E non solo, perché sconfiniamo anche nell’ambito dell’estrema razionalizzazione di Dio che era stata posta in atto entro tale relazione. Infatti la relazione causa-effetto contestata da Malebranche assimila di fatto l’essenza al volere divino, che si trasforma in tal modo in un a priori razionale (la Ragione divina quale principio costitutivo del mondo) dal quale dovrebbe essere possibile venire dedotto tutto ciò che riguarda l’esistente. Ma per il nostro pensatore non è affatto così, dato che Dio certamente vuole l’esistente (ossia lo pronuncia come Parola) sebbene il suo volere resti inconoscibile ed imperscrutabile.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino ad essere la sua vera e primaria causalità) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza. E così si distanzia decisamente dal modello cartesiano (gnoseologico e non ontologico) in forza del quale si pretende di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza. Il che avviene per la via della pura conoscenza (cioè previamente o a priori), e non invece per la via dell’ontologia (cioè per constatazione ossia a posteriori). Quindi noi umani possiamo sì connettere l’esistente con il volere divino, ma non possiamo in alcun modo dedurre razionalmente il secondo al primo (in quanto a priori). E qui Malebranche riconosce un ben preciso limite cognitivo della mente umana – noi non abbiamo affatto un’idea dell’efficacia creativa nel consultare le verità archetipiche divine (ossia di fatto idee creative nella mente divina). Per questa serie di motivi, dunque, il senso del mondo e della creazione non può secondo lui venire cercato nel mondo delle essenze divine a priori.
Ebbene questo differenzia Malebranche senz’altro da Cartesio. Ma lo differenzia anche da Leibniz, sebbene Rome non lo dica. Viene infatti posto un limite ben preciso a quella teodicea metafisico-razionalista (connessa alla pretesa volontà di bene divina in relazione al migliore di mondi possibili) che non a caso ha trovato nel tempo proprio in tale ambito la sua più stridente contraddizione in relazione all’evidenza inoppugnabile del male dominante nel mondo creato.
Evidentemente invece il nostro pensatore non fu vittima di questo costrutto solo apparentemente filosofico-religioso, che invece era stato unicamente metafisico-razionalista, e pertanto ha preteso di prescindere senza scrupoli dalle evidenze dell’esperienza mondana. E quindi necessariamente il razionalismo religioso con la Rivelazione non aveva avuto nulla a che fare. Con la conseguenza che esso non può in alcun modo vantare il diritto di presentarsi come un’autentica filosofia religiosa.
In tale contesto, quindi, uno degli aspetti dottrinari centrali in Malebranche fu l’affermazione dell’assoluta non necessità dell’atto creativo (per lui un libero atto d’amore il quale conferisce l’esistenza all’essenza, o qualcosa) e proprio per questo non è per nulla intelligibile – cioè non si sa affatto perché avvenga [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201; IV, IVa p. 209-220].
E di nuovo qui il concetto di Essere divino addirittura sopravanza il concetto di Causa nel ricomprenderlo totalmente in sé. Infatti – attenendosi alla dottrina di Malebranche − si può anche dire che, nel creare, Dio aggiunge l’essenza ad un’esistenza in sé vuota di contenuto. Ma intanto, dato che Dio è in primo luogo Essere, risulta molto più vero il contrario, e cioè che Egli aggiunge l’esistenza ad un’essenza che altrimenti resterebbe tragicamente irrealizzata, ossia astrattamente vuota (e quindi utile unicamente per la conoscenza ma non, invece, per la comprensione del perché delle cose così come sono). Questo però può venire sostenuto solo se Dio viene considerato molto più Essere che non essenza – laddove nel secondo caso il suo agire diviene necessario e quindi condizionato. Invece la pienezza dell’aggiunta dell’esistenza all’essenza può esserci solo se l’agire divino è assolutamente incondizionato. Ed è alla fine per questo che il concetto teologico di «somiglianza» (dell’uomo a Dio) consiste, secondo Malebranche, in primo luogo nell’essere, e cioè, più concretamente nell’esistenza.
Da tutto ciò consegue quindi che l’occasionalismo non fu affatto una dottrina naturalistica (immanentista), per quanto essa non sia stata nemmeno l’opposto, cioè aprioristica (trascendentista). Per Malebranche, insomma, Dio non è assolutamente Causa in base e soprattutto in obbedienza al fenomeno naturale della causalità. Quindi, in ultima analisi, non si tratta affatto di azione bensì invece della semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia si tratta dell’esistenza stessa del mondo da Lui creato − essa è insomma di per sé causalità senza nemmeno bisogno di invocare la dimensione naturale del movimento.
Eccoci dunque di nuovo di fronte all’ontologia. La causalità per Malebranche è infatti ben più essere che non attività.
Oltre a tutto ciò vi è un aspetto che chiama di nuovo in causa molto direttamente la sua ontologia, e precisamente l’importante discorso (già finora più volte menzionato) riguardante la relazione sussistente tra essenza ed esistenza ed inoltre la diversa concezione di ciascuna di esse da parte dei due pensatori. Infatti, afferma Rome, l’epistemologia di Malebranche è in primo luogo un’ontologia “esistenziale”, secondo la quale anche l’idea stessa (che è essenza e rappresenta l’universale) “prima di tutto è” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Infatti per lui l’universale stesso ha una portata permanentemente ontologica e non epistemologica. Insomma l’universale (idea) è una realtà ontica. Pertanto l’idea cartesiana secondo la quale è sufficiente avere idee chiare e distinte (per affermare qualunque cosa) non può essere assolutamente vera. E ciò perché non bastano affatto chiarezza e distinzione interiori (e quindi svincolate dal mondo esteriore). Occorre invece la presa in considerazione dell’essere, e quindi esistenza, ossia un riscontro nel mondo esteriore. Ecco dunque perché Malebranche fonda le idee in Dio. Perché Egli è in primo luogo Essere. E come tale permette di conferire essere (onticità) ai principi della conoscenza che invece il platonismo concepisce solo come astratte forme intelligibili (prive di onticità). Per tale motivo il platonismo cristiano può, secondo Rome (ed in concordanza con Malebranche) essere la sola forma di fondazione della conoscenza. E con ciò abbiamo già gli elementi fondanti della dottrina della “visione in Dio”. In forza di essa infatti si parte prima dalla conoscenza di sé stessi e dei corpi, e poi si giunge all’idea di infinito alla quale segue infine la “visione” (intuizione) di Colui che è. Questa è propriamente la visione in Dio.
Ebbene, va però osservato che tutto ciò è estremamente coerente rispetto a Malebranche. Ma non rispetto a Platone. Dato che diversi pensatori hanno dimostrato che per lui l’idea non venne considerata affatto priva di onticità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 10-14 p. 87-91, I, 2-5 p. 107-111, I, 25 p. 127-128; Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010 , II,VI,III, p. 172-176 ; II, VI, IV, p. 176-186 ; II, VI, VI, p. 190-197; II, VII, I, p. 214-217 ; III, XI, II, p. 323-336 ; II, VII, II, p. 217-221 ; III, XI, III, p. 336-344 ; IV, XVII, I, p. 544-548 ; IV, XVI, II, p. 501-511]. E questa era una precisazione che andava assolutamente fatta.
Ma comunque questa serie di osservazioni di Rome ha un’estremamente importante conseguenza conoscitiva, e precisamente teoretico-conoscitiva. Il che è di grande importanza se studiamo Malebranche partendo da quelle acquisizioni della filosofia moderna che hanno contraddetto frontalmente questa evidenza nel porre la quasi tragica problematicità della conoscenza. Infatti in forza di ciò la conoscenza in Malebranche coglie necessariamente gli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Tutto ciò sta in relazione alla diversa concezione della mente da parte di Malebranche e Cartesio. Il secondo infatti concepì la mente sostanzialmente come pensiero puro, ossia (come dice Malebranche nella sua critica) come intelletto, coscienza ed in ultima analisi “concezione”. Il che comportava poi un «cogito» inevitabilmente dualistico in quanto incentrato nell’isolamento del soggetto rispetto al mondo, ossia nella conoscenza puramente interiore. Insomma per Cartesio la dimensione intellettuale era da considerare il carattere essenziale della mente. Ebbene tutto ciò era invece per Malebranche appena “sentimento interiore”, ossia una facoltà ben più prossima alla percezione che non al pensiero puro. Proprio per questo, commenta Rome, è stato da lui attribuito un empirismo anche in maniera alquanto esagerata.
In ogni caso però – nel concepire il sentimento interiore come carattere essenziale della mente – il nostro pensatore considerava la mente stessa come prodotto delle modificazioni prodotte dalla Natura sull’anima. Ed eccoci quindi al cospetto d [] ella conoscenza (quale carattere essenziale della mente) sulla base nell’inevitabile connessione tra spirito e sensi ed anche tra spirito e volontà.
È evidente quindi che, mentre Malebranche concepì l’orientamento esterioristico della mente, Cartesio invece ne concepì l’orientamento unicamente interioristico. Ne deriva quindi in Malebranche una teoria della conoscenza estremamente realistica, efficace, effettiva, che resta al riparo da qualunque problematicità e negatività, e quindi è unicamente positiva. Ed essa naturalmente relativizza fortemente il pensiero puro come carattere interioristico della mente.
Su questa base ed in tale ambito, entro il discorso di Rome, più avanti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299], raggiungiamo il nucleo stesso della dottrina di Malebranche, che consiste in una teoria della conoscenza nei fatti né idealistica né realistica, ma basata comunque sulla teoria delle idee e quindi almeno formalmente idealistica. Ecco che a nostro avviso la grandezza di questo filosofo consiste in proprio questo – ossia nell’aver adottato una dottrina idealistica (platonica) senza però mai restare invischiato in essa, ossia nelle sue più estremistiche conseguenze. Questo mostra tuttavia anche che Malebranche non fu mai per davvero un empirista, e che inoltre molto probabilmente pose le basi (per mezzo di una teoria della conoscenza che punta all’oggetto intelligibile) ad una filosofia moderna com’è quella di Husserl. Proprio in tale contesto possiamo infatti cogliere il motivo ed anche il nucleo dell’idealismo del nostro pensatore (teoria delle idee), che non appare quindi essere una scelta né causale né ideologica. Malebranche insomma sa che la percezione è del tutto insufficiente per la conoscenza dell’oggetto da parte del soggetto. Perché essa è connessa di fatto alla sola dimensione esteriore, limitandosi così ad appena sfiorare la superficie del soggetto per mezzo dei sensi. Ma oltre questo limite essa non va, e quindi resta di fatto fuori del soggetto. Egli comprende quindi che, per concepire una conoscenza efficace ed autentica, bisogna invocare qualcosa di interiore, ossia l’intelligibile. E questo qualcosa sono le idee in quanto rappresentative degli oggetti. Ecco allora che la conoscenza degli oggetti per mezzo di idee si basa in effetti sulle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi, e non invece sulla mera percezione movente dagli oggetti esteriori. La conoscenza è dunque connessa in verità a tali modificazioni, e non invece alle semplici qualità degli oggetti esteriori che sollecitano i sensi (come pensava la Scolastica e come pensa anche l’uomo ingenuo). Insomma Malebranche intuisce che la teoria della conoscenza esige la postulazione di un passaggio ulteriore oltre la sollecitazione dei sensi da parte delle qualità degli oggetti. Esige insomma la dimensione interiore (cioè le modificazioni indotte dai sensi nell’anima, entro la quale vengono colte le idee), nel mentre comunque prende atto della realtà inoppugnabile della dimensione esteriore. Dunque essa non può essere né unilateralmente idealista né unilateralmente realista. Ebbene, una volta portato questo discorso alle sue estreme conseguenze, dobbiamo ritrovarci necessariamente di fronte alla “visione in Dio”, e cioè della conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio. Perché in questo modo a quanto appena detto viene aggiunto il fattore della trascendenza della conoscenza – soltanto in virtù della quale il conoscere è al riparo delle distorsioni indotte dal divenire, le quali sono fonte di illusione (come nel caso della differente grandezza di oggetti posti vicino o lontano). Del resto però per Malebranche non sarebbe sufficiente nemmeno la pura deduzione delle cose da principi trascendenti e razionali a priori (come postulato da Cartesio), dato che essa prescinde totalmente dalla realtà del mondo esteriore (ossia sfugge ad ogni prova, e quindi si presta a pensare oggetti inesistenti e quindi irreali). Nello stesso tempo però la conoscenza delle cose per mezzo di idee (che completa e non contraddice la contraddizione) ci permette di conoscere il vero oggetto, e cioè quello intelligibile; il quale sfugge alle distorsioni illusorie indotte dal divenire. Tutto ciò costituisce pertanto una vera e propria “rivelazione naturale delle cose” entro la quale gli a priori sono altrettanto necessari quanto i sensi (percezione). Rome non manca di sottolineare che tutto ciò assume in Malebranche una dimensione fideistico-religiosa e mistica (la fede nel mondo creato da Dio). Ma nonostante questo non manca di essere (a differenza di quelle di Cartesio e della Scolastica) una teoria della conoscenza estremamente affidabile ed anche pragmatica.
