Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘RECENSIONI’ Category

(*) Dottore di ricerca in filosofia presso la FLUL di Lisbona.

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Nonostante le perplessità sospettose e critiche su Malebranche che avevamo espresso nei nostri ultimi scritti al riguardo e pubblicati anche su Academia Edu [Vincenzo Nuzzo, “Recensione: un’immagine critica di Malebranche come metafisico, filosofo, teologo e uomo religioso”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ > ; Vincenzo Nuzzo, “Definizione, legittimità e limiti di un’autentica filosofia religiosa. Bonaventura a confronto con Malebranche, Habermas e i pensatori tradizionalisti”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com/2023/06/17/recensione-unimmagine-critica-di-malebranche-come-metafisico-filosofo-teologo-e-uomo-religioso/ >; Vincenzo Nuzzo, “La gnoseologia di Malebranche e il nuovo paradigma conoscitivo onto-metafisico nelle science empiriche (Wolfgang Smith)”, Il Corriere Metapolitico, 2024 (in via di pubblicazione)], la lettura Beatrice K. Rome dal titolo “The philosophy of Malebranche” (PM) [Beatrice K. Rome (a cura di), The Philosophy of Malebranche. A study of his integration of faith, reason and experimental observation, Henry Regnery Company, Chicago 1963] ci ha permesso di vedere il nostro pensatore sotto una luce molto diversa. In questa luce egli è apparso infatti come uno dei più originali e geniali filosofi del suo tempo (quello in cui dominò la metafisica razionalistica con vertice in Leibniz) e forse anche dell’intero pensiero umano. E vedremo poi che l’originalità filosofica di Malebranche consiste in particolare nella simultaneità in lui di un’epistemologia platonica (essenza) con un’onto-metafisica realista (esistenza) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIab p. 129-139]. Insomma Dio non è per lui affatto il puro intelligibile di Platone (anche se contiene le idee necessarie per conoscere) perché Egli è in primo luogo Essere. Pertanto Egli è la “Pura Ragione” (la fonte primaria dell’intelligibilità) soltanto nella misura in cui è il Dio-Essere per eccellenza. E cioè null’altro che quel “Colui che è” dell’Esodo biblico, a sua volta corrispondente all’”Io sono Colui che sono”, che non a caso i più forti pensatori cristiani (come ad esempio Agostino ed Eckhart) avevano posto al centro del loro pensiero.
In generale per il pensatore (così come per tutto il pensiero cristiano a differenza di Platone ed anche di Aristotele) l’Essere non può venire ridotto al Pensiero.
Ma l’originalità di Malebranche non consiste affatto solo in questo, dato che la sua visione è talmente eterogenea da finire per apparire in molti aspetti addirittura ambigua e contraddittoria.
E comunque essa è fortemente oscillante. Cosa che può venire considerata anche un demerito, ma intuitivamente ha molto più l’aspetto di un’originalità consistente nella mancata adesione del pensatore a rigide scuole di pensiero. E va detto che nel suo caso la scuola di pensiero primaria è quella della metafisica razionalista che ebbe come principali esponenti Cartesio e Leibniz. A causa di ciò dal pensiero di Malebranche c’è da imparare molto più di quanto sia prevedibile in base ai caratteri generali della metafisica razionalista.
Il grande merito dello studio di Rome è dunque proprio quello di mostrarci questa evidenza. Il che avviene poi nell’evidenziare gli elementi emergenti soprattutto dal confronto del pensatore prima di tutto con Cartesio ma anche con molti altri suoi interlocutori (diretti e indiretti), critici ed anche affini del suo tempo (tra i quali Church, Arnauld, Régis, Leibniz, Hobbes, Hume. Bacone, Berkeley, Spinoza). Sono molto utili anche i commenti su Malebranche che la studiosa riporta da Gilson (quale rappresentante del pensiero tomista). Non a caso, infatti, Malebranche si rivela in PM anche come uno dei più forti pensatori cristiani che abbiano mai operato in filosofia. E questo contraddice gran parte delle critiche che gli avevamo rivolto nella nostra precedente recensione. Queste nostre critiche negavano infatti al pensatore lo status di rappresentante di una metafisica davvero religiosa, per cui egli restava rappresentante di una metafisica razionalistica nella quale Dio aveva unicamente una valenza gnoseologica – ossia incarnava unicamente la suprema Ragione. Evidentemente quindi la sua metafisica non fu affatto solo razionalista ma ebbe anche aspetti intensamente religiosi. E quindi essa, a causa di ciò, si pone abbastanza al di fuori dei caratteri della complessiva scuola di pensiero alla quale egli appartenne entro la storia della filosofia.
Su questa complessiva base cercheremo ora di riassumere i contenuti e gli elementi di valore che caratterizzano il pensiero di Malebranche una volta osservato da un punto di visto come quello di Rome. Ma dobbiamo preliminarmente chiarire che (entro questa recensione) il nostro principale obiettivo di ricerca è lo stesso di quello degli studi che abbiamo condotto finora su Malenbranche, e cioè comprendere bene il suo inquadramento in quella metafisica razionalista del suo tempo che oggettivamente si presenta con i caratteri di una solo apparente metafisica religiosa.

1- Malebranche e Cartesio. I caratteri generali del pensiero di Malebranche e la sua epistemologia o teoria della conoscenza.
Uno dei principali meriti di Rome (PM) è quello di porre a confronto i due filosofi mostrandoci come tra di loro vi siano state grandi convergenze e grandi divergenze allo stesso tempo. E con ciò possiamo riconoscere anche alcuni tra i caratteri più generali del pensiero di Malebranche.
Peraltro il più rilevante di tali caratteri (nettamente distintivo rispetto a Cartesio) è che per lui Dio è la Ragione stessa ma non è invece affatto l’Idea (Pensiero), bensì è l’Essere per eccellenza.
Il che ha immediatamente un grande significato, dato che il pensiero di Malebranche si pone nel solco dell’ontologia più che non nel solco della gnoseologia. Con la conseguenza che la sua appartenenza alla metafisica religiosa appare molto meno intensa di quella di altri pensatori del tempo.
Tuttavia Rome ci mostra per questo anche alcuni ben precisi motivi filosofico-dottrinari che lo giustificano. Uno di questi, come abbiamo appena detto, è che la filosofia di Malebranche sembra a prima vista un’epistemologia (come quella di Cartesio), ma poi, a ben guardare, appare essere soprattutto un’ontologia. E quindi – più che rientrare nei limiti della metafisica razionalista − si presta a venire fruttuosamente confrontata con un serie di altre ontologie antiche e moderne. Anzi addirittura si presenta come un metro di paragone paradigmatico per tali ontologie.
E questo può venire considerato lo spunto più rilevante per la comprensione di Malebranche che lo studio di Rome ci consente. Il problema al proposito è anche che il pensatore oscilla fortemente tra l’idealismo (in parte cartesiano ed in parte platonico) ed il realismo, sfuggendo però all’identificazione con entrambi. E questo, come abbiamo già visto, è forse l’aspetto più stupefacente, creativo ed originale di tutto il suo pensiero. Addirittura infatti molte volte la sua dottrina sfiora l’idealismo estremista di Berkeley. Alla fine dei conti comunque si può e di deve dire che la filosofia di Malebranche è di fatto in primo luogo realista sebbene con forti punte di idealismo. È su questa base che la sua metafisica resta in concordanza con l’ontologia cristiana, a sua volta giustificante il riferimento obbligato al mondo creato come luogo di esperienza probante. Almeno in una certa misura si tratta insomma di una visione filosofica tendenzialmente idealistica alla quale però non ripugnano affatto le prove di realtà [[Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V-VI p. 305-316]. Il punto è tuttavia che Malebranche non si aspetta affatto queste prove dai sensi (percezione), bensì molto più dalle verità matematiche applicate ai fatti. E questo perché per lui (come anche per Cartesio) solo queste verità sono indubitabili in quanto auto-evidenti. È soprattutto in questo senso, dunque, che il suo pensiero rientra senz’altro nei limiti della metafisica razionalista del suo tempo.
Molto in generale, comunque, Malebranche si distingue da Cartesio soprattutto perché considera gnoseologicamente fallimentare per definizione la conoscenza dell’anima (introspezione, auto-conoscenza, conoscenza interiore, esame interiore) e dunque la conoscenza del “Sé” (come lo definisce Rome). E di questo parleremo in un paragrafo a parte dedicato solo a questo importantissimo tema filosofico-psicologico. Comunque, sempre in grandi linee e grossolanamente, Malebranche non appare essere affatto diverso da Cartesio (Rome afferma infatti che egli comincia dove l’altro finisce) a causa della grande relatività del suo scetticismo ed empirismo; relatività che riconduce poi all’altrettanto evidente idealismo di massima del suo pensiero [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. E ciò riguarda la critica all’intendimento dell’idea come pura rappresentazione, che a sua volta riguarda molto da vicino la critica del pensatore all’innatismo delle idee sostenuto da Cartesio. Cosa della quale parleremo nell’apposito paragrafo.
Quello che è inoppugnabile è comunque il fatto che Malebranche si differenzia fortemente sia dalla metafisica (esteriorista) di Aristotele che da quella (interiorista) di Cartesio a causa del suo forte non-concettualismo e quindi non-intellettualismo. E questo è un altro elemento di forte originalità del suo pensiero.
In ogni caso la differenza principale tra Cartesio e Malebranche (e quindi anche il nucleo stesso della filosofia di quest’ultimo) sembra stare (almeno sulla base dello studio di Rome) in un’epistemologia nel complesso dai caratteri molto specifici, e che soprattutto non si lascia separare da una franca ontologia.
Uno degli aspetti di tale epistemologia consiste in ogni caso nella differenza del ricorso di Malebranche alla matematica (specie alla geometria) ed ai suoi principi, a confronto con quello di Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, Iab p. 7-19]. Ciononostante però il suo ricorso alla matematica si basa sullo stesso metodo della “Mathesis Universalis” di Cartesio, ossia sull’aspirazione ad una razionalizzazione della conoscenza che segua le linee portanti di questa scienza. In tal modo Malebranche si aspettava l’insorgere di una conoscenza razionale totalmente interiore basata sull’intuizione di idee intelligibili delle cose (che in Cartesio sono però le idee innate ossia create), che i sensi però non forniscono affatto, essendo essi per natura confusi ed inaffidabili. Tale conoscenza consiste insomma in una razionalizzazione delle cose che è basata sull’applicazione ad esse dell’esatta proporzione o relazione matematica, entro la quale in verità non vengono conosciute le cose bensì soltanto le relazioni tra le cose. Ad esempio l’estensione sensibile (caratterizzata dalla differente grandezza delle cose) è in gran parte solo illusoria ed apparente proprio in quanto è fatta appena di cose separate e non invece di rigorose e certe proporzioni matematiche. L’esempio classico addotto a tale proposito è l’illusione di una differente grandezza del sole a seconda della sua distanza dal nostro punto di osservazione.
In altre parole, come Cartesio, Malebranche aspirava fortemente ad una purificazione razionale della conoscenza del mondo esteriore. Eppure la conoscenza illusoria (ossia delle apparenze) non era altro che la più usuale e intuitiva ontologia del pensiero umano, intesa come la visione di un mondo di cose per nulla ancora razionalizzato dal soggetto. Ne consegue che la vera conoscenza del mondo è per lui unicamente basata su esatte relazioni tra idee, ed affatto invece sulla percezione sensibile di cose esteriori. Solo queste relazioni sono infatti immutabili a differenza della relazione tra cose. In questo senso quindi egli non fu per nulla empirista.
Ma qual è esattamente, allora, la differenza di questa visione rispetto a quella di Cartesio?
Essa consiste sostanzialmente nei seguenti aspetti: − 1) nel considerare l’idea il vero oggetto della conoscenza; 2) nel forte incidere in essa di un certo empirismo e sperimentalismo baconiano (che modifica sensibilmente l’impiego della matematica e la dottrina della “Mathesis universalis” così come anche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza) ; 3) nel già commentato forte incidere in essa di una franca ontologia (che pone in primo piano l’esistenza invece dell’essenza); 4) nella dottrina dell’occasionalismo che considera Dio l’unica vera causa svalutando così le cause fisiche (unicamente occasionali e circostanziali).
Il primo punto non richiede commenti in quanto rappresenta senza alcun dubbio l’aspetto più idealista ed anti-empirista della dottrina di Malebranche. Ma riguardo a questo punto va detto comunque he Malebranche e Cartesio si distinguono per l’atteggiamento gnoseologico positivo del primo e negativo del secondo. Il nostro pensatore infatti non attribuì alcun valore fondamentale al dubbio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. Ma a ciò si aggiungono altre differenze tra i due pensatori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201] che convergono tutte nel fatto (fortemente sottolineato da Rome) che Cartesio fu un radicale filosofo dell’essenza (come anche Duns Scoto e Suarez) per il fatto di ritenerla il fondamento della determinazione e quindi capace di generare l’esistenza. Per questo il pensatore postulò (diversamente da Malebranche) l’assenza totale di necessità in Dio e nell’Essere, l’inerzia della materia-estensione e la totale secondarietà del movimento all’estensione stessa (di per sé inerte). Si trattava insomma dei tratti di un Essere che consisteva totalmente nell’essenza e non nell’esistenza, e che quindi veniva determinato dall’essenza stessa per cui non era affatto di per sé determinato (e quindi necessario).
Riguardo al secondo punto Rome [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, IIc p. 25-35] ritiene che per Malebranche la matematica fu una perfetta ed insuperabilmente esemplare scienza universale (quanto ad evidenza, certezza esattezza e rigore), ma comunque restava del tutto insufficiente da sola (senza esperienza, fatti e prove sperimentali, cioè scienze fisiche). Ciò in quanto puramente essa di per sé (ossia da sola) è puramente a priori, e quindi per definizione non è provata.
Per rendere più chiaro il processo, ritenuto necessario in alternativa, è utilissima l’immagine fornitaci da Rome – Malebranche riteneva che si dovesse rendere tangibile l’intelligibile per mezzo di linee tracciate su carta (e ciò costituiva per lui la geometria stessa) ma sempre tenendo in mente un’idea. La studiosa sottolinea anche che Cartesio abbandonò egli stesso nel tempo lo sperimentalismo al quale inizialmente aveva creduto. lasciandosi andare a d un radicale apriorismo. Quindi in questo senso Malebranche e Cartesio partirono da radici filosofiche comuni. Tuttavia va detto anche che (come precisa Rome) Bacone ritenne disdicevole per l’esperimento anche la minima dose di apriorismo, e cioè anche la minima dose di deduzione; in quanto essa anticipava il risultato e quindi finiva per compromettere un risultato dell’esperimento che doveva essere invece del tutto aperto. E bisogna dire che la scienza empirica si attenne da allora in poi (e fino ad oggi) proprio a questo, costituendo così una linea teoretico-conoscitiva che non sentì mai le esigenze alle quale poi Cartesio avrebbe dato corpo.
Fatto sta che, in conflitto con tutto ciò, Cartesio sviluppò il metodo dell’esame interiore, in forza del quale tutto si aspettava che sarebbe stato conoscibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., I, III p. 41-54].
Ma è evidente che questa presa di posizione è del tutto incompatibile con l’esteriorismo empirista al quale prestò invece fede Malebranche (nel non trascurare l’apporto di Bacone alla conoscenza). A causa di questo suo empirismo (che lo induceva a non perdere mai di vista la verità dei fatti dell’esperienza), il nostro pensatore ritenne che le idee fossero presenti naturalmente nella percezione e non fossero state invece mai create ed infuse da Dio nella mente umana [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II p. 55-58, II, IIb p. 60-63]. E per questo si oppose all’innatismo delle idee cartesiano assumendo così una posizione decisamente criticista che poi avrebbe trovato espressione prima nell’empirismo e poi in Kant. A causa di ciò egli non fu mai tanto scettico quanto lo fu invece Cartesio, e quindi conservò (sebbene nel sospetto metodico) una certa fiducia nei sensi.
In particolare ciò riconduce di nuovo (secondo Rome) Malebranche a Bacone, dato che quest’ultimo esigeva il ritorno discensivo obbligato ai sensi (nell’esperimento) dopo aver contemplato l’intelligibile ed universale. Il che comporta il vincolo dell’intelletto ai sensi.
E questa fu effettivamente anche la posizione di Malebranche. Per Rome ciò fu anche il contrario della tendenza di Cartesio (affatto condivisa da Malebranche) a considerare unicamente l’uomo come fonte della verità, togliendo quindi al mondo ed alla Natura questo carattere. Cosa che Malebranche non poté condividere proprio a causa della sua tendenza al realismo con il valore attribuito all’esistenza, all’essere ed al mondo esteriore. Pertanto tale realismo, anche se nato nel seno dell’idealismo cartesiano, stava già preparando l’empirismo che si sarebbe sviluppato nel XVIII secolo. Ciononostante non va dimenticato che restò comunque in Malebranche la dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza. Ma comunque (come abbiamo appena visto), Rome sottolinea a tale proposito anche l’importanza della messa alla prova della pura conoscenza (relativa a puri oggetti ideali) mediante l’esperienza e l’esperimento, e quindi in relazione alle cose concretamente esistenti. E con ciò esprime anche la sfiducia nei sensi che Malebranche indubbiamente nutrì, senza però cessare di considerare i sensi come fondamentali per la conoscenza. Nonostante questo la sua teoria della conoscenza fu abbastanza apriorista da ritenere che la vera scienza si occupa di pura conoscenza (leggi universali). Tuttavia va tenuto conto che questo lo pensava anche uno scienziato naturale come Newton. In ogni caso, nonostante tutto ciò, per Malebranche il vero oggetto di conoscenza restò comunque l’idea.
Riguardo al terzo punto (ontologia) va detto che esso è intrecciato anche con il terzo in quanto investe il causalismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : I, IIIa p. 42-44 ]. Infatti − negando totalmente ogni causa finale ed ammettendo solo cause efficienti – Cartesio aveva abolito ogni legame tra mondo attuale ed Origine divina, considerando pertanto il mondo come spiegato autonomamente.
Ed a ciò si aggiunge che egli ritenne le cose come “estensione” in quanto esse sarebbero tali fin dall’inizio in primo luogo per essenza (ossia primariamente), e non invece in forza della creazione (ossia secondariamente). Insomma, anche se create, esse dovevano essere necessariamente così (in forza di un oggettivo dover essere ideale), cioè così come erano state pensate e poste in essere da Dio originariamente. Oltre a ciò – differenziandosi fortemente da tale concezione (certamente molto idealistica) − Malebranche non negò mai l’esistenza degli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, Ib p. 60-63]. E quindi assunse anche in questo una posizione realista nonostante l’idealismo della sua principale dottrina dell’idea come vero oggetto di conoscenza.
Vedremo ulteriori aspetti di questo carattere della visione di trattando specificamente della sua ontologia.
Riguardo al quarto punto spicca in Malebranche un razionalismo basato specificamente sull’idea di Dio come vera Causa e quindi sull’idea della più perfetta relazione possibile riconoscibile tra potere (causa) ed effetto [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. In particolare, dice Rome, questa dottrina si poneva in conflitto con l’idea di Hume secondo la quale la causalità sarebbe la meno chiara e distinta delle idee. Invece, secondo Malebranche, una volta ricollegata al Dio-Causa, essa sarebbe una delle idee più chiare e distinte che ci siano. E ciò perché esprimerebbe la connessione necessaria sussistente tra l’Essere infinitamente perfetto e gli effetti, a sua volta fondata nel potere divino e nella sua volontà ovvero nella sua onnipotenza (che può essere solo efficace). Si tratterebbe insomma della più perfetta connessione possibile tra potere ed effetto.
E tuttavia ciò avviene per Malebranche perché lui di Dio teneva presente in primo luogo la perfezione dell’Essere e solo dopo il potere, ossia l’attività. Ma tutto ciò ci riconnette con la sua visione della relazione tra essenza ed esistenza, entro la quale egli divergeva totalmente da Cartesio. Per lui infatti la nostra mente non ha alcuna idea chiara del potere e quindi dell’attitudine creativa di Dio, ossia dell’efficacia creativa (che poi altro non è se non la relazione tra essenza ed esistenza). Al massimo invece abbiamo un’idea sufficientemente chiara di Dio come Essere (il che richiama poi la primarietà ontologica dell’esistenza). E così al massimo possiamo comprendere il fatto che Dio pone in essere delle esistenze. Al di fuori di questo ambito non vi era per lui altro che un vuoto, inconsistente e massimamente insicuro intellettualismo astratto (ossia un essenzialismo). Che poi effettivamente non fu molto diverso entro la Scolastica e la visione di Cartesio.
Tale dottrina (nel suo complesso) è a sua volta connessa con l’occasionalismo di Malebranche, ossia la totale svalutazione delle cause “occasionali” e cioè fisiche, ordinarie e circostanziali, e quindi appena circostanziali; dunque l’unica forma di causalità che ordinariamente (naturalisticamente) si prende in considerazione.
E l’aspetto epistemologico di questa complessiva visione è l’idea di Dio come Colui che è in possesso dei più perfetti possibili principi di conoscenza (ossia di nuovo le verità matematiche), dai quali derivano poi gli altrettanto perfetti principi dell’essere, in modo tale che ne scaturisce la creazione di un mondo anch’esso altamente perfetto. Ed è evidente che qui viene allo scoperto anche in Malebranche una delle principali aspirazioni della metafisica razionalistica (con capostipite in Leibniz), ossia l’aspirazione a dare conto della perfezione incontestabile del mondo creato da Dio, che a sua volta riposa sui principi eterni e trascendenti della matematica.
Eppure si delinea comunque qui la grande lontananza di Malebranche dalla dottrina di Dio come Causa Sui che invece Cartesio sostenne a spada tratta [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., : III, I p. 120-128; Ia p. 120-127]. E ciò accade perché Malebranche, diversamente da quest’ultimo, considerò tali idee trascendenti come separate dall’essenza divina, per quanto esse fossero comunque presenti in Dio. È comunque difficile dire se egli, come Platone, considerò le idee come davvero onticamente trascendenti rispetto a Dio. Non lo lascia credere l’altro fondamentale aspetto della sua epistemologia, e cioè la dottrina della conoscenza delle cose per mezzo della visione delle idee in Dio. Ma comunque fu per questa serie di motivi che egli considerò Dio primariamente esistenza e non invece essenza. Il che comporta che la Sua sostanza non poteva venire caratterizzata dal principio del Causa Sui. Infatti se Dio (come pensava Cartesio) è primariamente essenza, allora è di per sé (ad opera della propria essenza) causa della propria esistenza, esattamente così come (sempre ad opera della propria essenza) è causa dell’esistenza delle cose.
Come poi vedremo Rome chiarisce comunque che per Malebranche l’occasionalismo costituisce in un discorso sostanzialmente metafisico applicato alla Natura ed al piano creaturale, ossia alla Fisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. E comunque si tratta di una dottrina fortemente razionalistica che emerge quando il pensatore descrive Dio come unica vera Causa di ogni cosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168].
Intanto il pensatore ritenne responsabile della distorta dottrina della causalità soprattutto l’antica metafisica di tipo scolastico, anch’essa razionalista ma in tutt’altro senso) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. Vale la pena di approfondire il perché di tale divergenza così come analizzato da Rome. Ebbene Malebranche accusò la Scolastica di comportarsi come l’uomo ingenuo, scambiando così per vere cause solo quelle immediate (come entro una causalità nella quale il corpo responsabile dell’urto viene considerato la causa). Oltre a ciò però questa scuola di pensiero (entro la propria dottrina della percezione) scambiò per cose reali quelle che invece erano solo forme (ossia essenze, e quindi cose intelligibili). Si trattava delle qualità intelligibili che costituivano le proprietà degli oggetti. Ed esse quindi non esistevano per davvero ma si limitavano a venire conosciute. Pertanto Malebranche contestava alla Scolastica di aver elaborato unicamente una gnoseologia, mascherandola però da ontologia. E come tale la contestava radicalmente.
Chiaramente sbiadiva in tal modo nella Scolastica il concetto di Dio-Essere. E in tale contesto le forme-qualità (intese come cause) risultavano essere causa di sé stesse (causa sui) facendo in modo che sbiadisse anche il Dio-Causa.
Rome sottolinea pertanto che (p. 164), almeno rispetto alla causalità, ossia rispetto al concetto di Dio-Causa, Malebranche è in effetti ben più cristiano della Scolastica, che invece si rifece quasi integralmente ad Aristotele più che alla Rivelazione cristiana. Laddove questo pensatore aveva preteso di far passare per Fisica quella che era soltanto una metafisica estremamente intellettualistica (e quindi per questo tendenzialmente razionalista). Ma a tale proposito Malebranche prese posizione anche contro la metafisica post-scolastica e moderna di Suarez.
E qui in particolare (il pensatore si oppone ad una visione metafisica della Natura (incentrata sull’intelligibile) che trascura non solo la Fisica ma anche il concetto di Essere. Sebbene la Scolastica abbia illegittimamente assimilato alla cosa concreta questa entità metafisica.
Nella lettura di Rome l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega comunque ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (in sé perfetto) domina di gran lunga su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo è stato Lui ad originare il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre perché quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti esso nemmeno esisterebbe). Pertanto l’occasionalismo ci mostra che in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Questa dottrina è insomma (almeno in un cero senso) una sorta di panteismo incentrato nel concetto teologico di Incarnazione.
Ed inoltre Malebranche (p. 171) sottolinea (diversamente da Spinoza) che non vi è assolutamente nulla di necessario nella causalità divina − come avviene invece entro la rigida connessione tra causa ed effetti. E questo è vero per lui in termini teologici, cioè a causa dell’incondizionata libertà divina; in conformità alla quale non vi è alcuna connessione necessaria tra la volontà divina – cosa per cui dalla volontà divina non ci può assolutamente aspettare ciò che umanamente ci si immagina. In termini però più propriamente filosofici con ciò sconfiniamo così di nuovo nell’ambito della concezione della relazione tra essenza ed esistenza. E non solo, perché sconfiniamo anche nell’ambito dell’estrema razionalizzazione di Dio che era stata posta in atto entro tale relazione. Infatti la relazione causa-effetto contestata da Malebranche assimila di fatto l’essenza al volere divino, che si trasforma in tal modo in un a priori razionale (la Ragione divina quale principio costitutivo del mondo) dal quale dovrebbe essere possibile venire dedotto tutto ciò che riguarda l’esistente. Ma per il nostro pensatore non è affatto così, dato che Dio certamente vuole l’esistente (ossia lo pronuncia come Parola) sebbene il suo volere resti inconoscibile ed imperscrutabile.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino ad essere la sua vera e primaria causalità) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza. E così si distanzia decisamente dal modello cartesiano (gnoseologico e non ontologico) in forza del quale si pretende di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza. Il che avviene per la via della pura conoscenza (cioè previamente o a priori), e non invece per la via dell’ontologia (cioè per constatazione ossia a posteriori). Quindi noi umani possiamo sì connettere l’esistente con il volere divino, ma non possiamo in alcun modo dedurre razionalmente il secondo al primo (in quanto a priori). E qui Malebranche riconosce un ben preciso limite cognitivo della mente umana – noi non abbiamo affatto un’idea dell’efficacia creativa nel consultare le verità archetipiche divine (ossia di fatto idee creative nella mente divina). Per questa serie di motivi, dunque, il senso del mondo e della creazione non può secondo lui venire cercato nel mondo delle essenze divine a priori.
Ebbene questo differenzia Malebranche senz’altro da Cartesio. Ma lo differenzia anche da Leibniz, sebbene Rome non lo dica. Viene infatti posto un limite ben preciso a quella teodicea metafisico-razionalista (connessa alla pretesa volontà di bene divina in relazione al migliore di mondi possibili) che non a caso ha trovato nel tempo proprio in tale ambito la sua più stridente contraddizione in relazione all’evidenza inoppugnabile del male dominante nel mondo creato.
Evidentemente invece il nostro pensatore non fu vittima di questo costrutto solo apparentemente filosofico-religioso, che invece era stato unicamente metafisico-razionalista, e pertanto ha preteso di prescindere senza scrupoli dalle evidenze dell’esperienza mondana. E quindi necessariamente il razionalismo religioso con la Rivelazione non aveva avuto nulla a che fare. Con la conseguenza che esso non può in alcun modo vantare il diritto di presentarsi come un’autentica filosofia religiosa.
In tale contesto, quindi, uno degli aspetti dottrinari centrali in Malebranche fu l’affermazione dell’assoluta non necessità dell’atto creativo (per lui un libero atto d’amore il quale conferisce l’esistenza all’essenza, o qualcosa) e proprio per questo non è per nulla intelligibile – cioè non si sa affatto perché avvenga [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201; IV, IVa p. 209-220].
E di nuovo qui il concetto di Essere divino addirittura sopravanza il concetto di Causa nel ricomprenderlo totalmente in sé. Infatti – attenendosi alla dottrina di Malebranche − si può anche dire che, nel creare, Dio aggiunge l’essenza ad un’esistenza in sé vuota di contenuto. Ma intanto, dato che Dio è in primo luogo Essere, risulta molto più vero il contrario, e cioè che Egli aggiunge l’esistenza ad un’essenza che altrimenti resterebbe tragicamente irrealizzata, ossia astrattamente vuota (e quindi utile unicamente per la conoscenza ma non, invece, per la comprensione del perché delle cose così come sono). Questo però può venire sostenuto solo se Dio viene considerato molto più Essere che non essenza – laddove nel secondo caso il suo agire diviene necessario e quindi condizionato. Invece la pienezza dell’aggiunta dell’esistenza all’essenza può esserci solo se l’agire divino è assolutamente incondizionato. Ed è alla fine per questo che il concetto teologico di «somiglianza» (dell’uomo a Dio) consiste, secondo Malebranche, in primo luogo nell’essere, e cioè, più concretamente nell’esistenza.
Da tutto ciò consegue quindi che l’occasionalismo non fu affatto una dottrina naturalistica (immanentista), per quanto essa non sia stata nemmeno l’opposto, cioè aprioristica (trascendentista). Per Malebranche, insomma, Dio non è assolutamente Causa in base e soprattutto in obbedienza al fenomeno naturale della causalità. Quindi, in ultima analisi, non si tratta affatto di azione bensì invece della semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia si tratta dell’esistenza stessa del mondo da Lui creato − essa è insomma di per sé causalità senza nemmeno bisogno di invocare la dimensione naturale del movimento.
Eccoci dunque di nuovo di fronte all’ontologia. La causalità per Malebranche è infatti ben più essere che non attività.

Oltre a tutto ciò vi è un aspetto che chiama di nuovo in causa molto direttamente la sua ontologia, e precisamente l’importante discorso (già finora più volte menzionato) riguardante la relazione sussistente tra essenza ed esistenza ed inoltre la diversa concezione di ciascuna di esse da parte dei due pensatori. Infatti, afferma Rome, l’epistemologia di Malebranche è in primo luogo un’ontologia “esistenziale”, secondo la quale anche l’idea stessa (che è essenza e rappresenta l’universale) “prima di tutto è” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Infatti per lui l’universale stesso ha una portata permanentemente ontologica e non epistemologica. Insomma l’universale (idea) è una realtà ontica. Pertanto l’idea cartesiana secondo la quale è sufficiente avere idee chiare e distinte (per affermare qualunque cosa) non può essere assolutamente vera. E ciò perché non bastano affatto chiarezza e distinzione interiori (e quindi svincolate dal mondo esteriore). Occorre invece la presa in considerazione dell’essere, e quindi esistenza, ossia un riscontro nel mondo esteriore. Ecco dunque perché Malebranche fonda le idee in Dio. Perché Egli è in primo luogo Essere. E come tale permette di conferire essere (onticità) ai principi della conoscenza che invece il platonismo concepisce solo come astratte forme intelligibili (prive di onticità). Per tale motivo il platonismo cristiano può, secondo Rome (ed in concordanza con Malebranche) essere la sola forma di fondazione della conoscenza. E con ciò abbiamo già gli elementi fondanti della dottrina della “visione in Dio”. In forza di essa infatti si parte prima dalla conoscenza di sé stessi e dei corpi, e poi si giunge all’idea di infinito alla quale segue infine la “visione” (intuizione) di Colui che è. Questa è propriamente la visione in Dio.
Ebbene, va però osservato che tutto ciò è estremamente coerente rispetto a Malebranche. Ma non rispetto a Platone. Dato che diversi pensatori hanno dimostrato che per lui l’idea non venne considerata affatto priva di onticità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 10-14 p. 87-91, I, 2-5 p. 107-111, I, 25 p. 127-128; Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010 , II,VI,III, p. 172-176 ; II, VI, IV, p. 176-186 ; II, VI, VI, p. 190-197; II, VII, I, p. 214-217 ; III, XI, II, p. 323-336 ; II, VII, II, p. 217-221 ; III, XI, III, p. 336-344 ; IV, XVII, I, p. 544-548 ; IV, XVI, II, p. 501-511]. E questa era una precisazione che andava assolutamente fatta.
Ma comunque questa serie di osservazioni di Rome ha un’estremamente importante conseguenza conoscitiva, e precisamente teoretico-conoscitiva. Il che è di grande importanza se studiamo Malebranche partendo da quelle acquisizioni della filosofia moderna che hanno contraddetto frontalmente questa evidenza nel porre la quasi tragica problematicità della conoscenza. Infatti in forza di ciò la conoscenza in Malebranche coglie necessariamente gli oggetti esteriori [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Tutto ciò sta in relazione alla diversa concezione della mente da parte di Malebranche e Cartesio. Il secondo infatti concepì la mente sostanzialmente come pensiero puro, ossia (come dice Malebranche nella sua critica) come intelletto, coscienza ed in ultima analisi “concezione”. Il che comportava poi un «cogito» inevitabilmente dualistico in quanto incentrato nell’isolamento del soggetto rispetto al mondo, ossia nella conoscenza puramente interiore. Insomma per Cartesio la dimensione intellettuale era da considerare il carattere essenziale della mente. Ebbene tutto ciò era invece per Malebranche appena “sentimento interiore”, ossia una facoltà ben più prossima alla percezione che non al pensiero puro. Proprio per questo, commenta Rome, è stato da lui attribuito un empirismo anche in maniera alquanto esagerata.
In ogni caso però – nel concepire il sentimento interiore come carattere essenziale della mente – il nostro pensatore considerava la mente stessa come prodotto delle modificazioni prodotte dalla Natura sull’anima. Ed eccoci quindi al cospetto d [] ella conoscenza (quale carattere essenziale della mente) sulla base nell’inevitabile connessione tra spirito e sensi ed anche tra spirito e volontà.
È evidente quindi che, mentre Malebranche concepì l’orientamento esterioristico della mente, Cartesio invece ne concepì l’orientamento unicamente interioristico. Ne deriva quindi in Malebranche una teoria della conoscenza estremamente realistica, efficace, effettiva, che resta al riparo da qualunque problematicità e negatività, e quindi è unicamente positiva. Ed essa naturalmente relativizza fortemente il pensiero puro come carattere interioristico della mente.
Su questa base ed in tale ambito, entro il discorso di Rome, più avanti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299], raggiungiamo il nucleo stesso della dottrina di Malebranche, che consiste in una teoria della conoscenza nei fatti né idealistica né realistica, ma basata comunque sulla teoria delle idee e quindi almeno formalmente idealistica. Ecco che a nostro avviso la grandezza di questo filosofo consiste in proprio questo – ossia nell’aver adottato una dottrina idealistica (platonica) senza però mai restare invischiato in essa, ossia nelle sue più estremistiche conseguenze. Questo mostra tuttavia anche che Malebranche non fu mai per davvero un empirista, e che inoltre molto probabilmente pose le basi (per mezzo di una teoria della conoscenza che punta all’oggetto intelligibile) ad una filosofia moderna com’è quella di Husserl. Proprio in tale contesto possiamo infatti cogliere il motivo ed anche il nucleo dell’idealismo del nostro pensatore (teoria delle idee), che non appare quindi essere una scelta né causale né ideologica. Malebranche insomma sa che la percezione è del tutto insufficiente per la conoscenza dell’oggetto da parte del soggetto. Perché essa è connessa di fatto alla sola dimensione esteriore, limitandosi così ad appena sfiorare la superficie del soggetto per mezzo dei sensi. Ma oltre questo limite essa non va, e quindi resta di fatto fuori del soggetto. Egli comprende quindi che, per concepire una conoscenza efficace ed autentica, bisogna invocare qualcosa di interiore, ossia l’intelligibile. E questo qualcosa sono le idee in quanto rappresentative degli oggetti. Ecco allora che la conoscenza degli oggetti per mezzo di idee si basa in effetti sulle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi, e non invece sulla mera percezione movente dagli oggetti esteriori. La conoscenza è dunque connessa in verità a tali modificazioni, e non invece alle semplici qualità degli oggetti esteriori che sollecitano i sensi (come pensava la Scolastica e come pensa anche l’uomo ingenuo). Insomma Malebranche intuisce che la teoria della conoscenza esige la postulazione di un passaggio ulteriore oltre la sollecitazione dei sensi da parte delle qualità degli oggetti. Esige insomma la dimensione interiore (cioè le modificazioni indotte dai sensi nell’anima, entro la quale vengono colte le idee), nel mentre comunque prende atto della realtà inoppugnabile della dimensione esteriore. Dunque essa non può essere né unilateralmente idealista né unilateralmente realista. Ebbene, una volta portato questo discorso alle sue estreme conseguenze, dobbiamo ritrovarci necessariamente di fronte alla “visione in Dio”, e cioè della conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio. Perché in questo modo a quanto appena detto viene aggiunto il fattore della trascendenza della conoscenza – soltanto in virtù della quale il conoscere è al riparo delle distorsioni indotte dal divenire, le quali sono fonte di illusione (come nel caso della differente grandezza di oggetti posti vicino o lontano). Del resto però per Malebranche non sarebbe sufficiente nemmeno la pura deduzione delle cose da principi trascendenti e razionali a priori (come postulato da Cartesio), dato che essa prescinde totalmente dalla realtà del mondo esteriore (ossia sfugge ad ogni prova, e quindi si presta a pensare oggetti inesistenti e quindi irreali). Nello stesso tempo però la conoscenza delle cose per mezzo di idee (che completa e non contraddice la contraddizione) ci permette di conoscere il vero oggetto, e cioè quello intelligibile; il quale sfugge alle distorsioni illusorie indotte dal divenire. Tutto ciò costituisce pertanto una vera e propria “rivelazione naturale delle cose” entro la quale gli a priori sono altrettanto necessari quanto i sensi (percezione). Rome non manca di sottolineare che tutto ciò assume in Malebranche una dimensione fideistico-religiosa e mistica (la fede nel mondo creato da Dio). Ma nonostante questo non manca di essere (a differenza di quelle di Cartesio e della Scolastica) una teoria della conoscenza estremamente affidabile ed anche pragmatica.
In particolare, ella dice, in essa l’esistenza degli oggetti viene colta nella Volontà di Dio, mentre la loro essenza nella sua Ragione. Ritroveremo tutto questo poi nel concetto di “estensione intelligibile”. Ancora una volta è evidente qui l’anticipazione di quella quota di empirismo che si sarebbe manifestata nella filosofia di Kant e successivamente anche nell’aspirazione husserliana ad un realismo in equilibrio con l’idealismo. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva di Malebranche appare essere ben più equilibrata e ragionevole di queste ultime, e quindi del tutto esemplare. Anche perché essa concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben motivato.
Su questa base risulta del tutto comprensibile come Rome faccia emergere la contraddizione radicale dell’empirismo realista da parte di Malebranche, mostrandoci in tal modo che l’attribuzione di empirismo al nostro pensatore è stata in realtà abbastanza superficiale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. Non a caso il punto è qui proprio il realismo religioso, nel contesto del quale la conciliazione tra Ragione e Fede va posta per il nostro pensatore in maniera radicalmente diversa dal modo in cui essa venne posta entro la Scolastica. Infatti, per quanto possa apparire paradossale in base a tutto ciò che abbiamo visto finora, Malebranche afferma che la credenza nell’esistenza di un mondo esteriore rappresenta uno dei più grossolani errori mai commessi in filosofia ed anche in teologia. Ed il motivo di ciò risiede ancora una volta nel nucleo (idealistico) della sua teoria della conoscenza, e cioè nel postulare che sono le idee e non le cose (esteriori) il vero oggetto di conoscenza, ovvero (come abbiamo visto) unicamente l’oggetto intelligibile.
Per lui infatti (sulla base di quanto abbiamo già visto) la Ragione può realmente venire conciliata con la Fede. Ma ciò risulta impossibile sia se (come in Cartesio) la conoscenza di basa sulla sola Ragione, sia se (come avviene nella Scolastica) la conoscenza si basa sui soli sensi.
In questa sede infatti egli contraddice ogni realismo ed empirismo (assumendo così una posizione insieme idealistico-cartesiana e giansenista) nel contraddire la fede (naturale e ingenua, che è basata sui sensi secondo la Scolastica) nel mondo esteriore, e nel sostenere però (diversamente da Cartesio) la perfetta concordanza tra Ragione e Fede. In un’ultima analisi egli ritiene che siano le Scritture (e non i sensi) a rivelarci l’esistere indubitabile del mondo esteriore. Nel primo caso infatti prevale in solo criterio interioristico (estremisticamente idealista), mentre nel secondo caso prevale invece il solo criterio esterioristico (estremisticamente realista, per quanto ammantato di metafisica), con la conseguenza dell’avvaloramento di una visione del mondo e dell’essere che coincide totalmente con quella ingenua. In entrambi i casi, dunque (aldilà delle affermazioni formali delle due scuole), Ragione e Fede devono necessariamente divergere.
Pertanto (come poi vedremo di nuovo a proposito della sua teoria della percezione) non va trascurato che nel pensiero di Malebranche si delinea in ogni caso un realismo esterioristico incentrato sull’esistenza delle cose, che, secondo il pensatore, la percezione certamente ci rivela.
Ma intanto qui ci troviamo di fronte ad un insieme di empirismo ed anti-empirismo, o anche scetticismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV-VI p. 299-316]. Ci troviamo insomma in tal modo di fronte alla “rivelazione naturale delle cose“ della quale abbiamo prima parlato. Che Malebranche postula – concedendo così alla percezione il ruolo che ad essa legittimamente spetta, fino a rivelarci un effettivamente esistente mondo “fuori di noi” – soltanto nella misura in cui il coglimento percettivo delle cose esteriori non contraddica il ben più rilevante coglimento dell’idea quale cosa. Ciò significa che per lui lo spirito (soggetto cosciente-conoscente) sta solo condizionatamente in relazione con la cosa esteriore, e cioè solo nella misura in cui la cosa esteriore si presenta a noi come idea. Solo in questo caso infatti la percezione assume il reale ruolo conoscitivo che le spetta di diritto, rivelandoci così un davvero incontestabile mondo esteriore.
E proprio questa felice costellazione conoscitiva corrisponde alla “rivelazione naturale delle cose”, entro la quale l’affidabilità dei sensi viene riconfermata per l’unico motivo che a noi (entro l’anima) la cosa si presenta come idea.
Per questo motivo molto giustamente Rome sottolinea che è stato molto poco giustificato attribuire a Malebranche una dottrina entro la quale le idee non sarebbero altro che “copie” (rappresentazionali) delle cose esteriori. Dottrina che svaluterebbe totalmente il ruolo della percezione, saltandola a piè pari per stabilire invece una relazione diretta tra la cosa esteriore e l’idea. Ebbene la chiave di questa complessiva questione consiste nel fatto che Malebranche attribuì un ruolo conoscitivo alla percezione, nel postulare (diversamente da Cartesio) che l’idea è di fatto già presente nell’oggetto che la percezione intanto ci rivela. Il che corrisponde poi alle facoltà mentali costituite dall’attenzione e dalla concentrazione (invece che del puro pensiero).
Per lui sono infatti tali facoltà mentali quelle che configurano l’idea chiara e distinta della quale abbiamo assoluto bisogno per concepire un oggetto. E dunque in tal modo il ruolo della percezione non è altro che quello di rivelare l’idea contenuta nell’oggetto. E proprio su questo si basa il metodo induttivo nel quale egli credette nel contesto di uno sperimentalismo simile a quello baconiano. Ebbene ciò non significa affetto che la percezione equivalga alla cognizione. Ma essa almeno introduce validamente a quest’ultima. Va però considerato che essa si limita a rivelarci l’esistenza delle cose, e non la loro essenza. Con tutti gli errori ed illusioni da ciò comportati. Pertanto, oltre la percezione, la conoscenza resta per Malebranche bisognosa di quelle idee trascendenti (prevalentemente matematiche) dalle quali soltanto scaturisce la vera certezza.
Ecco allora che l’attenzione diverge di fatto dai sensi, i quali ci conducono indubbiamente all’errore, allontanandoci dalle idee delle cose. E ciò segna i limiti del valore della “rivelazione naturale delle cose”, la quale ci permette di cogliere l’indubitabilità del mondo esteriore, ma solo entro i limiti della sua esistenza, trascurando così totalmente la rivelazione dell’essenza delle cose (ossia il loro «cos’è?»). In altre parole il mondo esteriore ci viene rivelato dalla percezione in maniera assolutamente indubitabile (per la via dell’esistenza), sebbene la rivelazione naturale sia indubbiamente vera solo entro le leggi della Natura. Il che corrisponde poi ad una dimensione che rivela sì l’indubitabile (l’incontestabile esistenza del mondo esteriore ossia esistente) ma intanto non ha alcun vero valore gnoseologico in quanto non riesce a rivelarci l’essenza delle cose. Cosa alla quale però invece (almeno secondo Malebranche) Cartesio aspira solo illudendosi, dato che ciò non è affatto alla portata dell’uomo naturale. Infatti tutto ciò è per lui il prodotto di una corruzione che è avvenuta con il Peccato di Adamo e la Caduta, e quindi ha reso naturalmente deficitaria la conoscenza umana. Ecco quindi che di nuovo la dimensione teologico-religioso incide in modo decisivo entro la teoria della conoscenza di Malebranche.
Abbiamo appena parlato del legame esistente per il nostro pensatore tra spirito e oggetti esteriori. Quest’ultimo corrisponde in effetti anche al legame esistente nell’uomo tra lo spirito (o anche pensiero) e la volontà [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. E questo è realmente uno degli aspetti più fondamentali della teoria della conoscenza di Malebranche. Specie perché esso spazza via qualunque problematicità della conoscenza e dunque qualunque moderno scetticismo gnoseologico. Il nostro pensatore ritiene infatti che tra questi due elementi vi sia un legame obbligato nel senso specifico della conoscenza di un oggetto esteriore (p. 250-252). E se non fosse così il pensiero resterebbe del tutto vuoto e quindi sarebbe non solo inefficace ma anche inutile – sostanzialmente perché esso non sarebbe deputato alla conoscenza di un oggetto. Più ampiamente si tratta comunque dell’affermazione di un obbligato legame tra pensiero e sensi, con la contraddizione frontale del dualismo cartesiano. Tale problema si riconnette comunque alla già discussa definizione della mente – corrispondente alla domanda circa il pensiero puro come possibile essenza della mente (che Cartesio affermò senza mezzi termini). Rome ci mostra al proposito che Malebranche fu su questo sostanzialmente d’accordo con Cartesio – specie nel ritenere la sostanza un attributo che ne rendeva possibile l’esistenza nel mentre però ne definiva preliminarmente l’essenza. Per questo motivo anch’egli (come Cartesio) ritenne il pensiero come carattere “spirituale” della mente. E però egli si rifiutò di accettare il legame causale sussistente tra essenza ed esistenza. E quindi finì per concepire la sostanza come ben più esistenziale che non essenziale. Per tale motivo, quindi, a suo avviso, il pensiero da solo (luogo dell’essenza) finiva per girare a vuoto (rivelandosi così inutile ed inefficace) se non prendeva contatto con l’esistenza, ossia con la cosa reale. Ed in questo senso quindi il pensiero doveva necessariamente agire come conoscenza degli oggetti.
Connesso con ciò è comunque il tema della presumibile migliore conoscenza della mente (conoscenza interiore) rispetto alla conoscenza del corpo (conoscenza esteriore), che Cartesio aveva affermato in maniera altrettanto dogmatica. Rome ci mostra come anche a tale proposito Malebranche fu in via di principio d’accordo con Cartesio [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. E tuttavia vide le cose anche in modo opposto (p. 260). E ciò sulla base del fatto che (come abbiamo già visto) egli ritenne l’introspezione appena un “sentimento interiore”, e quindi una sorta di obbligata percezione dell’interiorità animica. Il che stava in relazione con la sua svalutazione della conoscenza interiore. Pertanto si può dire (sulla base di Rome) che Malebranche accettò il puro pensiero come «cogito»,, ossia conoscenza immediata dell’anima (includente dubbio, immaginazione, sensazione, volontà). E tuttavia solo in via di principio. Perché intanto, a suo avviso, ciò non bastava affatto alla conoscenza completa dell’anima, in quanto diretta. Invece noi siamo costretti ad attribuire all’anima le qualità sensibili attraverso un pensare (ragionamento) solo indiretto. Dato che (guardando all’anima) non possiamo conoscere lo stato della qualità da essa contenuta. E tutto ciò rappresenta quindi per Malebranche il “sentimento interiore” quale “semplice visione” (“simple vue”).
In relazione con ciò, secondo Rome, vi è il fatto cruciale in virtù del quale, mentre Cartesio considerò il pensiero, quale atto mentale, come indistinto rispetto al proprio contenuto, invece Malebranche lo considerò come strettamente legato al proprio contenuto, e quindi legato anche inscindibilmente alla percezione e quindi alle qualità percepite, ossia all’oggetto esteriore.
E questo riafferma di nuovo l’assoluta non problematicità della conoscenza, oltre ad anticipare la teoria della conoscenza husserliana (intenzione) entro la quale l’atto di pensiero è inscindibilmente legato ad un oggetto esteriore (intenzionale) situato costantemente ai limiti della coscienza. È per questo che il realismo di Malebranche coincide ancora una volta con quello di Husserl.
In Rome ritroviamo comunque un’ulteriore importante definizione del pensiero come atto di concezione diverso dal contenuto della concezione nel contesto della teoria della conoscenza di Malebranche (p. 256). Ella sottolinea infatti che il nostro pensatore (diversamente da Cartesio) divise costantemente il pensiero dai propri contenuti, e quindi anche il contenuto della concezione (quale atto mentale) dai propri contenuti. Per tale motivo il puro triangolo geometrico non era per lui equivalente (come in Cartesio) allo stesso pensiero puro, ma costituiva invece un’oggettualità separata dalla sostanza del pensiero. Per cui era impossibile, a suo avviso, la naturale convergenza del pensiero (nel corso dell’introspezione) tra pensiero ed oggetti supremamente intelligibili.
E bisogna considerare che proprio questo fu per Cartesio il fondamento della certezza ottenibile per mezzo dell’introspezione – ossia il coglimento di un oggetto che equivaleva totalmente all’atto del pensiero.
La contestazione di questo evitava quindi in Malebranche l’equiparazione dell’oggetto ideale con la sostanza stessa del pensiero o pensare (intellettuale), mantenendo così il contenuto del pensiero nella sua oggettualità indipendente dall’atto di pensiero. Il che comporta nuovamente l’impossibilità di una conoscenza umana della mente (auto-conoscenza o conoscenza interiore), ossia l’avere un’idea distinta di essa (come ritiene invece Cartesio). Tutto ciò rende dunque impossibile l’auto-conoscenza, o conoscenza interiore, dalla quale Cartesio si aspettò la purificazione assoluta della conoscenza stessa. In tale contesto viene pertanto in primo piano l’atto mentale invece del suo contenuto (ma tra loro rigorosamente separati). Ne consegue pertanto che, secondo Malebranche, noi non possiamo avere un’idea distinta della mente (in quanto sostanziale puro pensiero) − anche se essa consiste in matematica, resta non accessibile alla nostra conoscenza.
E ciò relativizza fortemente la sua convergenza con l’idea di Cartesio secondo la quale la conoscenza della mente sarebbe per definizione migliore di quella del corpo.
Malebranche comunque (diversamente da Spinoza) considerò l’oggetto ideale comunque trascendente e non immanente, e quindi diverso dall’estensione e dalla corporeità. Quindi non ebbe affatto una psicologia naturalistica.

In ogni caso Malebranche e Cartesio differiscono gnoseologicamente soprattutto per la dottrina della “visione in Dio”, della quale parleremo però in paragrafo specifico. Quindi, aldilà di tutto ciò che abbiamo visto, l’aspetto più rilevante della sua epistemologia fu la sua dottrina della “visione in Dio” delle cose.
Nei paragrafi seguenti verranno comunque esposti altri aspetti della dottrina di Malebranche che sono riconducibili alla sua originale epistemologia. Tra questi (a proposito della “visione in Dio”) constateremo una delle principali differenze tra Cartesio e Malebranche, ossia la necessità del potere divino in luogo della sola attitudine creativa di tipo puramente intellettuale. Il potere è infatti ciò che non solo genera le cose dal nulla ma anche le modifica. Ed in entrambi i casi si tratta di deviazione da ciò che è intellettualmente prevedibile, ossia esiste a priori così come a posteriori.

2- La dottrina delle idee di Malebranche e la sua teoria della mente.
La critica di Malebranche alla dottrina delle idee cartesiana si caratterizza per la negazione dell’idea come pura rappresentazione ed inoltre per la contestazione dell’innatismo creazionista delle idee [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, III p. 74-76]. Infatti, come abbiamo già visto, nel concepire l’idea, secondo Rome, Cartesio confuse l’idea stessa con l’atto di pensiero e con il suo oggetto.
E così negò totalmente l’onticità dell’idea considerandola in tal modo come puro concetto, ossia una pura rappresentazione senza alcun corrispettivo oggettivo-oggettuale. Per Cartesio dunque l’idea era di pura natura spirituale e non aveva necessariamente alcuna relazione con gli oggetti in quanto atto conoscitivo. Malebranche la pensava invece in modo completamente diverso. Quanto poi all’innatismo delle idee egli riteneva che l’idea innata (e quindi necessariamente creata da Dio partendo dal nulla) deve essere finita per definizione. E quindi come tale non può affatto contenere la molteplicità delle cose, ossia gli oggetti reali rappresentati dalle idee.
Con tale aspetto dottrinario siamo quindi ancora nel pieno dell’epistemologia di Malebranche, e pertanto anche della sua gnoseologia e teoria della conoscenza. E questa dottrina è in effetti quella in relazione alla quale il nostro pensatore si presta di più a venire giudicato.
Non a caso nei nostri precedenti scritti abbiamo commentato il suo pensiero specie in relazione a tale aspetto. Si delinea infatti qui chiaramente un idealismo. E quest’ultimo a prima vista sembra caratterizzare totalmente il pensiero di Malebranche. Di esso del resto Rome prende atto nell’appaiare il nostro pensatore sia a Cartesio che anche a Berkeley [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266, VI, I p. 279-284, VI, III p. 292-299, VI, VIa p. 310-313]. In base a tale idealismo vengono infatti svalutati in un solo colpo sia la percezione sia anche gli oggetti del mondo esteriore che la sollecitano. Per cui in definitiva sembra che l’esistere del mondo esteriore sia meramente relativo alla sua effettiva percezione, secondo il famoso «esse est percipi». Cosa per cui sembrerebbe a prima vista impossibile che in Malebranche possa riscontrarsi anche un empirismo. Eppure, come abbiamo visto più volte, quest’ultimo esiste per davvero, dimostrando così che il suo pensiero fu realmente molto multiforme ed estremamente originale.
L‘Autrice ci fornisce comunque un’immagine di insieme della teoria delle idee di Malebranche, mostrandoci che essa fu sostanzialmente metafisica (come lo stesso occasionalismo), e quindi restò fortemente legata alla teologia oltre che all’epistemologia.
Non va intanto dimenticato che comunque Malebranche e Cartesio differiscono in primo luogo proprio in virtù della dottrina delle idee: − infatti per il primo esse non sono innate né create (sebbene non vengano dai sensi), mentre per il secondo sono innate e create. Il che significa che per il primo le idee sussistono in una maniera oggettiva ed insieme trascendente, sottraendosi pertanto alla loro collocazione nella mente umana (come dotazione fornitale da Dio). Le idee sono insomma per Malebranche vere e proprie oggettualità intelligibili radicalmente trascendenti. In estrema sintesi per Malebranche le idee risiedono fuori della mente mentre per Cartesio risiedono in essa.
In ogni caso la principale obiezione di Malebranche all’innatismo delle idee in Cartesio (idee come realtà oggettive create ed infinite) consiste nell’ammissione che nella mente esiste un’idea di infinità ma non invece una molteplicità di idee infinite [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIg p. 88-100].
Un aspetto fondamentale della questione delle idee è comunque (secondo Rome) la parziale accettazione (a livello della fisiologia della mente) da parte di Malebranche di quella che la studiosa definisce come la quarta teoria delle idee (ossia quali modificazioni puramente interiori dell’anima). Tuttavia è anche vero che egli nello stesso tempo la rigettò da un altro punto di vista. in quanto espressione dell’orgoglio umano (somiglianza dell’anima a Dio di tipo scolastico, ma in parte anche cartesiano) ed anche in relazione alla differenza tra idea di infinità e presenza di infinite idee nella mente. E nelle obiezioni a questa teoria Malebranche si manifesta come più realista che non idealista [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VIIIb p. 101-103].
L’argomento principale per il pensatore consiste nel fatto che la mente umana non è affatto infinita − come lo è invece la mente divina, motivo per cui solo quest’ultima può contenere la molteplicità infinita delle idee − e per tale motivo non è neanche estesa, ossia in alcun modo spaziale. Non costituisce insomma affatto un modo intelligibile dell’estensione (la «res cogitans») come invece è per Cartesio. Per questa serie di motivi è del tutto ovvio che essa non possa ospitare alcuna molteplicità intelligibile che comunque è immanente, ossia estesa (cioè le idee innate in quanto create). E tutto questo sta di nuovo in relazione con la sua concezione della mente, della cui dotazione ideale egli sottolinea fortemente la limitazione riduttiva. Infatti le idee non sono per lui altro che rappresentazioni, ossia “stati” della mente, sebbene posseggano comunque una reale onticità. E come tali esse sono oggetti ideali che devono necessariamente divergere onticamente dagli oggetti reali esteriori che esse intanto rappresentano. In altre parole esse non stanno affatto per l’oggetto reale, per quanto siano comunque delle oggettività intelligibili (come per Platone).
In tal modo Malebranche privilegia la sostanza ideale rispetto al modo della mente. E nel complesso svaluta il modo della mente in relazione all’evidenza che la mente stessa non è quantitativa e quindi non può esprimere (come modo) l’oggetto esteriore senza dover coincidere con tale quantità. Con ciò Malebranche si oppone quindi al soggettivismo idealista di Cartesio – per il quale di fatto l’idea sta per l’oggetto reale (laddove quest’ultimo per lui non è altro che puro pensiero).
In definitiva comunque (come abbiamo già accennato) la dottrina delle idee di Malebranche culmina nella dottrina (gnoseologica, epistemologia e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio” che tratteremo in paragrafo specifico. Ed in questo contesto il pensatore postula la dipendenza delle menti umane da Dio per conoscere verità immutabili con certezza [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, XI p. 116-119]. Queste idee vengono però secondo lui semmai rivelate da Dio, ma non create nella mente, e quindi non sono affatto innate. Le idee cioè risiedono nel regno divino trascendente e non nella mente.
Secondo Rome si notano anche qui tracce di un platonismo che probabilmente fu di forte tradizione cristiana, risalendo a pensatori come Agostino e Tommaso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Tale tendenza del pensiero vedeva in particolare nella verità una realtà trascendente oggettiva (idee) alla quale anche Dio stesso si riferisce, pur essendo però esso stesso la Verità (e quindi contenendo in qualche modo le idee invece di esserne trasceso). A tale proposito dobbiamo perciò supporre ipotizzare che Malebranche non abbia superato i limiti della Rivelazione cristiana nel pensare al rapporto del Padre (quale Essere) con il Figlio-Logos-Sapienza, ossia colui che meglio incarna le Idee. Pertanto non deve aver concepito una reale trascendenza ontologica delle Idee rispetto all’Essere divino (cosa che avrebbe costituito un’eresia). Quello che è certo è però che Malebranche svincola le idee dall’Essere divino ossia dalla sua essenza (che invece Cartesio considerava equivalente totalmente ad esse), e quindi può considerarle come qualcosa di funzionale entro l’essere ed agire divino. Esse sono infatti per lui appena frutto della Volontà divina e non del suo Essere. E proprio per questo le idee possono essere radicalmente trascendenti in quanto assolutamente intangibili. Tanto che perfino la Volontà divina si serve di esse ma non le incarna mai del tutto. Pertanto esse sono intangibili nel senso di una radicale oggettività. Motivo per cui la Volontà divina può servirsi di esse solo così come sono (in quanto oggettive, immutabili ed universali verità matematiche) ma non può plasmarle a suo piacimento nella maniera arbitraria che era stata concepita da Cartesio. Insomma per lui non è nemmeno pensabile l’azione di un “genio maligno” di natura pseudo-divina che generi verità contrarie alla Ragione [René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976, I p. 105-115, II p. 117-133, III p. 135-164, IV p. 165-179] . Le idee (o verità eterne) esistono infatti prima che qualunque Volontà divina possa generarle o plasmarle.
Anche per questo esse non possono venire integralmente create da Dio, ossia non possono venire create dal nulla (e cioè non possono dipendere integralmente dall’illimitato ed incondizionato potere divino). È in questo senso che esse sono per lui “forme eterne”. Insomma Dio non viene certo ontologicamente trasceso dalla realtà delle idee (come supposto da Platone), ma comunque nell’ospitarle in sé, rispetta scrupolosamente i criteri oggettivi ed universali di razionalità che anche per Lui sono da considerare inderogabili. Per tale motivo Rome sottolinea che, a tale riguardo, la filosofia cristiana di Malebranche si approssima al creazionismo divino concepito da Tommaso e si discosta invece dall’esemplarismo di Bonaventura (secondo il quale Dio avrebbe creato appena delle idee che sono modello di essere e non invece le cose stesse). Comunque la studiosa non manca di sottolineare che in questo ambito sono tradizionalmente insorte una serie di aporie riguardanti la possibile limitazione della Volontà divina.
In ogni caso, secondo l’Autrice, la dottrina delle idee di Malebranche tocca un aspetto basilare della teoria della conoscenza in generale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., II, VII p. 90-91], e cioè il modo in cui il pensatore intende la teoria della conoscenza, la gnoseologia e l’epistemologia. La quale si incentra per lui nella conoscenza ordinaria dell’oggetto esteriore e quindi nel fondamentale ed imprescindibile atto di riconoscimento. In particolare si tratta del fatto (che già abbiamo evidenziato) che la percezione deve già contenere un’idea della cosa, ossia un contenuto intelligibile (che prescinde totalmente dalla previa creazione divina di idee nella mente).
Se così non fosse, infatti, all’anima (quale momento conoscitivo ben inferiore alla mente, ossia all’intelletto ed al pensiero) sarebbe impossibile riconoscere l’universale (ovvero l’essenza) che è connesso all’oggetto dal quale essa viene eccitata ad opera della percezione. Il che significa che il riconoscimento non avviene affatto a priori, ovvero in virtù delle idee create da Dio nella mente, e quindi non parte affatto dall’alto (dalla mente) ma avviene già nel contesto della percezione.
Proprio in relazione a questo egli concepisce (come Platone) un regno di idee oggettive e trascendenti al quale si riferiscono sia la mente umana che la mente divina. E così contraddice Cartesio, il quale, nel ritenere le idee create da Dio, ritiene uguali il mondo di idee presenti nella mente umana e quello presente nella mente divina.
Ma comunque, secondo Rome, la particolarità della dottrina delle idee in Malebranche sta più in generale in relazione al suo intendimento di Dio come in primo luogo “Colui che è” ovvero Essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134]. La differenza (estremamente rilevante) rispetto alla dottrina cartesiana delle idee create consiste a tale riguardo nel fatto che Cartesio condiziona strettamente la creazione divina del mondo alla conoscenza di Dio da parte di sé stesso – si tratta insomma dell’atto di pensare sé stesso da parte di Dio. Ed in tal modo vincola strettamente le idee all’essenza divina e non invece alla sua esistenza. In questo senso per lui Dio costituisce un insieme inscindibile di ontologia e gnoseologia. E quindi, nel conoscere sé stesso, Dio si riconosce come una verità che equivale totalmente al mondo esteriore – senza quindi alcun bisogno che le idee passino per la propria realizzazione in cose. Il che comporta che esse possano essere appena mezzi di conoscenza e non invece radice di esistenza. Per Malebranche invece le idee sono “super-essenziali” in quanto sono in primo luogo destinate alla realizzazione, e pertanto sono in primo luogo idee di cose (più che concetti deputati alla conoscenza). Insomma le idee sono per lui destinate in primo luogo all’attualizzazione ed all’esistenza temporale. E pertanto più che realtà gnoseologiche sono possibilità di essere. Esse pertanto non restano affatto nel campo dell’essenza ma sconfinano invece sempre in quello dell’esistenza.
Dunque, secondo Rome, entro tale epistemologia indissolubilmente legata all’ontologia (ma in maniera ben più corretta di quella di Cartesio), la deduzione è possibile solo di concerto con l’induzione. La quale deve dunque partire dal sensibile per poter aspirare al supremo livello della contemplazione delle essenze intelligibili. In tal modo il sensibile ricorda l’ideale mentre l’ideale guarda al reale. La conoscenza consiste quindi sempre in doppio processo (ascendente e discendente).
E proprio a tale proposito ci sembra che la teoria della conoscenza di Malebranche possa aiutare a portare ordine entro quel realismo delle essenze mondane (il cosiddetto “mondo degli onta”) che poi sarebbe stato sostenuto da Husserl ed ancor più dai suoi allievi − nella forma specifica di ricerca fenomenologica circa le essenze mondane [Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano 2002, II, 9a p. 53-58, III, 29 p. 141-143; Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, III, 2-3 p. 58-68]. Infatti entro questa dottrina si è teso a considerare come essenza qualunque cosa particolare ed immanente – come ad esempio sia il sole che la sfera. Non sembra invece essere così per Malebranche, secondo il quale l’ambito delle essenze non combacia affatto con quello delle cose esistenti, ma invece è solo il risultato di una conoscenza induttiva (ascensiva) che muove da queste ultime per raggiungere un livello che con il mondo reale non ha più assolutamente nulla a che fare. Pertanto nella ricerca fenomenologico-husserliana circa le essenze mondane deve aver operato un certo equivoco e forse perfino un errore concettuale
Da tutto ciò risulta comunque che il vero razionalista religioso è Cartesio e non Malebranche, che invece è integralmente un filosofo cristiano dato che si rifà strettamente alla Rivelazione senza inventare nulla. E questo implica per Rome anche il suo costante riferimento a pensatori cristiani come Agostino, Filone, Tommaso e Padri della Chiesa

3- La dottrina (epistemologica e teoretico-conoscitiva) della “visione in Dio”.
Di nuovo ci ritroviamo con ciò di fronte alla forte tendenza di Malebranche all’idealismo, ossia ad una dottrina gnoseologica secondo la quale la conoscenza non è costituita dall’immediata relazione tra il soggetto cosciente (mente-anima) ed il mondo esteriore per l’intermediazione della percezione, ma è invece rappresentata dall’intuizione delle idee (a loro volta rappresentanti di per sé le cose) da parte della mente-anima. Ma per lui queste idee non risiedono già nella mente-anima (come ritiene invece Cartesio secondo l’innatismo) – quindi non sono immediatamente a disposizione della Ragione –, bensì si trovano collocate in Dio stesso. Pertanto a suo avviso, in assenza dell’esistenza divina, noi di fatto non siamo per nulla in grado di conoscere.
Il versante empirista (e strettamente teoretico-conoscitivo) di questa dottrina consiste comunque nel fatto (già da noi evidenziato più volte) che le idee delle cose sono per Malebranche già presenti nella percezione
Ecco allora che per lui Dio è luogo supremo della conoscenza, ossia Colui nel quale noi realmente conosciamo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, Ia p. 120-127]. Però intanto va sottolineato che questo Dio dalla valenza gnoseologica è radicalmente diverso da quello che vuole e crea (p. 125). Insomma non è affatto l’essenza-creante-l’esistenza che viene postulata da Cartesio. E qui si delinea il già accennato tratto distintivo tra Cartesio e Malebranche, che è la netta distinzione da parte di quest’ultimo del potere divino dall’intelletto, laddove invece il primo considera Dio unicamente come puro intelletto creante. In particolare, anche se le Idee fanno parte della sostanza divina (e quindi non lo trascendono, come in Platone), Dio ha come proprio oggetto le idee invece di generarle (crearle) nell’atto di pensare e soprattutto di pensare sé stesso. Per essere più precisi, quindi, per Cartesio la creazione è di natura unicamente intellettuale (quindi puramente gnoseologica e concernente il puro pensiero), mentre per Malebranche essa è di natura integralmente ontologica, e quindi esige qualcosa di più del puro pensiero per generare le cose e modificarle, ossia un fattore di trasformazione della pura essenza creata, e quindi il potere.
Naturalmente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 129-134] tutto ciò sottolinea la natura puramente comprendente di Dio e mette invece in secondo piano la sua natura causante. E con ciò ci spostiamo in Malebranche di nuovo sul piano della causalità e dell’occasionalismo, così come anche sul piano della relazione tra essenza ed esistenza. Ma sullo sfondo di tale dottrina si delinea di nuovo la visione di Cartesio con la centralità di quel Causa Sui che invece Malebranche non condivise affatto. Infatti per Cartesio Dio è Causa Sui nel contesto di un fare che è in primo luogo pensare (potere conoscente e solo entro questi limiti creante), e come tale sta in radicale concorrenza con l’azione delle forze materiali della Natura. Egli infatti si provvede di attributi proprio perché può concepire senza limiti il creabile (primariamente intelligibile) più che il creato ossia il reale esistente. Ne consegue che per Dio avere attributi (e possedere quindi un’identità mediante gli attributi, ossia l’essenza) equivale all’essere causa di sé stesso. In tal modo egli conferisce esistenza a sé stesso nel pensarsi. Ma ciò è pensare sé stesso e non invece conoscere le cose esteriori. Quindi gli attributi divini pensati da Dio non sono affatto le qualità delle cose da Lui conosciute. Dio dunque, per Cartesio, pensa soltanto sé stesso ed affatto invece il mondo esteriore. Naturalmente la dottrina della visione in Dio non corrisponde affatto a questo intendimento cartesiano delle cose e del pensiero divino. Per Malebranche infatti in Dio noi vediamo effettivamente le cose esteriori, sebbene solo come idee.
Eccoci dunque di fronte alla più radicale differenza esistente tra Cartesio e Malebranche. Essa consiste soprattutto in due elementi: − 1) per Malebranche Dio è esistenza e non essenza, e quindi sussiste ed agisce del tutto indipendentemente dal pensiero; 2) le idee per lui esistono del tutto indipendentemente da Dio, nel mentre Dio esiste indipendentemente da qualunque pensiero (idea), sebbene le idee rientrino comunque nella sua sostanza di immutabile.

