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Archive for Maggio 2023

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Introduzione.
Vorremmo partire in questa nostra trattazione chiedendoci come mai Edith Stein, nella sua trattazione dell’uomo come spirito (in ”Potenza ed atto”) (PA) Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 26, i-j p. 380-386], abbia scelto i “Metaphysische Gespräche” (MG) di Hedwig Conrad-Martius [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018] e non invece il testo di Max Scheler che parla di fatto dello stesso argomento, e cioè “La posizione dell’uomo nel cosmo” (PSUC) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 2006]. Ma in verità la risposta a questa domanda può essere immediata e quindi non richiede alcuna investigazione – Stein partiva dall’onto-metafisica tomistico-aristotelica esattamente come la Conrad-Martius (e faceva sue anche le possibili extrapolazioni critiche contro la dottrina evoluzionistica), e quindi non poteva fare altro che definire l’«uomo-quale-spirito» in una maniera simile a quella di Scheler ma anche estremamente diversa. In particolare l’«uomo-quale-spirito veniva da Stein definito come un ente che è specchio immanente della divinità (in maniera in qualche modo simile a Scheler) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 119, p. 160-162, p. 186-191; Max Scheler, Sull’idea di uomo, ibd., 3 p. 72-79] – quindi come ente di fatto umano-divino − ma comunque sulla base di una somiglianza di natura teologica a Dio (filialità) che il pensatore rifiuta decisamente sia sulla base di una definizione molto diversa dello spirito sia anche sulla base di una concezione del tutto diversa della relazione tra uomo e Dio.
Non a caso il testo scheleriano rientra nella fase decisamente non teistica del suo pensiero (sebbene in essa un forte naturalismo si sposi con una forte religiosità ed anche con un non indifferente spiritualismo).
Inoltre Scheler concepì in modo molto diverso da Stein e da Conrad-Martius il rifiuto dell’idea evoluzionistica secondo la quale l’uomo discende dall’animale – sebbene concepisse una forte continuità biologica tra uomo ed animale sulla quale infine si eleva la spiritualità umana come un fenomeno del tutto imprevedibile e trascendente. In lui infatti non compare assolutamente la gerarchia verticale (concepita dalle due pensatrici) esistente tra i tre regni della Natura riguardanti gli esseri viventi (piante, animali e uomo), e che culmina nell’uomo come presunto scopo ultimo dell’intera evoluzione ed anche della creazione stessa (gerarchia di chiara derivazione tomistico-aristotelica). Va precisato che però Stein aveva già esposto tempo prima questa sua visione soprattutto in Der Aufbau der menschlichen Person (AMP).
Scheler non concepisce insomma affatto una linea evolutiva verticale che rechi all’uomo come ente più elevato, ma al contrario lo considera (in concordanza con Nietzsche) una sorta di finale e deviante ente “malato” e quindi difettivo, cioè qualcosa che si contrappone alla ben maggiore compiutezza e perfezione degli strati istintuali vitali (presenti nella pianta e nell’animale) che stanno sotto di esso [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., 2 p. 54-72]- In altre parole l’uomo è per lui da considerare uno spirito in un senso e per motivi molto diversi da quello della suprema elevatezza ontologica, e cioè in forza di una sorta di suo deragliamento dalla ben più plausibile condizione naturale. Sebbene poi alla fine i caratteri dell’«uomo-quale-spirito» da lui descritti siano in gran parte simili a quelli descritti da Stein.
Va precisato anche che la convergente critica all’evoluzionismo di Stein e Conrad-Martius emerge anche in un’altra opera di quest’ultima [Hedwig Conrad Martius, Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos, Otto Müller, Salzburg-Leipzig 1938]. Di tutto questo abbiamo comunque parlato in una serie di nostri scritti [Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < http://cieloeterra-wordpress.com/2022/27/10/vincenzo-nuzzo-levoluzione-nel-pensiero-di- hedwig-conrad-martius-e-edith-stein>; Vincenzo Nuzzo, La fenomenologia evoluzionistica come dinamica dell’essere e formazione vitale. Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius a confronto, Amazon, Kindle (in via di pubblicazione)].
Tutto questo ha un riflesso molto diretto sul Personalismo nel quale si inscrivono tanto il pensiero steiniano quanto quello scheleriano. Perché per Stein «uomo-quale-spirito» è una persona per due motivi filosofici abbastanza diversi (che lei fece convergere nel tentativo di conciliare Tommaso ed Husserl): − 1) in quanto è una sostanza metafisica quale anima ed anche spirito (e ciò in linea ancora una volta con l’onto-metafisica tradizionale); 2) in quanto è un Io spirituale auto-determinatosi nel contesto dell’auto-coscienza così come previsto dalla Fenomenologia husserliana e cioè sulla falsariga dell’atto di riduzione fenomenologica (ossia di fatto in quanto Io esistente trasformatosi in Io puro grazie a quel distacco teoretico la cui valenza era primariamente gnoseologica). Per Scheler invece – in base ad una teoria filosofica molto meno complessa di quella di Husserl, e che peraltro rifiutava recisamente la dottrina della riduzione fenomenologica [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 153-159] – «uomo-quale-spirito» è persona in quanto costituisce un centro di atti posto totalmente fuori del mondo sensibile, e quindi è radicalmente trascendente verso di questo nel contesto di un distacco che è “ascesi” e non invece distanza teoretica dalla valenza gnoseologica. Lo è insomma per motivi ontologici profondamente etici.
Quella appena fatta è però appena una premessa chiarificatoria, e non invece l’obbiettivo e il contenuto primario della nostra ricerca. Comunque è obiettivo secondario della nostra ricerca anche l’analisi di alcuni aspetti delle relazioni filosofiche tra Scheler e Stein. Per cui nelle conclusioni faremo delle precisazioni su questo aspetto. In ogni caso l’obiettivo ed il contenuto primario della nostra ricerca consistono nei risvolti specificamente psicologici che compaiono nella ricerca di Scheler sull’«uomo-quale-spirito». La sua intera concezione di tale entità si basa infatti non sull’onto-metafisica ma invece sua una serie di dati che egli desume dalla ricerca scientifico-empirica sia di tipo evoluzionistico che di tipo psicologico, ed inoltre sulla base di una conoscenza diretta e approfondita dell’anatomia del sistema nervoso e delle sue funzioni. Scheler infatti prima che filosofo fu medico, ossia si laureò in Medicina. Di certo, a partire da questa base, egli perviene in PSUC a conclusioni squisitamente metafisiche (che definiscono in modo ultimo l’«uomo-quale-spirito»), ma la base delle sue argomentazioni non è certamente metafisica.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi a quali conclusioni (circa l’«uomo-quale-spirito») Stein sarebbe pervenuta se si fosse basata sull’opera di Scheler e non invece su quella di Conrad-Martius (ed anche di Husserl). Ma questa questione perde ogni senso dato che il campo di ricerca da lei scelto (dopo la Fenomenologia) fu chiaramente quello dell’onto-metafisica medievale e cristiana.
