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Archive for giugno 2020

Quello che ho detto del tempo nella diciottesima lezione vale più o meno anche per lo spazio.
Anche lo spazio è infatti una continuità, e pertanto il concetto di «sostanza» si presta bene a raffigurarlo (insieme al connesso concetto di «causalità»). C’è tuttavia una rilevante differenza tra le due dimensioni ontologiche. Ed essa consiste nella differenza esistente tra dinamismo e stasi – infatti l’essenza del tempo è il dinamismo, mentre l’essenza dello spazio è la stasi.
Ho concluso la precedente lezione dicendo che in verità l’essere va considerato dinamico, e quindi non posso qui contraddirmi affermando l’esatto contrario. Su questo aspetto potrò però essere più chiaro solo alla fine di questa lezione. In realtà ho però anche detto che l’essere non è né dinamico né statico, ma è semmai invece un insieme inestricabile di queste due dimensioni. E così posso ora aggiungere che l’essere dinamico alla fine sfocia sempre nell’essere statico nel momento in cui configura una Totalità. Quest’ultima può essere di certo una totalità infinita ma non per questo cessa di essere ciò che è, ossia una incommensurabile Unità. E come tale è inevitabilmente statica, ossia è e resta uguale a sé stessa. Il che avviene poi inevitabilmente nel tempo, ossia avviene perennemente. Quindi la Totalità quale Unità «è e resta perennemente identica a sé stessa», cioè resta identica a sé stessa sia spazialmente sia anche temporalmente. Come ho detto poc’anzi, alla fine di questa lezione potremo giungere alle definitive conclusioni circa questo aspetto.

Ci troviamo comunque in tal modo davanti alla stessa distinzione che abbiamo riscontrato per il tempo – vi è insomma uno spazio immanente ed uno spazio trascendente. Lo spazio immanente corrisponde all’effettiva estensione (che noi cogliamo molto distintamente per mezzo dei sensi), mentre lo spazio trascendente corrisponde ad una solo apparente estensione.
L’estensione spaziale effettiva è dunque quella che è caratterizzata dalla consecuzione (o sequenza) di luoghi in quanto punti, ed essa è talmente serrata da suggerirci sempre l’immagine di una linea. La linea è insomma una somma di punti, o anche luoghi. E su questo poi la filosofia ha iniziato a riflettere molto precisamente già da Aristotele in poi. Infatti nelle “Categorie” egli fa un’analisi molto precisa ed esaustiva della linearità spaziale. Ma non mi soffermo su questo perché dovrei entrare molto in dettaglio.
L’estensione solo apparente è invece quella che è caratterizzata da una linea (quale insieme di punti) in assenza però di una vera continuità. Infatti ogni suo luogo o punto essa rinvia alla Totalità dell’estensione, ed è quindi essa stessa un Tutto. Tale discorso è molto simile a quello che abbiamo fatto al riguardo della Totalità del tempo trascendente, ossia l’eternità. La differenza sta solo nel fatto che, mentre li si trattava dell’«eternità di un quando», qui invece si tratta dell’«ubiquità di un dove». In altre parole qualunque «dove» dell’estensione trascendente è sempre anche un «dovunque», e quindi configura sempre un «tutto spaziale». Invece qualunque «quando» del tempo trascendente è sempre anche un «sempre», e quindi configura un «tutto temporale».
Inutile dire che, almeno da Kant in poi, questo genere di discorso sullo spazio trascendente (così come sul tempo) è divenuto filosoficamente insostenibile. Kant direbbe che esso non trova alcun riscontro nell’esperienza, quindi è un assurdo logico costruito artificiosamente dalla mente (una “chimera” o “paralogismo logico”), e pertanto è privo di qualunque effettiva realtà. I moderni filosofi analitici e del linguaggio troverebbero inoltre in questo discorso tutta una serie di esiziali cortocircuiti logici che secondo loro hanno piena giustificazione nelle false connessioni tra cose che tende a venire istituita dalla mente soggettuale. E che poi sono prive di qualunque presa nella realtà oggettiva.
Tuttavia – anche se non potrei menzionarne i luoghi specifici – nel pensiero antico lo spazio trascendente veniva considerato esattamente come io l’ho poc’anzi descritto. E prova può esserne il fatto che il discorso tomista sull’Atto puro (vedi lezione diciassettesima) si presta bene a venire extrapolato in questo senso – lo spazio trascendente insorge quando viene abolita la necessaria progressione di essere da potenza ad atto (cioè da possibilità a realtà), e quindi viene abolita la sequenza di luoghi. In questo caso il singolo luogo (potenza) è sempre ontologicamente equivalente alla totale estensione dello spazio (atto); ossia la potenza è sempre già tradotta in atto.
È evidente che con ciò si è sempre descritto lo spazio corrispondente al livello divino di essere – caratterizzato dall’eternità così come anche dall’ubiquità (o omnipresenza). Ed in effetti, se ci riportiamo al concetto gregoriano di “adiastáto”, possiamo constatare che lo spazio eterno è esattamente privo di estensione, e quindi non è assolutamente sequenziale.
Intanto bisogna registrare la davvero fondamentale riflessione cartesiana sullo spazio, che identificò quest’ultimo esattamente come “res extensa”, ossia attribuì ad essa esattamente il carattere essenziale dell’estensione. Per Cartesio insomma lo spazio non è altro che estensione, e quindi è invariabilmente sequenza. Ebbene, questo non è solo lo spazio immanente ma è anche il modello ontologico per qualunque genere di possibile spazio. Per cui non vi è per lui alcun altro spazio; meno che mai uno spazio trascendente. Quest’ultimo può infatti corrispondere al massimo a quella “res cogitans” che è la sostanza della mente, e come tale è un flusso più che non una sequenza.
Kant venne infine a dirci che, se è vero che lo spazio esiste primariamente nella nostra mente (come “a priori”), intanto esso viene però proiettato sulla realtà presentandosi così a noi invariabilmente proprio come una sequenza, e precisamente una sequenza casuale. Pertanto, pur essendo in principio soggettivo, per lui lo spazio oggettivo è comunque lo stesso di Cartesio.
E credo che di più davvero non ci sia da dire sulla classica trattazione filosofica dello spazio. Almeno io personalmente non ho studiato così approfonditamente il tema da poter elencare ulteriori dottrine che lo teorizzino.

A questo punto non mi resta che rifarmi, quindi, agli studi tradizionali che ho già altre volte menzionato nel corso di queste lezioni. I quali a loro volta si rifanno ad una riflessione metafisica che in Occidente è avvenuta soprattutto nel neoplatonismo (specie con Plotino), mentre in Oriente è avvenuta con i Vedanta ed in parte anche con il Buddhismo.
Secondo questa tradizione di pensiero (che potremmo genericamente definire «platonica») lo spazio immanente non esiste affatto almeno quanto non esiste affatto l’essere immanente. Essi sono certamente evidenti ai nostri sensi (tanto che all’uomo comune può sembrare una vera follia negare che esista qualcosa come lo spazio esteso), ma in verità tutto ciò è solo frutto di illusione.
Ebbene per tutto questo mi è sempre sembrata paradigmatica la riflessione condotta su tale aspetto da René Guénon [René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi, Milano 2006, 1-4 p. 19-55]. Egli sostiene in particolare che l’intera fisica moderna ha commesso il grave errore di scambiare la massa elementare con la corporalità elementare – come se, insomma, noi cogliessimo percettivamente ciò che è elementarmente quantitativo (cioè la struttura fondamentale delle cose, o enti) in quanto corpo. È un fatto, del resto, che l’intera fisica moderna (dalla filosofia della Natura rinascimentale in poi) ha descritto tutto il possibile in termini di relazioni tra “corpi”. Guénon sostiene invece che la corporalità è l’esatto contrario di ciò che è fisicamente elementare, e cioè la massa che noi (su sollecitazione della scienza) crediamo di cogliere come dimensione quantitativa basica. Quest’ultima è infatti quanto noi usualmente definiamo come «corpuscoli» (molecole, atomi etc.), che si ritiene poi vadano a costituire le cose del mondo in quanto corpi. Tutto ciò, dice lo studioso, non è altro che il livello più infimo dell’essere, ossia quello che appunto corrisponde alla “materia” bruta e primordiale.
E quest’ultima è “quantità”, in luogo di “qualità”, esattamente perché non è organizzata in alcuna struttura. Dunque essa è solo puro caos, e pertanto non può essere nemmeno intelligibile.
Per questo si tratta di massa e non di corporalità. Quest’ultima è invece organizzata e composta per definizione, e pertanto è perfettamente intelligibile.
È evidente, quindi, che quanto non ha alcuna struttura non può nemmeno in alcun modo costituire la struttura fondante la realtà. Ossia (nella questione che stiamo dibattendo) la struttura fondante la realtà non può essere affatto lo spazio occupato dai corpi che a loro volta stanno tra loro in relazione dinamico-causale. Tutto ciò significa allora che è stata del tutto arbitraria l’assunzione di poter toccare il fondamento delle cose semplicemente portando l’indagine sempre più in basso lungo i livelli di essere. Tutto ciò ha avuto quindi solo il significato di pervenire al supremo «basso». Ma non ha significato affatto pervenire ad una spiegazione ultima.
In altre parole l’accusa di Guénon alla moderna scienza empirica (con al centro la fisica della massa e dei corpi in relazione causale tra loro) è quella di averci condotto a conoscere un mero nulla, ossia di averci portato a non conoscere affatto.
Ecco che allora ciò che ci viene dato come struttura fondamentale della realtà, è in verità una costruzione totalmente artificiosa ed irreale. In tal modo, infatti, dice Guénon, ci viene dato appena di venire a sapere del livello di essere che si trova al di sotto (“infra”) del vero ed autentico livello basilare della realtà, che è appunto caratterizzato dai corpi (in quanto strutture composte e complesse, e non invece elementari).
È in tale contesto che, secondo lo studioso, è nata nella scienza della Natura l’idea dello spazio come estensione fondamentale, ossia contesto nel quale dei corpi elementari starebbero in relazione tra loro costituendo così il tessuto sottilmente quantitativo di qualunque forma di realtà. È evidente che allora, se pure tale spazio può venire concepito, esso non può venire affatto inteso come il fondamento della realtà. E quindi diviene giustificatissimo considerarlo appena un’illusione dei sensi. Esso, infatti, corrisponde perfettamente al luogo più infimo ed oscuro dell’essere in cui regna in verità il più puro caos, e cioè quello corrispondente alla materia bruta. Anzi per Plotino questo è il luogo in cui non regna altro che il male stesso.
Del resto non è affatto difficile provare la veridicità di tutta questa dottrina. Basta infatti che io mi giri intorno nella mia stanza e non vedrò altro che corpi, cioè strutture complesse e composte invece che elementari – tali sono la sedia su cui siedo, il tavolo al quale mi appoggio, e le mura che mi circondano etc. Io non percepisco altro che questo, e quindi addirittura non ho alcuna prova dell’ipotetico spazio invisibile che (come continuità infra-sensibile) connette tutte queste cose. Di certo io intanto «mi oriento nello spazio», cioè identifico delle grandi direttrici che mi fanno sentire al centro di uno spazio ben ordinato.
Ma anche questo non è che un insieme composto e complesso, ossia è un blocco corporale e quindi è una Totalità corporale.
È ovvio però che qualunque moderno scienziato della Natura (ancor più coloro che hanno approfondito la fisica sub-particellare) potrebbe solo sbellicarsi dalle risate di fronte ad una dottrina come questa.
Sta di fatto, comunque, che essa non ha alcuna pretesa di essere una dottrina scientifica, bensì vuole essere solo una dottrina metafisica, e specificamente onto-metafisica. Abbiamo anche visto che peraltro l’argomentazione non è priva di una sua logica ineccepibile.
A questo va aggiunto però che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo iniziò a svilupparsi quella teoria “gestaltica” che diede ragione dell’essere proprio come insieme di Totalità corporali organizzate ed esso stesso alla fine Totalità corporali organizzata [Barry Smith (ed), Foundation of Gestalt Theory, Philosophia Verlag, München Wien 1988]. Ma sta di fatto che questo era stato già perfettamente intuito da Platone nel Timeo.

Che dire allora?
La visione metafisica (specie se orientata «platonicamente») ci permette di non incorrere in una molto probabile illusione nella quale sembra incorrere perfino la scienza empirica più rigorosa e realista. E si noti bene che questa è una metafisica davvero estrema. In essa è infatti del tutto assente perfino quel concetto di sostanza che, da Aristotele in poi, è stato impiegato proprio per giustificare l’idea di una spazialità fondamentale. Infatti nell’argomentazione di Guénon non vi è alcuna traccia di tale concetto. E del resto, altrove nello stesso libro, egli identifica la dimensione qualitativa dell’essere (ossia quella per lui davvero rilevante) con l’”essenza”; laddove invece la dimensione quantitativa viene da lui identificata con la “sostanza”.
Ecco allora che l’onto-metafisica di stampo aristotelico si presenta come un vero e proprio materialismo a fronte di quella platonica. E sembra quindi che proprio da tale materialismo (che esso sia scientifico o addirittura metafisico) si debba fuggire per non cadere in una delle più robuste illusioni che caratterizzano la nostra esistenza, cioè quella di vivere restando costantemente immersi in uno spazio. Del resto va al proposito anche osservato che sia il concetto di «spazio» che quello di «mondo» sono sostanzialmente metafisici e non scientifici. Nessuno di noi infatti si imbatte, nel corso dell’esperienza sensibile, in un oggetto riconoscibile come spazio o mondo. E ciò rende le cose davvero paradossali.

Bene! Allora quale lezione possiamo trarre da tutto questo, sintetizzando la questione a vantaggio dell’uomo comune? Se lo spazio (immanente) è in verità solo un’illusione, quale ricaduta può avere questa consapevolezza nella nostra esistenza quotidiana?
Io direi che la principale ricaduta è quella che ho evidenziato anche alla fine della lezione sul tempo. Infatti l’assenza di un fattuale «dove» corrisponde abbastanza bene all’assenza di un fattuale «quando».
E pertanto, quando io soggiorno in un luogo (avendo così davanti a me la prospettiva di dovermi penosamente ed interminabilmente trascinare da questo luogo ad altri luoghi successivi) in verità non sono affatto davvero lì, ma sono invece in qualunque possibile luogo dell’infinità corrispondente allo spazio trascendente. Ecco allora che la dimensione dell’eternità (corrispondente al tempo trascendente) equivale alla dimensione dell’infinito (corrispondente allo spazio trascendente).

In verità non è affatto difficile rappresentarsi questa costante relazione esistente tra lo spazio immanente e quello trascendente. Anzi essa ha perfino una sua stringente logicità di tipo simbolico-geometrico.
Tale logicità consiste in due fatti appaiati e interconnessi tra loro. Il fatto che lo spazio immanente è una Totalità unitaria solo potenziale, cioè per davvero molteplice, e quindi per davvero essa consiste in una sequenza di punti-luoghi (i molteplici «dove»); e il fatto che lo spazio trascendente è invece una Totalità unitaria pienamente attuale, cioè per davvero unitaria, e quindi per davvero essa consiste in un solo punto (che a sua volta in maniera sublime corrisponde ad una linea priva di estensione sequenziale). Ecco che la Totalità unitaria potenziale è l’effettiva spazialità intesa come sequenza, mentre la Totalità unitaria attuale è la super-spazialità infinita.
Un diagramma può servire a comprendere meglio questa relazione. Esso consiste in definitiva in un semplicissimo triangolo la cui base poggia sulla linea dello spazio immanente mentre il suo vertice tocca un punto della linea dello spazio trascendente. Possiamo facilmente constatare come un solo punto dello spazio trascendente (quello toccato dal vertice del triangolo) abbraccia in sé un intero segmento della linea dello spazio immanente (corrispondente alla base del triangolo). E così possiamo dire che i due punti (apparentemente) separati da questo segmento sono in verità uniti nel punto trascendente. Tutto questo può del resto valere anche per la relazione tra tempo immanente e tempo trascendente. Per cui ciò che vale per l’infinito vale anche per l’eternità. Pertanto, così come l’intero tempo di un’esistenza (o anche di un mondo) può essere ricompreso in un solo punto dell’eternità, allo stesso tempo l’intero spazio di un’esistenza (o anche di un mondo) può venire ricompreso in un solo punto dell’infinito.
Bisogna far notare che questa serie di immagini teoriche non è altro che la conseguenza della dottrina filosofico-metafisica (prevalentemente platonica) secondo la quale l’Uno (cioè il Punto supremo, o anche Principio) contiene in sé totalmente la molteplicità immanente.

Ebbene, tutto ciò ha una conseguenza estremamente importante dal punto di vista metafisico-religioso, che è stata analizzata in maniera profondissima da Edith Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006]. Uno degli aspetti della località rigorosamente determinata è infatti quello della nostra finitezza di enti umani. Noi, insomma, sentiamo di non avere il diritto di considerarci anche appena un po’ più grandi di quel punto infinitesimo ed insignificante che effettivamente siamo nell’universo. In verità, però, noi siamo dei finiti in costante relazione con l’Infinito. E quindi siamo potenzialmente degli enti infiniti.
Dunque, così come noi viviamo nell’eternità ogni attimo della nostra esistenza, allo stesso modo viviamo nell’infinito non solo in ogni luogo in cui ci intratteniamo ma addirittura anche nel luogo che più ci intrappola nello spazio immanente (quello caratterizzato da un limite insuperabile), e cioè il «noi stessi» in quanto individui corporali (dotati di un’identità che in primo luogo è differenziazione, cioè netta separazione da tutto ciò che non siamo). Ma in verità noi viviamo ben oltre questi limiti. E ciò ci viene attestato proprio da Edith Stein nel sottolineare un aspetto dell’ente umano che ha una sua precisa validità filosofica oltre che metafisico-religiosa – l’uomo in quanto spirito (o più precisamente anima spirituale), e quindi Io spirituale, trascende sé stesso quale corpo proprio non essendo in alcun modo sottomesso al vincolo della localizzazione [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, II, IIB, 6 p. 191-193, II, III, 4-5 p. 226-229 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 5, 3 p. 115-116, II, Intr. II, 1, 1 p. 157-163, II, 2, 3 p. 240-255; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 22-23 p. 321-344; Edith Stein, Endliches …. cit., VII, 2-4 p. 307-323, VII, 9, 8 p. 385-387]. La spiritualità umana differisce da quella vegetale esattamente per questo motivo. E quindi essa è nella sua essenza perfettamente equivalente al senso più ardito che ha la parola “spirito”, e cioè quella di “Pneuma” o “Ruah”, cioè “alito” (Hauch), soffio che «va dove vuole». Per la pensatrice, infatti, la nostra vita intellettuale è spirituale proprio per questo; in quanto essa, per definizione, si muove in ogni direzione dello spazio e del tempo senza alcuna limitazione. E questo è poi anche uno degli aspetti sviluppati da Agostino (vedi diciottesima lezione) nel sottolineare la facoltà della memoria di cui dispone l’anima conoscente – essa è vissuto quotidiano e costante dell’eternità.
In termini filosofico-gnoseologici ed anche in termini neuro-fisiologici si tratta del fenomeno della “ripresentazione”. Il quale poi ci riporta a quanto abbiamo visto a proposito del saggio di Ricoeur dedicato alla memoria (vedi ottava lezione).
Ebbene il divenire consapevoli di tutto ciò può essere per ognuno di noi ben più che un’astratta e cervellotica consolazione. Può essere infatti consapevolezza della speciale natura ontologica dell’intellettualità che ci contraddistingue come enti umani, e cioè consapevolezza della natura spirituale di tale status. E ciò significa in primo luogo trascendenza del mondo in quanto sconfinata libertà.
Ma, in termini più specificamente religiosi, ciò implica inoltre la straordinaria similitudine del nostro essere con quello divino. Si tratta insomma di quanto continuamente ci ricorda la davvero straordinaria preghiera del Pater Noster – noi viviamo corporalmente nella spazialità immanente, ma in verità nello stesso tempo (grazie al nostro discendere dal Padre in quanto «figli») viviamo nell’eternità. Il che significa che, allorquando noi veniamo letteralmente dilaniati o stritolati dalle molteplici conseguenze della sequenza spazio-temporale, in realtà noi non siamo affatto lì, ma invece siamo del tutto al sicuro sotto le ali del Padre. Ciò avviene specialmente nella forma davvero atroce del dover pagare a caro prezzo fino all’ultimo dei nostri passati errori; e spesso addirittura essendo totalmente innocenti, a causa del fatto di aver commesso errori solo in piena buona fede e magari anche con ottime intenzioni.
In ogni caso, se nemmeno questo serve a farci sentire meglio come individui (comunque gettati nel mondo e inchiodati da altri aspetti, ben meno gradevoli, della consapevolezza intellettuale), almeno può servire ad avere un maggiore rispetto per il nostro prossimo umano. Infatti, per quanto spregevole quest’ultimo possa essere, comunque parteciperà anch’esso della straordinaria dignità che ho appena descritto.

Ma c’è un ulteriore aspetto da tener presente quando si intravvede l’orizzonte trascendente ed infinito della spazialità. Ed ancora una volta esso ha una stretta relazione con la dura condizione rappresentata dalla nostra finitezza. Si tratta in particolare di un aspetto etico che sta in connessione con la spazialità intesa come (in primis) località delimitata. Di tutto ciò ho parlato comunque nel saggio da me dedicato al valore che a mio avviso dovrebbero ritornare ad avere i piccoli luoghi [Vincenzo Nuzzo, Localismo. Il valore sacro del piccolo luogo, Victrix, Forlì 2020].
Il fatto è insomma che (sulla base di quanto abbiamo visto finora), allorché noi ci troviamo confinati in un luogo molto drasticamente circoscritto (come avviene per ogni piccolo luogo tagliato fuori dall’intensissima rete di scambi che caratterizza invece i grandi luoghi civici), noi possiamo avere una ragionevole dose di certezza che è così solo apparentemente. È così, infatti, solo sul piano di una consapevolezza che tiene presente il solo spazio immanente, ossia quello impostoci dall’illusione sensoriale quale incontrovertibile evidenza. Non è così invece tutte le volte che la nostra consapevolezza inizia a tener presente (e magari anche contemplare) il concetto di spazio trascendente. Ecco che allora l’uomo si ritrova proiettato di colpo in quell’infinito che è insieme anche eternità. Egli si ritrova quindi a vivere in una condizione in cui il muro (apparentemente impenetrabile) delle apparenze viene continuamente trapassato (o letteralmente sfondato) in direzione di una dimensione esistenziale radicalmente diversa da quella immanente.
È insomma come se noi vivessimo contemporaneamente in due mondi, in due dimensioni parallele dello spazio ed anche del tempo – quella immanente (nella quale siamo immersi corporalmente) e quella trascendente (della quale partecipiamo in quanto enti spirituali).
Ebbene, io personalmente conosco due circostanze in cui è possibile vivere tutto ciò in una maniera estremamente concreta, ovvero per mezzo di atti simbolici dal significato molto forte.
La prima di queste circostanze è molto in generale l’esperienza religiosa, e più in particolare la preghiera.
E senz’altro qualcuno potrebbe a buon diritto aggiungere a quest’ultima l’esperienza della famosa «meditazione» (sebbene io resti convinto che la prima è infinitamente superiore alla seconda).
La seconda di queste circostanze è l’attività intellettuale-spirituale stessa, e più precisamente quella davvero intensa. Anche di questo ci ha parlato Edith Stein descrivendo lo straordinario quanto ordinario fenomeno dell’”assorbimento intellettuale” – quando io sprofondo in un pensiero (che sia da me prodotto o venga solo letto) è come se perdessi ogni connessione con lo spazio circostante [Edith Stein, Psicologia… cit., I, 2, 2 p. 60-65]. Cioè è come se vivessi per davvero nell’infinito.
Ma torniamo brevemente sul fenomeno della preghiera. Personalmente da molti anni vivo quotidianamente questa esperienza e mi sforzo anche di comprenderla ogni volta sempre più profondamente per mezzo delle intuizioni che essa provoca in me. E ciò che posso dire è che essa è un’esperienza propriamente ontologica più che gnoseologica. Insomma, quando io (come uomo) prego, è come se mi immergessi una realtà trascendente – che poi è l’essere divino stesso al quale in quel momento sto elevando la preghiera (il Padre, Gesù Cristo, Maria Vergine, uno dei tanti santi…). L’infinito e l’eterno sono queste Persone divine in cui la preghiera ci immerge per mezzo di quel vero e proprio mantra che è la formula linguistica rituale da noi recitata. Per questo non importa tanto se molto spesso, nel mentre preghiamo, noi ci allontaniamo da ciò che stiamo dicendo recitando per davvero solo con le labbra.
In ogni caso resta infatti sempre una certa dose di immersione del nostro essere nell’essere divino che ci trascende. E quindi, quando noi non partecipiamo più mentalmente al contenuto della formula recitata, è come se essa stessa si incaricasse di trasportarci mantenendoci in alto e sollevandoci verso il divino.
Credo che sia stato esattamente per questo che qualcuno (non ricordo più chi) ha affermato che la preghiera è in sé impossibile all’uomo. Per cui, se dipendesse solo dall’uomo, essa non raggiungerebbe mai Dio. Pertanto, quando si prega, è sempre Dio per primo a muoversi per venirci incontro. Il resto viene fatto dal nostro sincero desiderio ed ancor più il nostro amore per il «colui» che stiamo pregando.
Su questa serie di aspetti consiglio chi fosse interessato di leggere lo straordinario libro di Guardini dal titolo “Introduzione alla preghiera” [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009].

Ma tale discorso sulle possibilità che sono alla portata della più ristretta località ci riporta ad un aspetto che abbiamo finora toccato solo marginalmente, e cioè l’ipotetico valore superiore della stasi rispetto al valore del dinamismo. Anche di questo aspetto ho trattato approfonditamente nel mio articolo dedicato all’onto-dinamismo, e cioè al dinamismo dell’essere [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Abbiamo visto che sono in fondo statici sia lo spazio trascendente che lo stesso tempo immanente. Entrambi sono infatti delle Totalità proprio in quanto costituiscono dei blocchi ontologici e cioè delle vere e proprie Unità singolare. La nostra logica ci impedisce di rappresentarci coerentemente tali Unità, dato che esse sono nello stesso tempo limitate ed illimitate – tali sono infatti tanto l’infinito (spaziale) quanto l’eternità (temporale). E ciò non avviene invece per alcun ente unitario che noi incontriamo nell’esperienza; dato che essi sono tutti esclusivamente delimitati. Ecco allora che l’infinito spaziale è una sorta di super-luogo, dato che (in quanto Unità singolare) non vi è assolutamente nulla al di fuori di esso. Esso occupa infatti tutto lo spazio possibile. Pertanto è come se fosse un unico luogo infinito. Quanto all’eterno temporale esso è parimenti una sorta di super-momento (o super-attimo), dato che al di fuori esso il tempo cessa totalmente di scorrere. Ma esso non scorre nemmeno al suo interno, dato che si tratta appunto di un attimo eterno, ossia una frazione infinita di tempo che però occupa tutto lo spazio possibile del tempo.
A mio avviso è sempre stato esattamente questo il significato dell’espressione «eterno presente» − concetto forzato e tradito invece da Nietzsche, che ne volle fare una sorta di infinito circuito avvolto su sé stesso (“eterno ritorno all’uguale”).
Da tutto ciò discende allora che – almeno entro un discorso sull’essere in cui domini l’etica ossia il giudizio di valore a sua volta gerarchico – la stasi appare ricomprendere totalmente in sé il dinamismo, rendendolo così ad essa relativo e pertanto di valore decisamente secondario.
Possiamo quindi sì affermare che stasi e dinamismo si lasciano in via di principio concepire come contrari, e possiamo sì a questo aggiungere anche che in qualche modo il dinamismo porta la stasi ad un compimento che essa altrimenti non avrebbe mai – sia nel caso dello spazio che del tempo. Infatti, la Totalità non insorge mai se luoghi e momenti non si distribuiscono su una linea dinamica e quindi fluente. E tuttavia questo non è che l’inizio del discorso. Se però portiamo invece il discorso fino alle sue estreme conseguenze, noi vediamo apparire il tempo eterno (tempo trascendente) e lo spazio infinito (spazio trascendente). E qui ricompare quindi davanti a noi la stasi nella forma specifica di un valore davvero supremo. Cosa che poi ci permette di contemplare l’Uno divino nella sua dimensione effettivamente suprema, ossia il livello ontologico nel quale non esiste altro che l’immobile e totale Quiete.
A questo tipo di considerazioni ci conduce un altro grande autore appartenente alla sfera degli studi tradizionali, e cioè il nostro L.M.A. Viola – laddove egli esplora i vari gradi della dimensione sovra-essenziale dell’Uno divino così come essa si è presentata nel pensiero occidentale soprattutto neoplatonico [LMA Viola, Essere Italiani, Victrix, Forlì 2015, I, I p. 21-34]. Ma anche in Oriente questo concetto è stato espresso con forza nell’immagine del Principio quale “mozzo della ruota”, e quindi immobile centro dei centri dal quale emanano per irradiazione tutti i possibili gradi di realtà (ovviamente decrescenti dal centro verso la periferia) [ Ananda K. Coomaraswamy, L’esemplarismo vedico, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 13 p. 209-229; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd.., 21 p. 371-376].
Inoltre direi che in Occidente forse nessun filosofo è riuscito a descrivere tutto questo meglio di Scoto Eriugena, nella sua discussione dell’intero ciclo onto-evolutivo nascente dall’Uno e ritornante infine all’Uno come definitiva e suprema Stasi [Nicola Gorlani (a cura di). Giovanni Scoto Eriugena. Divisione della Natura, Bompiani, Milano 2013].
Una volta chiarito tutto questo possiamo comprendere ancora meglio perché il piccolo luogo civico ha un valore infinitamente superiore al relativo grande luogo nonostante la sua così miserevole delimitazione.

Dunque tutto ciò può dirci la filosofia sulla realtà dello spazio. Questa volta però abbiamo constatato che dobbiamo rivolgerci ad una sfera di studi che la disciplina ufficiale perfino disconosce come discorso filosofico. Ossia dobbiamo rivolgerci a quella metafisica davvero estremista che viene esposta solo nel contesto degli studi tradizionali. Per il resto la filosofia dello spazio può dire davvero molto poco a noi uomini comuni.