4- L’ontologia di Malebranche.
Abbiamo già visto che l’ontologia influenza così tanto l’epistemologia del pensatore da renderla assolutamente specifica ed originale. Specie in uno scenario in cui la metafisica razionalistica (da Cartesio in poi) stava introducendo in filosofia l’epistemologia proprio a scapito dell’ontologia anticipando così uno scenario in cui quest’ultima sarebbe finalmente svanita oppure avrebbe assunto nuove forme decisamente bizzarre e devianti. Inoltre abbiamo già avuto modo di constatare molti aspetti della centratura ontologica (e non gnoseologica) del pensiero di Malebranche. Ma ora è arrivato il momento di spostare direttamente la nostra attenzione su questo aspetto.
Probabilmente il concetto e principio più centrale dell’ontologia di Malebranche consiste nel fatto che l’Essere autentico è infinitamente lontano da qualunque essere ideale e non è quindi affatto in esso risolvibile [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, III p. 155-160]. Non a caso esso non coincide affatto con i contenuti del pensiero di Dio (sia il pensiero di sé stesso che quello delle cose) ma coincide invece unicamente con l’Essere divino tout court, ovvero con il suo primario e paradigmatico esistere.
Pertanto, per il nostro pensatore, l’essere esiste irriducibilmente all’essere ideale ma anche allo stesso essere reale meramente esteriore. Probabilmente questa è stata una delle forme più radicali di ontologia in quanto essa sembra esprimere la formula più piena e radicale di definizione dell’ontologia: − in essa l’essere deve essere assolutamente irriducibile a qualunque essere ideale. Definizione che poi fa ovviamente prevalere l’essere reale. Possiamo comprendere meglio tutto ciò se confrontiamo questa definizione di ontologia con quella estremamente moderna di Nicolai Hartmann, secondo il quale l’Essere include alla pari dimensione ideale e reale quasi senza alcuna differenza oltre ad essere comunque autentico solo se reale in quanto mondano [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982].
Ma qui Malebranche non si riferisce affatto all’essere mondano, bensì a quello divino (in quanto assolutamente paradigmatico, ossia essere per eccellenza). Solo Dio per lui è pienezza e paradigma dell’essere. E qui incidono nuovamente le differenze esistenti tra lui e Cartesio, specie nel concepire sia il pensare sé stesso da parte di Dio sia nel concepire la conoscenza umana di Dio. L’aspetto gnoseologico fondamentale della faccenda è la differenza esistente tra la conoscenza delle cose e la conoscenza di Dio – la prima richiede l’applicazione di un’idea (essenza) all’esistenza della cosa (indeterminata per definizione), mentre per la seconda non vi è semplicemente alcuna idea da applicare all’esistenza, per cui Dio viene conosciuto solo tramite quest’ultima. Pertanto noi apprendiamo solo “che Dio è” e non “cosa è”. Questo è senz’altro un limite della nostra mente, ma comunque esso va accettato pienamente ed umilmente.
Qualcosa di molto simile accade anche entro la conoscenza che Dio ha di sé stesso nel pensarsi – infatti per Malebranche l’idea che Dio ha di sé stesso non è mediata dalla rappresentazione ma unicamente dall’esistenza. È per questo che la natura di Dio consiste unicamente nell’esistenza. Ed è sempre per questo che Egli «è» (essenza) in primo luogo Essere – la sua essenza coincide totalmente con l’Essere.
A causa di tutto questo quindi, secondo Malebranche, lo stesso nostro pensare Dio rifluisce sempre immediatamente nella Sua esistenza. Cosa per cui non appena lo si pensa, Egli già è – “se lo si pensa, allora Egli è”. Insomma basta solo pensarlo (come accade ad esempio in preghiera) per essere immediatamente in Sua presenza. E questo è stato del resto affermato anche da Guardini nella sua riflessione sulla preghiera [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89]. Ma in termini filosofici ciò implica soprattutto l’indubitabile ed infallibile certezza circa l’esistenza di Dio; nonostante il fatto che Egli resti un radicale absconditus per i nostri sensi.
Non vi sono dunque affatto idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dall’uomo (l’idea che il singolo uomo ha di Dio). Cosa che invece oggi avviene ordinariamente entro la ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logico-critica dell’idea di Dio (spesso francamente distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Insomma ciò che Malebranche sottolinea è prevalentemente la primarietà ontologica dell’esistenza.
Insomma per lui l’ontologia si lascia riassumere totalmente nella primarietà dell’esistenza.
Proprio per questo tra la sua ontologia e quella neo-tomista di Maritain esiste una notevole parentela, dato che per entrambi i pensatori l’esistenza è in primo luogo “atto di esistere”.
La pienezza dell’esistenza viene espressa per lui esattamente da Dio ed esclude quindi qualunque altra dimensione dell’Essere. Per tale motivo egli ritiene che si conosce Dio non per la via di idee (concetti, rappresentazione), ossia per la via dell’essere ideale, ma invece solo per la via del più pieno essere possibile, ossia l’esistenza espressa al massimo grado.
Si potrebbe dire, quindi – sul piano propriamente religioso – che in fondo Malebranche sostiene che la conoscenza di Dio non è altro che l’esperienza del Dio vivo, e quindi la prima si riduce alla seconda. Il pensarlo, come abbiamo visto, è già essere in Sua presenza.
Con tutto ciò dobbiamo di nuovo tornare all’epistemologia che si riconferma intrecciata strettamente in Malebranche con l’ontologia. Infatti (come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti) quella del nostro pensatore è un’epistemologia (già di per sé molto speciale) che è strettamente connessa all’esistenza, e quindi alla necessaria realizzazione delle idee. Le quali sono quindi da considerare non forme vuote deputate alla conoscenza bensì invece molto più possibilità di essere [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIa p. 130-133]. Ecco che l’epistemologia di Malebranche si caratterizza in primo luogo per la sua indispensabile conciliazione con l’ontologia (e quindi per il realismo), il che corrisponde poi alla sua netta differenziazione (anti-cartesiana) tra essenza ed esistenza. Si tratta di ciò che abbiamo già visto prendendo atto della definizione delle idee come “super-essenziali”, in quanto esse rientrano molto più nell’ambito dell’esistenza che non in quello dell’essenza. Ed abbiamo visto anche che questo è un altro dei tratti fondamentali della differenza che lo divise da Cartesio.
Sempre in questa parte del testo di PM Rome sottolinea giustamente che tutto ciò evidenzia in Malebranche una forte tensione sussistente tra un’epistemologia molto tendenzialmente platonica (in quanto incentrata nella teoria delle idee) ed un forte realismo onto-metafisico configurato dall’importanza primaria concessa all’esistenza e quindi anche alla necessaria realizzazione delle idee.
Ed in tal modo ritorniamo ai tratti fondamentali di una gnoseologia e teoria della conoscenza, entro le quali alla percezione viene assegnato un ruolo di un certo valore ed inoltre la mente (il pensiero) viene considerata atta in primo luogo a conoscere le cose del mondo esteriore.
Insomma la percezione è per lui un vincolo ineluttabile, che rende la conoscenza radicalmente diversa dalla relazione riflessiva con sé stessi (l’introspezione concepita da Cartesio). Proprio a causa di questo vincolo per Malebranche non può esservi alcun fisiologico dubbio nel conoscere.
E questo perché (sempre a causa del vincolo della percezione entro la conoscenza) nel conoscere non si ha mai a che fare con la pura essenza ma sempre invece con il mondo creato esteriore.
Ecco che la visione in Dio (quale risorsa per salvare la conoscenza dallo scetticismo e dal relativismo) è connessa al fatto che per Malebranche è la Natura (e non invece l’uomo) la vera misura delle cose. Per tale motivo secondo lui Dio è da considerare una Ragione che è perennemente legata alle cose. Ed in tale contesto l’attenzione assume importanza decisiva insieme alla percezione e l’esperimento.

Inevitabilmente, così come l’epistemologia di Malebranche, anche la sua ontologia deve differenziarsi nettamente da altre ontologie, e specialmente da quella scolastica. Quest’ultima molto in generale si caratterizza infatti per le qualità attribuite agli oggetti, qualità che vengono considerate costituenti l’oggetto stesso in quanto esteriore e sensibile (per quanto comunque considerato intelligibile ossia concettualizzato). Di contro l’oggetto concepito dal nostro pensatore possiede un’onticità ideale che lo sottrae al mero regno del sensibile e lo colloca unicamente nel regno dell’”estensione intelligibile”. Sebbene non si debba dimenticare che Malebranche concepisce un mondo di relazioni matematiche sovrapposto alla mera percezione, il quale ci permette la conoscenza altrimenti inficiata irreparabilmente dal mutamento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299].
Inoltre l’ontologia di Malebranche convoca ovviamente anche l’occasionalismo con il concetto di Causa Sui del quale abbiamo già discusso [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., III, IIc p. 135-139]. Infatti la differenza che lo divide da Cartesio a tale riguardo è incentrata esattamente nell’accento da lui posto sull’esistenza in luogo dell’essenza. Per Malebranche insomma Dio non è appena causa della propria esistenza (a partire dalla propria essenza), ma è invece l’esistenza stessa per eccellenza, ossia è molto più che causa della propria esistenza. È per tale motivo che Dio non è ultimamente nemmeno potere, ma è in primo luogo Essere. In particolare è un Essere assolutamente originario, che non riconosce dietro di sé alcuna causa giustificante. È insomma un Essere radicalmente auto-giustificato. E ciò ci riporta alla concezione dell’Essere che venne affermata da pensatori come Jaspers e Berdjaev. Presso i quali l’Essere è talmente radicalmente originario da porsi (specie in Jaspers) in un «oltre» per definizione intangibile, invisibile, irraggiungibile, innominabile e indefinibile (che poi è lo spazio della metafisica stessa), fino al punto da essere assolutamente non categorizzabile e quindi presentarsi (coerentemente) molto più come un’assenza che come una presenza.
Connesse con ciò sono tutte le considerazioni che abbiamo già fatto riguardo all’occasionalismo, e che quindi qui vanno qui solo completate. Infatti in il concetto di Dio-Causa è inscindibile da quello di Dio-Essere. Ed ecco quindi che l’occasionalismo (connesso al concetto di Dio-Causa) si spiega ultimamente nel modo che segue [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Il binomio Causa-Essere (cioè il più perfetto che ci sia) domina su tutte le altre possibili giustificazioni delle cose. In altre parole Dio è Causa semplicemente perché non solo (in quanto Essere pieno ed originario) è stato Lui stesso a porre in essere il mondo che abbiamo davanti e nel quale viviamo, ma inoltre quest’ultimo partecipa totalmente del Suo Essere (altrimenti nemmeno esisterebbe). Pertanto in un certo senso Dio è qui, Dio è ovunque. Ed inoltre Malebranche sottolinea che (diversamente da Spinoza) non vi è nulla di necessario nella causalità divina, ossia non vi è nulla di ciò che si riscontra nella naturale connessione tra causa ed effetti [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ib p. 168-179]. Non si tratta insomma di nulla che riguardi la causalità naturale. Ed ecco perché (come abbiamo visto discutendo l’occasionalismo) non possiamo prevedere assolutamente gli effetti della volontà, così come non possiamo in alcun modo dedurre a priori il mondo voluto da Dio. Ed infine (ancora più generalmente) non possiamo dedurre l’esistenza dall’essenza.
In ogni caso da tutto ciò risulta evidente che l’Essere divino (impregnante il mondo fino a costituire la sua causalità senza per questo nemmeno aver bisogno del movimento) trascende ogni effetto dell’essenza sull’esistenza, tanto che (secondo il modello cartesiano: puramente gnoseologico e non realmente ontologico) pretendiamo di dedurre a priori l’esistenza (mondo) dall’essenza; ossia per la via di pura conoscenza e non di ontologia.
Uno degli aspetti centrali di tutto ciò è pertanto l’assoluta non necessità dell’atto creativo (libero atto d’amore che conferisce l’esistenza all’essenza, o “qualcosa”) e che proprio per questo non è per nulla intelligibile, ovvero non si sa assolutamente perché avviene [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, II p. 191-201]. Ciò che distingue da Cartesio e Spinoza è in sintesi l’assenza totale di necessità (e quindi in qualche modo anche intelligibilità razionale di tipo matematico) nella sua complessiva visione: di Dio e della Natura. Dio infatti non è affatto causa in base al fenomeno della causalità naturale [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, IVa p. 209-220]. Quindi non si tratta di azione ma invece di semplice ed immediata presenza divina (omni-presenza), ossia l’esistenza stessa del mondo creato (essa è di per sé causalità). La causalità per Malebranche è insomma ben più essere che non invece attività.
In ogni caso la radice della visione del pensatore è il creazionismo opposto all’azione delle cause secondarie. Infatti la presenza divina nel mondo (ossia la sua natura di primario esistente) non è altro che la creazione stessa in quanto già portata a termine. Ed essa include quindi in sé (trascendendoli) tutti gli elementi propri della causalità naturale di tipo unilateralmente fisico: − azione, movimento, forza.
E ciò contraddice per Rome l’idea pagana di singole entità divine agenti (politeismo, spiriti della Natura). Ma contraddice anche l’idea cartesiana della causalità ritrovata nel nostro spirito (per mezzo dell’esame interiore introspettivo) come idea chiara e distinta. Cosa che non a caso sarebbe stata poi contestata da Hume in quanto affatto veridica – infatti la causalità non era per lui affatto un’idea chiara, ma era invece appena una confusa d oscura idea di natura inconsistentemente metafisica. A ciò avrebbe poi fatto da eco Kant nel dichiarare che l’idea di causalità non era affatto oggettivamente fisico-naturale ma era invece solo il prodotto della proiezione degli a priori mentali (totalmente soggettivi) sul mondo naturale. Ancora una volta, quindi – sebbene nel contesto di un pensiero sostanzialmente religioso –, Malebranche si mostra in questo anticipatore dell’empirismo del XVIII secolo.

5- L’intendimento del pensiero e dell’auto-conoscenza. La concezione del Sé.
In questo ambito ritroviamo un altro importantissimo elemento di comparazione tra Malebranche e Cartesio. E tale elemento riguarda in generale la dimensione interiore, o anche “Sé”, con l’inevitabilmente connessa auto-conoscenza o conoscenza interiore. Laddove questi sono tutti elementi di rilevanza primaria in Cartesio con la sua dottrina del «cogito».
Comunque – restando così (almeno in una certa misura) anche entro l’orbita della dottrina cartesiana − Malebranche intende il pensiero non come intelletto (puro pensiero) bensì invece come raccoglimento e comprensione e infine soprattutto “concezione” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I -II, p. 243-266]. Ed è evidente che la dimensione dell’intelletto o puro pensiero corrisponde integralmente in Cartesio al «cogito» (e più generalmente alla mente nella sua interezza, ossia a tutto ciò che è «mentale»). Con la conseguenza che quest’ultimo non può non comportare un dualismo, dato che il puro pensiero (con l’intera connessa dimensione soggettuale) non può non contrapporsi radicalmente all’essere (con l’intera connessa dimensione oggettuale). Ed infatti Rome specifica che per il pensatore il «cogito» è da considerare in primo luogo come un puro atto del soggetto (più che non realtà di coscienza).
Ella ritiene che però su questo specifico aspetto i due pensatori siano stati sostanzialmente d’accordo. Ma comunque viene da lei anche precisato che per Malebranche la mente è sostanzialmente “attenzione” più che “Io penso”, e quindi è qualcosa di ben più ampio che pura epistemologia e logica. Cosa che poi corrisponde all’esistere assolutamente primario della mente, ovvero alla dimensione esistenziale di quest’ultima.
Abbiamo già esaminato questi elementi nei paragrafi precedenti, ma vale la pena qui di soffermarsi di più sui dettagli della diversa visione di Cartesio e Malebranche.
In definitiva infatti Rome ci suggerisce che Malebranche contestò il fatto che Cartesio si aspettava decisamente troppo dal «cogito» in quanto puro pensiero capace di far nascere in sé gli oggetti stessi (secondo uno schema di onto-generazione causale che legava per lui il pensare all’esistere) e quindi anche come privilegiato metodo conoscitivo (posto al riparo dall’errore). Proprio per questo egli sosteneva in maniera estrema che la conoscenza della mente era per definizione migliore di quella del corpo. Rome sottolinea che in fondo anche per Malebranche il puro pensiero venne considerato l’essenza ultima della mente e dell’anima. Ma oltre a ciò egli ritenne il pensiero come spirituale soprattutto in quanto “sentimento interiore” (più che pensiero puro). Il che era l’effetto del fatto che in tutto questo egli attribuiva un valore e ruolo anche alla percezione. Insomma per lui il pensiero aveva anche una valenza percettiva, essendo connesso alla conoscenza reale degli oggetti. Proprio per questo per lui si trattava della mente esistente e non invece puramente essenziale (pensiero puro). Ecco quindi che Cartesio concepiva il «cogito» come un affermare sé stessi (corrispondente all’auto-evidenza delle verità entro il puro pensiero) che istituisce anche un’equivalente tra la mente stessa e i contenuti del suo puro pensare (verità matematiche: geometria). Insomma il pensiero era per Cartesio unito ed equivalente onticamente ai propri oggetti. Il triangolo era insomma la stessa cosa del pensiero puro. Malebranche invece li separò (separò cioè dal pensiero, ossia l’atto, i contenuti del pensiero). Ne consegue che per lui si delinea in tal modo un vero e proprio oggetto esteriore e quindi una quantità – si pensa sempre una quantità. Gli stessi principi matematici erano per lui vincolati ad una dimensione fisico-corporea (che è quella dell’esperimento ed anche della percezione).
Nello stesso tempo quindi per Malebranche la mente risultò inaccessibile al pensiero come idea distinta (come avviene nell’auto-conoscenza o conoscenza interiore). E pertanto essa finì per apparirgli come affatto meglio conoscibile del corpo
Nel complesso, quindi, per Malebranche, il «cogito» (e l’intero metodo di conoscenza cartesiano: esame interiore) era da considerare come non realizzabile e pertanto solo illusorio.
Pertanto per lui Cartesio ebbe torto nel considerare l’introspezione (priva di qualunque vincolante correlato esteriore) come l’unico luogo della verità. E con ciò, quindi, le qualità degli oggetto (concernenti sempre l’estensione) gli apparvero come primarie rispetto al puro pensiero, costringendolo quindi ad assumere una posizione empirista e realista accanto a quella idealista.
Appare quindi evidente che Malebranche – quando considera la dimensione interiore e quindi il Sé −, diversamente da Cartesio vede davanti a sé l’amplissimo ambito della mente (con tutte le sue funzioni naturali) più che non la dimensione sostanzialmente metafisico-gnoseologica del puro pensare. Ma a differenziare i pensatori non basta nemmeno questo, dato che il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, la “visione in Dio”, ha anche una franca dimensione di fede e quindi non è affatto solo gnoseologica ma è anche religiosa [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, I p. 243-254]. Essa fu infatti per lui anche la vera e propria unione a Dio. Insomma il conoscere le cose per mezzo delle idee presenti in Dio (gnoseologia) corrispondeva per lui anche all’unione fideistica a Dio, ossia alla penetrazione nella vita divina.
La visione ben più ampia della mente, che il nostro pensatore ha, si traduce soprattutto nell’affermazione dell’assenza di fatto (e quindi illusorietà) di quell’atto di auto-conoscenza che invece costituisce il nucleo stesso del «cogito» cartesiano. In luogo dell’auto-conoscenza egli riconosce infatti qualcosa di mentalmente ben più ampio come il “sentimento interiore”, il quale non è affatto piena conoscenza, contenendo anche un aspetto fortemente percettivo.
Insomma, ancora una volta, si ha l’impressione di ritrovare qui l’anticipo di alcuni aspetti della teoria husserliana della conoscenza, entro la quale – nel contesto del concetto di intenzione, di datità e pre-datità, e di momento pre-giudicativo della conoscenza– la dimensione conoscitiva sta fortemente in continuità con quella percettivo-corporea [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Introduzione, Mondadori, Milano 2008, II, I, I, 1-4 p. 441-448; Pedro MS Alves, Carlos Aurélio Morujão (trad), Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, II, Voll, I, I, § 11, 49-51, p. 68-71].
E tutto ciò ci riporta alla relazione tra spirito e volontà prima discussa, elemento dottrinario che poi porta con sé di nuovo la presunta migliore conoscenza della mente invece del corpo da parte di Cartesio. Il che sta ancora una volta in connessione con la negazione dell’auto-conoscenza da parte di Malebranche.
Oltre a tutto ciò, a moderazione dell’importanza del puro pensiero e dell’auto-conoscenza, sta ovviamente anche l’empirismo del nostro pensatore. Infatti Malebranche considerò sì fondamentali le nozioni primarie (trascendenti) ma le considerò intanto sempre da comprovare mediante l’esperimento [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, II p. 255-266]. In questo consiste quindi il suo sperimentalismo baconiano. E per questo, come sottolinea Rome, egli è estato considerato unilateralmente empirista (come Hume) da parte di diversi suoi interlocutori, sebbene questa sia un’affermazione troppo estrema.
Ebbene proprio in questo contesto si delinea entro la sua dottrina il sentimento interiore come conoscenza solo indiretta dell’anima (in sé invece impossibile quale piena introspezione) e quindi mediata inevitabilmente dalla conoscenza delle qualità sensibili degli oggetti esteriori. In altre parole per lui la mente può venire al massimo conosciuta per mezzo della percezione, al pari degli oggetti esteriori. Il che spazza via la conoscenza diretta ed incondizionata della mente concepita da Cartesio.
Secondo Rome, comunque, Malebranche risolse il problema dell’inconoscibilità della coscienza (non riconosciuta invece da Cartesio) sul piano gnoseologico-fideistico, cioè considerando meditazione e preghiera come un vero e proprio atto di cognizione-volizione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., V, III p. 267-278, VI, I p. 279-284]. Questo concetto va chiarito sulla base della sua discussione da parte della studiosa. Tutto si basa sul fatto che Cartesio attribuisce all’essenza una conoscibilità che si fonda sul fatto che essa sarebbe addirittura attività in concorrenza con l’esistenza (che per lui è invece assolutamente inconoscibile oltre che inerte). È per tale motivo che egli ritiene impensabile l’esistenza senza l’essenza che la genera e addirittura la muove. Ma Malebranche la pensa al proposito in modo del tutto opposto, ritenendo così l’essenza inconoscibile e l’esistenza invece pienamente conoscibile. Essa lo sarebbe in particolare in quanto coincidente con la nostra stessa vitalità (definita da Rome come “auto-esistenza”), che poi affonda le sue radici nello stesso Sé, ossia l’interiore. Il quale in tal modo finisce per lui per divenire equivalente all’esistenza stessa.
In particolare si tratta quindi del Sé quale auto-coscienza, ossia l’intensa e vitale relazione con noi stessi che noi per natura intratteniamo. E quindi solo come tale il Sé risulta conoscibile. Più precisamente però si tratta qui del fatto che la volontà si pone in concorrenza con la pura conoscenza, presentandosi come dotata di una capacità che quest’ultima non possiede affatto – tale capacità è quella di conoscere anche l’inconoscibile attraverso appunto il volere. Ed è esattamente questo che avverrebbe per Malebranche entro il volere la propria esistenza.
In ogni caso è proprio per questo motivo che egli postula una perfetta equivalenza tra l’oggetto dei sensi e quello della fede. È infatti per tale motivo che egli ritiene che siano le Scritture ciò che per davvero ci rivela l’esistenza di un mondo esteriore.
È evidente qui l’ascendenza agostiniana di questa complessiva dottrina. Ma viene anche il sospetto che in questo modo Malebranche abbia colto il vero senso del «cogito», che è ben più ontologico che non gnoseologico. Non a caso Agostino aveva precorso Cartesio proprio nel considerarlo per davvero come un «cogito-sum», ossia come la maggiore rivelazione possibile del nostro esistere.
E questo proprio a causa della volizione amorosa che ci lega a noi stessi.
In ogni caso proprio su questa base Malebranche negò il sussistere della materia, nel ritenere che, a descrivere il mondo, basta pienamente il concetto di esistenza.
Ecco insomma che di nuovo in Malebranche la dimensione gnoseologica e quella religiosa appaiono fortemente intrecciate.
Per tale motivo, secondo la studiosa, il nostro pensatore (nonostante il suo razionalismo) rientra in verità molto più nell’antica tradizione teologico-cristiana della prevalenza della fede sulla filosofia (ragione), e specialmente per il fatto che considera il mondo esteriore conoscibile non solo con i sensi ma anche per mezzo della Rivelazione [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. In questo senso egli si fece quindi sostenitore di un vero e proprio realismo religioso.
Tutti quelli appena discussi sono però aspetti molto specifici della sua teoria della mente.
Più in generale invece, secondo Rome, il suo fu un rappresentazionalismo più favorevole alle idee che non ai sensi come facoltà conoscitive. In tale contesto si delinea pertanto un suo tendenziale idealismo che lo approssima fortemente a Berkeley.
Tutto ciò significa allora ancora una volta che il suo pensiero fu diviso tra idealismo e realismo.
Ma la tensione tra queste due tendenze venne in definitiva superata da quel valore a lui attribuito all’esistenza che attenua fortemente il suo idealismo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284].
L’idealismo appare infatti essere (in via di principio) anti-religioso in quanto nega il mondo creato (oggetto) a favore della dimensione mentale soggettiva. Così il mondo diviene superfluo (oltre che inaccessibile) a contraddizione della fede religiosa. E ciò corrisponde peraltro alla presa di posizione di un moderno pensatore realista come Hessen – il quale contestò radicalmente ogni idealismo a favore di un pieno realismo, coinvolgendo nell’accusa all’idealismo l’intera metafisica cristiana di tipo scolastica in quanto dominata dall’intellettualismo di Aristotele [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955].
Del resto però la stessa visione religiosa di Malebranche finisce per dissolvere anche il suo realismo. Dato che egli non crede affatto in un mondo esteriore indipendente dall’azione divina in ogni suo minimo particolare (cosa che lo portò, come abbiamo visto, a negare l’esistere della materia). E con ciò egli diviene decisamente di nuovo un idealista.
Secondo l’Autrice domina comunque qui una sfiducia verso l’onticità del corpo a favore della mente, cosa che sicuramente riavvicina Malebranche a Cartesio (p. 281-282). Intanto comunque (a fronte di tutto ciò) Malebranche si presenta come pensatore davvero unico, in quanto egli (diversamente da Berkeley) conferì alle idee l’onticità di oggetto reale universale (come il Platone correttamente interpretato), e quindi sfuggì in tal modo all’immaterialismo (nominalista e concettualista) che è da sempre proprio dell’idealismo. A causa di tutto questo si può riaffermare che Malebranche è stato forse uno dei filosofi più originali mai vissuti. E questo a causa della sua forte imprevedibilità e inclassificabilità.
E in relazione a questo vale la pena di riprendere il concetto già discusso di “estensione intelligibile” [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, III p. 292-299]. Infatti proprio grazie ad esso possiamo meglio comprendere perché Malebranche pensi che le Scritture siano la migliore testimonianza dell’esistenza del mondo esteriore. Ciò è infatti vero perché l’estensione appare intelligibile nel pensiero del mondo che ha Dio. Ancora una volta quindi in tal modo la sua epistemologia appare inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presenta come una vera e propria filosofia religiosa più che invece come una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). L’estensione intelligibile non è quindi altro che una visione del mondo come estensione e corporeità. Ed esso è radicalmente diverso dalla relativa visiona cartesiana, secondo la quale queste ultime non sono altro che essenza, ossia qualcosa che sussiste solo entro il puro pensiero ed anzi proprio in esso vengono generate. Il che cancella totalmente il concetto di esistenza in quanto del tutto inconsistente e per nulla veridico, ossia al riparo da errore ed illusione.
Rome (p. 294) ci fa peraltro notare che si profila si nuovo qui un Malebranche idealista, mentre la Scolastica fu in verità realista ed anche in modo ingenuo. Infatti l’estensione intelligibile non è altro che una rilettura del mondo delle apparenze che interpreta l’oggetto come unicamente ideale, ovvero come idea (ossia come si presenta nel pensiero divino), e quindi del tutto al riparo dal divenire e quindi dalle conseguenti illusioni. Ebbene qui il pensiero di Malebranche vira decisamente verso l’idealismo, ritrovando in questo modo almeno una certa convergenza con l’essenzialismo di Cartesio. Infatti gli oggetti ideali (compresi nell’estensione intelligibile) non sono altro che quelle essenze universali che restano immutabilmente sé stesse, e sono quindi del tutto diversi dalle qualità dell’oggetto esteriore. Pertanto proprio in questa sede il pensatore può esprimere la sfiducia che gli nutre anche verso la percezione (nonostante il suo empirismo) – egli riconosce infatti che l’oggetto esistente non potrà mai venire davvero conosciuto se non si coglie intanto la sua essenza. E quindi qui anche l’accento da lui posto sull’esistenza diviene solo relativo. Si può dire quindi che il mondo esteriore è per lui indubitabile solo in quanto riconosciamo che esso esiste (“è”), ma non in quanto riconosciamo le essenze che determinano le cose in esso esistenti. Naturalmente quindi – entro la sua complessiva teoria della conoscenza − questa limitazione richiede il suo superamento mediante il ricorso alla dimensione intelligibile della conoscenza mediante a priori universali.
Questo quindi può venire considerato l’assetto (decisamente idealistico) della sua teoria della conoscenza una volta portata fino alle sue estreme conseguenze.

6- La teoria della percezione.
Dopo tutto ciò che si è detto, è già abbastanza chiaro com’è stata la dottrina della percezione di Malebranche. Ma comunque vale la pena di soffermarsi su come la descrive Rome.
Le cose si riassumono in effetti nella solita ambiguità delle sue idee. Infatti Malebranche teorizzò l’insufficienza della percezione insieme alla convinzione che i sensi ci rivelano comunque l’esistenza delle cose [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, IV p. 299-305]. E questo connota peraltro in modo decisamente positivo la sua teoria della conoscenza. Il che rende il nostro pensatore estremamente interessante in un contesto filosofico (iniziato al suo tempo proprio con Cartesio) che finì per teorizzare la problematicità della conoscenza, ossia la sua negatività di atto conoscitivo. Malebranche ritenne invece che noi conosciamo indubitabilmente ed efficientemente gli oggetti esteriori. Sebbene di primo acchito li conosciamo solo come esistenti, e solo dopo (per mezzo di un processo conoscitivo lungo e complesso) li conosciamo come essenze. E questo configura un realismo autentico (come abbiamo visto perfino di carattere religioso) che non si configura invece (nonostante le apparenze) nemmeno nella teoria della conoscenza scolastica.
Ed il motivo di ciò fu che tale realismo non fu mai unilaterale ma restò invece in costante equilibrio con l’idealismo. Proprio in questo senso Malebranche fu intensamente realista, sebbene (come abbiamo visto) l’idealismo non scomparve mai dall’orizzonte del suo pensiero ed anzi ne rappresentò il compimento ultimo.
Naturalmente − come Rome non manca di sottolineare (p. 303) e come risulta evidente anche da tutto ciò che abbiamo visto finora − la sua teoria della percezione è alquanto ambigua. Ma lo è del tutto a ragione. In primo luogo perché dall’altro lato vi è la sua teoria delle idee ed anche la sua più matura teoria della conoscenza (entro le quali la percezione viene decisamente svalutata). E tuttavia, secondo la studiosa, va sottolineato che il suo “rappresentazionalismo” (idee) è stato non poco esagerato e forzato dai suoi interpreti (venendo concepito in maniera troppo letterale) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, I p. 279-284]. E tale affermazione cade proprio a proposito dell’idea di Malebranche secondo la quale le Scritture sono la vera prova del mondo esteriore, con la conseguente convergenza tra sensi e fede. Insomma il pensiero di Malebranche – oltre che come empirismo − è stato anche illegittimamente interpretato come un internalismo che elimina qualunque esternalismo. Va comunque sottolineato che per il pensatore (dato che per lui la percezione non è affatto cognizione) non vi è alcuna possibilità di prova reale e naturale del mondo esteriore dei sensi (e per questo ricorre all’autorità delle Scritture) [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, V p. 305-310]. E questo sembra contraddire radicalmente il suo empirismo. In effetti però tutto si chiarisce laddove egli (come Bergson) afferma la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIa p. 310-313], entrando così in radicale conflitto con Cartesio.
In altre parole si può dire che il pensiero di Malebranche è stato scorrettamente interpretato sia nell’esagerare il suo realismo sia nell’esagerare il suo idealismo.
Malebranche fu comunque davvero decisamente anti-empirista (come abbiamo già visto discutendo la sua ontologia) nel rigettare totalmente la credenza nel mondo esteriore quale grossolano errore che secondo lui fu tipico della filosofia scolastica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VII p. 317-330]. In questo però egli afferma (come abbiamo visto) l’unità di Fede e Ragione. È infatti proprio la Fede ciò che gli permette di controbattere l’errore del radicale esteriorismo di tipo ingenuo della Scolastica (la quale secondo lui si rifece più all’intellettualismo metafisico di Aristotele che non alla Rivelazione cristiana).
In aggiunta a ciò egli contempla addirittura esplicitamente una conoscenza dei misteri cristiani che rientri nella conoscenza di Dio (p. 320-321). Siamo in tal modo decisamente nel campo del non conoscibile (assenza di apprensione) e dell’irrazionale. E però siamo comunque ancora in campo gnoseologico perché questo è lo stesso ambito della visione in Dio delle cose esteriori.
Tuttavia (come abbiamo già visto più volte e come vedremo ancora a proposito della metafisica) vi sono anche luoghi del pensiero di Malebranche nei quali il suo empirismo e sperimentalismo emerge in modo prepotente suggerendo così interpretazioni del tutto contrarie [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317].

7- La metafisica di Malebranche.
La caratterizzazione della metafisica di Malebranche è in verità l’aspetto più rilevante di questa recensione – specie nel rispondere alla domanda circa la sua appartenenza reale (o meno) alla metafisica razionalistica del suo tempo. Per tale motivo questo tema ha attraversato già questa nostra intera trattazione. Quello che diremo qui è pertanto solo la puntualizzazione di alcuni aspetti specifici del tema.
Abbiamo già parlato diverse volte del modo in cui Rome inquadra la metafisica di Malebranche.
Ma comunque l’aspetto più rilevante della sua visione sembra essere il fatto che, non considerando Dio come essenza bensì invece come essere, il suo pensiero sfugge (almeno in via di principio) ai caratteri generali della metafisica razionalistica del proprio tempo [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV, Ia p. 162-168]. La studiosa lo dice con estrema chiarezza (nel discutere la dottrina dell’occasionalismo), affermando che egli è stato uno dei pochissimi pensatori del suo tempo che non abbia considerato Dio come essenza. Ad esempio è pura essenza il Dio di Cartesio e Spinoza.
E tutto ciò è estremamente significativo, perché mostra in Malebranche la forza di pensare in maniera fortemente contro-corrente.
In questo suo pensare estremamente originale si rivelano quindi essenziali la dimensione dell’Essere in generale (ontologia), dell’Essere divino e quella della sua capacità di creare.
Peraltro proprio a tale proposito possiamo comprendere meglio quale sia il ruolo e compiuto della metafisica presso Malebranche: − essa è strettamente connessa con la Fisica grazie al ricorso a Dio come Causa e come Essere. Non a caso, come abbiamo già accennato, Rome chiarisce che in Malebranche l’occasionalismo (così come anche la teoria delle idee) costituisce in primo luogo una metafisica [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., IV p. 161-242]. Insomma esso non è altro che la dottrina creazionista applicata alla Fisica.
E dunque possiamo registrare il fatto che il pensatore sostiene per davvero una metafisica razionalista (la Fisica stessa) anche nel constatare la presenza dinamica di Dio negli eventi, ossia nel fare più teologia che non scienza. Tuttavia l’Autrice sottolinea che, nell’intendimento di Malebranche, ciò è qualcosa che va ben oltre la Rivelazione e quindi non manca di essere propriamente filosofico. Come abbiamo visto a proposito dell’occasionalismo, si tratta comunque di una dottrina fortemente razionalistica incentrata sul concetto di Dio-Causa.
E a tale proposito abbiamo constatato anche le differenze che separano la metafisica del nostro pensatore da quella della Scolastica ed anche di Suarez.
Per quanto possa sembrare paradossale, con questo concorda fortemente anche il già commentato empirismo di Malebranche [Beatrice Rome (a cura di), The Philosophy…cit., VI, VIb p. 313-317]. In questa sede di PM, infatti, abbiamo una sintesi degli elementi che comunque configurano una metafisica razionalistica anche in Malebranche. Presso il quale (diversamente da Cartesio) essa ha però sempre un risvolto empirista e sperimentale, quindi non prescinde mai dall’esperienza, e pertanto è sempre realista oltre che idealista. La parte idealista è rappresentata dalla primarietà dei principi razionali trascendenti. Ed in tale contesto si colloca anche un realismo criticista simile a quello del XX secolo: − ossia la dichiarazione dell’inesistenza di oggetti illusori.

Conclusioni.
Abbiamo appena discusso quello che a nostro avviso è il tema centrale nello studio del pensiero di Malebranche, ossia la sua appartenenza o meno alla metafisica razionalistica. Ma in queste conclusioni vorremmo cercare di pervenire ad una definizione ultimativa e chiara di questo tema.
Prima di fare questo vorremmo però evidenziare quelle che possono venire considerate le coordinate principali di questo pensiero così come sono emerse mediante l’analisi di PM. In ogni caso ci riferiamo con ciò in particolare alle coordinate di quella stessa metafisica razionalista nella quale il pensatore in particolare si riconobbe. In qualche misura l’esposizione di tali coordinate può venire considerato anche una sorta di sunto del pensiero di Malebranche.
Volendo previamente riassumere questi tratti portanti del suo pensiero si può dire che egli non ebbe affatto come propria principale preoccupazione la sola rigorosa razionalità della metafisica ma invece anche ben altri suoi caratteri. Che a volte addirittura divergono dalla rigorosa razionalità.
Ecco dunque le coordinate principali del suo pensiero.
Non vi è dubbio che nel pensiero di Malebranche (e precisamente entro la sua teoria della conoscenza) sia presente un empirismo addirittura sperimentalista (che conferisce ovviamente alla percezione il valore che ad esso spetta), ma comunque sempre assistito dalla deduzione a partire dai principi razionali a priori e dunque intelligibili. Filosoficamente quindi il nostro pensatore rientra almeno in parte nella sfera dell’esteriorismo empirista e non in quella dell’interiorismo cartesiano. E tuttavia va precisato che il suo pensiero sfugge decisamente allo sperimentalismo baconiano dato che esso non tollerò nemmeno la minima dose di apriorismo e quindi di deduzione. In ogni caso la teoria delle idee di Malebranche (idea come vero oggetto della conoscenza) resta il campo di una teoria della conoscenza che nel suo nucleo è primariamente idealista.
Malebranche si differenziò comunque dall’idealismo di Cartesio rispetto alla concezione degli oggetti come estensione, e precisamente l’estensione concepita da Dio trascendentemente e fin dalle origini (prima ancora della creazione) in quanto puro pensiero. E tale concezione vedeva gli oggetti come essenza e non come esistenza, e dunque li collocava in primo luogo nella sfera del pensiero (come intelligibili) e non in quella del mondo esteriore. Il nostro pensatore prestò invece sempre fede ad un originario mondo di esistenti (le cose reali) e non di essenze intelligibili. Sebbene abbiamo visto che questa credenza ebbe precisi limiti, come ricorderemo più avanti.
Nel complesso, entro l’occasionalismo, anche Malebranche espresse l’esigenza della metafisica razionalista in generale di dar conto di un mondo perfetto in quanto creato da Dio secondo rigorosissimi ed infallibili principi matematici. Ed in questo quindi egli si riconobbe nelle stesse idee che furono di Cartesio, Leibniz ed altri (tra i quali anche Spinoza).
Malebranche si discostò però da questa metafisica razionalista sempre nel contesto dello stesso occasionalismo. Il che avvenne soprattutto per mezzo di due obiezioni critiche: − 1) la contestazione del concetto cartesiano di Causa Sui, secondo il quale Dio (in quanto primariamente essenza) era causa della propria esistenza tanto quanto era un’essenza puramente a priori che generava l’esistenza; 2) la contestazione del concetto ordinario e ingenuo di causalità. In tal modo, alla fine dei conti, l’occasionalismo smentì la teodicea razionalista affermatasi con l’essenzialismo sia di Cartesio che di Leibniz. Il quale soprattutto pretendeva di dedurre le caratteristiche del mondo (specie la sua perfezione) dalla conoscenza dell’essenza divina in quanto invariabile volontà di bene (ecco l’idea leibniziana del «migliore di mondi possibili»). Il particolare si trattava di una perfezione razionale del mondo che però si manifestava più a priori che non a posteriori, e quindi trascurava colpevolmente (come insignificante) l’evidente imperfezione del mondo esistente. Quello che veniva concepito era insomma più che altro un mondo ideale (reso perfetto dalla sua adesione ai principi matematici) che, poi, in relazione all’arbitraria volontà divina, trovava la propria migliore realizzazione possibile nel mondo immanente. Anche Malebranche credette di certo ai principi matematici come criteri di perfezione del mondo, ma nello stesso tempo collocò il loro agire nell’immanenza del mondo esistente, ossia nel mondo governato dalle leggi studiate dalla Fisica. E quindi fu pienamente consapevole della loro relatività.
Assolutamente esemplare (specie per la sua grande originalità) è in ogni caso la teoria della conoscenza di Malebranche, che invoca la conoscenza delle cose per mezzo delle idee presenti in Dio (“visione in Dio”) – avendo inoltre perfino una dimensione fideistico-religiosa e mistica.
In via di principio essa si presta pertanto a rientrare entro la classica metafisica razionalista del tempo, che di certo non si negò mai al possesso di un risvolto religioso (sia pure molto vago).
Ma nello stesso tempo questa dottrina sfugge all’unilaterale apriorismo cartesiano, e quindi tiene in debito conto anche il ruolo della percezione. In particolare essa sfugge dunque sia all’idealismo che al realismo. E proprio per questo (cioè non soggiacendo alle esigenze unilaterali né dell’idealismo né del realismo) ci permette la conoscenza del vero oggetto, ossia quell’oggetto intelligibile che comunque (come vedremo) è assolutamente ontico. Ci troviamo così di fronte ad una sorta di idealismo equilibrato e ragionevole, che in qualche modo anticipa le aspirazioni (sia di Kant che di Husserl) ad un realismo che resti al riparo dalla postulazione metafisica di oggetti irreali. In questo senso quindi la teoria della conoscenza di Malebranche è davvero esemplare. Tuttavia la presa di posizione teoretico-conoscitiva del pensatore appare essere ben più equilibrata e ragionevole rispetto a quella degli altri esponenti della metafisica razionalistica, e quindi risulta per davvero del tutto esemplare. Anche perché essa – ben più della restante metafisica razionalista − concilia perfettamente la filosofia religiosa con la teoria della conoscenza, fondando così un realismo religioso davvero ben fondato (certamente molto più di quello tomistico-scolastico in quanto affatto dogmatico). In questo senso, quindi, essa fu molto più apertamente ed autenticamente religiosa della restante metafisica del tempo.
L’epistemologia di Malebranche (incentrata sulla destinazione all’esistenza, invece che all’essenza, da parte delle idee) ci mostra del resto che il vero razionalista metafisico fu Cartesio e non lui. Questo suo intendimento delle idee infatti è strettamente legato all’intendimento di Dio come Essere (ossia come il “Colui che è” dell’Esodo biblico), e non invece come Colui che genera il mondo già nel semplice atto di pensarsi. Con Malebranche l’epistemologia assunse pertanto un deciso volto ontologico. E questo è l’aspetto più originale ed interessante del suo pensiero in uno scenario in cui proprio la metafisica razionalista stava lasciando affermare la prima del tutto a scapito della seconda, anticipando così un’evoluzione che si sarebbe sempre più rafforzata nei secoli successivi.
In particolare nel suo pensiero, grazie alla netta definizione dell’essere (ontologia) e dell’Essere divino, non vi sono per nulla idee archetipe per mezzo delle quali conoscere Dio. E ci sembra che questo abolisca ogni possibile relativizzazione dell’esistenza di Dio a seconda delle varie idee a Lui applicate dai singoli uomini. Cosa che però oggi avviene ordinariamente entro quella ricerca scientifico-religiosa che ha ormai investito il campo di conoscenza della teologia e della filosofia religiosa. Entro il quale l’elaborazione logica-critica dell’idea di Dio (spesso anche distruttiva) ha sostituito quasi del tutto la certezza indubitabile circa la Sua esistenza.
Abbiamo anche notato più volte che le prese di posizione (gnoseologiche ed ontologiche) di Malebranche si offrono come modello per rivedere criticamente alcuni sviluppi recenti della filosofia (specie in relazione alla Fenomenologia di Husserl). Per esempio l’affermazione di una necessaria conoscenza induttiva (che parta dalle cose esistenti per pervenire al mondo trascendente delle essenze intelligibili) sembra correggere validamente la dottrina husserliana della ricerca fenomenologica puramente immanente circa le essenze mondane.
Nel contraddire poi la causalità naturale e necessaria di Spinoza (entro il concetto di Dio-Causa) Malebranche contraddice l’idea pagana di singole entità divine agenti nel mondo (politeismo, spiriti della Natura). Ed in tal modo adombra anche (sebbene in un altro ambito) la dottrina empirista di Hume, secondo la quale (diversamente da Cartesio) la causalità non sarebbe affatto un’idea chiara e distinta, ma invece solo una confusa idea metafisica. Il che anticipa poi anche l’idea di Kant, secondo la quale la causalità stessa non era altro che appena proiezione degli a priori mentali sulla Natura.
Nel complesso quindi il genio di Malebranche si presenta come capace non solo di anticipare sviluppi ulteriori della filosofia ma anche di porre le loro più corrette basi.
In ogni caso uno degli aspetti principali del suo complessivo pensiero fu la critica molto severa da lui rivolta al «cogito» cartesiano quale presunto unico luogo di conoscenza veridica nel contesto dell’introspezione (quale perfetto metodo di purificazione della conoscenza e più in generale della Ragione). E questo perché per lui al puro pensiero andava sempre associata anche la percezione, ossia l’ambito dell’esperienza sensibile. Il che si basava poi sulla distinzione tra il pensiero come atto ed i suoi contenuti (nei quali interveniva necessariamente la percezione di oggetti reali esteriori), laddove invece Cartesio li ritenne una sola cosa. Per tale motivo il nostro pensatore ritenne il puro pensiero necessariamente legato alla conoscenza degli oggetti esteriori, e quindi lo ritenne incapace di configurare veri oggetti per mezzo del semplice ripiegandosi su sé stesso (ossia nl contesto di quell’”epochè” che poi in Kant darebbe divenuta la “riduzione trascendentale” ed in Husserl la “riduzione fenomenologica”).
Nel complesso, quindi, il metodo del «cogito» (consistente nella pura introspezione) apparve a Malebranche come vano e fallimentare, e dunque del tutto inservibile. Cosa che poi confuta in maniera piuttosto forte i fondamenti stessi del moderno idealismo.
Orbene, dato che la dottrina cartesiana del «cogito» fu una metafisica applicata all’interiorità soggettuale (dominata a sua volta dalla più rigorosa razionalità), è evidente che anche solo questa critica di Malebranche pone il suo pensiero abbastanza ai margini della metafisica razionalista del suo tempo. Laddove quest’ultima si rivela essere stata molto unilateralmente (e quindi scompostamente) idealista.
Del resto uno dei principali aspetti che distinse il nostro pensatore da Cartesio fu la sua attribuzione di un’effettiva onticità all’universale, e quindi alla sfera delle essenze e delle idee in quanto espressione dell’”è” della cosa. In altre parole le idee per lui non rappresentavano affatto la cosa esteriore ma invece la incarnavano letteralmente – l’idea era per lui la cosa stessa. E fu per questo che, a suo avviso, per una conoscenza affidabile e veridica, non bastavano affatto le idee chiare e distinte (ma unicamente astratte) alle quali Cartesio aspirava. Era invece necessaria la conoscenza di una vera e propria cosa – che essa fosse trascendente ed intelligibile oppure immanente e sensibile. Per tale motivo egli affermò sì l’incontestabile esistenza del mondo esteriore, ma precisò anche che essa si verificava nel contesto di una “rivelazione naturale” che riguardava unicamente l’esistenza delle cose (e dunque un aspetto gnoseologicamente molto limitato) ma non la loro essenza. Cosa che secondo lui non poteva venire assolutamente trascurata. Tutto questo sta poi in relazione con l’abolizione di ogni problematicità della conoscenza sulla base della teoria della conoscenza di Malebranche (aspetto che abbiamo posto più volte in luce nell’analisi di PM). In particolare a tale riguardo egli affermò con forza il legame inscindibile esistente tra spirito e sensi ed inoltre tra spirito (dunque pensiero) e volontà − ossia in ultima analisi con gli oggetti esteriori, i quali per lui vengono molto più vitalmente voluti che non invece conosciuti (confutando così frontalmente la disconnessione tra tali elementi che era stata ipotizzata entro il dualismo cartesiano). Il che concorda poi con il fatto che egli postulò (anticipando così Bergson) la natura vitalistico-utilitaristica (ed affatto gnoseologica) dell’evidenza del mondo esteriore esistente. In ogni caso, comunque, egli non si lasciò mai coinvolgere nella teoria più elementare e ingenua della percezione (che è stata da sempre condivisa dall’uomo comune e dalla fisiologia scientifica, ma in fondo si era presentata anche entro la dottrina scolastica delle forme sensibili), secondo la quale realmente le qualità degli oggetti esteriori ecciterebbero i sensi trasformandosi poi immediatamente in rappresentazioni e concetti, e quindi in tal modo si rivelerebbero al soggetto conoscente. Egli precisò invece che il momento principale della percezione era costituito dalle modificazioni dell’anima che vengono indotte dai sensi. Ed in tal modo postulò la necessità di un aggiuntivo momento interiore che doveva integrare quello meramente esteriore. Proprio su questa base egli ipotizzò che l’idea fosse presente già entro la percezione, venendo così colta da facoltà mentali diverse dal pensiero puro (in quanto prossime alla percezione stessa), ossia attenzione e concentrazione. E con questo egli sembra nuovamente anticipare il concetto husserliano di «intenzione».
Ebbene tutto ciò viene ulteriormente rafforzato e chiarito dalla sua elaborazione del concetto di “estensione intelligibile”. Che di fatto fu la rilettura dell’indubitabilità del mondo esteriore alla luce del punto di vista costituito dal pensiero divino del mondo stesso. Tale concetto ci mostra ancora una volta come la sua epistemologia fu inscindibilmente legata alla fede, e quindi si presentò come una vera e propria filosofia religiosa più che come invece una pura filosofia (com’è quella di Cartesio). Tuttavia proprio in questo ambito la teoria della conoscenza di Malebranche (una volta portata fino alle sue estreme conseguenze) diviene decisamente di nuovo idealista, in quanto riconosce la decisiva importanza del ricorso alle essenze intelligibili trascendenti (uniche capaci di rivelarci l’”è” della cosa) in concorrenza con la percezione che ci rivela invece appena l’esistenza del mondo e delle cose in esso contenute. In questo senso il suo idealismo (nonostante la concomitanza di un solido realismo) deve assolutamente venire considerare il compimento ultimo del suo pensiero. Bisogna però considerare anche che questo suo idealismo sbiadisce laddove egli considera l’esistenza (come abbiamo già visto) come qualcosa che viene più voluto che non conosciuto, e quindi può venire conosciuta indipendentemente da qualunque essenza. Qui infatti il realismo prevale di nuovo. A ciò va aggiunto inoltre che la vera conoscenza del mondo non consisté per Malebranche né nella conoscenza dell’estensione in quanto esistente né nella conoscenza delle cose reali, ma invece nella conoscenza delle relazioni matematiche che legavano le cose. Il che poi rientra nel carattere più generale della sua gnoseologia, secondo la quale il vero oggetto di conoscenza era l’idea e non la cosa.
Nel complesso ci sembra che il realismo costantemente in equilibrio con l’idealismo – che è uno degli aspetti più tipici del suo pensiero – sta esemplarmente a dimostrare che la filosofia non ha affatto bisogno di queste prese di posizioni estremistiche ed in conflitto tra loro, ma ha invece bisogno di una conciliazione tra esse, che è poi l’unica in grado di esprimere l’estrema complessità (specialmente metafisica) dell’Essere. E ciò trova peraltro un preciso riscontro nella moderna ontologia di Hartmann, secondo il quale è totalmente assurdo contrapporre essere ideale (idealismo) ed essere reale (realismo).
Possiamo dunque dire che, in questa sfera di idee di Malebranche, la concomitante metafisica razionalista del tempo si riaffaccia di nuovo sebbene in un modo che è fortemente condizionato da tutte le premesse (di diverso senso) che abbiamo appena discusso. E quindi non si presenta affatto nelle forme che assunse in altri pensatori.
Una di queste premesse è senz’altro quella del forte legame della metafisica alla fede, a sua volta legata ben più al Dio della Rivelazione che non a quello della pura Ragione. E questo conferma quindi che, anche laddove il pensiero di Malebranche sembra rientrare comunque entro la concomitante metafisica religiosa, ciò avviene soltanto nella forma di un’autentica e forte filosofia religiosa. Il che viene fortemente supportato da Rome, la quale afferma che il pensiero di Malebranche rientra in effetti propriamente nella grande tradizione della filosofia cristiana che sostenne la perfetta conciliazione tra Fede e Ragione. E questo certamente non fu un elemento proprio della metafisica razionalista del tempo. Pertanto questo è forse l’aspetto che caratterizza in modo più specifico la metafisica razionalista del nostro pensatore. Laddove poi tale impressione viene ulteriormente rafforzata nel constatare che egli concepì esplicitamente la possibilità e liceità della conoscenza dei misteri cristiani, ossia di qualcosa che sfugge totalmente sia alla razionalità sia perfino alla conoscibilità stessa. Oltre a ciò, come abbiamo visto, questa metafisica religiosa fu capace di dar vita ad un realismo religioso estremamente ben fondato che sfuggiva alle contraddizioni di quello scolastico. E proprio tale elemento di pensiero si offre oggi al pensatore religioso come una risorsa di enorme valore, dato che attualmente il realismo è invece unicamente ateo e scientista.
Oltre a ciò il tratto caratterizzante di forse maggiore valore del pensiero di Malebranche è quello di aver dato vita non solo ad un’epistemologia in equilibrio con l’ontologia (che non ha pari nel pensiero moderno) ma anche ad un’ontologia estremamente paradigmatica, che si presta quindi a fungere da metro di paragone di tutte le ontologie del pensiero umano (quelle antiche e quelle moderne). E in tale aspetto domina decisamente la convinzione di Malebranche secondo la quale la creazione divina è integralmente ontologica e non invece intellettuale come secondo Cartesio.
Essa insomma non crea solo apparenti idee di cose (in quanto puro pensiero) ma invece crea effettive e reali idee di cose (del tutto svincolate dal pensiero), ossia delle vere e proprie possibilità di essere. E ciò sta inoltre in relazione con il fatto che per lui Dio è integralmente Essere e non Pensiero, e quindi non è in alcun modo essere ideale ma invece è solo e soltanto essere reale, ossia esistenza. Proprio questo complessivo tratto dottrinario si presta secondo noi a costituire il paradigmatico metro di paragone per la pienezza ed autenticità di altre ontologie.
L’altro aspetto estremamente caratterizzante il pensiero di Malebranche è poi quello dell’esclusione da parte sua di qualunque problematicità della conoscenza. Il che fa di esso una risorsa di non poco conto in quello scenario filosofico post-moderno nel quale lo scetticismo generato da questa presunzione si è infine trasformato in una umiliante schiavitù della filosofia alla scienza empirica.
Infine ultimo aspetto caratterizzante Malebranche è la teoria della percezione come elemento indispensabile della conoscenza del mondo esteriore, ma solo rispetto all’esistenza e non rispetto all’essenza delle cose. E questo aspetto è estremamente interessante in quanto coniuga in maniera pressoché perfetta il realismo empirista con l’idealismo, permettendoci in tal modo di chiudere il cerchio delle eterne opposizioni che hanno nel tempo dilaniato la filosofia. Anche in questo senso quindi Malebranche si staglia sull’intero pensiero umano a causa di una visione che sembra non voler rientrare in alcuna vincolante scuola di pensiero. Ed in questo rientra senz’altro anche la concomitante dottrina della metafisica razionalista con tutta la sua insufficienza.