In ogni caso, dato che abbiamo recentemente scritto un saggio sulla “Psicologia Sacra” (PS) [Vincenzo Nuzzo, Psicologia Sacra, Victrix 2023 (in via di pubblicazione)] vorremmo cercare di comprendere quali contributi (positivi o negativi che siano) la psicologia filosofica di Scheler potrebbe (o meno) offrire ad essa. Ma a questo punto va notato che, siccome la definizione scheleriana di «uomo-quale-spirito» si riassume nella persona umana, i risultati di questa ricerca potrebbero avere una ricaduta anche su quella concezione steiniana della persona che senz’altro si lascia inquadrare, molto più di quella scheleriana, proprio in una PS.
Peraltro in questa opera avevamo parlato espressamente di una psicologia filosofica (ed avevamo anche citato Scheler per molti aspetti di quest’ultima), e tuttavia avevamo trascurato il testo PSUC visto che ancora non conoscevamo. Eppure si può dire che questo testo va considerato come uno dei maggior contributi del XX secolo alla psicologia filosofica.
Questa investigazione ha quindi anche lo scopo di colmare questa lacuna.

  1. Cosa sono la psiche e lo psichismo secondo Scheler?
    In questa sezione intendiamo esaminare con quali specifici contenuti (almeno in PSUC) Scheler si presenta come psicologo filosofico. Infatti non è possibile essere tale senza una definizione della psiche e dello psichismo. Vedremo però anche che tale definizione è piuttosto difficile da rintracciare in Scheler. E ciò ha poi conseguenze che in seguito esamineremo.
    A questa domanda risponde comunque quasi immediatamente un articolo nel quale si sostiene che per Scheler il soggetto umano, non essendo affatto un “Io”, è invece in verità luogo di “atti” e non di funzioni [Sergio Sánchez Migallón, El sujeto humano como objeto de la Psicología: las funciones psíquicas en Max Scheler y en Carl Stumpf, Revista de Filosofia, 30 (2), 215-228]. Pertanto è chiaro che la più autentica natura dell’«uomo-quale-spirito» non è affatto quella di psiche o psichismo. E di questo potremo trovare molti riscontri in PSUC.
    Ma questo significa che esso non è nemmeno la realtà egoico-coscienziale descritta da Stein sulla base di Husserl. Il che significa che la teoria husserliana dell’Io spirituale è di natura molto più psicologica di quanto vuole far credere. E questa cattiva interpretazione viene senz’altro corretta da Scheler.
    In generale si può dire che in PSUC Scheler considera la psiche quasi unicamente come fenomeno profondo, elementare e basico, che è strettamente connesso agli impulsi vitali ed istinti, ossia a quella che egli chiama “affettività” (dimensione con la quale, però, come vedremo, non va inteso né l’emozione né il sentimento). Essa si trova quindi senz’altro al di sotto dello strato ontico corrispondente nell’uomo allo spirito. Che però (come vedremo tra poco) rappresenta uno psichismo compiuto e superiore in quanto luogo di «vissuti».
    Almeno in questo testo non è possibile però comprendere che posto e livello Scheler assegni alla mente nella compagine umana, se la identifichi o meno con la psiche e/o con lo psichismo, e quindi se egli la consideri più superficiale ed esteriore rispetto a questi ultimi. Extrapolando il suo pensiero si potrebbe dire che egli la identifica con gli aspetti più spirituali dell’essere ed agire umani. Ma vedremo che poi questa interpretazione viene alla fine a cadere.
    E più o meno lo stesso si può dire per l’anima, che egli nomina raramente (a parte alcuni accenni, tra i quali diversi dispregiativi) ed alla cui esistenza egli non sembra attribuire né valore né compito nè senso nel contesto della sua identificazione del centro umano come lo spirito.
    Al massimo quindi si potrebbe parlare della sua postulazione di un’«anima spirituale» − così come quella concepita anche da Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9-11 p. 360-396; Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio X, ESGA vol. 23, X, p. 259-262] −, ossia un’entità che ha un valore solo in quanto è totalmente riducibile allo spirito.
    Nel complesso, dunque – in relazione alle suddivisioni che abbiamo fatto in PS – si può dire che anche Scheler (come la maggior parte della psicologia ordinaria moderna) intende la psiche come profonda e la mente come solo superficiale. Tuttavia non solo questa divisione non ha in lui alcun correlato anatomico-fisiologico né metafisico (e quindi non indica affatto un’esteriorità); ma inoltre il termine «superficiale» andrebbe semmai sostituito da quello di «emergente», dato che lo spirito umano in qualche modo emerge dai fenomeni vitali ergendosi su di essi. Ma questa sua emergenza non equivale affatto né al superficiale né all’esteriore. In altre parole, insomma, la mente umana sarebbe qualcosa che si eleva sullo psichismo profondo, in qualche modo anche trascendendolo ma comunque restando con esso in intima connessione.
    Quello che è certo è che il suo punto di riferimento basico per una psicologia filosofica è stato soprattutto Bergson, del cui pensiero egli parla molto diffusamente, sebbene non risparmi anche critiche al pensatore francese [Max Scheler, Tentativi per una filosofia della vita, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 94-114].
    In questa trattazione egli si basa come sulle opere bergsoniane “Essai sur le donnée immédiates de la conscience” e “Matière e memoire”. In effetti (almeno per quanto dice Scheler) sulle prime è quasi impossibile dire cosa Bergson intenda per psiche e psichismo – dato che egli le condiziona ad un primario atto filosofico di relazione tra uomo e mondo. Egli insomma intende l’atto psichico in termini davvero primariamente filosofici, e quindi salta a piè pari qualunque anatomo-fisiologismo nella concezione della psiche (specie quello empiristico e proprio della psicologia ordinaria). In grande sintesi si tratta del fatto che per lui l’ordinaria percezione avviene soltanto nel contesto di un atto psichico che è sostanzialmente filosofico ed è costituito da un automatismo (assolutamente non pensante) esattamente equivalente all’intuizione delle cose come un “dato puro” che è poi antecedente a qualunque esperienza. Questo automatismo-intuizione precede quindi la percezione, la quale per Bergson rientra già nella sfera dell’analisi logica. Potremmo quindi considerare quello qui descritto come un atto psico-filosofico che senz’altro è pre-psicologico, nel senso che precede l’intera anatomo-fisiologia della percezione, e quindi anche la trascende.
