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Archive for luglio 2022

Scopo principale di questo articolo è quello di dilatare e differenziare (in termini critici) – senza però assolutamente volerla negare – l’usuale piuttosto scontata collocazione del pensiero steiniano nella scia della Fenomenologia husserliana. Questo tentativo rientra in una serie di ricerche da noi intraprese negli ultimi anni (successivantemente al tema del possibile platonismo del pensiero steiniano trattato nella nostra tesi di dottorato in filosofia), che hanno teso a discutere criticamente soprattutto l’effettiva continuità tra la Fenomenologia husserliana ed il pensiero steiniano nella sua ultimissima fase mistica . Tuttavia la maggior parte delle nostre considerazioni su questo tema sono raccolte in un saggio non ancora pubblicato che qui menzioniamo solo in una sua presentazione sintetica .
Orbene la lettura di Psychologie der Weltanschauungen (PWA) di Karl Jaspers ci è sembrata un’ottima occasione per trattare almeno una parte del tema che ci siamo preposti di indagare. Dobbiamo qui però precisare che non ci riteniamo affatto dei conoscitori approfonditi del pensiero jaspersiano, e quindi nostro intento non è affatto quello di approssimare il pensiero della Stein a quello di Jaspers nel suo complesso. Intendiamo invece riferirci unicamente all’opera appena menzionata. Tuttavia quest’ultima ci è sembrata di particolare importanza sostanzialmente per due motivi: 1) essa segnò di fatto il passaggio del pensatore dall’impegno in medicina (psichiatria) a quello in filosofia, e quindi in qualche modo convogliò in quest’ultima disciplina una serie di preziosi punti di vista che sono presenti entro la formazione ed esperienza medica; 2) lo sforzo fatto da Jaspers in quest’opera fu, almeno a nostro avviso, quello di relativizzare fortemente le aspirazioni della filosofia moderna ad una «riduzione trascendentale»; il che avvenne sulla base del suo ricorso ad una psicologia che non è però affatto quella empirica, ma invece vuole essere realmente una «scienza fondamentale» con l’ambizione di portare ordine non solo nella scienza in generale ma anche nella stessa filosofia. Anzi, come vedremo più avanti, essa venne di fatto considerata da Jaspers come una vera e proprio nuova filosofia; e precisamente una filosofia non scientifica. Ad essa poi corrisponde una Fenomenologia sostanzialmente “ermeneutica” , che per questo motivo va considerata in sostanziale linea con le tesi di Heidegger
E va qui subito precisato che la tesi di Jaspers è tutta incentrata sul ricorso alla psicologia (invece che alla filosofia) – sebbene profondamente rivista (secondo quanto vedremo più avanti) – come risorsa per ottenere uno sguardo davvero omni-comprensivo e fondante sulla totalità delle forme di conoscenza umana.
Quest’ultimo aspetto ci sembra si presti perfettamente in primo luogo ad emettere un giudizio di valore complessivo sulla primaria ambizione della Fenomenologia husserliana (e conseguentemente della stessa Fenomenologia steiniana), e cioè quella di fondare una scienza filosofica che sia in grado di offrire un solido fondamento alle scienze empiriche. Inoltre, nell’ambito di tale atto critico, ci sembra che l’aspetto appena menzionato si presti perfettamente a relativizzare l’aspirazione della Fenomenologia husserliana a costituire di fatto l’unica prospettiva di tipo «fenomenologico» che fosse disponibile in quel tempo per portare a compimento l’ambizione appena menzionata. Orbene, tenuto conto dell’evidente sforzo steiniano di distanziarsi dagli stretti limiti della Fenomenologia husserliana (pur restando comunque ad essa nel complesso fedele) – sforzo decisamente testimoniato dal suo approdo ad una metafisica religiosa sempre più mistico-contemplativa che certamente non era prevista nel pensiero di Husserl –, e tenuto conto anche del fatto che parte di questo sforzo puntava verso un realismo filosofico-metafisico anti-idealistico (che intanto la approssimò fortemente ad altre forme di Fenomenologia come quella di Max Scheler) , ci sembra estremamente opinabile che nella visione steiniana vi siano non pochi elementi per il possibile (o almeno tendenziale) intento di allargare l’intendimento di Fenomenologia ad un ambito molto più ampio di quello contrassegnato dalla dottrina di Husserl. Ed in effetti la lettura della menzionata opera di Jaspers ci ha offerto molti indizi in tal senso, unitamente però anche ad elementi che relativizzano lo stesso intendimento steiniano di Fenomenologia.