In particolare, ella dice, in essa l’esistenza degli oggetti viene colta nella Volontà di Dio, mentre la loro essenza nella sua Ragione. Ritroveremo tutto questo poi nel concetto di “estensione intelligibile”. Ancora una volta è evidente qui l’anticipazione di quella quota di empirismo che si sarebbe manifestata nella filosofia di Kant e successivamente anche nell’aspirazione husserliana ad un realismo in equilibrio con l’idealismo. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva di Malebranche appare essere ben più equilibrata e ragionevole di queste ultime, e quindi del tutto esemplare. Anche perché essa concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben motivato.
Su questa base risulta del tutto comprensibile come Rome faccia emergere la contraddizione radicale dell’empirismo realista da parte di Malebranche, mostrandoci in tal modo che l’attribuzione di empirismo al nostro pensatore è stata in realtà abbastanza superficiale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. Non a caso il punto è qui proprio il realismo religioso, nel contesto del quale la conciliazione tra Ragione e Fede va posta per il nostro pensatore in maniera radicalmente diversa dal modo in cui essa venne posta entro la Scolastica. Infatti, per quanto possa apparire paradossale in base a tutto ciò che abbiamo visto finora, Malebranche afferma che la credenza nell’esistenza di un mondo esteriore rappresenta uno dei più grossolani errori mai commessi in filosofia ed anche in teologia. Ed il motivo di ciò risiede ancora una volta nel nucleo (idealistico) della sua teoria della conoscenza, e cioè nel postulare che sono le idee e non le cose (esteriori) il vero oggetto di conoscenza, ovvero (come abbiamo visto) unicamente l’oggetto intelligibile.
Per lui infatti (sulla base di quanto abbiamo già visto) la Ragione può realmente venire conciliata con la Fede. Ma ciò risulta impossibile sia se (come in Cartesio) la conoscenza di basa sulla sola Ragione, sia se (come avviene nella Scolastica) la conoscenza si basa sui soli sensi.
In questa sede infatti egli contraddice ogni realismo ed empirismo (assumendo così una posizione insieme idealistico-cartesiana e giansenista) nel contraddire la fede (naturale e ingenua, che è basata sui sensi secondo la Scolastica) nel mondo esteriore, e nel sostenere però (diversamente da Cartesio) la perfetta concordanza tra Ragione e Fede. In un’ultima analisi egli ritiene che siano le Scritture (e non i sensi) a rivelarci l’esistere indubitabile del mondo esteriore. Nel primo caso infatti prevale in solo criterio interioristico (estremisticamente idealista), mentre nel secondo caso prevale invece il solo criterio esterioristico (estremisticamente realista, per quanto ammantato di metafisica), con la conseguenza dell’avvaloramento di una visione del mondo e dell’essere che coincide totalmente con quella ingenua. In entrambi i casi, dunque (aldilà delle affermazioni formali delle due scuole), Ragione e Fede devono necessariamente divergere.
Pertanto (come poi vedremo di nuovo a proposito della sua teoria della percezione) non va trascurato che nel pensiero di Malebranche si delinea in ogni caso un realismo esterioristico incentrato sull’esistenza delle cose, che, secondo il pensatore, la percezione certamente ci rivela.
Ma intanto qui ci troviamo di fronte ad un insieme di empirismo ed anti-empirismo, o anche scetticismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV-VI p. 299-316]. Ci troviamo insomma in tal modo di fronte alla “rivelazione naturale delle cose“ della quale abbiamo prima parlato. Che Malebranche postula – concedendo così alla percezione il ruolo che ad essa legittimamente spetta, fino a rivelarci un effettivamente esistente mondo “fuori di noi” – soltanto nella misura in cui il coglimento percettivo delle cose esteriori non contraddica il ben più rilevante coglimento dell’idea quale cosa. Ciò significa che per lui lo spirito (soggetto cosciente-conoscente) sta solo condizionatamente in relazione con la cosa esteriore, e cioè solo nella misura in cui la cosa esteriore si presenta a noi come idea. Solo in questo caso infatti la percezione assume il reale ruolo conoscitivo che le spetta di diritto, rivelandoci così un davvero incontestabile mondo esteriore.
E proprio questa felice costellazione conoscitiva corrisponde alla “rivelazione naturale delle cose”, entro la quale l’affidabilità dei sensi viene riconfermata per l’unico motivo che a noi (entro l’anima) la cosa si presenta come idea.
Per questo motivo molto giustamente Rome sottolinea che è stato molto poco giustificato attribuire a Malebranche una dottrina entro la quale le idee non sarebbero altro che “copie” (rappresentazionali) delle cose esteriori. Dottrina che svaluterebbe totalmente il ruolo della percezione, saltandola a piè pari per stabilire invece una relazione diretta tra la cosa esteriore e l’idea. Ebbene la chiave di questa complessiva questione consiste nel fatto che Malebranche attribuì un ruolo conoscitivo alla percezione, nel postulare (diversamente da Cartesio) che l’idea è di fatto già presente nell’oggetto che la percezione intanto ci rivela. Il che corrisponde poi alle facoltà mentali costituite dall’attenzione e dalla concentrazione (invece che del puro pensiero).
Per lui sono infatti tali facoltà mentali quelle che configurano l’idea chiara e distinta della quale abbiamo assoluto bisogno per concepire un oggetto. E dunque in tal modo il ruolo della percezione non è altro che quello di rivelare l’idea contenuta nell’oggetto. E proprio su questo si basa il metodo induttivo nel quale egli credette nel contesto di uno sperimentalismo simile a quello baconiano. Ebbene ciò non significa affetto che la percezione equivalga alla cognizione. Ma essa almeno introduce validamente a quest’ultima. Va però considerato che essa si limita a rivelarci l’esistenza delle cose, e non la loro essenza. Con tutti gli errori ed illusioni da ciò comportati. Pertanto, oltre la percezione, la conoscenza resta per Malebranche bisognosa di quelle idee trascendenti (prevalentemente matematiche) dalle quali soltanto scaturisce la vera certezza.
Ecco allora che l’attenzione diverge di fatto dai sensi, i quali ci conducono indubbiamente all’errore, allontanandoci dalle idee delle cose. E ciò segna i limiti del valore della “rivelazione naturale delle cose”, la quale ci permette di cogliere l’indubitabilità del mondo esteriore, ma solo entro i limiti della sua esistenza, trascurando così totalmente la rivelazione dell’essenza delle cose (ossia il loro «cos’è?»). In altre parole il mondo esteriore ci viene rivelato dalla percezione in maniera assolutamente indubitabile (per la via dell’esistenza), sebbene la rivelazione naturale sia indubbiamente vera solo entro le leggi della Natura. Il che corrisponde poi ad una dimensione che rivela sì l’indubitabile (l’incontestabile esistenza del mondo esteriore ossia esistente) ma intanto non ha alcun vero valore gnoseologico in quanto non riesce a rivelarci l’essenza delle cose. Cosa alla quale però invece (almeno secondo Malebranche) Cartesio aspira solo illudendosi, dato che ciò non è affatto alla portata dell’uomo naturale. Infatti tutto ciò è per lui il prodotto di una corruzione che è avvenuta con il Peccato di Adamo e la Caduta, e quindi ha reso naturalmente deficitaria la conoscenza umana. Ecco quindi che di nuovo la dimensione teologico-religioso incide in modo decisivo entro la teoria della conoscenza di Malebranche.
Abbiamo appena parlato del legame esistente per il nostro pensatore tra spirito e oggetti esteriori. Quest’ultimo corrisponde in effetti anche al legame esistente nell’uomo tra lo spirito (o anche pensiero) e la volontà [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. E questo è realmente uno degli aspetti più fondamentali della teoria della conoscenza di Malebranche. Specie perché esso spazza via qualunque problematicità della conoscenza e dunque qualunque moderno scetticismo gnoseologico. Il nostro pensatore ritiene infatti che tra questi due elementi vi sia un legame obbligato nel senso specifico della conoscenza di un oggetto esteriore (p. 250-252). E se non fosse così il pensiero resterebbe del tutto vuoto e quindi sarebbe non solo inefficace ma anche inutile – sostanzialmente perché esso non sarebbe deputato alla conoscenza di un oggetto. Più ampiamente si tratta comunque dell’affermazione di un obbligato legame tra pensiero e sensi, con la contraddizione frontale del dualismo cartesiano. Tale problema si riconnette comunque alla già discussa definizione della mente – corrispondente alla domanda circa il pensiero puro come possibile essenza della mente (che Cartesio affermò senza mezzi termini). Rome ci mostra al proposito che Malebranche fu su questo sostanzialmente d’accordo con Cartesio – specie nel ritenere la sostanza un attributo che ne rendeva possibile l’esistenza nel mentre però ne definiva preliminarmente l’essenza. Per questo motivo anch’egli (come Cartesio) ritenne il pensiero come carattere “spirituale” della mente. E però egli si rifiutò di accettare il legame causale sussistente tra essenza ed esistenza. E quindi finì per concepire la sostanza come ben più esistenziale che non essenziale. Per tale motivo, quindi, a suo avviso, il pensiero da solo (luogo dell’essenza) finiva per girare a vuoto (rivelandosi così inutile ed inefficace) se non prendeva contatto con l’esistenza, ossia con la cosa reale. Ed in questo senso quindi il pensiero doveva necessariamente agire come conoscenza degli oggetti.
Connesso con ciò è comunque il tema della presumibile migliore conoscenza della mente (conoscenza interiore) rispetto alla conoscenza del corpo (conoscenza esteriore), che Cartesio aveva affermato in maniera altrettanto dogmatica. Rome ci mostra come anche a tale proposito Malebranche fu in via di principio d’accordo con Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. E tuttavia vide le cose anche in modo opposto (p. 260). E ciò sulla base del fatto che (come abbiamo già visto) egli ritenne l’introspezione appena un “sentimento interiore”, e quindi una sorta di obbligata percezione dell’interiorità animica. Il che stava in relazione con la sua svalutazione della conoscenza interiore. Pertanto si può dire (sulla base di Rome) che Malebranche accettò il puro pensiero come «cogito»,, ossia conoscenza immediata dell’anima (includente dubbio, immaginazione, sensazione, volontà). E tuttavia solo in via di principio. Perché intanto, a suo avviso, ciò non bastava affatto alla conoscenza completa dell’anima, in quanto diretta. Invece noi siamo costretti ad attribuire all’anima le qualità sensibili attraverso un pensare (ragionamento) solo indiretto. Dato che (guardando all’anima) non possiamo conoscere lo stato della qualità da essa contenuta. E tutto ciò rappresenta quindi per Malebranche il “sentimento interiore” quale “semplice visione” (“simple vue”).
In relazione con ciò, secondo Rome, vi è il fatto cruciale in virtù del quale, mentre Cartesio considerò il pensiero, quale atto mentale, come indistinto rispetto al proprio contenuto, invece Malebranche lo considerò come strettamente legato al proprio contenuto, e quindi legato anche inscindibilmente alla percezione e quindi alle qualità percepite, ossia all’oggetto esteriore.
E questo riafferma di nuovo l’assoluta non problematicità della conoscenza, oltre ad anticipare la teoria della conoscenza husserliana (intenzione) entro la quale l’atto di pensiero è inscindibilmente legato ad un oggetto esteriore (intenzionale) situato costantemente ai limiti della coscienza. È per questo che il realismo di Malebranche coincide ancora una volta con quello di Husserl.
In Rome ritroviamo comunque un’ulteriore importante definizione del pensiero come atto di concezione diverso dal contenuto della concezione nel contesto della teoria della conoscenza di Malebranche (p. 256). Ella sottolinea infatti che il nostro pensatore (diversamente da Cartesio) divise costantemente il pensiero dai propri contenuti, e quindi anche il contenuto della concezione (quale atto mentale) dai propri contenuti. Per tale motivo il puro triangolo geometrico non era per lui equivalente (come in Cartesio) allo stesso pensiero puro, ma costituiva invece un’oggettualità separata dalla sostanza del pensiero. Per cui era impossibile, a suo avviso, la naturale convergenza del pensiero (nel corso dell’introspezione) tra pensiero ed oggetti supremamente intelligibili.
E bisogna considerare che proprio questo fu per Cartesio il fondamento della certezza ottenibile per mezzo dell’introspezione – ossia il coglimento di un oggetto che equivaleva totalmente all’atto del pensiero.