    Per suo mezzo comunque sarebbe possibile, secondo il filosofo francese, per la via di una tensione spirituale che ricostruisce la totalità del mondo rompendo così tutti gli schemi divisori istituiti dalla psicologia nel fare appello alla mera fisiologia della percezione (e poi del giudizio). In altre parole, per mezzo di questo atto filosofico, il mondo non viene colto come frazionato in cose percepite (così come invece ha postulato l’empirismo del tutto di concerto con l’ordinaria psicologia). Ma in definitiva si tratta di ben più che del cogliere la totalità delle cose. Infatti, per mezzo di questo atto, Bergson pensa che la psiche è capace di cogliere la vita stessa (rescindendola dal mero fenomeno biologico) riuscendo in tal modo a cogliere addirittura l’essenza delle cose. La dimensione cognitiva comunque non manca. Essa infatti si presenta dopo con la memoria, entro la quale emerge la dimensione del tempo.
    Ebbene tutto questo corrisponde per Scheler ad uno dei principali postulati dell’intera Fenomenologia, ossia alla primarietà del coglimento della “datità dell’essere” come primaria rispetto a qualunque giudizio. Il che pone di nuovo in primo piano il coglimento dell’essenza delle cose, ossia l’intuizione eidetica. E questo pone in primo piano quello che è il dato fondamentale della vita psichica secondo Scheler ossia i vissuti, o meglio il «flusso dei vissuti». Ed è così che ci avviciniamo alla definizione di ciò che per lui è psiche e/o psichismo (almeno nella sua forma più elevata). Infatti in tal modo emerge quell’”uomo spirituale” – in quanto continuità indivisa e indivisibile (flusso dei vissuti) – che è dunque senza tempo in quanto consecuzione. In esso, cioè, nulla di attuale scaturisce dal passato (come avviene invece nella causalità meccanica alla quale la psicologia ordinaria si subordina mediante la fisiologia della percezione). E questo è in profonda contraddizione con le leggi della natura dato che tutto è solo creatività.
    Ed ecco dunque cos’è e cosa non è la psiche per Scheler. La psicologia ordinaria la considera infatti come “sostanza semplice” che starebbe sopra i propri vissuti, mentre invece essa «è» i suoi stessi vissuti, ossia è dinamismo instabile. E tutto questo ci riporta dunque (Bergson) all’intuizione come aspetto fondamentale (“compito fondamentale”) della vita psichica. Essa incarna infatti quell’unità dell’anima entro la quale i vissuti non sono affatto singoli, e quindi elementi oggettivi spaziali ricavabili per induzione, cioè “immagini e simboli spaziali applicati alla vita psichica”. Viene dunque esclusa qualunque costituzione della psiche dal basso. Ebbene questa creatività corrisponde alla coscienza individuale come luogo di vissuti dinamici, e come tale senza alcuna relazione con le leggi della natura – essa è qualcosa di sommamente autonomo rispetto a qualunque “immagine ontologica della psiche”. Tuttavia questa definizione della psiche collide fortemente con ciò che vedremo nella prossima sezione, e cioè il fenomeno della dipendenza di tutto questo da quegli strati profondi della psiche che contengono solo impulsi vitali ed istinti.
    Dunque, anche se questa è l’idea che Scheler ci da dello psichismo nella sua pienezza e compiutezza, esso corrisponde intanto interamente alla dimensione spirituale dell’uomo, e quindi è senz’altro qualcosa che va molto oltre qualunque concezione della psiche come anatomo-fisiologia e come energia, ossia come profondità. In qualche modo si potrebbe però dire che ciò corrisponde probabilmente a quanto il pensatore intende come mente. Ma anche quest’ultima viene intesa al di fuori degli schemi tanto della psicologia ordinaria che di quella filosofica. La dimensione dei vissuti appare infatti assolutamente primaria rispetto a tutti gli aspetti cognitivi che usualmente vengono collocati nella mente (giudizio etc).
    Tuttavia, come abbiamo appena detto, questa concezione compiuta della psiche viene considerata da Scheler in continuità con una dimensione molto più inferiore, che è caratterizzata dall’impulso vitale e dall’istinto. Quest’ultima però non può venire compresa se non entro il suo sforzo di definire cos’è lo spirito e dove esso di collochi entro la compagine umana. Per comprendere questa definizione dobbiamo quindi integrare l’intendimento scheleriano della psiche e/o dello psichismo con la sua concezione dello spirito.
    E questo va quindi trattato in una seconda sezione.
  2. Psiche e/o psichismo e spirito.
    Per questo scopo dobbiamo rivolgerci al nucleo della trattazione da lui fatta in PSUC e cioè alla parte del testo che da il titolo al libro [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 117-191]. Scheler dice subito che il problema principale è qui la “concezione essenziale dell’uomo”, ossia quell’idea di uomo che egli aveva trattato nella prima parte del suo libro nel tentativo di rifondare un’antropologia filosofica [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 51-79]. E ciò corrisponde ancora una volta esattamente allo stesso sforzo che fece Stein in AMP. Proprio qui comunque egli (in maniera fortemente divergente rispetto a Stein) aveva affermato che innanzitutto l’uomo non è affatto il culmine né dell’evoluzione né della creazione né è in alcun modo l’immediato corrispettivo di Dio nel mondo. Infatti, nel pensare questo, egli sottolinea che si dimenticano gli intensissimi legami che l’uomo intrattiene con gli strati più bassi dell’essere mondano, ossia con la Vita. E questi ultimi costituiscono quindi quegli impulsi vitali e istintuali che sono intimamente legati allo psichismo umano, e quindi fanno parte integrante di esso. Ecco allora che semmai l’uomo dovrebbe venire considerato come una sorta di forma di passaggio (o confine) sul cammino che divide Dio dalla Vita. Esso, dunque, è sì un intermedio cosmico tra Dio e mondo-vita, ma lo è in senso solo difettivo. Intanto comunque, in quanto evidente prodotto della biologia animale, esso va considerato tutt’altro che un vertice perfetto ma invece semmai un pessimo “surrogato” di quella perfezione che la Vita possiede soprattutto in termini di forza e potenza. Ecco dunque la definizione dell’uomo come “animale malato”. Intanto proprio su questa base si è preteso invano secondo lui di fondare l’unità dell’”homo naturalis” sulla sua dimensione animica (a sua volta quale diretta emanazione di Dio).
