Nel mentre allestisco un’opera di commento critico al pensiero di Nietzsche, ecco alcune riflessioni sulle tante cose che egli vide ma nello stesso tempo non volle vedere…
Il tema specifico di un passo di questo scritto è la disposizione sacrificale richiesta da un vivere pienamente la vita animica. Questo genere di vivere fatalmente espone connatalmente alla sventura chi sperimentandolo non sa vivere in altro modo che questo. Marina Čvetaeva coglieva alla perfezione questa tremenda verità ‒ “Oh, Dio vuole veramente far di me un grande poeta, altrimenti non mi toglierebbe tutto in questo modo” (Il paese dell’anima, p. 224) ; “Il poeta, per glorificare il tempio, brucia sè stesso” (Il poeta e il tempo, p. 33).
Nietzsche invece, abbagliato com’è da un vivere il dolore (abbracciando la Necessità) che è solo selvaggiaente dionisiaco, pretende in tal modo di riformare l’ontologia distendendola sul piano unilaterale dell’assoluto divenire (eracliteo). Che però, per essere bene inteso, dovrebbe essere collocato in una prospettiva ben più ampia. È esattamente la prospettiva in cui il vivere animico costituisce il momento intermedio di un distacco da mondo (privo del tutto di illusioni circa la necessità) che culmina poi nell’esperienza del vero mondo, quello puramente trascendente. In Simone Weil (L’attesa di Dio) ciò costituisce una capacità assoluta di “rimettere i debiti” contratti con ogni essere passato, rinunciando così ad ogni possesso ed affrontando il futuro in modo totalmente aperto. E soprattutto leggero, cioè senza gravami. Cioè in modo assolutamente sacrificale. Ma così ella intende trasferire la gioia per un mondo che è oggettivamente una fogna ad un livello ontologico in cui tale gioia è davvero ben riposta. È il confluire del livello orizzontale in quello verticale per mezzo del grande schema del Ritorno neoplatonico.
Nietzsche insomma si illude volendo affidarsi proprio al desiderio puramente orizzontale per rendere possibile la creatività vitale. Le cose stanno invece in modo del tutto opposto. La vera creazione vitale richiede di abbandonare il livello sul quale soltanto egli vede possibile la gioia ‒ cioè quello in cui l’uomo si appropria interamente del compito di generare l’essere futuro. E del resto nemmeno è il caso di parlare di una gioia selvaggia. Non è affatto il mondo ‒ per quanto trasfigurato in un originale prodotto della nostra volontà che ha rotto gli argini ‒ ciò che può essere davvero amato. Ma la Vita. E la Vita può essere amata solo perché se ne sta oltre il mondo. Sempre un passo più avanti.
La vita non è più tale se viene trasformata in mondo ‒ “Ogni vita nello spazio – anche il più spazioso! – e nel tempo – anche il più libero! – è stretta…” (Čvetaeva, Il paese dell’anima, pag. 292). È sempre fallimento – “…ogni volta che tento di vivere faccio fiasco (e ogni volta che ci riprovo, e ogni volta – fiasco!)…E nessuna esperienza – meno di tutte la propria, aiuta”.
È necessaria dunque una gioia dimessa, discreta, interiore, sobria in quanto non selvaggia. Del resto solo tutto ciò è veramente compatibile con il distacco proprio dell’abbracciare a viso aperto la Necessità. Dunque creare vitalmente è possibile solo rafforzando e radicando l’anima in noi ‒ “La Genesi afferma invece che l’uomo è creatore proprio quando, volendolo o non volendolo, coscientemente o incoscientemente, si centra sull’unico autentico Io che lo sostanzia : l’anima immortale, quella cioè che non finisce nel cimitero” (Vincenzo Romano, Uomo: suddito o anima libera?, p. 80).
Insomma bisogna sapere vedere tutto questo per affrontare temi come quelli che Nietzsche prende a suoi oggetti di riflessione. In metafisica il poeta è infatti in principio ben più competente del filosofo. Nietzsche se ne accorge. Ma sta di fatto che egli dal poeta solo prende in prestito il suo linguaggio. Non lo impersona.
Forse perché davvero quella del filosofo è un’insania tanto più irrimediabile quanto più volutamente non vissuta.
È l’infamia della troppa rigorosa logica (João Baptista Almeida Garret, Viagens na minha terra, Lisboa : Circulo dos Leitores, XXXVIII, p. 313, ibd. XXXIX, p. 314) ‒ “È que os filósofos são muito mais loucos do que os poetas ; e demais a mais, tontos ; o que estroutros não são” (“È che i filosofi sono molto più folli dei poeti ; ed anzi inoltre anche stupidi ; ciò che gli altri non sono”); “Detesto a filosofia, detesto a razão ; e sinceramente creio que num mundo, tão desconchavado como este ; numa sociedade tão falsa ; numa vida tão absurda como a que nos fazem as leis, os costumes, as instituições, as conveniências dela, afectar nas palavras a exactidão, a lógica, a rectidão que não há nas coisas, é a maior e a mais perniciosa de todas as incoerências” (“Detesto la filosofia, detesto la ragione ; e sinceramente credo che in un mondo così mal fatto come questo ; in una società così falsa ; in una vita tanto assurda come quella preparatasi da leggi, costumi, istituzioni, convenienze, introdurre nelle parole l’esattezza, la logica, la rettitudine che non esiste nelle cose, è la maggiore e più perniciosa di tutte le incoerenze“).
Ecco, forse allora la così travolgente follia di Nietzsche fu dovuta proprio al fatto che egli aveva tutti i numeri per essere un poeta, ma volle invece essere a tutti i costi un filosofo. La filosofia fu così la sua condanna ad un’auto-mortificazione dell’ampiezza di vedute che pure gli premeva da dentro irresistibilmente. Almeida Garret usa qui proprio la formula giusta : ‒ “incoerência”.
È l’implacabile Nemesis che punisce i filosofi per i loro orribili peccati.
Credo dunque che Nietzsche, per essere davvero compreso, e conseguentemente severamente criticato (come deve), dovrebbe essere letto molto più in modo poetico-contemplativo che non invece secondo i dettami dell’onnipotente apparato critico filosofico-tecnico. Di Nietzsche, così come di ogni pensatore, bisogna cogliere l’essenza e non i dettagli. Ed essa poi va assolutamente giudicata.