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Archive for 18 aprile 2024

(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

Il pensatore francese Louis Lavelle (conosciuto come uno dei maggiori esponenti dello Spiritualismo personalista francofono) ha scritto molti libri tra i quali due dedicati alla definizione di cosa è «essere».
I titoli di questi libri sono i seguenti: − Louis Lavelle, Introduction a l’ontologie, Presses Universitaires de France, Paris 1951; Louis Lavelle, De l’être, Librairie Féliz Alcan, Paris 1928.
Ed il secondo (la cui copertina ho riportato in foto) è a mio avviso quello più denso, completo ed anche davvero prezioso al giorno d’oggi. Esso ci permette infatti di tornare a gettare sull’«essere» uno sguardo che è insieme profondo, amplissimo, equilibrato e soprattutto libero da fuorvianti pregiudizi ideologici di parte (come, ad esempio, quello di Heidegger). Quindi questo è il libro di Lavelle che io consiglio più caldamente di leggere.
Tuttavia per comprendere il valore di questo libro dovrò fare una piuttosto lunga premessa. E spero che qualcuno dei miei lettori abbia la motivazione per seguirmi in questo percorso. Quanto poi ai miei lettori che sono filosofi, dico subito che possono sorvolare su molte parti della susseguente esposizione, dato che esse sono certamente ad essi già arcinote.
Il pensiero dell’essere (circa l’essere) è ciò da sempre che in filosofia viene definito come ontologia (dai termini greci “On” e “ontos” che identificano appunto questo elemento e concetto). Apparentemente questo argomento può interessare poco alla maggior parte di noi, anche se invece ai filosofi ha interessato molto (sebbene con fasi alterne). Ma sta di fatto che nell’essere noi non solo ci viviamo totalmente immersi − e fino al punto che nemmeno ce ne rendiamo conto (come ebbe a dire Romano Guardini), con la conseguenza che possiamo non vederlo e nemmeno conoscerlo −, ma inoltre, se non fossimo «essere» (ossia se non ricevessimo e anche possedessimo questa entità), noi semplicemente non esisteremmo.
Ossia «non saremmo».
È evidente (ed assolutamente intuitivo) che quindi l’essere equivale all’esistenza. E precisamente al suo sostegno, per quanto invisibile ed inafferrabile. Per cui è altrettanto evidente che i filosofi si sono dovuti interessare da sempre dell’essere, dato che esso è il nucleo stesso della loro riflessione su ciò che osservano tutt’intorno a loro, ossia cose, uomini ed eventi Diciamo che la riflessione su questo aspetto è iniziata con Parmenide in primo luogo, e poi con Eraclito, Aristotele e Platone. Per poi passare alle riflessioni di Agostino di Ippona e Tommaso d’Aquino (unitamente all’intera Scolastica medievale della quale egli fece parte). In ogni caso la riflessione sull’essere va considerata praticamente obbligatoria per il filosofo.
Fatto sta che non tutti i filosofi hanno inteso l’essere allo stesso modo. Ed inoltre i filosofi antichi lo hanno inteso in modo molto diverso da quelli moderni. Bisogna anche dire che tra quelli antichi ha sempre prevalso la definizione dell’essere fornitaci da Aristotele. Quindi di fatto quando si parla di ontologia si tende a parlare del suo intendimento dell’«essere». E con quest’ultimo è stato inteso soprattutto l’essere esteriore, ossia quello mondano ed universale che si trova al di fuori della coscienza e tuttavia resta comunque alla sua portata. Ma intanto per il pensatore greco l’«essere» era sì ciò che esiste tutt’intorno a noi, però lo era soprattutto come ciò che esiste realmente, ovvero indubitabilmente (per quanto sia qualcosa di inafferrabile). E la realtà veniva allora interamente intesa come ciò che è più conoscibile ossia ciò che è più vero. Allora tuttavia la conoscenza più vera era quella «meta-fisica», e non invece quella «fisica». Era cioè quanto era possibile conoscere solo andando oltre quanto i sensi (la percezione dei nostri organi sensoriali) ci suggeriscono come reale. Tommaso e la Scolastica finirono poi per identificare l’«essere» più reale possibile (l’”Ens realissimus”) con Dio in persona (specie in relazione al concetto di mondo volontariamente creato).