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Il problema del tempo è stato costantemente affrontato in filosofia. Tuttavia vi è un deciso spartiacque tra trattazione antica e moderna del tema. I pensatori antichi, infatti, hanno sempre trattato del tempo come una dimensione dell’essere che si presenta costantemente sullo sfondo dell’eternità, la quale a sua volta veniva identificata non con l’infinità del tempo ma invece con l’assenza del tempo. Gregorio di Nissa, ricollegandosi a Plotino, definisce molto bene l’eternità in questi termini – essa è per lui infatti caratterizzata dallo status ontologico dell’”adiastáto”, ossia l’assenza di qualunque dimensione dell’essere e cioè più precisamente l’assenza di “estensione” [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381]. In tal modo l’eternità corrisponde esattamente a quel supremo livello ontologico che può solo venire definito come “hyperousios”, ovvero sovra-essenziale. E questo è poi per l’intero platonismo (pre-crsistiano e cristiano) il livello corrispondente all’Uno divino, ossia il livello che sta al di sopra dell’Essere stesso.
In altre parole i filosofi antichi guardavano ad un tempo immanente e nello stesso tempo ad un tempo trascendente – il primo percepibile sensibilmente (e quindi apparentemente molto reale) ed il secondo invece sovra-sensibile (e quindi di fatto così poco percepibile da sembrare del tutto irreale).
Il primo (il tempo immanente) veniva considerato equivalente all’essere molteplice che i nostri sensi colgono come una miriade non coordinata di enti e di qualità, e nello stesso momento colgono come realtà perennemente in movimento (laddove poi tale movimento corrisponde abbastanza bene alla transizione continua che c’è da un aspetto all’altro aspetto dell’ente). Quasi tutti i pensatori antichi, però (con pochissime eccezioni, come ad esempio Eraclito, Democrito e forse anche Epicuro), non si accontentarono affatto di tale assetto dell’essere temprale in quanto assoluto. Essi lo videro invece come fortemente negativo soprattutto perché impediva di conoscere l’ente nella sua completezza, e quindi rendeva in definitiva impossibile la scienza. In questo l’ostacolo principale veniva colto nell’essere inteso come puro divenire, quindi come qualcosa che non era mai possibile abbracciare con lo sguardo in una Totalità solidamente essente, e cioè in possesso di quella stabilità che poi era in primo luogo del singolo ente.
Per tale motivo, allora, l’essere inteso come divenire veniva di fatto considerato equivalente al Nulla, ossia al non-essere. Dunque l’avversione dei filosofi antichi per il tempo immanente (equivalente a sua volta quasi interamente al divenire) non era solo di carattere gnoseologico-epistemologico, ma era invece anche di carattere etico-metafisico. In altre parole il tempo immanente veniva considerato una forma degenere (e perfino malefica) di essere. Tanto che esso veniva considerato equivalente al Nulla, ed il alcuni casi (come presso Plotino) veniva considerato equivalente al Male stesso.
È evidente che ciò ci rinvia fortemente alla visione orfico-pitagorico e platonica dell’essere; entro la quale la qualità e consistenza dell’essere stesso peggiorava progressivamente dal Trascendente verso l’immanente, per raggiungere a tale livello la natura di un effettivo Nulla, o almeno la natura di un essere totalmente illusorio. Inoltre veniva considerata totalmente negativa anche la conoscenza dell’essere che si svolgeva a tale livello. Essa infatti veniva considerata pura “ignoranza”.

Poco a poco però la filosofia ha iniziato a cambiare decisamente registro nella sua visione del tempo. Essa ha cioè gradualmente iniziato a guardare al tempo come unicamente immanente; quindi immanente in senso assoluto e non più solo relativo. Di conseguenza la disciplina ha smesso poco a poco di disinteressarsi totalmente del tempo trascendente, cioè dell’eternità.
Non ho intenzione di fare qui una storia del concetto di tempo nell’intera filosofia. Sarebbe un arduo compito ed io non credo di avere le necessarie competenze per poterlo fare. Si tratta insomma di un argomento che (per poter venire trattato) richiederebbe, almeno per me, un preliminare e molto approfondito studio. Tuttavia è possibile almeno fare un’osservazione molto generale ed approssimativa sul momento in cui lo stacco è avvenuto. Io direi che il momento di viraggio (nella visione filosofica del tempo) è da considerare la transizione dal Medioevo (Scolastica) all’Umanesimo rinascimentale. Certamente, nel corso di quest’ultimo, vi fu anche un grande rifiorire di studi del pensiero antico, e quindi vi si delinearono dottrine metafisiche ed anche esoteriche (di stampo fortemente platonico) che senz’altro conservarono e svilupparono il concetto di eternità. Si pensi a pensatori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Agrippa di Nettesheim, Paracelso, e più tardi anche lo stesso Giordano Bruno (che fu un filosofo della Natura solo nel senso di essere un grande platonico ed un grande anti-aristotelico). Tuttavia non mancò molto e lo scenario cambiò decisamente con l’avvento di una filosofia della Natura immanentista (rappresentata soprattutto da Bacone) che continuò il suo corso costantemente pur nel mezzo di una perdurante visione metafisica dell’essere. Che si protrasse poi perfino oltre Cartesio arrestandosi definitivamente solo con Kant. Si pensi ad esempio alla grande scuola platonica di Cambridge, che fiorì nel pieno del XVII secolo. Pertanto possiamo dire che, tenendo fermo l’Umanesimo rinascimentale come punto di svolta, il concetto di tempo trascendente (o eternità) è restato presente in filosofia almeno finché è esistito almeno una parvenza di metafisica.
Ma comunque il momento in cui il tempo immanente divenne definitivamente assoluto (in senso ontologico) deve venire considerato quello in cui Heidegger elaborò il suo concetto di “temporalità dell’essere” [Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi Milano 1976]. E qui siamo forse anche ben oltre la stessa visione che considera il tempo immanente come assoluto e non più invece relativo (ossia assolutamente non toccato né condizionato da alcun concetto di tempo trascendente, o eternità). Heidegger, infatti, sostiene che la stessa essenza (o sostanza) dell’essere consiste nel tempo, o meglio nella “temporalità”. Quindi per lui non è nemmeno il caso di pensare ad un essere che non abbia le caratteristiche del fluente divenire, e che consista quindi in un blocco statico corrispondente ad una Totalità infinita (totalmente priva di movimento, cioè senza tempo). Insomma a suo avviso il tempo non insorge affatto nel contesto dell’essere, ma è invece l’essere stesso. E quindi è semmai l’essere ad insorgere nel tempo. In altre parole per lui essere è tempo e tempo è essere. Poi si è diffusa tra gli heideggeriani la stucchevole e frivola convinzione secondo la quale presso il primo Heidegger l’essere sia stato equiparato al tempo («essere è tempo»), mentre presso il secondo Heidegger il tempo sia stato equiparato all’essere («tempo è essere»). Ma queste sono solo astruse elucubrazioni da tecnici della filosofia che secondo me possono venire totalmente ignorate senza riceverne alcun danno.

Ebbene, tenendo conto di questo momento assolutamente terminale della riflessione filosofica sul tempo, credo che valga a questo punto menzionare almeno alcuni tra i pensatori che, nel contesto dell’intero pensiero umano, si sono soffermati più specificamente ed esplicitamente su questo tema.
Agostino di Ippona si produsse in una delle più straordinarie e profonde riflessioni sul tempo che vi siano mai state nell’intera filosofia. Ed il bello è che tale riflessione non solo superò decisamente l’intero pensiero antecedente – inclusi Platone, il platonismo ed il neoplatonismo (dato che in essi il tempo non era mai stato così direttamente tematizzato) – ma addirittura restò insuperata anche dopo, e cioè addirittura fino ad oggi. Vedremo tra poco perché. Per ora cerchiamo di penetrare il nucleo dell’argomentazione di Agostino [Agostino di Ippona, Confessioni, Paoline, Sulmona 1949, X, I-XLII p. 295- 350, XI-I-XXXI p. 353-385].
Egli si interrogò in primo luogo circa il vero e proprio mistero rappresentato dai tre momenti del tempo, e cioè passato, presente e futuro. E tale mistero coincide per lui con l’ontologia stessa di ciò che noi spontaneamente chiamiamo «tempo». Lo facciamo esattamente perché (per una misteriosa ispirazione) noi tendiamo ad abbracciare il tempo con il nostro sguardo intellettuale come se fosse un Tutto (ossia come abbiamo visto prima, cioè come se usassimo una cinepresa puntata sull’intera estensione del tempo).
Ma cosa abbracciamo con tale sguardo? La risposta di Agostino è netta: – «Nulla!». Noi infatti cogliamo il tempo come un «qualcosa» che proviene da un «dove», passa per un «qui», e procede verso un altro «dove», mentre in verità l’unica cosa che esiste è il soggetto (lo stesso «cogito-sum» di Cartesio) che ospita in sé queste concettualizzazioni di ciò che non esiste affatto oggettivamente ed oggettualmente. Insomma il tempo non è né un oggetto né è un essere. È in tal modo che Agostino coglie una delle funzioni conoscitive più straordinarie e sottili dell’anima, e cioè la memoria. E così si ricollega esattamente alla stessa riflessione fatta da Platone sullo stesso tema nel Teeteto..
Usualmente i professori di filosofia tendono a sottolineare la modernità concettuale di questa dottrina. Come se di punto in bianco, con l’Ipponate, la filosofia antica avesse smesso di colpo di trattare del tempo trascendente (l’eternità) e avesse preso ad esaminare invece il solo tempo immanente (il divenire). Per i moderni filosofi, infatti, modernità e riduzionismo sono esattamente la stessa cosa. Non a caso lo scaltro Heidegger (che non cessò mai di sfruttare, incorporandoli, diversi grandi pensatori) volle farci credere che la sua “temporalità dell’essere” avesse esattamente radici agostiniane [Norbert Fischer, ”Selbstsein und Gottsuche, Zur Aufgabe des Denkens in Augustins > Confessiones < und Martin Heideggers > Sein und Zeit“, in Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Heidegger und di christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2007, p. 55-90].
Ebbene, a mio avviso non vi è nulla di più falso in tutte queste letture di Agostino. Infatti a me sembra che egli più che mai abbia voluto sottolineare esattamente la sostanziale eternità del tempo, ossia abbia voluto trattare del tempo trascendente, e cioè quel tempo che sta così al di sopra dell’essere da assomigliare fortemente ad un nulla.
Altra grande riflessione sul tempo mi sembra poi quella di Gregorio di Nissa (della quale ho parlato prima).
Ma poi viene quell’altro immenso pensatore che fu Meister Eckhart.
Egli sostenne in generale l’ininterrotta continuità (ed anzi identità di essere) che vi è tra l’Uno divino ed il mondo, e quindi tra Sovrannaturale e Naturale. E così arrivò a concepire addirittura un divenire che altro non è se non la continuazione ininterrotta dell’eternità nel mondo immanente [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. Alcuni suoi interpreti hanno parlato al proposito di “prospettivismo”, ossia di una concezione dell’essere che si identifica esattamente con la fluidità del divenire, ma senza intanto mai perdere intanto il suo ininterrotto legame con le Origini. Laddove poi le Origini non sono altro che l’Uno divino. Ciò significa che (come ci fa notare Mieth) la concezione eckhartiana dell’essere potrebbe a prima vista addirittura venire assimilata a quella nietzschiana, ossia ad una dimensione in cui non vi è altro che il movimento prepotentemente sospinto dalla volontà soggettuale. Per Eckhart infatti non vi è alcuna dislocazione tra la posizione del soggetto umano e quella del Soggetto divino; motivo per cui l’essere procedente dal Principio (l’Uno divino o Origine) procede allo stesso modo anche dal soggetto umano. Tuttavia l’inestricabile commistione esistente tra Trascendente ed immanente allontana immediatamente le suggestioni nietzschiane. L’essere fluente, quindi, non è altro che il braccio immanente ed orizzontale di una cascata verticale che emana continuamente dal Principio divino. Ho discusso questi concetti in uno specifico articolo [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Sicuramente bisogna menzionare poi anche la concezione dell’essere di Bergson (della quale ho parlato nella diciassettesima lezione). Egli vide infatti l’essere come sostanziale “durata”, e precisamente come il percorso tracciato nel tempo da un’intelligenza creativo-vitale immanente che non cessa mai di cristallizzarsi negli enti determinati, per poi di nuovo oltrepassarli dirigendosi verso nuovi obiettivi creativi.
E ciò ci riporta inevitabilmente anche alla concezione darwiniana della Natura.
Su questa lunghezza d’onda fu senz’altro anche Nietzsche nel concepire l’essere come il prodotto della sola “volontà di potenza” soggettuale [Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Milano 2005, 54-88 p. 50-63]. L’essere fu infatti per lui unicamente la volontà stessa che si pone in movimento al puro scopo di superare e travolgere ogni possibile ostacolo, impennandosi così come un’onda che poi si abbatte dilagando in maniera inarrestabile, e generando così lo stesso spazio che sussegue. Insomma anche per Nietzsche l’essere non è altro che un nulla puramente dinamico, e quindi è qualcosa che sta sempre per definizione davanti a noi come qualcosa di totalmente e perennemente nuovo. Senza mai essere esistito prima che entrasse in moto il nostro atto di volontà.
Naturalmente tale volontà non è poi altro che l’impulso ad affermarsi vitalmente posto in atto da parte di quel soggetto umano che ha ormai superato decisamente sia i freni di qualunque morale (sempre paralizzante) sia le illusioni di qualunque metafisica dell’essere.
Ebbene anche Heidegger non fu molto lontano da tutto questo. Solo che egli scelse di identificare la “temporalità dell’essere” con una dimensione dinamica che trascende il soggetto stesso, non essendo altro che il fondamento più elementare del suo esistere, ossia quella vita che ad un certo punto, fatalmente, cessa di scorrere orizzontalmente per inabissarsi nel gorgo della morte. Dunque per lui tanto l’essere stesso quanto lo stesso soggetto umano come sostanza (il Dasein, o “esser-ci”) non costituiscono altro che un “essere per la morte” o anche “essere per la fine” [Martin Heidegger, Essere e Tempo .. cit., I, II, I, 45-53 p. 283-324]. Ovvero costituiscono qualcosa di unicamente onto-dinamico.

Mi sembra che queste possano venire considerate almeno alcune tra le più rilevanti concezioni filosofiche del tempo. Sebbene io non possa essere per nulla certo del fatto che il mio elenco sia completo.
Vorrei solo fare qualche breve cenno alla concezione buddhista dell’essere, che intanto è divenuta molto in voga anche nella filosofia stessa, specie quella anglosassone.
Il Buddhismo nega recisamente che esista qualcosa come la “sostanza” (vedi diciassettesima lezione), e quindi qualcosa che unifichi luoghi e momenti separati in quanto determinati. Per cui esso non può in alcun modo ammettere il tempo come essere. Forse nemmeno come essere fluente. Ed in questo si differenzia quindi perfino da Eraclito. Il Buddhismo può solo ammettere il tempo come una mera illusione ontologica, anzi forse la maggiore tra le illusioni ontologiche. Esso, infatti, non unisce nemmeno luoghi e momenti, dato che questi ultimi nemmeno esistono (in quanto non esistendo alcuna sostanza, non vi è nemmeno alcun ente). Ma oltre a ciò (diversamente da quanto sosteneva genialmente Agostino) per il Buddhismo non vi è nemmeno la sostanza animica (ossia il soggetto) che coglie il tempo. E pertanto quella stessa continuità di essere (che il tempo suggerisce spontaneamente alla nostra mente) è qualcosa che meno che mai esiste.
In altre parole, secondo il Buddhismo, parlare della temporalità dell’essere è la stessa cosa che parlare del totale nulla di essere che il mondo immanente è – puro e deteriore prodotto dell’illusione sensibile.
È insomma qualcosa che il soggetto umano non deve far altro che superare e dimenticare allontanandosi così per sempre dal ciclo delle nascite. Quello che è certo è intanto che tale dottrina non considera assolutamente la possibilità che il tempo immanente venga superato per mezzo del passaggio in un tempo trascendente, ossia nell’eternità. Infatti l’eternità è per esso null’altro che un’inconsistente edulcorazione del concetto di continuità sostanziale, e quindi è quanto meno può esistere. Il fedele del credo buddhista non ambisce pertanto ad altro che ad unirsi al grande Vuoto nel quale per lui ultimamente consiste l’Essere.

Bene. Giunti a questo punto dobbiamo come sempre chiederci cosa di tutto questo può servirci nella nostra esistenza quotidiana di uomini comuni.
Sinceramente mi risulta difficile rispondere a questa domanda. Perché in questo caso gioca un ruolo decisivo l’ideologia per mezzo della quale noi possiamo (o anche non possiamo) filtrare ed interpretare le nostre esperienze. Ecco che allora vi saranno senz’altro alcuni che preferiranno le concezioni più radicalmente immanentistiche del tempo (come quelle di Bergson, di Heidegger e del Buddhismo). Alcuni altri preferiranno invece le concezioni più radicalmente trascendentiste del tempo, cioè quelle che negano qualunque realtà al tempo immanente (come quella platonica).
Il problema deve quindi stare esattamente nell’approccio ideologico, con tutto il dogmatismo che esso comporta. E qui Eckhart può fungere per noi davvero da felice esempio. Il problema è infatti che il tempo è immanente ed insieme sempre anche trascendente. Ma ciò sottolinea non solo una discrepanza bensì anche una continuità. Il che significa poi che il tempo è senz’altro un flusso, ma è anche una stasi. Ed esso è stasi non solo nei suoi singoli frangenti (luoghi e momenti) bensì anche nella sua Totalità. Il tempo trascendente gregoriano come “adiastáto” è infatti un’eternità di essere che è blocco temporale proprio in quanto in esso non si muove nulla, e quindi l’oggi e l’ora (il presente) equivalgono perfettamente al sempre, ossia al Tutto. Per questo si dice che qui il tempo è assente. Perché esso non si muove. E non muovendosi non ricollega più nulla. Nello stesso tempo però esso è meno che mai rappresentato da luoghi-momenti statici che abbiano bisogno di venire ricollegati. Si tratta insomma di una concezione circolare e non più lineare del tempo.
Ecco allora che forse l’uomo comune (cioè tutti noi) potrebbe e dovrebbe essere interessato solo ad una concezione del tempo che sia insieme trascendente ed immanente; cioè sia anche tempo quando sembra solo eternità e sia anche eternità quando sembra solo tempo. Ciò significa allora che noi partecipiamo dell’eternità anche quando viviamo quella faticosa e spesso estenuante marcia in cui continuamente dobbiamo passare da un luogo-momento all’altro – e spesso in questo siamo gravati da speranze che non poche volte sono altrettanto torturanti quanto lo sono le preoccupazioni.
Dunque in qualche modo noi non siamo consapevoli del fatto che, proprio allorquando con maggiore pena percorriamo questo cammino (agognando il momento in cui potremo finalmente guardare con serenità all’angoscia ed al dolore che ormai ci siamo lasciati alle spalle, e tirando così il famoso sospiro di sollievo), in verità siamo già arrivati dove volevamo arrivare. E ciò è avvenuto perché, grazie alla costante commistione tra eternità e tempo, il percorso che seguiamo faticosamente passo dopo passo è stato in verità già consumato interamente da qualcosa come la straordinaria ed altissima campata di un vertiginoso ponte.
Deve essere questo ciò a cui si allude in alcuni salmi nei quali si parla del fatto che la vita umana è in realtà un soffio o un battito di ciglia. E ci sono immagini del genere anche nella letteratura religiosa vedica e vedantica.
In questo senso, dunque, sì che il tempo immanente è un’illusione; allo stesso modo in cui lo è lo spazio.
Il che significa che la nostra esistenza si consuma in ambasce senza che vi sia poi un vero motivo per questo. Insomma in qualche modo la nostra esistenza è sempre già compiuta in ciascuno dei suoi attimi.
E dev’essere per questo che (come abbiamo visto nella quattordicesima lezione dedicata alla morte) nell’ultimo attimo della nostra esistenza noi possiamo abbracciare tutto il percorso che abbiamo fatto – perché in verità ciò che sembra esserci stato in realtà non ci è stato affatto (almeno così come ci era sembrato). In altre parole noi nasciamo, esistiamo e moriamo restando costantemente immersi nell’eternità.
È chiaro che tutto ciò resta una debolissima consolazione nel momento esatto in cui noi siamo impegnati nella fierissima lotta con la serie infinita di momenti che si distendono davanti a noi. E tuttavia, anche solo il rivolgere il nostro pensiero a tale realtà, può forse aiutarci a non arrenderci troppo facilmente.
Se riflettiamo più a fondo, però, la consolazione è di portata ben maggiore di questa.
Infatti in ogni caso non si tratta nemmeno di questo, né si tratta della magari fatua illusione che potremmo costruirci su ciò che ho appena detto. Il momento del compimento non è infatti quello in cui noi abbiamo finalmente ottenuto ciò che avevamo desiderato per tutte la vita, annullando in tal modo la discrepanza tra possibile e reale (diciassettesima lezione). Il compimento è invece il momento in cui finalmente possiamo rivolgere il nostro sguardo all’indietro e non più in avanti. Ma la cosa più importante consiste nel fatto che il nostro sguardo è ormai pacificato, ossia non desidera più. Esso, insomma, si guarda indietro e contempla l’immensa estensione di quel sentiero dell’esistenza che non aveva mai smesso di serpeggiare tra valli, lungo fiumi e sui fianchi di montagne, che non aveva mai smesso di guadare fiumi e mari, che non aveva mai smesso di saltare abissi. E vede quindi finalmente che tutto aveva avuto un senso, che tutto aveva puntato verso un unico e solo risultato, ossia verso il compimento. Il compimento è dunque semplicemente la fine del dipanarsi della linea del tempo. Non è perciò affatto il momento della soddisfazione del desiderio ma è semmai il contrario. È il momento della cessazione totale del desiderio. Tuttavia non perché il desiderio sia in sé negativo (come pensano i buddhisti, ritenendo che esso perpetui un insensato attaccamento a enti mondani del tutto illusori). No. Perché invece il desiderio non è altro che un mezzo e non un fine. Esso è infatti la forza propulsiva vitale e fisiologica (tutt’altro che ingiustificata) che ci fa muovere insieme al tempo. Essa anzi fa sì che noi lasciamo che la linea del tempo ci infilzi come una lancia, portandoci con sé nel suo inarrestabile procedere.
Ecco allora che il nostro sguardo retrospettivo coglie per davvero il tempo come Totalità.
Ma, se ora ci poniamo da un altro punto di vista – quello che ci caratterizza quando non abbiamo ancora raggiunto la fine, e siamo quindi ancora pienamente immersi nel faticoso cammino a tappe del tempo immanente −, potremo finalmente comprendere che la fine (in quanto compimento) è letteralmente implicita in ogni luogo e momento di questo cammino. Per questo, dunque, quando noi soggiorniamo in ciascuno di questi punti, è come se in qualche modo già fossimo arrivati alla fine. Ma il momento della fine è quello in cui il movimento del tempo si estingue, e quindi il nostro esistere trapassa decisamente nella dimensione dell’eternità quale assenza di tempo. Ed esattamente quest’ultima è la dimensione in cui sperimentiamo il compimento.
Tutto quello che abbiamo detto significa insomma che tempo ed eternità sono inestricabilmente frammisti, e quindi che tra di essi non vi è in verità alcuna reale discrepanza. Quando viviamo l’uno, noi viviamo sempre anche l’altro. Dunque, se il momento dell’eternità e del compimento può ben venire considerato anche quello dell’eternità, allora dobbiamo constatare che noi viviamo continuamente la nostra immortalità anche se non lo sappiamo.
E con ciò torniamo alla lezione filosofica platonica – il corpo e la materia sono la causa (in quanto “prigione” e addirittura “tomba”) per la quale la nostra anima immortale è afflitta dalla continua illusione della mortalità, la quale poi altro non è se non la sequenza continua di luoghi e momenti per i quali dobbiamo passare affinché possiamo assolvere al compito esistenziale fondamentale del movimento. Movimento che avviene appunto attraverso la dimensione del tempo.

Bene. Anche quella appena esposta potrebbe forse costituire una dottrina della “temporalità dell’essere”. Ma non distruttiva, nichilistica, cupa e mortuaria com’è quella di Heidegger, bensì invece costruttiva, positiva, luminosa e piena di vita.
Non a caso Edith Stein, nel confutare la teoria di Heidegger, oppose alla sua assoluta temporalità dell’essere (in quanto tendere alla morte-fine) il vero e proprio “sfondamento verso l’eternità” che avviene nella nostra vita grazie alla Liberazione donataci dal Cristo morto in Croce [Edith Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 449-457].
Di nuovo, insomma, possiamo ritrovare nella filosofia grandi risorse per poter «ben vivere». Ma perché sia così dobbiamo prima ripensare criticamente la disciplina, e quindi ristrutturarla e riformarla, eliminandone le parti pleonastiche ed allargando le parti troppo striminzite. Abbiamo insomma bisogno di una sorta di meta-filosofia. Per poter disporre di questo l’uomo comune ha però bisogno di una guida nei meandri spesso oscurissimi della disciplina. E questa guida non può venire offerta se non da un filosofo. Un filosofo però che non si sia mai rassegnato ad arrendersi alla congiura esoterico-conventicolare che viene imposta sempre dall’Accademia filosofica ai suoi allievi. Una congiura nella quale si deve promettere di non aprire mai e poi mai all’uomo comune le mura ermeticamente sigillate della Cittadella della Filosofia.
Come ho sostenuto nel mio saggio su questa disciplina [Vincenzo Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018], ho sempre ritenuto che il mio compito fosse diametralmente opposto. Ed è esattamente per questo che propongo le mie lezioni.

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Credo di poter essere matematicamente sicuro nel ritenere che i moderni retori-divulgatori della filosofia non parlano mai di questo argomento ai loro «discepoli».
E ci sono diversi motivi per questo. Il primo motivo è che è un argomento davvero ostico, per quanto esso abbia attraversato l’intera filosofia almeno fino a non molto tempo fa. Il secondo motivo è che non credo proprio che il genere di «discepoli» dei retori-divulgatori di filosofia sia interessato ad argomenti così sofisticati concettualmente. Cosa del resto anche comprensibile, dato che cosa mai l’uomo comune dovrebbe farsene di questi due concetti nel corso della sua quotidiana esistenza? Il terzo motivo mi sembra però quello più appropriato – i concetti di essenza e sostanza, ed anche la distinzione tra di essi, sono ormai totalmente antiquati (proprio in quanto squisitamente metafisici). Per cui oggi nemmeno i filosofi stessi li impiegano più. Infatti l’odierna filosofia si è ormai totalmente liberata dalla metafisica trasformandosi soprattutto in una scienza positiva della mente, ossia qualcosa di mezzo tra logica e psicologia [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].
Pertanto a tale proposito va detto che, dopo la seconda rivoluzione critica (successiva a quella kantiana) inaugurata dall’ermeneutica, dalla filosofia analitica e della filosofia del linguaggio (da Heidegger, Russell e Wittgenstein in poi), concetti come quelli di essenza e sostanza sono divenuti quelli che più presentano falle di tipo logico davvero esiziali (e quindi soccombono miserevolmente ogni volta che cadono sotto l’esame impietoso dei moderni logici). In altre parole, nessun filosofo si periterebbe più di usare concetti come questi senza sentire di doversi profondamente vergognare.
Tuttavia le cose cambiano non poco se equipariamo il binomio essenza-sostanza a quello potenza-atto, e poi semplifichiamo entrambi i binomi in quello che vede come protagonisti il possibile ed il reale (o anche l’ideale e il reale). Possiamo denominarlo binomio possibile-reale o anche ideale-reale.
Ebbene questo ultimo binomio sì che interessa tutti noi, incluso il più semplice tra gli uomini. Infatti tutti noi conosciamo perfettamente la discrepanza che esiste tra quanto vorremmo che si realizzasse (il possibile o ideale) e quanto effettivamente si realizza grazie ai nostri sforzi uniti alle circostanze ambientali ed al caso (il reale). Anzi si può dire che questo sia il tema intorno al quale si avvita drammaticamente (e a volte perfino tragicamente) l’intera nostra esistenza.
Per la verità l’eterna questione filosofica idealismo / realismo (cioè la perenna disputa tra le due prese di posizione diametralmente opposte dell’intero pensiero umano) sembra approssimarsi non poco al binomio possibile-reale. Ed in effetti ho accennato a tale questione in diverse lezioni iniziali. Infatti l’idealismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ideale di essere, mentre il realismo considera come autentica realtà solo quella rappresentata dalla possibilità ormai già totalmente manifestata e quindi già completamente estinta nella cosa determinata. Naturalmente questa è però una grande generalizzazione ed approssimazione, dato che almeno in Occidente la disputa idealismo / realismo ha riguardato molto poco la Realtà e molto più invece la Conoscenza. Essa si è insomma preoccupata di scegliere il luogo migliore in cui fosse possibile validare l’atto di conoscenza delle cose del mondo – la soggettività o mente (idealismo) oppure l’oggettività mondana stessa, direttamente colta per mezzo della percezione (realismo). Si trattava cioè di decidere dove (tra soggetto e oggetto) è possibile ritrovare meglio la verità nel conoscere le cose. In Oriente invece l’idealismo e il realismo si sono confrontati molto più nel tentare di decidere circa quale fosse il luogo più «reale» dell’Essere – quello trascendente-celeste (ideale) o quello immanente-mondano (reale). Personalmente ho tentato di chiarire questa discussione in alcuni miei articoli [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164 ].
Tuttavia, generalizzando ora tutto questo, possiamo dire che il mondo ideale è quello che corrisponde alla «possibilità di essere» (o «potenza», che per definizione noi cogliamo come ciò che è ancora al di là da venire e quindi non è ancora un vista), mentre invece il mondo reale corrisponde all’«essere attuale» (o «atto», che per definizione noi cogliamo come ciò che è già avvenuto e quindi sta già apertamente davanti a noi). È ovvio che un filosofo accademico considererebbe questa affermazione come solo generica, imprecisa e senza alcun interesse per la disciplina. Però per l’uomo comune (come siamo tutti noi che ora stiamo qui discutendo) le cose non stanno affatto così. Infatti il campo della «possibilità di essere» corrisponde per noi tutti a ciò che potrebbe diventare realtà ma non lo è ancora diventato; mentre il campo dell’«essere attuale» corrisponde a ciò che non è più possibilità perché è ormai già divenuto realtà.
E tra questi due estremi (separati da una linea tensiva spesso spasmodica, che è fatta di speranze, desideri, paure, angosce, ed infine anche continue gioie e delusioni) si dibatte di fatto la nostra intera esistenza.
Se dunque vi è un aspetto della filosofia che più si approssima all’esistenza di ognuno di noi, quello è senz’altro questo.
Il problema è però che il campo di elementi sostanzialmente emozionali (coinvolti nel binomio possibile-reale vissuto dall’uomo comune) è estremamente lontano dagli interessi sostanzialmente gnoseologici della filosofia correntemente praticata. E a questo punto non si tratta solo dell’insufficienza della filosofia moderna. Dato che perfino la filosofia antica è abbastanza coinvolta in questo disinteresse. Infatti proprio il padre del concetto di potenza-atto, cioè Aristotele, non si occupò affatto di ciò che interessa l’uomo comune. Egli volle invece proporre una dottrina metafisico-scientifica che spiegasse l’essere in divenire, ossia il fenomeno di sviluppo delle cose fino al loro assetto attuale ed anche usuale, ossia il mondo così come noi lo vediamo. Ciò che gli interessava era insomma di tracciare e indagare una sorta di genetica causalistica dell’essere. E questo non è certo ciò che sta al centro degli interessi e delle preoccupazioni di tutti noi nel corso del nostro esistere. Noi ci preoccupiamo infatti in primo luogo della gioia e dell’orgoglio che ci possono venir procurati dalla capacità di tradurre il possibile in reale. Ne va insomma del realizzarsi o meno delle nostre più fervide speranze.
Le cose cambiano però molto se da Aristotele ci rivolgiamo a Platone. Quest’ultimo infatti vide nella sfera ideale esattamente quella «possibilità di essere» che è paradigmatica per qualunque livello di realtà in quanto ne costituisce l’immutabile ed eterno modello. Qui siamo dunque di fronte a ciò sul cui modello viene costituita ogni cosa secondo il criterio del «meglio» (e inoltre della «misura»), e quindi insorge l’essere più buono, bello e giusto che possa esistere, ovvero null’altro che l’ordine del kósmos. Tutto ciò che si sottrae al controllo esercitato da questo modello, non è per Platone altro che materia cieca e caotica, e cioè qualcosa che nemmeno possiamo considerare «essere». È chiaro che nemmeno questo corrisponde esattamente a quanto preoccupa l’uomo comune (tutti noi) nel riflettere sulla discrepanza tra possibile e reale. Tuttavia almeno Platone si approssima a questo molto più che Aristotele.
E ciò avviene secondo me a causa di un aspetto del suo pensiero che finora abbiamo esaminato più volte, ossia la convinzione del pensatore secondo la quale la sfera ideale dell’essere rappresenta la sfera cosale più autentica, ossia più pregna di essere oltre che di verità. Insomma, come abbiamo visto già tante volte, per lui l’Idea equivale totalmente alla cosa colta nella sua dimensione trascendente, o meglio l’Idea è la cosa più autentica che possiamo mai riscontrare. Pertanto ciò che molto in generale per la filosofia di ogni tempo (in primis per Aristotele) è quanto meno può venire considerato «essere» − cioè la sfera dell’ideale (o mera e vuota «possibilità di essere», che dipende drammaticamente dalla cosa reale ed immanente per poter acquisire l’essere) – è invece per Platone ciò che è «essere» più che mai. Il che, tradotto poi nel nostro ingenuo linguaggio quotidiano (di uomini comuni), significa che la sfera di essere del possibile vale molto più della sfera di essere del reale. E quindi ciò potrebbe significare per noi che non importa affatto se realizziamo o meno tutto ciò che è possibile che si possa realizzare. L’importante è invece che contempliamo ammirati la completezza e perfezione straordinarie del livello di essere ideale, ossia quel livello di essere in cui è rappresentato «tutto-il-possibile» come ciò che più corrisponde alla vera pienezza di essere. In altre parole, in base a questo si potrebbe giungere alla conclusione che non è tanto importante che ognuno di noi riesca o meno a tradurre in realtà tutto ciò che è teoricamente possibile. Importante è invece che esista un mondo trascendente (corrispondente esattamente a quello ideale) nel quale l’essere sta nella sua pienezza e perfezione pur senza aver nemmeno subito l’onta e la sfida del processo di determinazione – processo che segue sempre grandi dicotomie, in corrispondenza delle quali qualcosa cessa di esistere perché possa esistere qualcos’altro. Ma perfino questo momento così drammatico in negativo ci rinvia al principio perfettamente posto in luce da Leibniz, e cioè quello dell’essere come caratterizzato dal fatto fondamentale di essere “qualcosa e non nulla” [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. insomma la stessa implacabile dicotomia (che sacrifica fatalmente qualcosa per qualcos’altro) ci rinvia a questa ben più grande necessità, in forza della quale sempre l’essere insorge per negazione della totale negazione dell’essere stesso, ossia il Nulla. Il che significa allora che anche una dose molto ridotta e limitata di essere resta sempre molto meglio del nulla.
Ora, è facilmente immaginabile quanto una tale riflessione possa confortarci in quella nostra esistenza che così spesso è costellata di perdite irreparabili, amarissime rinunce e cocenti delusioni – tutte esperienze che ci approssimano di molto al Nulla, anzi in qualche modo vere e proprie piccole morti. Anche in questi casi resta infatti davanti a noi non solo il nostro personale essere (ci accorgiamo infatti che, come per miracolo, noi siamo ancora in piedi nonostante la mazzata che abbiamo appena ricevuto), ma ancor più l’essere dell’intero mondo. Il sole continua a sorgere e tramontare, il vento continua a soffiare, i fiumi continuano a scorrere, l’erba i fiori e i frutti continuano a spuntare. Tutto questo può di certo anche offenderci non appena siamo stati colpiti dalla sventura. Ma, dopo un po’ di tempo, ciò inizierà non solo a consolarci ma anche a scaldarci il cuore e perfino a farci sentire una sensazione di ebbrezza.
Ebbene, forse (nel corso di queste lezioni) non ci eravamo ancora imbattuti in un caso come questo. Un caso in cui la riflessione filosofica sembra essere realmente capace di aiutarci a vivere, e precisamente grazie alla saggezza contemplativa che induce in noi. Ed abbiamo visto che di questo (come di molte altre cose) dobbiamo essere grati a Platone ed al platonismo. Sebbene qui essi siano presenti più che altro come extrapolazioni.