In conclusione va detto che anche altri Autori (vedi nota 14: Moran) hanno preso in considerazione la possibile approssimazione tra la Stein e Jaspers; sebbene (per quanto ne sappiamo) non vi sia traccia di un’eventuale frequentazione tra i due pensatori (diversamente da quanto avvenne invece con Husserl).
Per questo motivo, dunque, la nostra ricerca sembra avere un suo preciso fondamento

I- Jaspers e Stein in generale.
Pertanto – al netto di queste considerazioni introduttive – una volta esclusa l’ipotesi improponibile di una prossimità Stein-Jaspers che sia in contraddizione con la ben più comprovata prossimità Stein-Husserl –, speriamo che il confronto del pensiero steiniano con le osservazioni fatte da Jaspers ci possa permettere perlomeno di collocare la visione della nostra pensatrice in uno scenario (storico-filosofico e dottrinario) nel quale la Fenomenologia non venne affatto rappresentata solo da Husserl.
Per essere più precisi al proposito bisogna considerare quanto segue.
In primo luogo, a fronte della così decisiva iniziale formazione psicologica della Stein (a Breslau con Hönigswald), vi è da chiedersi se la pensatrice non avrebbe potuto considerare proprio Jaspers (a quel tempo attivo come docente ad Heidelberg) come suo punto di riferimento filosofico qualora lei non avesse invece già scelto di rivolgersi ad Husserl a Göttingen. E vedremo poi che per questo vi sono sostanziosi indizi se si considera quale posizione assunse Jaspers, come fenomenologo, di fronte a concetti come quello di un «mondo fuori di noi».
In secondo luogo – a fronte della perenne diatriba circa la perdurante filosoficità e fenomenologicità del pensiero steiniano in fase mistica – Jaspers appare essere l’unico (in campo filosofico) che offra gli strumenti per un giudizio davvero imparziale e oggettivo sulla natura del pensiero steiniano in questa fase. Questo perché la mistica viene da lui classificata psicologicamente e non invece filosoficamente, cioè al di fuori di qualunque anche minimo residuo di inderogabile giudizio critico demolitorio ed esautorante. Anticipando in parte il commento a quanto afferma il nostro pensatore , ricordiamo qui che egli non sembra vedere alcuna difficoltà nel considerare il Dio della mistica come un legittimo oggetto di conoscenza, sebbene esso non abbia nemmeno minimamente i crismi di ciò che Husserl considerava come un ragionevole oggetto di conoscenza (in quanto esistente sebbene solo come oggetto mentale). In base a ciò possiamo dunque dire che, tenendo presente quanto dice Jaspers, possiamo considerare con una molta maggiore libertà, equanimità e fedeltà quel distanziamento della Stein da Husserl che intanto (a nostro avviso) emerge in maniera così oggettiva nel seguire il percorso del lei pensiero. E che però la critica mainstream si ostina così dogmaticamente a negare o relativizzare.
Il terzo luogo va considerato che la relativizzazione della filosofia alla psicologia emerge con estrema chiarezza laddove Jaspers discute le aspirazioni metafisiche che sono sempre state proprie della filosofia, ossia l’aspirazione di quest’ultima disciplina all’Assoluto come rappresentazione e spiegazione ultima dell’Essere . E qui diviene chiaro anche quale sia la Fenomenologia che da lui viene concepita (incentrata com’era nella psiche, o anima e mente, e non invece nella coscienza filosoficamente definita). Con tutto ciò impallidiscono decisamente le aspirazioni al trascendentale di Husserl, e conseguentemente la sua Fenomenologia viene fortemente relativizzata nelle sue più assolute aspettative. Jaspers sembra infatti considerare la psicologia filosofica (e non la pura filosofia) come l’orizzonte davvero ultimo per la comprensione del senso delle cose. Tanto è vero che pare egli considerasse la PWA come una “struttura trascendentale” della psiche umana . E con ciò va intesa quella naturale e generale tendenza a produrre una “Weltanschauung” (WA) sulla quale riposa poi qualunque tipo di personale visione del mondo (che essa sia fisiologica o patologica). Come tale si tratterebbe quindi di quell’”a priori esistenziale” (che riscosse l’incondizionato plauso di Heidegger), con il quale va intesa una dimensione psicologica inscindibilmente legata alla dimensione esistenziale del singolo soggetto, ossia al suo specifico modo di «essere al mondo».