E su questa falsariga l’ontologia è andata avanti per secoli almeno fino a Cartesio, a partire dal cui pensiero la filosofia ha iniziato poi ad interessarsi molto più di ciò che esiste dentro di noi (la coscienza e l’Io conoscente-pensante) che non di ciò che esiste dentro di noi. Essa ha insomma iniziato a disinteressarsi sempre più di quell’antico concetto di essere che comunque era stato sempre considerato prevalentemente esteriore. Con gli empiristi e Kant infine l’ontologia finì per venire addirittura condannata come campo di pensiero nel quale venivano presi in considerazioni solo oggetti irreali. Emblematico per questo è stato il concetto di «sostanza», che da Aristotele in poi era stato considerato l’essere invisibile ma realissimo che sorregge l’esistenza delle cose. Era nato con ciò l’orientamento prevalentemente «idealistico» della filosofia, ossia la sua convinzione che la realtà (ossia di fatto l’essere stesso) può venire colto solo in quanto conosciuto. Il che richiedeva l’azione indispensabile di un soggetto cosciente-pensante-conoscente, ossia il nostro Io. Cosa che poi poneva in primo piano in filosofia la «teoria della conoscenza» in luogo della questione e realtà dell’essere.
Da allora in poi un lungo oblio ha seppellito l’ontologia facendo credere agli uomini che essa non sarebbe risorta mai più. Naturalmente lo stesso oblio ha seppellito la metafisica, che all’ontologia era stata sempre intimamente congiunta. Infatti non a caso (come abbiamo visto) essa si era intrecciata fino dall’inizio con il concetto di essere entro una conoscenza che aveva l’ambizione di cogliere l’invisibile, ossia l’ultra-sensibile.
Ma di questo oblio fu infine responsabile soprattutto il Positivismo, con la sua idea secondo la quale non vi è alcun «essere» ma vi è solo la realtà mondano-universale conosciuta in primo luogo dalla scienza (e precisamente per mezzo degli esperimenti permessi dagli strumenti tecnici). Bisogna anche dire che, da questo momento in poi, la scienza empirica (sperimentale) stessa si è eretta come un angelo dalla spada di fuoco per impedire agli uomini di tornare all’ontologia.
Eppure questo veto non ha avuto effetto. Perché a partire dal XX secolo (e con diverse premesse già nel XIX secolo, come quella del nostro Antonio Rosmini) in modo davvero stupefacente l’ontologia riappariva in filosofia. Il che avveniva ovviamente soprattutto nel contesto di una generale e violenta reazione al Positivismo. In altre parole i filosofi ricominciarono a chiedersi cosa fosse mai quell’invisibile e pur tangibile «quid» esistente dietro le cose, ossia ciò che fa sì che le cose esistono. Insomma era ridiventata stupefacentemente di nuovo del tutto attuale la domanda squisitamente metafisica circa il «cos’è l’essere?». E con ciò era rinata di fatto anche la metafisica.
È comunque evidente che – in seguito all’accumulo nel tempo di una grande mole di conoscenze filosofiche e scientifiche, e tutte estremamente pragmatiche − l’ontologia non poteva più rinascere nella sua forma antica. Eppure, però, essa rinacque non solo nella mente dei filosofi ma anche nella mente dei teologi.