Detto questo, direi che è ormai conclusa la trattazione del nostro tema. Abbiamo infatti trovato l’appiglio per mezzo del quale la riflessione filosofica su essenza e sostanza riesce a divenire utile per la nostra esistenza.
Tuttavia forse vale la pena di dare un’occhiata più da vicino ai concetti filosofici effettivi di essenza e sostanza. E questo per due motivi. Il primo motivo è quello di avere delle definizioni possibilmente chiare e sintetiche dei due concetti. Il secondo motivo è quello di verificare se la filosofia pura (ma quella a-temporale o anche a-storica), che da sempre si è occupata di questi due concetti, può o meno aggiungere ancora qualcosa a quanto ho poc’anzi detto. Qualcosa che possa essere utile all’uomo comune.
Ebbene l’essenza ha sempre indicato in filosofia l’Idea e insieme anche la forma (conoscitiva), cioè quanto costituisce il contenuto puramente intelligibile della cosa reale, ossia la rappresentazione che di quest’ultima noi ci facciamo nella nostra mente allorquando, posti al cospetto di essa come una “x” (una momentanea incognita), noi ci interroghiamo circa il suo molto specifico «cos’è questo?». Ecco che nel momento esatto in cui sorge in noi l’idea che sembra rappresentare quella cosa sinteticamente in modo davvero appropriato (mediante un nome che descrive appropriatamente il suo «cos’è?»), immediatamente emerge in noi anche la sua «forma», cioè l’idea che (come uno stampo perfettamente adatto) accoglie in sé la cosa stessa rendendola un’unità inscindibile ed inoltre unica. Essa risulterà infatti per noi diversa anche dalla cosa che le assomiglia di più, ossia quella che differisce dalla sua essenza anche per un solo minimo particolare. È evidente che si tratta con ciò di un’esaustiva sintesi delle qualità della cosa che intanto i nostri sensi (percezione) colgono in modo sparso, e cioè senza poterle unificare mediante un nome.
Ancora una volta devo far notare che dobbiamo al genio di Platone – specie nei dialoghi Teeteto e Cratilo – l’esplorazione e la descrizione davvero esaustiva di tutti questi aspetti. Il pensiero successivo a lui non ha fatto quindi che utilizzare queste conoscenze basiche per svilupparle in un senso o nell’altro. Ed in generale va detto che da un certo momento in poi (dopo che fu storicamente tramontato per sempre il concetto platonico di «idea», cioè successivamente al neoplatonismo pre-cristiano e cristiano) si iniziò ad usare prevalentemente il concetto di «forma». La quale stava poi a designare in primo luogo l’aspetto conoscitivo dell’atto per mezzo del quale il soggetto si pone in contatto con il mondo. Nacque insomma proprio così in filosofia quella che fino ad oggi viene chiamata «teoria della conoscenza» (in tedesco Erkenntnistheorie).
In quest’ultima, quindi, l’essenza corrisponde esattamente a quella forma che ci permette di cogliere la cosa in quanto ente conoscibile, o anche intelligibile. E per questo, come abbiamo visto, è assolutamente necessaria l’unificazione delle sue qualità sensibili.
Abbiamo visto però che ciò implica la sintesi. Ma la sintesi suggerisce al nostro intelletto piuttosto spontaneamente l’immagine di una concentrazione di essere. In questo modo ci spostiamo pertanto dal piano conoscitivo (ed inoltre epistemologico) a quello ontologico. Ebbene, su quest’ultimo piano l’essenza sta a indicare una sorta di punto ipotetico nel quale è concentrata un’estensione molto grande (perfino infinita) di essere. Tuttavia tale dimensione ontologica dell’essenza corrisponde poi (come abbiamo visto prima) alla valenza di Realtà (paradigmatica e trascendente) che l’Idea ha avuto entro la riflessione platonica. Così possiamo ben dire che l’indagine sugli aspetti ontologici dell’essenza è iniziata di fatto con Platone, e precisamente in relazione alla sua teorizzazione dell’Uno quale supremo Principio di essere (ossia appunto un’essenza estremamente prossima alla dimensione ideale che concentra in sé tutto l’essere possibile). Questa riflessione è poi però fiorita pienamente solo nel neoplatonismo. Infatti recentemente Yount ha posto in strettissima relazione quasi tutti gli elementi della riflessione onto-metafisica di Plotino con quella di Platone [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014]. Ma intanto una simile riflessione sull’essenza era sempre stata patrimonio del pensiero orientale di tipo vedantico. Veniamo dunque proprio in tal modo a quella valenza di «realtà» che ebbe l’essenza nella riflessione orientale.
In ogni caso proprio su tale base quella complessiva sapienza metafisico-religiosa ed esoterica che dal XX secolo in poi ha definito sé stessa come “Tradizione” ha raccolto questa intera eredità sviluppandola in una serie straordinaria di immagini simboliche tutte correlate tra loro in un insieme affascinante ed estremamente coerente. A chi volesse approfondire questa sapienza simbolica consiglio vivamente il libro di Guénon e quello di Schuon [René Guénon. Simboli della Scienza Sacra. Adelphi Milano 1975; Fritjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013].
Ma veniamo ora al concetto di sostanza.
Su questo ho già detto abbastanza nella dodicesima e nella sedicesima lezione (dedicate alla nascita ed all’esistenza), e tuttavia va aggiunto qualcos’altro in modo che sia chiara la differenza tra tale concetto e quello di essenza.
In linee molto generali se l’essenza rinvia alla concentrazione di essere, la sostanza invece rinvia all’estensione di essere, e cioè alla continuità che sussiste nell’essere nello spazio indefinito che divide tra loro le cose determinate o individuali. Si può dire quindi che la sostanza è stata concepita in metafisica come l’ossatura invisibile ed intangibile che costituisce l’essere al di là delle apparenze immediatamente sensibili. Le quali ci restituiscono appena l’immagine di cose separate le une dalle altre ma intanto poste in relazione tra loro per mezzo dell’influsso che costantemente l’una esercita sull’altra. Il concetto più prossimo a tale relazione è quello di causalità, e precisamente quello di causalità efficiente, cioè quella in forza della quale l’urto di una cosa contro l’altra produce il movimento. La causalità è insomma il dinamismo che supera il vuoto esistente tra le cose determinate. Ed in tal modo risaliamo chiaramente fino alla teoria atomistica di Democrito. In ogni caso questa relazione dinamica, supposta tra le cose (estrinseche le une alle altre), ci suggerisce altre due immagini ancora più universali, e cioè quelle dello spazio e del tempo. Lo spazio infatti irrigidisce il dinamismo causale in una sconfinata foto istantanea che ci restituisce l’immagine dell’intero essere. Il tempo invece lascia fluire il dinamismo causale come farebbe una ripresa cinematografica. Esso quindi (a seconda dell’ampiezza del paesaggio abbracciato dall’obiettivo cinematografico) può mostrarci il punto specifico in cui vediamo scorrere l’essere, oppure l’intera estensione dell’essere che scorre. E proprio quest’ultima è l’immagine che ci viene in mente quando pensiamo alla parola «tempo». Devo ricordare che su questo Agostino fece delle riflessioni fondamentali nel Libro X delle sue “Confessioni”. E sinceramente queste riflessioni mi sembrano molto più appropriate di quelle che fece Heidegger coniando il concetto di “temporalità dell’essere” in “Sein und Zeit”.
Ritornando al binomio potenza-atto, possiamo qui vedere la potenza nel tempo (ossia il divenire) e l’atto invece nello spazio. Il primo equivale pertanto alla possibilità di essere ancora pienamente dinamica, mentre il secondo equivale all’essere già cristallizzato staticamente. Mi sembra che Henri Bergson abbia perfettamente descritto tutto questo nella serie di immagini per mezzo delle quali parlò dello slancio vitale come causa produttiva di qualunque ente determinato [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri Milano 1964].
Questa definizione di sostanza è comunque quella che possiamo ritrovare in filosofi post-medievali come ad esempio Spinoza, e quindi è una definizione piuttosto razionalistica e molto prossima alle scienze della Natura. Essa tende infatti a dare ragione della continuità dell’essere (cioè della Natura stessa con le sue leggi eterne) e non invece della cosa determinata nella sua dimensione metafisica.
L’altra definizione, invece (la più antica), è stata quella aristotelica prima e tomistica poi. Ne abbiamo parlato nelle dodicesima e sedicesima lezione. Ebbene, in cosa esattamente differiscono le due definizioni?
Esse differiscono per il fatto che la seconda ha solo indirettamente l’ambizione di descrivere l’estensione dell’essere. La sua primaria intenzione è infatti quella di indicarci la pienezza di essere in quell’individuo osale estremamente determinato (in verità perfettamente corrispondente all’essenza di cui abbiamo parlato prima) che costituisce l’effettivo reale.
In esso sono infatti contenuti (ad esso «ineriscono») tutte le possibili qualità astratte, la cui sintesi ci restituisce una cosa conoscibile (la cosa della quale riconosciamo il «cos’è?»). Ecco che nel mentre l’individuo sostanziale è il massimo concreto, le qualità che lo costituiscono sono sommamente astratte.
Ed Aristotele riteneva che queste ultime corrispondessero esattamente alle Idee di cui aveva parlato Platone.
Abbiamo insomma davanti a noi la differenza (istituita da Aristotele) tra “sostanza prima” (l’individuo sostanziale concreto) e “sostanza seconda”, ossia quelle qualità astratte che (nella sedicesima lezione) abbiamo visto stratificate nelle colonne delle categorie.
Anche qui possiamo e dobbiamo riportare questa serie di concetti al binomio potenza-atto. La potenza corrisponde infatti alla sostanza seconda (e quindi a ciò che potremmo definire come astratto «progetto di essere»). L’atto corrisponde invece alla sostanza prima, ossia a ciò che «esiste» incondizionatamente e primariamente, e cioè «è» prima di qualunque possibilità di essere.
È evidente che in tale visione (molto più aristotelica che non tomistica) la bilancia di valore risulta decisamente spostata dalla possibilità in direzione della realtà. E quindi lo scenario di valori, in relazione a ciò che è «realtà», è decisamente invertito rispetto a quello che abbiamo descritto con la visione di Platone. Infatti ciò che noi dovremmo venerare è quanto già effettivamente esiste immanentemente, ossia quanto già è stato realizzato. Non invece ciò che attende di venire realizzato, e come tale costituisce il modello di qualunque possibile ente.
In termini etico-emozionali ciò implica conseguenze radicalmente diverse da quelle che l’uomo comune può trarre (circa la propria esistenza) ispirandosi alla visione filosofica platonica. Ma non voglio dilungarmi oltre su questo.
È chiarissimo, comunque, che questo secondo concetto di sostanza è abbastanza diverso dal primo. Tuttavia solo il primo significato di sostanza si lascia confrontare con il concetto di essenza in modo che risulti chiara la loro più evidente differenza, ossia il fatto che l’essenza indica la concentrazione di essere e la sostanza indica invece l’estensione di essere. Quanto invece al primo significato di sostanza, se volessimo discutere la sua relazione con il concetto di essenza – com’è avvenuto rispetto al concetto greco di “ousía” – dovremmo addentrarci in riflessioni estremamente complesse e sottili, che certamente non interesserebbero il lettore.
Il lettore però, in quanto non filosofo di professione, può essere certamente interessato all’altra distinzione tra essenza e sostanza, ossia quella tra concentrazione ed estensione.
Il che significa che tale distinzione ha un certo peso anche nelle questioni quotidianamente sollevate dalla nostra esistenza. Non entrerò nel merito del numero veramente grande di immagini che sono legate alle due dimensioni qui in causa. Basterà quindi anche solo fare qualche esempio. Lascio pertanto al lettore il compito di meditare su questo aspetto in modo totalmente libero.
Il primo esempio è quello di una concentrazione di essere che corrisponde al luogo circoscritto o finito, ed un’estensione di essere che corrisponde invece all’infinito in quanto illimitato. E questo suggerisce immediatamente a tutti noi la relazione che sentiamo tra noi stessi, quali esseri finiti, e l’immenso mondo o universo nel quale si svolge la nostra esistenza
Il secondo esempio (ancora più contemplativo) è quello costituito dalla relazione esistente (nell’ambiente in cui viviamo) tra il punto e la linea, e quindi tra ciò che è racchiuso in sé stesso e ciò che invece si sviluppa incessantemente.
Vi sono davvero infinite possibili proiezioni psico-emozionali, etiche e spirituali che possono essere fatte nel momento in cui ci poniamo a meditare su immagini come queste.
Naturalmente anche la riflessione sul binomio possibile-reale si presta bene a venire sviluppata proprio in questo contesto di meditazione. Ed anche in questo lascio il lettore libero di fare le meditazioni che ritiene opportune.

Bene! Ecco che in tal modo abbiamo constatato che perfino la filosofia pura può contribuire ad arricchire (in termini di riflessione) il nostro immediato (e così spesso cieco) esistere di uomini. A patto però che da essa venga estratto ciò che davvero è utile per l’uomo. Il che può avvenire solo se gli usuali concetti filosofici (per così dire di tipo tecnico) vengano extrapolati alle dimensioni di grandi immagini e grandi questioni. Ed in questo direi che la riflessione tradizionale (cioè l’eterna Scienza dei Simboli) può dare davvero un contributo forse molto maggiore della stessa filosofia.

Ma su tutto questo dobbiamo comunque ora addivenire ad una conclusione piuttosto sintetica. Abbiamo infatti identificato due diversi aspetti filosofici nel contesto dei concetti di essenza e sostanza.
Il primo aspetto esula totalmente dalla filosofia, corrispondendo alla relazione esistente tra possibile (quale non ancora realizzato) e reale (quale già realizzato).
Il secondo aspetto rientra invece nella più classica filosofia, corrispondendo all’essenza quale concentrazione di essere ed alla sostanza quale estensione di essere.
Entrambi gli aspetti sfuggono comunque in una certa misura alla riflessione filosofia più tecnica. Anche se abbiamo visto che non pochi elementi di quest’ultima possono almeno contribuire ad alimentare la riflessione che l’uomo comune può effettivamente fare su essenza e sostanza.
Nel complesso possiamo quindi dire che abbiamo finalmente individuato un campo della riflessione filosofica, nel contesto del quale la filosofia classica ha titoli molto maggiori per offrire contenuti dei quali l’uomo comune possa fare concreto uso. Ed è estremamente significativo che tale campo sia proprio quello che ha percentualmente occupato di più il tempo e lo spazio propri della riflessione filosofica planetaria dai primordi fino ad oggi. Si tratta insomma esattamente della riflessione circa essenza e sostanza

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È recentemente uscita la monumentale traduzione (dal greco al portoghese) del Nuovo Testamento (nella versione dei Settanta) ad opera del filologo grecista e scrittore Frederico Lourenço [Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016].
Ebbene un testo di una tale rilevanza (non solo religiosa ma anche culturale) non può venire affrontato senza entusiasmo ed immense aspettative. Cosa che ovviamente riguarda in particolare il credente, oltre che il pensatore religioso. Ma, ahimè, oggi la delusione è sempre dietro l’angolo esattamente quando appare un’opera che promette così tanto. Viviamo infatti in una cultura nella quale pare proprio che più una cosa viene considerata grande più essa inclina a valorizzare la brutale decostruzione all’elementare di tutto ciò che nel mondo per millenni è stato considerato un valore. Sta di fatto che un simile criticismo decostruttivo (anzi spesso per la verità francamente distruttivo) è iniziato con Kant e Voltaire, per poi raggiungere l’acme in Nietzsche, ed infine è divenuto un implacabile ed inarrestabile tsunami che ha travolto e travolge ogni cosa.
Ecco allora che una in sé pregevolissima traduzione dal greco delle Sacre Scritture cristiane finisce per dover essere necessariamente un’opera riduzionistica, brutalmente immanentizzante, desacralizzante e demolitoria, fino a raggiungere limiti che un tempo sarebbero stati giudicati blasfemia se non eresia. Ma questi due ultimi atteggiamenti sono oggi ampiamente considerati grandi virtù invece che vizi. E quindi non poteva non accadere che l’opera di Lourenço (già di suo scrittore super-premiato) venisse in Portogallo celebrata come un grande prodotto culturale ed una grande gloria nazionale.
Lo è però davvero?

Cerchiamo di comprenderlo meglio commentando i testi introduttivi che Lourenço premette alla traduzione dei Vangeli.
In generale la presa di posizione di Lourenço si riassume nei seguenti punti:
1) Il Vangelo è un testo molto attraente nella sua semplicità non solo dottrinaria ma anche linguistica (a causa del fatto che venne scritto in un greco senza pretese dedicato a gente semplice). Punto! Per il resto è un cumulo di false verità delle quali c’è solo da dubitare perché molto probabilmente sono state solo invenzioni. Insomma il Vangelo è null’altro che un bello e struggente (ma falso) testo letterario
2) L’Autore stesso si sente estremamente gratificato per il fatto di essere un grande e geniale grecista che intanto rende democraticamente merito ai testi antichi destinati ai semplici
3) Proprio per questo egli saluta i nuovi studi biblici (ormai in corso in tutte le “grandi università” mondiali), ai quali si dedicano ormai non più quotati teologi, ma invece giovani ricercatori (dottorandi e post-dottorandi) abituati a fare i filosofi e i filologi in maniera puramente tecnica ed affatto umanistica (cioè di quelli che non sanno nemmeno la differenza tra Iliade, Odissea e Eneide). Ebbene l’Autore appare essere molto lieto che a costoro venga offerta (anche grazie al suo esempio) la possibilità di smontare totalmente la sovrastruttura del testo sacro per riportarla all’elementare più nudo ed esplicito
4) Evidentemente su questa base Lourenço si sente fiero di continuare quella tradizione critica protestante che fu fin dall’inizio basata sulla raffinata erudizione testuale, e per questo si sentì pienamente giustificata nella propria opera di demolizione della tradizione
5) Per tale motivo egli dichiara più volte di credere solo e soltanto agli studi biblistici di ultima generazione (almeno quelli condotti dal 1963 in poi, anno della sua preclara nascita), dato che essi si sono espressi in modo unanime con legittimo scetticismo (rigorosamente scientifico) rispetto a quasi tutti gli aspetti più rilevanti dei testi evangelici
6) Ovviamente, in forza della sua traduzione e lettura dei testi, l’Autore annienta totalmente la realtà e credibilità dell’effettiva ispirazione divina dell’agiografo. Ne risulta insomma che il Vangelo è appena un insieme di testi letterari umani (come del resto l’umana logica vuole).

Tuttavia Lourenço non può non lodare il fascino della sua originale creatura. E così descrive in termini entusiastici la bellezza di testi che, pur essendo rudimentali (rispetto ai sontuosi testi epici dell’antichità), hanno surclassato in interesse e successo tutto ciò che era venuto prima di essi [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E così egli imprime su questi testi il marchio indelebile del suo apprezzamento previo, lasciandoci intanto però anche capire a cosa (secondo lui) esso è dovuto e a cosa invece non è dovuto: − “Sono testi che – con il loro messaggio sublime veicolato da parole la cui bellezza disarmante ancora fa rabbrividire chi le ha lette e rilette per una vita intera – rientrano semplicemente in una categoria a parte”. È evidente, in base a questo, che il valore dei Vangeli non consiste per lui assolutamente nel loro significato religioso, bensì invece in tutt’altro.
Dunque – dopo averci rassicurato con il suo autorevole imprimatur (che senz’altro ci impedisce di buttare subito via il libro per non riprenderlo mai più in mano) −, Lourenço sente di poter iniziare a snocciolare i motivi per i quali non vi è da credere ad una sola parola di ciò che è contenuto nei testi evangelici ed inoltre ancor più non vi è da credere ad una sola parola della costruzione dottrinaria che su di essa è stata eretta nel tempo.
Si comincia con il constatare il fatto che (come secondo lui confermato unanimemente dai biblisti degli ultimi decenni) non uno degli stesori dei Sinottici è per davvero chi sembra essere, e quindi non a caso si tratta appena di autori anonimi e tardi (operanti tutti intorno alla fine del I secolo d.C.). In altre parole i Sinottici non sono stati affatto scritti da coloro che noi conosciamo come evangelisti e discepoli di Gesù, cioè Matteo, Marco e Luca. E comunque, anche ammesso che fossero stati scritti da costoro, nemmeno si potrebbe essere certi della loro effettiva identità di discepoli di Gesù e pertanto autentici testimoni dei fatti. Un’eccezione va fatta solo per Giovanni. Ma questo per un motivo negativo e non invece positivo.
Giovanni infatti è l’unico a dichiarare esplicitamente nel testo che egli è esattamente colui che noi ci aspettiamo, ossia uno dei discepoli di Gesù, e peraltro il più amato da lui [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 313-317]. Peccato però che proprio Giovanni non sia altro che un intellettuale di tipo sacerdotale ebraico, il quale (indipendentemente dal fatto di essere stato o meno un discepolo di Gesù) non ha fatto altro che teologizzare i fatti nudi e crudi, trasformando così senza alcun diritto Gesù nel “Logos” divino e quindi producendosi nel complesso in una “finzione” teologico-letteraria bella e buona.
Ma non finisce qui. Perché poi vi è secondo lui il fenomeno lampante ed anche scandaloso di una quantità così grande di contraddizioni, omissioni e plagi (tra i vari testi evangelici) che lo studioso è costretto (per pura “logica”) a ritenere che nessun evangelista abbia detto la verità sui fatti. Il che porta poi necessariamente a supporre che non solo costoro abbiano distorto ed esagerato molte cose, ma addirittura ne abbiano inventate alcune di sana pianta [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 21-38].
E qui si giunge davvero al tracollo, perché su questa base non vi è una sola verità di fede che si salvi.
Circa la nascita di Gesù non si sa assolutamente nulla di certo (né circa la data né circa il luogo). Ed inoltre la verginità di Maria è una cosa così dubbia da essere addirittura costretti a supporre che essa venga semplicemente contraddetta dal fatto che Gesù ebbe dei fratelli (il che significa che Maria e Giuseppe, anche se successivamente, consumarono per davvero il loro matrimonio).
Circa la morte di Gesù non si sa nulla di univoco e anzi si è portati perfino a credere che non sia mai avvenuta. Soprattutto non si sa quando sia davvero avvenuta né cosa davvero Gesù abbia detto prima di esalare l’ultimo respiro. E qui l’Autore porta al massimo il ridicolo del testo, in quanto si sforza di dimostrare che il fatidico anno zero dell’era cristiana, ossia quello della nascita di Gesù è da spostare molto in avanti così come la sua stessa morte. Che sarebbe avvenuta non a trenta anni ma a quaranta o addirittura quarantasei anni.
Circa la resurrezione dei morti è lecito pensare che addirittura (come allora sospettarono effettivamente ebrei e romani) il corpo di Gesù sia stato trafugato dai discepoli, con la successiva invenzione poi di un sepolcro vuoto con tutti gli annessi e connessi.
Infine, pur ammettendo che gli evangelisti abbiano forzato e distorto i fatti in modo che coincidessero con le profezie del Vecchio Testamento, c’è da considerare il fatto che in quest’ultimo non vi è in verità alcuna traccia di tali profezie.
In ogni caso, per diminuire almeno un po’ la drammaticità di tutta questa distruzione (giustificando poi anche meglio il suo stesso lavoro), Lourenço dice alla fine che l’immenso numero di “difficoltà” obiettivamente presenti nel testo evangelico è esattamente ciò che costringe lo studioso a mettere spietatamente a nudo la “materialità” della lingua greca. Insomma, volendo essere più espliciti (di quanto l’Autore sia qui disposto ad essere), ciò vuol dire che bisogna fare in modo che le bugie presenti nel testo devono venire mantenute così come sono. Questa spietatezza (scettica e demolitoria) è però secondo lui benefica. Per cui la Chiesa stessa, secondo lui, dovrebbe essere la prima interessata a questa sorta di così strana, brutale e blasfema autenticità.

Passando poi alle introduzioni ai singoli Vangeli, vengono fuori per l’Autore ulteriori eclatanti «scandala» demolitori.
In primo luogo c’è da osservare che vi sono fatti rilevanti (sui quali si basano poi importantissime verità di fede) che stranamente sono presenti solo in alcuni Vangeli e non in altri. Ma per questo motivo finiscono inevitabilmente per perdere rilevanza alcuni momenti dell’insegnamento di Gesù ai quali è sempre stata attribuita la massima importanza. La tesi di Lourenço al proposito sembra insomma essere questa: − se non tutti gli evangelisti parlano di aspetti così importanti, allora può ben darsi che Gesù non abbia mai parlato di cose come queste. La tesi dell’Autore, insomma, si appaia in questo piuttosto perfettamente a quella di Renan, di Nietzsche e del suo conterraneo Saramago – Gesù non fu nemmeno lontanamente ciò che poi è stato fatto di lui.
Ecco che solo in Matteo noi ritroviamo il famosissimo e fondamentale discorso della Montagna, mentre invece non lo ritroviamo affatto in Giovanni [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Mateus, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 53-57; Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317]. Tutto il così significativo e suggestivo scenario dell’Annunciazione e della Nascita di Gesù si ritrova poi solo in Luca [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo Lucas, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 217-220]. Inoltre sempre in Luca mancano tutti gli aspetti più drammatici ed anche miracolistici della vita di Gesù (Gesù non cammina sulle acque, non viene né flagellato né incoronato di spine), il che include poi anche la dolorosa e sanguinosa sua morte. Significherebbe quindi che tutta la teologia cristiana del dolore e della morte in Croce di fatto non varrebbe un fico secco.
Infine in Giovanni (oltre il discorso della Montagna) mancano completamente episodi fondamentali come la provazione nel deserto, il nome effettivo di Maria quale madre di Gesù, l’insegnamento del Pater Noster, e addirittura il presentarsi di Gesù come Messia [Frederico Lourenço, Nota introdutória ao Evangelho segundo João, in: Frederico Lourenço, Bíblia… cit., Vol. I, p. 3313-317].
Inoltre (in base alla messa in dubbio dell’identità di Giovanni, che abbiamo visto prima) Lourenço menziona l’opinione del famigerato Rudolf Bultmann (il quale negò recisamente che costui possa essere stato per davvero testimone oculare di tanti importanti episodi) per giungere infine a sostenere che è del tutto lecito considerarlo addirittura un “impostore”.

Ecco, credo che davvero non ci sia bisogno di dire di più. A parte il senso di nausea e desolazione che coglie il credente davanti a queste affermazioni, è inevitabile non nutrire il sospetto che dietro di esse vi sia un’intenzione demolitoria che sfiora addirittura l’insidia satanica.
Non si può comprendere altrimenti quello che lo stesso Autore dice, e cioè di aver dedicato tutta la sua vita non solo alla traduzione di questi testi ma anche alla loro meditazione e contemplazione. Per cosa dunque?
Solo per coprire di ridicolo e di ingiurie le verità di fede che vi sono contenute?
A questo punto mi sembra addirittura non solo irrilevante ma anche estremamente ipocrita che egli difenda il suo impegno mettendo avanti la bellezza ed importanza dei testi che ha tradotto con un così grande e meritevole lavoro. Tutto ciò diviene davvero poco credibile, dato che la cosa più credibile è invece che egli abbia semmai visceralmente odiato ciò che intanto studiava.
Insomma la lettura lourençiana dei testi evangelici sembra l’esatto contrario di una lettura delle Scrittura che venga guidata dallo Spirito. E quindi risulta davvero difficile scartare l’ipotesi che egli sia stato guidato in tutto questo addirittura da una mano satanica. In ogni caso, se anche non è stato questo, non gli si può attribuire altro che quel ben noto corrosivo scetticismo ateo (venato peraltro visibilmente di odio e scherno) che da molto tempo è tipico dell’intellettuale moderno ed ancor più post-moderno.
Tutto questo però non è solo scandaloso per il credente. È invece anche estremamente sconsolante per l’uomo di cultura. Dato che è un atteggiamento di una piattezza, di una meschinità, di una scontatezza e di una banalità che davvero sono difficili da supporre in un filologo al quale viene intanto attribuito un così grande valore e viene tributata una così grande fama.
Insomma viene proprio il sospetto che l’opera “monumentale” di Lourenço (e forse anche il personaggio stesso) non sia altro che un altro dei tanti tipici bluffs culturali moderni.