In estrema sintesi diremmo quindi che, per una svariatissima serie di motivi, lo studio del pensiero di Malebranche è ancora oggi estremamente utile e fruttuoso. E perché questo sia possibile basta guardare sotto le apparenze che invece a prima vista suggeriscono una piena appartenenza del pensatore a quella metafisica razionalista che ormai non solo non ha più alcuna attualità nello scenario filosofico ma inoltre non ha assolutamente retto ad una quantità enorme di critiche demolitorie. Non a caso nella più recente ricerca scientifico-religiosa della teologia si ripresentano ancora in maniera assolutamente insostenibile aspetti della teodicea che rappresentò uno dei suoi nuclei più forti.

Read Full Post »

[ATTENZIONE: gli scritti pubblicati in questo blog sono protetti dalle vigenti leggi del copyright, per cui si diffida dal riprodurli integralmente ed anche dal menzionarne in contenuti senza citarne l’Autore]

Introduzione.
Nicolas Malebranche appare essere un caso davvero singolare della filosofia. Ed infatti non solo la storia della filosofia ha guardato al suo pensiero con i più diversi atteggiamenti, ma inoltre, quando lo si legge, si viene colti da sentimenti molto contrastanti. Specie se lo si legge come esponente di una poderosa metafisica religiosa, che (iniziata con Cartesio) ha visto la presenza di autentici giganti del pensiero come Leibniz e Spinoza. Infatti, una volta approfondita, la sua dottrina filosofico-metafisica (ed inoltre dai fortissimi risvolti teologici), oltre ad affascinare notevolmente, suscita anche notevoli perplessità. E non solo etico-religiose ma anche epistemologiche (sebbene queste siano senz’altro minori).
Innanzitutto non sembra essere affatto un caso che egli sia rimasto nel dimenticatoio della filosofia per molto tempo [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Nella sua dottrina erano state infatti evidenziate notevoli insufficienze se non aporie (Watson). Ed infatti l’analisi testuale alla quale ci dedicheremo in questa recensione ne metteremo noi stessi in evidenza molte. Watson (citato qui da Walton) afferma che addirittura molti abbiano negato a Malebranche lo status di filosofo.
Tuttavia nello stesso tempo (Rodis-Lewis) pare che (a causa del suo sforzo di dissolvere pregiudizi tentando di dare un contributo alla ricerca della verità in filosofia) egli abbia rappresentato qualcosa di estremamente valido e nuovo nel contesto del pensiero occidentale, e precisamente qualcosa di anche molto promettente [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Questa sua novità consisteva in particolare nello sforzo di cercare una fondazione comune per fede e ragione, ma infine anche perfino per l’osservazione sperimentale (consistente specialmente nella fisica). Intanto però molti critici hanno sottolineato che il prezzo di questa operazione (in particolare un’ontologia consonante con la fisica) fu il ricadere del suo pensiero nel misticismo e nell’irrazionalità. Ed in effetti costateremo più volte che (specie nel tentare di dare un fondamento filosofico alla teologia cristiana) la sua logica è spesso traballante e caratterizzata da salti iperbolici che mancano di un’argomentazione davvero fondata.
Altro aspetto rilevante è quello che consiste nel fatto che il suo pensiero pare sia stato paradigmatico per una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
E questo sarebbe vero soprattutto a causa del suo grande sforzo di riconciliare una metafisica davvero profonda con le pur recalcitranti evidenze fattuali e mondane. Si tratta insomma con ciò del nucleo della visione di Malebranche, e cioè di quella teodicea che − nel porre Dio come Essere assolutamente perfetto e Causa di ogni minimo evento, essere ed azione – vuole giustificare la creazione di un mondo perfetto ad onta perfino della schiacciante evidenza del male. Non a caso per Black questa teodicea è stata definita “vendicativa” (“vindicative”) a favore della divina Provvidenza, e quindi non solo forte ma anche provocatoria ed aggressiva, se non crudele.
Non è un caso che il moderno pensiero religioso (basato ormai sulla scienza cognitiva) non perda una sola occasione per considerare qualunque teodicea come ormai superata dall’evidenza del male esplosa recentemente nella storia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”. < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. E bisogna dire che vi sono non poche ragioni per ritenere questo di fronte a teodicee così disinvolte come quella di Malebranche.
Possiamo dire quindi che Malebranche – nel suo progetto di fondare e giustificare filosoficamente il Cristianesimo – si è limitato, molto disinvoltamente, a fare semplicemente da solo, ossia senza tenere nel minimo conto i più rilevanti contenuti della Rivelazione. Non è un caso quindi che egli abbia incentrato il suo progetto filosofico-religioso su un totale disprezzo dell’uomo e anche del mondo stesso. Anzi si può ben dire che la sua rientra tra le concezioni più pessimistiche dell’uomo e del mondo che si siano ma viste in filosofia (probabilmente non molto lontana da quella manichea). Il che poi si fa risentire in una dottrina totalmente deterministica della libertà umana; che solo finge di prendere in considerazione quest’ultima per poi negarla nei suoi principali fondamenti. Egli infatti credo troppo poco nell’uomo per poter pensare per davvero Dio gli abbia affidato il compito di scegliere tra bene e male. E così perviene alla conclusione che l’uomo viene costantemente condotto da Dio verso il bene. Cosa che ovviamente abolisce in partenza la libertà.
E tutto questo è davvero eclatante se si considera che uno dei maggiori esponenti del Personalismo cristiano (peraltro anche non poco riformatore), cioè Nikolaj Berdjaev, abbia incentrato la sua rilettura del Cristianesimo proprio sul valore fondamentale che andrebbe attribuito all’uomo proprio a causa della libertà che lo contraddistingue in quanto ente metafisico [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, Prefazione, p. VII-IX, II p. 110-113, V p. 172-185, XIII p. 358-361; Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, ibd., 1 p. 3-8; Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 1 p. 28-38, II, 1 p. 54-59, IV, 3 p. 191-194, V, 4 p. 260-261; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002I, p. 8-25, I p. 32-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-84, V p. 85-93, V p. 97-100, VI p. 101-109, VIII p. 160-166; Vincenzo Nuzzo, Il moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA 2023 (in via di pubblicazione)].
Ed a questo si aggiunge peraltro che, nel leggere Malebranche, ci si rende ben presto conto del fatto che il suo progetto di difesa della fede cristiana è e vuole essere puramente filosofico, e quindi incentrato unicamente sulla più pura e rigorosa Ragione. Non a caso egli non solo contesta qualunque autorità in campo religioso e culturale (specie l’erudizione), ma inoltre sembra non intendere affidare un ruolo molto importante perfino ad alcune importanti affermazioni della Rivelazione cristiana. Inutile dire che il risultato netto di tutto ciò, per l’uomo di fede, è estremamente deludente. Il che significa che, con il suo complessivo progetto (ormai comunque sicuramente molto datato sia teologicamente che filosoficamente) egli scontenta sia il non-credente che il credente. Ma, oltre a ciò la sua metafisica unilateralmente razionalista scontenta anche colui che vede in questa disciplina ancora una scienza che (aldilà di tutte le svariate forme che ha assunto nella storia del pensiero) è autentica solo quando si basa unicamente sulla Rivelazione. Non a caso nell’ultima sezione vedremo che la sua visione si attirò gli strali di un pensatore protestante (quasi pro-ateo) come Bayle (che aveva duellato anche con Leibniz) e di due credenti come Arnaud e Bossuet. Bayle in particolare rigettava radicalmente l’identificazione del Cristianesimo con la morale, e quindi meno che mai con un razionalismo morale.
Insomma possiamo ben dire in anticipo che il Malebranche religioso si è prodotto in concetti ed affermazioni che risultano molto spesso non solo inaccettabili ed aberranti, ma perfino scandalosi. E pertanto, almeno da questo punto di vista, la sua filosofia manca di qualunque valore. Meno che mai di un valore cristiano.
Ma, dopo aver precisato questo, bisogna anche dire che dalla lettura dei suoi testi si deduce un elemento filosofico-metafisico davvero originale ed anche molto interessante. Ed esso è dottrinariamente anche fondamentale. La sua dottrina si basa infatti principalmente su una sorta metafisica dalla valenza fortemente epistemologica (ma anche religiosa), secondo la quale il mondo intelligibile (il mondo delle idee) è più vero di quello sensibile, e quindi rappresenta l’unico modo di conoscere quest’ultimo. E questa dottrina richiama chiaramente Platone quale autorità incontestabile. Il che (almeno da questo punto di vista) elimina in partenza qualunque possibile svalutazione della metafisica di Malebranche.
Oltre a ciò appare evidente che il suo concetto di Essere sfugge a qualunque previa determinazione formale ed ad ogni staticità, ed quindi è solo dinamico in quanto sostanziale sistema di relazioni [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. In questo senso esso è solo Ordine o anche Giustizia. Non è dunque assolutamente statico Fondamento trascendente (ma immanentizzato) che giustifichi l’esistenza degli enti. Dunque non si tratta affatto del concetto di Essere che la metafisica aveva fino ad allora sempre preso in considerazione a partire dalla sua concezione aristotelica. L’ontologia di Malebranche si basa quindi su concetti metafisici estremamente nuovo ed originali che divergono sia da quelli di Cartesio sia da quelli della classica onto-metafisica della Scolastica. La sua è infatti una metafisica che intende primariamente fondare in maniera ineccepibilmente razionale e Leggi che regolano il divenire mondano e naturale, ossia il funzionamento dell’universo. Ciò che egli vuole è che da questo divenire svanisca qualunque caso. E proprio per questo egli identifica con Dio la Ragione universale.
Ma di questo parleremo più diffusamente nel corso della recensione

In questa recensione non ci baseremo purtroppo sul libro più importante di Malebranche, e cioè “La recherche de la verité” (LRV). E tuttavia gli articoli che abbiamo consultato ne espongono ampiamente il contenuto, che poi non è molto diverso da quello delle opere che abbiamo letto (in particolare “Pensieri metafisici”) – specialmente l’articolo di Walton [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161]. Le opere che abbiamo consultato sono invece tre, e cioè le seguenti: − “Pensieri metafisici” (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911]; “Conversazioni cristiane” (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999]; “Trattato della Natura e della Grazia” (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991]. Vorremmo solo avvertire il lettore che il materiale esposto in queste opere è comunque rappresentato da un’argomentazione estremamente ricca, complessa ed articolata, della quale quindi noi potremo riportare solo alcuni passaggi. Per cui per una completa comprensione del pensiero di Malebranche non basterà affatto la lettura di questa recensione ma bisognerà dedicarsi anche alla lettura delle opere originali.

Andando con ordine affronteremo in sequenza i principali temi trattati da Malebranche, e cioè i seguenti: − 1) Definizione di Dio; 2) Teodicea; 3) Concetto di metafisica; 4) Teoria della conoscenza e della percezione; 5) Concetto di mondo e di Natura (il panteismo); 7) Chi fu Malebranche?.

La definizione di Dio e il progetto filosofico-religioso in generale. Il Cristianesimo razionalista di Malebranche (sezione 1).
Non vi è dubbio che per Malebranche Dio è l’Essere perfettissimo del quale un tempo parlava anche il Catechismo cattolico [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181 p. 53-55, I, 179-188 p. 60-67, I, 263 p. 70]. Ma lo è in una maniera molto specificamente caratterizzata in termini filosofici, ossia come Ragione suprema ed universale [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23 p. 33-35, I, 163-168 p. 47-53, I, 177-181p. 53-55] e come Causa altrettanto suprema e prima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31 II, 49-51 p. 41-42, IV, 328-329 p. 44-45, I, 163-168 p. 47-53, I, 130 p. 67-68]. Egli è cioè in primo luogo ciò da cui tutto dipende nell’esistere, agire e perfino sentire delle creature, della Natura e di qualunque corpo fisico cosmico. Da ciò deriva che i suoi attributi sono anch’essi altrettanto specifici: − Perfezione, Giustizia, Ordine, Potenza, Gloria, Infinità, Immensità, Eternità, Ragione, Governo, Signoria. Senz’altro essi si potrebbero sintetizzare nell’attributo costituito dalla Maestà.
Dio insomma è per Malebranche un vero e proprio Monarca assoluto in quanto Ragione e Causa di tutto.
È evidente quindi che questo è un Dio dei filosofi e degli scienziati. Non dei teologi né degli uomini di fede in generale. Egli è insomma in primo luogo ciò in virtù di cui il mondo esiste e funziona in ogni momento della sua esistenza, quindi ben al di là del complesso contesto teologico-rivelazionale della creazione.
Insomma è un mondo che non marcia come deve senza la continua e inflessibile conduzione divina.
È evidente che ciò rende molto ben caratterizzato il progetto di Malebranche di giustificare il Cristianesimo su base filosofica. Egli non lo fa infatti con l’obiettivo primario (apologetico) di difendere filosoficamente il Cristianesimo stesso dalle accuse ad esso rivolte (come i titoli dei suoi libri fanno immediatamente pensare), ma lo fa invece con l’unico obiettivo di filosofizzare il Cristianesimo e peraltro in una maniera molto estremisticamenre razionalista (e conseguentemente anche la Religione in generale). Va quindi inteso in questo modo il fatto (rilevato da Black) che il suo pensiero costituirebbe il paradigma stesso di un “teologia filosofica”. Lo è infatti allo stesso identico modo in cui la teologia oggi si presenta dopo aver fatto suo totalmente il pensare ed il linguaggio filosofici in seguito all’opera di alcuni decisivi pensatori moderni (specie Husserl e Heidegger) mediante la quale essi hanno di fatto rifondato il filosofare stesso. Insomma questa “teologia filosofica” non è altro che una filosofia. E lo è nel modo più estremistico che si possa pensare, cioè in obbedienza a concetti ed approcci che spesso con la vera teologia non ha nulla a che fare; come ad esempio la più rigorosa logica oppure un esistenzialismo sconfinante addirittura nel nichilismo
E questo è stato da noi commentato in diversi scritti (vedi articoli precedentemente citati).
Evidentemente Malebranche (come del resto anche Leibniz e Spinoza) anticipava l’insorgere successivo di questa tendenza della teologia. Con il suo pensiero, quindi, non si tratta tanto di risolvere in maniera soddisfacente l’eterno conflitto Ragione/Fede, ma semmai si tratta solo di ridurre totalmente il secondo termine al primo. In altre parole sembra che per il nostro la Religione debba rientrare totalmente nell’ambito conoscitivo della Filosofia. Cosa resti a questo punto della fede è difficile dirlo, sebbene il pensatore francese si soffermi molto su contenuti di fede ed anzi alle volte li ponga addirittura alla base della sua argomentazione filosofica (specie in relazione alla figura di Gesù Cristo). Ma cosa ne resta intanto della fede vissuta, ossia (per così dire) della franca «pietas», ossia del vivere in una maniera quanto più possibile religiosa? Che ovviamente con la filosofia può anche non aver assolutamente nulla a che fare.
Evidentemente assolutamente nulla.
Dunque purtroppo Malebranche sbarra decisamente questa strada. E questo è esattamente il motivo per il quale il fedele e credente, dopo essere stato abbagliato dai titoli dei suoi libri (ed anche da alcune sue affermazioni molto contemplative e pie), resti decisamente deluso (se non nauseato) dal discorso filosofico-religioso di questo pensatore. Ed in particolare, come poi vedremo, soprattutto dalla sua teodicea.
Dunque diremmo proprio che egli non va considerato affatto tra gli esponenti di un’autentica filosofia-religiosa e specialmente cristiana (se non in maniera puramente formale). E questo è del resto il tratto comune di quella metafisica razionalista che (prendendo le mosse non a caso da Cartesio) vide come suoi protagonisti anche Leibniz e Spinoza. Insomma di questo genere di metafisica l’autentico homo religiosus non può farsene assolutamente nulla. E lo capiremo ancora meglio approfondendo ulteriormente la definizione di Dio propostaci da Malebranche
Innanzitutto, molto curiosamente, da questa immagine di Dio sono svaniti alcuni significativi attributi che la metafisica (sia pagana che cristiana) Gli aveva sempre riconosciuti – come Unità, Bontà e Bellezza. Anche questi attributi avevano in verità una fortissima caratterizzazione filosofico-razionalistica (fondando non a caso un molto decisa gnoseologia), ma comunque mantenevano un costante rapporto non solo con la Teologia bensì anche con la Rivelazione stessa. In virtù di esse, infatti, Dio restava Colui che aveva creato il mondo sostanzialmente per amore, e si presentava quindi come un Padre ripiegato amorosamente sulle sue creature. E si badi bene che anche Tommaso d’Aquino sostenne, in maniera abbastanza simile a Malebranche (e quindi configurando una sorta di Filosofia della Natura su basi metafisiche), una sorta di “intelligent design” divino che si basava su un’intelligenza infusa nella Natura fin dall’inizio e moventesi autonomamente [Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; Andrea Sangiacomo, “Aristotele, Heerebord and the polemical target of the Spinoza’s final causes”, J. of the Hist of Phil., 54 (3) 2016, 395-420; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358]. Anche l’Aquinate sostenne insomma che Dio era la sostanza suprema dalla quale la Natura desumeva la sua capacità di procedere razionalmente verso il bene. Ma comunque non senza un franco e coerente Amore.
Bene dov’è in Malebranche l’Amore di Dio per le creature e per il mondo? La risposta è semplicissima e netta: − non c’è affatto. Perché l’infinita perfezione di Dio si risolve nel fatto che Egli ama unicamente sé stesso e quindi fa tutto ciò che fa unicamente per la propria Gloria [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III, p. 44-67, Dialogo V-VI, p. 87-126; [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXIV p. 84-85, III, I, I p. 150-151]. Un concetto questo che sembra approssimare molto il pensiero di Malebranche a quello del neoplatonismo pagano nel quale non c’è affatto un amoroso Dio personale ma solo un maestoso e regale Uno divino. E su questo faremo ulteriori considerazioni più avanti. Ebbene, non abbiamo trovato traccia di una letteratura che provasse questo aspetto, ma comunque il nucleo stesso del pensiero di Malebranche è ispirato in modo chiarissimo e diretto alla dottrina delle idee di Platone. E questo può avere il suo significato. Sebbene egli sia fortemente ostile verso qualunque autorità dei filosofi antichi, così come spesso anche contro la stessa autorità della Rivelazione cristiana [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 238, 241 p. 76-78; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 22]. Insomma il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore ripiegato sull’uomo e sul mondo né provvidenzialmente è tanto meno kenoticamente. Anzi Egli disprezza decisamente la creatura umana finita, in quanto a Lui infinitamente inferiore, fino a venire considerata da Lui un integrale “nulla”; e quindi ha creato il mondo unicamente ai fini dell’avvento di Gesù Cristo (il suo Figlio prediletto) ed inoltre per la sua Chiesa; considerazioni che ritroviamo soprattutto in TNG cioè nella sua trattazione della teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31, Dialogo VI p. 109-112; Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, II–IV p. 73, I, I, VI p. 75, III, 238, 241 p. 76-78, I, II, XXIV p. 84-85, I, II, XXVI p. 85, I, II, XXVIII p. 86-87, I, II, XXXVI p. 90-91, II, I, II p. 108-109, II, I, IX p. 112].
Più precisamente Dio (in quanto luogo delle idee conoscibili) è la Ragione universale nella quale la nostra anima abita in quanto “sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. E questa è la base della sua teoria della conoscenza e della percezione (che poi esamineremo in dettaglio) in quanto noi conosciamo le cose reali del mondo solo e soltanto attraverso le idee delle cose stesse che contempliamo unicamente “in Dio” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, I, IX p. 112, II, I, II p. 108-109, I, II, XXXVI p. 90-91, I, 20-23, p. 33-35, I, 179-187, p. 60-66; Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 47-48] per l’intermediazione della nostra anima, o meglio ancora del nostro “spirito” (dato che il pensatore francese, diversamente da Platone ed anche da Agostino) non attribuisce all’anima alcuna funzione conoscente.
Dunque Dio viene rappresentato da lui come il padrone della nostra mente, e quindi come
l’origine vera della nostra vita psichica [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 8-9, p. 40-41]. Infatti in effetti noi non siamo affatto causa delle nostre idee, dato che non sappiamo nemmeno cosa esse siano e quindi non abbiamo alcun reale potere su di esse. L’unica cosa, egli dice, è “che tu vuoi pensare ad un quadrato, e l’idea di questo quadrato si presenta in te”. Ma di questo è responsabile solo Dio, e dunque è Lui il padrone della nostra mente, l’origine del nostro psichismo. Non a caso è stato sottolineato che Malebranche non ha un chiaro concetto di mente come quello di Cartesio, dato che non ammette affatto la migliore conoscenza della mente rispetto a quella del corpo [Lawrence Nolan, John Whipple, “Self-Knowledge in Descartes and Malebranche”, Journal of the History of Philosophy, 43 (1) 2005, 55-81]. Per cui di conseguenza egli non concepisce l’auto-conoscenza. Questo però solo sul piano puramente gnoseologico. Perché invece, sul piano della metafisica teologica, egli (in pieno accordo con Agostino), parla del Cristo come “verità interiore” che continuamente ci istruisce e perfino risponde alle nostre domande [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 3-21].
Ecco allora che, invece di essere Amore, Dio è invece in primo luogo Causa primaria di tutto ciò che avviene nel mondo e nella Natura, quindi è alla radice di qualunque legge fisica specie sulla base delle primarie leggi semplicissime e razionalissime mediante le quali Dio agisce (le Leggi della comunicazione del movimento). Quindi Malebranche presuppone una causalità del tutto trascendente in una Natura che in ogni suo aspetto esprime l’azione di Dio – fino nei minimi dettagli, ossia fin dentro gli atomi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 59, p. 43, II, 65-66, p. 43-44]. Ecco quindi l’intelligenza intrinseca inseminata da Dio nella Natura ed agente in maniera in maniera assolutamente autonoma una volta messa in modo. Il risultato di ciò è una Natura dominata totalmente dalla volontà e dalle leggi del Dio-Causa, quindi una natura razionale in quanto divina ed insieme divina in quanto razionale.
Su questa base egli nega anche che l’anima (e non Dio) sia l’origine della vita, e quindi sgombra il campo da tutte quelle dottrine metafisiche che considerano l’animicità come equivalente alla vitalità degli esseri.
E ciò non è sorprendente per un razionalista, dato che l’anima esprima una dimensione irrazionale, istintuale e sentimentale, quindi l’esatto contrario della Ragione.
In campo fisico poi la sua visione al riguardo è estremamente radicale, dato che egli arriva a negare ogni meccanicismo (come quello cartesiano) nel sostenere che la causa del movimento del corpo non è affatto il movimento di un altro corpo (per mezzo dell’urto), ma è invece solo la Causalità divina assolutamente primaria. Anzi proprio su questo si basa famoso “occasionalismo” (detto anche “volontarismo”) da lui sostenuto – secondo il quale le “cause occasionali” (le effettive leggi immanenti della Natura) non producono alcun effetto se dietro di esse non spinge la Causa divina primaria. Per cui secondo lui è solo Dio a fare assolutamente tutto mediante la sua azione “sempre uniforme e costante”, e ciò a causa della sua “volontà immutabile” e delle sue “leggi inviolabili”. Per cui ciò elimina la rilevanza di ogni causalità naturale; dato che essa è totalmente subordinata alla Causa suprema. Ma Malebranche si spinge anche oltre passando dalla dimensione esteriore a quella interiore, e quindi sostiene che è inefficace da sola anche la nostra stessa volontà come causa, e che quindi l’anima imprima al corpo il movimento e vita.
Questi sono per lui tutti falsi principi che noi abbiamo desunto dai filosofi pagani (considerati come «autorità» incontestabile), ma che non hanno alcuna validità. Ed è chiaro che qui egli sta accusando Aristotele, ma in qualche modo ed in parte anche Platone, altro grande protagonista della dottrina dell’anima come principio di movimento e di vita. Però più in generale sta accusando il ben più vasto concetto pagano di «mondo divino» (mondo pregno di presenze divine), che trovò la sua espressione tanto in religione che nella metafisica filosofica. E ciò fino a sconfinare nella parte più teurgica del Neoplatonismo (Giamblico, Porfirio etc.) [Giuseppe Muscolino, Magia, stregoneria, teosofia e teurgia. La trasformazione del neoplatonismo, in: Giuseppe Girgenti, Giuseppe Muscolino (a cura di), Porfirio. Filosofia rivelata dagli oracoli, Bompiani, Milano 2011, p. CXVII-CCCXIX; Giuseppe Muscolino, “The Eastern Contaminations on the Porphyrian Thought in the Philosophy from Oracles: Magic, Demonology, Theurgy”, Medieval Sophia, 13 (2013) 126-139; “Giuseppe Muscolino, “Porphyry and Black Magic”, The International Journal of the Platonic Tradition, 9 (2015) 146-158].
Ecco allora che la definizione di Dio si raccorda in Malebranche alla sua estremamente specifica interpretazione del razionalismo metafisico. Che egli applica alla Natura nel sostenere che Dio è Causa e Ragione prima di essere qualunque altra cosa [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. In particolare egli sostiene che nel mondo non vi è in realtà alcun potere, nemmeno quello della volontà, per cui esso è in sé assolutamente immobile. E da questo scaturiscono conseguenze che riguardano anche la conoscenza del mondo stesso (che poi esamineremo più in dettagli). Questo perché per lui il corpo è in sé morto nonostante l’unione anima-corpo, a meno che Dio non voglia accordare il suo volere con il nostro. Ecco che ancora una volta il principio di movimento non è affatto l’anima, ma invece è di gran lunga antecedente ad essa, cioè è Dio. Pertanto “le creature non sono unite altro che a Dio, e non dipendono essenzialmente e direttamente da lui”, dato che esse sono per natura impotenti soprattutto perché non dipendono affatto le une dalle altre. Si tratta insomma di una modificazione del principio di “analogia entis” sostenuto da Tommaso, ed in virtù del quale veniva postulata la stessa dipendenza totale delle creature dal Creatore. Simile a Tommaso è anche il concetto di Provvidenza divina che da ciò scaturisce. Solo che esso è vincolato esclusivamente al principio di causalità. Infatti per Malebranche le creature sono dipendenti dal Creatore unicamente in forza delle leggi divine “per le quali egli regola il corso ordinario della provvidenza”. Per questo la Sua volontà spiega tutto prima. Ed esattamente per questo da ciò scaturiscono anche conseguenze conoscitive. Dio infatti è Colui che ha addirittura voluto che io avessi certe sensazioni ed emozioni nel mentre nel mio cervello si verificano simultaneamente certi movimenti. Ed ha voluto anche che le “modalità” dell’anima (termine che sta per «facoltà») fossero reciproche. E solo su questa base che si può secondo lui concepire l’unione anima-corpo − ossia solo come “reciprocità” delle parti di cui siamo composti, e pertanto in modo funzionale e non invece fisico e sostanziale. Però tutto ciò è solo il frutto dei “decreti” divini. Sono essi infatti che (in quanto costituenti totalmente l’anima) mi uniscono al mio corpo.
In tal modo si delinea quella mirabile “connessione” che Dio ha dato da sé stesso a tutte le sue opere, invece di aver prodotto delle “entità connettenti” (com’è l’anima rispetto al corpo).
E non pensarla così è per lui solo il frutto del nostro orgoglio, dovuto a sua volta all’impressione che l’azione dei corpi ha avuto su di noi. È insomma questo il prodotto del Peccato e della Caduta, le quali hanno nascosto “l’azione visibile del creatore” ed inoltre la “sapienza infinita della sua provvidenza ordinaria”.
Quindi egli dice che semmai l’anima è unita a Dio, dato che i decreti divini sono “i vincoli indissolubili di tutte le parti dell’universo e la connessione meravigliosa della subordinazione di tutte le cause”. E diremmo che qui traspare piuttosto chiaramente (non sappiamo però se solo indirettamente ed involontariamente) la dottrina plotiniana della «non discesa» dell’anima rispetto all’Uno divino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16, p. 1655-1661].
Ne consegue allora che assolutamente nulla è oggetto immediato della nostra conoscenza, ma solo tramite la Conoscenza e Ragione divina. Ecco che noi vediamo il mondo esteriore per mezzo dell’anima non direttamente, ma solo perché essa “contempla le bellezze del mondo archetipico e intelligibile che è nella ragione”. E qui si lascia chiaramente riconoscere la doppia dottrina del mondo delle idee come radice di ogni conoscenza (Platone) e quella dell’innatismo delle idee che era del resto già stata sostenuta da alcuni pensatori cristiani di osservanza platonica, come ad esempio Bonaventura.
Possiamo chiaramente vedere in tale contesto come il razionalismo metafisico della Natura di Malebranche si esprime proprio nel Dio-Causa. Ed in particolare possiamo scorgere nella mirabile “connessione” il perfetto meccanismo razionale che per lui è rappresentato dall’universo dominato da Dio in ogni suo minimo aspetto. Naturalmente il pensatore si sforza di dare anche una veste teologica a questa dottrina, interpretando la omni-valente e dominante Causalità divina come Provvidenza. Questo sforzo produce però un risultato molto poco convincente, perché l’immagine di Dio da lui presentataci resta quella di un Dio puramente metafisico, che è più un Principio razionale dell’Essere che non una Persona.
Non è un caso quindi che la sua dottrina finisca per raccordarsi al razionalismo divino più impersonale e gelido possibile. Infatti il suo razionalismo metafisico finisce per configurare un panteismo molto simile a quello di Spinoza [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Egli sostiene infatti che la sostanza divina è dappertutto e quindi è in definitiva immanente; e “non solo nell’universo ma infinitamente più in là”.
Tuttavia nessun panteismo può raccordarsi con la fede nell’esistenza di un Dio supremo che è Ragione e Causa. E quindi è evidente che egli può intendere il panteismo solo come contenimento del mondo in Dio.
Infatti egli dice che Dio non è affatto compreso nell’opera sua (ossia l’universo o mondo visibile), ma essa è invece compresa solo e soltanto in Lui, e quindi essa “sussiste nella sostanza che lo conserva con la sua efficacia e onnipotenza”. Quindi noi siamo totalmente immersi in Lui, ed è in lui soltanto che abbiamo vita e moto. Come dice l’apostolo (Paolo): “In ipso enim vivimus movemus e sumus”. Ecco dunque l’immagine di un Dio che (proprio essendo Causa primaria e dominante) è Vita per eccellenza. Egli è la Vita stessa della quale partecipiamo come viventi e nella quale esistiamo. Ed infatti Malebranche stesso sottolinea che si tratta anche di un panteismo che è anche (e forse soprattutto) “panenteismo”. Infatti, egli dice, dire “Dio è dappertutto” equivale perfettamente al dire che “tutto è in Dio” invece che «Dio è in tutto». Questo perché Egli eccede incommensurabilmente in grandezza il mondo, e quindi non potrebbe mai essere contenuto nel mondo stesso – come avviene nel più classico e semplicistico panteismo. Egli è infatti l’infinito stesso.
Dio, egli dice, non è né nel nostro giardino né nel cielo, ma è “tutto intero ovunque egli è”. Pertanto il concetto di «tutto in Dio» (che richiama alla lontana quello di «Dio è in tutto») significa in primo luogo che Egli è «sempre-tutto-intero» dovunque sia, in qualunque luogo limitato si trovi.
Di nuovo si affaccia qui quindi una suggestione teologica e perfino mistica. Si delinea infatti quel concetto di «in Dio» del quale fu protagonista Paolo, ma che trova un suo lontano riscontro perfino nel Vedantismo indù [Ananda K Coomaraswamy., La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017; Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007]. Ma le premesse filosofico-razionalistiche e gnoseologiche lo neutralizzano comunque totalmente. Specie perché il concetto di «in Dio» (nella sua piena autenticità) allude per definizione ad un riassorbimento totale dell’uomo in Dio che non ha alcun senso al di fuori del presupposto rappresentato dall’incommensurabile Amore in virtù del quale Dio ci vuole tutti per sé nonostante la nostra deplorevole finitezza. E questo è l’esatto contrario di un Dio che invece ama solo sé stesso e ci disprezza come creature indegne della Sua infinità. Questo però è il Dio del quale parla Malebranche.
In ogni caso va sottolineato che quella del possibile panteismo di Malebranche non è solo una vaga suggestione, bensi invece (secondo la studiosa Rome) sembra essere un tratto fondamentale del suo pensiero, tanto che esso è strettamente legato all’occasionalismo [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review),Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Infatti per la studiosa l’occasionalismo (basato appunto su Dio come Essere presente a tutti i livelli: trascendente e immanente) si basa su due principi: − 1) la nozione di creazione; 2) una causa occasionale non può agire in virtù di una relativa essenza e quindi essa semplicemente non agisce (anche se così ci sembra). Per cui in Malebranche la giustificazione degli esistenti non è affatto puramente idealistico-gnoseologica come in Cartesio (per relazione interiore tra idee), ma sussiste solo sulla base di una creazione spontanea che a sua volta deriva dall’auto-amore di Dio. Quindi la relazione tra Essere ed esseri non è per lui affatto logicamente necessaria. E quindi essa va conosciuta empiricamente e non deduttivamente. Pertanto il potere creativo di Dio va conosciuto solo a posteriori. Ne consegue che l’occasionalismo è “una giustificazione metafisica degli esseri” entro la quale tutto comincia non dall’Essere o dagli esseri, ma solo da entrambi. Ne deriva che l’ontologia di Malebranche sfugge completamente qualunque dicotomia tra ragione e sensi. In ogni caso, una volta così interpretato, l’occasionalismo del nostro pensatore non è affatto una dottrina che ponga la pura necessità intelligibile degli esseri creati (necessità puramente ideale indipendente dall’esistenza), ma invece prende pienamente atto della giustificazione della loro esistenza unicamente in base all’atto arbitrario della creazione. Solo che ritiene quest’ultimo l’atto di un Dio che non si limita solo a creare l’esistente, ma inoltre ne regola l’esistenza come infallibile Ragione e Causa.
In ogni caso ciò resta comunque in forte contrasto con un Dio d’amore, e quindi rappresenta un «in Dio» che non ha alcun autentico significato religioso. Infatti non si tratta affatto solo di questa scarsa autenticità teologica dell’«in-teismo». Perché con ciò finiamo per toccare l’estremamente controversa concezione del male secondo Malebranche, e quindi quella fortissima teodicea “vendicativa” che arriva ad essere addirittura cinica, gelida e violenta (e che Arnaud giustissimamente contestò). Da tutto quello che abbiamo detto, infatti, scaturisce che, qualora esistessero solo leggi naturali, in assenza dell’agire costante della perfetta e buona Causa divina che le governa con pugno di ferro, allora nel mondo esisterebbe indubbiamente solo il male. Il Bene sta dunque unicamente nel governo razionale che Dio esercita nel mondo. Non certo nell’Amore divino. Ma anche questo governo è inflessibile, dato che esso si disinteressa totalmente dal male circostanziale del mondo (catastrofi naturali, malformazioni umane, mostri etc.) in vista dei fini incontestabilmente positivi che comunque ci sono ma solo Lui vede [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 245-246, p. 69-70]. Infatti, le generali leggi semplicissime da Dio prescritte, si manifestano comunque (al fondo di tutto nella Natura) producendo così la stessa bellezza, ricchezza e fertilità del mondo: − crescita e produttività degli alberi, fertilità vegetale e animale, ed infine anche il certissimo riprendersi della Natura dopo la devastazione delle catastrofi. Insomma ovunque domina in definitiva più il Bene (che noi però non vediamo) che non il Male. Ed allora (dice Teodoro, il protagonista dei dialoghi di Malebranche): − “Nulla è più bello, più magnifico dell’universo che questa profusione di animali e di piante quale noi l’abbiamo riconosciuta. Ma credetemi nulla è più divino del mondo con il quale Dio ne riempie il mondo, nulla più divino dell’uso che Dio sa fare di una legge così semplice che sembrerebbe non essere buona a nulla”.
Eppure paradossalmente – sia pure con tutta la prudenza necessaria e nonostante l’evidente crudeltà della sua teodicea – si può dire che il fortissimo accento posto da Malebranche sull’Onnipotenza divina (quale sua quasi unica manifestazione nel mondo) faccia della sua dottrina religiosa una delle poche che si presti a concepire la piena legittimità del concetto di «aiuto divino», ossia l’intervento diretto di Dio nel mondo e nell’esistenza umana in chiara violazione delle leggi della Natura [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., II, 104, p. 71, I, 178, p. 71]. E questo è del resto perfettamente plausibile in base a due presupposti filosofico-metafisici ed in parte perfino scientifico-naturali: − 1) Dio non è affatto separato dal mondo e dalla Natura; 2) il suo saldissimo ed esclusivo governo del mondo e della Natura non ammette deroghe, per cui la sua volontà è immediatamente connessa all’effetto. Insomma non c’è (crediamo) alcun filosofo che abbia osato sostenere che, se Dio proprio lo vuole, assolutamente nulla si può frapporre all’aiuto da Lui concretamente portato all’uomo nel suo dolore e/o nella sua sventura. Non a caso il pensatore francese concepisce il miracolo come uno dei pochi casi in cui la perfetta Causa prima si fonde così tanto nella sua azione con le cause occasionali da dare ad esse la precedenza. Infatti, egli dice, “quando Dio fa un miracolo e non agisce in conseguenza delle leggi generali che ci sono conosciute, io pretendo o che egli opera in conseguenza di altre leggi che ci sono sconosciute, o che ciò che egli allora fa è atto cui è determinato da certe circostanze che ha avute i vista da tutta l’eternità formando questo atto semplice, eterno, immutabile che inchiude le leggi generali della sua provvidenza ordinaria, e ancora le eccezioni di queste medesime leggi”. Ma del resto lui stesso è imbarazzato davanti a questo come filosofo, pur essendo costretto ad ammetterlo in forza dei principi da lui stesso affermati. Infatti fa dire a Teodoro che l’agire divino per “volontà particolari” sembra “così indegno di un essere immutabile e di una intelligenza che non ha confini” che c’è da essere sorpresi che i miracoli siano così comuni. E così sospetta comunque che il tutto possa essere solo effetto di superstizione.
Tuttavia ciò resta fortemente relativizzato dalla costatazione che il Dio di Malebranche è amoroso solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo) e sommamente perfetto nella sua razionalità. Insomma l’affermazione categorica del fatto che Egli ama sé stesso è una delle più forti affermazioni della dottrina di Dio come «causa sui»; che pure era stata già presente nella metafisica religiosa sia pagana che cristiana. Ed è del tutto plausibile quindi che questo venga oggi fortemente contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale. Non vi è dubbio che essi abbiano perfettamente ragione in questo. E questo viene fortemente evidenziato da uno dei passaggi delle CC [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 31]. Qui infatti Teodoro afferma che noi tendiamo erroneamente ad applicare la nostra fallace logica alla volontà divina. Eppure essa è immutabile esattamente come la sua legge, dato che esse sono identiche alla sua “sostanza”. Dato che “Dio agisce sempre secondo la sua sostanza senza smentirsi mai”. Inoltre “si compiace di essere com’è” (ossia ama solo sé stesso), [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit.,]. e per questo la sua creazione è destinata unicamente a mostrare sempre Lui e solo Lui. Essa è insomma totalmente indifferente alla creatura umana. L’uomo invece non può agire secondo la sua natura perché essa è corrotta e soggetta ad errori. Ecco allora che il Dio di Malebranche è amoroso solo molto relativamente, ossia solo nella misura in cui è radicalmente trascendente ed autonomo e sommamente perfetto nella sua razionalità. Questo viene contestato dai moderni oppositori della teodicea che considerano questo Dio unicamente metafisico e non personale.
Lo stesso discorso si applica al tema della relazione tra Dio come infinito e quella creatura che, essendo finita, è (secondo Erasto) un “nulla” esattamente quanto lo può essere un granello di sabbia rispetto all’immensità del globo terrestre [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 32-33].
Teodoro gli fa eco affermando che Dio agisce solo attraverso la sua volontà, per cui ogni sua azione è ispirata all’amore che porta solo ai propri attributi, specie l’infinità (suo attributo tra i più essenziali). Per questo Egli non poteva prevenire il peccato di Adamo, ma bastava invece appena dotarlo di “qualità eccellenti” come la libertà di amare. Però solo al fine di poter poi meritare la giusta ricompensa; e quindi non per il valore da attribuire all’amore ma solo per il valore da attribuire alla giustizia distributiva. Ecco insomma delinearsi un aspetto fondamentale della Preveggenza o Provvidenza divina. E questo è accaduto perché la Sua perfezione infinita (il compiacimento di sé) non rendeva necessario interessarsi del finito se non per mettere in evidenza la perfezione della sua preveggenza (che è attribuzione all’uomo dell’amore per il bene nonostante il suo così squalificante Peccato). Dio infatti non era certo interessato al culto di una creatura finita che è nulla. Si conferma insomma qui che l’uomo per Dio è solo un nulla, mentre l’unica cosa che Egli ama è solo sé stesso. Per cui Egli non considera affatto importante la sua creatura rispetto a sé stesso. Ecco allora diventare chiaro che, nella sua creazione del Primo uomo, Egli stava già pensando al secondo Uomo e secondo Adamo (Cristo) ed inoltre alla sua Chiesa. Insomma “…il suo fine non riguarda l’uomo terrestre, l’uomo profano allo stato di natura”. Egli si compiace solo invece dell’uomo-dio, e precisamente di quello davvero integrale (in quanto esclude totalmente l’uomo), cioè Cristo. Ecco perché, allora, Dio non si è mai pentito di aver fatto l’uomo (dato che Egli guardava molto più lontano). Cosa del resto impossibile a causa della sua immutabilità. Allo stesso modo Egli non si è pentito di aver fatto la Legge ebraica. Ecco perché non aveva bisogno di prevenire il peccato di Adamo avendogli donato “in anticipo tutte le grazie e qualità convenienti alla natura umana”. Lasciando peccare Adamo, Egli insomma guardava già al Figlio. Insomma si può ancora una volta dire che Dio è amoroso solo unicamente dall’alto e nella più assoluta perfezione razionale − in quanto ama la sua perfezione ed infinità in virtù della quale prevede tutto infallibilmente. Il suo amore per l’uomo è pertanto in realtà amore per sé stesso, unito al disinteresse per una creatura che per Lui è nulla.
A ciò va inoltre aggiunto che anche, nel contesto di questo discorso, Dio viene presentato da Malebranche come la causa di tutto ciò che avviene nella più ordinaria fisica, ossia nel pieno contesto delle leggi naturali. Anch’esse pensate solo come manifestazione della sua perfezione e non certo a favore dell’uomo. Ed ecco quindi che emerge di nuovo la gelida spietatezza della sua teodicea, entro la quale è perfettamente contemplata la ferocia delle leggi naturali.
Insomma, in estrema sintesi, tutto ciò significa che il Dio di Malebranche non è in alcun modo un Dio d’amore. Eppure qui ci troviamo nel contesto di quelle che egli chiama “conversazioni cristiane”.
Il che appare essere davvero mostruoso.
Ma del resto ciò si spiega molto bene con il fatto che, così come il nostro pensatore in metafisica rifiuta sdegnosamente l’autorità degli antichi (e perfino quella di moderni come Cartesio), in religione rifiuta l’autorità della Rivelazione e talvolta perfino dei Padri della Chiesa. E questi lo porta ad affermazioni teologiche estremamente radicali che spesso sfiorano molto da vicina l’astrusità e l’assurdità.
Non a caso [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit. Dialogo V p. 89-90I] egli afferma che, a causa della caduta dell’intera umanità nel disordine (a causa del Peccato trasmesso da Adamo per via addirittura generativo-genetica a tutte le generazioni umane successive), “tra Dio è l’uomo esiste un’inimicizia”. E questo per un fatto più ontologico che non morale, ossia per qualcosa che risiede nella sostanza dell’uomo senza che egli ne sia nemmeno responsabile fino in fondo, cioè perché in sé i corpi non sono sottomessi allo spirito. È per questo che l’uomo, del tutto incapace di auto-controllo, è anche del tutto capace di un peccato che poi consiste soprattutto nelle passioni carnali ossia nella tendenza al piacere. E non è in alcun modo capace di tenersi lontano da questo peccato. E così, egli dice, legge dello spirito e legge del corpo sono radicalmente in conflitto tra loro. E lo stesso accade tra l’uomo interiore e all’uomo esteriore. Ma quando ci si chiede come sia possibile ristabilire l’ordine, egli risponde che non ci può affidare né alle dottrine dei filosofi pagani né nemmeno a quelle di cosiddetti “deisti”, ossia coloro che si basano solo sul valore della Rivelazione e non invece su quello della Ragione. Quello di Malebranche è insomma una specie di anti-teismo ante litteram e quindi appare essere ancora una volta (in forte anticipo) in sintonia con le prese di posizioni dei moderni ricercatori cristiani che in Teologia si affidano non solo alla più laica filosofia (specie gnoseologica) ma anche alla scienza sperimentale stessa. Tuttavia ciò viene fortemente relativizzato da quello che il pensatore dice dopo. Dato che egli dice che questi “deisti” (con i quali forse egli intende i monoteisti non cristiani, ossia Ebrei ed Islamici, oppure forse anche i cristiani più legati all’idea di un Dio unicamente Trascendente e quasi biblico, come ad esempio i più radicali tra i protestanti) non ammettono un Mediatore che riconcili gli uomini a Dio. E questo Mediatore è Gesù Cristo.
Tuttavia ciò avviene attraverso “l’eccellenza del suo sacrificio”, unito al suo Sacerdozio (in virtù del quale può intercedere presso Dio invocando la Sua Misericordia ed il anche il Suo aiuto agli uomini) ed infine unito al Suo potere di inviare su di noi lo Spirito Santo. E fin qui tutto bene. Ma questo accade secondo lui per un motivo più profondo, e cioè per una dignità di persona che Malebranche non accorda affatto all’uomo, che è poi l’unica cosa che lo ha reso degno del supremo sacrificio, ossia la Croce. Egli dice infatti che “è necessario che una vittima più degna di tutte le creature della grandezza e saggezza di Dio subisca il colpo che doveva renderli eternamente infelici” – rendere gli uomini felici. Ed è solo per questo che Cristo “è il vero figlio di Dio che può farci accettare come suoi figli adottivi”. Infatti il Creatore ha fatto tutto per suo Figlio ed attraverso di Lui. Ha creato uomo e mondo solo per questo scopo. Che poi altro non è se non la sua Gloria. Non a caso manca qui totalmente l’accento posto sulla principale motivazione del sacrificio di Cristo (che è poi il Padre stesso, cioè Dio, grazie alla relazione uni-trinitaria), e cioè un incommensurabile amore. Quell’amore per il prossimo che Gesù aveva insegnato nel Vangelo come la più alta delle virtù dell’uomo convertito al Regno dei Cieli. È l’amore in nome del quale Dio (in Cristo) si spoglia totalmente della sua perfezione e della sua trascendenza, trasformandosi non solo nell’ultimo degli uomini, ma accettando anche le umiliazioni ed i tormenti più inconcepibili. Un Dio che è suprema Ragione non avrebbe mai agito così. Intanto però è chiaro che, grazie all’unità trinitaria, il Padre non comanda solo al Figlio. ma è anche identico a Lui. Quindi chi scende sulla terra per subire alla fine l’onta della Croce è Dio-Padre stesso.
Quanto poi agli uomini essi (almeno in via di principio) meritano solo per il Dio di Malebranche solo la punizione. E quest’ultima (nel contesto della crudeltà della sua teodicea) va peraltro da loro pienamente accettata proprio perché punta a fini decisamente buoni. In altre parole, se fosse stato solo per l’uomo, Dio non avrebbe nemmeno richiesto il sacrificio riparatore del Suo Figlio. E quindi, se dagli eventi congiunti di Incarnazione-Croce-Resurrezione è scaturita l’umano-divinità, questo non è avvenuto affatto perché Dio ha amato talmente l’uomo da volerlo simile a sé. È accaduto invece solo perché Egli ama unicamente sé stesso. Mentre invece non ama in alcun modo l’uomo.
Questo disprezzo divino per l’uomo ha poi anche precisi risvolti gnoseologici negativi degli altrettanto negativi aspetti ontologici [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 107-110]. Tipica dell’uomo, secondo Malebranche, è infatti la pretesa di perseguire la verità mediante prove astratte e ragionamenti basati su una ragione completamente svincolata da quella divina, e così si allontana da Dio e dalla fede. Il che sottolinea peraltro che a fede per Malebranche è un’esperienza unicamente filosofica e astratta entro la quale l’amore non ha quasi alcun posto. Ma, pur restando in questo contesto gnoseologico ed astratto, egli si spinge ancora più oltre nel negare addirittura che Dio voglia la relazione dell’uomo con Lui. Ed in termini più specificamente filosofico-religiosi ciò si giustifica perché Dio è Spirito per eccellenza e quindi soltanto “vuole essere adorato in spirito e verità”. La relazione con Dio deve essere quindi sostanzialmente di adorazione per un Essere che si considera irraggiungibilmente superiore a sé stessi in quanto uomini. E per questa adorazione non serve affatto il corpo ma serve invece una “disposizione totale” dello spirito nei Suoi confronti. Non bastano quindi affatto i semplici movimenti dell’anima (cioè i sentimenti) o anche i giudizi degni da essa espressi. È vero però che lo spirito umano è capace di conoscere e volere. Ma è assolutamente necessario che esso lo faccia allo stesso modo in cui Dio conosce ed esprime le sue volontà. Pertanto, egli aggiunge, prima noi dobbiamo esaminare il giudizio che Dio esprime rispetto a sé stesso e poi dobbiamo considerare ciò che siamo rispetto a lui, cioè delle creature finite che non valgono un soldo bucato. E tali siamo anche per Dio stesso. Insomma ognuno dei due sa molto bene cos’è. Infatti Egli sa di essere infinito mentre noi sappiamo molto bene di essere finiti. E pertanto Egli sa che ciò che è limitato in quanto individuo equivale al nulla. E così deve essere considerato. Ecco che Dio ci giudica del tutto inadatti a qualunque relazione con lui. Ma intanto, dice Malebranche, può aver creato universo ed intelligenze solo desiderando che si uniscano a Lui nel constatare la sua Gloria. E quindi ha previsto il culto degli uomini per compiacerlo. Il che nuovamente equivale all’esprimere lo stesso giudizio che Egli emette su sé stesso. Il culto di Dio (ossia la vita liturgica stessa della Chiesa) non è altro che puro rispetto.
Intanto l’adorazione di Dio è possibile (per le ragioni prima discusse) solo attraverso il Mediatore. Ed in questo consiste il Cristianesimo. Ma a ciò egli aggiunge che è allora del tutto logico il fatto che solo fuori del Cristianesimo l’uomo attribuisce a sé stesso un valore.
A questo punto emerge in modo lampante che non solo in Malebranche (come rigoroso filosofo) manca totalmente il rispetto verso la Rivelazione cristiana (la quale non afferma affatto ciò che afferma lui) ma manca totalmente anche il rispetto verso quella Rivelazione che è ben più ampia e profonda di quella cristiana, ossia la cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale (SSOP), ossia la Scienza divina stessa – la cui esistenza e definizione è stata sottolineata da vari Autori, dei quali qui citiamo solo alcuni [René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 15-59; Swami Sri Yukteswar, La scienza sacra, Astrolabio, Roma 1993, p. 31-57; 107-117; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988; George Vallin, La prospettiva…cit.; Marsilio Ficino, Disputa contro il giudizio degli astrologi, in: Ornella Pompeo Faracovi (a cura di), Marsilio Ficino. Scritti sull’astrologia, Fabbri, Milano 1999, p. 63]. Entro tale Rivelazione, infatti (che corrisponde peraltro a molte forme di Sapienza pre-cristiana, include anche la stessa Cabbala ebraica e giunge perfino nel pieno del pensiero dei Padri greci della Chiesa), non solo la dignità umana viene ritenuta indiscutibile ma inoltre viene chiaramente concepito il valore dell’uomo come paradigma dell’Essere stesso, ossia come Uomo prototipico. Ecco dunque davanti a noi il Pananthropos, il Macroanthropos e l’Adam Kadmon [Giovanni Reale, Roberto Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in: Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011, V, II p. LXXXIX-XCIV, V, VII p. CII-CV, VI, p. CXII-CXXIV; Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibd. XXI-XXII, 64-68 p. 37-39, XLIII-LII, 128-150 p. 65-75; Filone, Le allegorie delle leggi, ibd. III, LVI-LXXII, 162-178 p. 253-259; Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, 1, 48-56, p. 389-397; Ilaria Ramelli, La dottrina dell’apocastasi eredità origeniana nel pensiero escatologico del Nisseno, ibd., I, 4 p. 751-803; Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre & Frederick Tristan (a a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 79-172; Jean Libis, L’Androgino e il Notturno, ibd., p. 11-32; Elemire Zolla, L’Androgino alchemico, ibd., p. 173-200; Giulio Busi ( a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 32-36, p. 64-79, p. 113-114, p. 119-125; Libro dei consigli di Zarathustra, in : Alessandro Bausani (a cura di), Testi religiosi zoroastriani, Edizioni Paoline, Roma 1964, p. 30; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 133-148; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-41].
Ma basterebbe solo una delle affermazioni sull’uomo a parte “Corpus Hermeticum” per provare questo fatto senza ombra di dubbio: − Perciò, o Asclepio, l’essere umano è un grande miracolo, un vivente degno di rispetto e di onore. Esso infatti passa alla natura di un dio, come se egli stesso fosse un Dio; conosce il genere dei demoni, in quanto sa di essere sorto insieme a loro, dalla stessa origine; disprezza in sé stesso, la parte dotata di sola natura umana, poiché ha riposto la propria fiducia nella divinità dell’altra parte. Di che felice mescolanza è composta la natura umana! È unita agli dèi poiché, grazie al suo carattere divino, è ad essi imparentata, mentre disprezza quella parte di sé che la rende terrena […] È situato, dunque, in una posizione intermedia tanto felice da amare gli esseri inferiori ed essere amato a sua volta da quelli superiori. Coltiva la terra, si mescola agli elementi grazie alla velocità del suo pensiero, discende nelle profondità del mare con l’acutezza della sua mente. Tutto gli è lecito: nemmeno il cielo gli sembra troppo alto, poiché lo misura da vicino, per così dire, grazie alla sagacia della sua mente. Nessuna nebbia dell’aria offusca l’attento sguardo del suo animo; la densità della terra non riesce a impedire la sua opera; la profondità abissale delle acque non smussa il suo sguardo, che in essa penetra. Esso è tutte le cose e dovunque al contempo” [Asclepio. Questo Asclepio per me è come il sole. Di Ermete Trismegisto. Libro Sacro dedicato ad Asclepio, in: Ilaria Ramelli, Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2016, 4-8 p. 521-527]. Del resto entro il pensiero di Meister Eckhart il valore dell’uomo era stato affermato con una forza straordinaria proprio come nucleo profondo dell’umano-divinità [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol., 14-17 p. 71-74, Prol., 10-14 p. 87-91; Meister Eckhart, Predica 1 (S 87), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 5-13; ibd. Predica 2 (Q 24), p. 17-27]
Insomma, di fronte a tradizioni e pensieri così poderosi, il concetto di disprezzo di Dio per l’uomo secondo Malebranche diviene assolutamente insostenibile.
Tutto ciò si significa allora che l’epistemologia davvero estrema di Malebranche è giustificata senz’altro dal fatto di avvenire dentro la stessa Ragione divina, ma anche dal fatto che il potere intellettuale umano è davvero di grande portata. E questo egli pretende di dimenticarlo completamente.
Pertanto con queste idee aberranti Malebranche è decisamente fuori squadra non solo rispetto alla Rivelazione ed al pensiero cristiano ma ancor più nei termini di un’autentica filosofia religiosa. E del resto questo fu il rischio corso dall’intera metafisica razionalista post-cartesiana.
Non a caso poco più avanti le sue argomentazioni filosofiche a sostegno del Cristianesimo finiscono per diventare addirittura teologicamente del tutto sconclusionate proprio per quella logica lacunosa, astrusa e contraddittoria della quale abbiamo già parlato nell’Introduzione [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo VI p. 110-126]. Infatti, dice Teodoro, per adorare Dio “in spirito e verità” non è necessario soltanto pensare come Lui (Ragione), ma anche volere come Lui (Fede-Opere). E qui viene richiamata la polemica tra Paolo e Giacomo (Chiesa cristiana di ispirazione giudaica ed in parte gnostica) rispetto al valore che ha la carità (opere) rispetto alla pura fede in linea a sua volta con la Legge. Ovviamente si conclude per il pari valore di questi due diversi atti della vita cristiana. Ma Malebranche non si accontenta affatto di questo e si chiede quindi se la morale cristiana ci insegni proprio questo. E così afferma nuovamente che Dio si compiace solo di sé stesso, e quindi si compiace delle creature soltanto “nella misura in cui partecipano del suo essere”.
E sottolinea così con forza straordinaria solo il primo dei Comandamenti: − «Amerai il Dio tuo più di te stesso». Ecco quindi da parte dell’uomo un amore che non è certo infinito, ma che comunque non conosce limiti perché preferisce Dio alle cose, considerando esse come un nulla. Ecco perché, dunque, dato che gli altri uomini sono “della loro stessa natura”, li si può amare come sé stessi (amore del prossimo). Ed ecco quindi la carità. Ma questo per Malebranche non è affatto il punto. Il punto consiste invece nel pensare e volere come Dio fa e vuole. E quindi ancora una volta l’amore agapico (ossia il nucleo più intimo del Cristianesimo) diviene del tutto secondario a fronte di un Dio che in primo luogo è assolutamente perfetta Ragione universale.
Sullo stesso tenore si muove poi il tentativo di Malebranche (per bocca di Teodoro) di spiegare gli apparenti «scandala» delle Scritture ed in particolare del Vecchio Testamento. Si tratta in particolare della spiegazione del fenomeno del tutto non naturale della pioggia di manna che accompagnò l’esodo del popolo ebraico. Che gli scettici ritengono naturalmente una mera favola. Ebbene, la conclusione del pensatore al riguardo è che invece solo appellandosi a Dio come Ragione universale si possano comprendere, spiegare ed accettare fenomeni come questi. Infatti egli afferma che Dio ha compiuto questi miracoli proprio affinché noi lo conoscessimo esclusivamente per la via della ragione. Il che significa che per lui nella Rivelazione cristiana non vi è la benché minima traccia di misteri.
Abbiamo già parlato di come egli veda la figura di Gesù Cristo in CC, ma vale la pena si soffermarsi di più su questo tema, dato che abbiamo già detto che (grazie all’unità uni-trinitaria) Cristo è Dio stesso.
Quindi parlando della sua definizione da parte di Malebranche stiamo ancora parlando della definizione di Dio.
Ebbene per Lui Cristo è il Maestro (ossia la verità interiore che incessantemente ci istruisce) solo in quanto, esattamente come Dio, è ancora una volta la Ragione universale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I-II p. 3-43]. Cristo è insomma la stessa Sapienza divina che genera in noi le idee che ci permettono di conoscere il mondo sensibile. Solo in questo senso Egli è il Maestro. Non un Maestro di verità etiche ma invece un Maestro di verità gnoseologiche. Ossia è solo in questo senso la “verità interiore”. Egli è insomma (come Dio) la Ragione che ci permette di conoscere veridicamente le cose. Dunque è un’entità gnoseologica.
Altre idee circa Cristo (e ovviamente circa Dio) si ritrovano poi in TNG, libro che serve sostanzialmente l’idea di teodicea che Malebranche sviluppò e non caso fu scritto in risposta alle obiezioni di Arnaud e più in generale al Giansenismo [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)].
Arnaud aveva sostenuto infatti che non è un vero provvidente un Dio che di fatto si disinteressa del male come avviene chiaramente in Malebranche. E Black dice che questa polemica toccava comunque l’occasionalismo (o volontarismo di Bas van Fraassen) in quanto idea secondo la quale, essendo Dio l’unica Causa di tutto, le cause occasionali agiscono solo se in concordanza con questa Causa suprema.
Dunque gli argomenti circa Cristo e Dio che ritroveremo in questo libro stanno in stretta connessione con la spietata teodicea di Malebranche. Quindi si può dire già in partenza che sono idee religiosamente, teologicamente ed eticamente negative.