La contestazione di questo evitava quindi in Malebranche l’equiparazione dell’oggetto ideale con la sostanza stessa del pensiero o pensare (intellettuale), mantenendo così il contenuto del pensiero nella sua oggettualità indipendente dall’atto di pensiero. Il che comporta nuovamente l’impossibilità di una conoscenza umana della mente (auto-conoscenza o conoscenza interiore), ossia l’avere un’idea distinta di essa (come ritiene invece Cartesio). Tutto ciò rende dunque impossibile l’auto-conoscenza, o conoscenza interiore, dalla quale Cartesio si aspettò la purificazione assoluta della conoscenza stessa. In tale contesto viene pertanto in primo piano l’atto mentale invece del suo contenuto (ma tra loro rigorosamente separati). Ne consegue pertanto che, secondo Malebranche, noi non possiamo avere un’idea distinta della mente (in quanto sostanziale puro pensiero) − anche se essa consiste in matematica, resta non accessibile alla nostra conoscenza.
E ciò relativizza fortemente la sua convergenza con l’idea di Cartesio secondo la quale la conoscenza della mente sarebbe per definizione migliore di quella del corpo.
Malebranche comunque (diversamente da Spinoza) considerò l’oggetto ideale comunque trascendente e non immanente, e quindi diverso dall’estensione e dalla corporeità. Quindi non ebbe affatto una psicologia naturalistica.
In ogni caso Malebranche e Cartesio differiscono gnoseologicamente soprattutto per la dottrina della “visione in Dio”, della quale parleremo però in paragrafo specifico. Quindi, aldilà di tutto ciò che abbiamo visto, l’aspetto più rilevante della sua epistemologia fu la sua dottrina della “visione in Dio” delle cose.
Nei paragrafi seguenti verranno comunque esposti altri aspetti della dottrina di Malebranche che sono riconducibili alla sua originale epistemologia. Tra questi (a proposito della “visione in Dio”) constateremo una delle principali differenze tra Cartesio e Malebranche, ossia la necessità del potere divino in luogo della sola attitudine creativa di tipo puramente intellettuale. Il potere è infatti ciò che non solo genera le cose dal nulla ma anche le modifica. Ed in entrambi i casi si tratta di deviazione da ciò che è intellettualmente prevedibile, ossia esiste a priori così come a posteriori.
2- La dottrina delle idee di Malebranche e la sua teoria della mente.
La critica di Malebranche alla dottrina delle idee cartesiana si caratterizza per la negazione dell’idea come pura rappresentazione ed inoltre per la contestazione dell’innatismo creazionista delle idee [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. Infatti, come abbiamo già visto, nel concepire l’idea, secondo Rome, Cartesio confuse l’idea stessa con l’atto di pensiero e con il suo oggetto.
E così negò totalmente l’onticità dell’idea considerandola in tal modo come puro concetto, ossia una pura rappresentazione senza alcun corrispettivo oggettivo-oggettuale. Per Cartesio dunque l’idea era di pura natura spirituale e non aveva necessariamente alcuna relazione con gli oggetti in quanto atto conoscitivo. Malebranche la pensava invece in modo completamente diverso. Quanto poi all’innatismo delle idee egli riteneva che l’idea innata (e quindi necessariamente creata da Dio partendo dal nulla) deve essere finita per definizione. E quindi come tale non può affatto contenere la molteplicità delle cose, ossia gli oggetti reali rappresentati dalle idee.
Con tale aspetto dottrinario siamo quindi ancora nel pieno dell’epistemologia di Malebranche, e pertanto anche della sua gnoseologia e teoria della conoscenza. E questa dottrina è in effetti quella in relazione alla quale il nostro pensatore si presta di più a venire giudicato.
Non a caso nei nostri precedenti scritti abbiamo commentato il suo pensiero specie in relazione a tale aspetto. Si delinea infatti qui chiaramente un idealismo. E quest’ultimo a prima vista sembra caratterizzare totalmente il pensiero di Malebranche. Di esso del resto Rome prende atto nell’appaiare il nostro pensatore sia a Cartesio che anche a Berkeley [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266, VI, I p. 279-284, VI, III p. 292-299, VI, VIa p. 310-313]. In base a tale idealismo vengono infatti svalutati in un solo colpo sia la percezione sia anche gli oggetti del mondo esteriore che la sollecitano. Per cui in definitiva sembra che l’esistere del mondo esteriore sia meramente relativo alla sua effettiva percezione, secondo il famoso «esse est percipi». Cosa per cui sembrerebbe a prima vista impossibile che in Malebranche possa riscontrarsi anche un empirismo. Eppure, come abbiamo visto più volte, quest’ultimo esiste per davvero, dimostrando così che il suo pensiero fu realmente molto multiforme ed estremamente originale.
L‘Autrice ci fornisce comunque un’immagine di insieme della teoria delle idee di Malebranche, mostrandoci che essa fu sostanzialmente metafisica (come lo stesso occasionalismo), e quindi restò fortemente legata alla teologia oltre che all’epistemologia.
Non va intanto dimenticato che comunque Malebranche e Cartesio differiscono in primo luogo proprio in virtù della dottrina delle idee: − infatti per il primo esse non sono innate né create (sebbene non vengano dai sensi), mentre per il secondo sono innate e create. Il che significa che per il primo le idee sussistono in una maniera oggettiva ed insieme trascendente, sottraendosi pertanto alla loro collocazione nella mente umana (come dotazione fornitale da Dio). Le idee sono insomma per Malebranche vere e proprie oggettualità intelligibili radicalmente trascendenti. In estrema sintesi per Malebranche le idee risiedono fuori della mente mentre per Cartesio risiedono in essa.
In ogni caso la principale obiezione di Malebranche all’innatismo delle idee in Cartesio (idee come realtà oggettive create ed infinite) consiste nell’ammissione che nella mente esiste un’idea di infinità ma non invece una molteplicità di idee infinite [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIg p. 88-100].
Un aspetto fondamentale della questione delle idee è comunque (secondo Rome) la parziale accettazione (a livello della fisiologia della mente) da parte di Malebranche di quella che la studiosa definisce come la quarta teoria delle idee (ossia quali modificazioni puramente interiori dell’anima). Tuttavia è anche vero che egli nello stesso tempo la rigettò da un altro punto di vista. in quanto espressione dell’orgoglio umano (somiglianza dell’anima a Dio di tipo scolastico, ma in parte anche cartesiano) ed anche in relazione alla differenza tra idea di infinità e presenza di infinite idee nella mente. E nelle obiezioni a questa teoria Malebranche si manifesta come più realista che non idealista [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIIb p. 101-103].
L’argomento principale per il pensatore consiste nel fatto che la mente umana non è affatto infinita − come lo è invece la mente divina, motivo per cui solo quest’ultima può contenere la molteplicità infinita delle idee − e per tale motivo non è neanche estesa, ossia in alcun modo spaziale. Non costituisce insomma affatto un modo intelligibile dell’estensione (la «res cogitans») come invece è per Cartesio. Per questa serie di motivi è del tutto ovvio che essa non possa ospitare alcuna molteplicità intelligibile che comunque è immanente, ossia estesa (cioè le idee innate in quanto create). E tutto questo sta di nuovo in relazione con la sua concezione della mente, della cui dotazione ideale egli sottolinea fortemente la limitazione riduttiva. Infatti le idee non sono per lui altro che rappresentazioni, ossia “stati” della mente, sebbene posseggano comunque una reale onticità. E come tali esse sono oggetti ideali che devono necessariamente divergere onticamente dagli oggetti reali esteriori che esse intanto rappresentano. In altre parole esse non stanno affatto per l’oggetto reale, per quanto siano comunque delle oggettività intelligibili (come per Platone).
In tal modo Malebranche privilegia la sostanza ideale rispetto al modo della mente. E nel complesso svaluta il modo della mente in relazione all’evidenza che la mente stessa non è quantitativa e quindi non può esprimere (come modo) l’oggetto esteriore senza dover coincidere con tale quantità. Con ciò Malebranche si oppone quindi al soggettivismo idealista di Cartesio – per il quale di fatto l’idea sta per l’oggetto reale (laddove quest’ultimo per lui non è altro che puro pensiero).
In definitiva comunque (come abbiamo già accennato) la dottrina delle idee di Malebranche culmina nella dottrina (gnoseologica, epistemologia e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio” che tratteremo in paragrafo specifico. Ed in questo contesto il pensatore postula la dipendenza delle menti umane da Dio per conoscere verità immutabili con certezza [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, XI p. 116-119]. Queste idee vengono però secondo lui semmai rivelate da Dio, ma non create nella mente, e quindi non sono affatto innate. Le idee cioè risiedono nel regno divino trascendente e non nella mente.
Secondo Rome si notano anche qui tracce di un platonismo che probabilmente fu di forte tradizione cristiana, risalendo a pensatori come Agostino e Tommaso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Tale tendenza del pensiero vedeva in particolare nella verità una realtà trascendente oggettiva (idee) alla quale anche Dio stesso si riferisce, pur essendo però esso stesso la Verità (e quindi contenendo in qualche modo le idee invece di esserne trasceso). A tale proposito dobbiamo perciò supporre ipotizzare che Malebranche non abbia superato i limiti della Rivelazione cristiana nel pensare al rapporto del Padre (quale Essere) con il Figlio-Logos-Sapienza, ossia colui che meglio incarna le Idee. Pertanto non deve aver concepito una reale trascendenza ontologica delle Idee rispetto all’Essere divino (cosa che avrebbe costituito un’eresia). Quello che è certo è però che Malebranche svincola le idee dall’Essere divino ossia dalla sua essenza (che invece Cartesio considerava equivalente totalmente ad esse), e quindi può considerarle come qualcosa di funzionale entro l’essere ed agire divino. Esse sono infatti per lui appena frutto della Volontà divina e non del suo Essere. E proprio per questo le idee possono essere radicalmente trascendenti in quanto assolutamente intangibili. Tanto che perfino la Volontà divina si serve di esse ma non le incarna mai del tutto. Pertanto esse sono intangibili nel senso di una radicale oggettività. Motivo per cui la Volontà divina può servirsi di esse solo così come sono (in quanto oggettive, immutabili ed universali verità matematiche) ma non può plasmarle a suo piacimento nella maniera arbitraria che era stata concepita da Cartesio. Insomma per lui non è nemmeno pensabile l’azione di un “genio maligno” di natura pseudo-divina che generi verità contrarie alla Ragione [René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976, I p. 105-115, II p. 117-133, III p. 135-164, IV p. 165-179] . Le idee (o verità eterne) esistono infatti prima che qualunque Volontà divina possa generarle o plasmarle.
Anche per questo esse non possono venire integralmente create da Dio, ossia non possono venire create dal nulla (e cioè non possono dipendere integralmente dall’illimitato ed incondizionato potere divino). È in questo senso che esse sono per lui “forme eterne”. Insomma Dio non viene certo ontologicamente trasceso dalla realtà delle idee (come supposto da Platone), ma comunque nell’ospitarle in sé, rispetta scrupolosamente i criteri oggettivi ed universali di razionalità che anche per Lui sono da considerare inderogabili. Per tale motivo Rome sottolinea che, a tale riguardo, la filosofia cristiana di Malebranche si approssima al creazionismo divino concepito da Tommaso e si discosta invece dall’esemplarismo di Bonaventura (secondo il quale Dio avrebbe creato appena delle idee che sono modello di essere e non invece le cose stesse). Comunque la studiosa non manca di sottolineare che in questo ambito sono tradizionalmente insorte una serie di aporie riguardanti la possibile limitazione della Volontà divina.
In ogni caso, secondo l’Autrice, la dottrina delle idee di Malebranche tocca un aspetto basilare della teoria della conoscenza in generale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VII p. 90-91], e cioè il modo in cui il pensatore intende la teoria della conoscenza, la gnoseologia e l’epistemologia. La quale si incentra per lui nella conoscenza ordinaria dell’oggetto esteriore e quindi nel fondamentale ed imprescindibile atto di riconoscimento. In particolare si tratta del fatto (che già abbiamo evidenziato) che la percezione deve già contenere un’idea della cosa, ossia un contenuto intelligibile (che prescinde totalmente dalla previa creazione divina di idee nella mente).
Se così non fosse, infatti, all’anima (quale momento conoscitivo ben inferiore alla mente, ossia all’intelletto ed al pensiero) sarebbe impossibile riconoscere l’universale (ovvero l’essenza) che è connesso all’oggetto dal quale essa viene eccitata ad opera della percezione. Il che significa che il riconoscimento non avviene affatto a priori, ovvero in virtù delle idee create da Dio nella mente, e quindi non parte affatto dall’alto (dalla mente) ma avviene già nel contesto della percezione.
Proprio in relazione a questo egli concepisce (come Platone) un regno di idee oggettive e trascendenti al quale si riferiscono sia la mente umana che la mente divina. E così contraddice Cartesio, il quale, nel ritenere le idee create da Dio, ritiene uguali il mondo di idee presenti nella mente umana e quello presente nella mente divina.