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In questa lezione dovrò davvero sforzarmi molto. Perché su questo tema sono stati spesi non soltanto fiumi ma invece anche oceani di inchiostro. E quindi, se pretendo di parlarne, dovrò dire necessariamente qualcosa di molto originale. Tutto questo dovrà però costituire l’esatto contrario dell’orgoglio. Per cui ciò significa che potrò parlare di questo tema solo rassegnandomi a poter dire appena qualcosina su di esso, senza quindi poter nemmeno lontanamente pretendere di essere completo ed esaustivo.

Ma partiamo da una costatazione iniziale del tutto banale, sebbene estremamente significativa – chi sia l’uomo nessuno non lo sa e nessuno può saperlo. E per vari semplicissimi motivi.
Il primo motivo è quello che noi stessi siamo uomini (noi che parliamo di noi stessi), e quindi non godiamo per definizione del privilegio di poterci guardare dall’esterno. Il secondo motivo sta nel fatto che l’uomo è oggettivamente qualcosa di troppo complesso e misterioso per poter davvero rispondere soggettivamente alla domanda circa la propria essenza ultima, ossia circa il proprio più autentico «cos’è?». In questa lezione forniremo alcune definizioni dell’essenza dell’uomo, ma comunque, sebbene estremamente ambiziose, esse sono tutte ben lungi dall’avere il potere di aver risolto per sempre il tema e problema. In altre parole l’uomo sta davanti a sé stesso come davanti ad un profondo mistero. Per definizione e senza rimedio!
Pertanto già ora possiamo iniziare a dire la cosa più conclusiva ed anche straordinaria e paradossale su questo tema: – dire cos’è l’uomo lo può dire solo chi lo conosce da cima a fondo, ossia Dio.
Si badi bene, però: – almeno per ora, con ciò non intendo fare assolutamente un’affermazione dogmaticamente religiosa. Anzi, tutt’altro! Voglio dire invece solo che, se noi dobbiamo fare lo sforzo di immaginarci chi sia colui che può davvero conoscere l’uomo da cima a fondo, possiamo solo concluderne che costui può essere solo un soggetto conoscente equivalente a Dio. Solo a questo soggetto conoscente può infatti venire attribuita l’ampiezza ed altezza di conoscenza che possono consentire di abbracciare con lo sguardo intellettuale un fenomeno ed ente così immenso e profondo com’è quello umano.
E va detto che forse solo la mente e la penna di Sofocle (Antigone) sono riusciti a ritrarre tale mistero con le dovute profondità e potenza: – “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna / è più mirabile dell’uomo:/ egli attraverso il canuto mare / pure nel tempestoso Noto / avanza, fra le onde movendo / che ingolfano intorno; / e l’eccelsa tra gli dèi, la Terra / eterna, infaticabile, egli travaglia, / volgendo gli aratri di anno in anno, / rivoltandola con i figli dei cavalli…” [Sofocle, Antigone, in: Dario Del Corno, Sofocle. Edipo Re. Edipo a Colono. Antigone, Mondadori, Milano 2010., I stasimo, 332-341 p. 281].

Dunque è da questo che dobbiamo partire.
E quindi è ora il momento di entrare nel merito delle risposte che la filosofia mette a disposizione per chiarire il nostro tema.
Tuttavia ho chiarito all’inizio di questo ciclo di lezioni (e l’ho ribadito a proposito dei fenomeni dell’esistenza) che non intendo affatto chiamare in causa l’intera filosofia, bensì solo quella che può davvero illuminare il cammino compiuto ogni giorno nell’esistenza da parte dell’uomo comune. Ma questo semplifica notevolmente il mio compito, dato che in tal modo potremo trattare solo di alcuni aspetti della visione filosofica dell’uomo. Infatti, se invece non lo facessimo, dovremmo addentrarci in dottrine di un’estensione e di una complessità per davvero sconfinate.
Basta per questo prendere anche solo brevissimamente in considerazione quelli che fin dall’inizio sono divenuti i due grandi rami filosofici della visione dell’uomo, e cioè quello platonico e quello aristotelico.
Ebbene, Platone considerò l’uomo in maniera primariamente ontologica, e precisamente in quanto ente dotato di un’anima primariamente conoscente, e quindi posta in contatto lo strato di essere più vero e reale secondo lui, e cioè quello (trascendente) delle Idee. Idee che per lui incarnavano le vere cose, ossia quelle trascendenti. Proprio per questo motivo giustissimamente il Prof. Reale ha fatto osservare che il primo e più grande pensatore dell’essere è stato Platone, e non invece Aristotele [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, V, IV p. 147-153, I, VI, I-III p. 158-176, II, VII, IV p. 217-227, IV, XVI, III p. 511-526]. Egli, infatti, individuò uno strato di essere trascendente di natura «ideale» ma insieme anche totalmente cosale (e quindi «onto-intellettuale»), che rappresenta di fatto tutto l’Essere esistente.
Il che è vero perché tutto ciò che sta al di sotto di questo strato non è altro che mero effetto (sempre più lontano dalla causa) e mera ombra – quindi è qualcosa di sostanzialmente irreale. L’uomo quindi viene definito da Platone in stretta relazione con questa specifica concezione dell’Essere. Ne consegue che la sua natura ultima viene vista esattamente in quella realtà onto-intellettuale che corrisponde poi a ciò che in filosofia poco a poco è stato identificato come «spirito» – si tratta di qualcosa che ontologicamente equivale esattamente alla dimensione intellettuale nella sua valenza cosale (Idea quale cosa, e cosa quale Idea; inoltre conoscenza che è essere, ed essere che è conoscenza).
E l’anima non è altro che l’aspetto più concreto e cosmico di tale realtà. Cosa che poi venne chiarita in dettaglio specialmente da Plotino [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16 p. 1655-1661; Elena Gritti, Proclo. Dialettica anima esegesi, LED, Milano 2008, II, 1 p. 67-87]. Insomma in questo senso la natura dell’uomo è quella di un ente intellettuale-spirituale, la cui espressione più prossima al corpo è la dimensione animica. E devo a questo punto ricordare per inciso che la grande pensatrice ebreo-tedesca Edith Stein ha dato un grande contributo a questa concezione; insieme ad alcuni suoi interpreti, tra i quali io stesso [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/; Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010].
In ogni caso va sottolineato che per Platone la dimensione intellettuale, e quindi in qualche modo quella gnoseologica ed epistemologica (conoscenza), è in primo luogo ontologica, ossia è essere.
Comunque chi vorrà approfondire questo tema potrà leggere il mio saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017].
Ben diversamente stanno invece le cose per Aristotele (nonostante le apparenze). Per lui, infatti, la dimensione ideale-intellettuale non ha per definizione alcuna ontologicità. Essa è infatti appena
“sostanza seconda”, ossia riassume in sé tutte le qualità che possono venire attribuite (“dette di…”, o predicate) alla “sostanza prima”, e cioè all’individuo che intanto esiste senza aver bisogno di alcuna giustificazione ontologica (ovvero l’ente mondano colto nella sua dimensione metafisica). Insomma, tutto ciò che per Platone è l’essere stesso più pieno, per Aristotele è invece appena ciò che “inerisce” all’essere (l’ente-individuo in quanto sostanza prima). E quindi esiste per davvero solo se collocato in tale contesto. Altrimenti, preso da solo, è un puro nulla. Ecco allora che tutto quanto è umano, ossia il costituire un ente intellettuale-razionale (l’ente che «sa di sè»), è per Aristotele unicamente logico, e non invece ontologico.
Ebbene, esattamente da questo scaturisce una delle più forti, universali ed usuali definizioni filosofiche dell’uomo, ossia quella dell’uomo in quanto animale bipede e insieme razionale. Si può dire infatti che nessuna successiva concezione filosofica dell’uomo si sia discostata da questa definizione aristotelica.
Ma cosa essa ci vuol dire in primo luogo? Essa ci vuole dire soprattutto che l’uomo viene definito dal suo carattere logico universale (animale come “genere”), al quale vanno aggiunti poi gli ulteriori (e meno universali) caratteri logici (“specie”), ossia quello di bipede e di ente razionale. In altre parole per Aristotele l’uomo può venire definito nella sua essenza intellettuale-razionale senza fare alcun ricorso all’ontologia («onto-intellettualità»). Ecco che l’uomo può e deve venire definito come ente intellettuale-razionale appena in base ad una dimensione puramente logica. Il che impedisce ovviamente di dire quale sia l‘effettiva natura dell’uomo. Dato che quest’ultima può e deve venire definita solo e soltanto in termini ontologici. In altre parole, affermando che l’uomo è un “animale razionale”, Aristotele si è limitato a constatare qual è la natura dell’uomo dal punto di vista unicamente logico-razionale e, se vogliamo, puramente scientifico. Non ci ha detto però affatto «cos’è» l’uomo, cioè si è guardato bene dal fare anche un solo passo nel campo del mistero nel quale questo ente è avvolto.
Ecco. Qualunque definizione dell’uomo noi troviamo nella filosofia successiva a Platone ed Aristotele, noi dovremo inquadrarla in un una di queste due sfere dottrinarie. E quindi credo che possiamo astenerci dal dilungarci in una ricerca che seguirebbe l’intero iter della filosofia alla ricerca delle varie definizioni dell’uomo.
Il che ci permetterà quindi di concentrarci solo su alcune tra le tante concezioni.
Il criterio per la scelta di queste ultime dipende però dalle coordinate generali che già ora possediamo – l’uomo è un ente animico-razionale-intellettuale-spirituale (ente in quanto onto-intellettuale), e quindi è per natura capace di conoscenza e di auto-coscienza («sa si sè»). Pertanto possiamo già dedurne che l’uomo è un soggetto conoscente ed auto-cosciente, ossia sostanzialmente è molto più un «chi» o «colui» che non invece un mero «cosa» (un ente tra gli enti). Esso insomma è molto più un soggetto che non un oggetto. E su questo bisogna dare senz’altro ragione alle dottrine filosofiche di tipo idealistico.

Ebbene questo ci riporta però a quella affermazione solo provvisoriamente religiosa che ho fatto all’inizio – chi può conoscere l’uomo se non Dio, ossia il davvero supremo Soggetto?
Ed ora possiamo comprenderne meglio il perché. Abbiamo infatti appena visto che l’uomo è un «chi» e non un «cosa». Chi, dunque, può conoscerlo meglio se non il «Chi-Colui» per eccellenza che per definizione conosce l’uomo esattamente in quanto è un «chi» o «colui»; ossia Colui che lo conosce come un’irripetibile ed unica persona (soggetto conoscente ed auto-cosciente) prima ancora che sia venuto al mondo?
Costui è (e può essere) solo Dio.
Egli è infatti Colui che conosce ognuno di noi esattamente com’è (nella sua unicità assolutamente inconfondibile) fin dall’eternità. Egli ha insomma pensato ognuno di noi fin dall’eternità.
Ora, da questo veniamo di nuovo al problema della scelta dei pensatori, delle dottrine e dei testi che possono aiutarci ad approfondire questa materia. Anche qui le possibilità sono sconfinate. Per cui mi limiterò a menzionare (tra le mie letture) quei pensatori che più mi hanno colpito per quanto riguarda la perfezione della conoscenza dell’uomo da parte di Dio.
Si tratta di due grandi pensatori cristiani, e cioè Maritain e Guardini. Essi, quindi, potranno aiutarci a comprendere meglio questa definizione dell’uomo proprio partendo dalla perfezione della sua conoscenza da parte di Dio.
Prima di iniziare a discuterli vorrei però brevemente citare di nuovo Edith Stein. Questa pensatrice non è stata certo esplicita sul tema come lo sono stati Maritain e Guardini. Ma intanto ha sostenuto che l’uomo (in quanto ente animico-razionale-intellettuale-spirituale) è in primo luogo un irripetibile unicum, e precisamente un “Essente” (Seiende) che è poi l’esatto riflesso speculare del Logos divino [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006,VII, 9-11 p. 360-396]. Proprio in questo senso esso è l’esatta replica immanente del supremo Soggetto trascendente, che poi è l’Individuo ideale-cosale per eccellenza, ossia un supremo Ente (Essere) che è anche la suprema Idea di tutte le cose, ossia è la Possibilità trascendente di qualunque genere di ente. In questo si riassume la concezione steiniana di quei Trascendentali nei quali la Scolastica cristiana (specie tomista) volle vedere lo strato di essere nel quale esistono (entro l’essere e la mente divina) i modelli ideali di tutti gli enti creati [Edith Stein, Endliches… cit., V p. 239-279; Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXVII, 1 p. 20-25, 2 p. 26-40, 2 p. 54-58, 3 p. 56-64, 4 p. 115-126.]. Ebbene in questo uomo che è immagine speculare del Logos cristico, noi abbiamo già un ente caratterizzato dallo status di soggetto conoscente-cosciente ed anche di Intelletto, e quindi abbiamo già un sostanziale «chi» o «colui». E per la precisione si tratta di un ente umano-divino, ossia un «figlio di Dio» per natura e per elezione.
Non abbiamo invece affatto un mero «cosa» tra i tanti altri. Ma soprattutto non lo abbiamo perché si tratta di un ente assolutamente irripetibile, ossia un ente che è stato messo al mondo come un «qualcuno» e non come un «qualcosa». Il che può essere avvenuto soltanto attraverso un progetto creativo che non implicava appena il risultato finale da raggiungere, ma anche l’intimità personale con questo risultato, ossia il conoscerlo intimamente. Proprio come accade con una persona. Possiamo quindi assumere che Dio, allorquando crea ognuno di noi, già prima che ciò accada non solo ci ha davanti a sé nella nostra interezza ultima, ma inoltre già intrattiene con ognuno di noi un’intimissima relazione personale.
E ciò assomiglia molto a quella Prima creazione (creazione del mondo e dell’uomo restata interiore a Dio) della quale ho già parlato nella quindicesima lezione.
Va precisato comunque che, con questo complessivo discorso, la Stein tentò di definire quella che per lei era l’”essenza” dell’uomo, ovvero il suo preciso «cos’è?»; e quindi tentò di definire l’idea che costituisce l’uomo rappresentandone l’essere già a livello trascendente. Non a caso questo «essere» assolutamente unico-individuale dell’uomo esiste già, ed è perfettamente fissato (determinato), appunto a livello trascendente. La pensatrice, quindi, volle fare del tutto a meno del concetto aristotelico di sostanza (definente l’individuo umano), e pertanto il suo discorso ricade decisamente nella sfera platonica.
Ma differisce per questo anche da quella aristotelico-tomistica. Dato che in quest’ultima l’uomo viene definito primariamente dalla sostanza in quanto è soprattutto atto e non potenza (essenza), ossia è «atto di esistere», cioè in primo luogo è un assoluto ed incondizionato esistente (e dunque un cosa», cioè un oggetto più che un soggetto).
Esamineremo di nuovo più tra poco questo tema.

Veniamo però ora ai pensatori che parlano più direttamente dell’uomo come «chi» e/o come «colui»
Bene, Maritain, riallacciandosi alla visione tomistica (e quindi aristotelica), sembrerebbe a prima vista colui che meno giustifica questa definizione dell’uomo. Ne abbiamo appena parlato. Egli, infatti, considera l’uomo alla stregua dell’individuo così come venne definito da Tommaso, e precisamente in quanto sostanza prima immanente (alla quale tutto «inerisce»). Si tratta pertanto di un ente tra gli altri enti, e quindi in via di principio si tratta di un oggetto e non di un soggetto. Dunque la caratteristica primaria di tale ente è quella di essere un esistente (totalmente immanente) che è giustificato solo e soltanto da sé stesso nel proprio esistere. Esso è infatti la sostanza (reale) alla quale inerisce l’essenza (ideale). E pertanto per definizione non ha bisogno di alcuna essenza che lo vada a definire; cioè, per poter esistere, non ha bisogno di alcun «cos’è?» ideale e trascendente. L’individuo quale sostanza ha infatti tale elemento già in sé. Anzi l’idea-essenza non esisterebbe nemmeno senza l’individuo-sostanza che lo contiene.
Tuttavia, riferendosi sempre a Tommaso, Maritain aggiunge a ciò qualcos’altro, e cioè che questo apparente assoluto oggetto è invece (stupefacentemente) il soggetto per eccellenza. Però non lo è affatto di per sé, bensì sollo per concessione divina. Nel crearlo, infatti, Dio lo pone come “suppositum” perché esso in generale è sì un oggetto tra i tanti, ma nello stesso tempo (in quanto creato) è in ultima analisi un’Idea divina incarnata, e quindi è di fatto l’oggetto di un’affermazione soggettiva divina circa un ente che potrebbe esistere in quanto determinato [Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014, I, 4 p. 47-50]. Proprio come tale, esso è anche l’oggetto di un’affermazione conoscitiva soggettiva umana di tipo scientifico. Pertanto, a causa di tutto questo, esso è un oggetto pienamente esteriore che per nulla è mai separato dal soggetto conoscente (come invece l’idealismo aveva ipotizzato). Il realismo tomista, insomma (qui ripreso da Maritain), nega semplicemente che possa esistere un puro oggetto separato dal puro soggetto, e quindi afferma che ogni oggetto è sempre anche un soggetto (è sempre il soggetto di un’affermazione soggettuale che non è mai separata dal mondo cosale). E viceversa. Comunque tutto ciò non esclude che tale soggetto-oggetto sia intanto in primo luogo di un esistente pienissimo; dato che esso (nel mentre viene «affermato», e quindi ricompreso in sé da parte del soggetto) è sempre totalmente esteriore a qualunque ipotetico soggetto. Il che avviene per il fatto che esso esiste nel mondo esattamente come esiste nel mondo anche il soggetto stesso. Ebbene, questa parità di status ontologico deriva semplicemente dal fatto che vi è un soggetto che li pone entrambi, e cioè il supremo Soggetto divino. Quest’ultimo è infatti Colui che pensa entrambi (facendo di entrambi il soggetto di una Sua affermazione) nel mentre li crea, ossia li mette al mondo.
Su questa base Maritain richiama quel concetto tomista di “sussistenza” che secondo lui supera e rende del tutto inutile il concetto di essenza [Jacques Maritain, Breve trattato… cit., III, 16-20 p. 93-104]. Per lui, quindi, non è assolutamente necessaria un’essenza per costituire un soggetto, ma è invece pienamente sufficiente il suo esistere esteriore indipendente. Pertanto, anche quando il soggetto pensa sé stesso, coglie sempre null’altro che un oggetto, ossia una sostanza e non un’essenza. Nulla è più astratto del soggetto colto da sé stesso. Infatti non vi è qui assolutamente alcun oggetto. Eppure un oggetto si delinea comunque. Ed esattamente questo è il «chi» – è l’oggetto più soggettuale possibile che il soggetto stesso coglie quando guarda a sé stesso. Proprio così esso è presente anche nella mente di Dio; allorquando essa, guardando a sé stessa, intravvede un qualcosa che un giorno (una volta creato) sarà un soggetto umano.
Da ciò Maritain deduce che da questa Idea divina il soggetto umano scaturisce immediatamente, senza che vi sia alcun bisogno di creare prima la sua essenza. L’essenza semmai finisce per rientrare in questo soggetto come qualcosa di totalmente inconsistente dal punto di vista ontologico. E ciò accade perché tale soggetto è il “suppositum” in quanto è persona per eccellenza (ossia l’unicissimo e irripetibile soggetto in quanto «chi» o «colui»). E quindi è propriamente l’”anima spirituale”. Maritain, menzionando Tommaso, dice che in base a tutto questo “La persona è quanto c’è di più nobile e di più elevato in tutta la natura”.
Ed esso, in quanto Io giustificato solo da sé stesso, ossia dal suo specificissimo modo di essere (ovvero “sé”, “soi”), è assolutamente insondabile nella sua ragione di esistere. È insomma per definizione “un mistero”, un mistero che solo Dio conosce perché ospita questa presenza in sé ancor prima che venga da Lui stessa messa al mondo (cioè creata).

Guardini [Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988] ci mostra il «chi» o «colui» da un diverso punto di vista; ossia nel modo specifico di una persona umana che si forma in relazione con il “Tu” o “Altro”. Insomma, mentre Maritain pone il «chi» o «colui» dal punto di vista logico-ontologico (secondo la tradizione tomistico-aristotelica), Guardini lo pone invece dal solo punto di vista relazionale. Ed in questo bisogna dire che la sua tesi assomiglia molto a quella di uno dei più grandi pensatori contemporanei, ossia Emmanuel Lévinas [Emmanuel Lévinas, Totalità ed infinito, Jaca Book, Milano 2006]. Ne abbiamo parlato nella quindicesima lezione sulla base di Ricoeur.
In ogni caso si può dire che la trattazione guardiniana del «chi» o «colui» è senz’altro incentrata sulla dimensione etico-emozionale (invece che puramente logica) che caratterizza tale realtà.
Per Guardini, quindi, non vi è altra maniera (se non la relazione) in cui dal mero soggetto possa emergere un ente che costituisca per davvero una persona; e quindi non sia ontologicamente indifferente (come un ente qualunque), ma sia invece caratterizzato esattamente da quell’unicità individuale in forza della quale il soggetto stesso risulta etico-emozionalmente individuato e non invece individuato appena logicamente.
Va da sé che, entro questa riflessione, siamo piuttosto lontani da quanto sostiene Maritain sulla base di Tommaso d’Aquino, e cioè che qualunque ente oggettuale è un soggetto entro il pensiero divino. Il discorso riguarda infatti molto più direttamente l’uomo, così come del resto avviene anche entro il pensiero della Stein. Guardini pone semmai l’accento sulla dimensione orizzontale del costituirsi di un soggetto quale «chi» o «colui», ossia precisamente la dimensione relazionale. Maritain pone invece l’accento sulla dimensione verticale di tale fenomenologia. E la prima dimensione (orizzontale) pone a sua volta in evidenza la dinamica relazionale privilegiata che vi è tra enti viventi senzienti-coscienti, mentre la seconda dimensione (verticale) ricalca sostanzialmente l’atto creativo divino (e quindi pone in evidenza l’universale relazione che vi è tra tutti gli enti senza alcuna distinzione tra animati ed inanimati).
Prima di arrivare a questo Guardini traccia però una storia filosofica del soggetto inteso come ente spirituale auto-fondato; e pertanto costituente un molto ben definito «Io»; che non solo trascende il mondo ma anche «costituisce» (cioè forma) in esso le cose in quanto intelligibili, ossia conoscibili (da ora in poi definiremo tale dottrina come quella del soggetto-spirito). E così ciò ci rinvia a quanto anche la Stein vede come il soggetto in veste di paradigmatico «chi» o «colui». Ma nello stesso tempo Guardini altresì supera una siffatta visione in quanto essa è per lui del tutto insufficiente. Il pensatore vede infatti Kant come il centro di tale approccio al soggetto-spirito [Romano Guardini, Die Welt, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., I p. 15-24]. Egli insomma identifica filosoficamente tale visione come incentrata nella dimensione epistemologico-gnoseologica del soggetto. In altre parole bisogna supporre che, sebbene la Stein abbia offerto una sua versione fortemente etico-emozionale di tale dottrina del soggetto (nell’arricchirla con sostanziosi contenuti teologici e metafisici), essa resta comunque sostanzialmente epistemologica e gnoseologica; e quindi fa riferimento soprattutto alla valenza che il soggetto ha nella conoscenza e nella scienza.
Ma a tutto questo Guardini aggiunge anche che bisogna intendersi sul genere di ontologia che il “mondo” rappresenta in relazione al soggetto così inteso [Romano Guardini, Welt, Weltverschließung und Weltoffenheit, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., I-IV p. 71-96]. Infatti l’intendimento unilateralmente epistemologico-gnoseologico del soggetto fa sì che il mondo non sia affatto un tessuto di relazioni, ma sia invece al massimo un caos materiale da mettere in ordine per mezzo dell’intelligenza conoscente. Ed il tal modo, una volta posto al di fuori di qualunque fondamentale relazione (onto-mondana), il soggetto non può affatto per davvero porsi come un «chi» o «colui».
Per di più il pensatore insiste intanto particolarmente sulla necessità di un realismo filosofico-religioso che sottolinei l’esistenza indipendente del mondo, in quanto esteriore al soggetto; e quindi si ponga esso stesso in una relazione con il soggetto stesso che non è affatto soltanto epistemologico-gnoseologica. E tutto ciò rende quindi indispensabile superare la classica posizione filosofica di tipo idealistico. Egli fa comunque salva la presa di posizione del razionalismo metafisico-religioso (tendenzialmente idealistica), e cioè quella che prevede un Piano divino (e che nelle precedenti lezioni abbiamo esaminato come “teodicea”). Tuttavia anche questa dottrina sembra a Guardini tutto sommato insufficiente. Specialmente perché essa occulta per lui l’aspetto principale di Dio, che è quello di una presenza, e quindi di una Persona. Vedremo meglio alla fine che conseguenze ciò abbia.
In altre parole il Dio che si pone in relazione con un mondo (totalmente esteriore a Lui stesso) non è affatto appena un Architetto intelligente, ma è invece Egli stesso in primo luogo appunto un «chi» o «colui», e cioè è un sommo Ente che in primo luogo sta in relazione amorosa con il mondo e con i soggetti (i vari «chi» o «colui») in esso esistenti.

In ogni caso, secondo l’Autore, vi è un aspetto della dottrina del soggetto-spirito che va comunque tenuta ferma, e cioè quella secondo la quale esso è un “Io”, ossia è un’identità definita in modo radicalmente esclusivo rispetto a tutto ciò che ne differisce [Romano Guardini, Die Person. Vorbemerkung, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., p. 109]. Per la precisione lo è però non tanto in quanto esso si ponga unicamente di fronte a sé stesso (come ritiene la Stein) – rivolgendo a sé stesso il proprio “sguardo intellettuale” e non ritrovando altro che sé stesso (ossia la Totalità puramente interiore dell’essere). Lo è invece proprio in quanto se ne sta davanti al mondo quale Totalità esteriore e indipendente da qualunque soggetto. Tuttavia ancor più il soggetto è per questo motivo una persona, ossia un «chi» o «colui». Esso è cioè un ente che individua sé stesso soprattutto in quanto sta in relazione con tutto ciò che è «altro-da-sè» (non solo interiormente ma anche esteriormente) nello stesso esatto momento in cui esso da tutto ciò si segrega in quanto identità. Esattamente per questo (in forza di tale ineluttabile relazione) il soggetto-Io trascende il mondo in quanto ne riconosce il “senso” globale – ed in questo modo esso si pone come “coscienza” e come conoscenza.
Ma non si tratta solo di questo. Perché il soggetto-Io se ne sta anche davanti a sé stesso nel mentre si auto-trascende. E pertanto resta una persona anche quanto l’oggettività che la esprime (come mente e corpo) si dissolve e perfino svanisce nel corso delle malattie e perfino della morte.
La dimensione onto-relazionale fa comunque della persona un ente in primo luogo esistente, ossia un ente sostanzialmente concreto – ”uomo esistente concretamente in maniera personale” (“konkreter personal existierende Mensch”) [Romano Guardini, Die Person. Der Aufbau des personalen Sein, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit.., p. 110-131]. Ciò significa che la sua primaria definizione non va cercata nella dottrina del soggetto-spirito.
La quale invece pone in evidenza l’assolutamente primaria astrattezza ideale del soggetto (esso sarebbe infatti in primo luogo l’essenza quale ideale «cos’è?» umano, e quindi sarebbe un astrattissimo ente spirituale-pensante totalmente fondato in sé stesso, ed in null’altro né in nessun altro). Tale concezione rende inevitabile un forte solipsismo idealista nella concezione del soggetto umano. E non è certo questo ciò a cui Guardini pensa nel cercare di definire l’uomo.

Partendo da questo il pensatore si dedica a chiarire perché il soggetto quale persona non è un’unicità per motivi unicamente e meramente riduzionistici – come unità organismica conchiusa in sé stessa in termini corporali-materiali (“Gestalt”), o anche in termini psicologici, cioè come “personalità” (interiorità spirituale formante un’unità organismica esteriore).
La definizione più autentica di persona è invece un’altra. Ed è intanto quella che certamente risponde anche alla domanda circa l’essenza dell’uomo. Ma lo fa non in ragione soltanto dell’epistemologia-gnoseologia, bensì invece di nuovo ancora in ragione della relazione tra soggetto ed essere mondano.
Se quindi a prima vista Guardini definisce l’uomo esattamente come la Stein, e cioè come soggetto-spirito auto-fondato in sé stesso e quindi come Io spirituale – “Un essere strutturato, fondato nell’interiore, spiritualmente determinato e creatore” (“Ein gestaltetes, in Innerlich begründetes, geistig bestimmtes und schaffendes Wesen“) –, in realtà poi il suo aspetto principale emerge solo al cospetto di una domanda che rinvia molto direttamente alla relazionalità. E proprio in tal modo essa individua il soggetto-Io solo in quanto «chi» o «colui». La domanda è la seguente: – “Wer ist Dieser da?”. E la risposta è “Io” (Ich), oppure “lui” (Er).
Intuitivamente ci viene spontaneo pensare che tale domanda risuoni in uno spazio che è quello della relazione tra persone (tra Io e Tu). Ma in fondo è anche lo spazio nel quale l’idea di una determinata persona umana comincia a formarsi misteriosamente nel profondo della mente divina ed inoltre nel cuore stesso dell’essere. Infatti nella risposta a questa domanda sembra proprio sentir lontanamente risuonare anche quale sarà il nome proprio più autentico che designerà per sempre tale individuo, racchiudendo così in sé tutto il suo eterno mistero di persona. Ma su questo torneremo alla fine.
Ebbene in verità solo così viene toccata davvero l’essenza della persona, cioè il suo più intimo nucleo.
Infatti si tratta di un ente che, proprio in quanto è totalmente in possesso di sé stesso, e quindi è svincolato da qualunque condizionamento esteriore cogente, è in definitiva capace di una relazione con l’Altro che gli permette poi di raggiungere per davvero la sua pienezza di persona.
Ebbene, proprio in questo si ripresenta davanti a noi la dimensione del mistero.
Infatti quella persona che è in grado di porsi davanti a sé stessa in maniera talmente inalienabile è anche quella che è capace di riconoscersi come “Io” in maniera insieme fondamentale ed anche tutto sommato inspiegabile in base alla Natura. Essa è infatti capace di fare ciò che in verità solo Dio può fare, e cioè sa riconoscersi come un qualcosa pur non avendo davanti a sé alcun qualcosa. Essa è insomma capace di affermare: – “Io sono”, o meglio «Io sono io, e null’altro».
Il tema è tanto scottante che trova un’eco molto rilevante nella riflessione filosofico-metafisica vedantica e anche buddhista [Pawel Odyniec, “Rethinking advaita within the colonial predicament: the ‘confrontative’ philosophy of. K. Bhattacharyya”, Sophia, 57 (3) 2018, 405-424; Christian Coseru, On engaging Buddhism philosophy, Sophia, 57 (4) 2018, 535-545; ], oltre che trovare riscontro nella stessa riflessione filosofica occidentale sull’ontologia del soggetto. Sartre, infatti, ci indica nel “per sé” (l’Io soggettuale) il nulla di essere per eccellenza [Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, Introd. 6 p. 29-33, II, I, 2 p. 117-123, II, I, 4-5 p. 135-144, II, II, 2 p. 169-189, III, II, 1 p. 354-389; Evan Thompson, “Sellarsian Buddhism comments on Jay Garfield, Engaging Buddhism: Why it Matters to Philosophy”, Sophia, 57 (4) 2018, 565-579; Anand Jayprakash Vaidya, “The paradox of egocentricity”, Sophia, 58 (1) 2019, 25-30].
Tuttavia ancora una volta c’è in Guardini una tangibile differenza rispetto all’accento posto (nella classica dottrina del soggetto-spirito) sulla spiritualità come intellettualità legata intimamente al riconoscersi come «Io». Insomma per lui il nucleo di tale atto è ben diverso. Infatti, nel contesto di tale esperienza, io riconosco me stesso come “ovvio” nel senso specifico che l’espressione ha in tedesco, cioè come “selbst-verständliche”, ossia come ciò che «si spiega da sé e di per sé». E proprio tale ovvietà suscita “stupore esistenziale” (existentielle Staunen) – sia in chi vive l’esperienza che in chi la osserva dall’esterno (in quanto fenomeno psichico) – per il fatto che essa è la più ovvia di tutte le cose nel mentre intanto sfida apertamente le leggi della Natura. Insomma il nucleo di tale esperienza sta nel fatto che l’Io riconoscentesi come tale, ossia come un’incondizionata ed irripetibile unicità individuale, è di fatto in primo luogo un «chi» o «colui» che inspiegabilmente si trova davanti a sé stesso come un «chi» o «colui», pur non avendo davanti a sé altro che un nulla (cioè la mera immagine di sé stesso). Ma proprio in tal modo (molto stranamente) egli riesce a raggiungere la certezza dell’essere. Esattamente come fu intuito da Agostino e da Cartesio per mezzo del «cogito-sum».
Eccoci, insomma, davanti al mistero profondissimo dell’identità, che poi è anche il mistero stesso della persona. Dato che quest’ultima nasce proprio nell’atto di auto-riconoscersi come Io, ed inoltre proprio in questo consiste la sua totale intangibilità ed infrangibilità fondamentalmente ontologica. Ecco allora che, esattamente perché io riconoscerò sempre e comunque me stesso come ciò che sono (e null’altro), nessun attacco portato alla mia compagine individuale, potrà mai sottrarmi tutto ciò che di fatto per davvero possiedo, ossia il fatto di «essere io stesso e nulla o nessun altro». Tuttavia, una volta extrapolato questo intero discorso sul piano teologico, metafisico e religioso, io dovrò ringraziare per questo il supremo Colui che ha voluto rendere possibile che Io (in quanto ente umano, o uomo) non fossi un ente qualsiasi della Natura, ma fossi invece appunto una persona, cioè un misterioso ente irripetibile e inconfondibile.
E bisogna dire che in questo Tommaso d’Aquino e Edith Stein si avvicinano di molto alla verità misteriosa, nel sostenere (con poderosi argomenti filosofico-metafisici) che l’uomo (in quanto Io spirituale) assomiglia totalmente agli “spiriti puri”, ossia agli Angeli [Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, g. p. 367-369, p. 387-389].