    Ma invece a suo avviso (in termini strettamente biologici e quindi sobri ed autentici) l’uomo era, è e resta solo animale. E quindi tutte quelle sue caratteristiche superiori (che sembrano di valore in quanto elevate, come ad esempio l’intelletto) non sono altro che il frutto di un fenomeno biologicamente negativo, ossia il suo mancato adattamento all’ambiente.
    Tuttavia il frutto di questo fenomeno negativo è stato comunque qualcosa di positivo, ossia la dimensione storica dell’uomo, e quindi la cultura e civiltà. Ed è pertanto solo qui che si può ritrovare un’unità dell’uomo (non certo invece sul piano dell’uomo naturale, a sua volta connesso all’anima). Inoltre è solo qui che si può rintracciare l’autentica relazione che esiste tra l’uomo e Dio, e cioè sul piano della sua somiglianza a Dio come “Persona infinita e perfetta”. L’unità dell’uomo è concepibile quindi solo come personalistica ed umano-divina; affatto invece come naturalistica. L’unità dell’uomo è dunque unicamente un fatto religioso; e quindi di natura storico-culturale e non naturale. Ecco emergere anche uno dei tratti fondamentali del Personalismo di Scheler, affatto fondato sulla concezione metafisica della sostanza animica. Ma di questo non parleremo in questa indagine.
    E proprio qui che possiamo intendere meglio il fatto che Scheler intende lo psichismo come profondo anche in senso impersonale, e cioè come quel “fenomeno psichico” che la Vita è di per sé; specie in quanto assolutamente fondamentale capacità autonoma di movimento, ossia, diremmo, «se-movenza». E questo è lo psichismo infra-umano − e quindi anche infra-personale o infra-individuale, ossia di fatto collettivo – che sta alla base degli aspetti dello psichismo umano più coincidenti con lo spirito (e quindi forse anche con la mente). Anzi essi ne rappresentano la dimensione energetica, la forza, la potenza, ossia ciò senza cui lo spirito sarebbe condannato ad una fatale impotenza. Si tratta insomma di quella dimensione psico-energetica (coincidente in qualche modo con le famose «potenze animiche», o anche facoltà mentali) che la metafisica (inclusa quella steiniana) attribuiva all’anima. Non solo, ma rispetto a quest’ultima concezione, tale dimensione è anche mono-dimensionale, ossia è caratterizzata dalla pura e prepotente “affettività”, la quale a sua volta costituisce un unico psichismo che verticalmente unisce piante, animali e uomo.
    È proprio su questa base che Scheler ritiene di potersi dedicare alla descrizione di una gerarchia ascendente di forme della vita psichica, che in qualche modo corrisponde (almeno in parte) a quella descritta anche da Stein in AMP, e che quindi ascende da pianta ed animale fino all’uomo. Tuttavia la gerarchia scheleriana differisce molto da quella steiniana. Innanzitutto perché i suoi vari strati non corrispondono affatto a quelli dell’anima secondo la sua classica tripartizione platonica – anima vegetativa (pianta), anima appetitiva (animale), anima razionale (uomo) −, e quindi anche a quelli che sono sempre stati considerati anche gli strati sovrapposti dell’anima umana stessa (e cioè in qualche modo anche della mente considerata come anima, come avveniva nell’antichità). Inoltre l’uomo (ed il tipo di anima che gli corrisponde) non rappresenta per Scheler affatto il fine e livello più alto di questo movimento verticale secondo un giudizio di valore.
    Infine la gerarchia stessa non segue la linea verticale nemmeno secondo una gradazione ascendente di valore e pienezza dello psichismo, dato che (come abbiamo già accennato) per Scheler i livelli più apprezzabili ed autentici dello psichismo sono quelli inferiori e non quelli superiori. Abbiamo visto infatti che (almeno biologicamente) l’uomo di eleva su di essi soltanto come un’”animale malato”. Di conseguenza, rispetto a quanto abbiamo detto nella sezione precedente, possiamo dire che anche la mente si distacca per Scheler nello stesso modo negativo dallo psichismo profondo. Essa, dunque, anche ammesso che è esista, non è altro che una degenerazione dello psichismo profondo.
    Dato che la descrizione scheleriana di questa gerarchia è estremamente dettagliata (e ricca anche di dati sperimentali scientifico empirici ed inoltre di localizzazioni anatomico-fisiologiche dei vari elementi), non crediamo che sia questa la sede per riportarla integralmente. Per questo quindi rimandiamo il lettore al libro. Ci limiteremo quindi ad evidenziare solo alcuni aspetti più rilevanti di queste forme ascendenti di psichismo ed alla fine ci soffermeremo soprattutto sul livello umano in quanto del tutto equivalente alla dimensione spirituale.
    In particolare, mentre in tutti gli animali vi è un “vita delle tendenze” (ossia azione), nella pianta c’è appena un indifferenziato impulso di crescita e riproduzione, che a sua volta rientra nell’affettività pura ed elementare. Abbiamo visto però che questa affettività si ritrova a tutti i livelli crescenti della vita psichica, e quindi ne rappresenta il suo aspetto davvero più profondo ed anche più generale. Scheler precisa che si tratta dell’“unità metafisica della vita” – realtà indifferenziata dalla quale possono nascere tutte le forme.
    Ed a questo corrisponde poi tutta una serie di difettività anatomo-fisiologiche dello psichismo vegetale: − totale passività, generalizzazione a tutto l’organismo dello stimolo ambientale (con assenza di qualunque centralizzazione ed autonomia delle funzioni parziali, e quindi assenza di un sistema nervoso), incapacità totale di adattamento all’ambiente, assenza di individuazione in quanto circoscrizione del proprio essere.
    Nel compensare tutte queste difettività (con caratteristiche del tutto opposte) l’animale si caratterizza sostanzialmente per l’istinto, che è quindi attività ed adattamento per definizione. Ed è ovvio che qui cominciano a comparire sia la centralizzazione della risposta allo stimolo (con la comparsa di un sistema nervoso) sia anche una forma iniziale di individuazione (sebbene sempre riassorbita nell’azione tipica della specie). Il discorso di Scheler sull’istinto è comunque molto complesso (ed anche molto illuminante specie rispetto alla dimensione del comportamento), per cui non lo riporteremo. Va solo sottolineato che, nel suo rapporto con l’ambiente (ed in maniera completamente diversa dall’essere umano), l’animale sperimenta in esso unicamente dei “centri di resistenza” alle sue tendenze, e quindi mai dei veri e propri oggetti. Per questo esso è un “centro biologico” ma in alcun modo un centro gnoseologico, ossia un ente capace di conoscenza.