Ma comunque, secondo Rome, la particolarità della dottrina delle idee in Malebranche sta più in generale in relazione al suo intendimento di Dio come in primo luogo “Colui che è” ovvero Essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. La differenza (estremamente rilevante) rispetto alla dottrina cartesiana delle idee create consiste a tale riguardo nel fatto che Cartesio condiziona strettamente la creazione divina del mondo alla conoscenza di Dio da parte di sé stesso – si tratta insomma dell’atto di pensare sé stesso da parte di Dio. Ed in tal modo vincola strettamente le idee all’essenza divina e non invece alla sua esistenza. In questo senso per lui Dio costituisce un insieme inscindibile di ontologia e gnoseologia. E quindi, nel conoscere sé stesso, Dio si riconosce come una verità che equivale totalmente al mondo esteriore – senza quindi alcun bisogno che le idee passino per la propria realizzazione in cose. Il che comporta che esse possano essere appena mezzi di conoscenza e non invece radice di esistenza. Per Malebranche invece le idee sono “super-essenziali” in quanto sono in primo luogo destinate alla realizzazione, e pertanto sono in primo luogo idee di cose (più che concetti deputati alla conoscenza). Insomma le idee sono per lui destinate in primo luogo all’attualizzazione ed all’esistenza temporale. E pertanto più che realtà gnoseologiche sono possibilità di essere. Esse pertanto non restano affatto nel campo dell’essenza ma sconfinano invece sempre in quello dell’esistenza.
Dunque, secondo Rome, entro tale epistemologia indissolubilmente legata all’ontologia (ma in maniera ben più corretta di quella di Cartesio), la deduzione è possibile solo di concerto con l’induzione. La quale deve dunque partire dal sensibile per poter aspirare al supremo livello della contemplazione delle essenze intelligibili. In tal modo il sensibile ricorda l’ideale mentre l’ideale guarda al reale. La conoscenza consiste quindi sempre in doppio processo (ascendente e discendente).
E proprio a tale proposito ci sembra che la teoria della conoscenza di Malebranche possa aiutare a portare ordine entro quel realismo delle essenze mondane (il cosiddetto “mondo degli onta”) che poi sarebbe stato sostenuto da Husserl ed ancor più dai suoi allievi − nella forma specifica di ricerca fenomenologica circa le essenze mondane [Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano 2002, II, 9a p. 53-58, III, 29 p. 141-143; Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, III, 2-3 p. 58-68]. Infatti entro questa dottrina si è teso a considerare come essenza qualunque cosa particolare ed immanente – come ad esempio sia il sole che la sfera. Non sembra invece essere così per Malebranche, secondo il quale l’ambito delle essenze non combacia affatto con quello delle cose esistenti, ma invece è solo il risultato di una conoscenza induttiva (ascensiva) che muove da queste ultime per raggiungere un livello che con il mondo reale non ha più assolutamente nulla a che fare. Pertanto nella ricerca fenomenologico-husserliana circa le essenze mondane deve aver operato un certo equivoco e forse perfino un errore concettuale
Da tutto ciò risulta comunque che il vero razionalista religioso è Cartesio e non Malebranche, che invece è integralmente un filosofo cristiano dato che si rifà strettamente alla Rivelazione senza inventare nulla. E questo implica per Rome anche il suo costante riferimento a pensatori cristiani come Agostino, Filone, Tommaso e Padri della Chiesa
3- La dottrina (epistemologica e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio”.
Di nuovo ci ritroviamo con ciò di fronte alla forte tendenza di Malebranche all’idealismo, ossia ad una dottrina gnoseologica secondo la quale la conoscenza non è costituita dall’immediata relazione tra il soggetto cosciente (mente-anima) ed il mondo esteriore per l’intermediazione della percezione, ma è invece rappresentata dall’intuizione delle idee (a loro volta rappresentanti di per sé le cose) da parte della mente-anima. Ma per lui queste idee non risiedono già nella mente-anima (come ritiene invece Cartesio secondo l’innatismo) – quindi non sono immediatamente a disposizione della Ragione –, bensì si trovano collocate in Dio stesso. Pertanto a suo avviso, in assenza dell’esistenza divina, noi di fatto non siamo per nulla in grado di conoscere.
Il versante empirista (e strettamente teoretico-conoscitivo) di questa dottrina consiste comunque nel fatto (già da noi evidenziato più volte) che le idee delle cose sono per Malebranche già presenti nella percezione
Ecco allora che per lui Dio è luogo supremo della conoscenza, ossia Colui nel quale noi realmente conosciamo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Però intanto va sottolineato che questo Dio dalla valenza gnoseologica è radicalmente diverso da quello che vuole e crea (p. 125). Insomma non è affatto l’essenza-creante-l’esistenza che viene postulata da Cartesio. E qui si delinea il già accennato tratto distintivo tra Cartesio e Malebranche, che è la netta distinzione da parte di quest’ultimo del potere divino dall’intelletto, laddove invece il primo considera Dio unicamente come puro intelletto creante. In particolare, anche se le Idee fanno parte della sostanza divina (e quindi non lo trascendono, come in Platone), Dio ha come proprio oggetto le idee invece di generarle (crearle) nell’atto di pensare e soprattutto di pensare sé stesso. Per essere più precisi, quindi, per Cartesio la creazione è di natura unicamente intellettuale (quindi puramente gnoseologica e concernente il puro pensiero), mentre per Malebranche essa è di natura integralmente ontologica, e quindi esige qualcosa di più del puro pensiero per generare le cose e modificarle, ossia un fattore di trasformazione della pura essenza creata, e quindi il potere.
Naturalmente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134] tutto ciò sottolinea la natura puramente comprendente di Dio e mette invece in secondo piano la sua natura causante. E con ciò ci spostiamo in Malebranche di nuovo sul piano della causalità e dell’occasionalismo, così come anche sul piano della relazione tra essenza ed esistenza. Ma sullo sfondo di tale dottrina si delinea di nuovo la visione di Cartesio con la centralità di quel Causa Sui che invece Malebranche non condivise affatto. Infatti per Cartesio Dio è Causa Sui nel contesto di un fare che è in primo luogo pensare (potere conoscente e solo entro questi limiti creante), e come tale sta in radicale concorrenza con l’azione delle forze materiali della Natura. Egli infatti si provvede di attributi proprio perché può concepire senza limiti il creabile (primariamente intelligibile) più che il creato ossia il reale esistente. Ne consegue che per Dio avere attributi (e possedere quindi un’identità mediante gli attributi, ossia l’essenza) equivale all’essere causa di sé stesso. In tal modo egli conferisce esistenza a sé stesso nel pensarsi. Ma ciò è pensare sé stesso e non invece conoscere le cose esteriori. Quindi gli attributi divini pensati da Dio non sono affatto le qualità delle cose da Lui conosciute. Dio dunque, per Cartesio, pensa soltanto sé stesso ed affatto invece il mondo esteriore. Naturalmente la dottrina della visione in Dio non corrisponde affatto a questo intendimento cartesiano delle cose e del pensiero divino. Per Malebranche infatti in Dio noi vediamo effettivamente le cose esteriori, sebbene solo come idee.
Eccoci dunque di fronte alla più radicale differenza esistente tra Cartesio e Malebranche. Essa consiste soprattutto in due elementi: − 1) per Malebranche Dio è esistenza e non essenza, e quindi sussiste ed agisce del tutto indipendentemente dal pensiero; 2) le idee per lui esistono del tutto indipendentemente da Dio, nel mentre Dio esiste indipendentemente da qualunque pensiero (idea), sebbene le idee rientrino comunque nella sua sostanza di immutabile.
4- L’ontologia di Malebranche.
Abbiamo già visto che l’ontologia influenza così tanto l’epistemologia del pensatore da renderla assolutamente specifica ed originale. Specie in uno scenario in cui la metafisica razionalistica (da Cartesio in poi) stava introducendo in filosofia l’epistemologia proprio a scapito dell’ontologia anticipando così uno scenario in cui quest’ultima sarebbe finalmente svanita oppure avrebbe assunto nuove forme decisamente bizzarre e devianti. Inoltre abbiamo già avuto modo di constatare molti aspetti della centratura ontologica (e non gnoseologica) del pensiero di Malebranche. Ma ora è arrivato il momento di spostare direttamente la nostra attenzione su questo aspetto.
Probabilmente il concetto e principio più centrale dell’ontologia di Malebranche consiste nel fatto che l’Essere autentico è infinitamente lontano da qualunque essere ideale e non è quindi affatto in esso risolvibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Non a caso esso non coincide affatto con i contenuti del pensiero di Dio (sia il pensiero di sé stesso che quello delle cose) ma coincide invece unicamente con l’Essere divino tout court, ovvero con il suo primario e paradigmatico esistere.
Pertanto, per il nostro pensatore, l’essere esiste irriducibilmente all’essere ideale ma anche allo stesso essere reale meramente esteriore. Probabilmente questa è stata una delle forme più radicali di ontologia in quanto essa sembra esprimere la formula più piena e radicale di definizione dell’ontologia: − in essa l’essere deve essere assolutamente irriducibile a qualunque essere ideale. Definizione che poi fa ovviamente prevalere l’essere reale. Possiamo comprendere meglio tutto ciò se confrontiamo questa definizione di ontologia con quella estremamente moderna di Nicolai Hartmann, secondo il quale l’Essere include alla pari dimensione ideale e reale quasi senza alcuna differenza oltre ad essere comunque autentico solo se reale in quanto mondano [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982].
Ma qui Malebranche non si riferisce affatto all’essere mondano, bensì a quello divino (in quanto assolutamente paradigmatico, ossia essere per eccellenza). Solo Dio per lui è pienezza e paradigma dell’essere. E qui incidono nuovamente le differenze esistenti tra lui e Cartesio, specie nel concepire sia il pensare sé stesso da parte di Dio sia nel concepire la conoscenza umana di Dio. L’aspetto gnoseologico fondamentale della faccenda è la differenza esistente tra la conoscenza delle cose e la conoscenza di Dio – la prima richiede l’applicazione di un’idea (essenza) all’esistenza della cosa (indeterminata per definizione), mentre per la seconda non vi è semplicemente alcuna idea da applicare all’esistenza, per cui Dio viene conosciuto solo tramite quest’ultima. Pertanto noi apprendiamo solo “che Dio è” e non “cosa è”. Questo è senz’altro un limite della nostra mente, ma comunque esso va accettato pienamente ed umilmente.
Qualcosa di molto simile accade anche entro la conoscenza che Dio ha di sé stesso nel pensarsi – infatti per Malebranche l’idea che Dio ha di sé stesso non è mediata dalla rappresentazione ma unicamente dall’esistenza. È per questo che la natura di Dio consiste unicamente nell’esistenza. Ed è sempre per questo che Egli «è» (essenza) in primo luogo Essere – la sua essenza coincide totalmente con l’Essere.
A causa di tutto questo quindi, secondo Malebranche, lo stesso nostro pensare Dio rifluisce sempre immediatamente nella Sua esistenza. Cosa per cui non appena lo si pensa, Egli già è – “se lo si pensa, allora Egli è”. Insomma basta solo pensarlo (come accade ad esempio in preghiera) per essere immediatamente in Sua presenza. E questo è stato del resto affermato anche da Guardini nella sua riflessione sulla preghiera [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89]. Ma in termini filosofici ciò implica soprattutto l’indubitabile ed infallibile certezza circa l’esistenza di Dio; nonostante il fatto che Egli resti un radicale absconditus per i nostri sensi.
Non vi sono dunque affatto idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dall’uomo (l’idea che il singolo uomo ha di Dio). Cosa che invece oggi avviene ordinariamente entro la ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logico-critica dell’idea di Dio (spesso francamente distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Insomma ciò che Malebranche sottolinea è prevalentemente la primarietà ontologica dell’esistenza.
Insomma per lui l’ontologia si lascia riassumere totalmente nella primarietà dell’esistenza.
Proprio per questo tra la sua ontologia e quella neo-tomista di Maritain esiste una notevole parentela, dato che per entrambi i pensatori l’esistenza è in primo luogo “atto di esistere”.
La pienezza dell’esistenza viene espressa per lui esattamente da Dio ed esclude quindi qualunque altra dimensione dell’Essere. Per tale motivo egli ritiene che si conosce Dio non per la via di idee (concetti, rappresentazione), ossia per la via dell’essere ideale, ma invece solo per la via del più pieno essere possibile, ossia l’esistenza espressa al massimo grado.
Si potrebbe dire, quindi – sul piano propriamente religioso – che in fondo Malebranche sostiene che la conoscenza di Dio non è altro che l’esperienza del Dio vivo, e quindi la prima si riduce alla seconda. Il pensarlo, come abbiamo visto, è già essere in Sua presenza.