Tutto questo implica però il nostro dovuto riconoscimento della totale ed inalienabile dimensione ontologica che caratterizza la persona (in quanto incontestabilmente esistente). Il che non avviene di certo entro la dottrina del soggetto-spirito, dato che in essa l’Io compare sì come persona ma in quanto ente purissimamente intellettuale, ossia come ente essenzialmente astratto (tanto che ampiamente la filosofia vede in esso in nulla di essere). Infatti è proprio l’ente purissimamente intellettuale il frutto del fondamentale atto di auto-riconoscimento (dal quale scaturisce l’egoità come unicità identitaria).
In ogni caso l’ammissione della primaria dimensione ontologica della persona finisce per dissolversi essa stessa nel suo significato etico-emozionale (generando in tal modo appena un neutro esistente simile all’individuo-cosa di Aristotele) se essa non viene completata molto concretamente con la dimensione relazionale. Bisogna quindi affermare che la pienezza ontologica della persona viene raggiunta solo se essa, ponendosi in relazione con l’Altro, ritrova solo in quest’ultimo ciò che essa stessa davvero è – ossia la natura di un ente che è un «chi» o «colui» destinato fin dall’inizio ad entrare in relazione con un Altro «chi» o «colui».
Si arriva così alla debita ammissione della “relatività della persona” (Bedingtheit der Person) [Romano Guardini, Der personale Bezug, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., p. 132-142]
A questo punto, pertanto, la consistenza ontologica puramente interiore della persona (fortemente affermata nella dottrina del soggetto-spirito) si dissolve totalmente a vantaggio dell’esteriorità. Ma a questo punto accade qualcosa di davvero straordinario in termini filosofici, dato che anche la dimensione ontologica della persona perde in consistenza e spessore fin quasi a svanire. Ecco, infatti, che la persona non è più appena un fondamentale esistente, come avviene in Maritain (cioè un «atto di esistere»), ma si risolve invece ontologicamente tutta in un’azione. Insomma essa sussiste per davvero solo e soltanto quando si pone in relazione ad un “tu”. Solo la presenza di un “tu” lascia che emerga la persona. Altrimenti essa non emerge affatto. Dunque è in questo che sussiste la sua trascendenza rispetto ad ogni essere mondano.
Ma bisogna fare molta attenzione al senso filosofico di tale tesi. Ciò significa infatti che Guardini rinuncia qui a qualunque filosofia e perfino metafisica. Dato che, nell’affermare questo, egli si basa unicamente nel messaggio evangelico. Non a caso (altrove nella sua opera) egli prende a modello per tale tesi il discorso della Montagna tenuto da Gesù, ed annunciante la speciale ontologia mondana costituita dal “Regno dei Cieli” [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585].
Proprio qui, comunque, il soggetto si presenta a noi unicamente come un «chi» o «colui». Perché, una volta poste le cose in questo modo, è assolutamente impossibile pensare alla relazione tra un soggetto ed un altro soggetto che a qualunque titolo costituisca un oggetto (ossia l’ente che viene colto tanto dalla filosofia che dalla metafisica).
Ecco allora che – una volta dissoltisi tutti i possibili riferimenti dottrinari per ciò che è «persona» (quello filosofico, quello metafisico, quello psicologico, quello scientifico in generale) – emerge l’unico elemento sul quale possa davvero poggiare la persona, e cioè quel Dio che è poi il modello stesso di ogni «chi» o «colui». Egli, infatti, è di fatto in primo luogo Colui che parla di sé, ossia la Parola. Tuttavia non è affatto solo questo.
Perché è anche l’Ascoltatore per eccellenza, e quindi è il Tu che sta costantemente in relazione con un Io. Pertanto, secondo Guardini, è entro questi termini che si esprime la perfetta unità dinamico-relazionale della Trinità – essa vede costantemente l’esistere ed agire di un Tu esprimente perfettamente l’Io. E tale dinamica coincide con la realtà più piena dell’Amore.
Su questa base Guardini perviene alla conclusione secondo la quale il più autentico “tu” è per l’Io umano solo quello divino [Romano Guardini, Die Person und Gott. Die menschliche und die göttliche Person, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit., I p. 143-145]. Abbiamo appena visto dissolversi completamente l’ontologia della persona (a fronte dell’atto amoroso che la costituisce). Ma eccola ora riapparire di nuovo (completamente trasformata) in una giustificazione ancora più forte della sua assoluta intangibilità – la persona è intangibile in quanto l’Io è fondato nell’Io divino e non in quello umano.
Anzi le cose stanno in maniera ancora più estrema; dato che (come ci fa rilevare qui Guardini) la persona cessa addirittura di essere tale se essa non si fonda in Dio. La sua inconsistenza ontologica dipende quindi da questa fondamentale relatività. La verità è dunque che l’uomo è ciò che è – un ente unico assolutamente irripetibile -, e cioè una persona, soltanto perché sta (più che naturalmente) in relazione con Dio.
Ed anche questo sfugge radicalmente alla metafisica filosofica. Perché non significa affatto che l’uomo sia l’ente che ha ricevuto in dono da Dio l’essenza spirituale-intellettuale di pensante, conoscente ed auto-cosciente (ossia ciò che fa di esso un Io). Significa invece semmai che l’uomo è ciò che è solo in quanto sta in relazione con Dio (una relazione che però è del tutto ineffabile, dato che è essa è naturalmente del tutto intangibile, e quindi oggetto di un dubbio scettico pienamente legittimo). Ebbene proprio nel contesto di tale relazione l’uomo si delinea come un sostanziale «chi» o «colui».
Nel capitolo successivo Guardini si sforza poi di indicarci nel Cristo il Dio-Io-Tu che ci ha appena presentato [Romano Guardini, Die Person und Gott. Das christliche Ich, in: Romano Guardini, Welt und Person… cit. II p. 145-160].

Ebbene, una volta giunti a tale risultato, noi possiamo senz’altro fondere i due significati di «chi» o «colui» che abbiamo finora trovato, e cioè quello offerto da Maritain e quello offerto da Guardini. Il secondo infatti può ben essere anch’esso quell’individuo umano che Maritain ci mostra come conosciuto da Dio (e solo da Dio) fin dai primordi dell’essere e del tempo. Il che significa allora che tale ente umano infinitamente amato da Dio non è altro che l’ente umano che è fatto solo e soltanto per amare.
Pertanto sembra che esattamente in questo possa consistere il mistero dell’uomo. Un mistero, come si può vedere, che non può venire illuminato né dalla filosofia né dalla metafisica. Ma alla fine non può venire illuminato nemmeno dalla stessa teologia. Abbiamo visto infatti che Guardini si rifà solo e soltanto al messaggio profondo del testo evangelico. Ed a null’altro. Ecco allora che quest’ultimo si rivela capace di rivelarci molte più cose di quanto ci possano venire rivelate da un miliardo di dottissimi trattati di teologia (includendo in questo perfino lo stesso Tommaso).
Risulta quindi davvero incomprensibile la facilità con la quale un moderno erudito sia potuto giungere – dopo un lavoro davvero sconfinato ed ambiziosissimo di traduzione delle Sacre Scritture dal greco (partendo dal testo alessandrino dei Settanta) – alla conclusione che tutto ciò che si può dire dei Vangeli è che essi sono pieni di lampanti contraddizioni che rendono impossibile considerare veridici quelli che poi sono i fondamenti delle principali verità di fede [Frederico Lourenço, Introdução aos Quatro Evangelhos, in: Frederico Lourenço, Bíblia. Novo Testamento. Os Quatro Evangelhos, Quetzal, Lisboa 2016, Vol. I, p. 21-57]. A me sembra che invece (come Guardini ben dimostra), quando si leggono i Vangeli davvero con umiltà ed inoltre lasciandosi toccare dall’azione misteriosa dello Spirito (rinunciando quindi a porre in primo piano la logica stringente dell’ermeneutica testuale posta in atto da miriadi di studi teologici), si finisce per apprendere molto di più di quanto sia possibile in base a teologia, metafisica e filosofia messe insieme. Ed inoltre non si apprende solo circa il mistero di Dio ma addirittura anche circa il non minore mistero dell’uomo. Tuttavia, per non cadere in un’arroganza scettica quanto saccente da erudito (com’è quella di Lourenço), bisogna sapere che la carne non ci permetterà mai di toccare interamente la realtà ineffabile di un Cristo che è veramente un Dio diventato uomo senza intanto mai cessare di essere un vero e proprio “Deus absconditus”.

In ogni caso, anche al cospetto di tutto ciò, dobbiamo ribadire che il mistero dell’uomo è ciò che è in quanto equivale impressionantemente al mistero di Dio. Entrambi gli enti sono infatti essenzialmente dei soggetti egoici auto-coscienti e conoscenti (che «sanno di sé») soprattutto perché costituiscono dei «chi» o «colui», i quali sono irripetibilmente unici in quanto sono assolutamente insondabili nell’essere ciò che sono.
Tuttavia per quanto più specificamente riguarda l’uomo, tale mistero è quello di un ente che non sarebbe mai fuoriuscito davvero dal nulla se non fosse stato pensato, e soprattutto amato, esattamente come è (né più né meno) da parte di Dio. Gli altri enti, infatti – ossia quelli non pienamente soggettuali, e cioè le «morte cose» o anche le cose inanimate –, sono qualcosa che mai per davvero si distacca dal nulla. Per la verità Heidegger volle sostenere l’esatto contrario di ciò – affermando che la cosa è per definizione addirittura l’intero «essere» in quanto, mostrandosi a noi in piena luce (“scopertezza”), è l’esatto contrario del nulla. Ma intanto la grande lezione del platonismo (vedi quattordicesima e quindicesima lezione) ci mostra che invece le cose inanimate sono così lontane dal vero essere reale, da risultare molto prossime al nulla. Ebbene, questo ente umano-personale (pienamente soggettuale) che esiste solo perché è stato pensato-amato è allora colui che è chiamato a lasciare che altri enti umani (ed anche enti puramente oggettuali) fuoriescano dal nulla in forza di un suo pensiero che deve essere necessariamente amante. Costui deve insomma volere con tutte le sue forze soprattutto che l’«Altro» esista al di fuori di lui. Il che poi avviene solo se egli fa un radicale passo indietro al cospetto di un «essere-altro» che mai sboccia pienamente se la presenza del soggetto pensante è troppo ingombrante. Il che significa poi anche che è esattamente l’amore a sottrarre al pensiero soggettuale quanto basta perché esso possa essere realmente creativo. Cosa che avviene solo nell’amore. Infatti senza l’amore non vi è mai vera creazione.
Tale insieme di concetti è comunque intensamente platonico-cristiano. Infatti fu sviluppato da Simone Weil a proposito della “kenosis” divina, in quanto attitudine creativa incentrata sulla decisione di Dio ad arretrare dall’«essere» affinchè il mondo potesse esistere al cospetto della Sua Onnipotenza (sempre tendenzialmente annientante) [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 69-84Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, Prospettiva Persona, 92 (Aprile-Luglio), 2015 p. 33-38].
Insomma a quanto pare questo è l’uomo. È un mistero vivente. Ma in tal modo dobbiamo concludere in circolo questa lezione, dato che bisogna tornare a quanto abbiamo visto all’inizio: – è impossibile dire cos’è l’uomo. Si può appena constatare che esso è un «chi» o «colui».
Tuttavia, come abbiamo visto finora, da ciò discende intanto una grande quantità di pregevoli significati etico-emozionali. E quindi si può concludere che questa trattazione semi-filosofica del tema «uomo» davvero può aiutare le persone a vivere meglio la propria vita.
Infatti la principale lezione che scaturisce dal mistero dell’uomo (così come da quello di Dio) è quella riguardante l’amore. Intanto però nessuno di noi (nemmeno il più grande filosofo o teologo) può comprendere in che modo ciò accada.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

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Nell’ultima lezione abbiamo già parlato abbastanza del male. Ma, dato che si tratta di un tema filosofico di fondamentale importanza, credo che valga la pena completare il discorso.
Sarà quindi di nuovo necessario prendere in mano il libretto dedicato da Ricoeur a questo tema. Tuttavia la letteratura su questo tema è in filosofia così sterminata che nemmeno in un trattato si riuscirebbe ad esaurirla. E pertanto mi limiterò a prendere in considerazione solo pochi punti di riferimento (impiegando per questo le dottrine di alcuni autori ed inoltre alcuni articoli recentemente pubblicati sul tema). Intanto però bisogna dire che Ricoeur (sebbene nella critica) ci offre le vere e proprie coordinate generali della trattazione del male in filosofia. E quindi credo che valga la pena di attenersi ad esse, tracciando proprio su questo modello le linee generali dello scenario.

Prima di entrare nel merito della questione mi si permetta però di suggerire e descrivere cos’è il male in termini estremamente concreti. E questo credo lo sappia solo colui che ne ha realmente provato il terribile e lacerante morso nella propria stessa carne. Quindi probabilmente a molti di voi io non dirò alcunchè di nuovo. Come giustamente dice Ricoeur (prendendo giustamente ad esempio Giobbe), il male è esattamente quello subito (molto più che quello agito). E lo è tanto più quanto più chi lo subisce è totalmente innocente in quanto è per natura un giusto.
Il male è vedere andare la propria vita a rotoli nonostante non si faccia altro che spendere ogni attimo della giornata nel tentare di non essere ingiusto e di soddisfare il più possibile le aspettative degli altri. Il male è vedere i propri sforzi altruistici non solo non riconosciuti ma addirittura sbeffeggiati e perfino accusati di essere segni di egoismo o addirittura malvagità. Il male è sforzarsi in tutti i modi di fare il bene, nel mentre in cambio si riceve solo gelida indifferenza, accuse, minacce ed infine ingiurie fisiche e morali. Il male è volere essere un giusto a qualunque costo, e venire invece considerato un malfattore. Il male è curvarsi sotto il peso di responsabilità immense (per il benessere altrui), che però si è costretti a sopportare nell’assoluta solitudine ed inoltre nella totale ingratitudine.
Questo è il male. E appunto molti di voi sapranno molto bene di cosa parlo. Ora, moltiplicate questo male all’ennesima potenza e potrete trovare un solo uomo al mondo che sia stato capace non solo di sopportarlo, ma anche perfino di vincerlo. Quest’uomo non è altro che Gesù Cristo. Colui che è stato malinteso, offeso, sbeffeggiato, torturato, sputato in faccia, frustato, dilaniato, schiacciato a morte dal peso immenso dei vizi e peccati umani, tanto più quanto più Egli era deciso ad amare gli uomini incondizionatamente. Nessun altro uomo, nessuno di noi, sarebbe stato mai capace di fare quello che poteva fare solo Lui, un uomo ed insieme dio.
Quindi non possiamo trattare il problema del male senza tenere conto costantemente della sua figura − che noi lo facciamo direttamente ed esplicitamente o anche solo indirettamente e tacitamente.

Innanzitutto bisogna prendere atto del fatto che, secondo quanto afferma Ricoeur, il pensiero dedicato a male è stato praticamente sempre impegnato nel tentativo di razionalizzarlo in maniera tale da giungere infine o alla sua negazione oppure alla sua presentazione addirittura in positivo (come bene non evidente). Il che fa sì che il tradizionale pensiero del male si presenti a noi con le caratteristiche di una notevole assurdità. In ogni caso il pensatore ci informa del fatto che il nome di un siffatto pensiero è quello di “teodicea”, ed inoltre anche che si è pervenuti a quest’ultima solo molto gradualmente − partendo da dottrine precedenti ( il mito e l’“onto-teo-logia”, che non avevano ancora un carattere rigorosamente filosofico).
In secondo luogo, attenendoci al quadro generale disegnato dal pensatore, bisogna dire che il pensiero circa il male si divide probabilmente in tre grandi periodi storici. Il primo periodo storico è il più lungo, e si estende dal mito fino alla matura teodicea leibniziana. Il secondo periodo è ben più breve, prendendo le mosse con Kant (il quale liquidò per sempre qualunque teodicea insieme a qualunque metafisica), e va a avanti fino alla metà del XX secolo. Il terzo periodo è quello più breve (perché inizia dall’ultimo dopoguerra in poi) ma è anche il più decisivo quanto a drammaticità.
Il pensatore francese menziona infatti proprio a tale proposito quella “teologia spezzata” (vedi lezione quattordicesima) la quale ha deciso di prendere atto definitivamente di fenomeni storici come Auschwitz e la Shoà. E da ciò ha poi tratto la conclusione che non soltanto non è più possibile alcun pensiero del male (teodicea) – cioè di fatto non è più possibile alcuna filosofia del male, bensì invece al massimo è possibile una teologia del male −, ma che esso deve venire decisamente bandito in quanto (più o meno direttamente) nega sempre l’esistenza inoppugnabile del male nel mondo. In altre parole sembra che la storia abbia decisamente sconfitto la filosofia. Quindi, dal momento in cui sono emersi nel mondo fenomeni storici come Auschwitz e la Shoà, nessun filosofo può più nemmeno sognare di tentare una spiegazione del male mondano. Infatti il male non solo è inoppugnabilmente evidente, ma è anche assolutamente inspiegabile.
E la tesi teologica a tale proposito è che il male altro non è se non il «non-essere», ossia il “Nulla”, e cioè è tutto quanto nientifica e distrugge. Il che non è affatto invece quanto fa Dio. Dato che Egli, in quanto Essere, è l’Essere-Bene per definizione.
Da tutto ciò dobbiamo trarre la conclusione molto generale che del male è evidentemente possibile solo una trattazione integralmente e fattivamente etica, mentre non ne è possibile alcuna trattazione a qualunque titolo rigorosamente razionale, e cioè filosofica. Ed è pertanto evidente che un’etica integrale e fattica si approssima molto più alla religione (quindi alla teologia) che non alla filosofia.
Il che deve significare che un pensatore come Kant dovrebbe avere oggi ben poco da dire nel campo del male come tema di riflessione. Eppure Ricoeur stesso gli attribuisce in ruolo e valore di spartiacque dello sviluppo storico del pensiero sul male, ed inoltre gli attribuisce anche il merito di aver posto per primo l’esistenza indiscutibile di un male mondano (di tipo esperienziale) in quanto “male radicale” soggettivamente vissuto [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015, II p. 17-46].
Ebbene, tenuto conto di questo lo schema che ho dedotto dal pensatore francese presenta allora una notevole incongruenza. In quanto proprio a partire da Kant si è diffusa in filosofia una tradizione della trattazione del famoso “radical evil” (il “male radicale”) che oggi si ritrova continuamente in letteratura. Pertanto non sembra proprio che sia accaduto quando dice Ricoeur, e cioè che la teologia del male abbia decisamente messo a tacere la filosofia del male. In ogni caso in questa lezione terremo conto del contenuto di alcuni di questi articoli.