    Tuttavia, restando sempre pienamente nel mondo animale, la primitività dell’istinto viene superata in un colpo dallo psichismo caratterizzato dall’associazione (“principio associativo”), ossia la capacità dell’animale di associare lo stimolo ad una determinata situazione (traendo così da questo conseguenze cruciali per l’adattamento all’ambiente). Con esso compaiono infatti prestazioni psichiche ben superiori – come emozione, sentimenti ed affetti.
    Segue poi il livello dello psichismo che è caratterizzato dall’”intelligenza pratica” e che è in comune tra uomini ed animali. Con esso l’associazione fa un deciso salto di qualità per l’intervento decisivo della memoria, e si trasforma quindi in capacità di scelta, e cioè in un comportamento differenziato secondo situazioni sempre nuove. E così lo psichismo fa un vertiginoso salto di qualità, dato che comincia a delinearsi “la comprensione di uno stato di cose” – atto psichico nel quale l’esperienza collabora ormai già con la rappresentazione. Insomma questa è davvero una prima forma di intelligenza, ed è presente anche negli animali vertebrati di livello più alto.
    Siamo ormai insomma molto prossimi allo psichismo umano, il quale si delinea, secondo Scheler, con la capacità di “ideazione”. E qui veniamo davvero al dunque perché la dimensione spirituale (e quindi forse quella mentale) è stata in tal modo già raggiunta. Scheler precisa però che non si tratta affatto di un incremento qualitativo dello psichismo precedente. Si tratta invece di un vero e proprio salto, con il quale il decorso ascensivo dello psichismo conosce un’interruzione. Perché ciò che ne nasce è un “centro di atti” che è radicalmente diverso da tutti i “centri di vita” che lo psichismo aveva configurato fino a questo momento. Si tratta quindi di una forma di psichismo che trascende tutte quelle antecedenti, nel senso che esso si colloca “fuori” dallo stesso decorso verticale ascendente delle forme di psichismo, ponendosi quindi in quel “fondamento ultimo” dell’essere nel quale poi rientra la stessa evoluzione. Con ciò si è ormai delineato lo spirito stesso, che assume poi la forma ontica della persona umana. Ed in termini specificamente psichici ciò corrisponde alla ragione (secondo la tradizione greca). Possiamo quindi dire che in qualche modo per Scheler la mente coincide con la ragione.
    Solo che per Scheler si tratta di molto più che ragione. Si tratta insomma propriamente di un insieme di intuizioni e rappresentazioni elevate ad oggetto (e proprio questo è la capacità di “ideazione”). Il che si basa sul fatto che – essendosi ormai completamente emancipato dall’”organico” – l’essere umano non è più sottomesso all’ambiente ma ha invece ormai un “suo mondo”, e così è capace di trasformare in “oggetti” quelli che per l’animale erano invece appena centri di resistenza. Esso è dunque capace ormai di conoscenza ed ancor più di comprensione. L’ideazione gli permette infatti di cogliere l’essenza stessa delle cose, ossia le “strutture eidetiche del mondo”. E con ciò quello psichismo che nell’animale era appena “segnalazione” interiore dei suoi contenuti sensoriali, si trasforma nell’uomo in riflessione. Che è poi ripiegamento” e “centralizzazione” della propria esistenza. Il che significa che l’essere umano non solo è capace di oggettivare i centri di resistenza ambientali in cose, ma è anche capace di oggettivare sé stesso come esistente. Insomma è capace di auto-conoscenza. Ecco quindi l’insorgere di un’”ipseità” che è radicalmente superiore a tutte quelle antecedenti (quella dei corpi inorganici, delle piante ed animali).
    Su questa base Scheler descrive poi tutta una serie di concetti connessi a questo superiore assetto psichico. Non ci soffermeremo però su di essi, limitandoci a ricordare solo la capacità di concepire il concetto di “sostanza” (che è quindi affatto così regressivo e difettivo come l’empirismo aveva voluto far credere) e soprattutto (in relazione all’assolutamente primaria dimensione della realtà spazio-temporale) il concetto di spazio in quanto “mondo” ed in quanto mondo esteriore ad esso.
    E quindi caratteristica tipica dell’uomo è quella di concepirsi come esistente immerso in quest’ultimo, e quindi anche come parte dell’universo. Si tratta insomma di quel «mondo fuori di noi» che anche Stein era giunta a concepire come indubitabile contro le aspettative di qualunque idealismo (cosa che la condusse poi ad una visione realista a sua volta in linea con la tradizionale onto-metafisica). E qui ci ritroviamo sempre nel contesto di quell’”Excursus sull’idealismo trascendentale” (luogo di svolta del suo pensiero dall’idealismo husserliano al realismo), in prossimità del quale ella (basandosi sui MG di Conrad-Martius) aveva definito l’uomo come spirito.
    Qui però bisogna considerare la riflessione che Scheler fa sulla moderna presa di posizione filosofica corrispondente a queste fondamentali intuizioni umane. Presa di posizione che aveva preso le sue mosse con Cartesio ed era culminata nella Fenomenogia husserliana. Si tratta insomma di quel “no” opposto al mondo puramente sensibile (cioè organico) che poi consiste nell’applicazione della sua «messa tra parentesi», ossia quella «epoché» che Husserl aveva posto come metodo (di purificazione della conoscenza) rifacendosi a Cartesio nelle sue “Meditazioni cartesiane”. Per Scheler si tratta però di qualcosa di molto più radicalmente ontologico che non invece superficialmente gnoseologico. Il “no” opposto al mondo, infatti, non è per lui affatto il frutto di un “ragionamento”, e quindi non è affatto una “sospensione di giudizio”. È invece un’“impressione interiore di una resistenza” che viene sperimentata anche già dal grado elementare della vita psichica, ossia dall’«impulso affettivo», e quindi dal centro di tendenze che esiste perfino nel sonno ossia nell’incoscienza. Ecco allora che questa impressione del mondo come intollerabile resistenza precede comunque ogni coscienza, rappresentazione e percezione. Ne risulta dunque che dietro la percezione non c’è affatto la coscienza, ma c’è invece il nostro impulso vitale.
    Questa posizione era stata espressa da Scheler anche nel suo saggio sulla questione idealismo/realismo [Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962], con la quale egli aveva sottratto la presa di posizione fenomenologica a qualunque ipoteca idealistica nel sostenere soprattutto che l’oggetto autentico è e resta quello reale ed esteriore e non invece l’«oggetto di coscienza»; ottenuto per mezzo del “no” («epoché») come messa fuori gioco di qualunque immersione ingenua nel mondo sensibile. L’oggetto insomma non è affatto un “Gegenstand” che emerga soltanto in relazione alla coscienza sveglia. È invece qualcosa che esiste del tutto indipendentemente da quest’ultima.