Con tutto ciò dobbiamo di nuovo tornare all’epistemologia che si riconferma intrecciata strettamente in Malebranche con l’ontologia. Infatti (come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti) quella del nostro pensatore è un’epistemologia (già di per sé molto speciale) che è strettamente connessa all’esistenza, e quindi alla necessaria realizzazione delle idee. Le quali sono quindi da considerare non forme vuote deputate alla conoscenza bensì invece molto più possibilità di essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 130-133]. Ecco che l’epistemologia di Malebranche si caratterizza in primo luogo per la sua indispensabile conciliazione con l’ontologia (e quindi per il realismo), il che corrisponde poi alla sua netta differenziazione (anti-cartesiana) tra essenza ed esistenza. Si tratta di ciò che abbiamo già visto prendendo atto della definizione delle idee come “super-essenziali”, in quanto esse rientrano molto più nell’ambito dell’esistenza che non in quello dell’essenza. Ed abbiamo visto anche che questo è un altro dei tratti fondamentali della differenza che lo divise da Cartesio.
Sempre in questa parte del testo di PM Rome sottolinea giustamente che tutto ciò evidenzia in Malebranche una forte tensione sussistente tra un’epistemologia molto tendenzialmente platonica (in quanto incentrata nella teoria delle idee) ed un forte realismo onto-metafisico configurato dall’importanza primaria concessa all’esistenza e quindi anche alla necessaria realizzazione delle idee.
Ed in tal modo ritorniamo ai tratti fondamentali di una gnoseologia e teoria della conoscenza, entro le quali alla percezione viene assegnato un ruolo di un certo valore ed inoltre la mente (il pensiero) viene considerata atta in primo luogo a conoscere le cose del mondo esteriore.
Insomma la percezione è per lui un vincolo ineluttabile, che rende la conoscenza radicalmente diversa dalla relazione riflessiva con sé stessi (l’introspezione concepita da Cartesio). Proprio a causa di questo vincolo per Malebranche non può esservi alcun fisiologico dubbio nel conoscere.
E questo perché (sempre a causa del vincolo della percezione entro la conoscenza) nel conoscere non si ha mai a che fare con la pura essenza ma sempre invece con il mondo creato esteriore.
Ecco che la visione in Dio (quale risorsa per salvare la conoscenza dallo scetticismo e dal relativismo) è connessa al fatto che per Malebranche è la Natura (e non invece l’uomo) la vera misura delle cose. Per tale motivo secondo lui Dio è da considerare una Ragione che è perennemente legata alle cose. Ed in tale contesto l’attenzione assume importanza decisiva insieme alla percezione e l’esperimento.
Inevitabilmente, così come l’epistemologia di Malebranche, anche la sua ontologia deve differenziarsi nettamente da altre ontologie, e specialmente da quella scolastica. Quest’ultima molto in generale si caratterizza infatti per le qualità attribuite agli oggetti, qualità che vengono considerate costituenti l’oggetto stesso in quanto esteriore e sensibile (per quanto comunque considerato intelligibile ossia concettualizzato). Di contro l’oggetto concepito dal nostro pensatore possiede un’onticità ideale che lo sottrae al mero regno del sensibile e lo colloca unicamente nel regno dell’”estensione intelligibile”. Sebbene non si debba dimenticare che Malebranche concepisce un mondo di relazioni matematiche sovrapposto alla mera percezione, il quale ci permette la conoscenza altrimenti inficiata irreparabilmente dal mutamento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299].
Inoltre l’ontologia di Malebranche convoca ovviamente anche l’occasionalismo con il concetto di Causa Sui del quale abbiamo già discusso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIc p. 135-139]. Infatti la differenza che lo divide da Cartesio a tale riguardo è incentrata esattamente nell’accento da lui posto sull’esistenza in luogo dell’essenza. Per Malebranche insomma Dio non è appena causa della propria esistenza (a partire dalla propria essenza), ma è invece l’esistenza stessa per eccellenza, ossia è molto più che causa della propria esistenza. È per tale motivo che Dio non è ultimamente nemmeno potere, ma è in primo luogo Essere. In particolare è un Essere assolutamente originario, che non riconosce dietro di sé alcuna causa giustificante. È insomma un Essere radicalmente auto-giustificato. E ciò ci riporta alla concezione dell’Essere che venne affermata da pensatori come Jaspers e Berdjaev. Presso i quali l’Essere è talmente radicalmente originario da porsi (specie in Jaspers) in un «oltre» per definizione intangibile, invisibile, irraggiungibile, innominabile e indefinibile (che poi è lo spazio della metafisica stessa), fino al punto da essere assolutamente non categorizzabile e quindi presentarsi (coerentemente) molto più come un’assenza che come una presenza.
Connesse con ciò sono tutte le considerazioni che abbiamo già fatto riguardo all’occasionalismo, e che quindi qui vanno qui solo completate. Infatti in il concetto di Dio-Causa è inscindibile da quello di Dio-Essere. Ed ecco quindi che l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (cioè il più perfetto che ci sia) domina su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo (in quanto Essere pieno ed originario) è stato Lui stesso a porre in essere il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti nemmeno esisterebbe). Pertanto in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Ed inoltre Malebranche sottolinea che (diversamente da Spinoza) non vi è nulla di necessario nella causalità divina, ossia non vi è nulla di ciò che si riscontra nella naturale connessione tra causa ed effetti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Non si tratta insomma di nulla che riguardi la causalità naturale. Ed ecco perché (come abbiamo visto discutendo l’occasionalismo) non possiamo prevedere assolutamente gli effetti della volontà, così come non possiamo in alcun modo dedurre a priori il mondo voluto da Dio. Ed infine (ancora più generalmente) non possiamo dedurre l’esistenza dall’essenza.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino a costituire la sua causalità senza per questo nemmeno aver bisogno del movimento) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza, tanto che (secondo il modello cartesiano: puramente gnoseologico e non realmente ontologico) pretendiamo di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza; ossia per la via di pura conoscenza e non di ontologia.
Uno degli aspetti centrali di tutto ciò è pertanto l’assoluta non necessità dell’atto creativo (libero atto d’amore che conferisce l’esistenza all’essenza, o “qualcosa”) e che proprio per questo non è per nulla intelligibile, ovvero non si sa assolutamente perché avviene [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201]. Ciò che distingue da Cartesio e Spinoza è in sintesi l’assenza totale di necessità (e quindi in qualche modo anche intelligibilità razionale di tipo matematico) nella sua complessiva visione: di Dio e della Natura. Dio infatti non è affatto causa in base al fenomeno della causalità naturale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, IVa p. 209-220]. Quindi non si tratta di azione ma invece di semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia l’esistenza stessa del mondo creato (essa è di per sé causalità). La causalità per Malebranche è insomma ben più essere che non invece attività.
In ogni caso la radice della visione del pensatore è il creazionismo opposto all’azione delle cause secondarie. Infatti la presenza divina nel mondo (ossia la sua natura di primario esistente) non è altro che la creazione stessa in quanto già portata a termine. Ed essa include quindi in sé (trascendendoli) tutti gli elementi propri della causalità naturale di tipo unilateralmente fisico: − azione, movimento, forza.
E ciò contraddice per Rome l’idea pagana di singole entità divine agenti (politeismo, spiriti della Natura). Ma contraddice anche l’idea cartesiana della causalità ritrovata nel nostro spirito (per mezzo dell’esame interiore introspettivo) come idea chiara e distinta. Cosa che non a caso sarebbe stata poi contestata da Hume in quanto affatto veridica – infatti la causalità non era per lui affatto un’idea chiara, ma era invece appena una confusa d oscura idea di natura inconsistentemente metafisica. A ciò avrebbe poi fatto da eco Kant nel dichiarare che l’idea di causalità non era affatto oggettivamente fisico-naturale ma era invece solo il prodotto della proiezione degli a priori mentali (totalmente soggettivi) sul mondo naturale. Ancora una volta, quindi – sebbene nel contesto di un pensiero sostanzialmente religioso –, Malebranche si mostra in questo anticipatore dell’empirismo del XVIII secolo.
5- L’intendimento del pensiero e dell’auto-conoscenza. La concezione del Sé.
In questo ambito ritroviamo un altro importantissimo elemento di comparazione tra Malebranche e Cartesio. E tale elemento riguarda in generale la dimensione interiore, o anche “Sé”, con l’inevitabilmente connessa auto-conoscenza o conoscenza interiore. Laddove questi sono tutti elementi di rilevanza primaria in Cartesio con la sua dottrina del «cogito».
Comunque – restando così (almeno in una certa misura) anche entro l’orbita della dottrina cartesiana − Malebranche intende il pensiero non come intelletto (puro pensiero) bensì invece come raccoglimento e comprensione e infine soprattutto “concezione” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I -II, p. 243-266]. Ed è evidente che la dimensione dell’intelletto o puro pensiero corrisponde integralmente in Cartesio al «cogito» (e più generalmente alla mente nella sua interezza, ossia a tutto ciò che è «mentale»). Con la conseguenza che quest’ultimo non può non comportare un dualismo, dato che il puro pensiero (con l’intera connessa dimensione soggettuale) non può non contrapporsi radicalmente all’essere (con l’intera connessa dimensione oggettuale). Ed infatti Rome specifica che per il pensatore il «cogito» è da considerare in primo luogo come un puro atto del soggetto (più che non realtà di coscienza).
Ella ritiene che però su questo specifico aspetto i due pensatori siano stati sostanzialmente d’accordo. Ma comunque viene da lei anche precisato che per Malebranche la mente è sostanzialmente “attenzione” più che “Io penso”, e quindi è qualcosa di ben più ampio che pura epistemologia e logica. Cosa che poi corrisponde all’esistere assolutamente primario della mente, ovvero alla dimensione esistenziale di quest’ultima.
Abbiamo già esaminato questi elementi nei paragrafi precedenti, ma vale la pena qui di soffermarsi di più sui dettagli della diversa visione di Cartesio e Malebranche.
In definitiva infatti Rome ci suggerisce che Malebranche contestò il fatto che Cartesio si aspettava decisamente troppo dal «cogito» in quanto puro pensiero capace di far nascere in sé gli oggetti stessi (secondo uno schema di onto-generazione causale che legava per lui il pensare all’esistere) e quindi anche come privilegiato metodo conoscitivo (posto al riparo dall’errore). Proprio per questo egli sosteneva in maniera estrema che la conoscenza della mente era per definizione migliore di quella del corpo. Rome sottolinea che in fondo anche per Malebranche il puro pensiero venne considerato l’essenza ultima della mente e dell’anima. Ma oltre a ciò egli ritenne il pensiero come spirituale soprattutto in quanto “sentimento interiore” (più che pensiero puro). Il che era l’effetto del fatto che in tutto questo egli attribuiva un valore e ruolo anche alla percezione. Insomma per lui il pensiero aveva anche una valenza percettiva, essendo connesso alla conoscenza reale degli oggetti. Proprio per questo per lui si trattava della mente esistente e non invece puramente essenziale (pensiero puro). Ecco quindi che Cartesio concepiva il «cogito» come un affermare sé stessi (corrispondente all’auto-evidenza delle verità entro il puro pensiero) che istituisce anche un’equivalente tra la mente stessa e i contenuti del suo puro pensare (verità matematiche: geometria). Insomma il pensiero era per Cartesio unito ed equivalente onticamente ai propri oggetti. Il triangolo era insomma la stessa cosa del pensiero puro. Malebranche invece li separò (separò cioè dal pensiero, ossia l’atto, i contenuti del pensiero). Ne consegue che per lui si delinea in tal modo un vero e proprio oggetto esteriore e quindi una quantità – si pensa sempre una quantità. Gli stessi principi matematici erano per lui vincolati ad una dimensione fisico-corporea (che è quella dell’esperimento ed anche della percezione).
Nello stesso tempo quindi per Malebranche la mente risultò inaccessibile al pensiero come idea distinta (come avviene nell’auto-conoscenza o conoscenza interiore). E pertanto essa finì per apparirgli come affatto meglio conoscibile del corpo
Nel complesso, quindi, per Malebranche, il «cogito» (e l’intero metodo di conoscenza cartesiano: esame interiore) era da considerare come non realizzabile e pertanto solo illusorio.
Pertanto per lui Cartesio ebbe torto nel considerare l’introspezione (priva di qualunque vincolante correlato esteriore) come l’unico luogo della verità. E con ciò, quindi, le qualità degli oggetto (concernenti sempre l’estensione) gli apparvero come primarie rispetto al puro pensiero, costringendolo quindi ad assumere una posizione empirista e realista accanto a quella idealista.