Una volta discusse queste premesse, credo che valga la pena (sempre attenendoci allo schema generale ricoeuriano) di parlare più direttamente di alcuni tra i principali protagonisti del pensiero del male, partendo dall’antichità per poi spingerci dentro la filosofia che giunge fino ai giorni nostri.
Partiamo quindi dal mito (dal quale non a caso parte anche Ricoeur), e precisamente dal mito orfico.
E qui bisogna però fare un’osservazione in relazione a quanto mi sono sforzato di chiarire nella prima lezione. Parlando del mito, noi stiamo infatti parlando proprio di pensiero. Lo accenna Ricoeur [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015, II, 1 p. 17-19], lo dice a chiare lettere Raphael a proposito di Orfeo come filosofo (vedi quattordicesima lezione), ed inoltre lo afferma nientepopodimeno che lo stesso Schelling (filosofo davvero di razza) a proposito degli intimissimi legami che secondo lui erano esistiti nei primordi tra sacerdote e filosofo [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam, Conn. : Spring Publication, 2010, p. 7-10].
Ebbene in tal modo noi stiamo però chiamando in causa la filosofia in una maniera molto diversa da come abbiamo fatto finora, ed inoltre molto diversa da come fanno i moderni retori che tentano divulgare la disciplina. Stiamo cioè chiamando in causa un «pensiero-prima-del-pensiero» che però nessun settore della filosofia attuale accetterebbe mai come tale. Si parlerebbe infatti di “mito” come dell’esatto opposto di ciò che è filosofare. E peraltro si chiamerebbe per questo Platone stesso come a testimone a carico. Il che è però totalmente falso, come ha dimostrato il Prof. Reale – dato che Platone condannò semmai la poeticità mitica (in quanto eticamente irresponsabile), ma fece tutt’altro che condannare il mito in sé, visto che attinse ad esso a piene mani nel forgiare la sua più pregevole visione filosofica [Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano: Rizzoli 2008, I p. 27-29, XIII-XIV p. 269-309].
Ma sta di fatto che nella sapienza mitica noi troviamo una fonte davvero inesauribile di riflessione metafisica. E questo è straordinario dato che il mito è sostanzialmente una Rivelazione divina che ci perviene per mezzo di veri e propri agiografi (nel Paganesimo del tutto equivalenti a quelli che redassero il Vecchio Testamento). Il mito quindi è un logos filosofico in maniera ancora maggiore di quello ordinario, dato che esso è Parola divina, ossia è discorso di natura e di origine sovrumana. E dunque dove se non in esso noi potremmo trovare maggiori insegnamenti per la nostra vita? Pertanto, se la filosofia deve venire utilizzata per vivere meglio, i suoi insegnamenti vanno cercati molto più nel pensiero che l’ha preceduta (il mito) e molto meno invece nel pensiero che l’ha costituita.
Ebbene il mito orfico è − per consenso unanime dei suoi studiosi (e questo viene puntualmente ribadito da Raphael) – sicuramente il più progredito nel contesto della religiosità greca [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004, p. 21-35]. Esso infatti non configura tanto una cosmo- e teo-gonia, ma piuttosto un’antropo-gonia, ossia un discorso sulle origini che non perde mai di vista l’uomo, la sua origine, la sua vera natura, i suoi destini e le domande che ne accompagnano l’esistenza. Raphael chiarisce in maniera esemplare questo concetto affermando che il mito orfico in realtà non fa altro che affermare la natura divina (dionisiaco-celeste) dell’uomo – in opposizione alla sua natura terrena e tendenzialmente demoniaca (titanica) −, e quindi non fa altro che descrivere il percorso che reca dalle origini pre-temporali (passando per l’esistenza terrena) fino a pervenire alla riconquista dell’umano-divinità dopo la morte e nel contesto del complessivo fenomeno del Ritorno [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-36, p. 65-78]. Ed anche questo trova ampio consenso presso i mitografi laddove viene interpretata la vicenda mitica dello smembramento di Dioniso con bollitura delle sue carni; che viene poi punito poi da Zeus con la fulminazione dei Titani, dalle cui ceneri nascerà poi la carne dell’uomo. Dunque Dioniso (il divino) è la natura animico-spirituale dell’uomo, mentre i Titani (il demoniaco) sono la carne dell’uomo, ossia la sua natura di ente materiale-naturale (insomma tutto ciò che è appena il suo corpo, cioè tutto quanto è terra, o meglio appunto cenere).
Certo Raphael sintetizza e semplifica di molto il riferimento da parte di Orfeo al Dioniso celeste, così come anche l’intimo legame esistente tra l’Orfismo e l’altra grande tradizione misterico-iniziatico greca e cioè quella di Eleusi e Delphi (in gran parte improntata all’apollinismo, oltre che alla figura di Demetra) [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-35]. È ben noto che il dionisismo è stato nettamente contrapposto all’apollinismo, e non certo senza ragioni. Dall’altro lato però l’analisi della religiosità mitica misterico-iniziatica evidenzia troppe commistioni tra eleusinismo, dionisismo, apollinismo ed orfismo per non pensare che tutte queste tradizioni abbiano sempre avuto dei molto significativi punti di incrocio [Karl Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Mondadori, Milano 1989; Karl Kerényi, Miti e misteri, Boringhieri, Torino 1979;
Filippo Cassola (a cura di), Inni omerici, Mondadori, Milano 2004; Paolo Scarpi (a cura di), Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007].
Infine c’è troppa letteratura mitografica a testimoniare di un Dioniso ben diverso da quello celeste, che è però invece l’unico preso in considerazione da Raphael [Paolo Scarpi, Le religioni… cit.; Kerényi Karl, Dioniso, Adelphi, Milano 2011;
Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano 2009]. Quindi in qualche modo la verità sta come al solito nel mezzo. Cioè, può anche darsi che l’Orfismo abbia reso celeste Dioniso, ma non è affatto detto che egli lo sia stato per natura fin dall’inizio. I libri di Keényi e Graves ci fanno pensare che non sia stato affatto così.
Ma tutto ciò diviene abbastanza irrilevante se si considera che Raphael identifica Dioniso con il Dio celeste in generale. E ciò vale certamente anche per le figure centrali delle varie tradizioni misterico-iniziatiche, e cioè Demetra e Apollo. Una volta posto questo, allora è evidente che l’Orfismo pone il male demonico come l’esatto contrario del Bene divino, ossia come l’immanente (mondano-terreno-carnale-corporale-materiale-reale-sensibile) opposto al trascendente (ultramondano-celeste-etereo-spirituale-ideale-ultrasensibile). In sintesi per l’Orfismo il male corrisponde perfettamente al mondo, al corpo e alla carne.
E non diversamente stettero le cose per il Platonismo e poi anche per lo stesso Cristianesimo.
Per tutte queste dottrine il male coincide insomma con il «basso», laddove invece il bene coincide con l’«alto». Più precisamente il male consiste nella distanza maggiore possibile che può sussistere tra l’essere immanente ed il Principio-Uno-Dio dal quale tutto ha origine. Emblematiche si sono rivelate poi a tale proposito le posizioni dei due maggiori filosofi neoplatonici pre-cristiani, e cioè Plotino e Proclo.
Proclo vide le cose esattamente come ho appena spiegato [Proclo, Elementos de teologia, Aguilar, Buenos Aires 1975, 7-39 p. 28-60, 56-65 p. 70-79, 75-86 p. 87-95], mentre Plotino fu ancora più radicale, ritenendo che quanto si allontanava troppo dall’essere principiale (includente il solo Intelletto, o Nous, con l’anima come appendice) non costituiva altro che un nulla, ossia nemmeno esisteva [Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, VI, 4, 14-16, p. 1655-1661; Elena Gritti, Proclo. Dialettica anima esegesi, LED, Milano 2008, II, 1 p. 67-87]. E questa posizione filosofico-metafisica (per quanto con aspetti ben più variegati) era in fondo stata anche quella di Platone. Il pensatore ateniese riteneva infatti che tutto quanto toglieva all’anima le sue “ali”, facendola così sprofondare nel corpo e nella materia (cioè nella dimensione sensibile), equivaleva di fatto ad un nulla; in quanto (essendo una realtà colta solo per mezzo dei sensi, e quindi non per mezzo di alcuna vera scienza) costituiva un’illusione generata dalla totale ignoranza [Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014, I, II p. 46, I, IV p. 73-74, I, IV, 1 p. 97-105, I, IV, 4 p. 124-129, I, IV, 5 p. 149-155, I, IV, 6 p. 156-158, II, I, V, I p. 195-198, I, I, V, I p. 212-218].
Ma oltre a ciò − proprio in quanto nel tempo sempre più profondamente influenzato dalle dottrine orfico-pitagoriche − Platone finì poco a poco per identificare tale ignoranza sempre meno con una dimensione gnoseologico-epistemologica e sempre più invece con una dimensione etica, ossia con una colpa, che poi a sua volta richiedeva punizione [Raphael, Iniziazione alla Filosofia di Platone, Āśrām Vidyā, Roma 2008, p. 79-88]. E proprio su questo si basò poi la sua piena adozione della stessa dottrina della trasmigrazione delle anime che era stata professata dall’Orfismo. Ed infatti (del tutto giustamente) Raphael sottolinea continuamente in tutto il suo libro che tutti gli aspetti più intensamente metafisico-religiosi della visione di Platone (così come anche di Pitagora perfino di altri pensatori greci) risale in definitiva all’Orfismo. Cosa che poi viene confermata anche da molti altri Autori, aggiungendo peraltro a questo il legame di Platone con quel Pitagora che ancora più direttamente è riconducibile all’Orfismo [Luciano Montoneri, Il problema… cit., IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155; Raphael, Iniziazione… cit.., p. 31-44; Paolo Scarpi, Le religioni… cit., III, F4 p. 425; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 145-285; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, I p. 35-46].
Sto di fatto già accennando a Pitagora da molto tempo, ma non ne parlerò direttamente perché questo mi porterebbe molto lontano. Dirò soltanto che il suo pensiero stette in linea diretta non solo con l’Orfismo ma anche con l’Apollinismo stesso, e quindi costituì un vero ponte tra il logos mitico e quello propriamente filosofico [Giamblico, Vita pitagorica, Rizzoli, Milano 2008]. E non c’è a questo punto nemmeno bisogno di dire che la visione pitagorica del male fu in qualche modo più o meno la stessa di quella di Orfeo e di Platone.
Al neoplatonismo abbiamo inoltre già accennato per mezzo di Proclo e Plotino. Per quanto un’analisi del pensiero del male sviluppato da questa scuola sarebbe estremamente complesso e richiederebbe un immenso spazio.
Immediatamente in continuità con queste fonti pagane si presenta poi a noi immediatamente (dal versante cristiano) il pensiero di Agostino. Di questo pensiero parla molto espressamente Ricoeur accusandolo non solo di non essere affatto una teodicea (in quanto ancora troppo teologico) ma inoltre di avere il gravissimo torto di voler cancellare totalmente il male come evidenza [Paul Ricoeur, Il male… cit..]. E bisogna dire che il pensatore francese deve avere avuto in questo assolutamente ragione, dato che anche a me stesso la lettura de’ “La natura del Bene” di Agostino [Agostino di Ippona, La natura del bene, Bompiani, Milano 2001] suscitò la sgradevole impressione di un libro che intendeva molto più perseguire intenti retorico-ideologici e apologetici che non dire invece come stavano effettivamente le cose nel mondo.
Del resto ho sempre trovato francamente insopportabili quei cristiani i quali usano affermare che, qualunque cosa ci accada nell’esistenza (anche la più atroce ed assurda possibile) è senz’altro pensata e voluta da Dio «per il nostro bene». Rispetto a costoro sono peggiori soltanto quei cristiani i quali affermano che Dio non interviene mai nel mondo, e quindi a nulla vale invocarlo quando ci troviamo travolti nel male – Dio infatti sarebbe presente nel mondo solo e soltanto come Ecclesia, il cui nucleo è poi una carità che si sviluppa sul piano solo terreno. Bisogna dire che queste sono davvero delle belle consolazioni per chi si trova nella sventura e non sa davvero più a chi ricorrere. Per cui discorsi del genere possono semmai solo servire ad accelerare la decisione al suicidio; oppure perfino a perdere la fede. Dall’altro lato c’è però l’evidenza (sostenuta non a caso dai moltissimi racconti evangelici di guarigioni dal male da parte di Gesù) di una presenza divina nel mondo (per mezzo del Cristo risorto) che è susseguita ad un atto per mezzo del quale Dio stesso non può aver voluto altro che distruggere per sempre il male proprio caricandoselo totalmente sulle sue spalle – la Croce. E sarebbe davvero assurdo che il Dio-Cristo avesse fatto questo per poi pretendere dagli uomini di dover essere capaci (nella sventura e nel dolore) di imitare in tutto e per tutto la Sua terrificante Passione. In verità, se così fosse Dio non avrebbe avuto alcun bisogno di fare quello che fece. Infatti sarebbe bastata pienamente quella salvezza elettiva mitico-omerica (riservata ai soli eroi) che, come giustamente dice Raphael, era stata già superata perfino dall’Orfismo. Figuriamoci poi dal Cristianesimo.
Mentre invece Gesù fece quello che fece semplicemente perché sapeva che solo Lui, un dio, avrebbe potuto fare ciò che un uomo mai potrebbe essere capace di fare senza soccombere (nel dolore oppure nella tentazione della violenta ritorsione). Ebbene, il fatto che Dio ha compiuto davvero quest’atto, può dunque significare solo che Egli sa benissimo che l’uomo non può superare l’aggressione del male senza poter e dover contare sul Suo aiuto. E tale aiuto non può del resto essere appena una presenza confortante (altro assurdo argomento spesso usato dai retori di parte cristiana), ma deve essere invece esattamente una guarigione e liberazione, ossia un miracolo, e cioè un atto di immensa potenza che sfida le leggi della Natura.
Vero però è anche che un simile atto non può verificarsi se l’uomo non crede ciecamente allo sconfinato amore di Dio nei suoi confronti. Perché, se in questo c’è un solo briciolo di dubbio, permarrà una barriera (creata dall’uomo stesso) che impedirà al Cristo di irrompere nel mondo. In questo caso si tratta insomma davvero di un rifiuto di Cristo da parte dell’uomo (per quanto sia inconsapevole).
Bene, abbiamo in tal modo (per mezzo di Agostino) parlato un po’ della posizione dell’intero Cristianesimo di fronte al male. E grosso modo il commento di Ricoeur a questa visione ricalca le linee del discorso che ho appena fatto. A quanto ho detto c’è solo da aggiungere che Agostino fu in verità un grande platonico. Lo dimostra in pieno ad esempio la sua riflessione sull’anima [Giovanni Catapano (a cura di), Agostino. Sull’anima, Bompiani, Milano 2012]. Inoltre lo dicono a chiare lettere diversi studiosi cristiani [Ilaria Ramelli, Il Platonismo nella filosofia patristica, nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. L’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, II, I, 1 p. 958-963; Étienne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, I, 5 p. 103, II, 2 p. 139-154; Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, II, II, 1, p. 141-157; Endre von Ivánka, Plato Christianus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990].
E quindi risulta abbastanza difficile credere che egli non abbia condiviso la visione platonica del male. Il problema fu quindi molto più storico-dottrinario, dato che al suo tempo (come giustamente viene sottolineato da Ricoeur) circolarono eresie come il Manicheismo ed il Pelagianesimo, alle quali egli (come dottore della Chiesa) aveva il preciso dovere di opporsi.
Ma questo ha generato quella discrepanza tra discorso cristiano e discorso gnostico che ancora una volta proprio Ricoeur non manca di sottolineare [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 3 p. 23-28]. E lo fa peraltro facendoci notare che in realtà era in fondo la Gnosi ad avere ragione, e non invece il Cristianesimo. La Gnosi infatti si produsse sì in una spiegazione trascendente e ontologica del male (simile a quella del Cristianesimo) – che fu incentrata nel concetto di una natura umana corrotta già originariamente dal Peccato e dalla Caduta; con la conseguenza di dover poi subire necessariamente il male terreno (per giusta “retribuzione”). E questo per Ricoeur è assolutamente inaccettabile.
Ma intanto, rispetto al Cristianesimo, la Gnosi ammise almeno che l’essere era impregnato di male fin nelle sue midolla ed a qualunque livello. Per cui non restava che prendere atto della sua evidenza, senza intanto aver alcun diritto di essere ottimisti (come Agostino)
Ma chiediamoci ora cosa dice per davvero la Gnosi. È proprio questo che dice?
Bisogna ammettere di sì, sebbene consultando la vasta serie di scritti gnostici prodotti e commentati nel corso del tempo – Ilaria Ramelli, Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2006; Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014; Luigi Moraldi (a cura di), La Gnosi e il mondo, TEA, Milano 1988; Marcello Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990 – si può constatare in essi una ricchezza dottrinaria molto maggiore di quella prospettataci da Ricoeur. Ciò è vero in primo luogo perché in fin dei conti la Gnosi propone in realtà un’idea non poco ottimistica dell’uomo. L’uomo viene visto insomma come una particella dell’Uno divino, ossia un “Eone”, e quindi un’entità spirituale quasi di pari rango rispetto a quelle daimoniche e divine. Ad esso quindi il male non appartiene affatto per natura. Il problema nasce dunque solo perché alcuni Eoni di grado elevato (ma comunque infinitamente inferiori all’Uno divino) si sono arrogati ad un certo punto la natura ed il ruolo di Dio stesso ed hanno così posto mano ad un’esteriorizzazione di essere dal seno divino che non avrebbe mai dovuto verificarsi. Ecco allora delinearsi quel mondo creato che è del tutto esteriore a Dio, e pertanto (come previsto nell’Orfismo e nel Platonismo) esso non solo dista infinitamente dalla perfezione divina ma ne è anche l’opposto diametrale. E bisogna far notare che in tal modo si delinea in grandi linee la dottrina di una perfetta «Prima Creazione» dell’uomo e quindi di un mondo puramente interiore a Dio (poi scaduta, a causa del Peccato, a creazione esteriore a Dio, e quindi deplorevole «Seconda Creazione»). Tale dottrina è solo accennata nella Gnosi, ma si ritrova intanto presso molti pensatori cristiani – come Gregorio, Scoto Eriugena e perfino Schelling [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa… cit., VI, 129-160 p. 483-519; Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, in: Claudio Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, Bompiani, Milano 2014, in: Claudio Moreschini, Gregorio di Nissa… cit., 5, 1-11 p. 217-227, 8, 1-20 p. 239-251; Francis Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in: Antoine Faivre & Frederick Tristan (a a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 79-172; Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani, Milano 2002, I, II, 14-17, p. 487-637] –, oltre che anche nella Cabbala ebraica – specie nella forma della dottrina della generazione dell’Albero sephirotico a sua volta corrispondente all’Adam Kadmon, ossia l’Uomo quale Universo [Giulio Busi, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 349-351; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-24, 43-45, p. 72-86 p. 99-100; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111]. Inoltre con la dottrina gnostica al riguardo è connessa all’ipotesi piuttosto bizzarra del “cattivo Demiurgo” – di fatto il Dio-Creatore e Dio-Persona dell’Ebraismo e del Cristianesimo, che secondo la Gnosi è solo un usurpatore e addirittura è equiparabile allo stesso Serpente satanico [LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, IVb p. 53-54]. E bisogna ricordare che di tale idea c’è traccia ancora perfino in Cartesio, con la sua ipotesi di Dio come possibile “demone maligno” [René Descartes, Meditações sobre a Filosofia Primeira, Livraria Almedina, Coimbra 1976, I, 9-12 p. 110-114, II, 4 p. 137, III, 21-27 p. 150-155, IV, 1 p. 166, VI, 12-16 p. 191-195].

Dunque per la Gnosi il problema del male non è per davvero pan-ontologico. Esso infatti non risiede affatto nella vera Origine divina, che coincide semmai con l’Uno e non invece con il Dio creatore o demiurgico.
Il male consiste invece nel fatto che si è configurato un mondo collocato fuori di Dio, e non nel fatto che esista qualcosa come un «mondo», ossia un «essere». Infatti, se il mondo avesse continuato ad esistere soltanto nell’interiore essere divino, non vi sarebbe stato alcun male. E, se accoppiamo a questo la dottrina della Prima Creazione, allora possiamo ipotizzare che, in questo mondo perfetto, l’uomo stesso avrebbe potuto esistere senza conoscere alcun male.
Le coordinate dottrinarie sono qui più o meno quelle del Platonismo – nel senso di una radicale distinzione ontologica tra Trascendente e Immanente. E questo è ciò che davvero sostiene la Gnosi. A questo punto, tenendo conto della sofisticazione metafisico-religiosa basilare di tale dottrina (quella che concepisce l’Uno divino e gli Eoni), risulta davvero difficile pensare che quella gnostica sia (come dice Ricoeur) una “spiegazione” filosofica (anche se in abbozzo), e quindi un tentativo di razionalizzare ed infine negare il male. Innanzitutto in tale dottrina non vi è nulla di razionalistico, e quindi nulla di somigliante alla filosofia più rigorosa. Semmai c’è invece quel pensiero contemplante e visionario che è sempre stato tipico della metafisica religiosa più integrale, e quindi basata su autentiche visioni intuitive del Trascendente. Ma oltre a ciò non vi è nella Gnosi la minima intenzione di negare il male nel «razionalizzare». Il male viene invece semmai negato solo nel «contemplare» il livello davvero supremo dell’Essere, e cioè quello corrispondente all’Uno divino.

Bene. Ad Agostino ho già accennato dicendo quello che credo sia sufficiente. Quanto a Leibniz, Ricoeur ne sintetizza in maniera davvero magistrale la presa di posizione, e quindi non credo che valga la pena di aggiungere assolutamente nulla a questo. Infine anche sul pensiero post-filosofico del male abbiamo visto Ricoeur descrivere molto bene la “teologia spezzata” come momento finale della teodicea. E quindi anche a questo non è necessario aggiungere nulla.
Resta pertanto solo ciò che ho fatto notare prima, e cioè che in effetti la riflessione filosofica sul male non si è in verità mai arrestata e quindi si ritrova ancora in pieno nel dibattito attuale. E su quest’ultimo vorrei quindi gettare uno sguardo, scegliendo alcuni tra gli articoli che ho letto ultimamente sul tema.
Devo premettere però che molto spesso i termini di questo dibattito riescono a diventare davvero assurdi, visto che si pretende di razionalizzare entro un logos rigorosamente filosofico dei concetti religiosi che sono non solo arditamente metafisici ma anche fortemente contemplativi e visionari.

Partiamo quindi da Mander [W.J. Mander, “The unreality of evil”, Sophia, 56 (1) 2017, 1-16], il quale si produce nella davvero più classica teodicea affermando che il male è semplicemente inaccettabile sul piano puramente logico, ossia non può esistere secondo un argomentare filosofico rigoroso. E questo è secondo lui vero perché il male non è un oggetto ma è invece appena una “comparazione” (ossia qualcosa di del tutto inconsistente sul piano ontologico). Ammette poi che il male è comunque tematizzabile, ma non credo che ci possa interessare come egli giustifica questo. Aggiunge ancora che gli altri argomenti a favore dell’irrealtà del male sono tutti molto deboli, e quindi di fatto inutilizzabili: – 1) male come frutto di un giudizio puramente soggettivo; 2) male in quanto “privazione”; 3) male in quanto non “materiale” ma solo “mentale”; 4) male come prodotto del solo “desiderio”. Infine (riaffermando pienamente la più dogmatica teodicea) sostiene che il male è solo relativamente inesistente dato che l’intelletto umano semplicemente non è in grado di discernere per davvero tra bene e male, come invece Dio è perfettamente in grado fare. E questa è secondo lui la prima grande teoria affidabile del male (rispetto a quelle più bassamente riduzionistiche).
La seconda è poi quella che attribuisce a Dio un’ampiezza di sguardo prospettico (“occhio di Dio”) che soltanto a Lui permette di vedere ciò che noi uomini non vediamo. In altre parole per Dio il male non può esistere, dato che Egli vede molto più lontano di quanto siamo capaci di fare noi (sempre concentrati su noi stessi e sull’immediato).
Insomma il discorso di Mander si pone nei termini della classica teodicea che vede in Dio l’invalicabile “summum bonum”. E a coloro che obiettano a ciò l’evidenza sensibile del male, egli risponde che essi semplicemente si riducono a tenere presente le sole apparenze.

Va inoltre sottolineata anche la presenza di ulteriori interventi che seguono ancora oggi quella classica argomentazione filosofica che Ricoeur considera tipica della teodicea e considera anche del tutto archiviata. Furlong [Peter Furlong, “Blameworthiness, love, and strong Divine Sovereingnty”, Sophia, 56 (3) 2017, 419-433] afferma infatti che è impossibile sostenere che Dio sia coinvolto nel male, soprattutto in quanto caratterizzato dall’onnipotenza. Egli impiega però argomenti non etico-cristiani (e di sapore fortemente pagano) nel sostenere che l’Amore divino (o anche Bontà) non deve in alcun modo necessariamente coincidere con ciò che l’uomo avverte come male e considera come contraddizione delle migliori virtù divine. Tuttavia egli – citando Il Piano divino secondo Malebranche e Einstein (“Dio non gioca a dadi”), e quindi l’infallibile Ordine divino – fa così di fatto appello alla classica teodicea leibniziana. Egli infatti (come Mander) sostiene che l’intelligenza umana semplicemente non è in grado di abbracciare con lo sguardo le incommensurabili relazioni tra eventi che invece Dio vede chiaramente. Inoltre egli considera assolutamente banale la classica obiezione secondo la quale Dio di fatto sarebbe coinvolto nel male in quanto onnipotente e creatore.
Infatti sostiene che, se Dio certamente crea gli eventi, tuttavia ciò non toglie che le leggi della Natura (assolutamente immanenti) seguano comunque il loro corso.
A questa complessiva argomentazione egli aggiunge infine la proposta di soluzioni al coinvolgimento divino nel male che richiamano molto da vicino la “teologia spezzata”. E tra queste vi è soprattutto quella sostenuta esemplarmente da McCann [McCann H., “The author of sin?”, Faith and Philosophy, 22, 2005, 144-159; McCann H., Creation and the sovereignty of God, Indiana University Press, Bloomington 2012], secondo il quale, mentre la natura umana è fatalmente affine al male quella divina ne diverge invece radicalmente.

A questa argomentazione di Furlong c’è poi da aggiungere quella davvero bizzarra (se non assurda) di Rockwood [Nathan Rockwood, “Foreknowledge without determinism”, Sophia, 58 (2) 2019, 103-113], secondo la quale la presupposizione di un’Omniscienza divina non sarebbe altro che l’extrapolazione delle possibilità pienamente alla portata della logica umana. Di conseguenza sarebbe ridicolo ciò che Furlong sostiene insieme alla tradizionale teodicea, e cioè che il male non esiste semplicemente perché l’uomo non è in grado di guardare così lontano come Dio.

Trakakis [N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630], in maniera molto simile a Ricoeur, prende poi atto della totale estinzione del problema filosofico del male, aggiungendo a questo che il fenomeno sarebbe avvenuto nel contesto della polemica da molto tempo esistente tra teisti ed anti-teisti. inoltre egli menziona l’appello di Plantinga (1980), rivolto a tutti i filosofi cristiani, a smettere di argomentare su questo tema con gli atei, limitandosi invece a farlo solo con i credenti. Ma intanto l’Autore lamenta che proprio questo ha generato un discorso filosofico-religioso che non ha più nulla di filosofico.
E forse questo potrebbe venire applicato anche a quella “teologia spezzata” della quale parla Ricoeur come definitiva alternativa alla filosofia. Secondo Trakakis insomma il discorso filosofico sul male non sarebbe affatto tramontato, anche se in maniera del tutto degenere.

Vi è poi chi addirittura mette bocca criticamente nell’argomento kantiano del “male radicale” (radical evil).
Kohl [Markus Kohl “Radical evil as a regulative idea”, J. of the Hist of Phil, 55 (4) 2017, 641-673] lo ritiene addirittura un argomento di impronta ancora cristiana. E ciò sarebbe vero in quanto di fatto Kant presuppone la radicale ontologicità del male in quanto propria della natura umana. Egli pensa invece che il male è appena un’idea regolativa propria della ragione pratica. Ed essa si muoverebbe in tal modo: − siccome non posso sapere se l’uomo è male o meno, allora devo necessariamente partire dall’idea che l’uomo è malvagio (senza che ciò sia necessariamente vero oggettivamente). L’Autore sostiene inoltre che, se non fosse così, la presupposizione del male assoluto cozzerebbe con la morale universale di Kant.

Un articolo estremamente equilibrato e anti-conformista (in termini filosofico-religiosi e forse anche teologici) è quello di Daeley [Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435]. E bisogna dire che l’Autore mette letteralmente il dito nella piaga dell’attuale riflessione sul male ponendo in evidenza l’aspetto secondo me principale della sua negatività, e cioè la forte spinta a pretendere di decostruire in termini analitico-filosofici un discorso religioso che invece nasce e permane sul piano della Rivelazione divina. Ed un siffatto discorso non può venire in alcun modo ricondotto alla logica. Infatti Daeley ci mostra come e quanto le usuali considerazioni logico-teologiche tendano a scivolare nell’assurdo per il fatto di non tener presente la sostanziale contro-razionalità alla quale deve obbedire il discorso su Dio, ossia il discorso incentrato nella Rivelazione. Emblematico in tal senso è (a mio avviso) quel discorso rigorosamente logico sui “mondi possibili” che poi, come già sappiamo, stava al centro della teodicea di Leibniz.
Per la verità l’Autore non parla direttamente del male. Ma senz’altro lo fa almeno indirettamente affrontando il tema del «meglio» (il migliore dei mondi possibili) in relazione a sua volta alla “Grazia” divina.
In ogni caso l’argomento introdotto diviene fin dall’inizio assurdo quando l’Autore ci informa su quale genere di proposizione logica oggi i filosofi analitici (a loro detta al servizio della religione e della teologia) si vantano di esercitare le loro abilità logiche. Questa proposizione assomiglia infatti molto ad una riedizione logico-cristica della classica argomentazione (citata da Ricoeur: vedi quattordicesima lezione) su cui si è sempre basata la più classica teodicea. Eccola: − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. In verità dal punto di vista puramente logico ci sono ottimi motivi per criticare la messa in relazione (nella teologia e nella filosofia religiosa) tra la gratitudine umana (a sua volta rinviante alla Grazia divina) e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Ma intanto è assolutamente ridicolo voler ridurre la realtà della Grazia divina al concetto logico di gratitudine. La Grazia divina infatti è concepibile solo su un piano sublimemente sovrannaturale totalmente nascosto allo sguardo dell’intelletto umano. Quindi tutto sommato è superflua anche la difesa sul piano logico della Grazia divina (in quanto “atto grazioso”, ossia la creazione stessa), che viene tentata dall’Autore. E lo stesso vale senz’altro anche per la difesa (tentata dall’Autore) del concetto di volontà divina (libera e rivolta invariabilmente al Bene) dalle trappole tese ad esso dal cosiddetto “compatibilismo” (qualunque atto necessario contraddirebbe la libertà).
Comunque è del tutto naturale che l’Autore sottolinei il fatto che l’Amore divino è tale (in quanto “atto grazioso”) proprio perché non prevede dall’altro lato alcuna gratitudine. Ma a mio avviso non vi era bisogno di alcuna logica (né alcun dibattito affollatissimo di Autori e di vari “ismi”) per fare una simile affermazione. In ogni caso va registrato che Daeley parla di una Grazia divina “senza condizione”.
A questo punto, però, la riflessione dell’Autore diviene estremamente importante per i nostri scopi.
Perché, del difendere sul piano logico il concetto di Grazia divina in quanto Amore incondizionato, egli
dimostra di fatto la totale inutilità dell’intero armamentario logico-filosofico costituito dalla teoria dei mondi possibili (oggi diventato autentico cavallo di battaglia di esercitazioni logico-analitiche, peraltro basate su astruse formule matematiche, che nemmeno più nulla hanno a che fare né con la religione né con un razionalismo metafisico come quello di Leibniz). Daeley dimostra infatti che la Grazia divina (in quanto libera) non è affatto tenuta a scegliere tra varie alternative (come accade invece all’uomo). Quindi la creazione necessariamente buona (il migliore dei mondi possibili in quanto determinato e quindi solo uno dei tanti possibili) non ha nulla a che fare con la scelta incondizionatamente libera, e pertanto con l’Amore incondizionato in quanto Grazia. Quest’ultimo insomma non è affatto soggetto alla Necessità che normalmente governa la determinazione. E ciò accade semplicemente perché questo tipo di governo esiste solo sul piano ontologico relativo, e non invece sul piano ontologico assoluto. Insomma è solo sul piano umano-terreno che un determinato effetto (reale) esclude tutti gli altri possibili. Invece, sul piano assoluto, in cui opera Dio, la creazione di un determinato mondo possibile avviene in assoluto e non in relativo.
Ecco allora che in verità Dio non crea affatto “il miglior mondo possibile” (nel separarlo, intanto, da quello mondo peggiore in quanto determinato), ma semplicemente ha il desiderio di creare “il meglio” in assoluto. Non solo, ma Egli ospita tale desiderio anche nel mentre prevede “il peggio”. E lo fa in maniera assolutamente non separata, ossia includendo anche quest’ultimo nella sua intenzione assolutamente positiva, ossia nel suo Amore. Dice l’Autore che esempio per questo può essere l’amore dei genitori per un bambino che però intanto non ha ancora sviluppato le sue potenzialità positive. In altre parole Dio non vuole altro che il mondo buono in assoluto.
E ciò non ha alcunché a che fare con la problematica logico-filosofica dei mondi possibili. Si tratta infatti di una realtà unicamente etica. Non a caso Dealey afferma che è necessario distinguere nettamente tra “necessità metafisica” e “necessità morale”.
In ogni caso tutto ciò implica il fatto estremamente eclatante che Dio ama anche le creature non buone.
E quindi in qualche modo (almeno nei termini dell’intelletto umano) «tollera» il male. Tuttavia mi sembra che le considerazioni di De Benedetti (che ho riportato prima) siano più che sufficienti a disinnescare tale argomento.

Molto significativo mi sembra anche il contributo di Larmer [Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358], il quale pone sul tappeto quella dottrina tomista che è ben nota in filosofia come “intelligent design” e che viene anche molto spesso citata e dibattuta. Molto in generale l’Autore sostiene una tesi critica secondo la quale Tommaso d’Aquino nega di fatto qualunque esistenza del male nel mondo in forza del fatto che l’intelligenza divina è insita in ogni infinitesima piega della Natura. Ed egli precisa che i neo-tomisti (Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz) non hanno alcun diritto di porre in dubbio l’esistenza effettiva di tale dottrina in Tommaso. Anzi egli li accusa apertamente di uno scetticismo inaccettabile per dei metafisici e filosofi religiosi.
Tuttavia questa mancata ammissione del male va registrata tenendo intanto conto di un’importante variabile che è costituita proprio dalla supposizione di un intelligenza divina che è intrinseca alla Natura, e quindi è orientata inevitabilmente al bene. Pertanto bisogna ammettere che anche se il male c’è (tendenzialmente), esso viene comunque cancellato dall’azione di questa intelligenza, che poi in termini teologico-metafisici equivale alla fede in un vero e proprio continuo intervento di Dio nel mondo. Ebbene, il male a questo punto potrebbe venire ritrovato proprio in uno di quegli aspetti di tale dottrina metafisico-naturalistica contro la quale più duramente si appuntano le critiche di coloro che sono alla ricerca continua di aporie. Costoro sostengono infatti che l’immanenza dell’intelligenza divina al mondo naturale implica l’immensa difficoltà del coinvolgimento di Dio nella “fallacia cosmogonica”, ossia quell’imperfezione della creazione che deve venire necessariamente presupposta se si vuole sostenere una relazione continua tra Dio e il mondo. Proprio per tale motivo i neo-tomisti criticati da Larmer preferiscono concepire le leggi della Natura come totalmente indipendenti dall’intervento divino, e quindi come del tutto svincolate da qualunque forma di intelligenza divina intrinseca.
Ed in tal modo si postula di fatto un male mondano evidente ed oggettivo, contro il quale Dio non intraprende nulla per il semplice fatto che tra Lui è il mondo vi è una differenza ontologica radicale ed abissale. Si tratta insomma di una tesi molto simile a quella della “teologia spezzata”.
Vi sono ulteriori (e molto complessi) aspetti di tale discussione. Ma per i nostri scopi credo che basti soltanto questo.

Il tema del male diviene il vero e proprio ago della bilancia della discussione svolta da Cockayne
[Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523] sulle relazioni che idealmente dovrebbero esistere tra teismo ed ateismo. Ed in generale egli sostiene che sarebbe auspicabile un ateismo “passionale” in luogo di quello “classico”; a causa del fatto che il primo sottolinea le ragioni prevalentemente soggettive per avere dubbi sull’esistenza di Dio, anche se può accettare intanto le ragioni oggettive (e razionali) per accettarla almeno in via di principio. E sta di fatto che il nucleo delle ragioni soggettive (per negare l’esistenza di Dio) sta proprio nella costatazione dell’inoppugnabile esistenza del male nel mondo. Si presuppone quindi in tal modo non solo la scandalosa permissione del male da parte di Dio ma anche l’ancora più scandalosa (in quanto terribilmente provocatoria per l’uomo) totale ascosità di Dio (ossia la sua invisibilità ed anche irragiungibilità). E quest’ultima è talmente provocatoria per l’intelligenza umana da costringerla a postulare addirittura la “superfluità” di Dio proprio a causa dell’esistenza del male.