    Ma in tal modo siamo anche di fronte ad un elemento cruciale della concezione scheleriana dello psichismo. Infatti perfino il così sofisticato atto di trascendenza del mondo nell’ideazione si rivela stare in continuità con un’affettività fondamentale (costantemente presente a tutti i livelli della gerarchia della vita psichica) che costituisce quindi lo psichismo più fondamentale, ossia quello realmente profondo. In altre parole di esso l’uomo non si libera mai, nemmeno ai livelli così alti del suo psichismo mentale-spirituale. Esso, insomma, è lo psichismo reale ed autentico che accompagna perfino lo stato psichico proprio dell’«uomo-in-quanto-spirito».
    Infatti, nel negare la veridicità di tutte tradizionali concezioni dello spirito – quella negativa e moderno-filosofica appena discussa e quella antica e greca che attribuiva allo spirito la massima potenza creativa −, Scheler afferma che lo spirito umano è in verità un “insieme di intenzioni, per sua natura impotente”. Esso è insomma la debolezza in persona. E quindi non avrebbe mai alcuna potenza e forza se esse non venissero conferite ad esso dal quello psichismo profondo che è poi comune a tutti gli esseri viventi, e meno che mai all’«uomo-in-quanto-spirito», ossia all’uomo come mente.
    E uno dei maggiori responsabili della mancata comprensione di questo è per lui proprio quel Cartesio al quale si era riferito Husserl in maniera decisiva nel concepire lo spirito umano come negazione di qualunque forma di mondanità ed anche di psichismo inferiore (quel mondo “hyletico” che egli aveva deplorato come decisamente non all’altezza dell’uomo) [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, III, I, 85. p. 213-217]. Nel distinguere res cogitans e res extensa Cartesio aveva infatti istituito un dualismo nel contesto del quale era stato di fatto negato lo psichismo agli enti inferiori (piante ed animali). E quindi era stato negato lo psichismo stesso nella sua maggiore autenticità.
    E a tale proposito – riferendosi espressamente alle sue conoscenze mediche di anatomo-fisiologia del sistema nervoso – egli afferma che lo psichismo più autentico si ritrova ad un livello molto primitivo e profondo del cervello ossia nel tronco encefalico e nelle strutture della base cerebrale come il talamo (corrispondenti poi pienamente all’affettività). La coscienza, invece, corrispondente al livello corticale, rappresenta uno psichismo decisamente poco autentico e poco pieno, ossia del tutto marginale e secondario. Insomma non è affatto nella coscienza che consiste il vero psichismo.
    Ed ecco allora che possiamo supporre che perfino la mente rientri per lui in questo giudizio di inconsistenza ontica. Il che significa che probabilmente non è vero quanto avevamo supposto finora, e cioè che la dimensione spirituale corrisponde alla mente stessa. Essa è invece semmai qualcosa di radicalmente diverso dallo psichismo. L’autentico psichismo è per lui invece “fisiologico” e quindi corporeo. Per cui non esiste alcuna differenza tra mente e corpo.
    Su questa base egli si dedica poi alla finale descrizione di un’antropologia filosofica entro la quale compare come protagonista assoluto solo l’«uomo-in-quanto-spirito». Non crediamo necessario discutere questa riflessione se non per due aspetti fondamentali. In essa Scheler ci mostra infatti che l’«uomo-in-quanto-spirito» rappresenta una realtà postarsi decisamente fuori del mondo, e quindi è decisamente metafisica ed inoltre anche religiosa. Infatti qui egli esamina anche il rapporto che vi è tra uomo e Dio. Inoltre proprio per questo l’«uomo-in-quanto-spirito» coglie sé stesso come esistente ed affatto invece come “Io”.
    Questo significa quindi che la realtà dell’”Io” (così come quella di una coscienza che non è ancora auto-coscienza, come avviene solo nell’«uomo-in-quanto-spirito») rientra senz’altro nella dimensione psichica e si pone decisamente fuori di quella spirituale. Il che senz’altro esautora tutte le riflessioni di Husserl e Stein sulla natura egoico-cosciente del cosiddetto “Io spirituale” [Edmund Husserl, Idee…cit., I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541; Edith Stein, Potenza…cit., V-VI p. 147-386; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365].

Conclusioni.
Max Scheler dimostra senz’altro con questo libro di essere (insieme a Bergson) uno dei principali psicologi filosofici del nostro tempo. Ed a questo contribuisce senz’altro in modo decisivo l’abbondanza delle sue conoscenze nel campo della scienza empirico-sperimentale ed anche dell’anatomia e fisiologia della psiche. Il che è stato certamente decisivo per un approccio alla psiche che nelle sue basi non è assolutamente metafisico. Quindi per lui la psiche è tutto tranne che una sostanza metafisica. Ed abbiamo visto che essa non coincide nemmeno con l’anima, per cui diverge decisamente dall’approccio metafisico-tradizionale alla psiche stessa.
Non c’è dubbio, dunque, che questo genere di approccio psicologico-filosofico non potrebbe avere nulla a che fare con una PS.
Esso è però sicuramente invece metafisico ed anche religioso il suo approccio all’«uomo-in-quanto-spirito». E questo intendimento potrebbe coincidere con una PS. Ma intanto abbiamo visto che quest’ultimo si pone decisamente fuori di qualunque definizione della psiche.
Ora è intuitivo ritenere che questa realtà possa corrisponde alla mente, e per qualche suo tratto sembra anche esserlo. Ma l’ultimo capitolo del libro di Scheler [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 186-191] – dedicato alla definizione ultimativa dell’antropologia filosofica e quindi dell’«uomo-in-quanto-spirito» − non lascia alcun dubbio in tal senso. Infatti sembra che per lui la dimensione spirituale umana sia molto più che mente, e ciò in quanto essa si pone decisamente fuori dell’essere. Essa però (paradossalmente) resta in continuità con i livelli più profondi ed autentici dello psichismo (ossia quelli più vitali, corporei e biologici, che poi a loro volta corrispondono pienamente alla Vita nella sua prorompenza. Più precisamente si tratta dell’affettività come incoercibile tendenza degli esseri viventi a mantenere una relazione vitale con l’ambiente che li circonda, ossia ad investirla con la propria presenza.
Dunque di nuovo, a causa di questo, la psicologia di Scheler appare porsi del tutto fuori di una PS.