Appare quindi evidente che Malebranche – quando considera la dimensione interiore e quindi il Sé −, diversamente da Cartesio vede davanti a sé l’amplissimo ambito della mente (con tutte le sue funzioni naturali) più che non la dimensione sostanzialmente metafisico-gnoseologica del puro pensare. Ma a differenziare i pensatori non basta nemmeno questo, dato che il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, la “visione in Dio”, ha anche una franca dimensione di fede e quindi non è affatto solo gnoseologica ma è anche religiosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Essa fu infatti per lui anche la vera e propria unione a Dio. Insomma il conoscere le cose per mezzo delle idee presenti in Dio (gnoseologia) corrispondeva per lui anche all’unione fideistica a Dio, ossia alla penetrazione nella vita divina.
La visione ben più ampia della mente, che il nostro pensatore ha, si traduce soprattutto nell’affermazione dell’assenza di fatto (e quindi illusorietà) di quell’atto di auto-conoscenza che invece costituisce il nucleo stesso del «cogito» cartesiano. In luogo dell’auto-conoscenza egli riconosce infatti qualcosa di mentalmente ben più ampio come il “sentimento interiore”, il quale non è affatto piena conoscenza, contenendo anche un aspetto fortemente percettivo.
Insomma, ancora una volta, si ha l’impressione di ritrovare qui l’anticipo di alcuni aspetti della teoria husserliana della conoscenza, entro la quale – nel contesto del concetto di intenzione, di datità e pre-datità, e di momento pre-giudicativo della conoscenza– la dimensione conoscitiva sta fortemente in continuità con quella percettivo-corporea [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Introduzione, Mondadori, Milano 2008, II, I, I, 1-4 p. 441-448; Pedro MS Alves, Carlos Aurélio Morujão (trad), Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, II, Voll, I, I, § 11, 49-51, p. 68-71].
E tutto ciò ci riporta alla relazione tra spirito e volontà prima discussa, elemento dottrinario che poi porta con sé di nuovo la presunta migliore conoscenza della mente invece del corpo da parte di Cartesio. Il che sta ancora una volta in connessione con la negazione dell’auto-conoscenza da parte di Malebranche.
Oltre a tutto ciò, a moderazione dell’importanza del puro pensiero e dell’auto-conoscenza, sta ovviamente anche l’empirismo del nostro pensatore. Infatti Malebranche considerò sì fondamentali le nozioni primarie (trascendenti) ma le considerò intanto sempre da comprovare mediante l’esperimento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. In questo consiste quindi il suo sperimentalismo baconiano. E per questo, come sottolinea Rome, egli è estato considerato unilateralmente empirista (come Hume) da parte di diversi suoi interlocutori, sebbene questa sia un’affermazione troppo estrema.
Ebbene proprio in questo contesto si delinea entro la sua dottrina il sentimento interiore come conoscenza solo indiretta dell’anima (in sé invece impossibile quale piena introspezione) e quindi mediata inevitabilmente dalla conoscenza delle qualità sensibili degli oggetti esteriori. In altre parole per lui la mente può venire al massimo conosciuta per mezzo della percezione, al pari degli oggetti esteriori. Il che spazza via la conoscenza diretta ed incondizionata della mente concepita da Cartesio.
Secondo Rome, comunque, Malebranche risolse il problema dell’inconoscibilità della coscienza (non riconosciuta invece da Cartesio) sul piano gnoseologico-fideistico, cioè considerando meditazione e preghiera come un vero e proprio atto di cognizione-volizione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, III p. 267-278, VI, I p. 279-284]. Questo concetto va chiarito sulla base della sua discussione da parte della studiosa. Tutto si basa sul fatto che Cartesio attribuisce all’essenza una conoscibilità che si fonda sul fatto che essa sarebbe addirittura attività in concorrenza con l’esistenza (che per lui è invece assolutamente inconoscibile oltre che inerte). È per tale motivo che egli ritiene impensabile l’esistenza senza l’essenza che la genera e addirittura la muove. Ma Malebranche la pensa al proposito in modo del tutto opposto, ritenendo così l’essenza inconoscibile e l’esistenza invece pienamente conoscibile. Essa lo sarebbe in particolare in quanto coincidente con la nostra stessa vitalità (definita da Rome come “auto-esistenza”), che poi affonda le sue radici nello stesso Sé, ossia l’interiore. Il quale in tal modo finisce per lui per divenire equivalente all’esistenza stessa.
In particolare si tratta quindi del Sé quale auto-coscienza, ossia l’intensa e vitale relazione con noi stessi che noi per natura intratteniamo. E quindi solo come tale il Sé risulta conoscibile. Più precisamente però si tratta qui del fatto che la volontà si pone in concorrenza con la pura conoscenza, presentandosi come dotata di una capacità che quest’ultima non possiede affatto – tale capacità è quella di conoscere anche l’inconoscibile attraverso appunto il volere. Ed è esattamente questo che avverrebbe per Malebranche entro il volere la propria esistenza.
In ogni caso è proprio per questo motivo che egli postula una perfetta equivalenza tra l’oggetto dei sensi e quello della fede. È infatti per tale motivo che egli ritiene che siano le Scritture ciò che per davvero ci rivela l’esistenza di un mondo esteriore.
È evidente qui l’ascendenza agostiniana di questa complessiva dottrina. Ma viene anche il sospetto che in questo modo Malebranche abbia colto il vero senso del «cogito», che è ben più ontologico che non gnoseologico. Non a caso Agostino aveva precorso Cartesio proprio nel considerarlo per davvero come un «cogito-sum», ossia come la maggiore rivelazione possibile del nostro esistere.
E questo proprio a causa della volizione amorosa che ci lega a noi stessi.
In ogni caso proprio su questa base Malebranche negò il sussistere della materia, nel ritenere che, a descrivere il mondo, basta pienamente il concetto di esistenza.
Ecco insomma che di nuovo in Malebranche la dimensione gnoseologica e quella religiosa appaiono fortemente intrecciate.
Per tale motivo, secondo la studiosa, il nostro pensatore (nonostante il suo razionalismo) rientra in verità molto più nell’antica tradizione teologico-cristiana della prevalenza della fede sulla filosofia (ragione), e specialmente per il fatto che considera il mondo esteriore conoscibile non solo con i sensi ma anche per mezzo della Rivelazione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. In questo senso egli si fece quindi sostenitore di un vero e proprio realismo religioso.
Tutti quelli appena discussi sono però aspetti molto specifici della sua teoria della mente.
Più in generale invece, secondo Rome, il suo fu un rappresentazionalismo più favorevole alle idee che non ai sensi come facoltà conoscitive. In tale contesto si delinea pertanto un suo tendenziale idealismo che lo approssima fortemente a Berkeley.
Tutto ciò significa allora ancora una volta che il suo pensiero fu diviso tra idealismo e realismo.
Ma la tensione tra queste due tendenze venne in definitiva superata da quel valore a lui attribuito all’esistenza che attenua fortemente il suo idealismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284].
L’idealismo appare infatti essere (in via di principio) anti-religioso in quanto nega il mondo creato (oggetto) a favore della dimensione mentale soggettiva. Così il mondo diviene superfluo (oltre che inaccessibile) a contraddizione della fede religiosa. E ciò corrisponde peraltro alla presa di posizione di un moderno pensatore realista come Hessen – il quale contestò radicalmente ogni idealismo a favore di un pieno realismo, coinvolgendo nell’accusa all’idealismo l’intera metafisica cristiana di tipo scolastica in quanto dominata dall’intellettualismo di Aristotele [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955].
Del resto però la stessa visione religiosa di Malebranche finisce per dissolvere anche il suo realismo. Dato che egli non crede affatto in un mondo esteriore indipendente dall’azione divina in ogni suo minimo particolare (cosa che lo portò, come abbiamo visto, a negare l’esistere della materia). E con ciò egli diviene decisamente di nuovo un idealista.
Secondo l’Autrice domina comunque qui una sfiducia verso l’onticità del corpo a favore della mente, cosa che sicuramente riavvicina Malebranche a Cartesio (p. 281-282). Intanto comunque (a fronte di tutto ciò) Malebranche si presenta come pensatore davvero unico, in quanto egli (diversamente da Berkeley) conferì alle idee l’onticità di oggetto reale universale (come il Platone correttamente interpretato), e quindi sfuggì in tal modo all’immaterialismo (nominalista e concettualista) che è da sempre proprio dell’idealismo. A causa di tutto questo si può riaffermare che Malebranche è stato forse uno dei filosofi più originali mai vissuti. E questo a causa della sua forte imprevedibilità e inclassificabilità.
E in relazione a questo vale la pena di riprendere il concetto già discusso di “estensione intelligibile” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299]. Infatti proprio grazie ad esso possiamo meglio comprendere perché Malebranche pensi che le Scritture siano la migliore testimonianza dell’esistenza del mondo esteriore. Ciò è infatti vero perché l’estensione appare intelligibile nel pensiero del mondo che ha Dio. Ancora una volta quindi in tal modo la sua epistemologia appare inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presenta come una vera e propria filosofia religiosa più che invece come una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). L’estensione intelligibile non è quindi altro che una visione del mondo come estensione e corporeità. Ed esso è radicalmente diverso dalla relativa visiona cartesiana, secondo la quale queste ultime non sono altro che essenza, ossia qualcosa che sussiste solo entro il puro pensiero ed anzi proprio in esso vengono generate. Il che cancella totalmente il concetto di esistenza in quanto del tutto inconsistente e per nulla veridico, ossia al riparo da errore ed illusione.
Rome (p. 294) ci fa peraltro notare che si profila si nuovo qui un Malebranche idealista, mentre la Scolastica fu in verità realista ed anche in modo ingenuo. Infatti l’estensione intelligibile non è altro che una rilettura del mondo delle apparenze che interpreta l’oggetto come unicamente ideale, ovvero come idea (ossia come si presenta nel pensiero divino), e quindi del tutto al riparo dal divenire e quindi dalle conseguenti illusioni. Ebbene qui il pensiero di Malebranche vira decisamente verso l’idealismo, ritrovando in questo modo almeno una certa convergenza con l’essenzialismo di Cartesio. Infatti gli oggetti ideali (compresi nell’estensione intelligibile) non sono altro che quelle essenze universali che restano immutabilmente sé stesse, e sono quindi del tutto diversi dalle qualità dell’oggetto esteriore. Pertanto proprio in questa sede il pensatore può esprimere la sfiducia che gli nutre anche verso la percezione (nonostante il suo empirismo) – egli riconosce infatti che l’oggetto esistente non potrà mai venire davvero conosciuto se non si coglie intanto la sua essenza. E quindi qui anche l’accento da lui posto sull’esistenza diviene solo relativo. Si può dire quindi che il mondo esteriore è per lui indubitabile solo in quanto riconosciamo che esso esiste (“è”), ma non in quanto riconosciamo le essenze che determinano le cose in esso esistenti. Naturalmente quindi – entro la sua complessiva teoria della conoscenza − questa limitazione richiede il suo superamento mediante il ricorso alla dimensione intelligibile della conoscenza mediante a priori universali.
Questo quindi può venire considerato l’assetto (decisamente idealistico) della sua teoria della conoscenza una volta portata fino alle sue estreme conseguenze.
6- La teoria della percezione.
Dopo tutto ciò che si è detto, è già abbastanza chiaro com’è stata la dottrina della percezione di Malebranche. Ma comunque vale la pena di soffermarsi su come la descrive Rome.
Le cose si riassumono in effetti nella solita ambiguità delle sue idee. Infatti Malebranche teorizzò l’insufficienza della percezione insieme alla convinzione che i sensi ci rivelano comunque l’esistenza delle cose [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV p. 299-305]. E questo connota peraltro in modo decisamente positivo la sua teoria della conoscenza. Il che rende il nostro pensatore estremamente interessante in un contesto filosofico (iniziato al suo tempo proprio con Cartesio) che finì per teorizzare la problematicità della conoscenza, ossia la sua negatività di atto conoscitivo. Malebranche ritenne invece che noi conosciamo indubitabilmente ed efficientemente gli oggetti esteriori. Sebbene di primo acchito li conosciamo solo come esistenti, e solo dopo (per mezzo di un processo conoscitivo lungo e complesso) li conosciamo come essenze. E questo configura un realismo autentico (come abbiamo visto perfino di carattere religioso) che non si configura invece (nonostante le apparenze) nemmeno nella teoria della conoscenza scolastica.
Ed il motivo di ciò fu che tale realismo non fu mai unilaterale ma restò invece in costante equilibrio con l’idealismo. Proprio in questo senso Malebranche fu intensamente realista, sebbene (come abbiamo visto) l’idealismo non scomparve mai dall’orizzonte del suo pensiero ed anzi ne rappresentò il compimento ultimo.