Viene poi un articolo che a mio avviso va tenuto in considerazione in maniera molto più attenta, e cioè quello di Holden dedicato direttamente alle teorie del male di Adorno e Arendt [Terence Holden “Adorno and Arendt: evil, modernity and the underside of theodicy”, Sophia, 58 (2) 2019, 197-224]. Quest’articolo è estremamente complesso, e quindi va molto riassunto. Ma comunque esso tratta direttamente della teodicea, e quindi è per noi di immensa importanza. Comunque quello che mi sembra importante è cogliere quelli che sono i messaggi principali in esso contenuti. Sono i seguenti.
In primo luogo l’Autore registra che i pensatori menzionati (cioè Adorno e Arendt) si pongono senz’altro sulla scia della dottrina kantiana del “male radicale” (radical evil).
In secondo luogo egli rileva che la Modernità ha scoperto che addirittura lo stesso potere individuale di giudizio è in definitiva del tutto impotente davanti al male oggettivo. E questa costatazione non è altro che un’estensione del senso colto da Ricoeur nel passaggio obbligatorio dalla filosofia alla “teologia spezzata”. Tale estensione coinvolge però anche Kant nell’impotenza della filosofia. Infatti perfino la sua fondazione della morale nella gnoseologia (giudizio razionale) appare essere fallimentare davanti al fatto che il male oggettivo è non solo evidente ma anche soverchiante – esso riesce cioè a smantellare perfino la nostra capacità individuale di giudizio nel discernere ciò che è bene da ciò che è male. Pertanto sembra proprio che la delegittimazione della teodicea, da parte di Kant, non cambi proprio nulla nel pensiero del male.
Infatti la negazione di un oggettivo ed assoluto male onto-metafisico (a vantaggio di un male puramente relativo al cattivo uso della morale razionale) non aiuta affatto a cogliere la schiacciante evidenza del male. Anzi sembra proprio che continui a negarla nello sforzo di una sua razionalizzazione.
In terzo luogo, da quanto dice Holden, bisogna desumere che la moderna teoria filosofica del male esiste ancor eccome, ed ha anche inoltre delle caratteristiche ben precise. Per la precisione essa è decisamente post- e ultra-metafisica in quanto consiste in un realismo scientifico, immanentista, elementarista e molteplicista (non unitarista). Vedremo dopo cosa significhi questo più specificamente. In altre parole sembra che Holden non ritenga necessario superare la filosofia razionalistica ma semmai una metafisica perdurante nel pensiero moderno perfino dopo la sua condanna da parte di Kant.
Il che significa che in fondo Leibniz per lui rientra pienamente in quest’ultima. Comunque il messaggio che attraversa tutto l’articolo (nel sostenere una radicalmente nuova teoria filosofica del male) sembra voler essere molto provocatorio nel senso della seguente sfida: − «Vediamo cosa concretamente riuscite a fare (nella situazione negativa specifica) con le vostre teorie del male?». Pertanto anche Holden, come Ricoeur, sfida la filosofia in generale a pronunciarsi attendibilmente circa il male. Solo che l’Autore non sembra affatto voler abdicare dal ruolo di filosofo, e quindi sembra solo che intenda proporre un nuovo realismo filosofico in luogo del tendenziale e tradizionale idealismo delle teodicee. Non a caso, infatti, i pensatori tenuti presente nell’articolo (Adorno e Arendt) vengono entrambi accusati di voler tenere in piedi un’inter-soggettività non autenticamente relazionale (sociale) ma invece puramente pensante ed astratta (cioè in stretta connessione con la filosofia della coscienza). E l’Autore ritiene che tale forma di relazionalità finisca per essere affatto realistica. Così essa viene dichiarata essere del tutto incompetente ad affrontare il tremendo tema del male.
Ma in che modo Holden ci propone di affrontare il tema del male in termini filosofico-realistici?
Lo fa semplicemente considerando il male non più onto-metafisico ma invece unicamente esperienziale e terreno, specie in quanto inter-umano e quindi elementarmente relazionale. In altre parole il male non è altro che il mancare di riconoscere in generale il pieno diritto ad esistere dell’Altro (in particolare la sua dignità). Ed a tale proposito l’Autore ritiene del tutto superfluo sostituire la presa d’atto di questa dimensione con teorie pur sempre metafisiche della realtà, come quella della “Storia” (che da Hegel trapassa direttamente in Adorno e anche in Arendt).
Per Holden vanno comunque tenute presenti le diagnosi di crisi fatte sia da Adorno che da Arendt rispetto alla Modernità (della quale viene criticato in particolare il fenomeno dell’”accelerazione” del movimento storico, e quindi la ben nota ideologia della crescita). Ma questo, se è molto interessante in sé, non lo è però per gli scopi della presente lezione. Pertanto va solo rilevato che i due pensatori testimoniano quanto forte sia il legame tra male oggettivo e Modernità, ed inoltre come entro quest’ultima addirittura la Storia abbia finito per intrecciarsi con la stessa Natura, aggravando così ulteriormente quell’ontologia del male che era stata costantemente rilevata antecedentemente all’avvento della Rivoluzione industriale. E qui viene decisamente alla ribalta la forma più radicalmente ultima del male nel mondo, e cioè quella legata all’economicizzazione totale della società, ed inoltre al dominio della scienza tecnologica sull’essere.
Quella che ho illustrato è comunque in gran parte la dottrina della Arendt. Quella di Adorno aggiunge a tale scenario elementi tipici della dottrina marxista. Ma andremmo troppo lontano se volessimo seguirlo. Importante mi sembra solo il fatto che mentre la Arendt denuncia nella Modernità il male da dinamismo (eccesso di «rivoluzione»), Adorno denuncia invece in essa il male da stasi (difetto di «rivoluzione»).
In ogni caso Holden precisa che Adorno ed Arendt sono semmai eredi della teoria hegeliana della Storia, ma non ne sono affatto interpreti diretti. Entrambi infatti la criticano severamente proprio in quanto essa è la tipica teodicea che tende a riassorbire e negare il male (per mezzo della Storia quale ineluttabile forza impersonale costantemente agente, la quale riduce a sé ogni cosa). In altre parole Adorno e Arendt si sforzano di superare la teodicea, ma secondo l’Autore non vi riescono.
Holden è ancora più esplicito nella sua constatazione e nella sua condanna (parlando di “immoralità della teodicea”). Così egli menziona in alternativa due presenze centrali nella moderna riflessione filosofica sul male, e cioè Lévinas e Davies. Tuttavia egli precisa anche al proposito che, da Kant in poi (“male radicale”), la filosofia ha iniziato a superare questo pensatore stesso nel riconoscere il male come assoluto ed oggettivo esattamente in quanto parte della struttura storico-dinamica dell’essere. E come tale esso non solo trascende largamente il potere di scelta individuale ma diviene anche totalmente ordinario, cioè “banale” (Arendt). Kant invece (pur avendo liberato il tema del male dell’approccio onto-metafisico) riteneva il fenomeno ancora soggettivo, e quindi non era ancora approdato ad un’ontologia del male decisamente post-metafisica. In questa direzione sono andati Adorno ed Arendt, ed infine Lévinas ha concluso il percorso considerando il male come un totale sovvertimento dell’essere nel senso dell’anti-relazionalità. In particolare si parla qui della “comunità morale” come il luogo in cui, a causa dell’intensissima relazionalità in esso vigente, la dimensione etica sarebbe del tutto implicita (senza nemmeno bisogno di venire tematizzata) in modo tale che in esso viene pienamente esercitata la responsabilità dell’uno per l’altro.
Su questa base poi Holden ricorre ad altri pensatori (Pia Lara e lo stesso Ricoeur) nell’estendere la portata dell’appello arendtiano ad un atto di giudizio mai disgiunto dall’atto di memoria. Questi pensatori ritengono infatti che l’elemento dirimente sia in definitiva solo quello della memoria, e nella maniera più accentuata possibile, cioè come “narrazione” dei fatti ossia come circostanziata e personalissima testimonianza. Ed in effetti di questo ho parlato in una precedente lezione (ottava) dedicata al libro di Ricoeur sulla memoria [Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003].
Tutto questo finisce per ridimensionare di molto anche l’ontologizzazione del male entro il pensiero più attuale. Infatti, una volta posto il male sul piano della fattualità (al quale rinvia la narrativa, cioè la memoria), esso appare essere in fondo ontologico quasi solo metaforicamente, ossia in primo luogo come «fatto» ovvero casuale evento. Mai invece come profonda ed invisibile struttura dell’essere, oppure come misteriosa forza (vedi Storia).
Il male insomma è semplicemente qualcosa che capita perché alcune (tutto sommato casuali) volontà spingono in tal senso in relazione a determinate circostanze sfavorevoli. E quindi esso è banale ancor più di quanto è stato stabilito da Arendt. È, direi, più che altro elementare. Lo è perché è esperienziale esattamente quanto qualunque evento dell’esistenza umana e del mondo. Pertanto, se proprio vogliamo considerare il male come ontologico, siamo obbligati a considerarlo tale soltanto in senso relativo e non invece assoluto.
Altra conseguenza è, secondo Holden, che esso costituisce un fenomeno che non è affatto ricomprensibile nel campo della morale (nemmeno negativamente). Perché esso invece si pone totalmente fuori di tale campo, corrispondendo semmai al campo della sola Natura. Su questo aspetto preferisco però esprimere tutte le mie personali riserve. In quanto il realismo filosofico qui all’opera vorrebbe far crederci in fondo nella possibilità di cogliere il male più pienamente fuori della morale che entro di essa. Come se la morale fosse una sorta di filtro che offusca i fatti negativi e malefici.
Sinceramente trovo estremamente pericoloso questo bizzarro sforzo di liberarci della morale allo scopo di cogliere più pienamente il male; e peraltro come tutto sommato innocentemente naturale. Del resto, comunque, ciò era già evidente quando abbiamo preso atto del concetto holdeniano di “comunità morale”.
Le ulteriori considerazioni di Holden entrano troppo nei dettagli del pensiero di Adorno e Arendt, per cui credo sia meglio trascurarle. Va quindi detto solo che la sua accusa a questi pensatori è quella di avere anch’essi costruito una teodicea, ma intanto colta solo nella sua “faccia inferiore”, cioè nella sua dimensione elementare.

Come ultimo viene un articolo che ci permette di intendere la dottrina di Leibniz da un punto di vista piuttosto singolare nella sua bizzarra e arbitraria creatività intellettuale. In particolare si tratta della tesi ampiamente riduzionistica di Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571], secondo la quale lo spirito non sarebbe altro che l’equivalente di un’energia cosmica colta nel suo aspetto più sottilmente fisico.
E quest’ultima, in ultima analisi, non sarebbe altro se non la forza di sviluppo che spinge l’intero essere verso la sua costante esplicazione (cioè l’elementare forza vitale evoluzionistica ed onto-organizzante).
In particolare, secondo Steinhart, si tratterebbe di null’altro se non della forza di organizzazione progressivo-crescente delle strutture che tutti conosciamo come “entropia”. Ebbene, secondo l’Autore, bisognerebbe considerare Leibniz il sostenitore di questo genere di stranissimo “argomento per lo spirito”. Più precisamente egli avrebbe postulato una forza direttiva che deve necessariamente tendere ad un risultato finale, ossia deve essere un “potere ultimativo”, nel senso della sempre completa determinazione dell’astratto. Leibniz è insomma per Steinhart il protagonista di una “theory of striving possibility” (possibilità tendente, anelante, sforzantesi), come spiegazione delle cose concrete (individuo – determinato). In generale si tratterebbe di una teoria postulante le forme astratte matematiche come forme dell’universo.
Tra i principi generali governanti questa dottrina ce ne sono due da sottolineare: − 1) quello secondo il quale la forma tende a divenire attuale a meno che qualcosa non glielo impedisca; 2) quello secondo il quale le forme sono tra loro indipendenti, per cui se non vi è una forma che impedisca l’attualità, essa si verificherà senz’altro.
Dunque la sequenza dell’evoluzione si muove costantemente da una forma semplice in direzione di una sempre maggiore complessità partendo. Ma intanto la forma più semplice possibile è quella più indipendente, e quindi essa è quella in principio più attuale. Ecco che la forma più semplice dell’universo è quella vuota (“empty universe”), ovvero “cosmological zero”. Quest’ultima è quindi la forma di universo più attuale, cioè più possibile nel senso della realtà. Pertanto esiste di fatto un unico universo semplice ed esso corrisponde esattamente al migliore dei mondi possibili. È insomma la potenza massima più generale, dalla quale derivano tutte le attualizzazioni.
Dunque quella qui esposta sarebbe la versione evoluzionistica dell’effettiva visione di Leibniz; dalla quale però essa differisce notevolmente. La versione evoluzionistica non prevede infatti un solo universo migliore ma semmai molti universi migliori (secondo la teoria indicata da Steinhart come quella dell’albero ramificato di attualità). Inoltre prevede anche una progressione al meglio che non si ferma, ma che invece sempre sorpassa i migliori. Questa progressione ha un inizio costituito dalle forme più semplici (livello zero) dell’universo ideale (iniziale), che poi procedono progressivamente verso ulteriori forme di meglio fino al concreto ultimo.
Bene, dov’è il male qui? Assolutamente da nessuna parte. E ciò perché, messa così, la teoria di Leibniz non è nemmeno una teodicea, ossia una dottrina religioso-filosofica e metafisica. È invece appena una teoria scientifico-naturalistica anche se colorita di argomenti filosofici. In ogni caso, se proprio ci si vuole sforzare, si può dire che il bene sta nella costante crescita dell’universo in direzione di nuove e crescenti forme di organizzazione. Tuttavia sembra proprio che del male non vi sia alcuna traccia. Si potrebbe quindi pensare che sia proprio questo il destino naturale delle teodicee, una volta trasportate sul piano della scienza naturale. Esse si presterebbero ad una negazione del male alla quale poi corrisponde la valorizzazione dogmatica della crescita perfino elementare, ossia quella cosmica. Ed in tal modo siamo pertanto riportati alla critica di Adorno e Arendt alla Modernità proprio in quanto crescita che è certamente foriera di male.
Possiamo quindi rintracciare qui un notevole rischio, e cioè quello che estende la critica ricoeuriana alla teodicea, nel paventare che la sua negazione del male può divenire ancora più pericolosa quando la teodicea stessa si trasforma in una teoria scientifico-naturale.

Che conclusioni possiamo ora trarre da tutto questo?
Primo. Abbiamo constatato che la metafisica (specie se religiosa) è perfettamente in grado di rispondere al problema del male senza indulgere ad alcuna “spiegazione” e/o razionalizzazione filosofiche di esso; e quindi non incappando nelle fatali aporie comportate dalla teodicea. Pertanto la soluzione non sta affatto (come dice Ricoeur) nella moderna teologia, bensì semmai nel ritorno all’antica metafisica. E sarebbe auspicabile a questo punto un abbraccio fraternizzante tra l’antica metafisica «pagana» e quella cristiana. Sebbene a quest’ultima vada riconosciuto il vantaggio di avere come modello davvero insuperabile (teoretico e pratico) la figura del Cristo.
Secondo. Non c’è dubbio che il male vada drasticamente ontologizzato ed obiettivato (specie nel senso della sua totale «esternalizzazione»), altrimenti rischia seriamente di venire negato o occultato. Il filo conduttore (e minimo comun denominatore) di tutto ciò che abbiamo visto finora è, infatti, che il male mondano è un’evidenza assolutamente inoppugnabile, ossia è tangibilissimamente esteriore. Almeno in una certa misura bisogna quindi anche ammettere che il male terreno è elementarmente esperienziale, e quindi come tale sfugge fortemente ad una troppo astratta categorizzazione metafisica. Questo va quindi ammesso, a patto solo che non si pretenda per tale motivo di esautorare totalmente la morale (in questo caso infatti i rischi che si corrono sono immensi). Ancora una volta però si impone qui la dimensione religiosa della metafisica su quella puramente filosofica. In altre parole solo in quest’ultimo caso la metafisica è pericolosa. E quindi in tal modo riemerge di nuovo la figura del Cristo come nostro imprescindibile punto di riferimento. In essa infatti convergono perfettamente la dimensione esperienziale del male, quella onto-metafisica e quella religiosa.
Terzo. Premesso quanto abbiamo appena visto, va detto che diviene davvero molto semplice rispondere alla fatale domanda circa il «Cos’è il male?». Si tratta pertanto di una risposta che sembra davvero esulare totalmente dal campo di quella che è stata sempre la teodicea filosofica (e forse anche teologica).
La risposta è la seguente (e si noti bene che essa è totalmente tautologica): − «Il male non è altro che quello che tu, proprio tu, hai sperimentato e stai sperimentando ora, o sventurato. Tu solo sai cosa sia il male, tu che stai soffrendo. Per cui nessuno meglio di te può spiegarcelo, ed inoltre nessuno può osare tentare di spiegarlo a te».
Quarto. Non sembra affatto vero (come invece afferma Ricoeur) che la filosofia abbia cessato di produrre teodicee a ciclo continuo. E per di più continua a farlo addirittura tendendo a sconfinare sempre più nell’assurdità ed astrusità di cavilli logico-filosofici. Pertanto l’uomo comune non ha da aspettarsi proprio nulla da questo genere di dibattito filosofico (se non per rarissime eccezioni).

In sintesi mi sembra che noi dobbiamo tenere conto soprattutto di questa semplice ma profondissima verità: − Guai, ma davvero guai, a prendere sotto gamba la mortale serietà dell’esistenza del male.
Il male esiste oggettivamente, eccome! Tanto che lo si può pensare e dire in molti e diversissimi modi, e cioè lo si può dire in molti linguaggi – quello della semplice esperienza vissuta, quello della metafisica, quello della teologia, quello dell’etica. A quanto pare solo il linguaggio della filosofia appare invece del tutto inadeguato allo scopo. Perfino quando esso si fa estremamente realista ed esperienziale, come abbiamo visto nel caso di Holden. In questo caso infatti esso corre l’immenso rischio di voler fare a meno dell’etica.
Ed allora in chiusura devo proporre al lettore un’altra significativa lettura circa il problema del male, e cioè quella di un libro del grande pensatore russo Solov’ëv [Vladimir Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma 2017]. Questo libro vuole infatti essere esplicitamente non filosofico nel suo sforzo di dirci che il male esiste in maniera talmente oggettiva ed inoppugnabile da giungere a presentarsi a noi non solo come una presenza storica ma addirittura anche come una presenza ultra-storica ed escatologica, ossia nell persona dell’Anticristo. E in entrambi i casi noi non abbiamo altro dovere verso questo male se non un dovere semplicissimo e addirittura sbrigativo, ossia quello di combatterlo apertamente e senza mezzi termini. Ebbene, Ricoeur accenna alla necessità di questa lotta al male sia come corollario di una legittimissima protesta dell’uomo contro di esso, sia anche proclamando il primato dell’azione sul pensiero [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 5 p. 41-46, III, 2 p. 48-50]. Tuttavia poi limita sé stesso affermando che non bisogna illudersi circa il fatto che l’esistenza oggettiva del male possa davvero venir modificata per mezzo della lotta ad esso.
Ma io direi che il criterio non può essere affatto quest’ultimo, bensì invece proprio quello affermato da Solov’ëv – il male va combattuto sempre e comunque, altrimenti ci si macchia dell’imperdonabile delitto della complicità con esso. E nessuno a questo mondo può sapere cosa può accadere se al male viene lasciato campo completamente libero. Non a caso il pensatore accenna ad una critica al moderno pacifismo proprio come potenziale ed insidiosissimo anticristismo. Inoltre (nel racconto finale) ci mostra come la definitiva vittoria di Cristo sull’Anticristo (e quindi sul Male stesso) viene preceduta dalla resistenza ostinata e irriducibile di tre soli cristiani tra i tanti che invece apostatizzano convertendosi all’anti-religione anticristica.
Infine mi sembra evidente che le uniche risorse di pensiero che possano davvero aiutare l’uomo comune ad affrontare il problema del male (nella sua esistenza) risiedono nella filosofia antica (ossia nella metafisica religiosa) ed inoltre nella Rivelazione divina stessa (con i modelli e con le immagini che essa ci propone).

Aldilà di tutto vi deve essere però in noi forte e chiara la consapevolezza del fatto che quello del male è il campo in cui forse la filosofia ha meno da dire rispetto a tutti gli altri campi ed aspetti dell’esistenza umana e mondana.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

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Abbiamo finora trattato della nascita e dell’esistenza. Ora, in base al programma tracciato alla fine dell’undicesima lezione (nella quale ho cercato di definire quale fosse il più appropriato approccio filosofico ai fenomeni congiunti della nascita, esistenza e morte), bisogna trattare dell’ultimo elemento del trinomio dinamico, la morte.
La morte è l’ultimo di questi fenomeni, e quindi ha forse lo stesso senso e la stessa importanza del primo, cioè la nascita. Pertanto forse è possibile anche per esso porsi il problema che ci siamo posti per il secondo, ossia il problema del «perché?». Insomma molto probabilmente il «perché sono nato?» è specularmente equivalente al «perché devo morire?».
In primo luogo emerge però qui immediatamente una fondamentale differenza tra le due domande: − la prima riguarda infatti qualcosa che è «già accaduto», ovvero il passato, mentre la seconda riguarda invece qualcosa che «dovrà ancora accadere», ovvero il futuro. Ma lasciamo questa questione per ora aperta.
In secondo luogo va osservato che – entro uno dei due libri che userò come base per trattare questo tema, quello di Ricoeur dedicato al male [Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015] – il problema del male stesso si pone (in termini filosofici) esattamente come “perché?”. Ed anche rispetto a ciò per il momento mi limiterò a constatare ciò che ho appena detto.

In ogni caso, in termini ontologici, la morte appare essere il momento ultimo dell’esistenza, e quindi il momento più adatto per quell’atto che noi uomini usiamo chiamare «bilancio». È il momento esistenziale dell’a posteriori, mentre invece la nascita è il momento dell’a priori. Tuttavia sia l’a posteriori che l’a priori costituiscono in qualche modo un importante fondamento di essere, ossia ciò che giustifica ultimamente l’essere. In termini aristotelici si potrebbe dire che il primo equivale alla causalità efficiente mentre il secondo equivale alla causalità finale. La causalità efficiente giustifica tutto l’essere che deve venire prodotto, mentre la causalità finale giustifica tutto l’essere che è già stato prodotto. Ed entrambe giustificano l’essere indicando il senso e scopo del movimento evolutivo e onto-generativo – la causalità efficiente lo fa a partire dall’inizio (a priori), mentre la causalità finale lo fa partendo dalla fine (a posteriori).
Alla luce di tutto questo il fenomeno della morte sembra avere la capacità di «spiegare» l’intera nostra vita (tutto l’essere «già stato» che l’ha costituita) a partire dal momento ultimissimo del dipanarsi di un filo fino ad allora mai spezzatosi, ma che ormai sta decisamente per spezzarsi. Insomma a partire dal momento della morte sembra che noi potremmo avere finalmente la capacità di una visione di insieme che prima non potevamo affatto avere − la capacità di uno sguardo che abbraccia tutta la nostra esistenza, senza perfino più alcuna differenza tra passato, presente e futuro. In questo senso la morte appare essere il momento in cui il filo del tempo se ne sta finalmente di nuovo tutto avvolto in sé stesso a mo’ di gomitolo. Ma questo corrisponde specularmente a quanto avveniva alla nascita. Solo che allora il gomitolo del tempo era ancora da essere svolto, mentre adesso (nell’ora della morte) esso non ha più da essere svolto. E quindi se ne sta lì nella sua definitiva integrità come qualcosa che è giunto finalmente al suo compimento ultimo. Siamo insomma di fronte ad una sistole (contrazione) che conclude definitivamente una lunga diastole (dilatazione).
È evidente che stiamo qui parlando in termini filosofico-metafisici ed inoltre senz’altro anche metafisico-religiosi. Non a caso qualche lettore avrà intravisto tra queste righe la ben nota immagine propostaci dalla scienza del paranormale che viene connessa al momento della morte – quella della sequenza di immagini in cui di colpo vediamo scorrere davanti a noi la nostra intera vita come un film. E pare che (almeno stando ai reports descritti da alcuni Autori) effettivamente questo sia quanto viene raccontato da coloro che hanno vissuto una morte imminente a causa di incidenti o gravi malattie.
Oltre a ciò emerge qui un’immagine mitica che è squisitamente metafisico-religiosa. Infatti la morte come finale sistole, o contrazione (opposta all’iniziale diastole, o dilatazione), richiama molto direttamente la teoria tradizionale (in gran parte orientale) dei grandi cicli cosmici; che in Occidente è stata a lungo esposta e chiarita da studiosi come Guénon e Vallin [René Guénon, Il Regno della Qualità ed i segni dei tempi, Adelphi, Milano 2006, Introd. p. 11-18; Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012, Introd. p. 75-77]. Il ciclo, infatti, è un’estensione spazio-temporale di essere che sempre sprigiona da un punto per poi venire alla fine di nuovo ridotta ad un punto ed in esso ingoiata. Si tratta quindi della continua alternanza ontologica tra punto (contrazione-sistole) e linea (dilatazione-diastole).
Orbene, sia parlando in termini di immagini paranormali che parlando in termini di immagini mitiche, noi ci collochiamo in tal modo decisamente fuori della più rigorosa filosofia. Eppure, come si sarà potuto notare, noi siamo approdati a queste immagini solo dopo aver condotto un’analisi genuinamente filosofica del concetto di morte; giungendo così alla conclusione che essa si presenta a noi come un momento finale di essere che appare molto simile ad una causa finale.
Non solo, ma già nel contesto di tale discorso filosofico, è emerso chiaramente il senso che la morte può avere esattamente come lo abbiamo visto per la nascita. In altre parole, già in termini filosofici è possibile rispondere alla domanda «perché devo morire?», esattamente come è possibile rispondere alla domanda «perché sono nato?». La risposta relativa alla morte potrebbe essere la seguente: – devo morire soprattutto per avere la possibilità unica di abbracciare con lo sguardo tutti i momenti della mia esistenza, in modo da poter comprendere finalmente cosa ho fatto di essa, e quindi anche di poter attribuire ad essa un ben determinato senso e valore. In qualche modo qui il momento del giudizio è prevalente, e lo è peraltro in maniera speculare rispetto alla domanda-risposta configuratasi alla nascita. Nel momento della morte io, infatti, posso (e probabilmente perfino devo) emettere un giudizio di valore su ciò che io ho fatto della possibilità apertesi davanti a me al momento della nascita, e che costituivano nell’insieme il contenuto della domanda circa il «perché sono nato?» ed inoltre anche la risposta ad essa. Insomma, nel momento della morte, io devo sapere se ho fatto o meno ciò che alla nascita ero stato destinato a fare. Tuttavia nel momento della morte vi è anche qualcosa di più rispetto a tale momento giudiziale (specie come giudizio di valore), e cioè vi è un momento gnoseologico ed insieme ermeneutico. In altre parole solo a partire dalla fine (a posteriori) io ho la possibilità di comprendere un «perché» che è sovrapposto a quello iniziale (nascita): – non solo il «perché» dovevo nascere per fare qualcosa, ma anche il perché dovevo nascere per fare proprio quel qualcosa e soprattutto per farlo in un determinato modo.
Non sfuggirà che ciò include in sé il «già stato» in una maniera che alla nascita (a priori) sarebbe stata impossibile; dato che lì il ventaglio delle possibilità era ancora totalmente dispiegato e non vi era stata ancora alcuna restrizione nel senso della definitiva determinazione e fissazione. Io insomma – nell’ambito del ventaglio di possibilità che mi erano state assegnate (apparentemente «per sorte», ma in verità in forza della mia identità animica pre-natale, come abbiamo visto nella dodicesima lezione) – potevo allora fare realmente tutto. Nel momento della morte invece scopro finalmente ciò che ho davvero fatto; il che mi porta a riconoscere che alcune delle possibilità che avevo alla nascita sono restate irrealizzate. Tuttavia ciò è avvenuto non solo perché io non abbia voluto e/o non ho saputo farlo, ma è avvenuto anche (e forse soprattutto) perché io non ho potuto; ossia perché le circostanze (spesso così complicate da essere letteralmente soverchianti) non mi hanno permesso di fare ciò che avrei voluto e saputo fare. Esattamente per questo non solo il giudizio di valore è possibile soltanto alla fine dell’esistenza (a posteriori), ma inoltre esso deve tenere strettamente presente anche il valore e il senso di queste limitazioni e determinazioni.
In altre parole io alla fine della mia esistenza dovrò prendere atto che vi era come un misterioso disegno (reggente le circostanze ed i miei atti) nel quale era già scritto l’estremamente specifico percorso che io avrei seguito nel destreggiarmi tra possibilità e realtà, tra volere e potere, tra essere capace e non esserlo, tra potere e non potere, tra sapere e non sapere.
Ebbene il vero compimento della mia esistenza poteva essere solo e soltanto il momento davvero finale di questo tortuosissimo, penosissimo e molto spesso anche infruttuoso percorso; ossia ciò che poteva divenire realtà solo e soltanto nel momento in cui non poteva esservi più alcun movimento, cioè nel momento in cui il filo della mia vita si sarebbe spezzato. È insomma su questo che io alla fine vengo chiamato ad esprimere un giudizio di valore. Ed è del tutto ovvio che ciò deve implicare necessariamente una riconciliazione con me stesso, ossia una sorta di auto-perdono per ciò che non sono riuscito a fare. Pertanto il bilancio finale (quale giudizio di valore su ciò che ho fatto o non fatto) non può avere la forma di una condanna, ma può avere solo quello di una saggia e serena costatazione. A meno, ovviamente che non ci si sia macchiati di colpe molto gravi. La costatazione potrebbe pertanto essere la seguente: – «È qui che sei arrivato e pertanto era esattamente qui che dovevi arrivare. Questo e solo questo è dunque il senso, finalmente compiuto, della tua esistenza. Ecco allora davanti a te il suo vero perché. Tu eri nato per arrivare esattamente qui. E questo lo hai fatto. Bravo!».
Sta proprio qui allora il valore gnoseologico ed epistemologico della morte come momento finale. Solo una volta giunto a questo momento io non soltanto ho il potere di emettere un giudizio finale su quanto ho realizzato delle possibilità a mia disposizione alla nascita, ma ho anche il potere di comprendere il senso di quel determinato percorso nel quale alcune possibilità sono restate irrealizzate in modo che io poi giungessi ad uno ed un solo risultato, ossia quello davvero finale.
Ebbene, non vi è dubbio che i filosofi accademici mi accuserebbero qui di determinismo; e così, in base a questa terribile accusa, demolirebbero l’interpretazione della morte che ho appena esposto. In ogni caso io penso che essa (sia pure in una maniera filosofica un po’ forzata e fuori dal comune) ci offre almeno la possibilità di cogliere in pieno il senso della morte. E ciò è ancora più vero se constatiamo che questo genere di discorso sta in piena sintonia con immagini mitiche (ed in parte anche esoteriche) che a loro volta si pongono al di fuori della filosofia proprio in quanto esse rafforzano notevolmente il senso del momento finale dell’esistere (sia individuale che perfino anche cosmico).
Tutto ciò significa insomma che finora ci siamo serviti di una filosofia in qualche modo non ordinaria, non ufficiale, e quindi da collocare (almeno in una certa misura) del tutto al di fuori di certi usuali schemi. Non a caso si tratta di una filosofia che (diversamente da quasi tutta la filosofia moderna ed ancor più post-moderna) non disdegna affatto l’apporto della metafisica e perfino di quella metafisica religiosa che non esita addirittura a sconfinare nel mitico e nell’esoterico.

Cosa accade invece in altri ambiti di sapere?
Cosa accade ad esempio nel contesto della scienza naturale ed empirica? In tal contesto la morte non ha il benché minimo senso così come non lo ha la stessa nascita. Infatti, volendo essere estremamente sintetici (e riportando perfino il discorso scientifico a quello metafisico naturalistico), la nascita non è altro che un momento di aggregazione di elementi (in un composto organico e quindi vivente), al quale dovrà inevitabilmente seguire prima o poi un momento di disaggregazione di elementi. E questo è la morte.
Si tratta insomma di fenomeni che semplicemente accadono (secondo leggi della natura che possono perfino venire considerate eterne) ma sul cui senso è assolutamente ridicolo interrogarsi.
Quella scientifica è quindi la forma più forte di liquidazione della domanda circa il «perché?» della morte (così come della nascita). Ma, come ho appena accennato, c’è anche la forma filosofica di tale liquidazione.
Ebbene, secondo la filosofia (in qualche modo) ordinaria e ufficiale, cosa significa allora la collocazione finale della morte?
È evidente che proprio qui dobbiamo rivolgerci ad un genere di filosofia moderna che non ha mai costituito il main stream della disciplina. La quale da Cartesio in poi ha preferito sempre occuparsi di gnoseologia e di epistemologia, rivolgendo così al mondo ed all’esistenza uno sguardo sempre fortemente filtrato da queste ultime prese di posizione. Di certo comunque non pochi pensatori hanno fatto eccezione a questa tendenza dominante della filosofia moderna (sicuramente ben più idealistica che non realistica). Si tratta dei pensatori che hanno elaborato una filosofia metafisica immanentistica (come Spinoza), oppure si sono occupati direttamente del male mondano (come Malebranche e Leibniz), oppure hanno avuto interessi naturalistici (come gli empiristi), oppure si sono occupati direttamente del male di vivere o male connesso con l’esistenza (come Kirkegaard), oppure infine (con una brusca sterzata) hanno spostato il piano della riflessione filosofica dal trascendente-ideale all’immanente e biologico-vitale (come Nietzsche e Bergson).
E sto qui menzionando appena dei pensatori maggiori. Va sottolineato comunque che di Leibniz ci occuperemo direttamente nel momento in cui discuteremo alcune parti del libro di Ricoeur.
Tuttavia, sebbene sia difficile non chiamare qui in causa molti degli esponenti del moderno esistenzialismo filosofico (Kirkegaard, Sartre etc.), credo che sia sufficiente tenere presente anche il solo Heidegger.
Sappiamo tutti più o meno bene il significato che il pensatore tedesco ha tentato di attribuire all’esistenza ed anche all’essere stesso in base alla natura «finale» della morte. La sua fu infatti un’interpretazione radicale dell’essere-in-quanto-esistenza – non si esiste davvero per vivere, ma invece si esiste molto semplicemente per il solo morire! [Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, I, II, I, 45-53, p. 283-324]. Se ciò è vero, allora la natura finale della morte non sarebbe altro che l’espressione dell’essenza ultima stessa dell’esistenza; e precisamente in termini radicalmente negativi. Lo sarebbe peraltro su un piano filosofico che riesce a fare del tutto a meno della metafisica (specie se religiosa), e quindi ha davvero alte probabilità di costituire un’affermazione filosofica autentica tanto quanto quella della scienza naturale. Insomma può ben darsi che questa sia per davvero l’affermazione più autentica non solo circa l’esistenza ma anche circa l’essere stesso. Il che ci riporta poi al secondo dei libri che prenderò a base di questa lezione, ossia il libro dedicato da Raphael all’Orfismo [Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004] ed in particolare nei suoi riferimenti alla teoria pitagorico-platonica dell’essere. Ci riporta però anche all’esame del pessismismo gnostico che viene svolto da Ricoeur.
Tuttavia – visto che stiamo nell’ambito di ciò che si può o non si può fare filosoficamente sul piano del vivere concreto e quotidiano – il problema principale al proposito è il seguente: − noi uomini possiamo davvero rassegnarci ad una visione come quella heideggeriana?
Del resto ricordo ai lettori che abbiamo già constatato come l’esistenzialismo filosofico sia assolutamente insostenibile per l’uomo comune. E quindi devo qui più che mai ribadire che è proprio così. Esattamente in quanto noi uomini comuni ricorriamo alla filosofia sostanzialmente per «vivere meglio», come possiamo farlo se essa ci getta in faccia che la mortalità (più ancora che la morte) è la vera essenza del nostro esistere? Sfido chiunque a dire che ciò sia possibile, sebbene poi in Ricoeur troveremo elementi per constatare che forse è proprio ciò che bisogna fare per affrontare a visto aperto il male che ci aggredisce nel corso dell’esistere.
In ogni caso avevamo potuto constatare prima che una filosofia ben diversa da quella appena presa in considerazione (ossia la filosofia non ordinaria che sfocia continuamente nella metafisica religiosa, nel mito e perfino nell’esoterico) appare essere perfettamente in grado di rispondere positivamente alla più radicale delle domande circa la morte, ossia quella circa il suo «perché».
Quindi bisogna chiedersi perché mai allora l’uomo comune dovrebbe rivolgersi ad una filosofia che non solo rifiuta problemi esistenziali come quello della morte (come fa la dominante filosofia incentrata sulla conoscenza) , ma inoltre, quando pure li affronta, lo fa in modo da far totalmente coincidere il senso della morte con il Nulla, e quindi di fatto con il totale non-senso. Tale genere di pensiero può essere autentico quanto si vuole – può affermare insomma la verità nel modo più sincero possibile −, ma sta di fatto che essa può aiutare l’uomo comune solo a vivere e morire nel modo peggiore possibile. Del resto testimone autorevolissimo di ciò è il Leopardi nella sua vivace polemica contro la filosofia in quanto distruttrice spietata delle illusioni senza le quali all’uomo è impossibile vivere. Basti leggere il suo Zibaldone per trovare dappertutto tracce di tale polemica.
Ecco allora che – così come abbiamo fatto nell’undicesima lezione (nel giudicare quale sia il genere di filosofia che è davvero applicabile alla vita) – anche qui dobbiamo arrivare alla conclusione che, per poter affrontare un tema come quello della morte, noi non possiamo servirci di alcun genere di filosofia moderna.
E così ci viene inevitabilmente incontro nuovamente la filosofia antica con tutta la serie delle sue tipiche problematiche.
Pertanto è proprio su questo piano che possiamo e dobbiamo esplorare un’altra possibilità (radicalmente diversa da quella prospettataci da Heidegger) di spiegazione della morte come fenomeno ultimo, e cioè quella della speranza (e non invece del disperare) che è intimamente legata alla tremenda domanda «perché devo morire?». Non vi è dubbio che si tratti con ciò dell’antica e multiforme dottrina dell’immortalità. Proprio di questa parla costantemente Raphael nell’esporre la dottrina orfica. Ricoeur invece (sebbene indirettamente) sembra voler relegare questa dottrina tra le soluzioni che sono del tutto insufficienti ad affrontare il problema del male, ossia quelle che non prendono atto della sua ineluttabilità mondana.