Ebbene questa crediamo che possa essere la chiave di volta dell’intera questione della psicologia filosofica di Scheler. Perciò, sulla sua base, vorremmo ora tentare di delineare una struttura generale dello psichismo così come essa emerge dalla sua riflessione. Ed in questo nuovamente ci riferiamo alle suddivisioni strutturali che abbiamo fatto in PS.
Scheler concepisce lo psichismo sostanzialmente come profondo e peraltro anche universale. Per cui la sua dottrina potrebbe ben venire considerata una sorta di panpsichismo [Joanna Leidenhag, “Unity between God and mind? A study in the relationship between panpsychism and pantheism”, Sophia 58 (4) 2019: 543-561], sebbene limitato alla realtà terrena e non esteso invece a tutto l’universo. Il tratto fondamentale ed essenziale di questo psichismo profondo è l’affettività. Ed esso si mantiene immutato nel corso dello sviluppo verticale delle varie forme di psichismo dalla pianta all’uomo – nonostante i caratteri specifici che lo psichismo assume nel corso di questo sviluppo. Se dunque volessimo dire in cosa consiste la psiche profonda per Scheler, dovremmo dire che essa consiste sostanzialmente nell’affettività, e cioè in impulsi vitali ed istinti. Ed in termini evoluzionistici ciò significa che, almeno sul piano biologico, l’uomo è sostanzialmente un animale; e nemmeno l’animale razionale della tradizione aristotelica, ossia è un animale in piena regola. Il questo senso quindi la sua definizione della psiche assomiglia molto a quella freudiana. Solo che egli contesta il concetto freudiano di “rimozione”, dato che esso concepisce per lui lo psichismo in termini unicamente negativi.
Ebbene cosa resta allora della psiche oltre questo? Resta davvero poco o nulla, dato che abbiamo visto che in effetti per lui la dimensione mentale (nel suo coincidere tendenziale con quella spirituale) si pone decisamente fuori di qualunque sviluppo dello psichismo dai suoi strati inferiori a quelli superiori. Peraltro anche la dimensione dell’”Io” è per lui molto più una realtà filosofica che non autenticamente psichica. E la coscienza poi costituisce una realtà puramente marginale corrispondente ai luoghi vitalmente meno onticamente rilevanti dell’anatomo-fisiologia umana, ossia la corteccia cerebrale. Quanto poi all’auto-coscienza essa rientra pienamente nella dimensione spirituale dell’uomo e quindi non ha nulla di psichico.
E quindi siamo obbligati a concluderne che per Scheler la psiche è unicamente profonda in quanto in primo luogo “fisiologica” e corporale; motivo per cui essa non solo va attribuita anche a piante ed animali ma va anche considerata come una mente affatto divisa dal corpo. Tutto ciò che resta (e che si colloca unicamente al livello supremo della ideale linea verticale dello sviluppo dello psichismo, ossia alla realtà dell’uomo) è dunque solo «spirito». Per cui dobbiamo concludere che per lui vi è un’opposizione ontica davvero radicale tra psiche e spirito. Motivo per cui, in base alla sua psicologia filosofica, non può venire concepito alcunché che sussista a livelli più superficiali e/o esteriori rispetto allo psichismo profondo. Lo psichismo insomma sussiste da solo senza la compresenza di alcuna mente.

Un’ultimissima serie di riflessioni conclusive va dedicata infine alle divergenze che abbiamo constatato tra Scheler e Stein (unitamente a Conrad-Martius) rispetto alla concezione dell’«uomo-in-quanto-spirito» ed all’approccio filosofico per poterlo concepire. Ed abbiamo già detto che questo era lo scopo secondario della nostra investigazione. Abbiamo visto che entrambi i pensatori concepiscono questa realtà in quanto radicalmente metafisica. Quanto poi a Stein, ella non parla nemmeno né di psiche né di mente. Ella suppone infatti del tutto implicitamente (secondo l’antica tradizione onto-metafisica) che l’anima rappresenti perfettamente entrambe le realtà. Ed inoltre ella si era opposta decisamente alla psicologia empirica già all’inizio della sua ricerca filosofica, e quindi non poteva affatto concepire la mente in questo modo, anche solo per puri motivi filosofici [Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996]. Tuttavia la pensatrice restò legata ad una dottrina dell’”Io” e della coscienza (in obbedienza alla Fenomenologia husserliana), la quale, sebbene concepita in termini filosofici ed assolutamente non psicologistici, configura comunque una sorta di «mentalità» superiore. Quanto poi al sussistere di uno psichismo profondo essa non si pone alcuna domanda rispetto al suo sussistere (se non nel negarne il valore nell’opera appena citata, in quanto in conflitto con una vera antropologia) – a meno che con non lo si voglia considerare come equivalente con l’anima vegetativa ossia quella della pianta. Per cui nel complesso diremmo che la riflessione steiniana sfugge decisamente ai termini della concezione dello psichismo che derivano invece chiaramente dalla riflessione scheleriana. Pertanto ella non può sicuramente rientrare nel novero dei moderni psicologi filosofici.
Pertanto in definitiva (a parte la tendenziale, ma anche dubbia, valenza «mentale» dell’”Io” e della coscienza), nemmeno in lei possiamo ritrovare una definizione dello psichismo che distingua tra una dimensione profonda (psiche) ed una dimensione superficiale (mente). E quindi non possiamo ritrovare in lei alcuna definizione della struttura dello psichismo.
Tuttavia la sua (sia pure solo implicita) identificazione dell’anima tanto con la psiche che con la mente colloca decisamente la sua dottrina nel contesto della PS. Specialmente se si considera che in definitiva per lei l’anima era per lei in definitiva una sostanza spirituale.
E quindi riteniamo che proprio questo elemento possa differenziare le due visioni quanto a definizione dello psichismo (almeno secondo i nostri criteri): − quella di Stein riesce almeno ancora a rientrare nei termini della PS, mentre quella di Scheler non vi riesce affatto, o comunque solo molto limitatamente.

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ABSTRACT.
Ho appena ultimato un mio articolo dal titolo “La paralisi empirista della conoscenza, la metafisica di Suárez e la metafisica integrale”. L’articolo si basa sul confronto dei testi di tre pensatori, due empiristi (Locke e Hume) ed uno metafisico (Suárez) [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022; David Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2016; Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011].
E si badi bene che Suárez conta come forse il pensatore più grande della Scolastica dopo Tommaso d’Aquino.