Il che poi è molto diverso da un Io trascendentale astratto, universale e collettivo; che si pretende travalichi il fattuale Io psicologico in quanto Io-esistente. Orbene, almeno in questo senso, va riconosciuto che in definitiva la Stein davvero restò sempre all’ombra di certe aspirazioni husserliane. Infatti, anche nella fase mistica del suo pensiero, le sue aspirazioni filosofiche restarono in continuità con la complessiva tendenza filosofica ad avere l’Assoluto come proprio oggetto. E speriamo di poter dimostrare questo attraverso l’analisi testuale che faremo più avanti.
La questione che affrontiamo in questo articolo non è quindi quella del se la Stein fu eventualmente più prossima a Jaspers che non ad Husserl (specie nel suo pensare metafisico). La questione è invece, semmai, quella del se la sola Fenomenologia di Husserl (specie a causa del suo atteggiamento verso la metafisica) possa davvero esaurire completamente la collocazione del pensiero steiniano entro un orizzonte che intanto vide anche ben altre prese di posizione di tipo fenomenologico. E nel caso di Jaspers si tratta di una presa di posizione fenomenologica che rende plausibile proprio un percorso metafisico e mistico che travalichi nettamente i limiti della filosofia.
Ma proprio questo fu ciò che accadde (almeno a nostro avviso) allorquando la Stein – dopo il momento più maturo della sua riflessione filosofico-religiosa (corrispondente alla seconda metà di Endliches und ewiges Sein, EES) – si rivolse decisamente verso un pensiero che aveva come proprio primario oggetto più la mistica che non la filosofia. Ammesso dunque che in questa fase ella restasse comunque nel contesto di un pensare fenomenologico, non è però più affatto sufficiente (per spiegare questo) una Fenomenologia che restava comunque entro i più stretti limiti della filosofia. Quindi inserire anche Jaspers nel complesso e multiforme scenario della Fenomenologia del tempo in cui operò la Stein ci aiuta ad osservare il di lei pensiero in maniera molto più oggettiva; sfuggendo così peraltro anche al piuttosto ozioso problema (spesso astioso e fazioso) del suo ininterrotto e diretto rapporto di continuità con Husserl. In effetti (che sia stato in maniera positiva o negativa, diretta o indiretta, esplicita o implicita) sembra proprio che il pensiero steiniano si lasci relazionare di fatto con tutte le forme di Fenomenologia del tempo.
E a noi sembra che esso possa venire debitamente compreso solo tenendo conto anche di questo.
Si tratta insomma di una dovuta relativizzazione e sdrammatizzzazione della questione della sua continuità con il pensiero di Husserl. Peraltro in questo stesso capitolo (vedi nota 8) Jaspers relativizza fortemente l’intero percorso filosofico al quale si rifecero Husserl ed anche la Stein (almeno prima della sua fase mistica), definendolo come “panlogismo” o “razionalismo” (la presunzione che lo Spirito o Logos o Ragione sia l’origine della realtà) e considerandolo affatto autenticamente e veritieramente filosofico ed oggettivo ma invece appena relativo e soggettivo.
Pertanto diremmo che nel complesso, tenendo in considerazione anche Jaspers (e non solo Scheler o magari lo stesso Heidegger) nella valutazione complessiva del pensiero steiniano, può venire colta l’occasione di collocare la pensatrice nella corrente di un pensiero fenomenologico para-husserliano che intravvide ben altre dimensioni dell’essere ed inoltre intravvide ben altri metodi per avere un approccio fondante alla conoscenza dell’essere ed infine alla coscienza. Nel caso di Jaspers si tratta di una psicologia che può venire considerata «fenomenologica», ossia una psicologia con i caratteri di una filosofia che aspira fortemente alla fondamentazione della conoscenza (e ciò con lo scopo primario di ritrovare il senso delle cose). Si trattò quindi di una filosofia interessata ad una amplissima visione globale dell’essere ed anche ad una sorta di (per così dire) «riduzione trascendentale». A nostro avviso si può considerare tale lo sforzo di riduzione della molteplicità di dottrine al fattore elementare- fondamentale che è rappresentato dalla tendenza del soggetto a sviluppare un punto di vista, e cioè una “visione del mondo” (“Weltanschauung”). Cosa alla quale corrisponde poi sempre puntualmente, al polo oggettuale, una relativa “immagine del mondo” (“Weltbild”). È evidente che, una volta postotutto questo, non ci si può aspettare alcuna visione filosofica del mondo che sia radicalmente omni-comprensiva e quindi assoluta, così come non ci si può aspettare più nulla da assolutizzazioni filosofiche del mondo nei termini di un idealismo o realismo. Ciò che Jaspers intende mostrarci (per mezzo del ricorso alla psicologia) è pertanto unicamente la collezione più sistematica possibile di tutte le possibili visioni soggettive del mondo, alle quali corrispondono poi le conseguenti immagini oggettuali del mondo stesso. Si tratta però evidentemente appena di una molteplicità di prese di posizione tutte relative e nessuna assoluta.