Su questa base possiamo quindi finalmente addivenire all’analisi dei due libri.
Partiamo da quello di Raphael, che è poi l’illustrazione più positiva e costruttiva possibile del fenomeno della morte. Anche perché in tale contesto il male non è affatto la morte, ma semmai lo è il corpo (quale non solo “prigione” ma anche autentica “tomba” dell’anima) [Raphael, Orfismo… cit., p. 35-46]. In altre parole, a parità di dottrina con il Cristianesimo quanto agli effetti della Caduta (dal cielo) quale Peccato, l’Orfismo non equipara affatto la morte con la condizione terrena generata da questa colpa originaria [Raphael, Orfismo… cit., p. 47-55]. Afferma però senz’altro che la corporalità equivale alla mortalità. E quest’ultima viene vista senz’altro come una condizione ontologica negativa. Positiva quindi è semmai la morte, ma non certo la mortalità.
Comunque Raphael afferma in sintesi che Orfeo fu insieme un sacerdote, un mitografo (il fondatore di una tra le maggiori teogonie greche, oltre quelle di Omero e di Esiodo) ed infine un filosofo [Raphael, Orfismo… cit., p. 9-11, p. 17-20, p. 78-84]. E svolse questo molteplice compito allo scopo di indicare all’uomo la via misterico-iniziatica per giungere all’umano-divinità per mezzo dell’identificazione con un Dioniso decisamente celeste [Raphael, Orfismo… cit., p. 21-30, p. 57-63]. Questa via però implica anche un ben preciso giudizio sia circa il mondo e l’esistenza sia circa il vero senso della morte. Infatti il mondo e l’esistenza rientrano in quell’immanenza che ha sì la sua precisa ragione di essere ma è intanto un luogo di essere decisamente negativo rispetto alla Trascendenza. Si tratta infatti del luogo dell’essere che è caratterizzato dall’imperfezione propria della realtà terrena decaduta rispetto a quella divino celeste; ed inoltre, per quanto riguarda specificamente l’uomo, si tratta della sua natura e dimensione “titanica” (demoniaca), a sua volta radicalmente opposta a quella “dionisiaca” (divina) [Raphael, Orfismo… cit., p. 57-63].
Da tutto ciò consegue che la morte va considerata per l’Orfismo un fenomeno finale radicalmente positivo, in quanto esso pone fine a tale spregevole condizione predisponendo così al recupero dell’originaria condizione celeste e divina. E ciò vale tanto per il mondo che per l’uomo. Tuttavia si tratta solo di una potenzialità. Perché, secondo la dottrina orfica, in assenza di un cammino preparatorio almeno l’uomo non riesce affatto ad utilizzare questa possibilità insita nella morte meramente fisica. E tale cammino non è altro che quello misterico-iniziatico; entro il quale il “miste” è chiamato a vivere una morte certamente non letterale (cioè non fisica) ma sicuramente nemmeno vuotamente formale [Raphael, Orfismo… cit., p. 85-112]. Egli è chiamato insomma a scendere in quegli “inferi” del suo passato esistenziale (in parte corrispondente all’inconscio stesso) entro il quale le circostanze lo hanno condizionato e determinato fino a farlo diventare ciò che non è; perdendo così la sua identità divina ed acquistando una solo illusoria identità terrena.
Ebbene tutto ciò corrisponde perfettamente a ciò che abbiamo scoperto semplicemente riflettendo sulla morte come momento finale. A partire dal quale si guadagna finalmente uno sguardo sintetico sulla totalità dei passi da noi compiuti nell’esistenza, ed ancora più precisamente su quell’unicissimo cammino che noi ci siamo aperti nella foresta intricata delle possibilità e delle circostanze. È quel cammino, puntante all’altrettanto unicisssimo risultato finale (corrispondente al momento in cui la vita si spezza), che poi, una volta giunto alla sua fine, costituisce il più autentico senso e compimento della nostra intera esistenza.
Qui con Orfeo possiamo comunque aggiungere a tutto ciò che quest’estrema comprensione del senso della nostra esistenza (nel suo momento estremo) deve coincidere in qualche modo con la riconquista della nostra natura e identità divina. Il che corrisponde poi al superamento della morte esattamente in direzione di un’immortalità divino-trascendente alla quale più nulla ci sbarra la strada.
Tuttavia il cammino misterico-iniziatico deve introdurre soprattutto ad una forma di conoscenza (quella in cui l’ente corporeo umano riconosce sé stesso come anima ed anche come divinità), con il corredo della quale alla morte fisica non seguirà più quel deplorevole oblio – lo stesso di cui non a caso parla Platone nella Repubblica (X libro) nella forma di immersione dell’anima nel fiume dal nome “Lethe” –, in presenza del quale l’anima certamente ricadrà nel ciclo delle nascite e quindi nel corpo. E questa è un’altra condizione in forza della quale la morte cessa di essere il fenomeno di disgregazione descritto dalla scienza naturale, e che ovviamente non può avere alcun senso.
Come possiamo ben vedere, l’Orfismo è esempio di una dottrina in cui il fenomeno della morte assume un’ultimità che è tanto radicale quanto è anche irrevocabilmente positiva. Essa costituisce infatti l’estremo limite aldilà del quale la negatività immanente si rovescia di colpo nella positività trascendente. E ciò avviene inoltre in maniera definitiva qualora l’uomo abbia compiuto il cammino di conoscenza misterico-iniziatica.
A fronte di questo dire che l’Orfismo è pessimista è pertanto davvero difficile. Tuttavia è intanto evidente anche la sua visione totalmente pessimistica della corporalità immanente, e quindi allo stesso modo di tutto ciò che è mondo, nascita ed esistenza. Raphael chiarisce però che si tratta di un pessimismo che (a confronto ad esempio con quello gnostico) è solo relativo [Raphael, Orfismo… cit., p. 85-112]. E ciò avviene perché l’immanenza corporale viene considerata un fenomeno del tutto necessario entro la dinamica ciclica della Manifestazione del Principio che poi ritornerà a sé stesso in quanto Uno assoluto. Su questa base, pertanto, l’Orfismo concepisce senz’altro una legittima “fuga dal mondo”, al modo del Platonismo così come anche della Gnosi – e che in qualche modo coincide con la morte stessa (sia fisica che iniziatica) −, ma in un senso affatto distruttivo e nichilistico, bensì invece in un senso unicamente costruttivo e positivo. Infatti alla necessità dell’immanenza corporea corrisponde precisissimamente la necessità del movimento di Ritorno all’Uno, il quale nel caso dell’uomo assume l’aspetto franco e intelligibile di un vero e proprio ritorno in Patria.
Ecco allora che, pur tenuto conto del suo tendenziale pessimismo, in alcun modo la visione orfica autorizza la dimensione nichilistica dell’ultimità ontologica assoluta della morte, che abbiamo visto delinearsi entro l’esistenzialismo heideggeriano.

Ma ora passiamo al libro di Ricoeur, nel contesto del quale potremo trovare senz’altro una trattazione decisamente negativa e distruttiva del fenomeno della morte.
Ebbene, la domanda in termini di metodo è la seguente: − possiamo o non possiamo servirci anche di una siffatta trattazione filosofica?
Ora, in base alla complessiva visione appena illustrata, appare evidente che presso Orfeo il fenomeno della morte sfugge largamente alla dimensione del male che è connessa all’immanenza terreno-corporale e mondana. Così avviene di certo anche nel Cristianesimo, sebbene (come abbiamo visto) in esso è sicuramente più accentuata l’identificazione della mortalità con la condizione ontologica causata dalla Caduta e dal Peccato (ossia da quella colpa originaria che anche l’Orfismo concepì in maniera molto esplicita). In questo senso si può dire allora che nelle due dottrine l’ultimità della morte costituisce una sorta di valvola di sfogo metafisico-religiosa a quella complessiva valutazione negativo-pessimistica dell’essere immanente che è obbligata ad includere anche il fenomeno della mortalità. E proprio in tal modo possiamo ritrovarci su un confortante piano filosofico entro il quale non siamo affatto obbligati a identificare morte e mortalità, come invece abbiamo visto fare ad Heidegger.
Ora, una volta tradotto tutto questo in una visione etica dell’essere, appare evidente che Orfismo e Cristianesimo predispongono tutti gli strumenti filosofico-metafisici per evitare l’identificazione della morte con il fenomeno del male. E proprio questo ci permette di attribuire alla morte un senso positivo che essa altrimenti non potrebbe in alcun modo avere. Bene, il libro di Ricoeur non parla affatto della morte (se non incidentalmente). Però esso parla del male in una maniera così incisiva ed implacabile, da porlo come un’evidenza oggettiva alla quale nessun discorso filosofico-metafisico può sfuggire senza fare la pessima figura di rivelarsi una vuota ed affatto veridica retorica (se non una truffa). E quale evidenza oggettiva maggiore vi è nel nostro esistere visto che l’adagio popolare la pone addirittura al di sopra della nascita stessa: − “Sicura è solo la morte!”?
Pertanto anche se Ricoeur si limita a identificare il certissimo male terreno-esistenziale appena con la sventura, il dolore, la violenza subita (a qualunque titolo), comunque è come se egli includesse in questo anche la morte. Se infatti le esperienze menzionate (sventura, dolore e violenza subita) rappresentano in pieno la rovinosa sconfitta e caduta dell’uomo, cosa può essere più simile a questo se non la morte?
Orbene, se accettiamo questa equivalenza, potremo allora confrontare alcune parti del discorso orfico (riportato da Raphael) con alcune parti del discorso ricoeuriano sul male.
In effetti l’Orfismo non manca certo di porre il male, visto che considera la corporalità come effetto di una colpa originaria che fa sprofondare l’anima nella prigione-tomba del corpo. E lo stesso fa senz’altro anche il Cristianesimo. Ma il pensiero di Ricoeur si inserisce come un implacabile cuneo proprio entro questa complessiva dottrina, criticandola da svariati punti di vista e identificandola in generale con una razionalizzazione del male (“spiegazione”, o ricognizione del “perché?”) che iniziò già nel mito (quindi anche in pieno Orfismo) per passare poi attraverso la radicalmente ottimistica “onto-teo-logia” agostiniana, la radicalmente pessimistica dottrina gnostica, ed approdando infine alla “teodicea” per eccellenza, e cioè quella di Leibniz [Paul Ricoeur, Il male… cit., I-II p. 11-46].
L’essenza della teodicea sta quindi per Ricoeur esattamente in un pensare che non ha alcun diritto di tentare di ridurre l’evidenza oggettiva del male attraverso la sua riconduzione ad una necessità razionale o anche etica. E questo è quello che fanno tutte le dottrine appena citate. Sebbene secondo lui quella più attrezzata filosoficamente (cioè basata su una logica rigorosa) sia stata quella leibniziana.
Ma uno degli aspetti principali di tale critica è proprio il tentativo di equiparare il male con un elemento di tipo etico ed anche infine giuridico, ossia quella colpa che esige inevitabilmente una punizione. Si tratta insomma di quella dottrina della “retribuzione” che per Ricoeur trovò il suo abbozzo proprio nel mito orfico e che poi sarebbe stata sviluppata appieno dalla Gnosi, specie nel corso della sua polemica contro l’ottimismo assoluto agostiniano [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 1-3 p. 17-38]. Secondo Ricoeur non c’è nulla di più assurdo per due motivi: − 1) perché i due elementi posti in relazione (male e colpa-punizione) sono ontologicamente del tutto eterogenei; 2) perché il male più vero non è affatto quello agito (per il quale vi è un responsabile volontario, come nel caso del peccato e della colpa) ma è invece quello subito; e peraltro esso è ancora più eclatante allorquando la vittima è totalmente innocente. Egli chiama in causa per il giusto-innocente la figura di Giobbe [Paul Ricoeur, Il male… cit., p. 7-9, I p. 11-15, I, 2 p. 20-23]. E a quest’ultimo l’autore della postfazione, Paolo de Benedetti [Paolo De Benedetti, In margine a Ricoeur. Sul male dopo Auschwitz, p. 59-76], aggiunge molto opportunamente i bambini chiamati in causa entro il famoso discorso di Ivàn nei Karamàzov di Dostoevskij.
Insomma gli aspetti principali della tesi affermata da Ricoeur rispetto al male possono venire così riassunti:
1) Il vero male è non è affatto quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso indicato dal mito e dalle dottrine etiche (Gnosi ed onto-teo-logia specie agostiniana), e cioè quello risiedente nelle radici trascendenti della natura umana (Origine); peraltro nella forma di una responsabilità attiva e volontaria negativa che richiede poi inevitabilmente una retribuzione negativa.
2) Il vero male è invece quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso riconoscibile (ed effettivamente riconosciuto) entro l’esperienza comune quotidiana, e che in filosofia solo la “fenomenologia” accetta come tale [Paul Ricoeur, Il male… cit., p. 7-9].
3) Il male così colto è unicamente quello subito (mentre quello agito rientra in un ambito etico-giuridico che travalica ampiamente la realtà nuda e cruda del fenomeno).
4) Il pensiero del male (teodicea) è di certo autorizzato a sforzarsi di concepire sempre “meglio” il male stesso, ma intanto deve comunque ammettere che l’essenza ultima del fenomeno consiste nel fatto che esso è e resta assolutamente inspiegabile [Paul Ricoeur, Il male… cit., III p. 47-56].
5) Dopo secoli e secoli di teodicea (prima mitico-metafisica, poi teologico-metafisica e solo alla fine davvero filosofica), la parola è passata oggi definitivamente ad una “teologia spezzata” (rappresentata specialmente da Karl Barth e Paul Tillich) la quale ha rinunciato definitivamente a qualunque spiegazione del male; e lo ha fatto uscendo finalmente dalla classica argomentazione della teodicea (Il Dio onnipotente e buono non può essere logicamente conciliabile con l’esistenza oggettiva del male, e quindi di fatto il male non esiste nel mondo creato) e limitandosi così ad affermare che, se Dio è l’Essere (e quindi il Bene), il Male è invece il puro Nulla, e quindi esso non può avere alcunché a che fare con Dio [Paul Ricoeur, Il male… cit., II, 5 p 41-46].
Ebbene, una volta ammesso tutto questo, verrebbe definitivamente spazzato via il criterio che abbiamo creduto di poter riconoscere nel concepire filosoficamente la morte nel modo che ci era sembrato più opportuno, ossia il criterio del “perché?”. Ricoeur afferma infatti che proprio tale criterio espone alla peggiore delle aporie generate dalla teodicea, ossia quella imposta dall’inoppugnabile esistenza del male nel mondo dell’esperienza. A questo punto, quindi – una volta equiparata la morte con il male sulla base di Ricoeur –, noi non potremmo più in alcun modo affermare che la morte si lascia ultimamente comprendere (in quanto fenomeno ultimissimo) in forza di un determinato genere di filosofia. Dovremmo insomma fare come Ricoeur e dire (come hanno fatto i più recenti teologi) che la morte, essendo di fatto riducibile alla mortalità (se davvero vogliamo essere autentici, ossia onesti), è e resta qualcosa di totalmente inspiegabile, e pertanto non perde assolutamente nulla della sua oscurità agghiacciante per mezzo della riflessione filosofica.
Ma in tal modo non ricadremmo forse nella stessa nichilistica e distruttiva visione che è stata inaugurata da Heidegger? Insomma, è di certo davvero lodevole lo sforzo di Ricoeur di porre gli uomini davanti al fenomeno del male senza cercare da nessuna parte una dottrina che lo giustifichi (riuscendo in tal modo solo ad occultarne colpevolmente l’evidente esistenza). E ciò vale senz’altro più che mai anche per la morte. Tuttavia, se le conclusioni di tale discorso sono quelle appena accennate, come possiamo noi servirci di un siffatto pensiero della morte senza correre il rischio di fare la fine dei porci evangelici indemoniati, ossia la fine causata dal dover correre tutti verso l’abisso?
Ancora una volta, insomma, appare evidente che una visione negativo-distruttiva non può affatto servirci ad affrontare la morte con l’aiuto della filosofia. Può servirci sì ad avere della morte una visione estremamente realistica. Ma questo ci aiuta davvero sul piano pratico, ossia ci rende davvero capaci di affrontare la morte in maniera più serena, forte e coraggiosa? A mio avviso la risposta è decisamente no!
Certamente a questo punto si potrebbe chiamare in aiuto molto direttamente la visione cristiana della morte, che culmina nel davvero possente paolino “Morte dov’è il tuo aculeo?”. E probabilmente questa è l’unica strada per affrontare positivamente un fenomeno così terrorizzante a causa della sua totale portata nullificante. Tuttavia non voglio qui fare apologia cristiana ma invece voglio fare solo filosofia. E quindi mi limiterò a ricordare le soluzioni positive che finora siamo riusciti a trovare insieme in questa lezione.
Tuttavia, oltre a ciò, penso che valga la pena di prendere in considerazione la conclusione davvero sublime del commentatore di Ricoeur prima menzionato, cioè Paolo De Benedetti.
«Sì», egli sembra dire «il male è davvero inevitabile in quanto è oggettivamente terreno e quindi è esperienziale. E pertanto non vi è teodicea che tenga di fronte ad esso. Quindi dobbiamo avere il coraggio di arrivare in questo davvero alle estreme conseguenze, e cioè ammettere perfino la stessa responsabilità di Dio nel male». Siamo insomma agli antipodi della teodicea e il discorso potrebbe sembrare a prima vista ancora più negativo e aberrante di quelli negativi che finora abbiamo preso in considerazione (in Heidegger e Ricoeur). Ma non è così.
Lo studioso sostiene infatti una tesi davvero singolare ed estremamente suggestiva, secondo la quale Dio è fatalmente compromesso nel male del mondo per il semplice fatto di aver troppo amato, e quindi per aver accettato di creare un mondo (in assenza del quale l’uomo nemmeno sarebbe mai esistito) dal quale Egli realmente (ma a torto) si aspettava il meglio. Si tratta insomma del «vide che era buono» affermato nel Genesi. Ma così non fu, e Dio stesso ne restò sorpreso. Nel mondo infatti germogliava irresistibile il male. Pertanto non vi sarebbe stata per Dio altra soluzione che ricorrere alla Collera, ossia alla Potenza (rinunciando così all’Amore), e distruggendo così una volta per tutte mondo ed essere.
Ma Dio non ha voluto scegliere questa strada (come ben mostrato nell’episodio biblico di Sodoma e Gomorra). E tuttavia lo ha fatto ben sapendo che in questo modo avrebbe dovuto dichiarare il suo stesso fallimento. La teoria cabbalistica della “rottura dei vasi” e del “zimzum”, ossia il collassare di Dio davanti al creato [James David Dunn, Window of the Soul.The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111] – che giustamente lo stesso De Benedetti ci ricorda –, non fa altro che affermare proprio questo. Dio è insomma direttamente coinvolto nel male e nel fallimento della creazione. Ma lo è perché ci ha infinitamente amato ed inoltre perché non ma mai potuto cessare di farlo. Nonostante il male oggettivo!
Ed allora, ci suggerisce l’Autore – nel dover rinunciare per sempre a qualunque teodicea e nel dover ammettere definitivamente che il male del mondo esiste ed è senza rimedio – a noi non resta altro che l’atto d’amore di comprendere le ragioni divine e la loro profonda innocenza. Il che peraltro (aggiungo io) dovrebbe permetterci anche di capire che non è affatto retorica quando si dice che Dio ci è vicino nel dolore anche se non fa nulla per togliercelo. Ma ammetto anche che affermare questo è la maggior parte delle volte assolutamente impossibile a noi uomini.

Insomma abbiamo detto proprio tutto. Ma mancano ancora delle brevissime conclusioni. Ed il loro punto di partenza può essere costituito proprio dalle stupende considerazioni di De Benedetti.
Abbiamo esplorato (a sufficienza e, credo, anche con successo) la possibilità di attribuire un senso positivo alla morte. Ed abbiamo anche visto che, per raggiungere questo scopo, possiamo effettivamente far uso di un certo tipo di filosofia. Abbiamo anche scansato gli ostacoli formidabili che, su questa strada, vengono frapposti da poderosissimi pensatori dell’autenticità come sono Heidegger e Ricoeur.
Potremmo dunque affermare che abbiamo raggiunto il nostro scopo e così «chiudere il libro» prima di cadere in qualche altro formidabile agguato filosofico. E tuttavia un’argomentazione come quella di De Benedetti ci mostra come l’autenticità non è poi sempre una facoltà che debba venire impiegata solo in modo negativo, e quindi non è necessariamente un vizio. Essa può invece essere anche una virtù, e pertanto può venire impiegata anche positivamente. Quindi, proprio come tale, io vorrei provare ad impiegarla in queste conclusioni.
Ecco come.
La valenza positiva che abbiamo attribuito dalla morte è certamente pensante, e quindi è per definizione qualcosa che può avvenire solo al di fuori dell’esperienza concreta e personale del morire. È infatti assurdo pensare che nel momento dell’agonia, noi possiamo sentirci in qualche modo confortati dall’essere riusciti prima a sapere «perché devo morire?». Pertanto quella che sembra un’esperienza finale, una volta trasposta sul piano filosofico, si rivela invece non esserlo affatto. Essa cioè non sarà a priori, ma certamente non è nemmeno per davvero a posteriori. Insomma è qualcosa che può avvenire solo prima della morte, ossia molto prima che noi entriamo nel territorio agghiacciante della sua concreta esperienza.
Ebbene, forse è proprio qui che ci viene incontro l’autenticismo di De Benedetti. Noi stiamo ora nel pieno dell’esperienza della morte, e sappiamo bene che a nulla possono valerci le elaborazioni filosofiche che tempo prima avevamo fatto di essa. Sappiamo insomma più che mai che ora, in questo estremo momento, a nulla ci varrà il sapere «perché devo morire?». Noi sappiamo infatti ora una sola cosa: − «Io devo morire!». È ormai un imperativo e, come tale esso non può in alcun modo aggradarci. Pertanto abbiamo le nostre buone ragioni se in questo momento esatto noi imprechiamo contro Dio accusandolo di essere inevitabilmente coinvolto nel male, nella morte ed infine nel male come morte. Ci troviamo insomma nel pieno di quella “doglianza” che giustissimamente Ricoeur ritiene essere la risposta più giustificata dell’uomo al male [Paul Ricoeur, Il male… cit., I p. 11-15, II p. 17-46].
Tuttavia De Benedetti ci viene qui incontro permettendoci di comprendere che questo «dover morire» non ci obbliga affatto ad odiare Dio. Anzi al contrario dovrebbe motivarci ad amarlo ancora di più. Non a caso è proprio in questa circostanza che ci può apparire meno retorica che mai l’affermazione secondo la quale, nel momento in cui noi soffriamo, Dio è lì con noi soffrendo nel mentre occupa il nostro stesso posto (e così quasi ambisce a sostituirci nella sofferenza). Nessuno come Lui infatti ha vissuto in pieno l’esperienza del «dover morire» − era un dio e non un uomo, eppure ha dovuto morire esattamente come un uomo!
Eccoci insomma davvero al dunque – sì certo è necessario comprendere «perché» devo morire, ma è anche necessario comprendere «che» devo morire. E chissà se il vero «perché» del morire non stia proprio in questa estrema cancellazione di ogni perché, che solo il «devo» può determinare? Sta dunque forse proprio qui l’ultimità più ultima – essa sta forse nel «devo» una volta intimamente connesso al «morire».
Può essere solo questo il vero ultimo atto, ossia quello a partire dal quale io posso davvero comprendere tutto, tutta la mia esistenza. Ed è evidente che esso si trova già ben aldilà del pensare sensibile, ossia quello legato al mio solo apparente Io. Si tratta insomma evidentemente del pensare di quel mio vero Io che abbiamo constatato essere la vera forza causale determinante la mia stessa nascita.
Ecco allora che la pienezza dell’autenticità (quella virtuosa e quindi costruttiva) può stare forse solo nella (finale ed insieme totale) congiunzione tra «Io» «devo» e «morire», ossia nell’«Io devo morire». Ed è evidente che nessuno di noi potrà divenire consapevole di questo se non nel davvero ultimo attimo della propria vita. Prima ciò è del tutto impossibile. Anzi è insostenibile.
Pertanto questo «Io devo morire» fa decisamente impallidire anche la stessa risposta alla domanda circa il «perché devo morire?». E dunque deve stare esattamente qui il vero nucleo della trattazione appropriatamente filosofica del fenomeno e tema della morte. La famosa preparazione filosofica alla morte deve evidentemente essere capace di edificare proprio questo – la capacità di stare metaforicamente per davvero in piedi davanti al momento terribile dell’«Io devo morire». Si tratta infatti più precisamente dell’ «Ora! È ora, proprio ora, che io devo morire!».
Molto probabilmente è proprio a questo che Orfeo si riferiva in quella preparazione misterico-iniziatica che non a caso includeva un’esperienza fattiva di morte.

Ecco, queste riflessioni cadono in un’epoca storica in cui di colpo, e senza che nessuno di noi se lo aspettasse, l’«Io devo morire» è diventato qualcosa di non solo concreto ma anche comune. Il che non è avvenuto solo nell’esperienza effettiva ma anche (e soprattutto) nella fantasia eretta su questa esperienza da parte di moltissime persone.
Sto parlando dell’esperienza storica della crisi Covid-19, estremamente attuale oggi sette di luglio del 2020.
Eravamo tutti cresciuti in una società nella quale la lunga pace e la potenza tecnologica avevano reso la morte un intoccabile tabù; qualcosa che non si doveva né menzionare né nemmeno pensare, qualcosa di assolutamente impossibile ed impensabile. Ed ecco che uno stupidissimo virus – ma soprattutto l’assolutamente sproporzionata enfasi mediatica eretta inspiegabilmente intorno ad esso – ha gettato il totale scompiglio in questa certezza, o meglio l’ha distrutta totalmente. Ed il bello (o meglio il brutto) è che ciò sta accadendo molto più nella fantasia che non nella realtà. Accade insomma che una legione di ipocondriaci e maniaci ossessivo-compulsivi è venuta alla ribalta e ha assunto il comando della società.
E lo ha fatto esigendo imperiosamente una ed una sola cosa: − che tutto e tutti si pieghino alla loro insopprimibile aspettativa di non venire uccisi dal virus, cioè di non dover morire in alcun caso e secondo nemmeno la più infinitesima probabilità. E si badi bene che si tratta non tanto del virus reale, quanto invece molto più del virus fantasioso.
Ebbene, quale maggiore e più possente contraddizione dell’«Io devo morire!» vi può essere se non questa?
E quindi, per tutto quello che abbiamo finora detto, quale maggiore e più possente negazione dell’attribuzione di senso alla morte vi può essere se non questa?
Abbiamo detto che l’attribuzione di senso alla morte è pienamente possibile. Ma la storia attuale ci sta dimostrando che la sua forma più estrema, in quanto più autentica, ci viene di fatto preclusa dalla patologia sociale profondissima della quale tutti poco a poco ci siamo ammalati.
Insomma la filosofia (almeno di un certo genere) potrebbe non poco aiutarci ad affrontare il momento terribile della morte. Ma le circostanze degenerative in cui viviamo ci rendono impossibile perfino questo.
E quindi a noi poveri moderni restano solo quattro alternative: − 1) rinunciare totalmente a dare un senso alla morte, continuando così miserevolmente a tentare di occultarla quanto più a lungo possibile; 2) opporci tenacemente al valore della conoscenza-esperienza dell’«Io devo morire!», invocando altrettanto miserevolmente la potenza tecnologica che intanto truffaldinamente ci offre l’immunità da tale esperienza; 3) ricorrere alle false trattazioni filosofiche della morte che ci vengono offerte dai moderni retori-divulgatori; 4) arrenderci alla moderna trattazione nichilistico-filosofica della morte e fare ad essa seguire i fatti (con il suicidio) oppure progettare di farlo prima o poi.

Io non pretendo certo di possedere la verità, ma, con questa lezione, mi sono sforzato perlomeno di offrire una qualche alternativa ad un siffatto totale sfacelo.

[ATTENZIONE: si diffida dal riprodurre il testo (coperto da copyright), o anche solo sue parti, senza citarne espressamente l’Autore]

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