Ora è ben noto che l’empirismo del XVIII secolo è stato caratterizzato anche da una buona dose di scetticismo, sebbene gli autori da noi trattati si rifiutino di venire considerati scettici. E quindi in qualche modo è ovvio che esso ha indebolito senz’altro la conoscenza. Ma intanto (paradossalmente) il loro intento filosofico era quello di fondare interamente la conoscenza sulla percezione proprio per renderla ragionevolmente certa ed affidabile. Con il loro pensiero si è affermato quindi un intendimento della conoscenza che la scienza empirica avrebbe fatto totalmente suo nel porre l’esperimento ripetibile (riprendendo così un pensiero galileiano) come atto indispensabile. E da allora in poi questa scienza ha concepito la conoscenza negli stessi termini sobriamente «fisiologistici» che abbiamo descritto nell’articolo a proposito di Locke ed Hume.
Il principio centrale di questo fisiologismo (proprio soprattutto di psicologi, medici e biologi) è che nessuna idea di cosa possa essere veridica se non è connessa ad una cosa realmente esistente per mezzo della percezione. Dunque la percezione viene considerata cruciale entro la conoscenza.
E questo argomento è divenuto poco a poco non solo un’ovvietà ma anche un dogma assolutamente indiscutibile. Tanto che qualunque fisiologo schernirebbe ferocemente chiunque osasse porlo in discussione. Eppure la metafisica da noi presentata, quella di Suárez, afferma l’esatto contrario di ciò, e cioè che la conoscenza è tanto più certa ed appropriata quanto più è lontana dai sensi. Per lui infatti la conoscenza veridica delle cose sensibili è possibile solo dopo che l’intelletto ha raggiunto il livello supremo sul quale giacciono i principi primi ed universali, e dunque le verità che sono certe in quanto indubitabilmente chiare ed evidenti. Essa dunque conosce le cose sensibile solo dopo un atto di deduzione.
Ebbene la paralisi empiristica della conoscenza si lascia riconoscere proprio entro il campo di tensione che si crea tra queste due opposte visioni. Entrambi i pensatori ritengono infatti che più la conoscenza si allontana dei sensi, penetrando così nelle profondità della mente, più essa viene minata dalla “immaginazione” e perfino dal “ragionamento” − nei quali le idee semplici (ancora immediatamente in relazione con la percezione) sono ormai divenute complesse −, e ciò fino al punto di generare molto probabilmente oggetti del tutto fantastici ed irreali. Oggetti, cioè, che non hanno alcun riscontro nel mondo reale, e che quindi non potranno mai venire percepiti per davvero. Ma tali oggetti sono per Locke ed Hume propriamente quelli che vengono concepiti dalla metafisica (ente, sostanza, identità, indivisibilità infinita dello spazio e tempo, etc.). Siamo insomma di fronte a quelli che Kant avrebbe dispregiativamente chiamato “chimere” e “paralogismi”, producendosi così una liquidazione della metafisica che è divenuta anch’essa un dogma indiscutibile per filosofi, scienziati e uomini comuni.
Ed eccoci allora di fronte all’elemento centrale della paralisi empirista della conoscenza, dato che Locke e Hume sono concordi nel ritenere che, a causa di queste distorsioni mentali, la conoscenza degli oggetti metafisici non debba in alcun modo venire perseguita.
Su questa base abbiamo condotto la nostra analisi testuale, confrontando così le idee espresse nei tre testi. Ma ci siamo immediatamente accorti che ciò che dovevamo esaminare non era l’efficienza della conoscenza (così come concepita e garantita dalle due visioni, quella empiristica e quella metafisica) bensì semmai il tipo di condizioni che ad essa vengono poste. Condizioni che sono diametralmente opposte tra le due visioni. Ebbene, una volta posto questo criterio di confronto, appare evidente che la metafisica di Suárez non proibisce (né ritiene fallimentare) la conoscenza di alcun campo dell’essere – da quello degli oggetti sensibili (che essa semmai auspica) fino a quello degli oggetti più astratti in quanto lontanissimi dalla realtà sensibile. Dunque ne abbiamo concluso che la metafisica del pensatore spagnolo non produce alcuna paralisi della conoscenza. E questo vale anche per la metafisica in generale. Nelle conclusioni però abbiamo sottolineato che quella di Suárez fu una metafisica molto moderata, dato che essa volle intendere sé stessa come una sorta di scienza naturale, sebbene “speculativa”. Per cui la sua inibizione della paralisi della conoscenza è ben più debole di quanto sarebbe dovuta essere. Ben più forte è stata invece tale inibizione nel contesto della metafisica sostenuta da autori tradizionalisti (come Guénon, Schuon, Bérard e Vallin) [René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975; René Guénon, Il Regno della Quantità ed i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano 2006; Frithjof Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediteranee, Roma 1998; Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007], laddove poi proprio Vallin ha dato a questa disciplina il nome di “metafisica integrale”. E con essa va intesa una metafisica esattamente equivalente a quella Scienza Sacra originaria e primordiale che è propriamente divina e che l’uomo è venuto a conoscere per mezzo delle varie Rivelazioni.
Al proposito va inoltre precisato che Suárez (nell’impostazione scientifico-naturale che egli aveva voluto dare alla sua metafisica) si era rifiutato in partenza di intenderla in questo modo, ossia come conoscenza delle entità sovrannaturali. Questo era infatti per lui un compito della sola teologia. Ma del resto l’intera metafisica occidentale (a partire già dalla Scolastica) si era rifiutata di (con maggiore o minore forza) di intendere sé stessa in questo modo. Tanto è vero che essa non aveva mai smesso di concepire il conflitto esistente tra Ragione (filosofia e metafisica) e Fede (teologia). Ebbene Proprio per questo motivo nelle conclusioni dell’indagine abbiamo preso in considerazione anche il pensiero di un attuale autore che è fisico nucleare ed anche filosofo, ossia Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Secondo la sua visione, infatti, la moderna scienza naturale (specie nella sua avanguardia rappresentata dalla fisica sub-particellare e quantistica) sta ormai preparando l’avvento di un nuovo paradigma, secondo il quale la scienza stessa si dichiara assolutamente bisognosa dell’apporto della metafisica.
Dunque la paralisi della conoscenza appare essere di certo un deplorevole fenomeno per il quale la cultura umana è dovuta passare (specie dal Rinascimento in poi, e con punte estreme nell’Illuminismo e nel Positivismo), ma non appare intanto affatto una necessità oggettiva alla quale la conoscenza stessa debba sottomettersi. Anzi sembra che le cose stiano in maniera del tutto opposta.

ATTENZIONE:
A chi volesse leggere il saggio nella sua interezza siamo pronti a fornire il file in pdf, con la preghiera però di considerarlo protetto dalle vigenti leggi del copyright, e quindi non passibile di venire riprodotto anche solo in parte senza menzionarne l’autore, ossia il sottoscritto.

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