È del tutto ovvio quindi che ritroviamo qui una visione che corrompe l’idea di Cristo in quanto unico fine della Gloria divina (in stretta concorrenza con l’uomo), e quindi rende la creazione un atto divino narcisistico invece che di donazione kenotica di sé [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, II, XXVI p. 85-91].
Per Malebranche, infatti, la ragione sottolinea l’assenza totale di relazione che vi è tra l’imperfezione delle creature e il più che perfetto progetto (ossia l’infallibile piano divino previsto dalla teodicea) per mezzo del quale esse vengono prodotte. E ciò a causa del loro limite ontico. Assolutamente insuperabile. Quindi la ragione ci dice che è impossibile che Dio abbia fatto l’uomo per esserne onorato, cosa che è palesemente inficiata dal grandissimo numero di coloro che lo disonorano. Pertanto la concezione della creazione come perfetta (in quanto avente come fine l’uomo) viene a mancare totalmente se non si suppone che essa puntava invece solo al Figlio.
Tuttavia poco dopo Malebranche afferma che l’opera di misericordia di Dio si incentra nel Peccato umano perché solo così gli uomini avrebbero potuto sperimentare la Sua esistenza. Ma ciò è contraddittorio perché il pensatore ci ha spiegato finora a sufficienza che Dio aveva invece previsto il Peccato e lo aveva anche salutato come possibilità per far emergere il vero scopo della sua creazione, e cioè Gesù Cristo come Redentore. Questa idea sembra dunque stare in forte contrasto con l’idea che Cristo sarebbe stato creato solo per la Gloria ed onore di Dio. E ciò è a nostro avviso solo uno dei molti esempi delle contraddizioni logiche che affliggono la dottrina di Malebranche. In ogni caso immediatamente dopo il pensatore afferma che, se non fosse vero tutto questo, Dio avrebbe lasciato Adamo nella perfezione, caratterizzata dall’assenza di concupiscenza. La sua Caduta si giustifica quindi solo nel fatto che voleva risollevarlo in Gesù Cristo. Questa idea, dunque, non solo aggrava le contraddizioni rilevate prima, ma inoltre razionalizza il Peccato e la Caduta così annacquando e banalizzando il mistero che esse invece rappresentano.
Ci ritroviamo quindi di fronte ad un nuovo attentato di Malebranche ai misteri cristiani in nome della balzana idea che Dio sarebbe in primo luogo la Ragione universale.
E a questo si aggiunge peraltro un’ulteriore argomentazione che basa l’esistenza di Gesù Cristo sul ribrezzo invincibile che Dio proverebbe per l’uomo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, II-VII p. 109-112].
Tale argomentazione giunge alla fine di una lunga argomentazione per mezzo della quale il pensatore cerca di saldare la riflessione sull’Ordine della Grazia con quella sull’occasionalismo.
Egli dice infatti che, siccome gli uomini sono avvolti nel peccato, e per giunta sono anche creature largamente inferiori a Dio, solo per Gesù Cristo (unica Persona caratterizzata da dignità e santità) e soprattutto per il suo sacrificio, noi possiamo riconciliarci con Dio ed avere così accesso alla Grazia. Grazia che quindi sarebbe condizionata, e non invece del tutto incondizionata, come invece il puro sacrificio d’amore di Cristo lascerebbe pensare. Eccoci insomma di nuovo davanti ad una inaccettabile negazione dell’Amore quale attributo primario della Persona di Dio. Quindi per lui Gesù Cristo è causa della Grazia in quanto è Causa generale al pari di un Dio assolutamente perfetto e razionale. Malebranche dichiara però di cercare ciò che “regola e determina l’efficacia della causa generale” ossia “causa seconda, particolare, occasionale”.
Ebbene, la causa seconda o occasionale determina per lui l’efficacia delle leggi a loro volta poste costantemente in relazione con la Causa generale. Così come l’urto dei corpi determina l’efficacia delle leggi del movimento. Altrimenti non resterebbe altro che l’intervento di Dio con volontà particolari. cosa che egli ritiene però inammissibile. È per questo, dunque che le leggi dell’unione anima-corpo sono rese efficaci dai mutamenti che hanno luogo nell’una e nell’altro. Ma essi (nascostamente e alla lontana) vengono comunque causati direttamente da Dio e non dalla Natura. E di questo si occupano quindi le leggi della Natura senza (apparentemente) l’intervento della volontà particolare di Dio. Pertanto anche nell’Ordine della Grazia vi deve essere qualche causa occasionale che esprima le leggi al fine dell’efficacia.
E questa causa per lui va scoperta.
L’argomentazione che serve a questo scopo è la seguente. Sia nell’ordine sensibile che in quello intelligibile le cause occasionali sono in rapporto con il fine per il quale Dio istituisce le leggi stesse che regolano ogni cosa. E questo determina la presenza o assenza di relazioni necessarie tra eventi dell’universo sempre solo secondo l’Ordine stabilito da Dio (esempio: il corso dei pianeti in relazione ad un mal di denti oppure ad un banale movimento del braccio) Ciò significa che per lui ciò che è ragionevolmente reale è del tutto verosimile nella Natura.
Intanto il fine di Dio è comunque quello unire anima e corpo e quindi di determinare sentimenti nell’anima solo quando nel corpo si verificano alcuni mutamenti. Quindi secondo lui è nel corpo e nell’anima che bisogna cercare le cause occasionali.
Questo però non basta. Perché intanto la primaria volontà di Dio era quella di formare la sua Chiesa mediante Gesù Cristo, e quindi Egli ha potuto cercare solo in Lui le cause occasionali. Pertanto le ha cercate nelle creature unite a Lui quali membra del Corpo alle quali lo “Spirito di Gesù Cristo” trasmette la sua vita e santità. In tal modo la “pioggia della Grazia” non cade su di noi nel contesto dell’Ordine cosmico retto dalle leggi naturali, dove dominano effettivamente solo i corpi; laddove poi i corpi suscitano nell’anima solo “sentimenti puramente naturali”. La pioggia della Grazia cade invece su di noi unicamente secondo lo stesso Ordine della Grazia e soltanto entro il suo ambito.
Intanto però neppure i nostri desideri sono cause occasionali della Grazia. Essa infatti non ci viene concessa quando vogliamo e a volte viene addirittura concessa proprio a chi non la vuole. Ed in effetti i desideri rientrano in cause che hanno certamente il loro effetto. “Le leggi generali che diffondono la grazia nei nostri cuori non trovano dunque nelle nostre volontà nulla che determini la loro efficacia” come invece accade infallibilmente nell’Ordine naturale retto dalle leggi della Natura.
Ecco allora che per lui l’Ordine della Grazia è radicalmente opposto all’Ordine della causalità naturale
E quindi, sulla base di tutto questo, solo Gesù Cristo può procurarci e soprattutto “meritarci” la Grazia.
Dato che la causa dell’efficacia delle leggi naturali (nella loro subordinazione alle Leggi generali divine) non risiede affatto in noi.
Eccoci insomma nel complesso di fronte ad un’ulteriore razionalizzazione naturalistica di una verità altamente teologica e di un sublime mistero divino. La concessione della Grazia starebbe infatti per il pensatore in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo (leggi che in primo luogo reggono la dimensione fisica del cosmo, cioè il movimento in generale). Inoltre l’intera argomentazione appena esposta (come forse il lettore avrà giù notato) contiene notevoli e veri e propri salti logici (specie dalla Filosofia della Natura alla Teologia) ed ai quali Malebranche pone rimedio del tutto arbitrariamente, così che esse restano pochissimo convincenti.
Infine dalla definizione di Cristo passeremo nuovamente alla definizione di Dio come si ritrova in TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., XXII p. 82-83]. E qui di nuovo la definizione di Dio si rinsalda con la sua teodicea. Egli sostiene infatti che, molto in generale, l’aver predisposto un mondo che marcia praticamente da solo secondo le semplicissime ed universali leggi della comunicazione del movimento (e senza l’intervento di volontà particolari, se non in casi rarissimi), indica che Dio “desidera che tutte le sue creature siano perfette”. Per cui non vuole gli effetti indesiderati e il male (bambini che muoiono o nascondo deformi, mostri, catastrofi etc.). Insomma Egli non ha affatto creato il mondo perché questo accada. Ma intanto se intervenisse con volontà particolari – dato che, per evitare questi effetti, non c’è altro modo che far deviare il progetto avviato originariamente da Dio (e che conteneva anche questo) − ciò contraddirebbe la Sapienza originaria del suo progetto, ossia il famoso infallibile piano divino. Ed ecco dunque un altro debolissimo, ed anche non poco cinico (se non ipocrita), artificio argomentativo per giustificare il male, ma sempre in nome della perfezione del proposito (Sapienza), cioè in nome della Perfezione di Dio quale aspetto essenziale primario della sua essenza. Il che esclude di nuovo totalmente l’Amore quale primario attributo divino.
Eccoci insomma di nuovo tremendamente delusi come fedeli e credenti. Quelle considerazioni sulla Grazia che avrebbero dovuto dare forza e fondamento all’intendimento di Dio come Amore fanno invece l’esatto contrario, e cioè non fanno altro che rinsaldarsi agli aspetti filosofico-religiosi ed etico-religiosi peggiori del pensiero di Malebranche, ossia l’intendimento di Dio come una gelida e indifferente Ragione universale (peraltro narcisisticamente innamorata solo di sé stessa) e la postulazione di una teodicea che è in fin dei conti totalmente indifferente al male mondano ed umano in nome della sola perfezione indiscutibile del progetto di questo Dio unicamente metafisico-razionale.
E la cosa peggiore è che in questa visione viene coinvolta anche la Persona di Cristo, ossia quella dovrebbe essere la più chiara manifestazione di un Dio che è unicamente Amore.

La teodicea di Malebranche (sezione 2).
Era inevitabile che questo aspetto venisse già trattato (nelle sezioni precedenti) nel tentare di dare al lettore un’idea della definizione di Dio e di Cristo che Malebranche ci offre. Per cui non dovremo qui soffermarci su aspetti che abbiamo già trattato. Ma seguiamo comunque l’ordine espositivo che abbiamo già seguito nell’esaminare una dopo l’altra le tre opere PM, CC e TNG.
La postulazione più diretta della teodicea sta in PM nell’intendimento di Dio come protagonista del governo inflessibile oltre che sapiente (cioè impeccabilmente giusta) del mondo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 130, p. 67-68]. Malebranche sottolinea infatti l’impeccabile giustizia con la quale Dio governa il mondo nonostante la schiacciante evidenza del male. E questo si spiega perché Egli è immutabile, nonostante gli eventi catastrofici (ma sempre solo occasionali) che sembrano contraddirlo. Essi infatti denotano solo il deplorevole divenire, e quindi non indicano per davvero il cambiamento nella causa che li produce.
Dato che il divenire non è altro che una mera apparenza dell’essere. Quindi bisogna prendere atto del fatto è che “Dio segue inviolabilmente le medesime leggi”, ed inoltre che “la sua condotta non ha alcuna relazione con la nostra”, sottomessa come essa è fatalmente e tragicamente alla dimensione del divenire che caratterizza il mondo. Quindi se c’è male nel mondo ciò è dovuto in primo luogo al divenire dell’essere terreno ed in secondo luogo alla libertà dell’azione umana, la quale a sua volta si lascia passivamente sottomettere al divenire. Intanto però nella Causa suprema delle universali e perfette Leggi dell’essere non c’è alcuna contraddizione.
Ora, come abbiamo già accennato, noi non sappiamo (per nostra ignoranza) se il pensiero di Malebranche si rifaccia in tutto questo a certa metafisica teologica pagana di stampo fortemente platonico e soprattutto neoplatonico. Ma da quanto abbiamo appena detto sembrerebbe senz’altro di si. Infatti questo concetto di impeccabile governo del mondo, nonostante il male, richiama molto da vicino i concetti pagani del Fato come indifferente ma sapiente «giustizia distributiva» − manifestato dalle varie entità divine ritenute responsabili di questo, e cioè “Adrastea”, “Dikè”, “Heimarmené”, “Themis”, “Anánke” e perfino la raccapricciante e violentissima “Nemesis”, della quale Proclo ha diffusamente parlato [Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, VI, 23, 100-109 p. 991-1005]. Del resto l’etimologia stessa del termine «teo-dicea» si rifà espressamente a “Dikè” cioè l’implacabile Giustizia divina in forma di legge governante gli enti cosmici. E peraltro anche la dottrina stessa di relazione tra causa ed effetto richiama in Malebranche la dottrina di Proclo [Proclo, Elementos de teologia, Buenos Aires:Aguilar 1975, 7-39 p. 28-60, ibd. 56-65 p. 70-79,75-86 p. 87-95].
Insomma il concetto di teodicea è di per sé molto sospetto. E forse proprio perché tende a razionalizzare fortemente un profondo ed insondabile mistero divino.
Ma comunque ci chiediamo cosa mai questo abbia a che fare con il Cristianesimo. Ma siccome la teodicea ha avuto come protagonista anche un altro grande esponente della metafisica razionalistica cristiana, ossia Leibniz, questa perplessità va estesa anche a lui. E l’unica spiegazione di questo sta secondo noi nella soggezione passiva di questi pensatori cristiani a quella rigorosissima e gelida esattezza matematica che Cartesio aveva introdotto non solo nella filosofia ma perfino nella metafisica cristiana.
Insomma si è portato a chiedersi se Malebranche (nonostante la sua manifesta avversione per il pensiero antico) non abbia in qualche modo subito influssi metafisico-religiosi di stampo pagano.
In ogni caso a ciò vanno aggiunte le ulteriori, ed ancora più ciniche ed inquietanti, considerazioni de nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 225-226, p. 68-69]. Dio, egli dice, potrebbe bene eradicare il male dal mondo ma così dovrebbe mutare le leggi semplici che segue per seguire invece le “leggi naturali” che lui stesso ha stabilito; ma non certo per gli effetti mostruosi che dovevano produrre, bensì invece per gli “effetti più degni della sua sapienza e bontà”. Dunque egli “permette” il male ma non lo vuole né lo fa, dato che esso è una conseguenza naturale della sua legge.
Insomma ne dobbiamo dedurre che ciò che nelle leggi divine (trascendenti) è perfetto, invece nelle leggi naturali (altrettanto divine) divine è fatalmente imperfetto. Ma questo sarebbe non solo normale bensì anche supremamente razionale. Perché intanto la Causa prima e suprema resta dominante e perfetta nelle sue intenzioni, solo che gli effetti si allontanano da essa (di nuovo esattamente come pensava anche Proclo).
In altre parole ci troviamo di fronte ad una dottrina così piena di contraddizioni, e così cinica ed ipocrita, che essa deve necessariamente prestare il fianco a non poche obiezioni.
Anche in CC troviamo degli elementi di teodicea [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 30].
La questione scaturisce da un passaggio del dialogo tra Erasto e Teodoro. Il primo dice che esiste una difficoltà consistente nel fatto che Dio ha previsto dall’eternità le conseguenze delle cose, prevedendo così perfino il Peccato originale. E quindi perché mai ha creato l’uomo e peraltro lo ha creato libero? Perché mai insomma ha stabilito un ordine che poi doveva essere capovolto in quanto corrotto? Non sarebbe stato meglio creare una Natura incorruttibile o prevenire la Caduta di Adamo?
Ebbene Teodoro gli risponde provocatoriamente che semplicemente non lo sa, e accennando quindi al fatto che si tratta di un mistero. Ma Malebranche non sembra affetto volersi accontentare dell’esistenza di quest’ultimo. E così fa aggiungere a Teodoro di aver già dimostrato che Dio è Causa. Per cui egli ritiene che le obiezioni a questa così schiacciante evidenza possono venire solo “dalle tenebre dello spirito”, ossia (per dirla alla platonica) dall’ignoranza. Quindi aggiunge che quando una verità si mostra con evidenza non bisogna smettere di credere in essa in nome delle obiezioni. Ebbene su questa base egli comunque cerca di rispondere all’obiezione: − Dio ha concepito l’uomo libero in quanto creatura fatta per amare il bene. Laddove il bene è ovviamente Dio stesso in persona. E ciò perché il bene deve venire necessariamente scelto, e non deve invece imporsi all’uomo come avverrebbe entro qualunque impulso generato dall’influsso sensibile. La scelta del bene è quindi una sorta di suprema prestazione etica-cognitiva dell’uomo (come direbbe Scheler). Ma intanto l’uomo ama solo ciò che vede, oltre ad essere soggetto anche ad errore. Perciò, se Dio non l’avesse creato libero (mentre però intanto lo conduce continuamente verso ciò che è bene) si dovrebbe ammettere che Dio stesso è laa causa del peccato a causa dei movimenti sregolati della volontà. Di nuovo insomma viene in primo piano il governo divino del mondo come elemento ineliminabile dell’etica stessa. Insomma è cose se si volesse dire che Dio continua a guidare Lui stesso l’automobile cosmica per evitare che il fresco patentato combini dei guai che comprometterebbero in modo imbarazzante il suo insegnante.
È una soluzione questa. Ma è davvero onesta e credibile se teniamo conto del concetto del concetto di libertà colto davvero nella sua integrale autenticità?
E quindi è molto utile confrontare qui la teodicea di Malebranche con quella di Dostoevskij che è stata magistralmente illustrata da Berdjaev (come abbiamo già visto citando questo pensatore a proposito del valore dell’uomo e della sua libertà). In Dostoevskij infatti Ivan Karamàzov rifiuta qualunque teodicea (in quanto causa certa di male, e soprattutto del male che colpisce i bambini) a costo di mettere in discussione lo stesso bene della libertà che Dio ha concesso all’uomo. E questo perché la libertà umana causa tanto il bene quanto il male. Per Malebranche invece essa causa sempre il bene solo perché Dio intanto guida costantemente l’uomo evitando che la sua volontà devii dal giusto percorso (a causa della sua tendenza agli errori, ed a causa della sua soggezione alle apparenze (dato che esso crede solo a ciò che vede). Non solo, ma per Malebranche la conduzione continua di Dio è assolutamente indispensabile per evitare che Egli stesso resti coinvolto nelle deviazioni umane verso il peccato, e quindi divenga complice del male. Comunque la libertà umana (diversamente da quanto afferma Dostoevskij con estrema onestà) è per lui finalizzata al solo bene e solo per questo è giustificata. Malebranche considera comunque il libero arbitrio addirittura come una vergogna per l’uomo perché lo obbliga ad accettare la conduzione divina.
Ora non vi è alcun dubbio che ci troviamo qui di fronte a due molto diverse soluzioni al problema del male in stretta relazione all’autenticità dell’ispirazione che le guida – quella di Dostoevskij si sottomette all’obbligo dell’autenticità fino allo strazio subito a causa della lampante contraddizione, mentre quella di Malebranche si serve senza il minimo scrupolo di artifici pochissimo autentici proprio perché razionalistici per evitare i disagi dell’autenticità. Quella di Dostoevskij si espone coraggiosamente all’abisso dell’irrazionalità imposta dall’evidenza del male in relazione alla libertà umana, e quella di Malebranche invece codardamente ed ipocritamente ne rifugge.
E quindi, una volta servitisi di questa comparazione, non resta davvero molto più da dire circa la qualità etica delle riflessioni di Malebranche. Essa è completamente dominata dalla cinica ipocrisia farisaica che è tipica della razionalità una volta applicata all’etica. Lo stesso sarebbe accaduto a Kant non molto tempo dopo.
E peraltro questo giudizio di valore viene ulteriormente aggravato dalle considerazioni che il pensatore francese aggiunge, e che secondo le quali il fine della libertà non sarebbe affatto la scelta tra il bene e il male, laddove in quest’ultimo rientra il piacere. La libertà concerne invece solo e soltanto la scelta tra amare o non amare Dio, all’unico fine, ovviamente, di renderGli Gloria. Ma Dio sapeva che il libero arbitrio concesso all’uomo non è altro che una “vergogna”, perché con certezza assoluta, in assenza della conduzione divina, lo inclina sempre verso il male (il piacere) e mai verso il bene. La Sua infinita Sapienza ha quindi concesso questa dotazione (totalmente negativa) all’uomo solo perché, prevedendo che l’uomo certamente avrebbe cessato di amarlo, avrebbe dunque peccato. E quindi avrebbe avuto bisogno del Suo aiuto per mezzo della Redenzione di Cristo. E questo dunque avrebbe indotto gli uomini ad amarlo. Dunque il risultato finale di tutti questi eventi – infallibilmente previsti dalla Preveggenza divina – sarebbe stato invariabilmente la Sua Gloria. Ma niente altro!
Ebbene, se la teodicea di Malebranche, posta di fronte a quella di Dostoevskij, naufraga in una codarda ipocrisia al cospetto del mistero estremamente complesso e profondo della libertà umana, qui essa ricade nel ridicolo di una teoria pretenziosa, paradossale e grondante di assurdità. E qui davvero (come hanno detto alcuni) c’è da chiedersi se egli sia stato davvero un filosofo. Non a caso uno dei suoi interpreti, Rodis Lewis, ha definito del tutto assurda la sua dottrina della scelta [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263[.
Ma veniamo ora a TGN, che fu poi un libro dedicato proprio alla teodicea in risposta agli argomenti di Arnaud e dei giansenisti. Vale la pena quindi di gettare su di esso uno sguardo di insieme prima di entrare nell’analisi delle singole argomentazioni.
In generale in questo libro vengono sostanzialmente esposti tutti gli argomenti contro l’idea che Dio possa venir ritenuto responsabile a qualunque titolo del male. Ma soprattutto Malebranche tende a difendersi dall’accusa di aver sostenuto che Dio sia indifferente al male del mondo e dell’uomo. Difesa però impossibile, dato che abbiamo già più volte visto che egli afferma proprio questo, sebbene (con un’argomentazione che molte volte ricade nell’assurdo) faccia sforzi immensi per dimostrare che non è così. Il risultato di questi sforzi è però assolutamente fallimentare.
Pertanto non c’è da meravigliarsi di questo visto che il pensatore impiega appena artifici debolissimi, ed anche non poco cinici, incentrati tutti sulla Perfezione divina originaria (col il conseguente Piano infallibilmente sapiente) quale sua essenza e quindi come indiscutibile nella qualità dei suoi propositi: − Dio può volere solo il Bene. Ma questo viene presupposto più che dimostrato. E peraltro, come abbiamo già visto più volte, senza alcuna menzione dell’Amore. Per Malebranche, infatti, lo stesso Ordine della Grazia non è altro che l’infallibile Ragione divina. Inoltre esso non è altro che il desiderio di Dio di procurare a sé stesso una Gloria infinita perché Egli, come ormai sappiamo, ama solo sé stesso. Ecco insomma che l’essenza dell’Ordine della Gloria si risolve nell’assolutamente inaccettabile (oltre che ridicola) postulazione di un vero e proprio narcisismo divino.
E quindi, in questo inquietante e scoraggiante scenario, l’unica cosa che prevale è l’attribuzione a Dio della sola assoluta Maestà di un Monarca assoluto.
Pertanto – come abbiamo già accennato −, se estendiamo un po’ il nostro sguardo sullo scenario filosofico del tempo, e quindi sull’intero progetto della metafisica razionalista (Malebranche, Leibniz e perfino Spinoza), esso assume i caratteri di un tentativo di fusione tra il razionalismo cartesiano (in forte sintonia, a sua volta, con la Filosofia e Scienza della Natura) e, dall’altra parte, gli antichi contenuti della Religione ebraica (incentrata nella Legge) uniti a diversi aspetti della metafisica religiosa pagana (Plotino, Proclo). Indubbiamente quindi quella qui all’opera è una metafisica corrotta in partenza dal suo razionalismo. Razionalismo che in ogni caso vuole essere tanto sovrannaturale e trascendentista che naturale ed immanentista; cioè vuole tenere d’occhio tanto il più alto e sublime intelligibile quanto il più ordinario e rozzo sensibile. Come del resto appare evidente in un altro progetto metafisico di quell’epoca, e cioè quello di Suárez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011] –, sebbene con toni molto più equilibrati di quelli di Malebranche. Sta di fatto però che, se una metafisica vuole essere autentica, essa deve fare una scelta coraggiosa e radicale: − o si occupa del Sovrannaturale e del Trascendente (attribuendo ad essi un valore ed un ruolo primari), oppure si occupa dell’immanenza e del naturale. Tuttavia è ovvio che quest’ultima disciplina non sarà più una metafisica ma sarà invece solo una scienza naturale. E quindi, qualora pretenda comunque di essere ancora una metafisica, si potrà solo coprire di ridicolo. Non è un caso quindi che il progetto della complessiva metafisica razionalista abbia conosciuto un fallimento storico-filosofico definitivo. Infatti non c’è stato un solo filosofo ad essa successiva che abbia rinunciato a criticarla.
Questa insufficienza assume però forme ancora più eclatanti in Malebranche.
Perché in lui la metafisica razionalista è travestita di forme cristiane incentrate soprattutto nella Maestà divina. Quindi questa è una metafisica mentitrice e corruttrice in quanto è solo falsamente religiosa, perché essa si basa solo sulla filosofia e non sulla Rivelazione, e meno ancora sulla Scienza Sacra. E ciò nel contesto di una visione creazionista-fisico-razionalista. Del resto era stato così già in Cartesio – al cui pensiero Alexandre Koyré tentò di attribuire lo status di un’autentica metafisica cristiana [Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005]. Questa metafisica è dunque in verità unicamente figlia della Filosofia e Scienza della Natura (specie fisico-mateatica), ed inoltre del razionalismo idealista cartesiano (anch’esso fortemente scientista). Non ha a che fare quindi né con la Rivelazione né con i misteri divini, che essa infatti sottopone ad una totale riduzione e ad uno svelamento profano per mezzo della Ragione, togliendo così ad essi la loro natura nella presunzione che Dio sia null’altro che somma Ragione universale. Emblematica per questo è la deformazione dell’idea della creazione come un evento che punterebbe unicamente al Cristo (in concorrenza dell’uomo); e peraltro nemmeno per il valore in sé dell’Incarnazione (quale donazione kenotica di sé da parte di Dio), ma invece unicamente per la sola Gloria divina. Tutto questo si può constatare in varie sedi del pensiero di Malebranche dove il razionalismo applicato alla Rivelazione annacqua e banalizza i misteri rendendoli così del tutto razionali.
Questo è lo scenario generale nel quale si muove la teodicea sostenuta in TGN,
Qui in generale Malebranche sostiene la necessità ed inevitabilità del Peccato secondo la Ragione divina.
E su questo si basano moltissime argomentazioni non solo aberranti ma che logicamente fanno anche acqua da tutte le parti; soprattutto perché pretendono di essere razionalistico-scientiste ed insieme teologico-metafisiche. E così esse saltano a piè pari la Rivelazione o la stravolgono razionalisticamente.
Si può dire quindi che Malebranche e Leibniz anticipino la teologia filosofica non meno aberrante e pretenziosa di Hegel, e, dopo di lui, la logica aberrante ed astrusa all’estremo della più recente filosofia.
E questo si associa peraltro ad un radicale pessimismo verso l’uomo e la sua volontà e libertà, per questo ritenuto indegno per definizione dell’amore di Dio. Infatti il Peccato non sarebbe mai stato perdonato bensì sarebbe stato solo previsto da Dio ed unicamente per la Sua Gloria; cioè sarebbe stato perpetrato da un ente del tutto inconsistente e solo maligno (forse già da prima del Peccato).
Quindi quello di Malebranche è anche una specie di gnosticismo alla rovescia – che presuppone la malignità demoniaca dell’uomo creato di fronte a un Dio che è perfetto in tutti i sensi.

Ma veniamo ora all’analisi delle singole argomentazioni per mezzo delle quali si dipana il complessivo progetto portato avanti in TNG.
Anche Malebranche, come Leibniz, sviluppa la teoria di una molteplicità di mondi ipotetici dei quali solo uno è il migliore («migliore dei mondi possibili»), e quindi quello che ha il diritto di esistere. Che è poi quello in cui viviamo. Questa sarebbe stata insomma l’idea sviluppata da Dio nella scelta delle proprietà del mondo che si apprestava a creare. In particolare il nostro pensatore afferma che Dio avrebbe potuto fare anche un mondo più perfetto di quello in cui viviamo (senza alcuna carenza, come, ad esempio, nella differente quantità di pioggia che cade in vari luoghi), ma per questo avrebbe dovuto mutare la semplicità delle sue vie e pertanto moltiplicare notevolmente le leggi grazie alle quali il mondo sussiste [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Ma la conseguenza di questo (per il razionalismo di Malebranche paradossale) sarebbe stata che il mondo sarebbe stato complesso e perfetto quanto Dio, con la conseguenza ancora peggiore che gli uomini avrebbero poi adorato un mondo altrettanto complesso e perfetto. E non Dio. Ecco dunque la ragione ultima dell’assolutamente necessaria imperfezione del mondo – cioè la necessaria sproporzione in perfezione tra Dio e mondo. È per questo quindi che l’imperfezione del mondo attuale non elimina l’estrema semplicità delle leggi naturali, la quale (anche per mezzo dell’imperfezione stessa) rende il mondo degno della sapienza del suo Autore. In altre parole l’uomo deve venerare Dio per la sapienza della sua creazione (consistente in leggi semplici) sentendosi così a Lui inferiore in sapienza; e questo a costo di dover subire l’imperfezione del mondo, e quindi il male e dolore. Dunque l’idea principale del migliore dei mondi possibili resta sempre quella della semplicità e sufficienza (poche e non molte) delle leggi della comunicazione dei movimenti (che vige ad esempio pienamente in Fisica). La quale stabilisce poi la giusta (o sapiente) proporzione tra la qualità dell’azione di Dio e quella della Sua opera, ed inoltre stabilisce la giusta (o sapiente) proporzione esistente tra le indifferenti leggi naturali e il mondo in cui esiste l’uomo. Quest’ultima implica inevitabilmente il male, dato che (in forza delle antecedenti e perfette leggi semplicissime dell’intero Essere) deve necessariamente trascendere gli interessi di quella creatura umana che non è nulla e non conta nulla. Ma intanto rivela un Dio perfetto nella sua Sapienza ed inoltre rende il mondo degno di quest’ultima. Cosa che mai sarebbe avvenuta se invece il mondo fosse stato invece perfetto (e per questo anche complesso nelle sue leggi). Il criterio della perfezione è dunque per Malebranche la semplicità stessa delle leggi (in cui consiste la sapienza dell’autore), dato che essa sarebbe mancata in un mondo necessariamente complesso in quanto perfetto. Ma il prezzo da pagare per questo è l’assoluta indifferenza al male di queste leggi ed anche della Sapienza che le sorregge. Insomma, al di là dell’astrusità prepotente dell’argomentazione (tipica dei razionalisti convinti), siamo ad uno dei più cinici artifici per evitare l’affronto del tremendo tema del male. Inoltre Malebranche presuppone (malignamente) una certa cinica furbizia di Dio nel creare un mondo imperfetto quanto basta per poter venire adorato. E quindi il principio dominante nella creazione del mondo da parte di Dio sarebbe solo quello di venire adorato per la sua Sapienza.
Tutto questo significa dunque che (diversamente da Dostoevskij) Malebranche non affronta affatto coraggiosamente il tema del male, ma si limita a schivarlo barcamenandosi in esso nel modo meno autentico possibile. E peraltro lo fa ricorrendo al più rivoltante cinismo. Il che conferma poi in pieno l’accusa di Arnauld.
Malebranche sostiene comunque che il discorso è molto diverso se passiamo dalla Causa generale (sapienza infinita) e le cause particolari (intelligenze limitate) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XVIII-XX p. 80-82]. Queste ultime sono quelle leggi naturali “costanti ed immutabili”, oltre che universali – in virtù delle quali nel mondo tutto accade sempre allo stesso modo, e quindi sussiste un Ordine caratterizzato anche dalle sue carenze e disuguaglianze, cioè da una certa quota di difettività e male – che sono assolutamente inesorabili, e i cui effetti sono stati previsti infallibilmente da Dio. Ma, a causa della dominante reggenza delle superiori e semplicissime Leggi ancora più generali, le pur infime leggi naturali fanno marciare il mondo (almeno apparentemente) da solo e quindi senza alcun bisogno dell’intervento di Dio con volontà particolari. Proprio per questo gli effetti dell’azione delle leggi naturali (benefici o meno che siano) sono assolutamente prevedibili. Ne consegue che (secondo uno degli assiomi della metafisica razionalistica) il mondo è un meccanismo esatto che Dio mette in modo una volta per tutte perché produca tutti i suoi effetti. E secondo Malebranche per questo le leggi naturali servono a produrre tutto il bello che vediamo ed inoltre anche a porre rimedio ai sempre possibili mali.
Ancora una volta però prevalgono qui il cinismo e l’ipocrisia. Perché entro questo pur perfetto meccanismo c’è pienamente posto per il male in forza di un’indifferente (in quanto rigorosamente razionale) sorta giustizia distributiva della Natura. Si tratta dell’emergere in questo contesto di quell’antica e pagana idea del Fato che abbiamo già illustrato. Questo però a Malebranche non interessa affatto, dato che per lui l’elemento primario e di maggior valore è la perfezione razionale del Piano divino.
E questo viene puntualmente confermato più avanti laddove egli constata (con la più sconcertante disinvoltura) che Dio si disinteresserebbe totalmente dei mali circostanziali (ossia i meri effetti intermedi del Piano) per il bene finale al quale punta il suo progetto. Il valore primario e fondamentale è infatti per lui l’immutabilità dei propositi, che quindi non può deflettere di fronte all’insorgere di solo temporanee imperfezioni, le quali non inficiano affatto la bontà dei fini (come la distruzione di una vigna appena fatta crescere ad opera della grandine, e ciò in perfetta concordanza con le leggi della Natura).
Del resto tutto diviene chiaro se si tiene conto di quello che Malebranche dice subito dopo: − “La regola essenziale della volontà di Dio è l’ordine”. Il quale precede la Bontà e la Giustizia. Ciò che ha portato il male è stato infatti il disordine del Peccato, in forza del quale le leggi naturali (in sé buone) hanno reso l’uomo infelice e quindi pienamente passibile di punizione. In particolare la legge dell’ordine “vuole che il giusto non soffra nulla senza meritarlo” ed essa rientra nell’essenza di Dio. Emerge quindi da qui idea sostanzialmente giuridica che Malebranche ha di Dio e del mondo ideale sovrannaturale (Prima creazione) in quanto buono, cioè un mondo nel quale non esiste il male. In esso si vive felici solo finché non si trasgredisce, altrimenti ci si merita pienamente la punizione. Orbene infinite letture cristiane di questa realtà (e non solo cristiane) mostrano che non era affatto questo il senso della Prima creazione, e quindi della creazione di Adamo in quanto Uomo prototipico. Egli aveva infatti un immenso valore proprio in quanto paradigma ideale di tutto l’Essere, rivelando così un ruolo che era quello dell’Uomo prototipico ancora più originario, ossia il Logos cristico. Il quale era esso stesso null’altro che Uomo nell’accezione più metafisicamente integrale della parola. Ma oltre a ciò Malebranche ignora ancora una volta la Rivelazione cristiana dimenticando la fondamentale ed emblematica figura di Giobbe, ossia il giusto che soffre comunque il male. Il disordine causato dal peccato non si risolve quindi affatto nel suo aver generato un uomo cattivo per natura che deve quindi (almeno in via di principio) necessariamente venire punito. Il vero Dio infatti non guarda affatto all’uomo in questo modo. Altrimenti perfino nel Vecchio Testamento non avrebbe raffigurato la figura di un Giobbe. Dio certamente permette il male in forma di prova, ma con il proposito di venire prima o poi in soccorso dell’uomo dopo aver messo alla prova la sua fede. E questa sembra una prospettiva del tutto sconosciuta a Malebranche.
Pertanto la visione razionalistica di Malebranche ancora una volta semplifica e nasconde i misteri divini. E lo fa trasformando in senso meramente e piattamente giuridico la realtà del Peccato originale in relazione al mondo perfetto della Prima creazione. E questo ancora una volta mistifica ed occulta il tema del male, che invece è estremamente più complesso di quanto il razionalismo di Malebranche (ed altri) intenda farci credere.
Più o meno lo stesso accade in altre sedi di TNG [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, XXXVI, p. 91]. E di questo abbiamo già parlato illustrando l’idea secondo la quale il Peccato di Adamo sarebbe stato previsto da Dio unicamente per la sua Gloria. Anche questa idea, insomma, razionalizza il Peccato e la Caduta annacquando e banalizzando il grandissimo mistero che essi rappresentano. Abbiamo anche già parlato dell’idea secondo la quale il fine della creazione divina (nell’impeccabile previsione del Peccato stesso) sarebbe stata unicamente l’insorgenza di Gesù Cristo e della Chiesa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., II, I, VII p. 111-112]. Ed anche questa non è altro che una razionalizzazione naturalistica di una verità teologica e cioè di un mistero divino. Infatti qui la concessione della Grazia divina starebbe appena in sintonia con le Leggi divine generali dell’universo. Ed inoltre, ancora una volta, l’intera argomentazione di Malebranche a tale riguardo contiene lacune logiche riempite da lui del tutto arbitrariamente.
A tutto questo si aggiungono poi in TNG alcune altre considerazioni del pensatore sulla libertà, che vanno ad integrale quelle già da noi esposte commentando CC.
In generale egli svaluta la libertà umana affermando che noi uomini amiamo Dio unicamente in forza di una coercizione da Lui esercitata. E questo spiazza decisamente ogni nostro moto volontario, o scelta.
Malebranche dice infatti che il movimento dell’anima verso il bene è “invincibile” (in virtù della coercizione divina esercitata su di essa) [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, II p. 151]. Essa dunque non dipende affatto da noi, specie non dalla nostra volontà di essere felici terrenamente. Dunque
è solo Dio come Causa dominante che ci fa vedere con chiarezza la necessità di amare il vero bene. Quindi, anche quando interviene “la libera scelta della volontà” umana, data la coercizione di fondo, gli uomini possono amare solo Dio. Insomma Malebranche svuota totalmente di contenuto e valore il libero arbitrio e non pensa affatto che l’uomo, attraverso la libertà naturale (della quale è stato dotato da Dio stesso), possa davvero scegliere il bene. Ecco emergere insomma di nuovo una concezione del tutto pessimistica dell’uomo. Il risultato stesso della libertà umana è dunque totalmente predestinato da Dio. Quindi, diversamente dalla teodicea di Dostoevskij, la libertà umana non prevede affatto la tragica ma anche grandiosa scelta tra male e bene. E questo, si dica quel che si dica, non è altro che negazione della libertà.
Il che è confermato da ulteriori affermazioni del pensatore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, IX p. 157-158]. Egli sostiene infatti che l’Adamo non ancora decaduto era pienamente libero in quanto riconosceva in Dio l’unico bene ed anche la vera causa del suo piacere. Insomma egli era pienamente libero perché si conformava alla Ragione divina nella sua perfezione. Ne risulta che Dio è addirittura l’unico piacere al quale siamo attratti davvero invincibibilmente, e precisamente senza nemmeno l’esercizio della volontà. Il che rende quindi del tutto non interessante qualunque altro piacere. Malebranche ne conclude che “…la libertà più completa è quella degli spiriti che in qualsiasi momento possono vincere i piaceri più grandi, è quella degli spiriti nei confronti dei quali nessun movimento verso i beni particolari è invincibile”. E questa è solo la libertà antecedente al peccato. Invece “la libertà più imperfetta è quella di uno spirito rispetto al quale ogni movimento verso un bene particolare, per quanto piccolo esso appaia, risulti invincibile in qualsiasi sorta di circostanze”. Insomma anche qui viene totalmente mortificato il libero arbitrio come autentica e piena scelta, dato che la perfetta libertà è per Malebranche solo quella sostenuta da un determinismo coercitivo. E questa è un’idea francamente del tutto aberrante. Questa idea puramente coercitiva (del tutto assurda) della libertà si ritrova peraltro anche più avanti [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XVIII p. 166-167].
Laddove egli sostiene che la libertà è totalmente assente nell’uomo, per venire sostituita dalla coercizione verso Dio come Bene, ci si rende conto del fatto che la Luce del Riparatore (Cristo) agisce in noi stessi a differenza dei piaceri sensibili che invece esercitano una continua pressione su di noi dall’esterno. Quindi questa luce non tocca affatto la nostra anima (cioè i nostri sensi), nella quale l’istinto al piacere viene inseminato fatalmente dalla pressione esteriore.
Ne risulta una sorta di nostro agire autonomo (in quanto agenti in forza della sola sollecitazione interiore), che pertanto equivale all’agire guidati dalla sola Ragione, e consiste nel consentire all’impulso esercitato su di noi da Dio verso il Bene. Questa, egli dice, è una sorta di azione messa in atto senza sentimento e unicamente in nome del dovere. E Malebranche stesso dice che essa è pienamente libera solo perché, in quanto è astratta e intelligibile, è del tutto priva di gusto. Il che denuncia la totale assenza della pressione dell’istinto in questo moto dell’anima. È del tutto evidente che una siffatta libertà puramente asettica (in quanto razionale, astratta, intelligibile e perfino deterministica) non può essere affatto quella vera libertà che invece viene minacciata continuamente dall’oscuro (del tutto sensibile ed anche sporco) abisso del male ma intanto in questo abisso si libra e vola senza alcuna costrizione.
Inoltre ulteriori argomentazioni di Malebranche dimostrano che egli considera sì il libero arbitrio ma solo in quanto fortemente relativo [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, XI p. 159]. E comunque questo relativismo è ancora una volta vincolato al grado di ragione con il quale si opera la scelta. Infatti egli dice che è altrettanto lecito pensare che “secondo l’ordine originario della natura” tutti gli uomini siano egualmente liberi. Ma con ciò non si considera la corruzione esercitata dalla concupiscenza causata dal peccato. Anch’essa è infatti presente in tutti gli uomini, e quindi rende del tutto relativa la pienezza della libertà. Ecco insomma emergere di nuovo la visione totalmente pessimistica della natura umana.
Eppure Malebranche, nonostante tutto questo, non rinuncia a tentare di presentarci una libertà che rappresenta una scelta [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXIII-XXVI p. 169-172].
Egli sostiene infatti che, allo stesso modo in cui la concupiscenza non ha distrutto la libertà umana, anche la Grazia non è in verità per nulla invincibile per quanto efficace essa sia. Dunque “essa non occupa l’anima in modo tale da trascinarla verso il bene senza scelta…”, e quindi del tutto senza libertà e consenso. Proprio per questo meritiamo particolarmente quando le cediamo. Ecco che qui inizia a venire dato valore alla libertà come scelta. Ma comunque la Ragione e la conoscenza occupano ancora un ruolo critico in questo atto. Esse insomma continuano ad essere dominanti.
Susseguentemente viene infatti presupposto che l’amore davvero puro per Dio è retto dalla sola Ragione e non dalla benché minima traccia di piacere, il che significa, per Malebranche, che ciò avviene in piena libertà ossia appunto per scelta. Ma comunque per lui non c’è alcuna libertà senza il perfetto conformarsi alla Ragione. E quindi nuovamente – anche se viene postulato l’atto della scelta come sua radice – la libertà appare essere solo relativa all’esercizio della pura Ragione. Il culmine di questa dottrina della scelta si ha quando Malebranche vede in Cristo il suo paradigma. Il massimo di questa capacità, egli dice infatti, si ha in Gesù Cristo (in quanto essere “impeccabile”). E ciò perché Egli “amava il Padre suo non per istinto del piacere ma per scelta e ragione, l’amava perché vedeva con la sua superiore intuizione quanto era degno d’amore”. Infatti ”la libertà più perfetta è quella di uno spirito che ha tutta la luce possibile e che non è determinato da nessun piacere, perché ogni piacere preveniente o di altra natura produce naturalmente qualche amore e, se non si resiste al piacere, quest’amore determina efficacemente il movimento naturale dell’anima verso l’oggetto che ci è gradito”.
Dunque la piena libertà per Malebranche non espone affatto alla scelta straziante tra bene e male (come soggezione alla necessità, inclusa quella del piacere), ma è invece una piena e purissima razionalità che procede verso il Dio-bene senza alcun condizionamento (nemmeno quello della costrizione esercitata dall’istinto stesso che reca a Dio). È una sorta di facoltà conoscitivo-razionale sovrannaturale ossia puramente spirituale. Non a caso essa non avviene sulla terra ma solo nel cielo (infatti è solo di Adamo e di Gesù Cristo). Essa insomma ignora totalmente il male. Quindi è scelta solo nella misura in cui è applicazione del determinismo della Ragione: − è scelta solo in quanto ragione. Non vi è alcun dubbio circa il fatto che qui la scelta viene di certo presupposta, ma senza alcuna convinzione e senza alcun rispetto per la sua effettiva realtà. Realtà che come dice Dostoevskij (Berdjaev) è inevitabilmente tragica, e perfino dionisiaca. Altro che puramente razionale dunque. Infatti di questa scelta non si può in alcun modo prevedere il risultato. Che quindi può essere anche il male più devastante.
E questo viene confermato dall’idea che per Malebranche la scelta del male non è affatto positiva, ma invece solo negativa [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, II, XXXI p. 176]. Infatti, dice il nostro pensatore, quando due oggetti si presentano in un uomo ed egli sceglie (ossia “si determina rispetto ad essi”), non manca mai di farlo dal lato in cui trova più ragione e piacere ed in cui si trova più bene. Infatti l’anima vuole ed ama unicamente per amore del bene, e quindi la sua volontà è solo movimento verso di esso. Ma la scelta viene a mancare quando a prevalere è il piacere sensibile che turba lo spirito. Qui infatti semplicemente si sospende il proprio giudizio, rinunciando così all’esercizio della ragione.
Ed in questo modo non ci si determina, cioè non si sceglie verso i falsi beni. Perché l’anima non può non conoscere i falsi beni, e quindi l’andare verso di essi è solo sospensione di conoscenza.
Ecco allora che l’eventuale scelta del male (quale bene sensibile) – che intanto una corretta dottrina della scelta non può affatto escludere − non è affatto positiva (com’è l’esercizio della volontà in un determinato senso) ma è invece solo negativa, cioè è di fatto sospensione di conoscenza. Laddove invece la pienezza di conoscenza condiziona sempre la scelta, altrimenti essa da sola non sarà mai capace di esercitare la sua funzione.
Insomma nulla come questa argomentazione poteva confermare che la dottrina della scelta di Malebranche (sebbene espressamente invocata) è in verità totalmente deficitaria e fallimentare. E ciò conferma che egli non ha in effetti alcuna intenzione di affermare un concetto di libertà colto davvero nella sua pienezza.

Il concetto di metafisica di Malebranche (sezione 3).
Ancora una volta esamineremo a questo scopo le tre opere PM, CC e TNG.
Tuttavia non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, dato che finora è divenuto più volte chiarissimo cosa Malebranche intenda per metafisica. Almeno secondo il nostro giudizio, essa è chiaramente una solo falsa metafisica proprio perché è integralmente razionalista e non è nemmeno affatto religiosa (anzi addirittura cristiana) come pretende di essere. E per quanto ci riguarda una metafisica non è tale se non concepisce come sommo Principio l’entità trascendente che più radicalmente sta oltre il sensibile – che esso sia un Dio personale o anche un puro Uno dalla valenza divina. Proprio in questo senso fu religiosa la metafisica più trascendentista che vi sia mai stata, cioè quella di Platone, ed inoltre la metafisica più immanentista che vi sia mai stata, cioè quella di Aristotele.
Ma quella di Malebranche è semmai (un po’ come anche quella di Suárez e di Leibniz) una metafisica in primo luogo gnoseologista, dato che pone come sommo principio la perfettissima Ragione universale quale radice di tutte le Leggi dell’essere e del conoscere. Il suo Dio quindi è al massimo una entità supremamente logico-matematica. E quindi non è né il Dio del Vecchio Testamento né quello del Nuovo, né nemmeno lo stesso Allah o qualunque divinità personale. È insomma lo stesso identico Dio di Cartesio, ossia il sommo garante di tutte le certezze conoscitive.
Certo non vi è dubbio che l’occasionalismo di Malebranche è stato ed è considerato una teoria metafisica del Governo del mondo e della Natura [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review) Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263]. Ma intanto, commentando le varie sue opere abbiamo visto che anche che ciò ha molto più di scientifico che non di religioso. Essa insomma concerne molto meno la “giustificazione degli esseri” (Rome) e molto invece più le Leggi che regolano il funzionamento ordinario dell’universo. E quindi anche per questo quella di Malebranche non è una vera metafisica – dato che essa non è una vera ontologia. Non a caso le teorie della creazione che essa espone sono più le teorie di un Fisico che non di un metafisico. Ma abbiamo anche visto che la dottrina metafisica di Malebranche dovrebbe essere anche come paradigma di una “teologia filosofica” [Andrew G. Black, “Malebranche’s Theodicy”, Journal of the History of Philosophy, 35 (1) 1997, 27-44 (Review)]. Se non fosse che abbiamo constatato che essa di Teologia non contiene davvero nulla, se non appena degli astrusi surrogati di questa disciplina. L’unico interprete critico che sembra avvicinarsi alla corretta interpretazione della natura della disciplina coltivata da Malebranche è Walton, il quale dice appunto che si tratta di null’altro se non di un’epistemologia metafisica [Craig Walton, “Malebranche’s Ontology” Journal of the History of Philosophy, 7 (2) 1969, 143-161].
In ogni caso i libri di Malebranche contengono idee di tipo metafisico e quindi vale la pena di esaminarle.
Sono presenti infatti i concetti di sostanza, di spirito, di anima, di corpo, di causa etc.
Ora di concetti di anima e corpo parleremo a proposito della teoria della conoscenza e percezione. Del concetto di causa invece abbiamo parlato finora abbondantemente. E quindi non ci resta che parlare degli altri concetti.
Iniziamo quindi da quello di sostanza. Che forse è il solo concetto nel quale Malebranche pensa in maniera davvero autenticamente metafisica. Sostanza è per lui senz’altro Dio stesso [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 179-187, p. 60-66]. Ne abbiamo del resto già parlato a proposito della definizione di idea di Dio come la realtà in cui noi come creature sussistiamo. Con ciò emerge la sua ubiquità e quindi la sua natura davvero primaria di “estensione” infinita. Ed entrambe vengono spiegate a causa della non-corporeità di Dio che lo rende un’entità assolutamente a-locale.
Pertanto la sostanza (in quanto incorporea ed a-locale) resta intera nonostante sia tendenzialmente divisa per il fatto di trovarsi dappertutto, ossia essere ubiquitaria. Ma proprio per questo essa è ciò in cui tutto si trova ed esiste – come avviene appunato «in Dio». Ma proprio questo costituisce quell’estensione infinita (ossia l’immensità divina) che sta all’estensione spaziale ordinaria (locale e finita) come il tempo sta all’eternità. Ne consegue, secondo Malebranche, che i corpi sono estesi solo nella misura in cui lo sono entro l’immensità di Dio. Esattamente così come tutti i tempi si succedono solo nella misura in cui lo fanno nell’eternità di Dio. E proprio per questo, così come Dio è immensamente esteso, esso non conosce scansioni del tempo (passato, presente e futuro) e quindi “non è stato, non sarà”. Ma invece semplicemente “è”. È comunque a causa dell’infinita capacità di contenimento di tale immensità divina che “il mondo è in Lui” nel mentre Egli è dappertutto. Va però anche detto che Malebranche si oppone radicalmente all’onto- metafisica tradizionale nel criticare severamente il concetto di sostanza aristotelico, il quale assomiglia molto più ad una oggettualità sensibile che non invece ad un’entità radicalmente intelligibile [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 420-421, 425-426, p. 99-102, IV, 29-31 p. 102-103 IV, 313 p. 103, III, 318-319 p. 103-104]. E questo, nel mentre lo approssima all’onto-metafisica platonica, nuovamente sottolinea che la sua metafisica tende molto più a raffigurare un supremo Principio regolativo di tipo razionale-matematico che non un vero e proprio Dio.
Tale carattere è infatti perfino quello dell’ubiquitaria sostanza divina. Peraltro deve essere proprio a causa di questa sua fondamentale aspirazione scientista (in principio molto poco autenticamente metafisica) che egli attribuisce ai libri di Aristotele errori ed oscurità a josa, negando così alle sue dottrina qualunque autorità. E la responsabilità di questi errori (concernenti per lui molto direttamente il concetto di sostanza) sarebbero dovuti all’uso scorretto della logica puramente astratta come mezzo per rendere reali delle entità invece assolutamente immaginarie, e quindi del tutto assenti nella Fisica. Si presenta insomma in questo la quota di empirismo che poi avrebbe retto il pensiero di Kant e che portò proprio ad un’abolizione definitiva della metafisica. Pertanto è plausibile che il pensiero razionalista del XVII secolo (Malebranche, Leibniz, Spinoza) abbia definito sé stesso come «metafisica» ma non lo sia mai stato e probabilmente nemmeno aveva voluto mai esserlo. Si ha insomma l’impressione che in quel periodo si sia usato il termine «metafisica» senza assolutamente voler intendere con esso davvero una metafisica ,ma semmai una scienza naturalistica che ancora usava un linguaggio matematico.
In ogni caso il difetto fondamentale della sostanza aristotelica sarebbe il suo voler essere non estensione infinita ma invece semmai “essenza”. Il che per Malebranche non è altro che il frutto di un’operazione di pensiero entro la quale si tolgono alla materia tutti i suoi reali attributi per lasciare in piedi solo il più irreale di tutti, e cioè appunto l’essenza. Ne scaturisce così un “qualche cosa” (aggiunto artificiosamente all’estensione) che non possiede più alcun attributo e pertanto non è affatto conoscibile. E quindi non ha alcun diritto di costituire l’intelligibilità della cosa nella sua massima formulazione. Insomma, egli dice, in tal modo svanisce ogni “idea intelligibile” della cosa.
In altre parole nuovamente qui si affaccia in anticipo il criticismo di Kant, dato che non stiamo parlando di altro se non dell’«in sè» in quanto assolutamente inconoscibile. Ma, oltre a ciò, nuovamente in questa sede (nonostante la chiara invocazione di Platone nell’intelligibilità della cosa in quanto idea) sta parlando molto più il fisico che non il metafisico. La sostanza di cui egli parla è infatti estensione e non essenza, ovvero è la dimensione reale del mondo, sebbene colto per mezzo di un pensiero e linguaggio metafisico. Non è invece affatto la forma astratta che precede questa realtà e la trascende. E quindi si sta parlando di qualcosa di realmente esperibile, sebbene soltanto entro le speculazioni di fisici e matematici, che astraggono dal mondo della mera esperienza sensibile per indurre da essi un mondo di oggetti intelligibili. Vedremo poi che la teoria della conoscenza di Malebranche si incentra proprio su questa dottrina.
Prova di ciò è del resto la sua assimilazione totale di metafisica, matematiche pure e tutte le scienze universali in quanto riflessioni su oggetti che sembrano chimerici ma sono reali proprio in quanto puramente intelligibili [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 177-181, p. 53-55]. Per la precisione esse sono il frutto dell’
attaccarsi dello spirito umano ad un Dio che è il più puro e perfetto possibile tra gli enti. E questa non è altro la visione del mondo intelligibile, tuttavia colto nella sua concretezza scientifica. Peraltro egli precisa che proprio così si delinea la differenza esistente tra “fede”o Evangelo, e “filosofia”. Laddove della prima sono capaci gli uomini “più grossolani” (i quali vedono in Dio solo il creatore) mentre gli altri lo conoscono nella conoscenza delle verità pure. Insomma la ragione non lo considera affatto per le sue opere bensì invece per la sua essenza, cioè “in sé stesso ossia per questa grande e vasta idea di essere infinitamente perfetto che egli racchiude”. In altre parole constatiamo di nuovo qui che la sua para-metafisica, che è anche pretenziosamente religiosa, non è in verità altro che la suprema scienza dell’intelligibile, e quindi molto più fisica matematica che non autentica metafisica. Del resto qui la fede viene decisamente disprezzata al cospetto della ragione, ossia la filosofia come scienza fisico-matematica.
Pertanto appare evidentissimo che tra i suoi intenti non vi fu affatto quello di riconciliare Fede e Ragione, ma semmai quello di affermare il riassorbimento totale della prima nella seconda.
Ma veniamo ora alle possibili definizioni di metafisica presenti nelle altre due sue opere, CC e TNG. In CC vi è davvero poco rispetto a questo, se non la costatazione che in quest’opera Malebranche intende fondare una fisica totalmente retta dalla Ragione e Volontà divina. Questa è probabilmente la risposta intenzionalmente metafisici-religiosa alla puramente empiristica scienza della Natura di stampo galileiano e baconiano. L’elemento decisivo è qui in particolare quello di una Causa unica e suprema che sarebbe divina. Quindi il ragionamento condotto dal pensatore appare davvero bizzarro. Eppure – almeno per quello che lui dice − non lo è se si tengono presenti i dubbi che le cause relative causano nella fisica classica.
Più di questo dal libro non è deducibile se non alcune osservazioni nelle quali Malebranche rivendica la conoscenza dei fini (o cause finali) alla religione e non alla fisica [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., DIALOGO III, p. 44-67]. E con ciò egli intende il conformarsi alla volontà divina per mezzo dei “precetti” da Lui per sempre statuiti. Tuttavia ventila che questi fatti puramente etico-religioso potrebbe comunque collimare con i principi della stessa fisica, e precisamente nella forma della postulazione dei supremi principi della comunicazione del movimento. Principi che certamente la fisica considera indubitabili secondo l’esperienza, ma che comunque nulla vieta che restino vigenti solo finché non interverrà la Resurrezione.
In altre parole Malebranche qui esprime lui stesso un certo dubbio circa il fatto che la sua metafisica religiosa abbia davvero anche una valenza pienamente scientifica, e cioè fisica.
In TNG non abbiamo comunque trovato alcun riferimento alla definizione di metafisica da parte di Malebranche.

La teoria della percezione e della conoscenza. L’idealismo relativo di Malebranche (sezione 4).
Qui partiremo prima dalla teoria della percezione (che è più basilare) per poi passare solo dopo alla trattazione della teoria della conoscenza. Tuttavia i due temi sono spesso strettamente intrecciati per cui molto spesso sarà impossibile separarli.
Questo è comunque uno degli elementi dei quali gli interpreti critici moderni si sono maggiormente occupati nello studiare il pensatore. Non a caso se ne occupa molto direttamente Steven Nadler il cui libro viene presentato in recensione da Jolley [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. In questo libro però si trova poco più di quanto si possa rilevare leggendo le opere di Malebranche che abbiamo studiato. Si viene a sapere che le idee di Malebranche sono rappresentazioni e concetti logici e non invece immagini degli oggetti. Si constata che la teoria della percezione del pensatore è completamente diversa da quella ordinaria della psicologia (e quindi anche da quella dell’empirismo) in quanto per lui le idee sono costitutive della percezione senza però essere esse stesse oggetto di percezione.
E pertanto in alcun modo esse vanno considerate (come pensano invece gli empiristi) il prodotto della percezione stessa. Infine per Nadler andrebbe considerato che per il pensatore il termine “percezione” viene inteso in modo equivoco in quanto si tratta tanto di percezione di idee quanto di percezione di oggetti o corpi materiali (ossia la classica e ordinaria percezione). Ma intanto egli intende la percezione delle idee in termini puramente intellettuali (ossia come puramente interiore conoscenza delle cose), con la conseguenza che la percezione dei corpi materiali sarebbe in tal modo solo inferenziale
Tutto questo però, come abbiamo già detto, può venire dedotto anche dalla lettura dirette delle opere di Malebranche che abbiamo menzionato, sebbene tra esse manchi la fondamentale opera “La recherche de la verité”. Quello che però sembra sfuggire a Nadler è che la teoria della percezione di Malebranche (conoscenza delle cose per mezzo delle solo interiori idee delle cose) è e vuole essere sostanzialmente (almeno in un certo senso ed in una certa misura) metafisica, ossia vuole affermare che il vero mondo è quello intelligibile. E quest’ultimo è per lui null’altro se non il mondo della cui conoscenza noi siamo capaci solo contemplando le idee di cose che sono presenti in Dio come Ragione universale.
Dunque, almeno in questo senso, Malebranche esprime un’intenzione autenticamente metafisica ed anche metafisico-religiosa. Ma aspetti come questi non interessano agli studiosi moderni, i quali cercano nella filosofia solo teorie puramente epistemologiche. E così accade anche per il nostro pensatore.