Naturalmente − come Rome non manca di sottolineare (p. 303) e come risulta evidente anche da tutto ciò che abbiamo visto finora − la sua teoria della percezione è alquanto ambigua. Ma lo è del tutto a ragione. In primo luogo perché dall’altro lato vi è la sua teoria delle idee ed anche la sua più matura teoria della conoscenza (entro le quali la percezione viene decisamente svalutata). E tuttavia, secondo la studiosa, va sottolineato che il suo “rappresentazionalismo” (idee) è stato non poco esagerato e forzato dai suoi interpreti (venendo concepito in maniera troppo letterale) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. E tale affermazione cade proprio a proposito dell’idea di Malebranche secondo la quale le Scritture sono la vera prova del mondo esteriore, con la conseguente convergenza tra sensi e fede. Insomma il pensiero di Malebranche – oltre che come empirismo − è stato anche illegittimamente interpretato come un internalismo che elimina qualunque esternalismo. Va comunque sottolineato che per il pensatore (dato che per lui la percezione non è affatto cognizione) non vi è alcuna possibilità di prova reale e naturale del mondo esteriore dei sensi (e per questo ricorre all’autorità delle Scritture) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V p. 305-310]. E questo sembra contraddire radicalmente il suo empirismo. In effetti però tutto si chiarisce laddove egli (come Bergson) afferma la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIa p. 310-313], entrando così in radicale conflitto con Cartesio.
In altre parole si può dire che il pensiero di Malebranche è stato scorrettamente interpretato sia nell’esagerare il suo realismo sia nell’esagerare il suo idealismo.
Malebranche fu comunque davvero decisamente anti-empirista (come abbiamo già visto discutendo la sua ontologia) nel rigettare totalmente la credenza nel mondo esteriore quale grossolano errore che secondo lui fu tipico della filosofia scolastica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. In questo però egli afferma (come abbiamo visto) l’unità di Fede e Ragione. È infatti proprio la Fede ciò che gli permette di controbattere l’errore del radicale esteriorismo di tipo ingenuo della Scolastica (la quale secondo lui si rifece più all’intellettualismo metafisico di Aristotele che non alla Rivelazione cristiana).
In aggiunta a ciò egli contempla addirittura esplicitamente una conoscenza dei misteri cristiani che rientri nella conoscenza di Dio (p. 320-321). Siamo in tal modo decisamente nel campo del non conoscibile (assenza di apprensione) e dell’irrazionale. E però siamo comunque ancora in campo gnoseologico perché questo è lo stesso ambito della visione in Dio delle cose esteriori.
Tuttavia (come abbiamo già visto più volte e come vedremo ancora a proposito della metafisica) vi sono anche luoghi del pensiero di Malebranche nei quali il suo empirismo e sperimentalismo emerge in modo prepotente suggerendo così interpretazioni del tutto contrarie [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317].
7- La metafisica di Malebranche.
La caratterizzazione della metafisica di Malebranche è in verità l’aspetto più rilevante di questa recensione – specie nel rispondere alla domanda circa la sua appartenenza reale (o meno) alla metafisica razionalistica del suo tempo. Per tale motivo questo tema ha attraversato già questa nostra intera trattazione. Quello che diremo qui è pertanto solo la puntualizzazione di alcuni aspetti specifici del tema.
Abbiamo già parlato diverse volte del modo in cui Rome inquadra la metafisica di Malebranche.
Ma comunque l’aspetto più rilevante della sua visione sembra essere il fatto che, non considerando Dio come essenza bensì invece come essere, il suo pensiero sfugge (almeno in via di principio) ai caratteri generali della metafisica razionalistica del proprio tempo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. La studiosa lo dice con estrema chiarezza (nel discutere la dottrina dell’occasionalismo), affermando che egli è stato uno dei pochissimi pensatori del suo tempo che non abbia considerato Dio come essenza. Ad esempio è pura essenza il Dio di Cartesio e Spinoza.
E tutto ciò è estremamente significativo, perché mostra in Malebranche la forza di pensare in maniera fortemente contro-corrente.
In questo suo pensare estremamente originale si rivelano quindi essenziali la dimensione dell’Essere in generale (ontologia), dell’Essere divino e quella della sua capacità di creare.
Peraltro proprio a tale proposito possiamo comprendere meglio quale sia il ruolo e compiuto della metafisica presso Malebranche: − essa è strettamente connessa con la Fisica grazie al ricorso a Dio come Causa e come Essere. Non a caso, come abbiamo già accennato, Rome chiarisce che in Malebranche l’occasionalismo (così come anche la teoria delle idee) costituisce in primo luogo una metafisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. Insomma esso non è altro che la dottrina creazionista applicata alla Fisica.
E dunque possiamo registrare il fatto che il pensatore sostiene per davvero una metafisica razionalista (la Fisica stessa) anche nel constatare la presenza dinamica di Dio negli eventi, ossia nel fare più teologia che non scienza. Tuttavia l’Autrice sottolinea che, nell’intendimento di Malebranche, ciò è qualcosa che va ben oltre la Rivelazione e quindi non manca di essere propriamente filosofico. Come abbiamo visto a proposito dell’occasionalismo, si tratta comunque di una dottrina fortemente razionalistica incentrata sul concetto di Dio-Causa.
E a tale proposito abbiamo constatato anche le differenze che separano la metafisica del nostro pensatore da quella della Scolastica ed anche di Suarez.
Per quanto possa sembrare paradossale, con questo concorda fortemente anche il già commentato empirismo di Malebranche [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317]. In questa sede di PM, infatti, abbiamo una sintesi degli elementi che comunque configurano una metafisica razionalistica anche in Malebranche. Presso il quale (diversamente da Cartesio) essa ha però sempre un risvolto empirista e sperimentale, quindi non prescinde mai dall’esperienza, e pertanto è sempre realista oltre che idealista. La parte idealista è rappresentata dalla primarietà dei principi razionali trascendenti. Ed in tale contesto si colloca anche un realismo criticista simile a quello del XX secolo: − ossia la dichiarazione dell’inesistenza di oggetti illusori.
Conclusioni.
Abbiamo appena discusso quello che a nostro avviso è il tema centrale nello studio del pensiero di Malebranche, ossia la sua appartenenza o meno alla metafisica razionalistica. Ma in queste conclusioni vorremmo cercare di pervenire ad una definizione ultimativa e chiara di questo tema.
Prima di fare questo vorremmo però evidenziare quelle che possono venire considerate le coordinate principali di questo pensiero così come sono emerse mediante l’analisi di PM. In ogni caso ci riferiamo con ciò in particolare alle coordinate di quella stessa metafisica razionalista nella quale il pensatore in particolare si riconobbe. In qualche misura l’esposizione di tali coordinate può venire considerato anche una sorta di sunto del pensiero di Malebranche.
Volendo previamente riassumere questi tratti portanti del suo pensiero si può dire che egli non ebbe affatto come propria principale preoccupazione la sola rigorosa razionalità della metafisica ma invece anche ben altri suoi caratteri. Che a volte addirittura divergono dalla rigorosa razionalità.
Ecco dunque le coordinate principali del suo pensiero.
Non vi è dubbio che nel pensiero di Malebranche (e precisamente entro la sua teoria della conoscenza) sia presente un empirismo addirittura sperimentalista (che conferisce ovviamente alla percezione il valore che ad esso spetta), ma comunque sempre assistito dalla deduzione a partire dai principi razionali a priori e dunque intelligibili. Filosoficamente quindi il nostro pensatore rientra almeno in parte nella sfera dell’esteriorismo empirista e non in quella dell’interiorismo cartesiano. E tuttavia va precisato che il suo pensiero sfugge decisamente allo sperimentalismo baconiano dato che esso non tollerò nemmeno la minima dose di apriorismo e quindi di deduzione. In ogni caso la teoria delle idee di Malebranche (idea come vero oggetto della conoscenza) resta il campo di una teoria della conoscenza che nel suo nucleo è primariamente idealista.
Malebranche si differenziò comunque dall’idealismo di Cartesio rispetto alla concezione degli oggetti come estensione, e precisamente l’estensione concepita da Dio trascendentemente e fin dalle origini (prima ancora della creazione) in quanto puro pensiero. E tale concezione vedeva gli oggetti come essenza e non come esistenza, e dunque li collocava in primo luogo nella sfera del pensiero (come intelligibili) e non in quella del mondo esteriore. Il nostro pensatore prestò invece sempre fede ad un originario mondo di esistenti (le cose reali) e non di essenze intelligibili. Sebbene abbiamo visto che questa credenza ebbe precisi limiti, come ricorderemo più avanti.
Nel complesso, entro l’occasionalismo, anche Malebranche espresse l’esigenza della metafisica razionalista in generale di dar conto di un mondo perfetto in quanto creato da Dio secondo rigorosissimi ed infallibili principi matematici. Ed in questo quindi egli si riconobbe nelle stesse idee che furono di Cartesio, Leibniz ed altri (tra i quali anche Spinoza).
Malebranche si discostò però da questa metafisica razionalista sempre nel contesto dello stesso occasionalismo. Il che avvenne soprattutto per mezzo di due obiezioni critiche: − 1) la contestazione del concetto cartesiano di Causa Sui, secondo il quale Dio (in quanto primariamente essenza) era causa della propria esistenza tanto quanto era un’essenza puramente a priori che generava l’esistenza; 2) la contestazione del concetto ordinario e ingenuo di causalità. In tal modo, alla fine dei conti, l’occasionalismo smentì la teodicea razionalista affermatasi con l’essenzialismo sia di Cartesio che di Leibniz. Il quale soprattutto pretendeva di dedurre le caratteristiche del mondo (specie la sua perfezione) dalla conoscenza dell’essenza divina in quanto invariabile volontà di bene (ecco l’idea leibniziana del «migliore di mondi possibili»). Il particolare si trattava di una perfezione razionale del mondo che però si manifestava più a priori che non a posteriori, e quindi trascurava colpevolmente (come insignificante) l’evidente imperfezione del mondo esistente. Quello che veniva concepito era insomma più che altro un mondo ideale (reso perfetto dalla sua adesione ai principi matematici) che, poi, in relazione all’arbitraria volontà divina, trovava la propria migliore realizzazione possibile nel mondo immanente. Anche Malebranche credette di certo ai principi matematici come criteri di perfezione del mondo, ma nello stesso tempo collocò il loro agire nell’immanenza del mondo esistente, ossia nel mondo governato dalle leggi studiate dalla Fisica. E quindi fu pienamente consapevole della loro relatività.
Assolutamente esemplare (specie per la sua grande originalità) è in ogni caso la teoria della conoscenza di Malebranche, che invoca la conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio (“visione in Dio”) – avendo inoltre perfino una dimensione fideistico-religiosa e mistica.
In via di principio essa si presta pertanto a rientrare entro la classica metafisica razionalista del tempo, che di certo non si negò mai al possesso di un risvolto religioso (sia pure molto vago).
Ma nello stesso tempo questa dottrina sfugge all’unilaterale apriorismo cartesiano, e quindi tiene in debito conto anche il ruolo della percezione. In particolare essa sfugge dunque sia all’idealismo che al realismo. E proprio per questo (cioè non soggiacendo alle esigenze unilaterali né dell’idealismo né del realismo) ci permette la conoscenza del vero oggetto, ossia quell’oggetto intelligibile che comunque (come vedremo) è assolutamente ontico. Ci troviamo così di fronte ad una sorta di idealismo equilibrato e ragionevole, che in qualche modo anticipa le aspirazioni (sia di Kant che di Husserl) ad un realismo che resti al riparo dalla postulazione metafisica di oggetti irreali. In questo senso quindi la teoria della conoscenza di Malebranche è davvero esemplare. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva del pensatore appare essere ben più equilibrata e ragionevole rispetto a quella degli altri esponenti della metafisica razionalistica, e quindi risulta per davvero del tutto esemplare. Anche perché essa – ben più della restante metafisica razionalista − concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben fondato (certamente molto più di quello tomistico-scolastico in quanto affatto dogmatico). In questo senso, quindi, essa fu molto più apertamente ed autenticamente religiosa della restante metafisica del tempo.
L’epistemologia di Malebranche (incentrata sulla destinazione all’esistenza, invece che all’essenza, da parte delle idee) ci mostra del resto che il vero razionalista metafisico fu Cartesio e non lui. Questo suo intendimento delle idee infatti è strettamente legato all’intendimento di Dio come Essere (ossia come il “Colui che è” dell’Esodo biblico), e non invece come Colui che genera il mondo già nel semplice atto di pensarsi. Con Malebranche l’epistemologia assunse pertanto un deciso volto ontologico. E questo è l’aspetto più originale ed interessante del suo pensiero in uno scenario in cui proprio la metafisica razionalista stava lasciando affermare la prima del tutto a scapito della seconda, anticipando così un’evoluzione che si sarebbe sempre più rafforzata nei secoli successivi.