Ebbene, una volta delineato tale contesto, si può focalizzare con più precisione e cognizione di causa l’attenzione del critico sul superamento steiniano dell’idealismo husserliano nel contesto del famoso Excursus sull’idealismo trascendentale , e cioè l’individuazione di un legittimo mondo oggettuale esistente anche in assenza di coscienza, ossia un mondo esteriore indipendente che abbia i caratteri di un effettivo «mondo fuori di noi». Tale approdo filosofico-metafisico steiniano segnò un momento di svolta davvero cruciale, che senz’altro collocò la pensatrice nel versante più realistico della Fenomenologia del tempo – caratterizzato da svariati aspetti: le opinioni dei diversi discepoli che si erano opposti all’idealismo husserliano (tra i quali in particolare Hering e la Conrad-Martius), la tesi steiniana dell’approssimabilità della Fenomenologia all’onto-metafisica tomista (mai accettata da Husserl), le dottrine fenomenologiche divergenti come quelle di Scheler e Heidegger, ed infine forse anche alcuni aspetti del realismo proprio dell’onto-metafisica neotomista (rappresentata tra gli altri da quel Maritain che la Stein conosceva personalmente) . Ed al proposito va di nuovo tenuto presente che Jaspers fu molto vicino ad Heidegger . Jaspers però aggiunge elementi che permettono di gettare uno sguardo anche oltre questa classica contrapposizione idealismo-realismo che alla fine rischia di costituire uno scenario interpretativo non solo molto angusto ma alla fine dei conti anche piuttosto sterile. Idealismo e realismo sono infatti due posizioni filosofiche che, almeno in via di principio, contano entrambe su solidissimi argomenti. E pertanto la perenne lotta tra di esse non ha alcuna possibilità di vedere una fine.
Ebbene nulla più dell’insistenza del nostro pensatore sulla crucialità della presa di posizione soggettiva (senza la quale non vi sarebbe alcuna WA e quindi nemmeno alcuna filosofia) suggerisce in via di principio un idealismo filosofico. E quindi si potrebbe pensare che anche la sua Fenomenologia debba venire alla fine ridotta a tale elemento. Eppure non è affatto così, perché ciò sarebbe vero solo sul piano filosofico, ma non è affatto più vero sul piano psicologico. Dunque, proprio nel porre la psicologia prima della filosofia – e quindi affermando la crucialità della posizione soggettuale unicamentenei termini di un fattore di relativizzazione delle stesse prese di posizione idealistiche (in quanto esse costituiscono appena una delle tante tendenze conoscitive che sono implicate dalla del tutto naturale relazione tra soggetto ed oggetto comportata dall’esistenza di una mente, e come tale contemplata dalla psicologia prima ancora che intervenga qualunque sovrastruttura filosofica) –, Jaspers ci fa comprendere che l’idealismo non può affermare nulla di decisivo e di ultimo circa l’essere. Cosa che del resto è vera anche per il realismo.
Ecco allora che tutto quanto (in termini di conoscenza) viene prodotto dalla mente può venire osservato dal versante puramente soggettuale (come WA), oppure, con pari diritto, anche dal versante puramente oggettuale (come “Weltbild”; WB). Resta intanto vero che tutto ciò risale all’esistenza di un soggetto. Ma ciò avviene in ragione di una necessità puramente psicologica (l’esistenza indubitabile di una mente in quanto anima o psiche, con la sua struttura e la sua funzione) e non invece in ragione di una necessità filosofica, ovvero in ragione del riconoscimento (per via filosofica) di una sostanza (soggetto o oggetto) che spieghi l’essere in maniera ultima, ossia oggettivamente assoluta. Ed in tal modo decadono insieme idealismo e realismo, così come anche l’aspirazione tutta filosofico-fenomenologica husserliana ad una «riduzione trascendentale» quale metodo per mettere al sicuro la conoscenza.