Ma vediamo cosa si può scoprire dalla lettura delle sue opere e cominciamo da PM.
Bisogna premettere però che i contenuti dedicati dal pensatore a questo tema sono troppo abbondanti per poter venire riportati integralmente in questa recensione. Perciò ci limiteremo ad illustrarne gli elementi più rilevanti rinviando il lettore al libro per gli eventuali approfondimenti; oltre che alle opere critiche scritte su Malebranche, come quelle che abbiamo menzionato nell’introduzione e ricordato poc’anzi.
In questo libro emerge immediatamente il legame che il pensatore stabilisce tra la percezione e l’anima, e quindi si delineano da subito i due temi congiunti della relazione anima-corpo e del possibile ruolo conoscente dell’anima. Che però vedremo negato a più riprese da Malebranche. Come vedremo dopo, infatti, l’anima è per lui l’organo stesso della percezione.
Innanzitutto il nucleo della sua teoria della percezione consiste nella convinzione che la conoscenza è unicamente interiore (per mezzo delle idee delle cose) dato che il mondo fuori di noi è appena un’illusione
[Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 57-58, p. 25-26, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35]. Ciò significa che noi in verità percepiamo i corpi esteriori unicamente nella nostra interiorità, e che quindi alcuno stimolo esteriore agisce sugli organi percettivi affinché si formi in noi l’immagine di un corpo. Ciò che conta è insomma unicamente l’oggetto mentale o ideale.
In termini fenomenologici si tratta dell’«oggetto di coscienza». E quindi in qualche modo la teoria conoscitiva di Malebranche sembra anticipare le idee di Husserl. Cosa della quale però parleremo solo più avanti.
Insomma il concetto principale del pensatore è che è solo entro lo spirito (rappresentato funzionalmente dall’anima) che avviene la percezione (e quindi poi anche la conoscenza). Non invece nel mondo esteriore.
Infatti egli sostiene che gli oggetti esteriori sono del tutto invisibili allo spirito (data la differenza invalicabile di sostanza che li divide) e quindi non hanno alcuna reale possibilità di agire dall’esterno su di esso – come invece si crede che accada (per mezzo degli organi percettivi) entro l’ordinaria teoria della percezione.
Ne risulta che noi percepiamo gli oggetti unicamente “in mente” (nel contemplare le relative idee) nel mentre però ci illudiamo di vederli esteriormente. Dunque il mondo esteriore non è quello che vediamo davvero, ma appena quello che crediamo di vedere. Ecco che allora, secondo Malebranche, per “idea” va inteso “l’oggetto immediato, o il più prossimo dello spirito quando esso percepisce qualche oggetto”. In altre parole l’idea di cosa è la cosa stessa.
Ma per essere più precisi si tratta della cosa della quale noi cogliamo (interiormente) per davvero tutti gli aspetti ossia la reale unità; cosa che Malebranche intende più come “bellezza” che non come verità – il mondo intelligibile è pertanto un modo di bellezze. Quello che esiste fuori di noi è invece pura e caotica materia informe, quindi soltanto bruttezza. Quindi non vi è esteriormente alcun oggetto nella sua unità.
I veri e pieni oggetti sono quindi solo “in mente”. Ecco che il circolo che noi cogliamo esteriormente (ossia quello meramente fisico) non sarà mai così perfetto come quello che noi cogliamo interiormente (ossia quello intelligibile). Ed è evidente che qui Malebranche si riferisce alla conoscenza dei puri oggetti matematici come quella davvero paradigmatica.
Tutto questo però comporta una completa disconnessione tra l’anima (nella quale avviene la percezione) ed il corpo a sua volta contiguo al mondo esteriore. In termini percettivi ciò significa che l’anima non prende contatto né con l’uno né con l’altro. E quindi è solo un’illusione quella di andare a passeggio (grazie all’anima) per il mondo esteriore cogliendo gli oggetti di cui esso è disseminato. Malebranche esprime questo con la seguente affermazione: − “Non vi è relazione necessaria tra le due sostanze di cui siamo composti”. E questa è chiaramente un’affermazione cartesiana.
E con ciò egli afferma, proprio come Cartesio, che non vi è alcuna unità anima-corpo, né alcun effetto dell’uno sull’altro. Egli ammette solo la simultaneità (voluta da Dio) della presenza di alcuni sentimenti nell’anima con alcuni movimenti verificantisi nel cervello; ma ciò solo in virtù dell’azione di quella Causa suprema divina che vuole esattamente questo. Va però notato che, se per Cartesio, è l’anima a non agire sul corpo, per Malebranche è il corpo a non agire né sull’anima né sullo spirito. Laddove invece lo spirito agisce sempre sia sul corpo che sull’anima. Quindi la sua dottrina sembra paradigmatica di quella della formazione spirituale del corpo e del mondo.
Il pensatore però ammette che vi siano comunque dei presupposti corporei per la percezione, dato che il vedere le cose dipende al verificarsi di movimenti del cervello, ed a questi movimenti le idee sono congiunte. Tuttavia anche qui interviene l’illusione che si tratti di percezione sensoriale ossia esteriore. In altre parole la conoscenza intelligibile abolisce totalmente la percezione.
La realtà più generale di questa teoria resta comunque quella più metafisica. E cioè che la conoscenza avviene nella Ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”.
Questo è da considerare il nucleo della teoria della percezione di Malebranche. Il discorso continua poi investendo altri aspetti di esso ma potremo limitarci a trattarne solo di una parte.
Veramente decisivo appare essere il concetto di “rivelazione” che il pensatore impiega quando passa dai fondamenti della teoria della percezione a quello della certezza circa l’esistenza dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. E questo rinsalda la teoria della percezione a quella della primaria ed assoluta Causalità divina che agisce in ogni circostanza ed in ogni fenomeno. Malebranche sostiene infatti che è del tutto ovvio che noi sentiamo il nostro corpo, e quindi siamo certi della sua esistenza. Il che costituisce poi una certa imbarazzante prova dell’esistenza del mondo esteriore. Ma quest’ultima viene inficiata dal fatto che noi abbiamo bisogno costantemente di un’esperienza interiore del nostro corpo e cioè di quella “rivelazione” di esso che otteniamo quando avvertiamo ad esempio il dolore per una puntura. Cosa per mezzo della quale abbiamo anche una rivelazione dell’esistenza del mondo esteriore.
Tuttavia è qui che interviene infallibilmente la suprema Causalità divina. Perché la catena di eventi non è affatto autonoma e casuale come sembra. E questo sempre a causa della disconnessione tra mondo-corpo ed anima della quale Malebranche è convinto. La verità è infatti secondo lui che è solo Dio a provocare nell’anima i sentimenti (non è invece affatto la percezione come evento esteriore passante per il corpo) in relazione ai mutamenti del corpo. I quali avvengono poi in forza dell’unione del corpo all’anima che sussiste non su base meramente naturale ma invece solo in obbedienza alle superiori Leggi generali dell’Essere.
Il dolore, dunque, non ci perviene per la via del buco che l’agente pungente causa nel corpo, né l’anima produce da sola questo sentimento. È invece Dio a farlo per mezzo del “sentimento con cui egli ci colpisce”, che è poi il modo in cui egli ci rivela cosa accade fuori di noi (ossia fuori della nostra anima), e cioè nel nostro corpo e nei corpi che ci circondano, ovvero gli oggetti esteriori.
E tutto ciò sta in relazione con la sua idea negativa della volontà umana, dato che essa è direttamente condotta da quella espressa dalla suprema Ragione divina. Egli sostiene infatti che il volere umano al massimo riesce a far insorgere idee nella mente, cioè nell’anima [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 328-329, p. 44-45]. Essa è invece incapace di muovere qualunque corpo, e quindi perfino di muovere un braccio e perfino un dito. Quanto poi agli eventi esterni, essi non sono altro che l’occasione (“causa occasionale”) perché perfino in questo si manifesti l’azione della Causa universale. È dunque solo Dio a muovere tutto
Intanto Malebranche nega molto direttamente l’unione anima-corpo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 148-148, p. 45-47]. Egli dice infatti che questa idea è solo ingenua dato che la parola “unione” a proposito dei corpi non significa assolutamente nulla (non significa in particolare che vi sia una vera unione tra parti). Quindi si può parlare semmai di azioni reciproche esistenti tra i corpi, ma non di un’unione tra loro come accade alle parti. E lo stesso accade per il corpo e l’anima in quanto sostanza radicalmente diverse.
Ne consegue che in qualche modo Malebranche ammette una qualche unione anima-corpo
Egli postula l’unione anima-corpo (sebbene la neghi in termini strettamente argomentativi) ma nel senso che il corpo agisca sull’anima. Quindi, come abbiamo detto, dissocia la loro esistenza in un dualismo simile a quello cartesiano. Ma la sua dissociazione dell’anima dal corpo non ha un senso negativo (nel senso materialista di negazione del corpo animato o di negazione dell’anima) bensì invece positivo. Perché egli non solo afferma l’esistenza dell’anima (e perfino le attribuisce funzioni di mente) ma inoltre annovera l’anima a Dio, cioè allo spirito. Ed ecco dunque un chiaro concetto di anima spirituale, che nel XX secolo è stato espresso in filosofia ad esempio da Edith Stein, e solo parzialmente in linea con la Fenomenologia husserliana (dato che ella tese a ridurre l’anima allo Spirito inteso specificamente come “Pneuma”) [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9, 8 p. 385-387; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima”, Prospettiva Persona, 95-96 (2016). 92-95]. La Fenomenologia steiniana ci ha offerto un concetto simile ma nel concepire un’unione molto stretta tra anima e corpo ed anche nel postulare l’azione decisa della prima sul secondo. In ogni caso, comunque, Malebranche, ponendo chiaramente il dualismo anima-corpo, e considerando l’anima non estensione (“res cogitans”), la rende lontana dal conoscibile che è solo ciò di cui possediamo l’archetipo, ossia tutto ciò che è esteso (sensibilmente ed intelligibilmente).
Qui di fatto considera impossibile qualunque l’auto-conoscenza. Dunque per lui il Sé non è affatto un oggetto di conoscenza. Infatti, come egli dice, intuisco al massimo “chi sono” (“sum”) ma non “ciò che sono”. Pertanto, essendo unito intimamente a me stesso (al mio interiore), io non posso essere oggetto per me stesso. Inizia dunque forse proprio con Malebranche la tradizione della negazione filosofica dell’auto-conoscenza. E questo è senz’altro un aspetto molto importante della sua epistemologia.
In ogni caso il punto cruciale di tutto è un culto della Ragione di tale entità che è capace di portare addirittura all’estasi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 163-168, p. 47-53]. Infatti è proprio ad un’estasi che perviene Aristo dopo essersi convinto delle argomentazioni di Teodoro e Teotimo. Le quali riguardavano l’azione ubiquitaria e dominante della Causalità divino-razionale suprema – essendo la sola a causare perfino l’unione di anima e corpo, in obbedienza alle sole Leggi della comunicazione del movimento ed in concorrenza con la mera causalità naturale −, e far sì, quindi, che l’anima umana sia unita unicamente alla Ragione universale, così da essere capace di conoscere esclusivamente nel contemplare interiormente una varietà di bellezze intelligibili.
La nostra anima, dice infatti Teotimo, non è unita al corpo “secondo idee volgari” ma è unita “immediatamente e direttamente a Dio solo”. È solo per questo che siamo presenti (cioè siamo tutti esistenti), convinti della stessa verità e “di uno spirito medesimo”. Dio ci congiunge per mezzo del corpo “in conseguenza delle leggi dell’unione dell’anima e del corpo”. Leggi che sono supremamente trascendenti ed universali. Ma, egli aggiunge, siamo ancora più congiunti per mezzo dell’anima.
È in essa infatti che si verifica la conoscenza del mondo attraverso l’intelligibile mondo delle idee.
L’anima è dunque la mente immanente e particolare che è intimamente unita in ogni momento alla Mente universale. Infatti è in essa che Dio trasforma i suoni in parole in modo che poi (per mezzo delle idee) ne cogliamo anche il senso. È che siamo uniti alla Ragione universale che illumina le intelligenze, aggiunge Aristo. Infatti anche lui si è ormai convinto del fatto che non c’è nulla di visibile che possa agire sull’anima “se non la sostanza efficace e intelligibile della ragione”.
In questo si riassumono i tratti fondamentali della teoria della percezione ed anche della teoria della conoscenza; entro un’impostazione radicalmente razionalista sia della conoscenza stessa che della realtà mondana. Tutto risale alla sola Ragione universale e tutto è soltanto da essa causato e giustificato – tanto quanto avviene interiormente, quanto avviene esteriormente, quanto infine avviene entro la relazione tra interiore ed esteriore (ossia nell’atto stesso di percezione e conoscenza del mondo). Non c’è dubbio però che (pur con tutte le sue insufficienze e contraddizioni) questa sia una teoria razionalistico-mistica della conoscenza stessa.

Ma veniamo ora a porre l’accento più decisamente sulla teoria della conoscenza per mezzo dell’affronto del classico tema della relazione esistente tra interiore (o mente o soggetto), e mondo esistente fuori di noi nel quale si presume che esistano oggetti, che quindi dovrebbe essere l’oggetto della conoscenza. E si presume anche che questi oggetti esistano del tutto indipendentemente dalla nostra esistenza oltre al fatto di esercitare sugli organi sensori gli stimoli che permettono prima di percepirli e poi di conoscerli.
Questa è per così dire la teoria più intuitiva della conoscenza (come rapporto tra soggetto ed oggetto) ed essa è decisamente realista, sebbene un po’ in tutta la filosofia è stata considerata come «ingenua» e cioè non filosofica. I segni di questa accusa si avvertono anche in Malebranche, sebbene egli non usi mai il termine «ingenuità». E quindi la sua complessiva visione filosofica può ben venire considerata idealista.
Sebbene Nadler, uno dei suoi interpreti la definisca come realista, aggiungendo che anche tutti i cartesiani lo sarebbero [Nicholas Jolley, Malebranche and Ideas (review), Journal of the History of Philosophy, 32 (3) 1994, 497-498]. Egli ammette però che probabilmente Malebranche non può realmente venire coinvolto nella disputa idealismo / realismo. E tra poco vedremo che ciò ha le sue ragioni nel sostenere questo. Più avanti però chiariremo definitivamente tale questione.
In ogni caso sembra decisamente idealista una dottrina entro la quale si postula che tutto ciò che sembra avvenire nel mondo avviene invece solo nello Spirito.
Abbiamo già visto come il pensatore affronti il tema della certezza che possiamo avere dei corpi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 127-136, p. 35-38]. Ed abbiamo visto che egli la risolve ponendo una sorta di “rivelazione” dei corpi esteriori che si manifestano a noi grazie alla Causalità divina. In ogni caso nel dialogo i diversi interlocutori stessi ammettono che comunque resta il dubbio circa l’esistenza dei corpi esteriori. E Teodoro è costretto, per risolverla, a ricorrere addirittura alla credenza religiosa, affermando che la è Rivelazione a rassicurarci su questa esistenza parlando di un mondo creato. E quindi essa va considerata assolutamente ovvia. Tuttavia ciò avviene al di fuori di qualunque teoria della conoscenza. Perché, allorquando ci spostiamo sul piano di quest’ultima, dobbiamo riaffermare che però i corpi che “non sono visibili per sé stessi” né possono agire sul nostro spirito. Quindi il nostro spirito può conoscerli solo nelle idee “che li rappresentano” oppure per mezzo dei sentimenti dovuti all’unione dell’anima al corpo.
Ci troviamo quindi nuovamente nel contesto di una teoria chiaramente idealistica. Sebbene in essa manchi completamente qualunque effettiva relazione tra soggetto ed oggetto. La conoscenza avviene infatti unicamente in sede interiore, e cioè di fatto servendosi unicamente delle idee delle cose. Si tratta quindi di un idealismo solo relativo. Proprio per questo si può dire che Malebranche concepisce la conoscenza come ascesa teoretica verso l’intelligibile, nella misura in cui essa si distacca dall’illusione della percezione e del mondo fuori di noi. Questa sorta di ascesa teoretica può venire concepita sulla base delle riflessioni che seguono [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. Malebranche parte dalla costatazione che Dio vede in sé stesso l’estensione intelligibile, ossia “l’archetipo della materia di cui il mondo è formato e dove abitano i nostri corpi”. Intanto le nostre anime abitano in questa ragione universale, ossia “nella sostanza intelligibile che contiene tutte le idee di tutte le verità che noi scopriamo”. Ed (su un livello più basso, ossia mentale-funzionale) accade che la nostra mente è connessa con questa ragione a causa delle leggi dell’unione dell’anima con il corpo. In virtù di tutto ciò l’oggetto matematico lo percepiamo in tre modi: lo concepiamo, lo immaginiamo, lo sentiamo e lo vediamo.
Al livello massimo della conoscenza, però, si delineano oggetti puramente spirituali come l’“estensione intelligibile”, la quale si applica al nostro spirito allo spirito con confini indeterminati ma comunque distanti da un punto determinato e tutti in un medesimo piano. È questo che determina la nostra concezione del circolo come intelligibile. Che poi per Malebranche è il circolo più reale. Quando invece noi lo immaginiamo, questa immutata estensione (distante da un punto) “tocca leggermente” il nostro spirito. Quanto lo sentiamo e lo vediamo esso tocca poi la nostra anima.
Eccoci dunque di fronte alla funzione conoscente dell’anima che per Malebranche è indubbiamente tra le più basse forme di conoscenza. Ed essa non a caso è luogo di percezione. Dunque la percezione è la forma più bassa della conoscenza, che è invece massima nella conoscenza spirituale.
Intanto c’è da constatare che (per mezzo della conoscenza intelligibile) Dio ci può permettere di “rappresentarci tutti gli esseri materiali” semplicemente a causa della relazione tra estensione e spirito; che è del tutto indipendentemente dalla percezione.
Ecco dunque la contemplazione delle bellezze intelligibili. Ed ecco dunque anche il culmine della teoria della conoscenza di Malebranche, che in verità si verifica solo in alto e non in basso. Quindi essa è del tutto disconnessa dalla percezione. Il che conferma che egli non considera affatto la conoscenza come relazione reale tra soggetto ed oggetto.
Ma comunque il pur relativo idealismo di Malebranche non si basa sulla negazione dell’esistere di una realtà visibile, bensì invece si basa sul supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. In questo quindi, come abbiamo già anticipato, egli anticipa l’oggetto di coscienza di Husserl e forse anche la riduzione trascendentale (basata sulla messa tra parentesi dell’ingenuo mondo fuori di noi: vedere oggetti esteriori). Possiamo comprendere questo ancora meglio attraverso le riflessioni di Malebranche [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., IV, 393-395, p. 39-40]. Il pensatore dice infatti che può anche darsi che l’essenza della materia non sia affatto l’estensione. Quello che importa è che però (interiormente) “il mondo che immaginiamo formato di estensione, paia somigliante a quello che noi vediamo”, sebbene esso invece esso non sia affatto materiale. Del resto “Non è assolutamente necessario di esaminare se fuori effettivamente vi sono degli esseri che fanno riscontro alle idee, perché noi non ragioniamo su tali esseri ma sulle loro idee”.
E con ciò in un solo colpo il pensatore sgombra il campo dal valore e ruolo attribuibile alla coscienza (come luogo terminale della percezione), dato che la sua anche solo probabile esistenza non ha alcun senso. Pertanto per lui il criterio che davvero conta è il nostro pensare (a proposito delle proprietà delle cose) se le sensazioni (puramente interiori) che noi ne abbiamo si accordino davvero con l’esperienza. Del resto, egli aggiunge, ciò si cui ragioniamo nella fisica sono cose di cui “nessuno dubita”. E quindi in effetti la natura non è affatto nascosta. In altre parole, nonostante il radicale idealismo della sua concezione della conoscenza, la sua occupazione di fisico gli rende possibile ammettere comunque una certa esteriorità (sia pure solo metaforica) dell’esistenza di un mondo fuori di noi fatto di oggetti. E questo nuovamente lo approssima almeno parzialmente a Kant.
Questa è insomma la teoria della percezione e quella della conoscenza secondo Malebranche, che nei PM emerge in una maniera sufficientemente chiara.

Vediamo ora se si possono trovare ulteriori elementi in CC e TNG.
Innanzitutto va detto che le obiezioni di Aristarco presentano una posizione molto simile a quella che poi sarebbe stata dell’empirismo [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 17]. Con diversi argomenti l’interlocutore di Teodoro sostiene infatti che le sensazioni (a loro volta provenienti dal mondo esteriore) causano qualunque effetto e modificazione nell’anima. A ciò Teodoro risponde che invece la Causa superiore è superiore proprio “perché agisce in noi”. Mentre per lui tale superiorità non è affatto alla portata della capacità di azione degli oggetti esteriori né delle forze nude della Natura. Pertanto qualunque modificazione interiore (ossia la percezione stessa che equivale ontologicamente all’anima) si spiega solo interiormente, ossia laddove non vi è alcuna distanza tra la causa e l’effetto. È evidente la svalutazione qui di qualunque genere di causalità ordinaria di tipo meccanicistico (dominata dalla legge dell’urto) come quella posta invece da Cartesio. Essa non gioca alcun ruolo nella percezione. Ed abbiamo visto che infatti Aristarco rappresenta la posizione di Cartesio. Cartesio quindi, anche se pone la dissociazione tra sostanza animica e sostanza corporea, concepisce di fatto al modo ordinario degli empiristi.
Quindi anche in CC Malebranche [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 27-28] critica l’ordinaria fisiologia della percezione (ossia quella dell’empirismo), mostrandoci che essa sembra un’evidenza ovvia solo nella misura in cui è effetto del disordine causato dall’ordine della Caduta: E quindi in realtà essa è straordinaria e non ordinaria, perché non riflette affatto la relazione tra spirito e corpo esistente nella Prima Creazione
Nella quale non vi era alcuna relazione centripeta tra ambiente esterno (corpi) e spirito (soggetto), ossia non vi era alcuna relazione (afferente o efferente) tra soggetto e oggetto. E questo ci spiega perché abbiamo constatato che egli non concepisce affatto la teoria della conoscenza nei termini usuali, ossia appunto come relazione tra soggetto e oggetto.
Egli sostiene infatti che, nell’istituire la Natura, Dio ha creato nell’uomo spirito e corpo. Ed inoltre, per garantire la conservazione della sua creatura, ha stabilito che quando nel corpo vi siano movimenti nell’anima si determinino diversi sentimenti. Movimenti che avvengono in una parte del cervello, che però Malebranche non ammette essere la ghiandola pineale (come fa invece Cartesio). In tal modo egli sta insomma giustificando anche l’istinto di sopravvivenza, ossia la pulsione umano-animale all’auto-conservazione. Questo però comporta comunque un certo influsso esteriore, che però non esisteva assolutamente prima del Peccato originale – condizione nella quale lo spirito era integralmente disconnesso dalla dimensione corporale. Dato che esso rappresentava l’unica forma di Essere esistente.
Con la conseguenza di una conoscenza purissima nella sua pienezza, dato che la corporalità non interferiva. Questa condizione ontica però esiste ancora perfino dopo il Peccato. Ma, a causa di tale interferenza, essa non avviene senza sforzo. E comunque, dopo il Peccato, l’influsso dei corpi esteriori si traduce anche nell’effetto soverchiante dei piaceri sensibili sullo spirito umano. Ecco delinearsi quindi in modo generale il potere causale degli oggetti. Ii quali si spingono fino al cervello lasciando tracce profonde, e così nell’anima si producono movimenti che la indirizzano l’uomo “forzatamente” verso gli oggetti sensibili. Questo significa allora che Malebranche in qualche modo ammette anche (in quanto ovvia e ragionevole) la teoria ordinaria e centripeta della percezione, ma la ritiene assolutamente straordinaria e non invece ordinaria. Essa sussiste infatti unicamente nell’Ordine degenere della Caduta. E per questo motivo essa è solo teorica, dato nel mondo (in forza della misericordiosa Grazia divina) domina nei fatti la suprema Causa divina. Quindi non si verifica. Infatti il perfetto ordine naturale stabilito da questa Causa non potrebbe tollerare la mutabilità della volontà umana, la quale, nel caso del vigere dell’ordinaria percezione, risponderebbe sempre autonomamente alle sollecitazioni esteriori.
Ecco allora che la decisione di Dio a mantenere le leggi naturali persistenti anche dopo il Peccato originale esprime quindi quell’Ordine della Grazia, che, fondendosi perfettamente all’Ordine della Natura, persegue lo scopo di porre il rimedio al disordine del peccato per mezzo del prevalere di circostanze decisamente non ordinarie. E quindi questo giunge fino a revocare la fisiologia psico-corporea.
Altro aspetto di questo tema (trattato in CC) è quello della relazione tra percezioni e idee [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Dialogo III, p. 55-58]. Infatti per Malebranche non sono affatto le percezioni a fondare le idee, ma sono invece le idee (eterne e divine) a fondare le percezioni. Perché essa stabiliscono cos’è esattamente la cosa percepita. Ne risulta che occorre un’oggettualità ideale stabile perché la cosa possa venire percepita così com’è. In particolare, egli dice, non è affatto vero che ciò che possiamo percepire di una cosa “è compreso nel concetto, cioè nella percezione che la rappresenta”. Perché così sia le percezioni umane dovrebbero infatti essere le stesse di quelle divine. Per questo motivo noi conosciamo le cose solo attraverso le idee eterne che ci colpiscono; e intanto esse sono comuni allo spirito e a Dio. Pertanto è senz’altro vero che l’anima è capace di percepire, ma solo quando la ”sostanza efficace della divinità” (sostanza divina) la colpisce direttamente. Questa insomma sembra essere l’unica dottrina dell’anima conoscente che Malebranche possa sostenere. Del resto egli afferma esplicitamente altrove che l’anima è “una sostanza che pensa, che sente, che vuole, che ragiona” [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogio VI, 117].
Ma sembra pensarla diversamente, invece, laddove sostiene che, in via di principio l’anima (pur essendo incontestabilmente luogo di percezione) non ha affatto conoscenza di ciò che accade nel mentre si sta verificando un evento che causa sensazioni. Infatti il nostro corpo prova dolore o piacere prima ancora che l’anima se ne sia accorta [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I p. 14]. E questo fenomeno diviene assolutamente eclatante presso bambini piccoli e idioti, ossia in caso di oggettive limitazioni cognitive. Questo significa quindi che (sebbene con molte incertezze ed in una maniera molto debole) Malebranche attribuisce comunque all’anima il ruolo di sostanza conoscente. Ma del resto ciò risulta comunque molto problematico, dato che egli concepisce l’anima come equivalente di fatto ai sensi.
Del resto, secondo lui, nel postulareo l’ordinaria fisiologia della percezione (basata sulle idee di cose come modificazioni dello spirito causate dagli oggetti percepiti), si afferma che il processo è del tutto casuale (e quindi banalmente tautologico: noi percepiamo il percepibile e basta), non essendovi in verità alcun modello (essenza-idea) per la cosa che percepiamo. Quindi noi sappiamo che percepiamo qualcosa ma non sappiamo cosa. Pertanto non si è certi affatto del fatto che ciò che percepiamo sia distinto dalla percezione che ne otteniamo. Si parla insomma di una percezione fisiologica in quanto immediata, ossia non condizionata dalle idee. Si tratta insomma di una teoria solo apparentemente ovvia ma in realtà basata sulla rinuncia a qualunque tentativo di vera fondazione, e quindi spiegazione.
E qui bisogna dire che, almeno in questo campo, Malebranche si è prodotto in una riflessione filosofica davvero fondata.
Lo possiamo comprendere ancora meglio se seguiamo l’argomentazione del pensatore.
Infatti Teodoro (in risposta alle obiezioni tendenzialmente empiriste di Aristarco) afferma che – qualora seguiamo l’ordinaria teoria della percezione – dobbiamo dire che l’oggettualità esteriore costituita dalla sfera non è né un’idea di cosa presente nello Spirito divino né una sfera ideale completamente distinta dalle modalità dello spirito (cioè dalla percezione). Essa è invece una modalità dello spirito in quanto noi ne abbiamo la rappresentazione. E così l’unica cosa che di essa si può dire è quello che è racchiuso nella sua rappresentazione presente nella nostra anima. Ma anche se questo può sembrare ovvio e ragionevole, esso invece non è altro che una banale tautologia, secondo la quale noi possiamo percepire quello che possiamo percepire. E quindi da ciò non si evince nemmeno che ciò che percepiamo (il «cosa» o «cio che è» «è» ) sia esattamente come lo percepiamo. Perché in tal modo le idee non sarebbero distinte dalle percezioni.
Ecco che allora, secondo Malebrance, invece della rozza fisiologia della percezione (puramente tautologica e senza spiegazione) vige semmai la dottrina del modello ideale delle cose, in forza della quale le cose percepite sono un «cos’è» ben definito che viene percepito esattamente così com’è (anche se il suo aspetto non è così perfetto come quello delle idee). Per questo motivo non può sussistere alcun dubbio circa il fatto che: − 1) quando percepiamo noi percepiamo sempre «qualcosa»; 2) quando percepiamo noi percepiamo esattamente la cosa esistente così com’è (in quanto frutto della creazione secondo idee). Pertanto, anche se in tal modo non è postulabile alcun realismo − affermante l’assolutezza esistente della cosa esteriore ed il suo effetto sulla percezione (quale unica forma di inizio della conoscenza) −, invece è sostenibile un sano idealismo della conoscenza. Ma intanto (nonostante tutte queste precisazioni limitanti), la percezione è un fenomeno di certo non soggetto ad alcun dubbio
E nell’ambito di tale discorso Malebranche afferma che proprio questo è in verità il fondamento stesso della certezza della scienza. Secondo il quale è vero “non solo tutto ciò che lo spirito percepisce immediatamente e direttamente esiste davvero” ma è vero anche “che è sempre come lo si percepisce”.
In effetti, egli precisa, le idee di cose presenti in Dio sono impartecipabili; quindi ciò che si percepisce per mezzo di esse è oggettivamente imperfetto. La conseguenza è che mai “gli oggetti sensibili non si percepiscono in sé stessi”. Ed ecco affacciarsi di nuovo una prefigurazione della teoria kantiana della conoscenza, secondo la quale l’«in sè» resta inevitabilmente inconoscibile. Ma intanto gli oggetti sono esattamente come vengono percepiti, anche se in circostanze immanenti, e quindi di tendenziale imperfezione. Si percepisce infatti perfettamente che, ad esempio, i corpi sono divisibili e in movimento.
E questo perché il concetto di estensione che abbiamo è lo stesso del quale Dio si è servito per crearli. Quindi “le creature sono conformi all’idea del Creatore, al modello eterno sul quale le ha plasmate”, e proprio per questo sono conoscibili come idee-essenze.
Malebranche però non intende schivare il problema rappresentato da quegli oggetti ideali che rischiano fortemente di essere totalmente inesistenti nell’esperienza. Il problema inizia nel dialogo con l’affermazione provocatoria di Aristarco, secondo la quale è preferibile comunque credere alla “visione immediata e diretta degli oggetti in sé stesso”. Ma Teodoro oppone a questo errore proprio l’evidenza di quegli oggetti che noi vediamo in sogno durante un delirio febbrile in virtù di una vibrazione del tutto simile all’oggetto esteriore, e che insorge solo nello spirito senza alcun corrispettivo esteriore (quindi per davvero senza alcuna stimolazione sensoriale). Quindi realmente è possibile vedere anche ciò che non esiste. Ma questo riconferma per lui che noi non vediamo mai “direttamente i corpi come sono in sé stessi”, bensì ne vediamo solo le idee che li rappresentano. Del resto (nel nostro spirito) noi non siamo in grado di concepire uno spazio infinito, ossia spazi ulteriori che superino i limiti celesti. Quindi la nostra stessa idea di estensione non è infinita.
Insomma questo significa che la teoria percettiva di Malebranche si sposa fortemente con il suo idealismo della conoscenza. Ed esso richiama Kant in quanto, in luogo delle condizioni a priori per la conoscenza esperienziale, egli pone la Ragione universale quale fonte delle idee di cose per mezzo delle quali soltanto noi possiamo cogliere le cose del mondo esteriore.
In ogni caso si arriva ad un superamento definitivo dell’ordinaria teoria empirista della percezione mediante ulteriori considerazioni del pensatore. Teodoro constata infatti che lo spirito umano è limitato mentre invece le idee che esso ospita possono essere illimitate come lo è effettivamente quella di estensione. È evidente quindi che, allorquando noi concepiamo questa idea, si verifica una modificazione del nostro spirito. Ma essa non può insorgere assolutamente né in virtù delle capacità intrinseca dello spirito umano né in virtù di una comunicazione di esso con i corpi esteriori. Infatti entrambi sono fatalmente limitati. Ecco che noi nello spirito concepiamo per definizione una cosa limitata, e quindi la «cosa pensata» effettivamente è infinitamente molto più piccola dell’oggettività infinita che esso può comunque ospitare, e che è comunque reale anche se puramente intelligibile. Ne consegue che lo spirito umano (non essendo affatto in grado di “comprendere tutta la realtà intelligibile dell’idea”) non può affatto percepire l’intero mondo esteriore, essendo esso ben più complesso ed ampio del nostro mondo interiore ed inoltre dotato di una vera onticità – dato che esso include oggetti finiti ed infiniti, ma comunque entrambi coglibili solo in quanto intelligibili. Infatti, precisa Teodoro, le idee sono infinite mentre le percezioni “sono modificazioni transitorie e limitate”. Per questo esse non possono venire quindi essere non causate “dall’azione dei corpi che ci circondano”, bensì invece solo dalla stessa “realtà intelligibile” (il mondo delle idee) ed anche “efficace” della “Ragione sovrana che ci penetra”.
Ecco che con queste riflessioni viene definitivamente superato ed invalidato il mero fisiologismo naturale della percezione, in quanto non solo transitorio ma anche limitato. Esso infatti non rispecchia affatto la vera onticità ideale delle cose che è in realtà immensa. Ma nello stesso tempo viene in tal modo assunta una posizione anti-idealista. Che consiste in questo − il mondo interiore è insufficiente (spazialmente e quanto a capacità di coglimento) per rappresentare l’intero mondo esteriore.
A questo punto possiamo giungere a delle conclusioni anche rispetto all’appartenenza del pensiero di Malebranche all’idealismo o al realismo. Ed in tal modo possiamo anche comprendere perché alcuni interpreti ritengano il suo pensiero realista. Ma lo possiamo fare solo in modo condizionato, come vedremo tra poco.
Il pensatore non nega affatto l’esistere di un mondo di oggettualità esteriori, anzi lo afferma al massimo grado nel concepirlo come il luogo di oggettualità che solo apparentemente sembrano meramente corporali ma in verità sono unicamente intelligibili. Esso include infatti tanto oggettualità finite quanto oggettualità infinite. È insomma una realtà caratterizzata dall’immensità. E proprio questo è il mondo con il quale si confronta la Fisica, essendo costretta a ragionare sui puri oggetti matematici che fondano le realtà corporee e le loro relazioni. È quindi un errore fare equivalere l’oggettualità di questo mondo alla mera e volgare esteriorità di esso rispetto all’interiorità conoscente entro la quale non ci percepisce altro che realtà intelligibili – ossia un’esteriorità esistente in quanto del tutto indipendente dall’esteriorità. Pertanto il vero contenuto di questo immenso mondo esteriore (che poi è quello creato da Dio e nel quale noi confusamente sentiamo di esistere) è rappresentato dalle idee delle cose e non invece dalle cose corporee.
Ecco allora che noi prendiamo atto proprio di questo allorquando siamo consapevoli di conoscere il mondo esteriore solo per mezzo della contemplazione delle realtà intelligibili.
E dunque è vero che Malebranche può venire in qualche modo considerato idealista perché afferma il primato della conoscenza interiore. Ma. dall’altro lato, non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che può esistere un mondo esteriore «senza coscienza». Inoltre è vero altrettanto che Malebranche può venire in qualche modo considerato realista perché ammette l’esistere di un immenso mondo «esteriore» che trascende infinitamente la finitezza dell’interiorità spirituale umana. Ma intanto non lo può assolutamente dato che egli non trae da ciò la conseguenza che possa esistere una coscienza «senza mondo».
Ne consegue quindi che molto probabilmente egli non può venire considerato né idealista né realista.
Ma comunque tale questione ci riporta ad una suggestione che ci ha colpito più volte nel corso della lettura dei testi, e cioè quella che lascia pensare ad una certa relazione del pensiero di Malebranche con quello fenomenologico di Husserl e Stein. E non ci sembra che in letteratura vi siano indicazioni per questo.
In ogni caso il pensatore francese pone come primaria un’oggettualità mentale di tipo ideale che, entro la conoscenza, occupa totalmente il luogo dell’oggettualità esteriore. Non solo ma sembra volerci fare anche capire che è solo ingenua una conoscenza che prenda in considerazione dogmaticamente il solo oggetto esteriore nel suo impositivo esistere. E questo lascia fortemente pensare all’«oggetto di coscienza» che Husserl ritenne quello indubitabilmente vero in virtù dell’”intuizione essenziale” [Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão (trad), Edmund Husserl, Investigaçõs Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, § 17, 67-68 p. 87-89]. Del resto egli stesso parla della conoscenza delle idee di cose come essenze, laddove invece per lui quella che sembra la conoscenza più autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza integralmente realistica di un mondo esteriore è dunque solo credenza cioè ingenuità.
Per quanto ne sappiamo non sembra che questa dottrina abbia influenzato in qualche modo la Fenomenologia husserliana, ma è comunque che per qualche via indiretta (magari per mezzo di Berkeley e dell’Idealismo tedesco) sia pervenuta ad essa. Oppure è anche possibile che essa si sia sviluppata nel XX secolo sulla base di premesse filosofiche insorte molto prima.
Esaminando infine TNG, sembra che l’unico luogo in cui Malebranche parla della conoscenza è quello in cui ritiene quest’ultima davvero “chiara” (invece di essere un confuso sentimento) solo quando accompagna il movimento della volontà il vero Bene, e cioè Dio [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., III, I, V p. 153].
Ma questa affermazione ci dimostra anche che le abbondanti considerazioni neutralmente gnoseologiche del pensatore ebbero sempre come sfondo uno scenario etico-religioso, sebbene anch’esso fortemente condizionato dalla gnoseologia. Il che significa che questo autore non andrebbe studiato solo per la sua teoria della conoscenza.
Nello stesso tempo, però, bisogna ammettere che quest’ultima trova in Malebranche una trattazione non solo molto ricca ma anche estremamente originale ed infine non poco convincente. E questo viene peraltro provato dalle ipotetiche connessioni tra essa ed una teoria della conoscenza che si sarebbe sviluppata solo allorquando la filosofia cessò di interessarsi completamente di metafisica ed anche di religione, cioè la Fenomenologia. In altre parole la teoria della conoscenza di Malebranche merita di venire studiata anche separatamente rispetto agli contenuti del suo pensiero. Ed inoltre bisogna anche dire che essa è forse l’unica parte della sua visione che non presenta le oscurità, astrusità ed assurdità che invece abbondano nelle altre sue parti.

Il concetto di mondo e di Natura ed il tendenziale il panteismo (sezione 5).
Abbiamo già preso atto abbondantemente di come Malebranche vedesse il mondo e la Natura. Ed alla fine della quarta sezione abbiamo constatato che questa visione ha anche dei risvolti vagamente realisti.
Nonostante questi ultimi però egli sembra considerare il mondo reale come largamente illusorio rispetto al mondo reale. E ciò ad onta di quella sua occupazione di fisico che (come ritiene Rome) lo pose in stretta relazione non solo con Cartesio ma anche con lo sperimentalismo di Bacone [Craig Walton, Nicolas Malebranche, and: The Philosophy of Malebranche (review), Journal of the History of Philosophy, 4 (3) 1966, 261-263].
Insomma, nonostante il suo molto estremistico idealismo metafisico-religioso (di stampo senz’altro platonico), Malebranche fu senz’altro anche un filosofo e scienziato della Natura. E quindi non poteva non vedere il mondo anche al modo imposto da questo ruolo. Del resto l’accento da lui posto sulle più semplici, trascendenti e divine Leggi del mondo (quelle Leggi della comunicazione del movimento, che rivelavano per lui unicamente l’azione della suprema Causa divina) non gli impedì di prendere atto dell’esistere ed agire delle immanenti leggi della Natura; ed anche della loro inesorabilità. E queste ultime sussistono solo in un mondo considerato indubitabilmente esteriore.
In ogni caso la sua postulazione di una suprema Causa divino-universale, presiedente ad ogni inferiore causalità (la quale, come lui dice, agisce fin dentro la realtà degli atomi), non poteva non configurare, almeno in una certa misura, una visione panteista del mondo. Di questo abbiamo del resto già parlato ed abbiamo anche visto che (introducendo nel panteismo un forte condizionamento etico- e metafisico-religioso) egli intende il mondo molto più in modo panenteistico, ossia lo considera come esistente totalmente entro la realtà di Dio.

Ma vediamo ora quali elementi vi sono per questo nelle opere che abbiamo esaminato.
Gli elementi panteistici presenti in PM li abbiamo già esaminati. Ma comunque in quest’opera vi sono ulteriori elementi riguardanti la sua considerazione del mondo e della Natura.
Innanzitutto il mondo sensibile gli sembra addirittura disgustoso rispetto a quello intelligibile, a causa delle “bellezze” che solo in quest’ultimo possono venire contemplate [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 2-9, p. 19-21]. Quindi la sua occupazione di Fisico non gli impedisce di guardare molto pessimisticamente (come del resto avviene anche per l’uomo) a quel mondo sensibile che del resto, conoscitivamente, aspetta di venir riscattato per mezzo delle verità fisico-matematiche. Infatti egli ritiene che la parte migliore dell’Essere (ed anche dell’uomo), se ne sta nel mondo intelligibile e non in quello sensibile. Inoltre egli guarda negativamente al mondo anche perché, sul piano della conoscenza, esso è del tutto illusorio per il fatto che “noi non percepiamo per sé stessi gli oggetti fuori di noi” [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 373, p. 25]. A ciò si aggiunge il fatto che egli è convinto che gli oggetti da noi percepiti nell’anima non si trovano di certo “nell’aria” come noi invece tendiamo ingenuamente a credere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 57-58, p. 25-26].
Ed a tale proposito egli precisa che quelle proprietà oggettive dei corpi (da lui chiamate “modalità”) non sono altro che “relazioni di distanza”. Un’idea questa che sarebbe poi stata ripresa da Bergson molto tempo dopo [Henri Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 2022]. Insomma egli sostiene che nessuna cosa è davvero nel mondo (nemmeno il dolore nel corpo) ma tutto è invece solo nell’anima; il che riguarda poi soprattutto le qualità dell’oggetto [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 73-81, p. 26-31]. E altrove aggiunge la percezione è sempre solo “mia” e non invece dell’oggetto al quale sembra appartenere [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., I, 20-23, p. 33-35]. – producendosi così di nuovo in un’affermazione che richiama molto da vicino la Fenomenologia husserliana.
In definitiva quindi la conoscenza del mondo è solo interiore, nel mentre però noi abbiamo l’illusione che le cose siano fuori di noi [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 116-117, p. 31-33].
Insomma, nonostante il realismo al quale abbiamo accennato alla fine della quarta sezione, è evidente che Malebranche non presta alcun vero credito all’esistere di quel «mondo fuori di noi» (esteriorità totalmente indipendente dall’interiorità) che invece per i veri realisti è un dogma indiscutibile. Tale era esso infatti per la Scolastica nonostante il suo approccio metafisico agli enti. Ed infatti Malebranche contestò veementemente questa visione nel configurare un’onto-metafisica completamente diversa.
L’idealismo però è comunque tangibile presso il pensatore, sebbene per mezzo di una presa di posizione molto originale, e cioè quella secondo la quale non si tratta affatto di negare l’esistere di una realtà visibile, ma invece si tratta di supporre che il mondo fuori di noi è in realtà dentro di noi. Possiamo comprenderlo bene laddove egli parla del sole come oggetto intelligibile (ossia quello davvero reale e quindi oggettivo), che noi non percepiamo mai se non nelle sue illusorie apparizioni dovute al moto di dell’astro (più o mano grande, più o meno altro, più o meno chiaro) [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., III, 118-120, p. 38-39].
Ma passiamo ora a CC.
Attraverso le riflessioni condotte da Malebranche in quest’opera comprendiamo che il suo panteismo è in effetti soprattutto quello del mondo intelligibile interno a quello sensibile. E questo per il fatto che la Causa di ogni cosa, Dio, ossia la Ragione universale e Sapienza assoluta, si presenta come un intelligibile realmente oggettuale (idee di cose) che è dappertutto e vede ogni cosa a distanze incommensurabili [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo I, p. 17-18]. Abbiamo già esaminato questo concetto discutendo l’ubiquità di Dio in quanto immensità. Ma questo panteismo è legato soprattutto all’omnipresenza della Causa suprema in ogni minimo evento e fenomeno. Il che è poi legato alla Sapienza omnisciente.
Infatti essa conosce il momento esatto in cui la spina (o il fuoco) colpisce il nostro corpo per causare “contemporaneamente” la sensazione nella nostra anima. E, sottolinea Malebranche, questo essa non lo sa certo da noi visto che noi non ne abbiamo ancora nemmeno consapevolezza. Né lo sa dalla spina che non è intelligibile (visto non esistono rapporti tra corpi e spiriti). Né infine lo sa dalla materia che è appena sostanza inerte. Potrebbe saperlo da un’altra intelligenza ma così avremmo un regresssum ad infinitum.
Ed allora bisogna presupporre un’Intelligenza suprema che sa di questo “in sé stessa e per sé”. E questa intelligenza “Non può essere che Dio, cioè un Essere la cui potenza è infinita e la cui volontà è la sola causa di tutte le cose”. Infatti solo in Dio le “volontà sono efficaci”, prescindendo così dalla vista cortissima delle cause e volontà naturali. Dunque tutto ciò accade perché Dio ha una visione perfetta di ogni cosa: − “vede in sé e per sé stesso l’essenza e il movimento dei corpi”. Si tratta quindi insieme di immanenza intelligibile e infallibile preveggenza.
Per cui (come dice Erasto) la causa del dolore non è affatto l’anima che lo sente né la spina, ma invece solo nella Potenza superiore che “prevede” (infallibilmente e nell’eternità) il momento esatto in cui la spina mi ferirà. Il che accade perchè i corpi non possono né istruire gli spiriti né avere su di essi qualunque efficacia. Pertanto la Potenza superiore può conoscere quest’attimo “soltanto da sé stessa”. Dunque ne risulta una prova davvero singolare dell’esistenza di Dio: − “se Dio non ci fosse” io non verrei punto dalla spina, non sentirei niente, né vedrei né conoscerei nulla. Pertanto Dio è pienamente presente nel mondo e nella Natura (immanenza panteistica) in quanto è Causa diretta degli eventi (senza la sua preveggenza nulla accade), del sentire, del vedere e del conoscere. Dio è panteisticamente immanente in quanto Vita che tutto muove, e che a sua volta dipende strettamente dalla Sapienza preveggente. Che poi è quella Ragione universale in virtù della quale tutto esiste ed accade. Si tratta insomma delle funzioni che in un panteismo molto più semplicistico (in quanto nemmeno minimamente razionalistico) venivano attribuite all’anima.
E proprio per questo nella metafisica pagana ed anche nella moderna Sofiologia di parlava di “Anima Mundi” [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, Vb p. 74-75; Samuel D. Cioran, Vladimir Solov’ëv and the Knighthood of the Divine Sophia, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1977]. La quale era poi un’entità semi-divina molto prossima alla Sapienza divina in forma di Sophia [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Non sappiamo se Malebranche abbia mai avuto conoscenza ci queste dottrine, ma di certo nel suo razionalismo metafisica se ne intravvedono molte tracce. In ogni caso lo stesso pensiero cristiano ha finito per assumere queste idee nel presupporre un infallibile Piano divino che non a caso è stato sempre considerato razionale. Così esso si presenta infatti nell’”intelligent design” tomista del quale abbiamo già parlato.
Abbiamo però anche visto che il razionalismo metafisico non è affatto sempre così impeccabile, dato che esso tende a cadere in non poche aporie ed anche vere e proprie assurdità.
Esso sfiora addirittura il ridicolo di fronte a misteri come quello della concezione del Figlio come Redentore del Peccato Originale [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo II p. 36-37]. Malebranche infatti postula una relazione uomo-dio che sarebbe possibile non per mezzo del Figlio (cosa del resto teologicamente del tutto plausibile) ma per mezzo del fatto che Dio avrebbe creato il mondo non per l’uomo ma solo affinchè emergesse la presenza del Figlio. Cosa che, come abbiamo già visto, lo induce a pensare che Dio ha forse addirittura voluto (oltre che previsto) il Peccato umano solo perché il Figlio realizzasse l’opera di Redenzione. Ed inoltre secondo lui noi siamo divenuti figli di Dio solo per mezzo di quest’ultimo evento, mentre non lo siamo mai stati per un’originaria amorosa volontà divina.
E questo costituisce secondo noi solo pura retorica teologica, cioè la ricerca di spiegazione razionale per un fenomeno che invece è solo un insondabile mistero. Infatti il Peccato come giustificazione dell’esistenza Figlio-Redentore è un’idea che teologicamente sfiora davvero il ridicolo dato che rende l’amore di Cristo un fenomeno unicamente necessario e razionale
Ma una volta messe da parte queste insufficienze, è chiaro che Malebranche (come Leibniz) concepisce la razionalità dell’ordine divino soprattutto nella Natura, cioè in un cosmo perfettamente ordinato da leggi naturali (da Lui volute e non dal mondo) e nonostante il Peccato. Ecco di nuovo la teodicea. Infatti per lui le leggi attuali della Natura sono esattamente le stesse (e perfette) come quelle da Lui stabilite prima del Peccato. E questo è certamente un’idea molto attraente.
Ma anche in CC si presentano riflessioni sul mondo.
Proprio quello che abbiamo appena detto fa emerge di nuovo il profondo pessimismo di Malebranche verso un mondo in cui, a causa del disordine introdotto dal Peccato, noi uomini siamo schiavi della carne, e quindi lontani da quello spirito che pure è la nostra sostanza per volontà divina [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit.,Dialogo I p. 20]. E del resto proprio questa fatale difettività – al di là dell’ideologia filosofica razionalista – giustifica l’azione continua della Causa suprema divina nel mondo e nella Natura. In altre parole essa sembra solo gelida e indifferente ma per questo motivo è anche amorevole.
Altre considerazioni sul mondo convergono poi con quelle rilevate in PM mettendo in luce il fatto che quando io guardo il mondo sensibile in effetti non vedo altro che il mondo intelligibile [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Dialogo III p. 46-47, p. 52-53]. Inoltre, a causa dell’incorruttibilità della divina sostanza, le idee che Dio ospita nella sua mente sono altrettanto incorruttibili. Tale quella di estensione che riguarda così da vicino il mondo sensibile. E tuttavia l’estensione voluta da Dio nel creare il mondo è corruttibile in quanto soggetta a mutamento, corruzione e generazione. Per cui il mondo è quello che è, e Lui lo sa benissimo.
E così noi uomini possiamo rassegnarci a questo in quel “sentimento” (corrispondente alla percezione) che ci comunica la pura essenza dell’oggetto presente solo nella mente divina. Laddove questo sentimento è appena credenza, mentre solo la visione dell’essenza è conoscenza. Ma intanto, grazie alla partecipazione della Ragione divina (che trova poi sua espressione) possiamo vedere il vero oggetto nascosto dietro questo sentimento. E questo è davvero incorruttibile. Ed allora, grazie a questa partecipazione (concessaci per Grazia da Dio), noi possiamo vedere un mondo del tutto diverso da quello corruttibile che i nostri sensi ci impongono, ossia un mondo che nella sua vera realtà è intelligibile. Un mondo che è costituito da “tutte le idee e tutte le verità immutabili”.
Ed ecco che di nuovo ci possiamo riconnettere da ciò alla Fenomenologia husserliana, secondo la quale la vera conoscenza è solo quella delle essenze, mentre l’apparente conoscenza autentica (quella sensibile) è solo credenza circa l’esistenza. La conoscenza realistica di un mondo esteriore è insomma appena credenza. cioè ingenuità.
Le altre riflessioni sul mondo presenti in CC le abbiamo già discusse nelle sezioni precedenti.
In TNG ci sono comunque ben poche considerazioni sul mondo.
In primo luogo è evidente che Malebranche è ben lungi da pensare che il mondo sia in mano a Satana, quale Signore delle leggi della Natura. Egli la pensa invece in modo del tutto contrario, nonostante il suo giudizio sostanzialmente negativo sul mondo stesso.
Secondo il nostro pensatore il mondo è stato tratto dal nulla da un Dio perfetto; atto per il quale l’uomo deve rendergli incondizionatamente onore [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, III p. 73]. E questo viene da lui giustificato mediante il solito argomento secondo il quale, una volta tolto Gesù Cristo, questo Dio potrebbe produrre solo null’altro al di fuori di sé.
In ogni caso per lui il mondo è (ontologicamente) in primo luogo la continua manifestazione della potenza divina [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., I, I, XII p. 77-78]. Infatti secondo Malebranche l’idea dell’Essere perfetto implica due attributi per la creazione: − Sapienza senza limiti e Potenza irresistibile. La Sapienza gli rivela infinite idee di opere e tutte le vie per realizzare i suoi progetti. La Potenza lo rende padrone e signore di tutte le cose, ed inoltre radicalmente autonomo, a tal punto che la sua volontà viene eseguita non appena egli vuole qualcosa. E per questo Egli non ha bisogno nemmeno di strumenti, dato che la sua volontà è efficace di per sé. Insomma la Sua Potenza non differisce minimamente dalla Sua Volontà.
Ebbene la via da Lui preferita a tutte le altre (entro tale contesto di attributi) è stata la creazione di in mondo visibile, “dal quale e nel quale egli forma quel mondo invisibile che è l’oggetto del suo amore”.
Amore che però resta rivolto solo a sé stesso.

Chi fu Malebranche come filosofo, metafisico, religioso e scienziato? (sezione 6).
Data l’originalità della sua filosofia è indispensabile comprendere la persona, la psicologia e la vita di Malebranche; specie quella filosofica. Ebbene chi fu Malebranche?
Ebbene veniamo a sapere che egli nacque a Parigi nel 1638, e fu un giovane introverso, malaticcio, pigro e meditativo [Niccolò Malebranche, Pensieri…cit., Prefazione p. 5-14]. Ma fu anche intellettualmente molto inquieto, e proprio questo lo condusse a Cartesio, che costituì poi la radice di tutta la sua filosofia (nonostante le differenze tra di loro che comunque poi si delinearono). Pare inoltre che nel corso della sua vita di filosofo gli sia tata tributata una grande e vasta gloria. Tanto che pare egli abbia contribuito a far diventare la filosofia una disciplina di interesse per l’uomo comune. Il che suona abbastanza strano.
Veniamo anche a sapere che incrociò molto direttamente Berkeley, ma che poi entrarono in conflitto.
E questo appare del tutto ovvio data la somiglianza dei rispettivi idealismi. Secondo il prefattore (Mario Novaro) pare infine che la sua svalutazione delle cause occasionali equivalga fortemente alla critica di Hume alla causalità. Cosa però ben strana, dato che egli pose poi una Causa ancora più alta e possente di quella naturale. Del resto abbiamo visto che la sua teoria della percezione è ben anti-empirista. Il suo panteismo lo rende ovviamente affine a Spinoza, che però pose una sostanza divina mondana assolutamente statica.
La sua lotta contro l’antica metafisica (“la filosofia vana”) lo rende inoltre ovviamente simile a Hobbes, Bruno e Galileo.
Veniamo anche a sapere [Nicolas Malebranche, Conversazioni…cit., Introduzione, p. V-XXXVI] che egli con CC intese davvero fare apologia del Cristianesimo, sebbene opponendosi ai principi cartesiani (che pare nel dialogo venga rappresentato da Aristarco). E chissà se non sia dovuto proprio a questo il fatto che egli fece uscire anonima la prima stampa del libro. Dietro il libro ci sarebbero comunque gli argomenti sviluppati antecedentemente nella Recherche. Oppositore delle tesi di Malebranche sarebbe stato comunque non solo Arnaud, ma anche Bayle e Bossuet.
Alfonso Ingegno, nella sua Introduzione a TNG, non fa altro che riconfermate che anche dietro questa riflessione vi fu il materiale della Recherche [Nicolas Malebranche, Trattato della natura…cit., Introduzione, p. 5-65].
Poi, come tutti i già discussi prefattori dei libri di Malebranche, egli si dedica ad un’analisi dei temi in esso trattati che ne conferma l’appropriatezza senza esprimersi in alcun giudizio sulla qualità delle tesi.
E questo è tipico tra i critici di filosofia. Si da infatti per scontato che qualunque pensatore abbia il pieno diritto di dire quello che vuole ed anche come lo vuola. E non si va mai oltre questo. La nostra idea di Filosofia è però diversa, e per questo abbiamo incentrato questa recensione in gran parte su una critica alla qualità delle tesi di Malebranche che spesso i è tradotta in un negativo giudizio di valore.
Questo è quello che si può venire a sapere circa la persona di Malebranche, sia nei suoi aspetti filosofici che umani.
A nostro avviso comunque c’è da dire qualcosa di più su di lui. La sua visione filosofica infatti (prescindendo dal grande valore oggettivo della sua epistemologia) tradisce infatti la psicologia di un uomo che non a caso ha voluto raffigurare la perfezione del mondo unicamente per la via di una Ragione divina tanto perfetta quanto del tutto indifferente al male. Male che, entro questa ottica, è sicuramente circostanziale e individuale, e quindi in questo senso forse perfino irrilevante rispetto alla perfezione del Piano di fondo.
Ma sta di fatto che esattamente questo è il male con il quale ha a che fare ognuno di noi nel corso della sua esistenza. Anche se si considera che esso è in fondo inevitabile in un mondo inevitabilmente imperfetto. Ma Malebranche ci lascia completamente soli proprio con questa così fondamentale esperienza del male.
E questo è del tutto incomprensibile per un uomo che, oltre che un filosofo, fu anche un chierico. Ma del resto sarebbe incomprensibile anche per un puro filosofo.
E quindi noi diremmo che Malebranche fu in definitiva un uomo molto oscuro (se non sinistro) nella globalità dei ruoli che esercitò e delle idee che sviluppò nel loro contesto. Ossia fu probabilmente un uomo talmente condizionato dall’ossessione della perfezione razionale da arrivare a dimenticarsi completamente dell’uomo e dei suoi bisogni. Ora, lasciando stare anche la dimensione filosofica di tale atteggiamento, diremmo che sul piano psicologico ed emozionale ciò denota una deplorevole chiusura in sé stesso, che senz’altro arriva a configurare anche un solipsismo gelido e indifferente, e che inoltra denota la chiusura dell’uomo in pensieri tanto profondi quanto oscuri e negativi. E questo è del resto un atteggiamento perfettamente prevedibile in chi fa dell’impeccabile razionalismo la sua religione.
Su questa base possiamo allora dire che, come uomo e filosofo, Malebranche abbia apportato alla consapevolezza umana qualcosa di davvero apprezzabile? Ebbene, la nostra risposta a tale domanda è senz’altro negativa.
Quindi, se proprio dobbiamo dire chi fu Malebranche come uomo, ci vediamo costretti a dire che forse fu uno che avrebbe fatto meglio a tenersi per sé le proprie idee.

Conclusioni.
I commentatori appena discussi non trovano alcuna pecca nel complessivo pensiero di Malebranche e quindi non hanno assolutamente nulla da dire sul suo valore. Già nell’introduzione ci eravamo però trovati di fronte ad una situazione diversa. Perché in essa abbiamo constato l’esistere di studioso che non gli hanno risparmiato critiche.
In ogni caso il pensiero di Malebranche è multiforme, complesso e profondo. E quindi sicuramente ha un grande valore oggettivo. Abbiamo visto peraltro che la sua epistemologia è estremamente ben pensata, ed offe così in anticipo notevoli argomenti per confutare le tesi che gli empiristi di lì a poco avrebbero sviluppato assimilando la teoria della percezione e della conoscenza a quella ordinaria della psicologia empirica.
Eppure abbiamo constatato che la visione di questo pensatore presenta molti elementi controversi. E quindi ora cercheremo di riassumerli.
Almeno dal nostro punto di vista essi consistono nel fatto che egli intende presentarsi come un metafisico cristiano, ma in un contesto di pensiero rigorosamente razionalista. E questo ha davvero pesanti conseguenze, specie di fede. Il Dio di Malebranche è infatti null’altro che la stessa Ragione universale. Niente altro. Ossia è l’istanza massima per l’affermazione di qualunque verità ed inoltre per la conoscenza del mondo. La dottrina idealistica del pensatore fa infatti in modo che noi concepiamo la conoscenza del mondo unicamente come impiego delle stesse idee di cose che sono presenti nel seno di Dio-Ragione.
Oltre a ciò Egli è Causa e Volontà suprema che esautora tutte le cause e volontà inferiori, e quindi giustifica dall’alto in maniera perfetta (in virtù della sua insuperabile razionalità) l’esistere, sentire, pensare ed agire di qualunque ente. E tutto questo genera un contesto di realtà davvero difficile da fare proprio e da applicare all’esistenza.
Abbiamo constatato però che Malebranche intanto ha un’idea decisamente pessimistica sia del mondo che per l’uomo. Per cui le buone intenzioni di questo progetto di perfezione del mondo (e dell’uomo in esso esistente) vanno riportate unicamente all’amore che Dio prova unicamente per sé.
Da qui una delle idee più assurde che in pensatore abbia sviluppato, e cioè quella secondo la quale la Sua creazione del mondo sarebbe stata giustificata solo dal desiderio si fare emergere la figura di Cristo, e non invece dal desiderio che esistesse l’uomo ed anche il mondo stesso. E da questa idea deriva poi quella ancora più assurda secondo la quale Dio avrebbe addirittura voluto espressamente il Peccato Originale perché poi Gesù Cristo lo potesse dirimere. A tutto questo è poi legata anche una dottrina assolutamente aberrante della libertà e della scelta.
Ebbene, se queste idee (come ritengono i suoi prefattori) sono state il frutto dello sforzo di difendere il Cristianesimo dalle accuse che intanto esso iniziava a ricevere, diremmo che il risultato di ciò non è stato affatto quello desiderato. Ne esce fuori infatti un Cristianesimo nel quale non solo viene totalmente deformata l’idea di Dio ma che addirittura rischia fortemente di scivolare nel cinismo indifferente, se non nella crudeltà. Questo infatti abbiamo visto che è esattamente ciò che accade nella teodicea di Malebranche. Non a caso il Cristianesimo da lui presentatoci manca totalmente l’idea dell’amore divino.
Tutto questo significa però che stiamo giudicando il pensatore su un piano etico-religioso e teologico.
Ma è proprio così che bisogna giudicarlo? Oppure bisogna trascurare questi aspetti per prendere in considerazione solo quelli filosofici?
Abbiamo già detto che Malebranche costruisce un’epistemologia di tutto rispetto. E questo è senz’altro u punto forte del suo pensiero dal punto di vista propriamente filosofico. In particolare si tratta di una visione idealistica che permette di superare il realismo ingenuo in maniera molto simile a quella della Fenomenologia husserliana. E tuttavia, anche nel suo contesto, risulta abbastanza paradossale una visione nella quale il mondo reale esteriore viene conosciuto solo interiormente, e cioè non per mezzo delle cose reali effettivamente percepite ma invece per mezze delle sole idee di cose.
Ma – bisogna ancora chiedersi −ci sono ulteriori aspetti filosofici rilevanti nel suo pensiero?
È davvero difficile dare una risposta positiva.
Il suo razionalismo è infatti così estremistico e dogmatico da pretendere di assumere addirittura una valenza teologica, ossia spiegare Dio e renderlo presente nella nostra esistenza. Il suo causalismo supremo si basa anch’esso su un’idea sostanzialmente teologica e quindi ha facile gioco nello sgominare la causalità naturale mostrandoci nel mondo una realtà in cui la Ragione divina penetra in ogni minima piega dell’essere. Ma questo intanto nella piena tolleranza e giustificazione del male. E questo se non è assurdo è almeno non poco cinico.
Quanto poi all’insufficienza della metafisica del pensatore abbiamo già detto.
Visto però che è stato detto (dal prefattore di PM, Mario Novaro) che Malebranche avrebbe reso la filosofia oggetto di interesse dell’uomo comune, allora probabilmente bisogna discutere soprattutto del suo valore per quest’ultimo soggetto. Ci chiediamo allora quale interesse possa mai avere una visione che guarda unicamente all’immenso e perfettissimo Progetto razionale di Dio, senza che Egli si preoccupi minimamente del fatto che le Leggi da Lui previste implicano necessariamente il male (come effetto temporaneo sì ma comunque per Dio assolutamente irrilevante); ed inoltre nel nutrire divino un profondo disprezzo per l’uomo e per il mondo stesso.
Può essere sostenibile per l’esistente un Progetto perfetto e dai fini ineccepibili che però ignora completamente il suo grido di dolore per la sventura e gli eventi avversi che lo colpiscono?
È credibile che ciò accada? A nostro avviso assolutamente no. Per cui la visione di Malebranche deve essere interessante (ed ancora oggi) solo per i filosofi (sostanzialmente per la sua epistemologia) ed anche per i metafisici che riescono ancora a condividere la sua interpretazione a nostro avviso assolutamente insufficiente (se non aberrante e deviante) di questa disciplina. Insomma, una volta posto questo, è chiaro che il progetto filosofico-metafisico di Malebranche non è mai assolutamente uscito dall’ambito dell’Accademia.
Al cospetto di tutto questo diremmo quindi che il pensiero di Malebranche è certamente troppo sostanzioso per non meritare di venire studiato. Ma intanto presenta troppi aspetti controversi per non essere considerato una visione per molti aspetti largamente paradossale ed assolutamente non condivisibile.
E con questo giudizio crediamo che la nostra recensione possa anche concludersi.

Read Full Post »

È recentemente uscita la monumentale traduzione (dal greco al portoghese) del Nuovo Testamento (nella versione dei Settanta) ad opera del filologo grecista e scrittore Frederico Lourenço [Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016].
Ebbene un testo di una tale rilevanza (non solo religiosa ma anche culturale) non può venire affrontato senza entusiasmo ed immense aspettative. Cosa che ovviamente riguarda in particolare il credente, oltre che il pensatore religioso. Ma, ahimè, oggi la delusione è sempre dietro l’angolo esattamente quando appare un’opera che promette così tanto. Viviamo infatti in una cultura nella quale pare proprio che più una cosa viene considerata grande più essa inclina a valorizzare la brutale decostruzione all’elementare di tutto ciò che nel mondo per millenni è stato considerato un valore. Sta di fatto che un simile criticismo decostruttivo (anzi spesso per la verità francamente distruttivo) è iniziato con Kant e Voltaire, per poi raggiungere l’acme in Nietzsche, ed infine è divenuto un implacabile ed inarrestabile tsunami che ha travolto e travolge ogni cosa.
Ecco allora che una in sé pregevolissima traduzione dal greco delle Sacre Scritture cristiane finisce per dover essere necessariamente un’opera riduzionistica, brutalmente immanentizzante, desacralizzante e demolitoria, fino a raggiungere limiti che un tempo sarebbero stati giudicati blasfemia se non eresia. Ma questi due ultimi atteggiamenti sono oggi ampiamente considerati grandi virtù invece che vizi. E quindi non poteva non accadere che l’opera di Lourenço (già di suo scrittore super-premiato) venisse in Portogallo celebrata come un grande prodotto culturale ed una grande gloria nazionale.
Lo è però davvero?

Cerchiamo di comprenderlo meglio commentando i testi introduttivi che Lourenço premette alla traduzione dei Vangeli.
In generale la presa di posizione di Lourenço si riassume nei seguenti punti:
1) Il Vangelo è un testo molto attraente nella sua semplicità non solo dottrinaria ma anche linguistica (a causa del fatto che venne scritto in un greco senza pretese dedicato a gente semplice). Punto! Per il resto è un cumulo di false verità delle quali c’è solo da dubitare perché molto probabilmente sono state solo invenzioni. Insomma il Vangelo è null’altro che un bello e struggente (ma falso) testo letterario
2) L’Autore stesso si sente estremamente gratificato per il fatto di essere un grande e geniale grecista che intanto rende democraticamente merito ai testi antichi destinati ai semplici
3) Proprio per questo egli saluta i nuovi studi biblici (ormai in corso in tutte le “grandi università” mondiali), ai quali si dedicano ormai non più quotati teologi, ma invece giovani ricercatori (dottorandi e post-dottorandi) abituati a fare i filosofi e i filologi in maniera puramente tecnica ed affatto umanistica (cioè di quelli che non sanno nemmeno la differenza tra Iliade, Odissea e Eneide). Ebbene l’Autore appare essere molto lieto che a costoro venga offerta (anche grazie al suo esempio) la possibilità di smontare totalmente la sovrastruttura del testo sacro per riportarla all’elementare più nudo ed esplicito
4) Evidentemente su questa base Lourenço si sente fiero di continuare quella tradizione critica protestante che fu fin dall’inizio basata sulla raffinata erudizione testuale, e per questo si sentì pienamente giustificata nella propria opera di demolizione della tradizione
5) Per tale motivo egli dichiara più volte di credere solo e soltanto agli studi biblistici di ultima generazione (almeno quelli condotti dal 1963 in poi, anno della sua preclara nascita), dato che essi si sono espressi in modo unanime con legittimo scetticismo (rigorosamente scientifico) rispetto a quasi tutti gli aspetti più rilevanti dei testi evangelici
6) Ovviamente, in forza della sua traduzione e lettura dei testi, l’Autore annienta totalmente la realtà e credibilità dell’effettiva ispirazione divina dell’agiografo. Ne risulta insomma che il Vangelo è appena un insieme di testi letterari umani (come del resto l’umana logica vuole).