E per questi ultimi (dopo la lettera enciclica “Sapientae Christianae” di Papa Leone XIII nel 1890) essa rinacque esattamente nella sua forma antica, ossia quella scolastica di ispirazione aristotelica. Dato che essa aveva continuato intanto ad essere equivalente alla conoscenza dogmatica del mondo che la Chiesa cattolica aveva conservato disinteressandosi quasi completamente della filosofia e soprattutto della scienza. Intanto comunque diversi filosofi credenti si conformarono a questa nuova e vecchia forma dell’ontologia. Il loro numero è molto grande, e la relativa scuola di pensiero assunse il nome di “neo-scolastica” o “neo-tomismo” (con esponenti in tutti i paesi del mondo). Ma tra loro bisogna nominare notissimi pensatori come Jacques Maritain e Edith Stein (sebbene la loro ontologia fu per diversi aspetti notevolmente diversa) ed infine Erich Przywara e Romano Guardini.
Il fatto interessante è però che l’ontologia rinacque anche in altre forme, ossia forme non-teologiche.
E non pochi furono i filosofi che si allinearono su questa forma non teologica ed a-religiosa della riflessione sull’essere. Uno dei più noti tra loro fu senz’altro quel Martin Heidegger, secondo il quale non si doveva parlare più assolutamente di «essere» ma invece solo di esistenza, ossia del cosiddetto «esser-ci» (“Dasein”: «essere-qui») che poi corrispondeva all’uomo esistente. Ecco dunque insorgere una seconda dicotomia entro la nuova filosofia dell’essere o ontologia (dopo quella causata dalla teologia), e cioè quella che fece nascere la «filosofia dell’esistenza» o «esistenzialismo». Eppure essa ebbe l’ambizione di lasciare di fatto ancora nell’oblio il concetto di «essere» portando in primo piano solo quello di esistenza. Nemmeno così però il concetto di «essere» sparì dall’ambito di interesse dei filosofi. Ed ecco che ci approssimiamo finalmente al campo al quale appartenne la riflessione di Lavelle.
Questi filosofi vollero insomma continuare a pensare all’«essere» come ad una realtà tanto invisibile quanto innegabile e perfino tangibile, ossia come l’elemento entro il quale tutto esiste. Anche qui i nomi da fare sarebbero moltissimi. Ed anche in questo campo ci si sono da fare molte differenziazioni nella definizione dell’«essere». Ma io mi limiterò a menzionare soltanto Nicolai Hartmann, Karl Jaspers, Nicolaj Berdjaev e appunto Louis Lavelle.
I primi due ebbero una visione del tutto a-religiosa dell’«essere». Eppure vi è una sensibile differenza tra il primo, Hartmann (per il quale l’essere coincide con non nient’altro che il mondo reale in tutte le sue forme, ossia quel mondo che filosofia e scienza possono indagare senza nemmeno entrare in conflitto tra loro), e il secondo, Jaspers (per il qual l’essere è l’”avviluppante” invisibile di ogni cosa, che sussiste indubitabilmente ma si trova del tutto al di fuori della nostra portata, ossia il totale ”Oltre”; e quindi può venire colto solo dalla metafisica). È evidente la differenza che vi è tra questi due concetti di «essere». Quello di Hartmann coincide infatti con la Totalità di cose e concetti esperibile del mondo, e quindi non è altro che quanto sperimentiamo tanto nell’esperienza esteriore che interiore. Per Jaspers, invece, l’«essere» è e resta qualcosa di inafferrabile e misterioso (esattamente così com’era nell’antica onto-metafisica),e sulla cui natura quindi siamo costretti a restare assolutamente muti.
Ebbene in tal modo la dimensione del mistero dell’«essere» si rivela costituire così la terza grande dirimente della moderna ontologia. E non c’è bisogno di dire che (si sia o meno religiosi), una volta inteso l’«essere» a questo modo, è di nuovo estremamente prossimo il suo intendimento come Dio. Ecco che, esattamente come era avvenuto nell’antica ontologia (specie cristiana e scolastica) è ri-emerso il concetto di Dio-Essere; ossia di Dio come la forma più alta, estesa, profonda, inafferrabile e indicibile dell’«essere».