Orbene, tenuto conto di tutto ciò, è evidente che la presa in considerazione di Jaspers permette di relativizzare non solo la complessiva Fenomenologia husserliana (con la sua impronta così idealistica) ma in via di principio anche quella steiniana (con la sua impronta tendenzialmente realistica). Tuttavia proprio per questo l’introduzione del fattore Jaspers dimostra anche che, nel giudicare globalmente il pensiero della nostra pensatrice, non si deve affatto guardare solo agli sforzi da lei compiuti a causa della sua insoddisfazione per l’idealismo husserliano, ma si deve anche guardare ad una sua presumibile tensione in direzione di una Fenomenologia ben più ampia. E probabilmente le vaste riflessioni svolte da Jaspers sulla metafisica – nel libro da lui esaminato in un capitolo specifico ma anche in scritti dedicati specificamente a questa disciplina – ci mostrano che nella fase mistica del suo pensiero la Stein giunse a toccare la riflessione su un “fenomeno” (l’Assoluto divino) che costituisce un’oggettualità mai ben comprensibile tanto nell’approccio idealistico quanto in quello realistico. Il che comporta poi anche un certo superamento del complessivo orizzonte filosofico della conoscenza dell’essere. Ed al proposito va detto che uno dei più grandi meriti di Jaspers (almeno in base allo studio dell’opera da noi analizzata) appare essere quello di aver mitigato tangibilmente gli effetti di quell’anti-psicologismo filosofico che anche la Stein aveva condiviso appassionatamente con Husserl.
Ebbene, proprio in tal modo Jaspers sembra aver portato ordine (nel contesto di una forte relativizzazione del valore della classica filosofia) in una serie di concetti e prese di posizione (organizzanti e classificanti) della disciplina che riguardano soprattutto la teoria della conoscenza. Dopo la sua opera noi sappiamo dunque molto meglio cosa possiamo davvero aspettarci dalla filosofia e cosa invece no. Su questa base, quindi, noi possiamo comprendere molto meglio quale fu (almeno tendenzialmente) la posizione della Stein, nella fase mistica del suo pensiero, non solo nei confronti della Fenomenologia ma anche nei confronti della stessa filosofia in generale.
Inoltre c’è da considerare che la riflessione di Jaspers introduce un elemento critico di forza davvero molto grande nel giudizio complessivo sul valore dell’approccio rigorosamente filosofico. Tale elemento consiste non solo nella relativizzazione delle aspirazioni della filosofia a fornirci un’immagine assoluta e conclusiva del mondo (e dell’essere), ma anche (e forse soprattutto) nell’affermazione della necessità di risalire dalla visione oggettiva del mondo esposta dal filosofo alle caratteristiche specifiche della sua personalità (in quanto origine di una presa di posizione soggettiva che deve essere giocoforza relativa). Una trattazione molto estesa e sistematica di questo aspetto può venire ritrovata laddove il pensatore analizza le visioni dei vari filosofi nella forma di –ismi, ossia prodotti di “tipi spirituali” (i filosofi stessi), a loro volta relativi alle visioni del mondo che essi hanno voluto affermare . Ebbene ciò (grazie ai precedenti studi medici e psicologici di Jaspers) non esclude ovviamente nemmeno il riconoscimento di una dimensione psico-patologica (o addirittura francamente psichiatrica) della presa di posizione attribuibile a quella determinata personalità di filosofo. Il che rappresenta poi un ulteriore fortissimo elemento di relativizzazione dell’effettivo apporto offerto dai singoli pensatori alla conoscenza del mondo e dell’essere.
Orbene, a noi sembra che non vi sia stato uno solo filosofo al mondo la cui visione non possa venire «giudicata» (e così inevitabilmente relativizzata nella sua oggettiva rilevanza) in base ad un’analisi psico-patologica della sua personalità . E tuttavia ciò vale in maniera ancora maggiore per Husserl.
E tuttavia ciò vale in maniera ancora maggiore per Husserl. Infatti, proprio inquadrando così dogmaticamente il pensiero della Stein in quello di Husserl, si tende a non considerare due aspetti oggettivamente piuttosto problematici del suo complessivo pensiero.