Tuttavia Lourenço non può non lodare il fascino della sua originale creatura. E così descrive in termini entusiastici la bellezza di testi che, pur essendo rudimentali (rispetto ai sontuosi testi epici dell’antichità), hanno surclassato in interesse e successo tutto ciò che era venuto prima di essi [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E così egli imprime su questi testi il marchio indelebile del suo apprezzamento previo, lasciandoci intanto però anche capire a cosa (secondo lui) esso è dovuto e a cosa invece non è dovuto: − “Sono testi che – con il loro messaggio sublime veicolato da parole la cui bellezza disarmante ancora fa rabbrividire chi le ha lette e rilette per una vita intera – rientrano semplicemente in una categoria a parte”. È evidente, in base a questo, che il valore dei Vangeli non consiste per lui assolutamente nel loro significato religioso, bensì invece in tutt’altro.
Dunque – dopo averci rassicurato con il suo autorevole imprimatur (che senz’altro ci impedisce di buttare subito via il libro per non riprenderlo mai più in mano) −, Lourenço sente di poter iniziare a snocciolare i motivi per i quali non vi è da credere ad una sola parola di ciò che è contenuto nei testi evangelici ed inoltre ancor più non vi è da credere ad una sola parola della costruzione dottrinaria che su di essa è stata eretta nel tempo.
Si comincia con il constatare il fatto che (come secondo lui confermato unanimemente dai biblisti degli ultimi decenni) non uno degli stesori dei Sinottici è per davvero chi sembra essere, e quindi non a caso si tratta appena di autori anonimi e tardi (operanti tutti intorno alla fine del I secolo d.C.). In altre parole i Sinottici non sono stati affatto scritti da coloro che noi conosciamo come evangelisti e discepoli di Gesù, cioè Matteo, Marco e Luca. E comunque, anche ammesso che fossero stati scritti da costoro, nemmeno si potrebbe essere certi della loro effettiva identità di discepoli di Gesù e pertanto autentici testimoni dei fatti. Un’eccezione va fatta solo per Giovanni. Ma questo per un motivo negativo e non invece positivo.
Giovanni infatti è l’unico a dichiarare esplicitamente nel testo che egli è esattamente colui che noi ci aspettiamo, ossia uno dei discepoli di Gesù, e peraltro il più amato da lui [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 313-317]. Peccato però che proprio Giovanni non sia altro che un intellettuale di tipo sacerdotale ebraico, il quale (indipendentemente dal fatto di essere stato o meno un discepolo di Gesù) non ha fatto altro che teologizzare i fatti nudi e crudi, trasformando così senza alcun diritto Gesù nel “Logos” divino e quindi producendosi nel complesso in una “finzione” teologico-letteraria bella e buona.
Ma non finisce qui. Perché poi vi è secondo lui il fenomeno lampante ed anche scandaloso di una quantità così grande di contraddizioni, omissioni e plagi (tra i vari testi evangelici) che lo studioso è costretto (per pura “logica”) a ritenere che nessun evangelista abbia detto la verità sui fatti. Il che porta poi necessariamente a supporre che non solo costoro abbiano distorto ed esagerato molte cose, ma addirittura ne abbiano inventate alcune di sana pianta [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E qui si giunge davvero al tracollo, perché su questa base non vi è una sola verità di fede che si salvi.
Circa la nascita di Gesù non si sa assolutamente nulla di certo (né circa la data né circa il luogo). Ed inoltre la verginità di Maria è una cosa così dubbia da essere addirittura costretti a supporre che essa venga semplicemente contraddetta dal fatto che Gesù ebbe dei fratelli (il che significa che Maria e Giuseppe, anche se successivamente, consumarono per davvero il loro matrimonio).
Circa la morte di Gesù non si sa nulla di univoco e anzi si è portati perfino a credere che non sia mai avvenuta. Soprattutto non si sa quando sia davvero avvenuta né cosa davvero Gesù abbia detto prima di esalare l’ultimo respiro. E qui l’Autore porta al massimo il ridicolo del testo, in quanto si sforza di dimostrare che il fatidico anno zero dell’era cristiana, ossia quello della nascita di Gesù è da spostare molto in avanti così come la sua stessa morte. Che sarebbe avvenuta non a trenta anni ma a quaranta o addirittura quarantasei anni.
Circa la resurrezione dei morti è lecito pensare che addirittura (come allora sospettarono effettivamente ebrei e romani) il corpo di Gesù sia stato trafugato dai discepoli, con la successiva invenzione poi di un sepolcro vuoto con tutti gli annessi e connessi.
Infine, pur ammettendo che gli evangelisti abbiano forzato e distorto i fatti in modo che coincidessero con le profezie del Vecchio Testamento, c’è da considerare il fatto che in quest’ultimo non vi è in verità alcuna traccia di tali profezie.
In ogni caso, per diminuire almeno un po’ la drammaticità di tutta questa distruzione (giustificando poi anche meglio il suo stesso lavoro), Lourenço dice alla fine che l’immenso numero di “difficoltà” obiettivamente presenti nel testo evangelico è esattamente ciò che costringe lo studioso a mettere spietatamente a nudo la “materialità” della lingua greca. Insomma, volendo essere più espliciti (di quanto l’Autore sia qui disposto ad essere), ciò vuol dire che bisogna fare in modo che le bugie presenti nel testo devono venire mantenute così come sono. Questa spietatezza (scettica e demolitoria) è però secondo lui benefica. Per cui la Chiesa stessa, secondo lui, dovrebbe essere la prima interessata a questa sorta di così strana, brutale e blasfema autenticità.

Passando poi alle introduzioni ai singoli Vangeli, vengono fuori per l’Autore ulteriori eclatanti «scandala» demolitori.
In primo luogo c’è da osservare che vi sono fatti rilevanti (sui quali si basano poi importantissime verità di fede) che stranamente sono presenti solo in alcuni Vangeli e non in altri. Ma per questo motivo finiscono inevitabilmente per perdere rilevanza alcuni momenti dell’insegnamento di Gesù ai quali è sempre stata attribuita la massima importanza. La tesi di Lourenço al proposito sembra insomma essere questa: − se non tutti gli evangelisti parlano di aspetti così importanti, allora può ben darsi che Gesù non abbia mai parlato di cose come queste. La tesi dell’Autore, insomma, si appaia in questo piuttosto perfettamente a quella di Renan, di Nietzsche e del suo conterraneo Saramago – Gesù non fu nemmeno lontanamente ciò che poi è stato fatto di lui.
Ecco che solo in Matteo noi ritroviamo il famosissimo e fondamentale discorso della Montagna, mentre invece non lo ritroviamo affatto in Giovanni [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Mateus, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 53-57; Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317]. Tutto il così significativo e suggestivo scenario dell’Annunciazione e della Nascita di Gesù si ritrova poi solo in Luca [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Lucas, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 217-220]. Inoltre sempre in Luca mancano tutti gli aspetti più drammatici ed anche miracolistici della vita di Gesù (Gesù non cammina sulle acque, non viene né flagellato né incoronato di spine), il che include poi anche la dolorosa e sanguinosa sua morte. Significherebbe quindi che tutta la teologia cristiana del dolore e della morte in Croce di fatto non varrebbe un fico secco.
Infine in Giovanni (oltre il discorso della Montagna) mancano completamente episodi fondamentali come la provazione nel deserto, il nome effettivo di Maria quale madre di Gesù, l’insegnamento del Pater Noster, e addirittura il presentarsi di Gesù come Messia [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317].
Inoltre (in base alla messa in dubbio dell’identità di Giovanni, che abbiamo visto prima) Lourenço menziona l’opinione del famigerato Rudolf Bultmann (il quale negò recisamente che costui possa essere stato per davvero testimone oculare di tanti importanti episodi) per giungere infine a sostenere che è del tutto lecito considerarlo addirittura un “impostore”.

Ecco, credo che davvero non ci sia bisogno di dire di più. A parte il senso di nausea e desolazione che coglie il credente davanti a queste affermazioni, è inevitabile non nutrire il sospetto che dietro di esse vi sia un’intenzione demolitoria che sfiora addirittura l’insidia satanica.
Non si può comprendere altrimenti quello che lo stesso Autore dice, e cioè di aver dedicato tutta la sua vita non solo alla traduzione di questi testi ma anche alla loro meditazione e contemplazione. Per cosa dunque?
Solo per coprire di ridicolo e di ingiurie le verità di fede che vi sono contenute?
A questo punto mi sembra addirittura non solo irrilevante ma anche estremamente ipocrita che egli difenda il suo impegno mettendo avanti la bellezza ed importanza dei testi che ha tradotto con un così grande e meritevole lavoro. Tutto ciò diviene davvero poco credibile, dato che la cosa più credibile è invece che egli abbia semmai visceralmente odiato ciò che intanto studiava.
Insomma la lettura lourençiana dei testi evangelici sembra l’esatto contrario di una lettura delle Scrittura che venga guidata dallo Spirito. E quindi risulta davvero difficile scartare l’ipotesi che egli sia stato guidato in tutto questo addirittura da una mano satanica. In ogni caso, se anche non è stato questo, non gli si può attribuire altro che quel ben noto corrosivo scetticismo ateo (venato peraltro visibilmente di odio e scherno) che da molto tempo è tipico dell’intellettuale moderno ed ancor più post-moderno.
Tutto questo però non è solo scandaloso per il credente. È invece anche estremamente sconsolante per l’uomo di cultura. Dato che è un atteggiamento di una piattezza, di una meschinità, di una scontatezza e di una banalità che davvero sono difficili da supporre in un filologo al quale viene intanto attribuito un così grande valore e viene tributata una così grande fama.
Insomma viene proprio il sospetto che l’opera “monumentale” di Lourenço (e forse anche il personaggio stesso) non sia altro che un altro dei tanti tipici bluffs culturali moderni.

Read Full Post »

In un recente articolo [John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282] è stata esposta in maniera molto ampia e completa la visione del pensatore nipponico Nishida Kitarō.
Questo filosofo (vissuto nella prima parte del XX secolo e morto nel 1945) ha elaborato una dottrina filosofico-metafisica ispirata a multiple fonti (dal Buddhismo Mahayana e Zen fino a Platone ed al pensiero metafisico-apofatico cristiano, specie quello di Eckhart) entro la quale si è delineata poco a poco una “teoria del luogo”. A prima vista sembra insomma che il pensatore abbia voluto ri-avvalorare quella «località» circoscritta che ormai è stata totalmente sorpassata in un mondo dominato dal globalismo e dalle sconfinate metropoli. E noi recentemente abbiamo tentato proprio un siffatto ri-avvaloramento in uno scritto non ancora pubblicato che abbiamo presentato in abstract nel nostro blog http://cieloetterra.wordpress.com [Vincenzo Nuzzo, “Il localismo”, 06/07/2017]. Entro questo scritto discutevamo tra l’altro anche alcuni autori che recentemente hanno sostenuto un’idea simile. Abbiamo cioè sostenuto che forse è giunta l’ora di recuperare il valore di quei «piccoli luoghi» (ossia piccoli centri urbani) che ormai da tempo l’immaginario collettivo ha disertato e disprezzato (nello spirito e nel corpo) considerandoli indegni di una vita all’altezza delle moderne aspettative.
Nulla di tutto questo si ritrova invece nel pensiero di Nishida. La sua teoria del luogo, infatti, non fa altro che allinearsi al moderno nichilismo filosofico planetario per sostenere che il vero luogo capace di accogliere il nostro «esserci» (il nostro pieno ed autentico esistere) non è affatto l’Essere (come aveva sempre ritenuto la metafisica tradizionale) ma è invece il Nulla.
In questo il pensatore nipponico si allinea a pensatori occidentali come Heidegger, Derrida e Lévinas.
Ma le sue ambizioni non si fermano affatto qui, perché il suo pensiero vuole costituire non solo un’autentica nuova metafisica (come del resto quella heideggeriana) ma anche perfino una nuova teologia; ossia una nuova teoria di Dio a sua volta legata ad una vera e propria nuova religione. Ed infatti proprio per questo il suo pensiero è divenuto fonte di ispirazione per innumerevoli teologi occidentali, sia cattolici che protestanti (Moltmann, Lewis, Altizer, Barth, de Certeau, Evans, Küng, Balthasar, Lacoste, Taylor etc.). Sta di fatto che Krummel definisce questa neo-teologia e neo-religione come “A/teismo”, ossia di fatto una religione non teistica e quindi letteralmente «senza Dio».
Non ci soffermeremo qui sui dettagli della complessa dottrina di Nishida (per la quale rimandiamo all’articolo di Krummel, e che peraltro cercheremo di sintetizzare in un articolo che contiamo di pubblicare a breve). Diremo quindi solo che il pensatore nipponico prende a suoi punti di riferimento il concetto buddhista di “Vuoto” (śūnyāta), il concetto cristiano-paolino di “kenosis” divina, ed infine il concetto platonico di “chora”, ossia la Materia prima dell’antica metafisica.
Quindi, in estrema sintesi, egli sostiene che l’Assoluto divino compie un supremo ed originario atto di “auto-negazione” (la “kenosis”) che, nel costituirlo come Nulla (e non invece come Essere), permette ad esso di «fare spazio» al mondo terreno (arretrando rispetto ad esso e consentendo ad esso così di esistere al cospetto della sua Maestà). E proprio in questo modo esso si pone come «luogo» entro il quale, come in un letto, si dispone l’esser-ci umano in una indispensabile ”allocazione” (implacement) che rappresenta poi l’esistenza stessa nel suo senso più autentico. Infatti, proprio in quanto accolto in uno spazio che è in verità Nulla (e non Essere), il finito umano è chiamato in tal modo ad un corrispondente atto di “auto-negazione” (consistente nella buddhistica ed eckhartiana “morte dell’ego”) che gli permette di esistere in maniera tanto piena quanto sobria. In tal modo insomma il finito umano diviene capace di esistere pienamente al cospetto della morte rinunciando a qualunque esigenza di vivere entro un «ordine cosmico».
Il pensatore ritiene infatti che l’antica e tradizionale metafisica abbia insistito sul concetto di «essere» proprio perché essa considerava l’Assoluto divino come un’istanza tendente a formare il caos materiale e naturale (in quanto Idea-Forma impressa in esso) allo scopo di fare di essi un «ordine cosmico». E questo atto originario veniva poi prolungato dall’uomo nel compito di ordinare costantemente la Natura in Civiltà.
Pertanto la relazione stabilita da Nishida tra il finito umano e l’Assoluto divino (in quanto Nulla) è l’esatta inversione della stessa relazione che l’antica metafisica stabiliva tra il finito umano e l’Assoluto divino (in quanto Essere).
Conseguentemente, laddove prima dominava il principio razionale dell’Ordine, nella metafisica del nostro pensatore è destinato a dominare il principio irrazionale del Caos. Si tratta insomma di due valori diametralmente opposti.
Su questa base egli prende quindi da Platone il concetto di “chora” per eleggerlo a quella Materia prima la quale (esattamente come fa il finito umano in relazione con l’Assoluto divino) rispecchia l’atto auto-negante (“kenosis”) dell’Assoluto per trasformarsi così in una immanente infinita ed inesauribile Forza creante. E proprio in questo senso è in verità proprio la Materia il «luogo» nel quale il finito umano si alloca venendone continuamente sostenuto.
Ora, posto tutto questo, ne discende che la “chora” finisce per equivalere al ruolo di «luogo» che (come ci spiega Krummel) hanno la “terra” e la “natura”. Ma siccome, come abbiamo visto, questo intero discorso metafisico ha per Nishida un’obbligata valenza anche teologico-religiosa, da quanto abbiamo appena detto risulta che la Terra e la Natura vanno per lui nuovamente riconosciute nella loro intangibile sacralità. E proprio su questo Krummel formula la sua proposta di un’etica neo-religiosa che si incentri esattamente nella venerazione della Terra e della Natura. In esse, infatti – grazie all’intermediazione della “chora” – l’uomo può e deve (secondo lui) vedere l’incarnazione di quella divinità affatto teistica (ossia non personale, e pertanto per nulla equivalente al Dio monoteistico), che è rappresentata dall’Assoluto divino.
Ecco che è dunque nel seno di una Terra e Natura divina che il finito umano deve allocarsi sviluppando un atteggiamento di autentica venerazione religiosa dal quale scaturisce poi inevitabilmente la “responsabilità” che esso deve avere per la preservazione dell’unico luogo in cui la sua esistenza può fiorire.
Krummel, dunque – menzionando il film di Godfrey Regio dal titolo “Koyaaanisquatsi” – denunzia la devastazione che è risultata nel mondo a causa del venir meno dell’uomo a questa venerazione responsabile, e obbedendo in questo al mandato del Dio monoteistico (il “Dio celeste”) di vivere solo in funzione della Civiltà e non invece della Natura. E questa devastazione ha preso per lui la forma della sovrappopolazione ed ancor più della trasformazione artificiale di tutto ciò che è naturale. E tutto questo è senz’altro avvenuto non solo in nome della Civiltà come valore incondizionato, ma anche in nome del mito del “progresso” illimitato – che poi altro non è che il mito della «crescita».
A nostro avviso non vi è dubbio che la denuncia di Krummel va presa oggi molto sul serio. E siamo anche disposti ad ammettere che sia in qualche modo giustificato che la nuova etica della “responsabilità” verso la Natura assuma la forma forte e cogente di un’autentica venerazione religiosa per la Terra. Egli ci mostra infatti che, qualora noi non siamo disposti a farlo, la Natura senz’altro abbandonerà la sua misericordia nei nostri confronti, e così semplicemente continuerà a vivere “senza l’uomo”. E nemmeno verso questo si può in fondo sollevare alcuna obiezione.
Bisogna però sollevare forti obiezioni circa l’attribuzione di responsabilità che l’Autore compie. Se infatti il mondo si trova nello stato in cui si trova oggi, la colpa non è senz’altro né del Dio monoteistico né della religione tradizionale e nemmeno della relativa metafisica e teologia. E di questo possiamo avere la prova proprio nell’ambito del pensiero cristiano-cattolico. Va insomma considerato che – come hanno dimostrato pensatori del calibro di Jean Maritain e Romano Guardini [Jacques Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Torino 1962; Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit. Die Macht, Matthias Grünewald & Ferdinand Schöning, Ostfildern Paderborn 1986] −, se sono insorte delle vere e proprie aberranti religioni del Progresso, della Civiltà e dell’Uomo, responsabile di questo è stato semmai proprio quell’Umanesimo moderno che è poi stato il primo a distruggere le antiche metafisica, teologia e religione.
Bisogna inoltre chiedersi quali conseguenze può avere una neo-religione «senza Dio» incentrata sulla venerazione della Terra e della Natura, a sua volta incentrata in un’etica fortemente improntata al Buddhismo.
In un nostro recente saggio abbiamo infatti dimostrato la sostanziale anti-eticità della dottrina buddhista [Vincenzo Nuzzo, Buddhismo o ateismo? Cassandra Books, Verona 2019], ed inoltre diversi pensatori moderni ci hanno mostrato come la religione della Terra e della Natura consiste sostanzialmente in un neo-paganesimo. E tra questi menzioniamo in particolare Alain de Benoist [Alain de Benoist e Thomas Molnar, L’eclisse del sacro, I libri del Borghese, Roma 2017; Alain de Benoist, Il valore delle religioni, Idrovolante 2016]. Ma inoltre chi ha visto il film di Mario Martone dal titolo “Capri revolution” avrà potuto constatare coon i suoi occhi che in questo neo-paganesimo è profondamente insito un ferinismo orgiastico-dionisiaco che è senz’altro capace di giungere fino ai sacrifici di esseri viventi (e magari anche umani). Ed allora non può alludere forse proprio a questo l’insidiosa e pressante minaccia con la quale Krummel ci invita a convertirci alla nuova religione della Terra e della Natura? Egli ci informa infatti che queste divinità sono così possenti da poterci annientare senza il minimo scrupolo se noi non ci sottomettiamo ad esse.
Ci chiediamo allora se – in quest’epoca di profonda disintegrazione del vivere comunitario ed anche di smarrimento totale del senso dell’esistere – si possa davvero prestare fede ad una simile proposta. Insomma non stiamo forse per questa via abbandonando insensatamente proprio quella religione che, senza esigere da noi alcuna sottomissione né alcun atto sacrificale, ci permette di concepire pienamente e puramente la divinità del mondo, ossia la religione che si incentra nell’Incarnazione di Dio nel mondo? Non stiamo dunque forse scambiando la religione dell’Amore per la religione della sola incondizionata e prepotente «volontà di vita»? La quale può quindi anche venerare un dio, ma comunque questo sarà sempre solo un dio il quale non ama ed autorizza altro che l’egoistica volontà di affermazione individuale. E non torniamo forse per questa via a quell’”arroganza” dell’uomo civile che Krummel ritiene responsabile della distruzione del mondo? Non rischiamo insomma forse proprio per questa via di ritornare alla stessa distruzione − e peraltro che senza che esista più nemmeno quell’«ambiente umano» (cioè la Civiltà) del quale abbiamo un vitale bisogno per non dover essere costretti a vivere come bestie o (peggio ancora) come vegetali?
In altre parole è alla luce di queste domande che noi dobbiamo certamente prendere sul serio i moniti di Krummel (rivolti a noi per mezzo della dottrina neo-metafisica modernistica e nichilista di Nishida). Ma intanto noi non dobbiamo nemmeno essere così ingenui da prestare fede a tutto ciò che egli ci propone.

Read Full Post »

Introduzione.
La revisione critica di David Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014] è estremamente utile affatto solo per dirimere una questione tuttora aperta, e cioè quella della relazione tra Platone ed il platonismo (includente poi anche il problema rappresentato dall’effettiva «platonicità» del neoplatonismo e dello stesso Plotino). Tale revisione è invece altresì utile a comprendere chi sia stato davvero Platone come pensatore. E Yount ci mostra che è possibile rispondere molto bene a questa domanda discostandosi dalle prevalenti interpretazioni moderne del pensiero di Platone nel considerarlo del tutto equivalente a quello di Plotino. Il riconoscimento di quest’equivalenza viene poi motivata dall’Autore sia attraverso un’approfondita ed ampia analisi testuale sia attraverso l’enunciazione del cosiddetto “principio di compatibilità” [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., IV p. XXVIII-XXXII]; il quale consiste nel fatto che la pura somiglianza dottrinaria tra due pensatori è criterio pienamente sufficiente di approssimazione allorquando tale somiglianza stessa è talmente suggestiva da divenire addirittura assolutamente ovvia. Tuttavia sta di fatto che questa è esattamente l’impressione che colpisce di più il lettore indipendente dei testi platonici e plotiniani; il che rende inevitabilmente molto artificiose ed arbitrarie le costruzioni di tesi interpretative, quasi sempre riduzioniste, che oggi dominano entro la critica a Platone ed al platonismo. Possiamo quindi anche definire il nostro lettore come deplorevolmente «ingenuo». Ma intanto (se riusciamo ad essere davvero onesti) non potremo sottrarci alla sgradevole impressione che le motivazioni prevalenti nella moderna critica sono non solo meramente retorico-ideologiche ma sono in fondo anche bizzarre e perfino spesso incomprensibili.
Esse si scontrano infatti in maniera spesso frontale tanto con le evidenze testuali quanto anche (e soprattutto) con le evidenze dottrinarie molto oggettive che Yount pone in luce enunciando il suo principio di compatibilità.
Del resto la natura retorico-ideologica di tali interpretazioni risulta immediatamente chiara a tutti. Si vuole infatti presentare Platone come il paradigma indiscutibile del più rigoroso razionalismo filosofico immanentista (tutto concentrato sull’uomo e sulla moderna teoria della conoscenza), nel mentre invece si vuole presentare Plotino come modello di un misticismo metafisico che nulla avrebbe a che fare né con Platone né con le più autentiche istanze della filosofia moderna.
Ma la tesi centrale di Yount (quella della perfetta equivalenza Platone-Plotino) si scontra frontalmente con queste interpretazioni, facendocele pertanto riconoscere come mere illazioni. Esse quindi, oltre che falsificanti, appaiono in fondo anche inutili e dannose, dato che ci precludono la comprensione della vera visione dei due pensatori e soprattutto della vera natura del pensiero di Platone.
Più precisamente l’Autore sostiene che per entrambi i pensatori l’Uno e il Bene sono di fatto la stessa identica entità; e cioè la fonte delle Forme, e quindi infine l’Origine di ogni essere e di ogni ente, così come anche la Realtà stessa una volta colta nella sua trascendenza. Entrambe le entità stanno quindi radicalmente al di sopra dell’essere, con il configurarsi in tal modo di un trascendentismo ontologico molto deciso. Ed in tal modo non si può più assolutamente sostenere che la visione di Platone (diversamente da quella di Plotino) sarebbe appena un’epistemologia e gnoseologia immanentista.
La mera retoricità ideologica di tale interpretazione emerge poi in maniera ancora più chiara se teniamo presente che (sulla base di quanto afferma Yount) Platone pare abbia esposto la sua dottrina metafisica già nei dialoghi − non solo invece nell’esoterico insegnamento orale, come viene sostenuto dalla Scuola di Tübingen –, e peraltro (nonostante le apparenze) lo abbia fatto perfino in una maniera altrettanto sistematica di quella plotiniana [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., I-II p. XV-XX]. Proprio questo lascia pertanto emergere, entro la sua visione, una dottrina metafisica sistematica entro la quale devono rientrare allo stesso titolo un’ontologia, un’epistemologia e perfino anche una mistica. Ed infatti, secondo Yount, al centro di questa dottrina non vi è affatto il Logos tipicamente filosofico e gnoseologico (come ritengono i moderni interpreti riduzionisti) ma vi è invece quel Bene che a sua volta è perfettamente equivalente all’Uno. Le conseguenze di tutto ciò sono dunque sostanzialmente due: − 1) la collocazione radicalmente sovra-essenziale di questa suprema entità, il Bene, fa sì che per Platone valga lo stesso apofatismo che viene applicato da Plotino all’Uno; 2) in quanto trascendente, l’Uno-Bene di Platone corrisponde ad una ben delineata ontologia suprema, che consiste poi nel «vero essere», cioè quello rappresentato dalle sole «cose buone» (le cose che sono tanto buone quanto vere, e viceversa). Ecco allora che, illustrandoci cosa sono l’Uno e il Bene (allo stesso modo di Plotino), Platone vuole soprattutto spiegarci qual è l’Essere più autentico e più pieno. Ed è evidente che per lui questo Essere consiste in quello radicalmente trascendente, ossia quello che siamo costretti di fatto a considerare un «Sovra-Essere», e cioè qualcosa che è sostanzialmente è «più-che-essere» (e non invece «meno-che-essere» in quanto meramente epistemologico, ossia «essere ideale» o anche «essere mentale»).
Ma esattamente questo Sovra-Essere, coincidente con l’Uno-Bene, è per Platone il supremo oggetto della conoscenza filosofica, e quindi è qualcosa di molto più alto delle forme vuote che governano la conoscenza umana (le quale sono invece totalmente immanenti alla mente e costituiscono quindi esattamente il mero «essere mentale»). Yount ci mostra quindi che il trait-d’union delle visioni di Platone e Plotino è molto coerentemente proprio l’esperienza intellettuale-visiva dell’Uno-Bene. In ogni caso va comunque ammesso che ad essa Platone offre una veste più esplicitamente filosofica mentre Plotino offre ad essa una veste più esplicitamente mistica. Ma a questo punto, data la radicale trascendenza dell’Uno-Bene, bisogna ammettere anche per Platone una dottrina della conoscenza suprema che sconfina nel sublime e nel contro-razionale o iper-razionale, ossia in una dimensione mistica o almeno molto prossima alla mistica.
A tale proposito bisogna tuttavia considerare quella che resta una lieve differenza tra Plotino e Platone. Il primo infatti ammette pienamente la conoscenza del Bene (mentre Platone invece la condiziona fortemente al raggiungimento effettivo di un livello estremamente trascendente), nel mentre però attribuisce all’Uno le stesse caratteristiche sovra-essenziali e trascendenti che Platone attribuisce all’Uno-Bene. In questo senso si può dire quindi che, nella sua visionarietà, Platone è stato ben più preciso e differenziato di Plotino. La sua è pertanto forse una filosofia sublime e contemplativa anche senza arrivare ad essere esplicitamente mistica, e quindi conservando tutto il suo rigore.
E ciò resta in linea con quanto affermato da Friedländer [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, III p. 80], e cioè che l’ascesa filosofica postulata da Platone mantiene costantemente la lucidità tutta razionale che invece si perde completamente entro l’esperienza mistico-unitiva postulata da Plotino. Questa tesi interpretativa diverge non poso da quella di Yount. E tuttavia (in base a quello che abbiamo costatato poc’anzi) sembra possibile che, pur nel conservare per intero il rigore razionalistico del suo pensare, Platone non abbia affatto voluto mantenersi lontano da un’esperienza conoscitiva di tipo mistico-unitivo.

Chiarito tutto questo ci sembra utile menzionare quali sono almeno alcuni dei critici le cui tesi vengono controbattute da Yount: − R. E. Allen, John Anton, Hilary Armstrong, John Armstrong, G. S. Bowe, Harold Cherniss, Roman Ciapolo, E. R. Dodds, Daniel Dombrowsky, Cynthia Hampton, David Hitchcock, Hans Georg Gadamer, Andrew Louth, William Lynch, Deepa Majumdar, Margareth Miles, Richard Mohr, John Rist, Glenn Rawson, Paul Shorey, W. T. Stace.
Egli è invece sostanzialmente d’accordo con uno dei più autorevoli specialisti di platonismo, cioè Lloyd Gerson, ed inoltre con E. N. Tigerstedt.
Va quindi fatto notare che sono davvero molte le voci critiche che oggi sostengono la necessità di una lettura riduzionistica di Platone.

Ebbene queste sono le linee più generali della tesi esposta da Yount. Ma crediamo che valga la pena di approfondire il discorso entrando nel dettaglio dei diversi aspetti da lui trattati

1- La questione critica globale − Platone, Plotino, il platonismo ed il neoplatonismo.
Abbiamo già commentato diversi aspetti di questa problematica, ma ve ne sono anche altri che vale la pena di prendere in considerazione.
Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., Introd., I-II p. XV-XX] sottolinea che (tenendo presente quanto affermato da Tigerstedt) le tesi oggi sostenute dalla critica rischiano fortemente di configurare dei veri e propri “errori” – nel tentativo di avvalorare unilateralmente aspetti del pensiero di Platone che o stanno in conflitto con le effettive e evidenze oppure si pongono come coppie di opposti che ci forniscono entrambi immagini pochissimo credibili della natura di tale pensiero
(ed ecco allora un Platone rigorosamente laico ed a-religioso, un Platone puramente razionalista e dialettico, un Platone che è protagonista di un pensiero meramente discorsivo e quindi è un pensatore non sistematico e mai conclusivo, un Platone libertario o invece al contrario totalitario, etc.).
Tigerstedt sottolinea anche che a prima vista queste riletture del pensiero di Platone si presentano come lodevoli sforzi di ricostruirne l’autenticità, dato che (secondo i moderni interpreti) il suo vero pensiero sarebbe stato coartato e corrotto dalla vera e propria “caricatura” operata su di esso dai suoi successori, ossia platonici e neo-platonici. Ecco che allora la moderna critica tende a leggere come discontinua e falsificante la relazione esistente tra Platone e platonismo. E naturalmente ciò mira (come già abbiamo visto) a ricondurre Platone all’immagine di lui e del suo pensiero che i moderni più preferiscono, ossia quella di un pensatore rigorosamente razionalista, immanentista, interessato alla sola epistemologia e totalmente laico.
Quanto poi alla questione della sistematicità o meno del pensiero di Platone, Yount la sostiene in pieno affermando che i dialoghi aporetici (ossia privi di una dottrina conclusiva) sono quelli in cui il pensatore si è semplicemente limitato ad esporre dottrine che non solo non erano le sue ma che soprattutto venivano da lui considerate non valide. In altre parole egli avrebbe presentato tali dottrine al solo scopo di porle in discussione; e ciò perfino rinunciando a trarne conclusioni definitive corrispondenti alla sua visione. L’evidenza dei dialoghi aporetici (privi sempre di qualunque conclusione, e quindi aperti) non contraddice affatto l’altra evidenza (non meno forte) dell’esposizione da parte di Platone di un vero e proprio pensiero sistematico. E ciò riguarda del resto i dialoghi più fondamentali, ossia Repubblica, Fedone, Fedro, Simposio, Parmenide e Timeo.
Su questa base Yount si schiera decisamente a favore della tesi critica da lui definita “unitarismo”, e della quale viene dichiarato protagonista Gerson. Secondo tale tesi il pensiero di Platone è sistematico in primo luogo in quanto è assolutamente unitario, e quindi è caratterizzato da una dottrina completa e coerente in tutte le sue parti. In particolare tale dottrina avrebbe incluso sia la postulazione delle Idee sia anche la postulazione di sommi Principi dell’essere che trascendono le Idee e che trovano infine la loro sintesi nell’Uno. Come abbiamo già visto, comunque, l’Autore (diversamente dalla Scuola di Tübingen) sostiene che la dottrina dei Principi sarebbe stata esposta da Platone già nei dialoghi (cioè in sede ampiamente pubblica), e non invece solo nel contesto del suo insegnamento orale (largamente esoterico, in quanto svolto nel corso delle lezioni tenute nell’Accademia davanti a pochissimi discepoli scelti).
In ogni caso Yount si schiera con veemenza contro la oggi molto diffusa tesi critica, secondo la quale il neoplatonismo (con Plotino in testa) sia stato molto differente dal vero pensiero di Platone [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit.,III-IV p. XXI-XXXII]. E bisogna dire a tale proposito che le tesi dei moderni interpreti giungono ad essere così fantasiose (nel loro negazionismo) da divenire addirittura paradossali (se non ridicole nella loro ostinazione riduzionista). Si sostiene infatti che il neoplatonismo abbia voluto a tutti i costi essere a tal punto una “nuova scuola” platonica (pur senza averne i titoli), da non esitare ad attribuire a Platone una mistica che in lui invece era del tutto inesistente. Ma a tale proposito l’Autore obietta che quello di Plotino è in verità un “idealismo razionalista” del tutto sovrapponibile a quello di Platone, al quale poi si aggiunge una metafisica molto esplicita senza che però questo crei alcuna contraddizione con il predecessore.
Oggi si tende a sostenere inoltre che il pensiero di Plotino sia stato appena il frutto delle tendenze del suo tempo (incluse quelle imposte dal Cristianesimo nascente e già prossimo al trionfo), ed infine che addirittura questo pensiero non sia altro che il frutto delle esigenze avvertite dai suoi lettori postumi (in primo luogo i platonistici cristiani). Ed in tutto questo si postula pertanto che a Plotino non può venire concessa alcuna “originalità” di pensatore (e tanto meno alcun “genio”); così che egli non avrebbe alcuna vera ragione per considerarsi davvero un platonico (semmai invece sarebbe stato un aristotelico ed uno stoico). Infine si giunge a sostenere che la sua interpretazione di Platone sarebbe stata del tutto errata (introducendo in particolare nel pensiero del predecessore un trascendentismo invece in esso del tutto assente).
A fronte di tutto ciò Yount ribadisce il nucleo della sua tesi critica, e cioè che la perfetta equivalenza Platone-Plotino consiste comunque nella condivisione della stessa dottrina ed anche dello stesso vissuto personale dell’esperienza di visione intellettuale dell’Uno-Bene. E su questa base egli solleva convincenti obiezioni contro ciascuna delle tesi critiche prima illustrate − soprattutto nel sostenere che, anche prendendo atto delle ovvie differenze che esistono (nei testi e nelle dottrine) tra Platone e Plotino, bisogna tenere presente che essi non possono venire considerate “essenziali”, ossia non possono venire considerate sufficienti a contraddire la tesi dell’equivalenza. Nulla infatti può essere sufficiente a fronte del fatto che (per entrambi i pensatori) l’esperienza visiva dell’Uno-Bene è fondamentale nella formazione del filosofo, e lo è in quanto profondamente trasfiguratrice di colui che la vive. Quindi essa non può che essere un’esperienza conoscitiva ed insieme mistica. É per questo che essa non può che venire considerata centrale da entrambi i pensatori. E ciò archivia secondo Yount qualunque tesi della differenza tra Platone e Plotino.
Da tutto ciò l’Autore egli deduce quindi che si possono capire bene le cose solo se si ammette che Plotino è “il platonista” (per eccellenza), mentre non è invece affatto appena “un platonista” (qualsiasi).

2- La comune dottrina dell’Uno-Bene.
Sostanzialmente Platone e Plotino condividono secondo Yount la stessa identica dottrina dell’Uno e del Bene, e quindi le due entità praticamente si equivalgono nei due pensieri configurando di fatto una sola entità e cioè l’Uno-Bene [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 1 p. 2-18]. Infatti, sottolinea l’Autore, questa dottrina compare effettivamente in Platone nella Repubblica e nel Filebo. Intanto è intuitivo a qualunque lettore che l’Uno e il Bene non costituiscono esattamente la stessa identica entità metafisica, e che questo certamente vale sia per Platone che per Plotino. Le due entità però non si differenziano in nessuno dei due pensatori per il fatto che esse occupano di fatto lo stesso luogo radicalmente trascendente, e cioè quello delle supreme «Forme di Essere». Ovviamente va da sé che all’Uno (in quanto totalmente ineffabile e indeterminato, come poi vedremo) non può venire attribuita la stessa valenza di «forma» che invece può senz’altro venire attribuita al Bene in quanto certamente già ben più determinato (anche se esso stesso non poco ineffabile). Le osservazioni di Yount ci rendono quindi perfettamente consapevoli anche di queste (per così dire) sottili differenze interne all’Uno-Bene.
Sta di fatto comunque che, non appena iniziamo a mettere in discussione la radicale trascendenza del Bene (sia per Platone che per Plotino), immediatamente emerge una delle principali tesi interpretative riduzionistiche oggi comuni presso la critica – ossia quella secondo la quale, nel sostenere l’equivalenza Uno-Bene (e con essa l’equivalenza tra i due pensatori), si delinea fatalmente l’aporia di una «Forma delle Forme» (il Bene) che è compromessa con l’Essere fino al punto da rischiare di essere immersa in esso come le forme comuni e molteplici. In altre parole il Bene finisce per divenire assimilabile ad una qualunque Idea (quale Forma delle cose molteplici). Ed eccoci immediatamente davanti alla diffusa tesi critica secondo la quale Platone non concepirebbe dei Principi dell’Essere (come fa Plotino), ma invece concepirebbe solo il mondo delle Idee quale supremo livello ontico della Realtà. Conseguentemente si tende a sostenere che, mentre Plotino concepirebbe un Uno trascendente posto assolutamente oltre l’Essere, Platone invece concepirebbe non l’Uno ma invece appena il Bene quale somma entità ed in quanto immanente all’Essere (e proprio come tale accessibile realmente alla conoscenza umana). Questa tesi vuole pertanto che Platone non concepirebbe affatto l’Uno (come Plotino) ma invece solo il Bene. Vedremo però più avanti con quanta chiarezza e decisione Yount dimostra che il Parmenide di Platone non fa altro che descrivere lo stesso Uno concepito anche da Plotino.
In relazione a questa serie di tesi sta pertanto inevitabilmente anche la tesi critica secondo la quale, mentre a Plotino spetterebbe l’effettiva postulazione di un’ontologia trascendente (corrispondente all’Uno come sintesi dell’essere posto molto al di sopra delle forme), a Platone spetterebbe invece al massimo la postulazione di un’epistemologia. Il che implicherebbe poi che a Plotino si può attribuire un’effettiva onto-metafisica, mentre invece a Platone si può attribuire al massimo una teoria della conoscenza che con la metafisica ha molto poco a che fare. Yount si oppone a tutto questo sottolineando che, secondo i critici da lui confutati, Platone concepirebbe il Bene come “forma” e non invece (al modo di Plotino) come “sorgente di tutte le cose”, ossia come effettiva entità creatrice. Ecco allora che la forma del Bene sarebbe per Platone una sorgente appena metaforica delle cose; in quanto essa avrebbe una valenza puramente epistemologico-gnoseologica e non invece ontologica (e conseguentemente onto-generativa). Essa sarebbe dunque appena ciò che permette la conoscenza delle cose e non la loro esistenza; ossia sarebbe null’altro che quella «forma vuota» mentale per mezzo della quale le cose possono divenire intelligibili. Ancora una volta insomma ci troviamo di fronte alla tesi secondo la quale Platone ci parlerebbe appena delle idee presenti nella nostra mente come strumenti funzionali per la conoscenza delle cose.
Ebbene, come abbiamo detto, il criterio dirimente è qui quello della trascendenza. Infatti Yount rigetta questa complessiva tesi critica sostenendo che invece il Bene di Platone è trascendente quanto lo è l’Uno di Plotino, e quindi è anch’esso origine tanto della conoscenza quanto dell’esistenza delle cose. Più precisamente esso rappresenta la «Possibilità» ultima di qualunque genere di cosa. Proprio a tale proposito l’Autore sottolinea poi che per Platone la dimensione dell’“oltre l’essere”, caratterizzante il Bene (così come l’Uno di Plotino), va intesa come un «più che essere» e non invece appena come un «non-essere». Esso infatti «non è propriamente essere», ed è tale perché (come viene sostenuto nel Sofista) è superiore all’essere in dignità e valore. Qui è più che mai evidente, quindi, che Platone è ben lungi dal negare un’effettiva ontologia trascendente. Ma intanto, siccome il Bene resta la suprema Forma dell’Essere (e quindi è inevitabilmente compromesso con l’Essere stesso), tutto ciò significa anche che il concetto platonico di “oltre l’essere” va inteso come fortemente contemplativo e iper-razionale. Il che ancora una volta rischia seriamente (ma intanto con forti ragioni) di risucchiare Platone in quella mistica che invece i moderni critici sono disposti ad attribuire solo a Plotino.
A supporto di tutto ciò bisogna poi considerare che (come dimostra Yount) il fatto che il Bene sia “forma delle forme” − e quindi qualcosa di ben superiore alle forme comuni − evidenzia chiaramente che esso non è affatto qualcosa di ontologicamente inconsistente qual’è invece l’essenza; ossia un’entità che in filosofia equivale alla più pura onticità epistemologica, e cioè a quanto potremmo definire l’«essere ideale» (il quale è di fatto un non-essere). Si delinea così nuovamente il concetto di «forma vuota». Anche questo viene considerato dall’Autore appena un riduzionismo una volta che si attribuisca a Platone una visione contemplativa e sublime dell’essere. Infatti il Bene-Forma è per lui semmai la quintessenza di qualunque essere.
Proprio per questo nella Repubblica, con grande stupore di Glaucone, esso viene presentato come ubiquitario in quanto immanente, o sensibile, e nello stesso tempo trascendente, o ultra-sensibile. Ed in questo pochissimo cambia per il fatto che il Bene-Forma equivale in qualche modo (anche se in verità sovrastandolo) al livello intelligibile dell’essere, ossia il mondo delle Forme- Idee, e cioè null’altro che il Nous di Plotino. Appare dunque chiarissimo (già nella Repubblica) come Platone con il Bene alluda al livello ontologico dei sommi Principi. Infatti se esso non trascendesse ontologicamente il livello delle Idee (che resta in qualche modo sempre immanente) non potrebbe esercitare il ruolo di Causa e quindi di Forma delle Forme.
Proprio a tale proposito possiamo constatare come in questo modo decada una delle principali parti della complessiva tesi riduzionistica applicata a Platone – per lui infatti la suprema entità non è affatto il Logos (che corrisponde semmai al mondo delle Idee e cioè allo strato intelligibile dell’Essere) ma è invece semmai il Bene, ossia un Principio e nello stesso tempo un’entità metafisica vera e propria. Platone quindi non si limita affatto a condure un discorso circa la conoscenza umana (entro la quale il livello del logos rigorosamente filosofico costituisce quello più alto, completo e perfetto), né si limita a parlarci delle strutture ideali della nostra mente. Egli invece, allo stesso modo di Plotino, ci parla di vere e proprie «persone» metafisiche. Il che significa poi che egli prende alla lettera il concetto di Forma come Causa dell’Essere; invece di illustrarlo solo metaforicamente entro una sostanziale teoria della conoscenza.
In ogni caso – specifica molto scrupolosamente Yount −, nel confrontare Platone con Plotino si pone effettivamente il problema del se il primo davvero concepisca il Bene come il creatore degli esistenti (specie nella funzione di Dio), cosa che il secondo davvero fa. L’Autore ammette che ciò è difficile da provare in base ai testi di Platone, ma suggerisce anche che possa venire postulato almeno in base ad un’”inferenza”. Quello che è certo è che Platone considera il Bene come un’entità trascendente il Dio inteso come Idea (“Idea di Dio”), ossia il Nous colto nella funzione di protagonista di effettivo creatore in quanto Intelligenza creativa (che poi al livello ontologico animico corrisponde al Demiurgo quale Anima Mundi). Nella continuità tra queste due entità (l’una totalmente al di sopra dell’Essere e l’altra invece più immanente) si può dunque comunque postulare che il Bene sia per Platone davvero il creatore degli esistenti. Più precisamente il Bene appare essere in lui il creatore delle cose (esistenti) in quanto in primo luogo (quale Forma delle Forme) esso crea le forme delle cose, ossia genera il mondo intelligibile.
Naturalmente tutto ciò comporta un certo grado di continuo superamento del concetto di «essere» sia a proposito del Bene (Platone) sia a proposito dell’Uno (Plotino). E Yount menziona a tale proposito come modello il discorso apofatico (incentrato sulle negazioni) che Plotino svolge a proposito dell’Uno − nel negare che ad esso sia applicabile qualunque «è» (predicazione). In conclusione si può bene affermare che per Platone (Bene) così come per Plotino (Uno) l’Uno-Bene è tanto più «essere» (ossia ultima pienezza di essere) quanto più si trova al di sopra dell’essere.
Ovviamente, dopo tutti i chiarimenti offertici da Yount, appare davvero poco comprensibile come una sostanziosa parte della critica moderna possa sostenere che Platone non sarebbe in alcun modo prossimo al neoplatonismo in quanto per lui il livello supremo dell’Essere sarebbe quello del mondo intelligibile e non invece quello dei Principi. È pertanto proprio in relazione a tale difficoltà che può venire giudicata un’altra delle oggi più diffuse tesi interpretative dei critici, e cioè quella secondo la quale Platone ammeterebbe il contenimento del Principio (in questo caso il Bene) entro le cose immanenti ed inoltre anche nelle loro forme-idee (cosa che invece Plotino non farebbe). In questo modo si configurerebbe pertanto nel primo un dualismo e nel secondo invece un monismo – nel senso dell’ammissione o meno di due livelli di realtà, negata da Plotino nel sostenere che il Principio riassume in sé tutto l’essere non lasciando fuori altro che non-essere, ossia l’immanenza corporeo-materiale. Naturalmente tutta questa distinzione viene a decadere se (come fa Yount) si postula che per Platone il Bene equivale per davvero al Principio stesso posto radicalmente al di sopra dell’essere quale Forma delle Forme e Causa delle Forme così come di ogni altra cosa. È evidente che in tal modo si delinea un monismo trascendentista e di vertice, in forza del quale (anche per Platone) il Principio rappresenta la Totalità di Realtà stessa.

L’appena discussa tesi interpretativa riduzionistica fa poi sentire il suo effetto entro il dibattito che oggi si svolge circa ulteriori aspetti dell’Uno e del Bene in Platone ed in Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 2-4 p. 18-25].
Si tratta di una serie di questioni sollevate intorno alla rilettura plotiniana del mito platonico della Caverna.
Uno dei punti più rilevanti è a tale proposito quella del se Platone consideri le ombre della caverna come appena ombre delle Idee (cioè appena le cose ideali) o invece come vere e proprie cose immanenti ed effettivamente esistenti (come fa Plotino). E ciò ripropone ovviamente la questione della possibile creazione di essere da parte del Bene. Ma Yount ci fa notare che, proprio in tale contesto, Plotino sostiene che il Bene stesso (così come anche l’Uno) è il creatore delle cose. Ecco che il Bene si trova in Plotino nella stessa posizione dell’Uno emanante il Nous, il quale poi a sua volta emana l’Anima Mundi, fino a pervenire infine alle cose esistenti. E peraltro il pensatore illustra qui il Bene allo stesso modo di Platone, ossia come un Sole emanante la Luce (l’Intelletto) che infine porta allo scoperto l’essere in quanto veridico (si tratta delle cose tanto più vere in quanto «buone», ossia emanazione del Bene e come tali intelligibili). Ancora una volta dunque il Bene e l’Uno appaiono una sola cosa per entrambi i pensatori. Ed ancora una volta appare evidente che Platone non si limita affatto (nemmeno in questo caso) a voler esporre una dottrina unicamente gnoseologica. Egli parla invece esattamente della creazione dell’essere. Sebbene sia chiaro che quest’ultima si presenti strettamente intrecciata alla dottrina gnoseologica incentrata in ciò che potremmo definire come la «verità dell’essere»; laddove appare poi di importanza critica la dimensione etica di quella conoscenza previa (reminiscenza) entro la quale l’anima contempla un’autentica ontologia trascendente e sovrannaturale, ossia il Bene come entità metafisica. Dunque questo discorso unifica inscindibilmente in Platone la dimensione gnoseologica con quella etica ed anche ontologica. E ciò è vero soprattutto perché nel Bene c’è la radice delle forme stesse delle cose in tutti i loro più decisivi aspetti. E poiché il Bello è Ragione stessa delle cose, esso giustifica anche tutto ciò che nelle cose è proporzione ossia Bellezza. Yount conclude sottolineando l’equivalenza Bene-Bello in Platone, che però non si ritroverebbe con la stessa chiarezza e decisione in Plotino.
Nel complesso, quindi, la sola differenza di Platone rispetto a Plotino sta solo nel fatto che quest’ultimo pone ben più esplicitamente il concetto di “emanazione”.
È pertanto evidente (a proposito della valenza gnoseologico-epistemologica del Bene, ossia a proposito del Bene come fonte della Verità) che per Platone l’entità costituita dal Bene è insieme metafisica, etica ed epistemologica in maniera assolutamente inscindibile. Ma il motivo principale di tutto ciò sta nell’importanza decisiva che per il pensatore ateniese ha la ricaduta pratica (etico-individuale ed etico-sociale, ossia etico-politica) di tutto questo, ossia il tema dell’azione.
Ciò che conta è infatti la possibilità di quel «ben agire» che non è possibile in assenza della conoscenza piena di qualcosa che è appunto il Bene. Ecco allora che, con la fusione inevitabile ed inestricabile delle tre dimensioni, il Bene costituisce per Platone il luogo di una conoscenza (coglimento della verità) che è inevitabilmente etica, nel mentre è comunque da mettere continuamente alla prova nell’azione.
Sta di fatto però che (com’era prevedibile) questo discorso viene scisso e ridotto dai critici nel porre in primo piano soprattutto la dimensione epistemologico-gnoseologica. Per essi infatti in Platone verrebbe postulato solo che l’”Idea del Bene” è il punto di riferimento di un agire che comunque è e resta in primo luogo conoscitivo (rendendo così secondaria la dimensione etica e quella metafisica). La sua sarebbe insomma appena una metaforica «etica della conoscenza», entro la quale la dimensione metafisica assumerebbe appunto la natura di una mera metafora poetica. Anche su questa base viene pertanto di nuovo postulato che Platone non avrebbe mai potuto parlare di un’effettiva ascesa conoscitiva al Bene trascendente (così come fa Plotino), dato che in tal modo l’oggetto di conoscenza starebbe del tutto al di fuori della portata umano-immanente.
Bisogna però intanto riconoscere che (almeno tendenzialmente) sussiste qui per davvero un’almeno tendenziale aporia. Ebbene è realmente possibile superarla sul piano rigorosamente filosofico? Sembra proprio di no. Perché (come abbiamo già visto altre volte) bisogna a tale proposito di nuovo invocare necessariamente la dimensione contemplativ a ed iper-razionale del pensiero di Platone. Infatti, se si vuole sostenere (come fa Yount) che il pensatore concepisce una conoscenza effettiva di ciò che è in sé irraggiungibile ed ineffabile (il Bene come Verità), allora bisogna anche riconoscere che Platone ammette letteralmente la possibilità di ciò che è in sé impossibile in termini umano-terreni.
E vedremo più avanti che per questo è fondamentale l’intermediazione dell’esperienza del Bello. In ogni caso sta di fatto che, rispetto a tutto ciò, Yount dichiara che il riduzionismo della moderna critica è da considerare come una vera e propria “distorsione” del pensiero di Platone.
L’Autore ritiene infine che lo stesso Plotino si allinei su queste posizioni; nel sostenere soprattutto il ruolo di intermediario svolto dall’Intelletto (Nous) nell’ascesa conoscitiva al Bene. Più in particolare si tratta qui della relazione tra due entità metafisiche sovraumane ed universali ma intanto anche ontologico-personali (il Nous e il Bene). E si tratta intanto però inoltre della conoscenza del Bene da parte dell’uomo per mezzo della sua partecipazione attiva del Nous.
Interviene qui nuovamente il problema della possibile differenza tra Platone e Plotino nel livello ontologico concesso all’Intelletto – laddove secondo i critici il primo collocherebbe l’Intelletto a livello trascendente assoluto (in quanto Bene), mentre il secondo invece non potrebbe in alcun modo concepire la presenza a livello trascendente di Bene e Intelletto (nel loro reciproco rapporto). Sulla base di questa possibile aporia i critici (qui Ciapolo) ipotizzano che Plotino in effetti non concepisca affatto (come Platone) un’ascesa conoscitiva dell’uomo al Bene (così come invece egli concepisce un’ascesa mistica all’Uno). Egli invece considererebbe la conoscenza umana su un piano meramente immanente privo di qualunque relazione con il trascendente, e quindi (nel suo discorso sulla conoscenza) si limiterebbe ad allinearsi ad Aristotele (e non a Platone) nel concepire l’uomo appena come animale razionale.
Insomma questa presa di posizione critica giunge fino al paradosso di supporre in Plotino una visione unicamente umano-immanente dello stesso Nous. Il che appare francamente assurdo per un pensatore così esplicitamente mistico-contemplativo.
In ogni caso (in relazione alla serie di questioni critiche appena discusse) va sottolineato che il riduzionismo critico nega sia a Platone che a Plotino un’effettiva dottrina dell’ascesa conoscitiva fino al livello più trascendente di essere, cioè al Bene.

3- L’analisi platonica dell’Uno nel Parmenide.
Come abbiamo già anticipato Yount sostiene la tesi secondo la quale l’Uno è equivalente al Bene poggia primariamente sul fatto che nel Parmenide Platone illustra le caratteristiche di un Uno che, in quanto Bene, equivale totalmente all’Uno di Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 1, 5 p. 26-48].
Più in particolare si tratta però nuovamente della dottrina del Bene come Forma, e precisamente quale trascendente Forma delle Forme. Essa è infatti una forma trascendente collocata oltre l’essere (alla radice di ogni cosa) e quindi è radicalmente superiore alle forme comuni per definizione immerse nell’essere. In quanto immateriale (e quindi diversa da qualunque cosa immersa nell’essere, dalle cose fisiche alle oggettualità ideali stesse), questa Forma è pertanto eterna e immutabile. Essa è cioè del tutto svincolata dal tempo.
Ebbene tali caratteristiche sono per l’Autore anche le caratteristiche dell’Uno di Plotino. Proprio a tale proposito si può e si deve quindi parlare di quell’Uno-Bene che viene postulato da entrambi i pensatori. Tuttavia, poiché Platone qui parla esplicitamente dell’Uno, nel discorso che segue definiremo per convenzione questa entità come Uno (-Bene).
Vi sono comunque alcuni aspetti specifici dell’Uno (-Bene) platonico-plotiniano che vale la pena di esaminare più in dettaglio.
A) rispetto al criterio dell’infinità (corrispondente al concetto di “apeiron”) esso è in primo luogo di un “illimitato” in quanto non costituisce assolutamente un determinato o definito, ossia una cosalità (un «cos’è?» definito da un’essenza) – in tal modo esso non è delimitato da alcun’altra cosa. L’ Uno (-Bene) è quindi null’altro che l’”informale” in quanto per definizione «non formato» bensì invece uicamente «formante». Per tali motivi: − a) esso non può conoscere alcuna definizione predicativa (o attributo), e quindi è per definizione ineffabile ed inconoscibile; b) esso è produttore infinito in quanto alcun essere statico (determinato) può limitarlo e quindi esaurirne la produttività. Esso si conferma essere quindi un creatore sia in Plotino che in Platone. In ogni caso Yount sottolinea la sovra-essenzialità trascendente di questa entità, dato che essa non corrisponde affatto all’apeiron quale Materia Prima.
B) il principio di identità (in relazione al criterio della possibile differenza tra enti) vale in maniera raddoppiata per questo Uno (-Bene); in quanto esso non può essere diverso da nulla che sia «altro», e quindi proprio per questo è talmente identico a sé stesso da annullare anche il sé stesso quale «altro». E questo sussistere in maniera totalmente incondizionata a qualunque genere di alterità lo rende il sommo indipendente per eccellenza. Il che pone pertanto un’assoluta e radicale condizione ontologica, la quale non può che costituire l’antecedenza assoluta di essere per eccellenza. In forza di questo l’Uno (-Bene) è la fonte di tutte le cose pur non avendo assolutamente nulla a che fare con l’Essere. Il che però, dice Yount, genera un inevitabile paradosso che non è assolutamente solvibile filosoficamente, e del quale Platone era ben consapevole proprio per il fatto che credeva nella radicale trascendenza dell’Uno. Eccoci dunque di nuovo di fronte all’evidenza in Platone di un discorso contro-razionale o iper-razionale. Su questa base bisogna pertanto affermare che (sia in Platone che in Plotino) a questo radicale assoluto, trascendente ogni cosa, non si addice alcun attributo (ineffabile).
C) il precedente discorso vale anche in relazione al criterio della similitudine-dissimilitudine tra gli enti. Infatti l’Uno di Platone è “self-identical” (totalmente identico a sé stesso) in quanto non è né dissimile né simile a sé stesso (cioè di nuovo non si configura qui alcun «altro»). Tuttavia Yount chiarisce che ciò sta in connessione in particolare con la valenza di unità che (almeno in via di principio) la cosa immanente stessa potrebbe avere sul modello dell’Uno. Cosa che però non accade, dato che le cose immanenti sono molteplici per definizione. Ed alcuna molteplicità di entità (per quanto esse siano in sé unitarie) può configurare davvero l’unità. Quest’ultima costituisce pertanto sempre un Uno-Tutto, ovvero una Totalità di Essere sublimemente concentrata.
D) dai due principi antecedenti discende poi che l’Uno (-Bene) non può essere altro che Uno e solo l’Uno, in quanto esso non è in alcun modo molteplice. E Yount precisa che (laddove Plotino parla qui dell’Uno) in tal modo Platone indica il Bene come Origine assoluta di tutte le cose.
E) rispetto a criterio dell’eguaglianza-disuguaglianza, l’Uno (-Bene) si delinea come la suprema delle Forme dato che nulla può assomigliare ad esso totalmente in quanto ente fatalmente formato. Ciò significa però soprattutto − una volta esaminato non il versante di essere del «formato», ma invece quello opposto del «formante», ossia il versante di essere che eventualmente precede l’Uno come Forma) − che non può esservi alcuna forma dell’Uno (-Bene) stesso. Per questo esso è Forma delle Forme. Il che lo pone di nuovo radicalmente aldilà dell’essere.
F) a causa di tutto ciò l’Uno (-Bene) non partecipa dell’essere immanente in alcun modo. In particolare − in quanto esso non può essere altro che ciò che è, ossia l’Uno (-Bene) stesso – tale entità non è in alcun modo «essere» in modo predicativo, e cioè un «è» (e proprio per questo è ineffabile e non equivale alle generiche forme immerse nell’essere).
Ed in particolare ciò avviene perché il suo stare “oltre l’essere” (proprio come avviene per il Bene di Platone) consiste nel fatto che esso costituisce un’entità onto-etica, ossia è superiore all’essere in quanto a “dignità” e “valore”, ovvero in termini sostanzialmente qualitativi.
G) ecco che l’Uno (-Bene) è inevitabilmente ineffabile e pertanto non può essere oggetto né di conoscenza né di discorso. Ma proprio qui emerge la principale aporia del discorso di Yount circa la perfetta equivalenza tra Uno plotiniano e il Bene platonico. Infatti, egli dice, in molti luoghi (tra i quali la Repubblica, VI 507b, X 596a-b) Platone parla esplicitamente della conoscenza del Bene. Tuttavia ad un’analisi più approfondita (che lascia emergere nuovamente i paradossi inevitabili di un discorso contro-razionale e iper-razionale) appare evidente che Platone intende con ciò un sommo esistente che però sta del tutto oltre i sensi (invisibile), ossia è qualcosa che esiste nella massima pienezza proprio in quanto si trova del tutto “oltre l’essere”. In particolare si tratta del fatto che esso è sottratto totalmente al divenire. Ma proprio in quanto esistente intanto esso può e deve venire conosciuto, sebbene in maniera totalmente diversa dagli altri oggetti di conoscenza (tutti immersi più o meno nel divenire). Quella qui in causa è pertanto la conoscenza intuitivo-visiva che avviene per mezzo dell’Intelletto. Quest’ultimo è infatti l’unico che sia davvero in grado di cogliere l’Invisibile in un’esperienza che (per definizione) avviene sempre come se in verità non fosse mai realmente avvenuta (ossia del tutto al di fuori delle condizioni sensibili, tra le quali in particolare la temporalità). Il che ci lascia allora intravvedere un atto fulmineo per mezzo del quale si coglie qualcosa con indubitabile certezza ma intanto senza in alcun modo poterne parlare. È esattamente quanto avviene nel mondo iperuranio nel contesto della rotazione delle anime intorno alle supreme Forme-Idee dell’Essere.
Quello che è certo è comunque che tutto ciò viene senz’altro espresso in maniera ben più esplicita da Plotino nel tentare di descrivere l’Uno e l’esperienza di conoscenza che lo caratterizza. Tuttavia è in questi complessivi termini che in particolare si pone anche la conoscenza del Bene in Platone. A tale proposito Yount parla di esso come quell’“Idea del Bene” che è anche “Forma del Bene” (per Plotino); e pertanto non è “tecnicamente conoscibile” per il semplice fatto che è stata vista di sfuggita (come l’ultima entità contemplata nel corso della contemplazione rotatoria dell’Uno) entro l’esperienza (visivo-intellettuale) che fonda la conoscenza come scienza previa, ossia la reminiscenza.
Ma, come abbiamo già visto, il problema sollevato dai critici sta a tale proposito nel fatto che Plotino avrebbe considerato il Bene perfettamente conoscibile (a differenza dell’Uno), mentre invece Platone lo avrebbe di fatto considerato inconoscibile. Per l’Autore però tale differenza sparisce allorquando si considera che per Plotino (come abbiamo visto poc’anzi) l’Uno altro non è se non la “Forma del Bene” e quindi ad esso equivale quasi perfettamente.
Ed eccoci con ciò in maniera chiara davanti a quell’Uno (-Bene), il quale costituisce evidentemente un’entità metafisica quasi del tutto priva di fratture interne.