È evidente che non si tratta di altro che di quell’«esistenza di Dio» che la Scolastica aveva troppo semplicisticamente identificare con l’universo (il mondo creato) e che Agostino prima e Cartesio poi avevano molto più acutamente identificato con la Sua presenza nella nostra interiorità animico-spirituale.
E bisogna dire che anche Edith Stein (nonostante il suo allineamento all’antica onto-metafisica scolastica) aveva inteso l’esistenza divina in questo modo (specie ispirandosi ad Agostino; ma, per l’intermediazione di Alexandre Koyré, anche a Cartesio).
Comunque è chiaro, in questo più generale riconoscimento dell’«essere» come mondo, ovviamente la moderna ontologia laica coincide in molti aspetti con quella religioso-teologica (com’è riconoscibile in Maritain, Stein, Przywara e Guardini). Ora però, se Berdjaev ha certamente inteso l’«essere» come Dio, ma soprattutto nella forma di un’inesauribile e possente potenza creativa che non cessa di generare il «nuovo», Lavelle invece lo ha inteso come Essere, ma soprattutto come la Totalità inesauribile, eterna, omni-presente, avvolgente, inafferrabile e soprattutto totalmente misteriosa, nel cui seno tutto esiste. Insomma, senza ricorrere affatto ai concetti e strumenti dell’antica onto-metafisica (specie l’intendimento aristotelico-tomistico dell’essere come puro concetto), egli ha di fatto restaurato l’antica concezione metafisica dell’«essere». Ed in questo modo ha permesso a tutto di noi di supporne indubitabilmente la presenza schiacciante dietro ogni cosa ed ogni evento. In particolare nel tenere presente che tutto il mondano-universale (ossia cose e individui) non sono altro che parti finite che certamente non sussisterebbero se non ricevessero costantemente il “dono” dell’essere che l’«essere-quale-Dio» elargisce loro (amorosamente e misericordiosamente).
Tuttavia, per tornare alle antiche definizioni di «essere», Lavelle fa emergere la più forte di esso (in quanto immediatamente intuitiva), ossia quella di Parmenide – l’essere non è altro che «ciò che è» in quanto diverge radicalmente dal Nulla. E fino al punto che il Nulla stesso non è assolutamente in grado di minacciarlo, dato che in definitiva rientra inevitabilmente in esso (infatti l’affermazione di qualcosa di negativo è pur sempre l’affermazione di un «qualcosa»). È evidente la straordinaria forza che ebbe questa definizione di Parmenide, che ancora oggi si oppone quindi a quella (ben più intellettualistica e sfumata) di due tra i maggiori geni della filosofia, ossia Platone ed (un po’ meno) Aristotele.
Orbene, è evidente che ciò ci permette di intendere la nostra esistenza e quella del mondo come dotate di un senso che nessuna visione filosofica non-ontologica ci consente di fare. Il che implica inoltre anche la possibilità (della quale Lavelle parla esplicitamente) di vivere la nostra vita nella prospettiva prevalente dell’eternità (ossia l’immortalità della nostra esistenza animico-spirituale), nel rapporto costante ed intimo con Dio, ed infine rinunciando alla schiavitù al tempo ed allo spazio (che sono null’altro che forme parziali dell’«essere»), ossia soprattutto la schiavitù verso cose ed eventi mondani (inclusa ovviamente l’ossessione per il possesso e per il successo).
Per questo consiglio a chi senta la voglia e la forza per farlo di leggere senz’altro l’estremamente illuminante libriccino di Lavelle dal titolo “De l’être”.
Naturalmente il pensiero di Lavelle è estremamente più complesso e profondo di quanto emerga in questa mia estrema sintesi. Per cui il mio prossimo lavoro filosofico (a Dio piacendo) sarà un’analisi delle prevalenti forme moderne dell’ontologia

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