In particolare nel suo pensiero, grazie alla netta definizione dell’essere (ontologia) e dell’Essere divino, non vi sono per nulla idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dai singoli uomini. Cosa che però oggi avviene ordinariamente entro quella ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logica-critica dell’idea di Dio (spesso anche distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Abbiamo anche notato più volte che le prese di posizione (gnoseologiche ed ontologiche) di Malebranche si offrono come modello per rivedere criticamente alcuni sviluppi recenti della filosofia (specie in relazione alla Fenomenologia di Husserl). Per esempio l’affermazione di una necessaria conoscenza induttiva (che parta dalle cose esistenti per pervenire al mondo trascendente delle essenze intelligibili) sembra correggere validamente la dottrina husserliana della ricerca fenomenologica puramente immanente circa le essenze mondane.
Nel contraddire poi la causalità naturale e necessaria di Spinoza (entro il concetto di Dio-Causa) Malebranche contraddice l’idea pagana di singole entità divine agenti nel mondo (politeismo, spiriti della Natura). Ed in tal modo adombra anche (sebbene in un altro ambito) la dottrina empirista di Hume, secondo la quale (diversamente da Cartesio) la causalità non sarebbe affatto un’idea chiara e distinta, ma invece solo una confusa idea metafisica. Il che anticipa poi anche l’idea di Kant, secondo la quale la causalità stessa non era altro che appena proiezione degli a priori mentali sulla Natura.
Nel complesso quindi il genio di Malebranche si presenta come capace non solo di anticipare sviluppi ulteriori della filosofia ma anche di porre le loro più corrette basi.
In ogni caso uno degli aspetti principali del suo complessivo pensiero fu la critica molto severa da lui rivolta al «cogito» cartesiano quale presunto unico luogo di conoscenza veridica nel contesto dell’introspezione (quale perfetto metodo di purificazione della conoscenza e più in generale della Ragione). E questo perché per lui al puro pensiero andava sempre associata anche la percezione, ossia l’ambito dell’esperienza sensibile. Il che si basava poi sulla distinzione tra il pensiero come atto ed i suoi contenuti (nei quali interveniva necessariamente la percezione di oggetti reali esteriori), laddove invece Cartesio li ritenne una sola cosa. Per tale motivo il nostro pensatore ritenne il puro pensiero necessariamente legato alla conoscenza degli oggetti esteriori, e quindi lo ritenne incapace di configurare veri oggetti per mezzo del semplice ripiegandosi su sé stesso (ossia nl contesto di quell’”epochè” che poi in Kant darebbe divenuta la “riduzione trascendentale” ed in Husserl la “riduzione fenomenologica”).
Nel complesso, quindi, il metodo del «cogito» (consistente nella pura introspezione) apparve a Malebranche come vano e fallimentare, e dunque del tutto inservibile. Cosa che poi confuta in maniera piuttosto forte i fondamenti stessi del moderno idealismo.
Orbene, dato che la dottrina cartesiana del «cogito» fu una metafisica applicata all’interiorità soggettuale (dominata a sua volta dalla più rigorosa razionalità), è evidente che anche solo questa critica di Malebranche pone il suo pensiero abbastanza ai margini della metafisica razionalista del suo tempo. Laddove quest’ultima si rivela essere stata molto unilateralmente (e quindi scompostamente) idealista.
Del resto uno dei principali aspetti che distinse il nostro pensatore da Cartesio fu la sua attribuzione di un’effettiva onticità all’universale, e quindi alla sfera delle essenze e delle idee in quanto espressione dell’”è” della cosa. In altre parole le idee per lui non rappresentavano affatto la cosa esteriore ma invece la incarnavano letteralmente – l’idea era per lui la cosa stessa. E fu per questo che, a suo avviso, per una conoscenza affidabile e veridica, non bastavano affatto le idee chiare e distinte (ma unicamente astratte) alle quali Cartesio aspirava. Era invece necessaria la conoscenza di una vera e propria cosa – che essa fosse trascendente ed intelligibile oppure immanente e sensibile. Per tale motivo egli affermò sì l’incontestabile esistenza del mondo esteriore, ma precisò anche che essa si verificava nel contesto di una “rivelazione naturale” che riguardava unicamente l’esistenza delle cose (e dunque un aspetto gnoseologicamente molto limitato) ma non la loro essenza. Cosa che secondo lui non poteva venire assolutamente trascurata. Tutto questo sta poi in relazione con l’abolizione di ogni problematicità della conoscenza sulla base della teoria della conoscenza di Malebranche (aspetto che abbiamo posto più volte in luce nell’analisi di PM). In particolare a tale riguardo egli affermò con forza il legame inscindibile esistente tra spirito e sensi ed inoltre tra spirito (dunque pensiero) e volontà − ossia in ultima analisi con gli oggetti esteriori, i quali per lui vengono molto più vitalmente voluti che non invece conosciuti (confutando così frontalmente la disconnessione tra tali elementi che era stata ipotizzata entro il dualismo cartesiano). Il che concorda poi con il fatto che egli postulò (anticipando così Bergson) la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente. In ogni caso, comunque, egli non si lasciò mai coinvolgere nella teoria più elementare e ingenua della percezione (che è stata da sempre condivisa dall’uomo comune e dalla fisiologia scientifica, ma in fondo si era presentata anche entro la dottrina scolastica delle forme sensibili), secondo la quale realmente le qualità degli oggetti esteriori ecciterebbero i sensi trasformandosi poi immediatamente in rappresentazioni e concetti, e quindi in tal modo si rivelerebbero al soggetto conoscente. Egli precisò invece che il momento principale della percezione era costituito dalle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi. Ed in tal modo postulò la necessità di un aggiuntivo momento interiore che doveva integrare quello meramente esteriore. Proprio su questa base egli ipotizzò che l’idea fosse presente già entro la percezione, venendo così colta da facoltà mentali diverse dal pensiero puro (in quanto prossime alla percezione stessa), ossia attenzione e concentrazione. E con questo egli sembra nuovamente anticipare il concetto husserliano di «intenzione».
Ebbene tutto ciò viene ulteriormente rafforzato e chiarito dalla sua elaborazione del concetto di “estensione intelligibile”. Che di fatto fu la rilettura dell’indubitabilità del mondo esteriore alla luce del punto di vista costituito dal pensiero divino del mondo stesso. Tale concetto ci mostra ancora una volta come la sua epistemologia fu inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presentò come una vera e propria filosofia religiosa più che come invece una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). Tuttavia proprio in questo ambito la teoria della conoscenza di Malebranche (una volta portata fino alle sue estreme conseguenze) diviene decisamente di nuovo idealista, in quanto riconosce la decisiva importanza del ricorso alle essenze intelligibili trascendenti (uniche capaci di rivelarci l’”è” della cosa) in concorrenza con la percezione che ci rivela invece appena l’esistenza del mondo e delle cose in esso contenute. In questo senso il suo idealismo (nonostante la concomitanza di un solido realismo) deve assolutamente venire considerare il compimento ultimo del suo pensiero. Bisogna però considerare anche che questo suo idealismo sbiadisce laddove egli considera l’esistenza (come abbiamo già visto) come qualcosa che viene più voluto che non conosciuto, e quindi può venire conosciuta indipendentemente da qualunque essenza. Qui infatti il realismo prevale di nuovo. A ciò va aggiunto inoltre che la vera conoscenza del mondo non consisté per Malebranche né nella conoscenza dell’estensione in quanto esistente né nella conoscenza delle cose reali, ma invece nella conoscenza delle relazioni matematiche che legavano le cose. Il che poi rientra nel carattere più generale della sua gnoseologia, secondo la quale il vero oggetto di conoscenza era l’idea e non la cosa.
Nel complesso ci sembra che il realismo costantemente in equilibrio con l’idealismo – che è uno degli aspetti più tipici del suo pensiero – sta esemplarmente a dimostrare che la filosofia non ha affatto bisogno di queste prese di posizioni estremistiche ed in conflitto tra loro, ma ha invece bisogno di una conciliazione tra esse, che è poi l’unica in grado di esprimere l’estrema complessità (specialmente metafisica) dell’Essere. E ciò trova peraltro un preciso riscontro nella moderna ontologia di Hartmann, secondo il quale è totalmente assurdo contrapporre essere ideale (idealismo) ed essere reale (realismo).
Possiamo dunque dire che, in questa sfera di idee di Malebranche, la concomitante metafisica razionalista del tempo si riaffaccia di nuovo sebbene in un modo che è fortemente condizionato da tutte le premesse (di diverso senso) che abbiamo appena discusso. E quindi non si presenta affatto nelle forme che assunse in altri pensatori.
Una di queste premesse è senz’altro quella del forte legame della metafisica alla fede, a sua volta legata ben più al Dio della Rivelazione che non a quello della pura Ragione. E questo conferma quindi che, anche laddove il pensiero di Malebranche sembra rientrare comunque entro la concomitante metafisica religiosa, ciò avviene soltanto nella forma di un’autentica e forte filosofia religiosa. Il che viene fortemente supportato da Rome, la quale afferma che il pensiero di Malebranche rientra in effetti propriamente nella grande tradizione della filosofia cristiana che sostenne la perfetta conciliazione tra Fede e Ragione. E questo certamente non fu un elemento proprio della metafisica razionalista del tempo. Pertanto questo è forse l’aspetto che caratterizza in modo più specifico la metafisica razionalista del nostro pensatore. Laddove poi tale impressione viene ulteriormente rafforzata nel constatare che egli concepì esplicitamente la possibilità e liceità della conoscenza dei misteri cristiani, ossia di qualcosa che sfugge totalmente sia alla razionalità sia perfino alla conoscibilità stessa. Oltre a ciò, come abbiamo visto, questa metafisica religiosa fu capace di dar vita ad un realismo religioso estremamente ben fondato che sfuggiva alle contraddizioni di quello scolastico. E proprio tale elemento di pensiero si offre oggi al pensatore religioso come una risorsa di enorme valore, dato che attualmente il realismo è invece unicamente ateo e scientista.
Oltre a ciò il tratto caratterizzante di forse maggiore valore del pensiero di Malebranche è quello di aver dato vita non solo ad un’epistemologia in equilibrio con l’ontologia (che non ha pari nel pensiero moderno) ma anche ad un’ontologia estremamente paradigmatica, che si presta quindi a fungere da metro di paragone di tutte le ontologie del pensiero umano (quelle antiche e quelle moderne). E in tale aspetto domina decisamente la convinzione di Malebranche secondo la quale la creazione divina è integralmente ontologica e non invece intellettuale come secondo Cartesio.
Essa insomma non crea solo apparenti idee di cose (in quanto puro pensiero) ma invece crea effettive e reali idee di cose (del tutto svincolate dal pensiero), ossia delle vere e proprie possibilità di essere. E ciò sta inoltre in relazione con il fatto che per lui Dio è integralmente Essere e non Pensiero, e quindi non è in alcun modo essere ideale ma invece è solo e soltanto essere reale, ossia esistenza. Proprio questo complessivo tratto dottrinario si presta secondo noi a costituire il paradigmatico metro di paragone per la pienezza ed autenticità di altre ontologie.
L’altro aspetto estremamente caratterizzante il pensiero di Malebranche è poi quello dell’esclusione da parte sua di qualunque problematicità della conoscenza. Il che fa di esso una risorsa di non poco conto in quello scenario filosofico post-moderno nel quale lo scetticismo generato da questa presunzione si è infine trasformato in una umiliante schiavitù della filosofia alla scienza empirica.
Infine ultimo aspetto caratterizzante Malebranche è la teoria della percezione come elemento indispensabile della conoscenza del mondo esteriore, ma solo rispetto all’esistenza e non rispetto all’essenza delle cose. E questo aspetto è estremamente interessante in quanto coniuga in maniera pressoché perfetta il realismo empirista con l’idealismo, permettendoci in tal modo di chiudere il cerchio delle eterne opposizioni che hanno nel tempo dilaniato la filosofia. Anche in questo senso quindi Malebranche si staglia sull’intero pensiero umano a causa di una visione che sembra non voler rientrare in alcuna vincolante scuola di pensiero. Ed in questo rientra senz’altro anche la concomitante dottrina della metafisica razionalista con tutta la sua insufficienza.
In estrema sintesi diremmo quindi che, per una svariatissima serie di motivi, lo studio del pensiero di Malebranche è ancora oggi estremamente utile e fruttuoso. E perché questo sia possibile basta guardare sotto le apparenze che invece a prima vista suggeriscono una piena appartenenza del pensatore a quella metafisica razionalista che ormai non solo non ha più alcuna attualità nello scenario filosofico ma inoltre non ha assolutamente retto ad una quantità enorme di critiche demolitorie. Non a caso nella più recente ricerca scientifico-religiosa della teologia si ripresentano ancora in maniera assolutamente insostenibile aspetti della teodicea che rappresentò uno dei suoi nuclei più forti.