4- Il Bene e il Bello per Platone e Plotino.
Tutto quanto abbiamo visto finora influenza direttamente la dottrina del Bello (o Bellezza) sia di Platone che di Plotino [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 2 p. 49-68]. Insomma, proprio in quanto entrambi i pensatori considerano l’Uno-Bene come inconoscibile ma anche (nello stesso tempo) conoscibile per mezzo di un’esperienza visiva, allora il Bello deve essere indispensabile intermediario in questo processo conoscitivo. In qualche modo, cioè, esso costituisce (sebbene ad un livello ancora radicalmente trascendente) l’apparenza primaria del Bene.
Ne discende quindi che esso costituisce una Forma suprema (nel senso che è un’entità formante un oggetto conoscibile) ma lo è occupando un livello comunque inferiore rispetto a quello dell’Uno-Bene. Ma oltre a ciò – a livello immanente − esso è forma delle cose belle per mezzo delle quali ascensivamente ci si approssima alla conoscenza del Bene. In ogni caso comunque il Bello assume la valenza inevitabilmente etica, dato che la sua conoscenza approssima inevitabilmente al Bene. Pertanto si può anche dire che (per converso) in assenza del Bene (come intermediario) noi non conosciamo il Bello (oppure lo conosciamo solo nella sua forma distorta, cioè appena nelle sue forme sensibili).
Precisato tutto questo, l’analisi del Bello ci permette dunque di capire molto meglio come avviene quella paradossale conoscenza dell’Uno-Bene della quale abbiamo finora parlato. Si tratta infatti di una conoscenza ultra-sensibile che però implica per l’uomo la necessità di servirsi di mezzi sensibili. E la Bellezza è esattamente questo in quanto è di per sé (come Idea) molto prossima al Bene. Come illustrato da Yount, insomma, l’Idea del Bene è sempre inevitabilmente anche bella. Quindi si può e si deve affermare che Bene e Bello sono quasi equivalenti, anche se non del tutto. Più precisamente il Bello è prossimo al Bene per mezzo della proporzione ed armonia che esso proietta sulle cose conosciute (che però, come dice l’Autore, non è affatto l’elementare “simmetria”).
Tuttavia ciò non potrebbe avvenire senza una trascendenza, in assenza della quale il Bello ricadrebbe tra le forme immanenti e sensibili di bellezza Su questa complessiva base si può dire allora che la Forma-Idea (“eidos”) corrispondente al Bello è una “forma” che è “senza forma” (shapeless), e quindi manca paradossalmente proprio di quella dimensione che è più indispensabile per cogliere ciò che è bello, ossia l’involucro esteriore.
Ebbene ciò ci riporta inevitabilmente di nuovo alla problematica del Bene come possibile entità creante. Infatti, attraverso la partecipazione di tutto questo «sensibile», noi possiamo comprendere meglio la valenza onto-generativa o creativa del Bene in quanto Forma. Esso infatti fa in modo che venga alla luce la verità dell’essere proprio per mezzo del Bello, ossia ciò che più lascia apparire come «in forma» quanto è destinato a venire conosciuto. E che pertanto si presenta a noi come «vero» proprio perché splende in tutta la sua evidenza, pienezza e completezza alla luce del sole. Ma in questo modo si rende in fondo a noi visibile il Bene stesso, ossia quel radicale Trascendente per la cui conoscenza il Bello funge da indispensabile intermediario. Ecco allora che continuamente l’esperienza immanente della conoscenza della verità dell’essere (in quanto immancabilmente bella) ci rinvia ad una sorta di discesa del Bene verso il mondo, che poi a sua volta si rivela essere null’altro che l’esperienza ascensivo-conoscitiva più incommensurabile che si possa concepire. E proprio in tal contesto, allora, il Bene si manifesta a noi come quel Sole il quale rende tutto visibile per mezzo della sua Luce. Si tratta insomma di null’altro che di quanto è solo vagamente intuibile a coloro che sono immersi nell’oscurità della Caverna.
Nell’analizzare però a fondo l’equivalenza tra Platone e Plotino, Yount sottolinea ancora una volta che non deve sfuggirci nemmeno la sostanziale diversità esistente tra Bene e Bello. Proprio in quanto compromesso inevitabilmente con il sensibile, il Bello è infatti una Forma ben inferiore rispetto al Bene. Ed a tale proposito emerge un’ulteriore maniera per intendere ciò che abbiamo detto poc’anzi, ossia la dimensione intellettuale dell’atto visivo. Infatti esattamente perché Plotino la pensa come Platone, egli considera l’Intelletto equivalente al Bello in quanto entrambi sono compromessi con l’essere e con il sensibile. Ciò che abbiamo descritto prima è insomma null’altro che l’atto dell’intelletto per mezzo del quale viene colto ciò che si presenta come «in forma». Quindi nulla viene conosciuto veramente se non è formato (illuminato) dalla bellezza in quanto bene; e come tale costituisce un essere per definizione sempre visibile in quanto in forma. Pertanto il Bello è forma universale ed eterna dell’Essere.
Ebbene su tutto questo si basa quell’atto che per Yount è di importanza centrale entro l’equivalenza dottrinaria tra Platone e Plotino, e cioè l’esperienza trasfiguratrice dell’Uno-Bene. La quale pertanto non può che avvenire se non per mezzo del Bello. E qui l’Autore chiarisce un aspetto fondamentale dell’intera questione: − il Bello costituisce senz’altro un’entità in qualche modo immanente (in quanto compromessa con l’essere e con il sensibile), ma intanto è e resta nello stesso tempo un’entità radicalmente trascendente (cioè il Bello che soprastà e soprassiede a tutto «ciò-che-è-bello», ossia le «cose belle» in forza della partecipazione del Bello). Quindi si tratta comunque di un “in sé” che non equivale né all’essere né alla stessa (unilaterale e pura) conoscenza, ossia non è ancora una pura Idea. Proprio non essendo tale, il Bello risulta inestricabilmente connesso al sensibile, e pertanto può venire colto solo per mezzo di un’esperienza visiva e non invece per mezzo di un’esperienza puramente conoscitiva. Ciò non significa però affatto che si tratti di un’esperienza fisica, dato che essa ha comunque un’inevitabile valenza ascensiva in quanto è destinata a recare dalla molteplicità sensibile all’unità ultrasensibile.

5- L’Intelletto o Nous per Platone e Plotino.
Yount [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., 3, 1-3 p. 68-90] chiarisce che anche l’Intelletto, in quanto corrispondente alla “mente divina” (nella sua totalità ed in tutti i suoi aspetti), può venire considerato nella sua dimensione oggettivo-oggettuale e soggettivo-personale. E ciò avviene non solo in Plotino (presso il quale la cosa, come abbiamo visto, non sorprende affatto i critici) ma invece anche in Platone.
La prima dimensione corrisponde ai contenuti della mente divina, ossia agli oggetti di conoscenza da parte dell’Intelletto, e cioè le Forme-Idee che nel loro complesso configrano il «mondo» (o «essere»), “realm”, che Dio e la mente divina costituiscono (il “mondo delle Forme”). Questo è null’altro che il mondo intelligibile, ovvero il mondo delle Idee così come viene concepito da Platone. Ma a ciò aggiungiamo che esso costituisce inoltre anche il mondo delle Forme-Idee presenti nella mente divina creativa così come venne concepito poi dalla metafisica cristiana, cioè il mondo delle Idee creative delle quale si serve Dio in funzione di Intelletto ed Architetto dell’universo. Ebbene tutto ciò corrisponde a ciò di cui il Nous “ha conoscenza”.
La seconda dimensione corrisponde poi al Nous stesso in quanto entità personale soggettuale (con tutti i suoi tipici attributi).
È evidente che, nella sua prima dimensione, l’Intelletto corrisponde al primario e più alto strato dell’Essere, ossia a quell’essere ideale che è così incorporeo e sottile (pienezza di essere corrispondente al complesso degli “in sé” di tutte le cose) da poter venir colto solo da una facoltà conoscitiva estremamente acuta e penetrante esattamente in quanto essa stessa è sommamente incorporea e sottile, ossia appunto l’Intelletto stesso. Esattamente questo è il mondo di Forme-Idee che viene contemplato dal corteo delle anime divine (guidato da Zeus) nel mondo iperuranio. È dunque il mondo intelligibile che assomma in sé l’intero essere possibile e precisamente nella sua pienezza, ossia come essere sommamente “vero” (quindi per questo anche inalienabilmente esistente, ovvero equivalente in maniera perfetta al “what it is?”, o «cos’è?» della cosa). Esso è insomma il mondo delle somme entità intelligibili (Giustizia, Temperanza etc.) alle quali sono sotto-ordinate tutte le cose, a loro volta raggruppabili in generi. Tutto questo però rientra nell’unità connotata eticamente, e cioè nell’Uno-Bene.
Quindi ciò che onticamente costituisce l’«Intelletto» sta in relazione con tale somma Unità, e pertanto ne “ha conoscenza” così come del resto (costituendo esso la conoscenza stessa) ha conoscenza di sé stesso, ossia dei contenuti onto-ideali tutti poi rifluenti nella somma Unità. Pertanto, nell’avere conoscenza di sé stesso (dei propri stessi contenuti), l’Intelletto ha conoscenza di tutti gli “esseri reali” (real beeings) che rientrano nella somma Unità dell’Essere – ed a quel livello tali esseri altro non sono se non le Forme delle cose immanenti. Essi appartengono tutti all’Uno in quanto Bene, e quindi vengono conosciuti per mezzo della dimensione visiva che abbiamo illustrato sopra.
Da ciò Yount trae la conclusione secondo la quale (in forza tutto di quanto abbiamo detto della visione intellettuale del Bene) l’Intelletto è di fatto l’immagine del Bene. In altre parole l’Intelletto da un lato equivale (in qualche modo) al Bello stesso (in quanto intermedio sensibile della conoscenza del Bene), e dall’altro lato costituisce una sorta di contemporanea seconda presenza metafisica (oltre il Bello) che funge da protagonista soggettuale dell’atto di visione. Esso incarna insomma quel colui che, una volta uscito dalla Caverna − non più abbagliato dalla Luce (della Verità intelligibile), e quindi è ormai perfettamente in grado di guardare oltre le ombre-apparenze (generate dalla Luce nell’oscurità) −, è capace di giungere alla visione delle “cose in sé stesse”.
È pertanto in questo senso, dice Yount, che Platone intende il “viaggio” ascensivo dell’anima verso il mondo intelligibile. Ed in relazione a tutto questo egli suggerisce che (anche presso Platone, oltre che presso Plotino) il Bene “genera” l’Intelletto (la dimensione intelligibile), in modo tale che avviene un vero e proprio “ritorno” dell’Intelletto stesso “al Bene”.
Ebbene il riconoscere questa relazione ontologica tra Bene ed Intelletto implica per l’Autore che anche per Platone (così come per Plotino) l’Intelletto è il Nous, ossia è un’effettiva entità onto-metafisica (per così dire personale anche se sovrumana e iper-soggettuale), nel mentre esso è intanto l’Essere stesso in quanto “mondo” (realm) “delle forme”.
Proprio in questo senso (in quanto persona agente) si può dunque dire che esso “ha conoscenza”.
Ne consegue pertanto che (come abbiamo già visto) per Platone l’Intelletto non è affatto un astratto concetto metaforico che stia appena in relazione alla teoria della conoscenza nel suo rigore fattuale ed immanentistico, ovvero non è affatto una mera struttura mentale di tipo funzionale.
Ecco allora che (ancora una volta) il riconoscimento della perfetta equivalenza tra Platone e Plotino esige che si attribuisca ad entrambi un trascendentismo onto-metafisico. Ma è esattamente questo che i moderni critici contestano cercando di fare emergere l’aporia che scardinerebbe quest’intera interpretazione qui illustrata, ossia la possibilità effettiva dell’ascesa filosofica una volta posto questo trascendentismo. Proprio in forza di questo viene postulato che Platone avrebbe appena concepito un’immanenza delle Forme conoscitive alla mente umana, ed affatto invece una loro trascendenza metafisica – dottrina in assenza della quale (secondo i critici) Platone non avrebbe mai potuto concepire la possibilità effettiva dell’ascesa filosofica. Ebbene Yount considera tutto questo null’altro che una profonda “misinterpretazione” del pensiero di Platone. Ed inoltre precisa che proprio l’assimilabilità di esso al pensiero di Plotino (Intelletto come Nous, ossia persona onto-metafisica) permette di concepire in maniera ineccepibilmente metafisica quell’immanenza delle Forme conoscitive all’Intelletto che effettivamente (egli ammette) nei testi platonici appare effettivamente poco chiara (le Forme si trovano fuori o dentro l’intelletto?).
Questa trascendenza non toglie però che sia Platone che Plotino ammettano il “cambiamento” entro la dimensione onto-metafisica dell’Intelletto, e quindi ammettano la sua vitalità in senso animico. È pertanto esattamente in questo senso che secondo Yount va intesa la relazione onto-generativa e creativa intrattenuta dall’Intelletto con l’essere e con il mondo. In Platone si tratta della rotazione delle anime divine intorno all’Intelletto (a sua volta in connessione conoscitiva con l’Uno-Bene), mentre in Plotino si tratta della relazione esistente tra l’Intelletto (Nous) e l’Anima Mundi (nel mentre dall’altro polo l’Intelletto contempla l’Uno). In entrambi i casi viene così giustificata la relazione tra il paradigmatico mondo ideale ed il mondo cosa, e cioè la creazione.
Ed è su questa base che sia in Platone che in Plotino si possono ritrovare le dottrine di Dio e del Demiurgo che vengono analizzate criticamente da Yount nel confutare le moderne tesi critiche riduzionistiche. Non commenteremo comunque queste parti del libro, così non commenteremo la parte del libro in cui l’Autore descrive la profonda comunanza del concetto di Anima Mundi tra Platone e Plotino (chiamando in causa soprattutto il Timeo).

Conclusioni.
A noi sembra che l’opera critica di David Yount offra elementi di grande rilevanza entro uno scenario che (come abbiamo visto) è oggi totalmente dominato da un’interpretazione critica radicalmente riduzionistica di Platone. E va pertanto segnalato che nelle conclusioni al suo libro l’Autore elenca sinteticamente i punti dominanti di questo genere di interpretazione confutandoli uno per uno [David J. Yount, Plotinus the Platonist… cit., p. 123-131]. Egli per la verità si riferisce qui al solo Plotino, sforzandosi di sottrarne il pensiero ai pregiudizi e luoghi comuni dei critici che non solo negano la sua perfetta equivalenza a Platone, ma anche ne mortificano l’immenso valore. In particolare l’Autore afferma che il pensiero di Plotino non è affatto riducibile a quello di Aristotele e degli Stoici, che esso è totalmente platonico ma intanto non è assolutamente una ripetizione di Platone (cosa che renderebbe Plotino non solo un pensatore non originale ma anche quasi addirittura un non-pensatore), che esso non sostiene alcun monismo in conflitto con il supposto dualismo di Platone (che per l’Autore è in verità del tutto inesistente o almeno totalmente malinteso), che egli parla di un’unione mistica all’Uno che trova perfetta rispondenza in Platone. Non ci soffermeremo sulla giustificazione di queste tesi, ma intanto va detto che esse, nel rivendicare a Plotino il posto che effettivamente a lui spetta nella storia della filosofia e soprattutto nel platonismo, ci mostrano chiaramente (in trasparenza) quale deve essere stato il vero pensiero di Platone. Personalmente abbiamo tentato anche noi di ricostruire l’effettiva natura di questo pensiero per mezzo delle nostre letture dei testi del pensatore ateniese e per mezzo del ricorso ad alcune opere critiche non in linea con le interpretazioni oggi dominanti [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. E tuttavia in questo nostro sforzo di rilettura ci riferimmo in particolare alle tesi della Scuola di Tübingen − rappresentata in Italia specialmente dal Prof. Giovanni Reale [Giovanni Reale (a cura di), Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008]. Yount però ci mostra che anche questa tesi rischia di costituire una misinterpretazione di Platone; sebbene in eccesso e non invece in difetto, ossia in senso diametralmente opposto a quello riduzionistico. Nel contesto di essa si sostiene infatti che la dottrina esposta da Platone nei dialoghi non sarebbe che una minima parte del suo insegnamento (in gran parte esoterico), e senz’altro quindi la meno rilevante. Yount invece crede di poter ritrovare una suprema dottrina dei Principi (travalicante effettivamente la dottrina delle Idee, come sostenuto dal Prof. Reale) anche dei dialoghi, e quindi nel pieno di un discorso che da un lato è ineccepibilmente filosofico (in quanto a rigore, specie di tipo dialettico) e dall’altro lato non manca nemmeno di essere sublime, contemplativo e contro- o iper-razionale.
Ebbene in tal modo noi veniamo messi di fronte ad un altro rischio che esiste nell’interpretazione di Platone, e cioè quello che vorrebbe fare del suo pensiero qualcosa di riconducibile incondizionatamente alla categoria (spesso molto abusata, tendenziale ed estremistica, e quindi non meno retorico-ideologica di quella riduzionistico-immanentista) del cosiddetto «esoterico». Se ne può avere un’idea consultando alcune opere che abbiamo citato anche nel nostro saggio [Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008; Carmelo Muscato, La questione delle dottrine non scritte e l’esoterismo di Platone, Asram Vidya, Roma 1996]. Peraltro in questo stesso saggio non abbiamo esitato a deplorare questa tendenza sottolineando come sia esagerato tentare di fare di Platone soltanto un “divino” pensatore o anche “maestro di misteri” (come viene definito appunto in queste opere). Semmai, come posto in luce da Friedländer [Paul Friedländer, Platone… op. cit., I, I p. 33-35, I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104], Platone fu un filosofo a tutti gli effetti proprio perché il suo essere tale giunse ad essere paradigmatico per l’intera filosofia in quanto egli ebbe accesso alla disciplina per mezzo di profondissime intuizioni visionarie che non sono affatto comuni tra i pensatori di tutti i tempi (specie quelli moderni) e che quindi sono restate uniche e mai più ripetute. E ciò peraltro sottolinea fortemente la centralità di quell’esperienza trasfiguratrice dell’Uno-Bene che lo stesso Yount pone in primo piano.
Pertanto, così come è un far ingiustamente torto a Platone il volerlo ridurre ad una sorte di campione del rigore filosofico razionalistico e laico (peraltro unilateralmente moderno), è senz’altro un far torto ingiustamente al suo pensiero anche il pretendere di riassorbirlo in una letteratura esoterista che è troppo eterogenea, vasta, confusa e spesso anche falsificante per poter rappresentare l’insuperabile genio filosofico del nostro pensatore.
È dunque in questo senso complessivo che, a nostro modesto parere, l’opera di Yount è di importanza davvero capitale nel contesto della moderna critica interpretativa al pensiero di Platone.

Read Full Post »

Com’è e cos’è veramente il mondo? È una domanda che ha da sempre ha assillato il filosofo.
Sembra aver assillato un po’ meno l’uomo comune, dato che costui cerca molto più di chiudere gli occhi sul problema. L’uomo comune può però essere molto più poeta che non filosofo. Ed allora possiamo dire che come poeta, egli sia interessato come il filosofo alla questione «mondo»?
Stando al «cos’è-veramente» il mondo, sembrerebbe che, come ipotizzato del resto da Platone, la poesia sia costituzionalmente incapace di dare una risposta alla domanda, e forse anche perfino di formularla. Eppure le cose non appaiono stare più in questo modo se si prendono in considerazione la poesia meno recente da un lato e la filosofia più recente dall’altro lato.
Si può avere quest’occasione mettendo a confronto due libri molto diversi, e cioè le Illusioni perdute di Honoré de Balzac e Il visibile e l’invisibile di Maurice Merleau-Ponty. Quest’ultimo è stato esponente di una forma abbastanza specifica del più recente realismo filosofico moderno. E cioè quello che si è sviluppato sulla base dell’idealismo fenomenologico husserliano, una volta avvenuta la sua interazione con l’esistenzialismo heideggeriano e sartriano. In estrema sintesi si può dire che Merleau-Ponty abbia sostenuto le ragioni di una «visione» umana puramente basata sulla percezione ed assolutamente fondamentale in una conoscenza sprofondata nell’esistere, e quindi nel mondo. Essa permette al soggetto cosciente-pensante di aprirsi al mondo in modo davvero incondizionato, e cioè restando totalmente immerso in esso. Una siffatta totale immersione appare però in filosofia concepibile solo dopo che siano state superate tanto la visione idealistica (Husserl) quanto la visione esitenzialistico-nichilista (Heidegger e Sartre). Per Merleau-Ponty, insomma, non basta né ridurre totalmente il mondo al soggetto cosciente (laddove la percezione viene totalmente oltrepassata) né basta concepire il soggetto cosciente come un assoluto nulla che faccia da costante contraltare al mondo (ossia l’«essere» stesso) in una totale commistione con esso. Egli definisce le due visioni da superare come “filosofia riflessiva” e “filosofia negativa”. Ebbene, in tal modo il mondo sta davanti a noi, quali soggetti, senza che più assolutamente nulla si frapponga tra noi ed esso. Noi infatti siamo sempre incondizionatamente immersi in esso, ed inoltre vi ci immergiamo sempre più ad ognuno dei nostri atti percettivi, senza che l’intreccio inestricabile che così sussiste possa essere nemmeno tematizzato. Qualunque presa di posizione che fa questo, agisce dunque astraendo dall’intima commistione con il mondo che coinvolge tutti noi, dall’uomo comune al filosofo. Per il pensatore francese, dunque, la conoscenza (in tutte le sue forme) può e deve essere assimilata totalmente alla percezione. E ciò implica peraltro l’assoluta legittimità delle apparenze mondane (null’altro che momenti costitutivi della percezione). Ne consegue che l’esistenza di illusioni non può in alcun modo (come è avvenuto spesso nella filosofia idealistica da Platone in poi) fondare un giudizio negativo sul mondo quale fondamentale «illusione». Da tutto ciò scaturisce allora che non solo non possiamo assolutamente porre in questione l’esistenza inoppugnabile del mondo (come era da sempre avvenuto praticamente in tutta la filosofia idealistica), ma soprattutto non possiamo sottometterlo ad alcun giudizio. Meno ancora ad un giudizio etico-estetico. Quest’ultimo appare essere infatti del tutto ingiustificato se non altamente ingenuo. E ciò non solo dal punto di vista filosofico-conoscitivo ma anche dal punto di vista esistenziale.
Eppure il libro di Balzac rappresenta forse uno dei più chiari tentativi di mostrarci la radicale dimensione del doveroso giudizio etico-estetico da emettere sul mondo. Il non farlo ci espone infatti fatalmente ad una catastrofica illusione. Accade cioè che noi scambiamo per bello, giusto e buono un mondo che è invece l’esatto contrario. Del mondo, insomma, esistono sempre due livelli di lettura: – quello superficiale e quello profondo. Ma solo quest’ultimo è quello autentico, dato che solo in esso ci viene rivelata la vera natura (negativa) del mondo che invece lo strato superficiale solo nasconde. Se ci affidiamo ad una lettura superficiale del mondo, noi insomma cadiamo miseramente vittima delle apparenze. Al centro del vasto affresco delineato dal narratore vi è la vicenda vissuta da Lucien, un giovane poeta di provincia, nel mondo letterario, giornalistico e editoriale, e sullo sfondo della Parigi della prima metà del secolo XIX. Tuttavia però le conclusioni indotte nel lettore dalla narrazione si prestano benissimo ad un’estensione ben maggiore del campo di osservazione. Per mezzo di essa noi abbiamo insomma la possibilità di gettare lo sguardo sul mondo e sull’esistenza umana una volta presi in assoluto. Come del resto accade sia con altri libri di Balzaz sia anche con l’intera narrativa francese dell’epoca, ci troviamo così davanti ad una vera e propria riflessione esistenzialista. Ed essa è di segno diametralmente opposta rispetto a quella di pensatori come Heidegger, Sartre e Merlau-Ponty. In essa infatti sembra permanere l’influsso profondo di quel dualismo idealistico di stampo platonico e metafisico-religioso (prevalentemente gnostico), in forza del quale noi del mondo dobbiamo farci appunto sempre una doppia immagine. La prima immagine è quella obiettiva e reale, corrispondente al mondo immanente e sensibile (naturale o storico che esso sia). E questa è decisamente sobria fino alla spietatezza pessimistica, in quanto in essa domina l’aspetto peggiore del mondo, ossia un mondo in primo luogo brutto (in quanto poi anche cattivo ed ingiusto). La seconda immagine è invece quella ideale. E questa ci raffigura un mondo totalmente buono, giusto e bello. È inutile dire che la prima immagine raffigura il mondo naturale, mentre la seconda solo il mondo sovrannaturale. È inoltre del tutto ovvio che la moderna sensibilità tende a non prestare alcuna fede a questa visione; in modo tale che ad essa è invece congeniale molto più la visione dei filosofi esistenzialisti. Vista però l’insistenza con la quale un poeta come Balzac ci mostra evidenze che in fondo tutti noi conosciamo benissimo, ci si può interrogare sul valore differenziale che hanno, per l’uomo moderno, la tradizionale visione poetica e l’assolutamente anti-tradizionale visione filosofica. Nel mondo specie del giornalismo e dell’editoria, il narratore francese ci mostra in effetti quell’aspetto assolutamente ferino della vita sociale e lavorativa (fatta di infamie, menzogne, tradimenti ed assassinii di ogni genere) che ognuno di noi si sforza di non perdere mai di vista allo scopo di non essere preso alla sprovvista. Dunque, per quanto possiamo protestare contro il dualismo moralista qui all’opera, tuttavia bisogna ammettere che in questo atteggiamento adoperiamo noi stessi una certa ipocrisia tendente all’occultamento. Noi insomma ci rendiamo di fatto complici dell’avvaloramento di quel livello più superficiale del mondo che è decisamente quello meno autentico.
Per questo è necessario che, almeno come intellettuali, noi ci interroghiamo sul vero senso della condanna della poesia che fu decretata da Platone nella Repubblica. Essa non tendeva infatti ad abolire la poesia esautorandola, ma semmai a correggerla e disciplinarla, in modo che non cadesse nell’arbitrio della fantasia soggettiva e soprattutto nell’irresponsabilità etico-politica. Lo scopo finale di quest’operazione era poi di fare in modo che la poesia stessa non intralciasse l’azione di quella filosofia alla quale veniva intanto affidato il compito di erigere esattamente il mondo buono, giusto e bello nel quale abbiamo visto credere fermamente un poeta come Balzac. Dunque se la poesia ha conservato fino al XIX (se anche dopo è per noi difficile dirlo!) una così platonica visione dualistica del mondo, e se in tal modo essa diverge nettamente dalla filosofia moderna, ciò significa che essa ha di fatto nel tempo interiorizzato la lezione di Platone. E questo offre allora all’uomo moderno – minacciato com’è proprio dall’urgenza di una non affrontata questione etica – la possibilità di porsi proprio davanti a questo genere di poesia apprendendo da essa quelle lezioni che sono in realtà più della filosofia antica che non invece della filosofia moderna.

Read Full Post »

Il libro di Wolfgang Smith dal titolo Christian Gnosis. From Saint Paul to Meister Eckhart (Angelico Press, Kettering OH 2008) è un testo davvero straordinario. In verità lo si inizia a leggere aspettandosi una storia del pensiero Cristiano (alla Gilson). Invece però vi si ritrova l’opera di un intellettuale moderno estremamente poliedrico e originale: – scienziato della cosmologia fisico-matematica quantistica e filosofo metafisico-religioso. È davvero difficile trovare oggi nel mondo un uomo di tale apertura e profondità mentale; specie se è uno scienziato della natura.
Ma tutto ciò è ancora più sorprendente visto che Smith ci parla proprio della Gnosi, ossia di una dottrina metafisico-religiosa che oggi non si sa nemmeno più cosa significhi. Eppure essa è estremamente attuale. Egli ce ne parla infatti come l’essenza della moderna filosofia idealistica, cioè quella secondo la quale il mondo esiste solo in quanto è conosciuto dall’uomo. Ed inoltre ci mostra che questo fondamentale «quoad nos» è in fondo anche il principio centrale della teoria della relatività. Eppure non è affatto questa la Gnosi che tutti noi anche solo vagamente conosciamo. La conosciamo infatti attraverso il filtro delle terribili lotte condotte dagli apologeti cristiani contro le eresie. Lotte che poco a poco si trasformarono in sanguinose persecuzioni, e cioè in raccapriccianti «auto da fé». In pieno Medioevo esse colpirono da vicino proprio colui che Smith pone al vertice della Gnosi cristiana occidentale, e cioè l’immenso Meister Eckhart.
Ma Smith ci lascia comprendere che, se la vera e propria Gnosi non ha mai per davvero costituito la vera identità delle eresie di ispirazione gnostica, essa non è mai stata nemmeno quella dottrina mordenzata e normalizzata dall’ortodossia dogmatica, che diversi studiosi moderni di Tradizione hanno voluto opporre a quella che sarebbe invece la «Gnosi integrale», ossia quella autentica.
Infatti, la dottrina della Gnosi (ed il relativo termine) appartiene in verità tutto alla filosofia ellenica pre-cristiana (prevalentemente platonico-pitagorica). E quindi da questa sfera di sapere essa è stata presa in prestito da tutti, incluse le eresie cristiano-gnostiche. Ma ciò che più conta è che, secondo Smith, il pensiero cristiano (ma ovviamente solo quello platonico) ha trovato proprio in questa Gnosi una dottrina filosofica che si attagliava perfettamente all’insegnamento di Cristo.
In questo senso, allora, il Cristianesimo è del tutto naturalmente una Gnosi, e senza alcun bisogno di finire per costituire un’eresia. E ciò significa quindi anche che l’attuale neo-pagana «Gnosi integrale» (postasi in diretta continuità proprio con le eresie cristiano-gnostiche) non ha alcun vero diritto di rappresentare la dottrina gnostica nella sua pienezza. In questo senso insomma la Gnosi cristiana inizia effettivamente con Gesù Cristo stesso, per poi trovare una prima poderosa formulazione in Paolo.
Tutto ciò è però del tutto secondario rispetto al ruolo che la Gnosi ha più che mai nel pensiero filosofico e nella scienza di oggi. E parlo con ciò da un lato del fondamentale idealismo filosofico, e dall’altro della scienza moderna più avanzata, ossia quella cosmologia fisico-matematica che ebbe il suo culmine in Einstein e poi ha continuato a fare passi da gigante. Ebbene, per quanto possa sembrare sorprendente, il nucleo di questa complessiva presa di posizione sta proprio nella tradizionale negazione della reale esistenza di un «mondo» da parte della Gnosi. Per la precisione si tratta della negazione di un mondo esteriore, a favore invece dell’ipotesi metafisica che postula l’esistenza del mondo solo nel seno del Principio divino. Quest’ultimo è pertanto un mondo puramente interiore, e dunque l’unico vero mondo. L’altro, quello esteriore, è invece il mero frutto di un’illusione («māyā»). E ciò vale anche per l’uomo stesso; che è vero solo entro l’interiorità divina. Tale dottrina si raccorda poi con l’idea secondo la quale l’Essere nella sua Totalità non è altro che il prodotto secondario di un fondamentale atto di auto-riflessione intellettuale da parte del Principio divino.
Tale approccio trovò la sua sistematizzazione entro i Vedanta, con il ben noto non-dualismo (teoria dell’«advāita») di Śankara. Poi esso è stato ripreso in pieno dal pensiero gnostico ellenistico-pagano, giudaico (Cabala) e cristiano. Ed infine è stato ripreso oggi da diversi studiosi di Tradizione (come Georges Vallin e LMA Viola). Ma intanto le sue tracce più o meno decise possono essere ritrovate nell’intero platonismo cristiano greco e latino – dalla Scuola di Alessandria (Clemente ed Origene), ai cappadoci (Gregorio di Nissa, Basilio e Massimo), ad Agostino; e poi fino ad Eckhart, al neoplatonismo fiorentino, a Cusano, a Giordano Bruno.
In termini filosofico-scientifici la negazione del mondo non è però né astrusa né astratta. Essa afferma infatti solo che, entro i termini propri della conoscenza umana (inferiore a quella totale-divina e quindi capace di vedere solo molteplicità ed opposti), il mondo ci appare inevitabilmente come esteriore a noi stessi (e quindi esistente indipendentemente da noi) esattamente perché esso è il frutto della nostra decisiva presenza di enti intellettuali. Il principale degli opposti mondani è quindi quello del soggetto conoscente umano opposto all’oggetto conosciuto. Ecco allora che l’uomo è sempre «testimone» («witness ») del mondo, e mai invece parte di esso.
Ma, nel momento in cui insorge la consapevolezza (filosofica e/o scientifica) di tutto questo, allora si delinea effettivamente anche una dottrina della «relatività» all’uomo conoscente da parte di tutto ciò che apparentemente esiste esteriormente. Einstein esplorò in lungo e largo tale relatività nella forma di correlazioni tra dimensioni che facevano giustizia di qualunque assoluta oggettività dell’esistente-esteriore. Ma non bisogna dimenticare che la Gnosi è sempre stata una dottrina dalla primaria portata etica. E quindi, se essa oggi rivive pienamente in un pensiero filosofico-scientifico avanzatissimo, ciò significa che anche quest’ultimo dovrà comportare una presa di posizione etica. In termini propriamente gnostici si tratta di un fondamentale e irrinunciabile pessimismo. Il suo fulcro è però gnoseologico. Si tratta infatti nel non prestare fede alcuna alla pur schiacciante impositività delle evidenze esteriori (in realtà mere apparenze). Tale pessimismo è quindi assolutamente sano. Lo è in quanto sta in linea con le più pregevoli tendenze dell’attuale consapevolezza umana. E lo è anche in quanto l’assetto attuale del mondo ci impone più che mai di prendere posizione in modo netto di fronte a tutto quanto ci è dato oggi di vivere; ossia qualcosa di così estremo, da non essere stato mai sperimentato dal genere umano.

Read Full Post »

Ho finito appena di ri-leggere L’età della ragione di Jean-Paul Sartre. Come accade spesso con questo genere di libri, io l’avevo letto in piena adolescenza ma solo a metà. Troppo angosciante per le mie inquietudini di allora. Però non mi ero mai rassegnato a fargli fare la fine del classico libro da collezione delle buone case borghesi – quella di non venire mai aperto. E così l’ho riletto e finito.
Il libro fa chiaramente emergere il Sartre esistenzialista. Sicuramente, insieme a Heidegger, uno dei maggiori. Ma diversamente da quest’ultimo, toccato direttamente dalla vita e dalla storia. Invece di mettersene scaltramente in salvo troneggiando sulla cattedra ed aspirando ad essere il Guru di una nuova era, tragica quanto eroica.
Ebbene, in tale costellazione, due sono le questioni (e forse domande) che il libro di Sartre lascia emergere: – 1) quella del senso e ruolo dell’esistenzialismo filosofico; 2) quella del perché si scrive e perché si legge un libro.
Partiamo dalla prima. Un libro oggettivamente devastante come L’età della ragione pone il lettore medio – non-raffinato e non-cinico letterato, quale io credo di essere – davanti alla terribile domanda circa la ragione di esistere di una simile letteratura. Che è poi la letteratura moderna nella sua più concreta essenza – fatta per descrivere l’autenticità esistenziale fino appunto alla «nausea». A volte poi (Joyce, Aragon) si aggiungono anche scelte stilistiche di scuola che spingono la materia narrativa in una tale astrusità da dover necessariamente scoraggiare il lettore appunto «medio». E diciamolo pure, in un certo senso letterariamente «ignorante». Non esito ad ammetterlo anche per me stesso.
Eppure un libro come questo merita, senza il minimo dubbio, di essere letto. Poco male se esso può spingerci sull’orlo del suicidio (com’è accaduto a me ieri sera dopo averlo chiuso). Il che implica che allora merita anche di essere scritto. E quindi Sartre non ha fatto male a scriverlo.
Proprio qui emerge allora l’«esistenzialismo» – filosofico solo nella misura in cui esso è autentico, e quindi reale, vissuto, prosaico, comune, umano. Insomma dell’uomo della strada. Io, tu, voi.
L’esistenzialismo ha insomma avuto il grande merito di dire finalmente tutto ciò che bisognava dire sull’esistenza, ossia sulla vita come tutti noi la viviamo nei fatti. E la vicenda di Mathieu, narrata in L’età della ragione, è emblematica di questo. Eccone solo alcune battute testuali, per realizzare come ciò che vive il personaggio è esattamente quanto tocca vivere ad ognuno di noi. Specie quando, con il procedere dell’età, si ritira e svanisce il tessuto smagliante della leopardiana giovanile illusione, lasciando così scoperta la sordida superficie non tanto della devastazione portata dagli eventi quanto della devastazione portata dalla percezione della nostra personale e sostanziale bassezza.
Chi aveva fatto della sua intera vita il culto stesso della «libertà», si accorge quindi che quest’ultima è tanto più priva di senso quanto lo è soprattutto la vita che la sorregge. Una vita che fatalmente procede fino al punto in cui si deve constatare: – «… è finita. Non aspetto più nulla»; «…ho finito col perdere il senso della realtà: non c’è più una cosa che mi sembri completamente vera»; «Chi sono? Che ne ho fatto della mia vita?». Di fronte a costatazioni così definitive Mathieu (l’uomo ormai «fregato») scopre che non si tratta di nulla di eclatante o tragicamente grandioso, ma invece appena di una prosaica miseria e sconfitta, pura normalità. Dopo la presa d’atto della quale non si può fare altro che vivere e basta («lasciarmi vivere»). L’autenticità è proprio questo presente ormai interamente prosaico. È il futuro ormai definitivo che spegne per sempre la tensione dell’«antico avvenire» dell’attesa giovanile. E l’esperienza che qui si fa è quella della pienezza assoluta del «nulla» terreno e del suo «vuoto» (il disfarsi del fascio delle cose intanto restate intatte ed ormai impassibili). Solo qui, dal futuro che guarda al passato, si comprende il senso dell’espressione destino: – «…la mia vita non è più che un destino». Ed è esattamente questo che significa anche l’espressione libertà – stare totalmente davanti a sé stesso, e completamente solo in quelle decisioni in cui nessuno può sostituirci. Dunque «libero in tutto». Era esattamente questo il motivo per cui, in Dostoevskij, gli uomini deponevano ai piedi del Grande Inquisitore quella terribile libertà della quale non sapevano che farsene. E così l’«età della ragione» consiste semplicemente nella costatazione che qualunque epicureismo o stoicismo non sono altro che il poter e voler gustare un’esistenza necessariamente sempre «fallita».
Così noi viviamo, e per questo viviamo. Non vi è dubbio!
Ma sta di fatto ciò che l’esistenzialismo ha gridato ai quattro venti, per mezzo della «letteratura» – cioè per mezzo dei testi che finiscono nelle mani di tutti, e cioè «i libri» quale narrativa (almeno fino ad un po’ di tempo fa) –, lo avevano già detto ben più sommessamente Platone, i neoplatonici, e soprattutto la Gnosi. Non a caso uno dei due versanti della filosofia di Platone può e deve essere considerata esistenzialismo puro. L’idealismo puro ne è solo l’altro versante. Ed è proprio per questo che egli è stato sempre accusato di «dualismo». Come del resto gli stessi gnostici. Accusati semplicemente perché dicevano la pura e semplice verità circa l’esistenza mondana. Nel mentre intanto suggerivano l’alternativa ultra-mondana
Ebbene, cosa resta oggi di tutto questo? E qual è allora il senso di una «letteratura» narrativa che si pone naturalmente nel solco dell’esistenzialismo?
Resta l’oblio di tutto quanto anticamente era stato vissuto, pensato, scritto e descritto. E compagna inseparabile di tale oblio è la Storia. Imperiosa e dominante quanto non mai. È la Storia colei che parla attraverso ciò che rende libri come questi un’esperienza ai limiti dell’intollerabile. La Storia come oblio dell’atto di esserci interamente consegnati ad essa. Dimenticando che noi (esistenzialisti) sentiamo, pensiamo e diciamo quello che sentiamo, pensiamo e diciamo, sostanzialmente perché siamo convinti (come l’imperio della Storia ci suggerisce) che al mondo non ci sia altro che questo. Insomma siamo fermamente convinti che ci sia solo il piano dell’esistenza (essere-esistente), e non invece anche il piano dell’ideale (essere-ideale). Ebbene, la consapevolezza simultanea di questi due piani era esattamente ciò che proteggeva l’integrità psico-fisica dell’uomo antico. E forse proprio per questo le durissime verità circa l’esistenza potevano essere pronunciate anche solo sommessamente, all’interno di circoli filosofico-iniziatici. Esse non avevano alcun bisogno di essere gridate ai quattro venti, come un indegno segreto che vada assolutamente svelato, come un bubbone che vada inciso o vada fatto scoppiare.
Ma oggi le cose si sono abbastanza complicate anche rispetto al tempo in cui Sartre scriveva questo libro (contemporaneamente alla guerra di Spagna e poco prima della II Guerra Mondiale). Anche se la condizione umana descritta è esattamente la stessa.
E cosa abbiamo oggi dunque in più, accanto alla bi-valente saggezza gnostico-platonica ed alla lucida quanto disperata autenticità esistenzialista? Abbiamo il menefreghismo cialtrone ed auto-soddisfatto, ossia quello che ci lascia crogiolare nel puro «divertimento» a qualunque livello.
Da quello della fruizione di libri o semplici scritti (senza alcuna profondità e pretesa, nonostante la loro apparente sofisticatezza), a quello della fruizione dei più disparati piaceri. Inevitabile allora l’insorgere di un atteggiamento di «scrittura», e connessa «lettura», che è ormai completamente diverso da quello che ho descritto con L’età della ragione. Insomma non ci si chiede più perché mai è stato scritto un libro che fa così tanto soffrire, e perché mai poi lo si sta leggendo. Non lo si legge e basta (anche se lo si legge)! O meglio lo sostituisce con ben altre letture. Oppure infine non si legge e basta – perfino quando si ha un testo davanti. Ed esattamente lo stesso di può dire dello scrivere. Dunque il corrispettivo speculare di tutto ciò può dunque essere una «letteratura» del tutto disinibita, del tutto leziosa (perfino quando descrive ciò che lo stesso Sartre descrive), del tutto calcolante (infallibilmente fiutante il ricavo prodotto dal sapiente titillamento dell’edonismo).
Ecco tutto. Non credo proprio di aver contribuito in alcun modo né agli studi su Sartre (e l’esistenzialismo) né a quelli sulla «letteratura». Mi sono limitato solo a proporre un’esperienza di lettura. Esperienza di lettura di libri che oggi quasi certamente non si leggono più o si leggono fin troppo meno e fin troppo peggio.

Read Full Post »

Credo che ci sia molto, ma davvero molto, nel film Padri e figlie di Gabriele Muccino.

Cero, si può anche avere qualcosa da ridire sull’impiego dello stereotipo dello scrittore-americano-di-libri, che poi sono per meglio dire romanzi, e precisamente romanzi da vendere. Mi sembra che il concetto di «libro» sia ben più ampio e denso di valore. Ma comunque questo può restare secondario.

Si può storcere il naso anche davanti a qualche altro stereotipo tipicamente americano ‒ magari, chissà, si tratta solo di espedienti narrativi. Ma non si può restare indifferenti davanti al nucleo più intimo della storia. Che non è nemmeno in generale il rapporto tra un padre ed una figlia, bensì il modo così facile con cui esso, cioè una relazione privata (e peraltro di immensa delicatezza e valore, e quindi da trattare con il dovuto rispetto), possa cadere sotto i feroci artigli di una Legge qui spudoratamente alleata a superficiali quanto disumani luoghi comuni di stampo capitalista. Che non è nemmeno la legge italiana, brancaleonesca, pasticciona ed inefficiente. Ma è invece la legge efficientissima della cultura di un pragmatismo cinico e sobrio (erede di tutto lo sprezzante sussiego scettico della Oxford e Cambridge). Quella che, in filosofia, è riuscita nell’intento di spazzare via perfino l’orgogliosissimo e dogmaticissimo pensiero europeo, sostituendolo con la tesi pseudo-liberale secondo cui dalla filosofia ci si debba liberare per consegnarsi armi e bagagli alla scienza empirista. Cioè dalla padella alla brace!

A me sembra proprio che per questo ci si debba decisamente indignare ed arrabbiare. Non per la filosofia ma per il nucleo della triste storia narrata da Muccino. Storia americana ma ahimè anche universale.

Ebbene, se questo era lo scopo di Muccino, direi che, almeno con me personalmente, egli l’ha raggiunto in pieno.

Il suo messaggio potrebbe essere infatti riassunto nella seguente proposizione ‒ «Siamo oggi davvero nei guai se si può anche solo ipotizzare che un giudice, in base a meri fatti (che in sé sono ben lungi dal poter costituire delle vere prove e non solo invece meri preconcetti ideologici), possa ritenere giustificato un processo contro un padre integerrimo per strappargli la figlia e consegnarla nelle mani di un’isterica alcolizzata e di un avvocato bellimbusto, arrogante e senza scrupoli. E solo e soltanto perché grondano di vile pecunia.

Mi sembra che, almeno per quanto riguarda il tribunale della più emotiva morale (quella che non può fare a meno di indignarsi e che quindi lo fa prima ancora di riflettere), questo sia l’aspetto del film che meriti di più di essere preso in considerazione.

Ciò anche perché sta di fatto che la lettura dei fatti può essere del tutto diversa, anzi radicalmente opposta.

Chi infatti condivide un certo ipocrita e puritano igienismo double-face statunitense (quello della «sicurezza» a tutti i costi mentre intanto un poveraccio può morire per strada perché non ha i soldi per l’assicurazione sanitaria), può ritenere del tutto giustificato diffidare pregiudizialmente di un padre ammalato (e precisamente del male infame per definizione, cioè l’epilessia, non a caso scambiato per «psicosi»), povero e colpito in più modi dalla sventura. E il «pregiudizialmente» comporta qui anche una colpa che non avrebbe alla fine nemmeno bisogno di essere provata. Tanto la bilancia penderebbe in partenza dal lato della colpa di colui che reca impresso nella sua carne a lettere di fuoco il marchio di infamia (capitalista-statunitense) di essere un looser. E looser lo si è tanto più quanto più lo si è per sventura. Il che, entro quella visione calvinista (lo sventurato è un peccatore!), equivale all’infamia ancora più grave di essere un looser per natura. Le parole provocanti dell’avvocato bellimbusto, gettate in faccia spudoratamente al padre disperato, sono emblematiche di questo, e suonano dunque più o meno così : ‒ «Siccome sei un disgraziato, e per di più malato, devi renderti conto che non sei tagliato per fare il padre».

Ma c’è un ulteriore particolare oltre questo. Il malcapitato è infatti uno scrittore. E lo è specificamente al modo di chi racconta storie di esistenze umane, con le loro emozioni, venture e sventure, ricchezze e povertà, vite e morti. Dunque alle sue già gravi colpe si aggiunge così non solo la colpa di fare un lavoro etico ‒ e non invece un lavoro (come quello di un avvocato di grido) in cui ci si può ritenere bravo nello svenare, senza battere ciglio e per contratto, poveri cristi sull’orlo del suicidio. Ma si aggiunge addirittura anche la colpa di possedere quella sensibilità in nome della quale si può passare la propria vita a sognare un mondo migliore. Che è poi esattamente quella sensibilità in forza della quale non si può evitare di indignarsi a morte per le così meschine, infime e disumane porcherie del mondo.

Dunque, a fronte di tutto questo, non ha davvero più alcuna importanza l’impiego del cliché dello scrittore-americano-di-libri. Anzi a questo anzi punto lo scrittore diviene l’emblema dell’estremamente necessaria critica ad un sistema, che è poi ormai ciò che ahimè dobbiamo definire come il mondo stesso. Entro di esso domina infatti la più spietata inumanità come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Essa è la legge stessa : ‒ la legge del successo a tutti i costi!

O meglio, detto, con le parole dello scrittore, la legge per cui «…ormai contano solo i soldi, e invece non più affatto cose amicizia, amore, fraternità». È chiaro che sono le parole di Muccino, queste, cioè di un italiano (e del Sud), di un europeo. Ma potrebbero ben essere anche le parole di uno scrittore americano di oggi. Uno scrittore in veste di testimone contro l’inumanità dell’odierno capitalismo senza volto e senza morale.

Ammesso che egli fosse davvero il prototipo etico che questo film mostra che comunque potrebbe essere. E quindi potesse essere davvero l’erede della missione di quegli Hemingway su cui egli tiene lezioni. E ciò ammesso che agli Hemingway si togliesse lo spirito trasgressivo ed iconoclasta (tutto sommato secondario e superfluo) e si lasciasse invece appunto solo l’inesausta attitudine ad incazzarsi, indignarsi ed alzare la voce. Molto più rilevante ed utile per come stanno le cose oggi

In nome di cosa? In nome dei sogni. Si in nome dei sogni! Quello della giustizia, come ben vide Platone (Repubblica), è infatti un sogno. Come tale prezioso, assolutamente prezioso. Così prezioso da dover fluttuare sopra le onde tumultuose della storia. A costo di albergare solo nel cuore dell’uomo più che invece nella realtà. È per questo che Platone ritiene che i discorsi sul «giusto, bello e buono» debbano essere scritti sono «nell’anima» e non invece sulla carta [ Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli 2008, XIII p. 275 ]

E quello è esattamente il posto dove i sogni di bene e di bellezza devono stare. Se poi li si mette su carta, direi, allora ciò non è autentico e non è onesto se non li si ospita prima e soprattutto nel cuore. Ad ogni scrittore, dunque, il suo interiore Tribunale.

Intanto però meno male che vi sono ancora anche scrittori, e non solo Presidenti di Tribunale che possano tranquillamente non pensare né con il cuore né con l’anima ‒ e peraltro essendo intanto certi di fare bene il proprio lavoro, e con il plauso di tutti gli igienisti ben pensanti.

E questo, ne sono certo, lo sottoscriverebbe in pieno anche il Dostoevskij di libri come i Fratelli Karamàzov, Delitto e castigo e Memorie di una casa morta.

Read Full Post »

Può un film offendere a morte lo spettatore con l’impertinenza sfacciata della sua così calcolata inautenticità? Purtroppo si. Lo può. Lo dimostra Youth di Paolo Sorrentino.
Ma per la verità ciò dipende strettamente dal tipo di spettatore. Cioè dalla sua adesione o meno al moderno conformismo estetico. Che nel cinema ha preso la forma di film destinati, per il solo modo (standard) in cui sono fatti, ad abbagliare talmente tale così diffuso conformismo da guadagnarsi da parte di critici e spettatori l’appellativo di “bellissimo”. E così finire quasi invariabilmente a Cannes o a Berlino.
Bellissimo!”. Un appellativo che è ormai divenuto un marchio inconfondibile. Per la precisione un marchio di infamia. Se dunque lo leggerete in una critica, vi consiglio di non andare a vedere il relativo film. Perché di certo ne uscirete disgustati. Ammesso, ovviamente, che apparteniate al genere di spettatore di cui parlo.
Ma disgustati da che? Appunto dal modo in cui il film è fatto. Che poi  vi rivelerà infallibilmente l’invisibile quanto miserevole canovaccio che vi è nascosto dietro. Quello dell’avere ben studiato, e dunque sapere come si fa ad agganciare il moderno spettatore. Come e dove? Per mezzo di un titillamento di sensi che avviene esattamente sotto la cintola.
In film di Sorrentino è gremito dei segnali-chiave (standard) per mezzo dei quali si ottiene il titillamento (vedi lo stupro matrimoniale della vecchia gallina britannica nel bosco svizzero).
Sorrentino, educato evidentemente alla moderna scuola della “scrittura creativa”, sa bene come si fa.
Ed ecco che i suoi film colgono il bersaglio essendo così di fatto invariabili in modo sconcertante. E quindi irritante. Il suo è infatti sempre lo stesso film. Ogni film è appena fotocopia di tutti gli altri.
Dunque sempre gli stessi titillamenti  : ‒ sonori (musica onirica….),  visivi (la famosa conturbantemente fascinosa “fotografia”), tematici (morbosità decadenti varie sullo stile, riletto, Montagna incantata) . E così sempre lo stesso estetismo maniacale e sempre ammiccante al decadente ed all’irridentemente surreale.
Moderno, molto moderno.
E proprio per questo soprattutto falso nei suoi contenuti. Che presentano non personaggi, non temi, non idee, non sentimenti, non visioni. Ma invece appena accortamente studiate allusioni. In filmografia le chiamano con sussiego “citazioni”. E le venerano. Un film, insomma, può al giorno d’oggi legittimamente essere fatto solo e soltanto di questo. Anzi sembra proprio che debba (ecco allora il “bellissimo!”).
Con il risultato di un assolutamente prevedibile ripetizione.
Si tratta quindi di poco più che trovate, se non bravate. Nella tipologia dei personaggi, nei dialoghi, nelle battute. Sorrentino riesce qui nel colpo di mano scenico di far addirittura assomigliare Michel Caine al perennemente jeratico Toni Servillo. L’aminismo facciale e corporeo è esattamente lo stesso. Ed il  messaggio (appena superficiale) di questa posa  vorrebbe essere  magari uno stupore attonito dell’anima.
Ma invece, esaminato con occhio sobrio (attento all’inautentico), è solo ciò che è, appunto appena amimismo. Senza senso, senza sentimento e senza profondità. È sempre lo stesso atroce e sguaiato quanto improbabile, ma soprattutto insopportabile, Jep Gambardella che si ripresenta in Sorrentino.
Solo trovate, dunque. E peraltro prive del sia minimo interesse. E soprattutto della sia pur minima credibilità. Come l’altro colpo di mano sorrentinesco del rendere i tre attori protagonisti (Caine, Keitel Fonda) esattamente simili a sé stessi , invece che ai personaggi  della storia (vedi la lobbia di Caine, che, in modo così scontatamente misero, fa molto più Graham Greene che non il musicista Ballinger!).  Come anche la massaggiatrice di vecchietti, indecisa tra l’amimismo servilliano (in versione da adolescente scocciato)e la vocazione al massaggio thailandese oppure alla danza balinese. Come gli impertinenti sorrisetti della faccia da schiaffi in veste di giovane attore americano, indeciso tra il Grande Fratello ed ubbie amletico-hitleriane da Bruno Ganz. Faccia da schiaffi che si permette perfino un certo élitismo superomistico  a fronte della bella ma ignorante Miss,  per poi essere trasmutato alla fine (nel concerto) un una sorta di fantastica ombra estatico-femminea  münchiana. L’ombra esatta di colui che (chissà chi l’ha mai suggerito a Sorrentino!) cita nientedimeno un Novalis che fa poi appello alla Patria celeste. Trovatissima, questa, ma di nuovo pochissimo credibile ed anche ipocrita. Visto che un film come questo con tutto ha a che fare tranne che con Novalis e la Patria celeste .
Vuoto, dunque. Desolante ed irritante vuoto.
Vuoto di un prosaico e prevedibile squallore rivestito di belle forme. Ma belle per davvero? No! Belle solo perché tirate a lucido, cioè imbellettate ad arte. E piuttosto atrocemente, peraltro, per un senso estetico attento alla profondità ed alla verità. Con la conseguenza di un’assoluta non continuità tra i contenuti ed appunto le forme. Ecco dunque da un lato delle mere, vuote, prosaiche e prevedibili banalità ‒ poco più che raffazzonate trovare sceniche, e sempre condite di un certo spirito irriverente ed iconoclastico, che è poi così à la page. Dall’altro lato una bellezza che non ha alcuna radice nei contenuti stessi.  Una bellezza appena strumentale, e così  vuota, appunto, di contenuti. Una bellezza floscia.
Essa è allora uno splendente velario disteso su carni putrefatte. Come le varie mimiche impertinenti che costellano questo film insieme ai soliti amimismi. Come la mani massaggianti che si compiacciono di richiamare alla vita ed al piacere le carni ormai prossime alla morte. Chiamandole così al piacere e non alla contemplazione.
E tutto ciò avviene ancora irriverentemente, impertinentemente, lascivamente, perversamente.  Come l’intero film! Senza alcun rispetto per quell’animico spirito che, al momento della morte, dovrebbe  liberarsi dalla prigione del corpo (Plotino) e ritrovare in pieno quella che è la vera gioia.

E tuttavia qualche concessione al film di Sorrentino si potrebbe anche fare. Anche se in via purtroppo solo ipotetica, dato che vi si oppone tutto ciò che ho detto finora. Ma soprattutto vi si oppone la trovata delle trovate. Artificiosamente  barocca quanto mai. Cioè quell’onirismo partenopeo-lazzaro così di bassa lega del finto Maradona. Se non fosse per tutto questo, dunque, la (per modo di dire) riflessione di Sorrentino sulla morte, e quindi sulla vita, potrebbe essere riconducibile perfino all’esistenzialismo filosofico. Quello, insomma, degli Heidegger, dei Sartre e dei Michelstaedter. La sua traccia in questo film è il fatticismo della carne disfatta come unica e sola verità finale. Compendiata poi in tante battute del film avanzanti la pretesa  di un sobrio e dolente autenticismo minimalista. Ma ahimè queste intenzioni si condannano da sole, e per lo stesso così studiato cinismo che le sorregge. Lo dimostra l’estetismo decadente nel quale ogni cosa scada. Esistenzialismo, insomma, solo per esteti senza troppe pretese.
Eppure, se solo si avesse l’umiltà di figurarsi cos’è per davvero la Bellezza…! Non certo quella venerea e fumettistica rappresentata nel film dalla procace Miss Universo che fa fremere i resti di tessuti erettili dei poveri vecchietti.
In ogni caso il tema così centrale degli erotico-agapici massaggi di carni sfatte potrebbe avere ben a che fare con questo. Solo che ci fosse nel film appena solo un pizzico di autenticità e serietà.

Di fatto, comunque, questo è il “bel cinema” moderno. Questo è quello che oggi ci viene dato in pasto per farci andare in solluchero con troppo facili mezzi. Quel film, si dice qui, che si opporrebbe alla televisione “che è merda!”. Figuriamoci !
A che lamentarsi, dunque. A che indignarsi. A che protestare. Non serve! Questi film piacciono. È incontestabile. Ed allora diciamo pure che io sono solo un cretino. Un vecchio cretino conservatore e moralista. E che quindi tutto ciò che è ho detto forse non conta nulla. Forse è meglio così!

Read Full Post »

È uno spettacolo davvero triste quello della cultura moderna.
Anche laddove si pensa di trovare calore, si finisce invece, infatti, per trovare solo un desolante gelo. È questo il caso anche del peraltro bellissimo, affascinante ed interessantissimo libro di Robert Graves, La Dea Bianca (Milano, Adelphi 2012).
Di esso ho parlato spesso ultimamente in questo blog e recentemente l’ho menzionato come un testo fondamentale per la critica a quella filosofia moderna che è avversa per definizione a tutto ciò che è insieme poeticità, religiosità e mitologicità del pensiero (vedi : “L’ignoranza della filosofia alla luce del linguaggio e del sapere religioso-mitico-poetico”). Eppure il libro alla fine delude cocentemente chi vi cerca un tesi pro-religiosa. Ed in questa recensione cercherò di spiegare perché. Ma prima di farlo vorrei porre a me stesso ed a chi mi legge una domanda. Perché mai sarà che, laddove nel passato così facilmente si trovava il sublime perfino poetico in una figura come quella di Gesù Cristo, oggi invece con la stessa facilità si trova in essa solo del ripugnante, dell’inautentico, del triste, del morboso, del decadente, se non del marcio? Basta prendere atto di come parlava di Gesù Cristo non un mistico ma proprio un vero e proprio poeta, come fu (per fare solo un esempio tra tanti) un Lope de Vega. (altro…)

Read Full Post »

Recensisco qui uno dei più bei racconti che abbia mai letto. Uno scritto che, come il “Periphyseon” di Scoto Eriugena, non può, dopo essere stato letto, lasciare la vita del lettore così com’era prima.
Esso rivela infatti all’uomo qualcosa di veramente fondamentale ed estremo.
Ciò innanzitutto per due aspetti generali del racconto, dei quali solo mi limiterò a trattare, dato che questo libro non può essere raccontato ma deve essere letto.
Il primo di tali aspetti generali è la descrizione dell’uomo nella condizione di decaduto all’altro mondo e caduto in questo mondo. Questo è l’uomo che aspetta e intanto ricorda. I suoi ricordi più lontani sono offuscati ma sensibilmente presenti. E la loro traccia tangibile sta nell’immagine sfuggente di una continuità ogni volta riannunciata da misteriosi “elementi”, che parlano dell’Oltre come se parlassero dell’Infanzia. Ce lo aveva lasciato indovinare anche Pessoa nel suo “Livro do Desassossego” : ‒ i ricordi che facciamo risalire all’infanzia risalgono in realtà molto più indietro. Essi risalgono ad un Oltre che sta alle nostre spalle ed è esattamente quel mondo dal quale, con tutto il cuore, non vorremo mai esserci separati. Ammesso che siamo veramente uomini, e non appena animali. Proprio da lì proviene l’Anima spedita sulla terra senza tanti complimenti dalla Natura, di cui parla Leopardi nelle sue “Operette morali”.
Dunque ricordi dell’Oltre come se fosse qui! Infatti è qui, ci suggerisce Eriugena.
Il secondo degli aspetti generali del racconto è quello di una storia che ha due letture parallele : ‒ quella sana e quella insana, quella realistica e quella visionaria. La prima induce ad un crudele e sobrio reaalismo pragmatico, e la seconda permette le più alte ed incredibili speranze.
Ebbene, le storie e le deduzioni sono entrambe vere! “Tutto è verità, tutto è menzogna”, udremo dire alla Fata delle Briciole.

La storia narra di un certo Michele, un povero malato mentale ospite del manicomio di Glasgow.
E si svolge tra Granville, in Normandia, davanti all’isola di Mont Saint-Michel, e Greenock in Scozia.
Di entrambe la storia ricorda molte cose reali (gli sbarchi dei Vichinghi, la Belle Epoque di Proust, l’ingegnere Watt, il pirata Capitan Kidd, la Scott’s che sfornava navi nell’ultima guerra, il D-Day…).
Ma Nodier ci fa capire che le due città rientrano in verità in un grande regno millenario, ancora oggi retto dalla bellissima Belkiss, nient’altro che la Regina di Saba, moglie di Salomone. Nulla di veramente diviso, dunque. Nel tempo e nello spazio. E tutto invece unito in viaggi straordinari.
Uno di questi quello promesso dall’inverosimile “vascello di nuova invenzione”, avveniristica nave ebraica pilotata da un capitano con sembianze a Michele curiosamente familiari (somigliava a quello che pilotava la nave nel cui naufragio egli era approdato a Greenock). Meraviglia dell’ingegneria navale destinata da Greenock ad un viaggio per canali sotterranei che l’avrebbe portata ad approdare dopo tre giorni ad Arrachieh nel deserto libico. La nave appartiene al Re Salomone stesso, Signore del Regno a cui appartengono anche Granville e Greenock.

Bene. Michele è ossessionato dal sogno illusorio di trovare la mandragora che canta ed in manicomio passa tutto il suo tempo a cercarla. In cuor suo, sul piano della realtà, sà bene che non la troverà mai, e così andrà incontro a quella suprema esperienza così descritta : ‒ “E là, all’ultima mandragora, cui resta ancora un fiore, quella che cadrà sotto l’ultima pressione delle mie dita e sarà muta all’orecchio, come la vostra, il cuore mi si spezzerà ! E voi sapete come l’uomo ami respingere fino all’ultimo limite, con la lusigna di una speranza a lungo cullata, l’idea disperata che egli ha sognato tutto….TUTTO ; e che oltre le sue chimere non è rimasto niente ….NIENTE!”. È terribilmente vero e lui lo sa. Anzi questa è l’esperienza più vera che un uomo mai possa sperimentare nella sua vita. L’esperienza veramente finale dell'”è ora!”. Dopo di essa nulla è più lo stesso, perchè tutto è definitivo. Vero come non mai.
Ma Michele sa in cuor suo anche che troverà per davvero la mandragora che canta. Lo sa su un altro piano, irreale ma non meno vero. E così sa che quel supremo momento è finale, ma nello stesso tempo non lo è. Solo in quell’estremo deserto potrà infatti cominciare la vera vita. Quella della totale dedizione a “fantasia” e “sentimento”, che è propria solo degli “eletti”. È la piena esperienza dell’Invisibile alla quale giunge solo chi non crede ad altro che ad essa. A costo di essere considerato pazzo e di esserlo in qualche modo davvero.

Tra le due polarità qui delineate c’è tutta la storia, che io non racconterò.
Dirò solo che alla fine della narrazione si comprende che esistono in realtà due racconti e non uno. Il primo è ormai alle spalle del lettore e del narratore, ed è ormai per sempre svanito. In esso vi sono Michele e la sua Fata delle Briciole, che altro non è la bellissima principessa Belkiss. E tutti i luoghi chel li conoscono bene. Nel secondo racconto c’è solo e soltanto il manicomio di Glasgow, dal quale pare che Michele sia fuggito in circostanze misteriose ed inspiegabili. Con un fiore in mano e cantando una strana canzone. Quanto al resto, i luoghi abitati dai personaggi del primo racconto, nessuno conosce altri che un pazzo ed una vecchia nana mendicante e storpia.
Non vale la pena di dire di più. Vale solo la pena di ricordare il medico che sembra un mastrogiorgio, un vero energumeno, e di cui Daniel Cameron dice che è venuto a Glasgow da Londra “per fare uno studio filantropico da applicare al progresso scientifico ed al miglioramento della sorte di tutti i malati dei tre regni”. Oltre la fantasia ed il sentimento, non c’è che questo, la scienza. Che per far del bene fà solo del male.

Solo due parole ancora su Michele e sulla Fata?
Chi è Michele, oltre che un pazzo?.
È chiaramente il tipo dell'”inerme” : ‒ l’innocente, l’ingenuo, il sognatore, colui che crede per tutta la sua vita solo e soltanto all’Invisibile. E che per questo pretende inflessibilmente dalla vita la felicità che effettivamente spetta agli uomini di diritto. La sola felicità che ad essi sia riservata. Ma che non si ottiene senza un’assoluta e fanatica fedeltà all’Irreale.
Proprio per tutto questo egli è un eletto, dunque un uomo assolutamente nobile. Ma proprio per questo è anche irrimediabilmente povero. Tutta la sua fede nell’Invisibile si risolve nella pura e semplice fede nel lavoro onesto, che altro non è se non “essere utile agli altri”. Piantare un albero, seminare un campo, costruire una casa, amare ed essere riamati ‒ queste le uniche cose per cui valga la pena vivere. Altro che filosofia e scienza!
Ma appunto l’amore!
La Fata è questo. L’amore vero e pieno. Quello della Donna delle Donne, la conturbante principessa Belkiss che si fa mendicante per stare accanto ad un insignificante ragazzo. Che però è tutt’altro che comune. È l’inerme. L’una e l’altra, i migliori tra le donne e gli uomini. Ma anche i più condannati all’insuccesso. Un insuccesso assoloutamente salutare.

Basta non dirò di più. Leggete il libro!
Tra l’altrro in molti suoi punti somiglia straordinariamente Victor Hugo.

Read Full Post »

Abstract.

In questa recensione del “Diario intimo” e dei “Pensieri” del poeta francese Sully Prudhomme prendiamo in sintesi atto della rilevantissima evidenza di una riflessione filosofica entro un discorso sostanzialmente poetico.
Nonostante sia poetica, tale riflessione non ci sembra però affatto per principio non-filosofica , anzi essa appare essere per certi versi ancora più profondamente pensante di quella della filosofia pura. Ma proprio in quanto alternativa di pensiero, essa appare anche essere connotata da un atteggiamento naturalmente critico verso quest’ultima, o almeno sembra poter essere  il campo di possibili deduzioni in questo senso. E ciò a partire da una posizione in cui la dimensione del sentimento viene significativamente opposta a quella del pensiero, ma senza affatto ambire a sostituirlo.
In ogni caso l’intensa riflessione filosofica da noi riscontrata nei testi di Prudhomme (specie intorno a temi prossimi alla Fenomenologia ed alla dottrina dell’Essere) ci sembra supportare un’ipotizzabile posizione filosofico-poetica connotata da una rilevante tendenza ad un Realismo oggettivista, ma affatto in senso riduzionista. E tale posizione, squisitamente filosofica, ci sembra di grande rilievo nel panorama filosofico moderno. Essa sembra infatti affiancarsi naturalmente al Realismo religioso, fortemente prossimo alla metafisica, che nell’ultimo secolo ha assunto una posizione fortemente critica verso il tendenziale soggettivismo del pensiero moderno.
In particolare ci sembra che entrambi i realismi (nel generale recupero del valore del concetto di un “mondo fuori di noi” ed in generale dell’oggettività) valorizzino quella posizione naturalmente ingenua dell'”uomo comune” che troppo è stata disprezzata e stigmatizzata dal pensiero moderno.
Sia su questa base che inoltre sulla base delle evidenze riscontrate direttamente nella riflessione di Prudhomme, ci sembra infine che nel complesso la posizione filosofico-poetica si approssimi fortemente alla metafisica religiosa.
Pertanto, anche in relazione a nostri altri recenti studi, diremmo che tale prospettiva può essere considerata occupare una “terza posizione” (appunto molto prossima a quella della metafisica integrale) in uno scenario di pensiero nel quale teologia, fede e sentimento, si oppongono polarmente a filosofia, ragione ed intelletto.

Testo.

Crediamo si possa senz’altro dire che tra i tanti filosofi-poeti che hanno costellato la storia della letteratura vi siano forse i migliori filosofi. E ciò molto probabilmente perchè essi filosofi puri non lo sono.
Di questo bisogna tenere conto davanti alla famosissima severa condanna contro la poesia che fu pronunciata da Platone nella Repubblica. E però tale condanna va lasciata in tutto il suo valore, ed affatto revocata, in quanto le sue motivazioni (vedi María Zambrano, Filosofia e poesia, Bologna : Pendragon 2010) andarono molto probabilmente molto al di là delle apparenze. Non si trattava in realtà di opposizione pregiudiziale alla poesia, ma molto più del porre in primo piano le esisenze di una paideia finalizzata alla morale politica come interesse primario della filosofia. E ci sembra che la recente scoperta (Giovanni Reale Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte, Milano: Bompiani 2010) di un Platone legato nel suo pensiero più all’oralità che non agli scritti confermi che questi ultimi obbedirono forse a scopi solo marginali rispetto a quelli invece ben più profondi affidati all’insegnamente orale.
Del resto ciò appare ulteriormente confermato da un’altra deduzione possibile sulla base dell’investigazione del Reale (Giovanni Reale Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte,IV, XVI, p. 513), e cioè il fatto rappresentato dall’assoluta secondarietà, secondo Platone, della creatività artistica rispetto all’autentica onto-creatività concepibile solo al livello del vero soggetto creante, cioè l’Assoluto.
Solo a questo livello si può parlare infatti di un Essere “vero”, e come tale anche autentico creatore. Si tratta del livello ideale, anche se al di sopra di esso c’è collocare ancora il livello del vero Assoluto, e cioè quello dell’Uno. In ogni caso il “vero essere” è da collocare al livello delle idee, mentre alle “cose” corrisponde appena un essere apparente. Il livello intermedio tra i due è proprio quello artistico, per il quale si può parlare solo di un “essere debole”. E pertanto, a livello creativo, si può parlare solo di una mera “riproduzione”.
Se dunque si tiene conto dell’autentica “cosmolatria” dello spirito greco nel suo osserssivo umanesimo (Fritjof Schuon, Logica e Trascendenza, Roma : Mediterranee 2013, p. 146-147), si può comprendere facilmente la preoccupazione pedagogica di un filosofo che intendeva scongiurare la così forte tendenza ad umanizzare il divino identificandolo alla fine interamente con l’umano
Non è pertanto per nulla improbabile un Platone che, in fondo, non condivida lui stesso la condanna decretata contro la filosofia.
Del resto sarebbe difficile credere il contrario, visto che il filosofo ateniese è riconosciuto unanimemente dagli studi tradizionali come un filosofo squisitamente “esoterico” (Fritjof Schuon, Logica e trascendenza ; L.M.A. Viola, Religio aeterna, Forlì  : Victrix 2004)  e quindi prossimissimo alla “metafisica integrale” (Georges Vallin, La prospettiva metafisica,  Forlì : Victrix 2007). E quest’ultima può essere considerata come a sua volta estremamente prossima alla filosofia-poesia almeno nella posizione che essa occupa riguardo alla filosofia pura (Vincenzo Nuzzo, Fritjof Schuon, La logica del Trascendente, in : https://cieloeterra.wordpress.com 2014).
Il punto centrale delle nostre riflessione su alcuni testi di Prudhomme ( Sully Prudhomme, Diario intimo ; Pensieri, in : Sully Prudhomme. Premio Nobel per la Letteratura 1901, Milano : Fabbri 1965) sarà pertanto proprio questo : ‒ la filosofia-poesia è, in certo modo ed in un certo senso, un’anti-filosofia. Ma (come abbiamo dimostrato nel saggio or ora citato), esattamente come accade per la metafisica integrale, ciò non significa affatto che essa sia una non-filosofia, e cioè che essa rinunci a pensare. In questo possiamo e dobbiamo confermare la nostra affermazione iniziale : ‒ i filosofi-poeti sono forse proprio i migliori filosofi.
Il perchè vedremo di chiarirlo commentando i testi di Prudhomme.
Del resto, comunque, basta solo fare dei nomi per riuscire subito a convincere chi d’istinto trovasse inusuale questa tesi : ‒ Virgilio, Dante, Giordano Bruno, John Milton, Blake, Goethe, Novalis, John Keats, Leopardi,  Hölderlin, Nietzsche, William Butler Yeats, Pessoa, Yukio Mishima….
In ogni caso si può dire che essi abbiamo abbondato soprattutto nella modernità, e ciò non è affatto strano se si considera il tradimento della originale ed originaria vocazione della filosofia entro il pensiero moderno (Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Torino: Einaudi 2010 ; Vincenzo Nuzzo, “La ‘filosofia antica’ di Hadot è veramente antica?”, in : https://cieloeterra.wordpress.com 2014).

Ma vediamo subito cosa possa significare essere filosofo-poeta alla luce del significato che ciò ha avuto nella vita ed opera di Prudhomme (Gabriel d’Aubaréde, La vita e l’opera di Sully Prudhomme, in : Sully Prudhomme. Premio Nobel per la Letteratura 1901, p. 23-45).
Prima però di addentrarci in queste precisazioni, dobbiamo far rilevare che tale significato corrisponde del resto impressionantemente a quanto abbiamo sostenuto anni fa in un nostro saggio (Vincenzo Nuzzo, Domani io tornerò.  In: https://cieloeterra.wordpress.com 2004). Il poeta-filosofo corrisponde ad una tipologia antropologica psicologica e spirituale che noi in molti nostri scritti abbiamo descritto come l'”inerme”. Le sue caratteristiche sono molteplici (in primis, com’è ovvio dalla definizione, vi è quella dell’inoffensività) ma quella che deve risaltare qui è soprattutto quella dell’essere di fatto un “non nato”, ossia, in parole povere, un uomo che non è di questo mondo. Caratteristica che è poi connaturata al poeta (Vincenzo Nuzzo, Il poeta, un fesso che ascolta. In: https://cieloeterra.wordpress.com 2004), che impresta alla tipologia qui delineata la fondamentale caratteristica  del recare nel proprio intimo una ferita profonda ed inguaribile (la quale rende impossibile accettare il mondo così com’è eppure rende capaci di amarlo in un modo che non ha pari ‒ e la psicologia fa qui solo un volgare riduzionismo banalizzante parlando di cose come “ferita dei non amati” e “puerilismo” : ‒ Peter Schellenbaum, La ferita dei non amati, Como : RED 1995; Marie Luise von Franz, L’eterno fanciullo, Como : RED 1989). Il che implica l’essere ad un tempo ingenuo, introverso e cronicamente diverso e disadattato rispetto alle diverse condizioni medie dell’umanità e della mondanità. Una delle conseguenze di ciò è il dominio nella sua vita psichica e spirituale di una passionalità sentimentale (propria del poeta) che gli impedisce di darsi a qualunque forma di logica rigorosa. E ciò lo rende per definizione inadatto alla filosofia intesa come incentrata su questo tipo di logica. Affatto però inadatto alla filosofia. Infatti, come dimostrato da Schuon (e nella nostra recensione di commento), la filosofia, ancor più se autenticamente metafisica (e come tale forse ancora più intensamente e genuinamente filosofica), non manca nè di intellettuale nè altresì di logica.
Da tutto ciò emerge comunque che la condizione del filosofo-poeta non può non andare di pari passo con un determinato genere di attitudine esistenziale. Attitudine esistenziale che poi si rivela decisiva nella sua presa di posizione verso la filosofia.
Nell’introduzione ai suoi testi da parte del D’Aubaréde tutto ciò emerge piuttosto chiaramente per Prudhomme. Una sua sintetica affermazione lo dimostra più di ogni altra cosa : ‒ “Sono poeta, sono filosofo? Ringrazio Dio di non avermi mutilato per fare di me l’uno e l’altro”. La filosofia pura è dunque mutilazione dello spirito. Come non concordare visto che la filosofia del puntiglioso rigore,  insiste tenacemente sulla sistematica restrizione di orizzonti per prevenire un loro allargamento, sentito come pericoloso in quanto “non scientifico” (ne fa fede quella moderna filosofia accademico-canonica che proprio questo richiede nel giudizio circa l’adeguatezza dei temi trattati)?
Il primo tratto della filosofia-poesia, così come qui delineatosi, appare essere dunque quello dell’ampiezza di orizzonti dello sguardo. Sguardo, ovviamente, tanto più intellettuale quanto più poetico.

(Il resto dell’articolo, di 14 cartelle, sarà volentieri messo a disposizione dall’autore in copia cartacea a chi lo richiedesse)

Read Full Post »

Abstract.

In questa recensione del libro di Fritjof Schuon dal titolo “Logica e trascendenza” si sostiene la tesi centrale secondo cui la filosofia avrebbe moltissimo da guadagnare nell’aprirsi onestamente, coraggiosamente e rispettosamente al messaggio esposto in esso. Tale messaggio è assolutamente multiforme, anche se può essere riassunto nell’affascinante tesi secondo cui la conoscenza dell’Assoluto più Ineffabile (la cui esistenza è peraltro colta pienamente solo da un pensiero aperto senza pregiudizi alla dimensione esoterico-misterica) è assolutamente alla portata dell’Intelletto umano. Il che rende poi del tutto plausibile una logica assolutamente ineccepibile del Trascendente, anche se esclude decisamente come praticabile, valida, e soprattutto come paradigmatica, la logica (qui giudicata appena inferiore) impiegata usualmente in modo intollerantemente dogmatico da ciò che viene qui deplorato come “razionalismo”.
Il risultato ultimo del libro è l’attarente prospettiva di una felice riconciliazione tra ragione e fede. Ma ciò avviene nel contesto della configurazione di una vera e propria, per così dire, intelligenza di fede, la quale a nostro avviso è proprio quanto, nell’interezza dei suoi aspetti, potrebbe offrire alla filosofia una serie di lezioni che non puntano affatto al suo impoverimento bensì semmai al suo arricchimento. Tutto ciò presuppone però come presupposto indispensabile la rinuncia della filosofia all’intollerante orgoglio che essa si attribuisce quasi per statuto identitario, e che costituisce un ostacolo assolutamente insormontabile alla possibilità che essa possa ammettere lezioni esterne al suo ambito e sfera di dominio. Meno che mai tali lezioni possono essere ammesse, se provengono dall’ambito di quella metafisica integrale della quale qui ci sembra che Schuon rappresenti in pieno lo spirito ed i contenuti dottrinari. Sebbene a partire da un punto di vista affatto universalmente condiviso in questo ambito di conoscenza.
Ebbene la nostra recensione può essere intesa propri come la consegna di questo prezioso libro nelle mani dei filosofi da parte di un metafisico integrale. Il risultato di tale offerta deve necessariamente essere considerato come aperto a qualunque sorpresa, eppure l’esito più prevedibile non potrà che essere quello di un reciso rifiuto. Speriamo comunque che almeno per alcuni filosofi ciò possa non accadere.
Testo : Introduzione.

Si può immaginare il libro di un anti-filosofo che possa giovare più ai filosofi?
Ebbene, se ciò è possibile, Logica e trascendenza di Fritjof Schuon (che d’ora in poi indicheremo con la sigla LT) è proprio questo. Un libro, diremmo, che ottimamente comparirebbe nel curriculum formativo dei giovani filosofi.
Questo ammesso naturalmente che la filosofia sia capace di autocritica, cosa che però è ad essa impossibile proprio per statuto. È quanto abbiamo spesso avuto modo di rilevare e far notare come “orgoglio filosofico”.
Sappiamo bene che ci sono molti, filosofi per professione o solo simpatizzanti, che si ribellano indignati contro una tale definizione. Essi infatti sono disposti a credere nelle fondamentali buone intenzione di quell’orientamento di fondo della filosofia come istituzione conoscitiva, che tende a delimitare piuttosto nettamente il sapere (o anche sapienza) dall’ignoranza.
Noi invece non siamo affatto disposti a credere in tale buona fede, e riconosciamo pertanto, in tale orientamento di fondo della filosofia, molto più quell’orgoglio tendenzialmente dogmatico che lo stesso Schuon lascia più volte emergere nella sua investigazione. E che poi non è altro che attaccamento volitivo, ovvero bramoso, all’esteriorità specie nella forma dell’esigente ego che appunto caratterizza la stragrande maggioranza dei filosofi.
Preso atto della vanità della nostra aspettativa di possibile accettazione di LT da parte dei filosofi, va comunque brevemente descritto lo scenario storico-pragmatico in cui tale fenomeno si colloca.
La filosofia ormai incapace di autocritica è infatti nello stesso tempo una filosofia divenuta incapace di essere “vita” (come rilevato da Hadot per alcuni aspetti e per altri aspetti rilevato da noi stessi extrapolando le tesi di Hadot stesso) (Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Einaudi : Torino, 2010; Vincenzo Nuzzo, La “filosofia antica” di Hadot è veramente antica?, in : http://cieloeterra.worpress.com), una filosofia divenuta ristretta nel suo rigore nei termini di rifiuto dell’estensione del suo sapere alla cultura generale, ed infine una filosofia definitivamente istituzionalizzatasi come puro insegnamento.
Tutto questo trova un preciso riscontro nella riflessione di Hadot sui caratteri della transizione da filosofia antica a moderna. Per quanto comunque la filosofia antica possa essere stata molto diversa, sta di fatto comunque che la filosofia moderna è proprio così. E come tale essa si discosta in modo ormai drammatico dall’ipotetica immagine di una filosofia ideale e cioè presumibilmente corretta, così come essa emerge proprio nel contesto della riflessione di uno studioso come Schuon. Ebbene quest’ultima ha ottime probabilità (sebbene prendendo le dovute precauzioni, che qui non mancheremo di esporre) di coincidere con la filosofia antica.
È su tale base complessiva che può si può prendere atto della vera e propria difesa d’ufficio della filosofia (nei termini dell’ambizione al raggiungimento di un finalmente felice equilibrio tra ragione e fede) svolta da Schuon, pur essendo egli tutt’altro che un filosofo per scelta. Egli invece è chiaramente un metafisico ed un uomo religioso, ma proprio in tale veste egli fa una perorazione molto intensa dell’intelligenza a fronte di una fede che pretenda invece di escludere la ragione. E più volte rileveremo che, se è la teologia il primario accuato di tale pretesa, la filosofia non manca di prestarle in questo il suo braccio, sebbene non senza una certa maligna e distruttiva soddisfazione.
In ogni caso comunque la difesa di ufficio dell’intelligenza (ed anche della filosofia, sebbene spesso solo indirettamente) non può che ricondurre alla mera pura filosofia se essa non è congiunta ad un forte tentativo di riconiugazione della ragione alla fede. Il che implica il ripensare l’intelligenza proprio come intelligenza di fede in termini primari. Cosa che, per la filosofia, ha la conseguenza intanto di porre come legittimissima una nuova prospettiva teologico-.filosofica, ma soprattutto di istituire una filosofia apertamente religiosa come autentico volto della filosofia.
E diremmo che in questo consiste in definitiva la lezione impartita da LT ai filosofi. Ma così ritorniamo all’indisponibilità certissima di questi ultimi di trarre vantaggio da una lezione così stravolgente com’è questa.

Chiarito preliminarmente tutto questo possiamo addivenire alla presentazione quanto più sintetica possibile delle tesi esposte in LT.
………

(Il resto del testo, costituito da 39 cartelle, può essere richiesto direttamente dagli eventuale interessati all’autore, che sarà lieto di inviarlo in forma cartacea)

Read Full Post »

“Il venti di luglio”.
Tre racconti in un solo straordinario intreccio dallo scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia.
Il tema è storico-politico, sia pure con sfondi politico-metafisici. E lo è nei termini dello “scottante”, sebbene, così come trattato dall’autore, in modo assolutamente indifferente a ciò che oggi tende a “mettere in imbarazzo” la coscienza collettiva.
Non caso l’autore ha scritto un altro libro,  “Un sogno in rosso”, dedicato ad una condanna ideologica diametralmente opposta a quella de’ “Il venti di luglio”. Lì la condanna del marxismo leninista, qui la condanna del nazi-fascismo.
Così in questo libro vi sono temi critici largamente condivisibili, come un certo ecologismo animalista, l’esortazione alla compassione, l’anti-nazismo e l’anti-antisemitismo. Ma, sebbene profondamente sentiti dall’autore, essi sembrano costituire solo il prestesto per un discorso ben più profondo e scomodo. Un discorso per il quale sembra essere essenziale qualcosa di invece rarissimo ai nostri tempi, e cioè l’autonomia (del giudizio e del sentire) da quelle che oggi rappresentano delle vere e proprio “parole d’ordine morali”. Esse dettano infatti, come un vero e proprio canone, le cose verso le quali bisogna indignarsi e le cose verso le quali invece non bisogna indignarsi.
Con ciò siamo nel pieno del sinistro scenario orwelliano, rispetto al quale però Lernet-Holenia sembra intendere prendere decisamente posizione.
E così i tre racconti possono essere visti come espressione di un nucleo centrale e di fondo, che è poi il tratto portante dell’intera critica storico-politica, storico-sociale e di costume, che in essi viene esercitata. A me sembra che possa trattarsi di una vera e propria decisa condanna della moderna degenerazione e disintegrazione delle civiltà e società umane. Ed il tratto principale qui ne viene messo in luce è proprio la regressione dall’umano al bestiale.
Lernet-Holenia non dice nulla di ciò che ricorderò adesso, eppure mi sembra che uno dei momenti principali di questo processo sia stato proprio la totale laicizzazione rivoluzionaria della società.
Ce ne dà un’immagine quel Lacordaire di cui andiamo parlando negli ultimi, giorni, cioè un uomo che si sforzò di essere insieme liberale e profondamente cattolico, cosa che ai suoi tempi era divenuta quasi impossibile. Ed ecco la sua desolata costatazione : ‒ “Che fare in un paese, nel quale la libertà religiosa, ammessa da tutti come un principio sacro del mondo nuovo, non poteva proteggere nel cuore di un cittadinoi l’atto invisibile di una promessa fatta a Dio e nel quale questa promessa, estorta dal suo seno mediante interrogazioni tiranniche, bastava per strappargli i benefici del diritto comune! Quando un popolo è arrivato al punto che ogni libertà gli pare il privilegio di chi non crede contro chi crede, si può sperare di ottenere alcunchè e non bisogna disperare di vedervi mai regnare l’equità, pace, la stabilità e una civiltà la quale sia altra cosa del progresso materiale?” (Il testamento di Lacordaire” Bari: Paoline, 1964, pag. 84).
Sicuramente si tratta con ciò della denuncia, che da settimane andiamo facendo, dell’esistenza di un vero e proprio Tribunale di Inquisizione del laicismo, che proibisce severamente ogni pensiero autenticamente religioso.
Ma attenzione ai termini! Qui si parla proprio di “civiltà”. E quindi siamo nel pieno della ben più ampia denuncia fatta qui da Lernet-Holenia, un’ampia denuncia contro i paradossi di uno spirito moderno che, proprio volendo puntare parossisisticamente al progresso, ottiene invece solo la regressione.
E del resto, come constato da Ernst Jünger in “Über die Linie“, quali sono le forze protettive da porre in atto contro il nichilismo se non proprio quelle teologico-religiose? (altro…)

Read Full Post »

Ripeto qui, tutto sommato, le considerazioni fatte in questo blog, a proposito di un altro film classificato come “bellissimo”, e cioè  “Shame”, di Alexander McQueen (con “il mitico” Fassbender).

Ebbene, cosa significa il film “La Grande Bellezza“? E cosa significano l’Oscar che ha ricevuto e tutta la letteratura che c’è dietro? Ed infine cosa significano persone (artistiche!) come Paolo Sorrentino e Toni Servillo?

Attenzione, non sto interrogandomi sul suo (loro) valore. Non sono un critico cinematografico nè letterario, cioè non sono un “tecnico” (e nemmeno vorrei esserlo), ma solo uno che non può proprio fare a meno di pensare.

E solo per questo mi interrogo.

 

L’alone di ancora circospetta ma tangibile ammirazione che circonfondeva il film ed il suo autore già in fase pre-Oscar generava in me un inesprimibile ed incomprensibile disagio, al quale solo adesso riesco a dare un volto ed una voce (dopo aver visto ieri il film su Canale 5).

Eccolo dunque il mio disagio.

Perchè film e storie come queste generano un così facile e diffuso consenso? Perchè una tipologia filmica e topos letterario come un Jep Gambardella, e tutto ciò che gli gira intorno, può slatentizzare un tale fervore artistico?

Non riesco a trovare altra risposta che questa (almeno in termini di storia dell’arte) : trattasi di naturalismo, o meglio verismo!

Sembra che dalla metà del secolo XIX in poi il gusto non si sia più discostato da questo valore, sebbene con oscillazioni e differenziazioni. E sì che già Gončarov, per bocca del suo Oblomov, aveva espresso tutto il suo amaro scherno verso questo gusto (vedi la recensione del libro in questo blog).

E però eccoci ancora qui a soffermarci nel contemplare, nella forma della bellezza artistica, la raffigurazione filmica della peggiore abiezione umana. Ancora più abietta in quanto sorgente proprio sullo sfondo della Bellezza come tema e come possibile oggetto di contemplazione.

Perfettamente riflesso tutto questo nel commento-tipo : Un film bellissimo!”

Ma,si dirà, qui si tratta di catarsi, cioè della raffigurazione del brutto e del cattivo allo scopo della catarsi! Erano esattamente i termini del discorso di cui  Gončarov si faceva beffe. Le stesse critiche a questo genere di gusto e metodo artistico sono state espresse da Pitirim A. Sorokin nel suo “La crisi del nostro tempo”.

Ma, oltre questo così generale, in “La Grande Bellezza” ci sono anche altri ingredienti, e cioè soprattutto quello della prevedibilità.

Spiegherò tra poco cosa intendo con questo. Ma intanto sofferiamoci ancora un po’ sul commento-tipo  Un film bellissimo!”. Autentico, ovvero oggettivo, o invece frutto di un’orchestrazione dominata dalla prevedibilità? E quindi studiato, voluto, premeditato.

E dunque questo commento-tipo è un segnale prezioso per capire

Pare che Sorrentino stesso abbia invocato così i critici : ‒ “Abbandonatevi al mio film, ne resterete coivolti!”.

Perchè? L’impiego sapiente, anzi scaltro se non  cinico, della prevedibilità è sempre sicuro dei suoi risultati.

Ed infatti tutto in questo film rimanda alla prevedibilità.

Il tema “Roma e la bellezza” oggetto di citazione e non di invenzione! Tutto già visto : la Roma di Fellini (La doce vita), dei Mastroianni etc, dei vitelloni, della Ekberg alla fontana. E cosa può solleticare più di questo le parti basse del pensiero filmico dei cinefili più stranieri che nostrani?

Il tema “Roma ed il marciume italico”. Anche questo un molto antico oggetto di artistica riflessione critica. Dalle ponderazioni vendicative di un Arminius, all’anti-romanismo luterano, a quello della letteratura morboso-rinascimentalista (Borgia, etc.), al peloso risorgimentalismo di Porta Pia, al padanismo bossiano. E dentro il calderone vi anche il moralismo “prude” della più oltranzista sinistra italica nella sua polemica anti-primarepubblica (vedi l'”Andreotti” ….. sempre con l’eterno Toni Servillo) condotta sul piede di guerra al lato delle falangi della magistratura rivoluzionaria.

Il tema “abiezione umano-urbana d’alto bordo”. Tema di elezione per la più sofisticata filmografia americana dello sfasciume, l’unica che si salvi dalla piattezza desolante della cultura filmica, e non solo, di quel paese (e vedi dunque tutti i suoi vari dolentissimi Sean Penn, appunto “disperati” proprio “à la façon” de Paul Sorrentinò, cioè praticamente “à la carte”, oppure “comme vous voulez, s’il vous plaît”)

Il tema “Napoli in Roma”. E quanti miti viventi ci sono dentro : ‒ De Sica, Totò, Eduardo, La Capria…! E quanti ex-avvocati e commercialisti, ora parlamentari, oppure ancora attuali avvocati o commercialisti di grido, fregiatisi poi di tanto di “studio-a-roma” e quindi abituali viaggiatori di Freccia (o feccia?) Rossa ovviamente-in-primissima-classe e “noise-free”. Tranfughi, da un certo punto di vista, ma in fondo portatori in Roma sempre della quintessenza della partenopea “cazzimma”. Sempre ironicissima

Emblematico qui il Toni Servillo, l’Eterno!

Quintessenza anche lui, non solo della partenopea “cazzimma” (sebbene, per molti versi, trasfigurata in effettiva e riconosciuta bravura), ma qui molto più proprio della prevedibilità di cui si parlava. Infatti quale regista, ricorrendo al Toni, non accede a tutta una serie di multi-dimensioni fortunate per definizione?

Ma è veramente grande questo attore, oppure è in primo luogo multi-presente (pur senza negare la sua bravura su un piano tecnico in cui non entro assolutamente)? Grande, a mio modestissimo parere, egli non sembra. Visto che di fatto non fa altro che recitare appena sè stesso, qualunque tipo di panni egli vesta. E cioè in fondo nient’altro che l’Eterno Napoletano (in lui ripulito e mimetizzato in versione attore italico di talento anche in versione esportazione) : ‒ sempre per definizione ammiccante, e non senza una sottile ed insidiosa vena, appena tremolante sotto la lucida superficie, di perfidia (uno degli aspetti tipici della patenopea “cazzimma”). Quindi estremamente prossimo allo Smerdiakòv dei dostoevskiani Karamàzov (ecco, quello sarebbe un ruolo che gli starebbe a pennello!). E pertanto, come ogni napoletano purosangue, sempre ridanciano al modo del non-essere-mai-colto-alla-sprovvista (cioè, appunto, con una vena di aggressività sempre all’erta), sempre sfottente, sempre trionfante ed auto-soddisfatto, sempre tendenzialmente perfido.

Per carità, è possibile che come uomo il Toni non sia nulla di tutto questo. Ma di fatto, come attore, è esattamente questo ciò che egli trasmette. Almeno alle persone che guardano con uno sguardo come il mio.

E comunque quanto tutto questo piace! E molto. Specie fuori di Napoli, cioè nelle varie Roma del mondo. Oggi lo sono senz’altro New York e Los Angeles (Hollywood). Perchè? Perchè si tratta dell’eterno giullare partenopeo-greco-osco. Quello che dai tempi dei Fescennini sapeva far divertire meglio di chiunque altro.

E questo è veramente un tratto portante della prevedibilità messa in campo dal Paolo. Vengono poi gli altri attori prevedibili : ‒ Ferilli, Verdone, Ferrari….

Quante strizzate d’occhio! Come poteva questo film non riscuotere un Oscar?.

C’è da chiedersi allora se “l’ambito trofeo” non costituisca molto più un demerito che un merito. In quanto sanzione del perfetto confezionamento di un prodotto in realtà però volutamente vuoto.

Chissà se in fondo non lo sia stato anche la felliniana Dolce vita.

E ci subissi pure di improperi!

Del resto è proprio questo che accade oggi con la letteratura nascente nei laboratori di “scrittura creativa”, e cioè nei centri di addestramento al vendere-scrivendo. I cavalli di scuderia uscenti da questi centri hanno infatti come requisito fondamentale quello di non aver mai nemmeno lontanamente pensato di possedere qualcosa come “la vocazione allo scrivere”. E sanno benissimo che all’obiezione di qualche irriducibile circa la qualità dei loro prodotti, il lettore risponderà invariabilmente (scornando così l’obiettore) che ha trovato il libro “carino!”. E così il discorso è chiuso!

Ed infatti il Paolo (pare si debba aggiungere al suo nome la qualifica “Il divo”) nasce proprio come scrittore di successo, cioè come scrittore-venditore. E ciò proprio con un tipo alla Jep Gambardella, cioè Tony (nomen omen!) Pagoda. Nel suo libro di inizio carriera dal titolo “Hanno tutti ragione”.

 

Ma in fondo a noi, in termini di valori estetico-morali, cosa mai ce be frega di uno come questo Jep Gambardella? È certo che anche lui ammicca nei termini della prevedibilità. Infatti recita il ruolo del “giornalista di costume e critico teatrale navigato”. Attenzione al “navigato”!

Cioè un parvenue piccolo borghese, filho da puta ed affamato di riscatto sociale, che sfrutta il basso quanto facile fascino del suo ruolo per accedere al gran mondo e dominarlo. Il culmine della sua moralità che poi raggiungerà il diapason nel lirico finale consiste nella sua simil-meditazione iniziale (oh profondità dell’insignificanza!) : “Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito ‘il vortice della mondanità’. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.

Ma l’acme diapasonico, il momento della catarsi quasi apocatastatica, si raggiunge nel film non a caso comunque davanti ad una prestigiosa “alba romana”. È proprio là che inizierà infatti la nuova vita resurrettiva del grande Jep.

Non certo, ad esempio, davanti alla finestra di un appartamentino di Scampia!

Cioè in uno svettante colosso infestato d’amianto, che contempla l’alternarsi di albe sempre livide, anche quando radiose, su un orizzonte che contiene di tutto il peggio, cioè i resti di una volta leggiadra ed arcaica campagna oggi pervertita (grazie alla retorica architettonica di sinistra e di destra: Valenzi, Pomicino, Mastella e Berlusconi) in un vastissimo letamaio materiato di relitti informi del passato unito ad atrocità futuristiche : ‒ campate di mastodontici e deliranti viadotti, arcigni caseggiati tutti dello stesso spento multi-colore, chiazze spelacchiate di antica campagna piene di rifiuti e marce d’acqua in cui si rotolano rifiuti umani di ogni genere (dal barbone al drogato perso), ex rampolli di contadini o proletari urbani trasformati in tipacci affamati di cocaina e di sangue, etc!

E nemmeno di certo, dalla finestra di un borghesissimo appartemento del Vomero, dal quale ogni giorno si contempla solo, con un invariabilmente noioso deserto di cemento ed asfalti, una vita che mai cambierà veramente in meglio.

Ecco, con Jep-Toni, il napoletano tranfuga, l’eterno giullare trapiantato “nelle Roma” in fondo solo per far ridere. Il quale, anche se rimpannucciato perfino in una retorica resurrezionista (non si capisce se new-age o para-cristiana), resta comunque, davanti all’alba romano-dorata della sua resurrezione, nient’altro che un cinico filho da puta senza il mimico scrupolo. In Brasile si direbbe : “Sem vergonha na cara”.

Ed il ghigno eterno del Toni Servillo qui esprimerà benissimo lo stato d’animo di questo genere di tipologia e condizione umana.

E dunque, con tutto ciò affanculo, dunque, qui anche, con “la Roma…” e “le Roma…” tematiche!. Altro sublime ammiccamento, questo, perchè esso finge di annientare catarticamente proprio ciò che invece fa la fortuna del film. Ecco il nucleo stesso della prevedibilità : le “citazioni-allusioni” che hanno il potere di colpire sotto la cintola. Acme dunque, questo, semmai appunto  solo della prevedibilità. Insomma di nessuna autentica spiritualità!

 

E dunque cosa mai ce ne frega a noi di questo Jep Gambardella che, nel libro sorrentiniano, in Tony Pagoda, aveva cercato la sua rinascita nientepopodimeno che nella foresta amazzonica (in Wikipeda semplificata in un “tra Rio e Manaus” ; e quanto questo fa esotico-chic!), per poi di nuovo precipitare nel lerciume in seguito “ad una di quelle proposte che non si possono proprio rifiutare“?

Cosa ci dà a noi quest’uomo? Questo tipo, questo personaggio letterario?

Cosa ci danno a noi questi attori e questo regista di successo ?

C’è qui qualcosa che ci fa veramente sognare? C’è qui qualcosa che possa veramente essere considerato “vero”. Nel senso di genuino, pofondo, ed anche di aderente alla Verità?

Si, Paolo Sorrentino è in qualche modo un fenomeno. È nato a vico Speranzella ed ha vissuto al Vomero, come tanti di noi. Ha sofferto molto e senz’altro la vita è stata per lui una scuola durissima, dalla quale ha saputo trarre qualcosa che potrebbe valer la pena di insegnare.

Ma lui insegna?

Si dice abbia frequentato i Salesiani e lì i suoi compagni e maestri sarebbero stati Hobbes e Nietzsche.

Hobbes e Nietzsche! C’è qualcosa di più prestigioso e nello stesso tempo più abietto in termini di cultura e passione filosofica?

C’era del resto da aspettarselo come sfondo culturale del naturalismo verista. Tutti quelli che toccano con mano la tragicità grandiosa e nello stesso tempo prosaica del mondo, possono incamminarsi per questa strada (invece che per un altra ben migliore). Appunto quella degli amanti di Hobbes e Nietzsche.

Che effettivamente si richiamano l’un l’altro da un capo all’altro della storia del Moderno.

Al tempo di Hobbes infatti furono gettate le basi per un atroce (che ben presto avrebbe mantenuto le promesse diventando anche feroce e lurido) riduzionismo naturalistico di tutto ciò che nel passato era ancorra ideale e quindi sognante (tutta quella sfera filosofica che, perfino ancora in Cartesio, orbitava intorno alle sublimi verità di una metafisica ancora religiosa).

Ci fu tutta una catena di filofico-moralmente atroci pensatori che consolidò questa dottrina affidandola poi alle correnti della storia infine approdanti, quando i tempi furono maturi, a pensatori come Nietzsche ed Heidegger. Eccoli questi pensatori : Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Locke, Hume.

“Capisaldi del pensiero”, dirà il filosofo accademico-canonico, cioè icone, santini, idoli. Che non ci si permetta di dire una sola parola su di essi!

Strano però che, nelle fantasie dei vari “sorrentini” della nostra quotidiana vicenda culturale (quella proprio nostrana : delle scuole alla Salesiani e degli appartamenti vomeresi), questi pensatori ne oscurino altri, che secondo me non solo non sono affatto inferiori in valore ma anzi, per molti versi, sono ben superiori. Cioè gli Scoto Eriugena, gli Eckhart, i Cusano, i Bruno, gli Böhme, i Leibniz, gli Schelling…!

Sospetti, però, molto sospetti questi, perchè in odore di essere “pensatori religiosi”. Dio ci scampi!

Ed allora bisogna rassegnarsi alla corrente degli altri pensatori, che, giunta con i Nietzsche e gli Heidegger al suo estremo esito, avrebbe infino aperto trionfalmente le porte ai Lager ed ai Gulag.

Anch’essi, dunque, punti saldissimi di riferimento della prevedibilità ammiccante. Cioè specchietti per le allodole che, appena citati, risvegliano subito l’interesse di critici à la page e venditori vari.

Questi sì che vendono in una società innamorata pazza di tutto ciò che è perverso.

E chi può dire nulla contro tutto questo?

Così si va contro il genio di chi, sapientemente quanto cinicamente (e sempre in possesso della sublime arte di ammiccare alle parole d’ordine del Zeitgeist, lo spirito del tempo) sa confezionare libri, film ed idee, consegnandoli così in pasto agli zombies, affamati sempre più di carne umana, di una società atomizzata e resa centrifuga proprio dal collettivo rifiuto all’avere un centro di veri alti sogni, di vere speranze, di passioni pulite e di sani godimenti artistici.

 

Mi sembra che “La Grande Bellezza”, cioè quest’ennesimo “film bellissimo” si iscriva perfettamente in questo desolante e deludente orizzonte. Insieme ai Paolo Sorrentino e Toni Servillo. Ed a tutto  il resto

Motivo dunque molto più di noia desolata (se non di disgusto).

E l’Oscar mi sembra perfettamente coerente con questo.

 

 

Read Full Post »

Ci sembra che il Periphyseon di Scoto Eriugena (SE)1 sia un’opera di capitale importanza per chi intende la filosofia come un’esperienza sostanzialmente spirituale, cioè come contemplazione2. In questo senso esso può costituire una vera e propria pietra miliare nel cammino di chi studia e ricerca con questo intendimento. Gli elementi fondamentali di questo carattere sono tre ‒ 1- il neoplatonismo greco cristianamente rielaborato ; 2- la dottrina di una natura divina ; 3- la costante preoccupazione metafisica ed insieme religioso-teologica. A ciò si aggiunge, come giustamente fatto notare conclusivamente dal curatore dell’opera Nicola Gorlani nella sua introduzione3, che l’opera è scritta come un dialogo e quindi i suoi personaggi sono straordinariamente vivi. E pertanto possiamo, in essi e nei loro rapporti (talvolta perfino conflittuali), cogliere tutta la passione di un discorso filosofico caratterizzato nel modo che abbiamo appena detto. Come accade anche ad altri autori cristiani (Agostino nelle Confessioni), l’intero percorso dialogico è caratterizzato da continue invocazioni a Dio perchè sostenga ed illumini nella trattazione dei misteri di fronte ai quali ci si trova. E questo, ne siamo convinti, sempre profila dietro al classico procedere filosofico-rigoroso del discorso, qualcosa, uno sfondo ed  una prospettiva di pensiero, che sono di respiro ben più ampio e profondo che quelli della cosiddetta “filosofia come scienza”. Vi è qui dunque chiarissima ed esplicita la consapevolezza di trovarsi davanti ad oggetti di conoscenza che la sola ragione non può pretendere di esaurire. Il che fa allora del discorso un qualcosa che è inevitabilmente connotato passionalmente, cioè fa di esso un discorso d’amore e di un amore reciproco tra chi chiede di conoscere e chi, pur destinato ad essere conosciuto, è tuttavia troppo incommensurabile per esserlo al di fuori di un vero e proprio intimo rapporto. Un rapporto che quindi solo d’amore può essere. Amore nel più pieno senso. Il mistero è dunque la cifra nascosta dietro gli elementi componenti il carattere di pietra miliare di un cammino spirituale che quest’opera possiede. Mistero che poi ci dice subito davanti a quale genere di metafisica ci troviamo. Una metafisica che è innanzitutto d’amore, ma proprio come tale è anche di deferente e devoto rispetto del conoscente verso il supremo oggetto della sua conoscenza. Rispetto che giunge fino al timore ; e pertanto è costantemente connotato di una profonda umiltà. La caratteristica fondamentale di tale atteggiamento è quella del porsi in ascolto più che speculare in prima persona ed autonomamente. In particolare si tratta del religioso e silenzioso ascolto della Rivelazione (Scrittura) ed anche, ovviamente, dell’autorità che ne trasmette il messaggio. Schiacciati dall’imparità della relazione che li lega all’oggetto di conoscenza, e riconoscendo pienamente il proprio nulla di creature, gli “investigatori” qui si attengono alla Parola pronunziata amorevolmente dall’Assoluto stesso. In principio non si tratta dunque nè di investigazione nè di investigatori, ma di umili esegeti ed ermeneuti, ossia di ascoltatori.  Sempre in principio silenziosi Lo stesso atteggiamento, dunque, che scelse di avere un filosofo Proclo rispetto all’autorità rappresentata dai mitografi (Esiodo, Orfeo) che erano stati interpreti del materiale religioso originario, cioè la Rivelazione4. Trattasi dunque di una metafisica come quella propria dei pensatori antichi. E non invece dei pensatori moderni. Eppure la materia trattata da SE in quest’opera è di un’iimprevedibilità e di un ardimento sconvolgenti. Preferiamo parlare di “imprevedibilità” e non di modernità (anche se la dottrina di SE anticipa senz’altro pensatori successivi come Spinoza, Hume e Schelling), e ciò perchè le suggestive affinità suggerite da questo  pensiero non si proiettano solo verso il futuro ma anche verso il passato. In diversi punti, infatti, colpisce la somiglianza di alcuni suoi momenti dottrinali con dottrine antichissime e peraltro lontanissime nello spazio, come il sāmkhya (vera e proprio filosofia della natua ante litteram) e più in generale i Veda. E per questo esistono anche suggestioni in letteratura,  anche se vaghe e tutte da interpretare5. Del resto un tema come quello trattato da SE rientra sia nella vastissima ricerca e letteratua metafisico-teologica sul Nulla come Assoluto e sia nella vastissima letteratura che considera la filosofia come “via di realizzazione”6. Spicca naturalmente la stridente differenza rispetto alla invece solo sedicente metafisica dei pensatori moderni. Tanto sedicente quanto orgogliosamente ed ingombrantemente innovatrice e chiacchierona. Emblematica quella di Heidegger, che interecetteremo poi spesso in tale recensione. La caratteristica di tale metafisica è quella di essere il prodotto di un pensiero i cui caratteri distintivi sono l’ogoglio ed il protagonismo auto-referenziale tipici dei pensatori moderni (sempre innovatori solo nella misura in cui sono anche volutamente irresponsabili) e la cui ossessiva ambizione è la scoperta e la ri-formulazione, cioè la ricreazione (quasi in vitro) della verità.

In ogni caso la straordinarietà del Periphyseon da tutti i punti di vista qui posti in luce consiste nell’elemento portante della riflessione in esso contenuta e cioè il concetto di un Tutto-Natura che più divino non potrebbe essere. Facile dire che qui che Dio è Natura. È assolutamente corretto, ma anche terribilmente fuorviante perchè  ciò forza il pensiero di SE nell’angusto condotto che reca poi inevitabilmente ad un panteismo di marca spinoziana (riduzionismo realista) che invece ad esso non appartiene per nulla. E perfino la sua affinità con la dotttrina divino-naturalistica del sāmkhya scongiura tale assimilazione. Ciò significa che il concetto di Dio come Natura è ben più vasto, ampio e profondo di quello striminzito cui ci ha abituato il panteismo filosofico, specie moderno. Trattasi infatti di un concetto altamente e puramente metafisico, e che quindi non rifugge affatto la più piena dimensione teologica. Ciononostante non si può nè si deve negare che tale concetto esca decisamente dai limiti di quella teologia che si ostina a restare nei limiti dell’ampiamente condivisibile (in termini razionali), ossia nei limiti di quella sorta di “buon senso” che nella nostra era Husserl criticò serratamente come ingenuo “atteggiamento naturale”, e che tende quindi per natura a configurare un realismo dogmatico secondo il quale il mondo è incontestabile quale piena e chiara oggettività. Tale dogmatismo si concretizza poi in una rigida ed intollerante ortodossia. Beninteso, anche in tale ambito si può sostenere che il mondo e la natura sono divini, ma  in un modo completamente diverso da quello di SE e cioè al modo di una costatazione di oggettività che rifugge ogni scavo, ogni approfondimento, ogni assottigliamento di sostanze fino a riconoscerne l’essenza. La dottrina esposta da SE va in senso diametralmente opposto a tutto questo. E se essa non nega il concetto di sostanza (come fa invece un Heidegger), pure antepone alla sostanza il valore dell’essenza. Il che configura un insieme di concetti che scardinano in due modi la visione metafisico-teologico ortodossa e dogmatica : ‒ 1- al modo dell’affermazione recisa che l’intero mondo non è altro che Dio stesso (quale sua intima essenza) ; 2- al modo dell’affermazione recisa che, su tale base, non esiste altro che Dio quale essenza, e quindi di fatto il mondo come oggettivo non esiste affatto. È così spazzato via in un solo colpo tutto il sostanzialismo oggettivista e cosmologista della metafisica teologica ortodossa. Essa ritiene infatti che Dio e mondo siano realtà di per sè lontane ed inconciliabili ma assimilate da un atto creativo che rende il mondo incontestabile quale solidamente oggettiva (perfino razionalissima) evidenza di Dio. Tutto è qui sostanziale, solido , pesante ed esteriore  e nulla è qui invece essenziale, sottile, leggero ed interiore. In altre parole vi è pochissimo, se non nulla, di autenticamente spirituale in tale visione. E forse perfino poco di autenticamente religioso. In questo senso la dottrina di SE è assolutamente dirompente e lo è peraltro in ragione di quei suoi caratteri primari, enunciati prima e che qui possiamo riformulare : ‒ 1- rivissuto profondamente cristiano del neoplatonismo greco-pagano ; 2- naturalismo sacro ai limiti del mistico ; 3- radicalismo religioso-metafisico anche se affatto anti-teologico. Possono rientrare in questa cerchia di concetti i tre elementi portanti della dottrina che si evincono dalla formula definitoria che la riassume : ‒ Tutto-Natura divino. Essi sono appunto : ‒ tutto, natura e divino. Vi è dunque un tutto divino che include completamente il mondo. Il suo nome è “Natura”, il che significa che Dio è Natura non nel senso dell’immanenza orizzontale ma nel senso di un non essere principiale (pura essenza o meglio sovra-essenza) mai diviso da tutto ciò che verticalmente ed orizzontalmente ad esso consegue.  Ed il tutto naturale così configurato non è altro nel suo complesso (denunciato quantitativamente come “Tutto”, e qualitativamente come “Natura”) che Dio stesso. A chi conosce la filosofia greca sovviene immediatamente il poderoso sistema metafisico-filosofico di Proclo. Il che significa che qui ricorrono per intero i termini del neoplatonismo greco, ovvero il vasto schema ontologico circolare che con l’Uno inizia e finisce. E lasciando allora di lato temi pur importanti come quelli della modernità e dell’ortodossia cristiana di tale pensiero, ciò che qui balza in primo piano è soprattutto la sua già citata dirompenza. Dirompenza rispetto alla collocazione storico-dottrinaria (filosofia post-greca) di tale pensiero, rispetto alla sua collocazione confessionale (cristiano-cattolica), rispetto alla sua collocazione nel percorso del razionalismo filosofico (scienza naturale esatta), rispetto alla topogafia delle culture planetarie (pensiero occidentale), rispetto allo spartiacque tracciabile tra filosofia e teologia da un lato ed alta metafisica7 dall’altro (teologia razionale) Si tratta quindi di una dirompenza che fa risaltare nel relativo pensiero un insieme di elementi tanto imprevedibili quanto in principio (almeno tendenzialmente) scandalosi nel quale vi è di tutto “qualcosa” : ‒ qualcosa di pagano, qualcosa di misterico, qualcosa di animistico, qualcosa di irrazionale, qualcosa di fanaticamente mistico, qualcosa di eretico (sia filosoficamente che teologicamente), qualcosa di assolutamente incoerente in termini storico-geografici e topografico-dottrinari. Insomma tale pensiero denota sè stesso per qualcosa di irriducibile a qualunque criterio. Il che fa di esso qualcosa di incomprensibile in modo ultimo. Per questo il Periphyseon di Scoto Eriugena ha ben il diritto di sorprendere (perchè no ? “epatèr les bourgeois”) ed anche di scardinare precedenti opinioni consolidate. È esattamente quello che è accaduto a noi leggendolo e provandone l’insopprimibile impressione di stare vivendo una vera e propria (dirompente) esperienza spirituale. E sebbene noi non siamo facili a lasciare che le nostre opinioni consolidate (specie convinzioni di fede) vengano messe in discussione (ad un pensiero come quelli di Nietzsche o di Heidegger non l’abbiamo infatti assolutamente permesso!), abbiamo provato la netta impressione che ciò non sia qui assolutamente possibile. Non sarebbe onesto e rispettoso al conspetto di un’autentica grandezza (caso che invece non ricorre afatto con un Heidegger, nonostante le affermazioni della così vasta “mafia heideggeriana” diffusa nelle università specie europee) Al Periphyseon di Scoto Eriugena non si può dunque fare altro che arrendersi. E pertanto, dopo averlo letto la nostra vita non potrà assolutamente più essere la stessa. Il suo primario fascino non consiste pertanto (come viene messo in luce dalla critica, secondo un consolidato costume, cioè quello dell’ortodossia filosofico-scientifica dogmatica) nella libertà e nella leggerezza del passo del suo procedere rigoroso-razionale tra “analisi” e “sintesi” (Gorlani). E nemmeno consiste in una sua anti-dogmaticità che qui viene naturalmente sopravvalutata in termini angustamente ideologici. La critica non fa che ripetere qui, insomma, la stessa operazione riduzionistico-ideologica tentata sempre in ambito accademico-filosofico,  e ben riuscita peraltro con pensatori come Giordano Bruno, Giambattista Vico e Miguel de Unamuno, indebitamente trasformati in campioni del “libero pensiero” (mentre furono invece tutt’altro). Il punto non è dunque qui, e non è nemmeno nella collocazione della dottrina di SE entro la grande questione filosofica di sempre del rapporto tra essere e non essere (corrispondente qui alla distinzione delle cose in “ea quae sunt” e “ea quae non sunt”). Lo studioso di SE sa bene che la distinzione è vista da lui stesso come tutt’altro che univoca, e ciò in modo tale che il non-essere è talora Dio talora il mondo stesso. Il che significa che è in gioco ben altro che la solita questione filosofica. Ciò che è in gioco è molto più il mistero (e dunque questioni di alta e profondissima metafisica), e cioè il mistero della profonda unità tra Dio e mondo, sia pure al cospetto di questa somma contraddizione tra un non-essere che è radice dell’essere (essenza) ed un essere che, al suo confronto, è poco più che un nulla. Il vero punto sta allora altrove, e cioè in una sfera di sconfinata libertà filosofica che, sfuggendo ai due principali assi di orientamento del pensiero occidentale, l’ortodossia dogmatica fideistico-teologica e quella scettico-ateo-scientista, fa di tale  libro e di tale pensiero un cibo per palati che non si accontentano di solite minestre ed alimenti pre-masticati (o pre-digeriti). Il che pone questo libro e questo pensiero del tutto al di là dell’orizzonte del prevedibile. Il senso storico, geografico, e culturale. Non a caso dietro di esso si profilano scenari misteriosi ed affascinanti di vero e proprio intimo contatto tra Oriente ed Occidente. La questione è stata del resto accolta anche dalla critica8 : ‒ come fece Scoto Eriugena ad acquisire una cultura così vasta (da apparire quasi planetaria) risiedendo, nella prima parte della sua vita, nella remota e semi-selvaggia Irlanda? È un vero mistero. Ma l’Irlanda, lo sa bene chi la ama, è da sempre luogo di  profondi misteri e quindi di inspiegabili e misteriosi contatti.

Detto questo, crediamo di aver detto l’essenziale circa l’introduzione a questo libro e possiamo passare quindi all’esposizione dei suoi contenuti, per i quali ci serviremo dello stesso schema delle divisioni della natura che il filosofo premette alla materia trattata. L’intero Tutto da lui indagato di articola infatti in quattro grandi divisioni (che corrisponono poi in modo complesso alla differenziazione tra essere e non-essere e cioè alla distinzione delle cose tra “ea quae sunt “ed “ea quae non sunt”): natura creante e non creata (Dio) natura creante e creata (causae primordiales, o Verbo, o Idee come modello di creazione, anche Natura sottile creante) natura non creante e creata (mondo ed uomo) natura non creante e non creata (Dio nella sua ultimità)

Dobbiamo far rilevare qui un ulteriore elemento rispetto a ciò che abbiamo detto per i tre termini fondamentali della dottrina (tutto, natura, dio). Infatti dalla presa d’atto di essi, in rapporto a questo schema, consegue immediatamente un elemento di (sanissimo) disorientamento per il lettore. Sia l’idea di Natura che di Mondo ne risultano infatti subito di colpo rese estrememanete problematiche. Il termine “Natura” indica lo stesso Tutto e tutte le sue parti componenti (i suoi soggetti), inclusi Dio stesso e le Idee creative (cioè la più pura essenza onto-ideale nella sua ascendenza verticale). E non più invece solo il momento della manifestazione orizzontale di Dio. Quanto al termine “Mondo” esso sembra indicare qualcosa che non si identifica più affatto in alcun modo con la Natura, anzi esso appare coincidere proprio con la Natura nel suo corrente intendimento, ovvero qualcosa di ormai  molto lontano ontologicamente dal Principio (sia pure in stretta ed ininterrotta continuità con esso). Lo stesso vale per il “Dio” collocato alla fine del percorso. E qui la filosofia di SE diviene veramente vertiginosa in un senso esistenzialista che va ben oltre il desolante ideologismo riduzionismo dell’esistenzialismo moderno (ancora Heidegger, oltre che Sartre). Ecco infatti un Dio caratterizzato da qualcosa di inconcepibile e cioè dalla non creatività. Siamo qui chiaramente molto prossimi all’eresia, che poi ha il volto di un chiaro riferimento ad una visione sostanzialmente pagana come quella del ciclo neoplatonico in cui l’Uno ritorna a sè stesso. Ma ciò che conta, oltre che il riproporsi sorprendente di uno schema pagano, è che si ha già qui la netta impressione (che poi vedremo riconfermata nell’esposizione successiva) che la non-creatività divina è il prodotto di una vera e propria estinzione della sua trascendenza avvenuta nel corso del suo passaggio per il mondo. Che poi altro non è se non il suo abbandonarsi all’essere definito come Natura proprio nel luogo più sensibile della sua Onnipoetenza, cioè il suo essere un Tutto che è  perfino tutto-includente ed anche tutto-escludente. Un Tutto che così resta nel pieno della sua potenza ed assolutezza proprio nella più radicale affermazione della sua più miserevole difettività. Egli ha toccato il determinato, la creatura. E da allora non è più lo stesso. È ancora un Tutto ma in modo diverso, e cioè al modo di un Tutto che vede ora allargarsi fuori di lui un immenso spazio di vuoto. Il Vuoto che Egli quale Tutto non è, ossia lo spaventoso ed indecifrabile Alieno. Dio è ormai un Tutto galleggiante in un immenso Vuoto. È il fatale destino riservato alla creatura ed il fatto è che Egli non aveva mai pensato di sottrarsene. Ma ora il momento è arrivato. È il momento delle estreme decisioni e rivelazioni. Il fatale tocco contaminante è avvenuto. E perfino Lui non è più lo stesso. Proprio com’era accaduto al lettore del Periphyseon. Dopo averlo letto egli non fu più lo stesso.

Una volta chiarito questo, tratteremo ora una per una le divisioni che poi corrispondono più o meno (anche se non perfettamente) all’organizzazione dell’opera in cinque libri.

[…..]

(Il restante testo potrà essere fornito dall’autore al lettore interessato su richiesta)

Read Full Post »

Pochissime parole in memoria di un uomo la cui vita parla da sè.
Christopher McCandless, morto nell’Agosto del 1992 a Stampede Trails in Alaska, parco nazionale del Denali.
Su di lui il libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” ed il bellissimo film di Sean Penn “Into the wild”. Morì di fame dopo un violento avvelenamento da bacche non commestibili. Ed accanto a lui, naturalmente, furono trovati libri di Lev Tolstoj, Jack London e Henry David Thoreau. Morì in un relitto abbandonato che egli aveva soprannominato “Magic bus”
Visse solo per vivere, cioè solo sperimentando e senza voler possedere nulla.
E, da quanto mostra il film, mi sembra che negli ultimi frangenti della sua vita abbia visto in faccia Dio. Il Dio che si può vedere solo quando si vive pienamente. Il Dio che, se veramente credessimo in Lui, trasfigurerebbe il mondo in un solo attimo, traghettandolo in un lampo dalla seconda di nuovo alla prima creazione (Gregorio di Nissa, Johannes Scoto Eriugena, Friederich Wilhelm Joseph von Schelling)
Una lezione per tutti noi che viviamo di grige e pigre certezze. Proibendo severamente a noi stessi ogni cambiamento e, con la stessa severità, imponendo al mondo il suo sconsolante volto di sempre.
Io, certamente, imputato in prima fila!
Alcune delle frasi che McCandless lasciò scritte :
« Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!» (Scritta lasciata da McCandless all’interno del Magic Bus.)
« C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo» (Dalla lettera di McCandless scritta all’amico Ronald Franz)
Credo che sia più che sufficiente.
Credo che leggerò il libro e che dovrò rivedere il film.

Read Full Post »

123

In questo scritto recensirò due opere di Platone appena lette e meditate, e cioè l’Apologia di Socrate1 e il Gorgia 2.
È secondo me assolutamente significativo che in entrambe queste due opere compaia al centro di tutto il Tribunale.
Del resto, come ho già sottolineato in altri recenti miei scritti, per la natura identitaria di un uomo come Socrate, questo è praticamente inevitabile.
Gli uomini come lui, infatti, finiscono sempre prima o poi sotto processo. E ciò accade per il fatto che essi sono dei giusti assoluti, e, come tali, per definizione degli inermi, ovvero degli uomini che, per natura, hanno fatto nella loro esistenza una scelta sacrificale in nome del più puro ed integro ideale di giustizia.
In ogni caso questo loro comparire davanti ad un tribunale può verificarsi nei modi più diversi.
L’esistenza umana è infatti gremita di circostenze riconducibili ad un giudizio, e ciò vale in modo particolare per quegli uomini che, essendo fatti come Socrate, si pongono in conflitto quasi totale con tutto ciò che è mondano e terreno.
Vi sono così tribunali del giudizio sulle proprie capacità sociali, tribunali del giudizio sull’integrità della propria igiene psichica, tribunali del giudizio circa la propria capacità di avere successo. E così via.
A nessuno di questi sfugge l’uomo fuori del comune.
Certo è che, contrariamente a quanto ho appena detto, Socrate non fu nè un uomo chiuso in sè stesso nè disinteressato verso gli affari della città. Al contrario tutto il suo pensiero fu costantemente orientato a fondare la qualità dell’agire in tutte le sue forme, incluso quello della politica e della conoscenza. E così tutta la sua filosofia fu, con quella di Platone, una filosofia sostanzialmente morale, cioè una filosofia dell’esplicito ben agire.
Quindi fu una filosofia sostanzialmente estroversa.
Ciononondimeno in alcuni punti cruciali dei dialoghi platonici il filosofo ateniese ci appare riconoscibilmene ripiegato su sè stesso e suoi suoi purissimi ideali, e pronto quindi ad essere estromesso dall’area del buon senso e di quel certo genere di benpensare, i quali di certo caratterizzano la vita pratica di tutte le comunità. E qui egli appare dunque come un uomo estremamente solo e pochissimo compreso.
È proprio come tale che Socrate, nell’Apologia e nel Critone, comparirà davanti a noi nell’ultimo atto di questa sua vicenda, quella della condanna definitiva di un vero e proprio eletto da parte delle così prosaica comunità alla quale egli appartiene.
Ciò si manifesta in modo molto evidente nelle due opere che qui recensirò. (altro…)

Read Full Post »

Older Posts »