Il primo è l’introduzione (non facile da spiegare) di una tendenza idealistica in un metodo che inizialmente sembrava voler puntare ben più direttamente alla “cosa stessa” nella sua pienezza ontologica (“die Sache selbst”). Il secondo è un apparato di minuziosissime descrizioni delle strutture di coscienza (ossia di fatto della mente) che in termini analitici sono senz’altro di inestimabile valore, ma dall’altro lato rischiano di costituire anche un’immensa (e forse non del tutto utile) complicazione nello studio della mente. Cosa che vale senz’altro in primo luogo per il neurofisiologo e lo psicologo, ma in una certa misura vale anche per il filosofo. Il che viene poi testimoniato ben testimoniato dalle perplessità di pensatori di razza come Jaspers e Heidegger. Ciò che ne viene pregiudicato è infatti un vantaggioso sguardo d’insieme (invece che analitico) sulla mente umana. A mo’ di esempio di ciò ci sentiamo di menzionare quel Saggio sull’intelligenza umana di John Locke , che esamina la mente in una maniera senz’altro profonda ed esaustiva, ma intanto per mezzo di una limpidità e chiarezza di concetti e linguaggio che ci sembrano davvero esemplari.
Infatti, proprio inquadrando così dogmaticamente il pensiero della Stein in quello di Husserl, si tende a non considerare quella certa distorsione apportata dal pensatore tedesco nell’orizzonte filosofico universale per mezzo di una presa di posizione tendenzialmente idealistica ma intanto tendente comunque a realismo. Essa ha infatti creato una tangibile confusione di prospettive, non mancando inoltre di complicare in maniera forse non necessaria una materia già estremamente complessa attraverso una pletora estremamente farraginosa di concetti a tratti davvero molto pesante e perfino inestricabile. Non intendiamo in alcun modo negare il valore che hanno le osservazioni incredibilmente minuziose (e certamente geniali) di Husserl sulla mente umana e sul suo rapporto con le cose. E tuttavia, da un punto di vista meno interessato all’analisi dettagliata e più interessata invece allo sguardo di insieme (com’è del resto il punto di vista di Jaspers), esse rischiano di creare un apparato di conoscenze che si lascia incapsulare in una sacca che è in sé senz’altro in sé di grande valore (a causa della sua straordinaria ricchezza di contenuti) ma comunque resta una sacca. E così per certi versi essa rischia anche di costituire anche una troppo pesante e pleonastica zavorra.
A tale proposito va precisato che – sebbene inizialmente pare che Jaspers sia stato attratto entusiasticamente proprio dalla minuziosa “descrizione” husserliana dei contenuti di coscienza (per lui preziosa contraddizione del così riduttivo approccio puramente esplicativo della psicologia empirica) – la sua psicologia fenomenologica deve venire considerata anche un superamento di tale metodologia (come illustreremo meglio più avanti). Dunque essa deve venire intesa in fondo come una forte relativizzazione della descrizione mentale husserliana, e non invece come una sua applicazione. Non a caso, come vedremo più avanti, per Jaspers lo sguardo dell’Io rivolto verso sé stesso non è affatto fondante, ma invece non è in realtà altro che uno dei tanti fenomeni naturali della psiche. Esso è quindi un atto psicologico e non filosofico.
Detto questo vorremmo però chiarire che scopo di questo articolo non è affatto quello di sviluppare una polemica anti-husserliana, bensì semmai quello di mostrare (attraverso l’esempio della Stein nella sua relazione con una Fenomenologia che va perfino oltre quella husserliana) quali possano essere anche gli orizzonti molto lontani ed ampi di una Fenomenologia meno condizionata dalle ossessioni analitiche husserliane. Pertanto va detto anche che scopo di questo articolo non è quello di indagare gli scenari post-realistici (filosofia religiosa) del pensiero steiniano – come abbiamo fatto negli scritti precedentemente menzionati –, ma invece quello di restare in prossimità a ciò che effettivamente a lei provenne ancora da Husserl. E ciò in modo che il contributo di quest’ultimo ne resti comunque illuminato.

II- I riscontri testuali
Quanto abbiamo detto finora tocca gli aspetti generali che più ci interessava mettere a fuoco. Quindi in questa seconda sezione ci limiteremo a menzionare i luoghi testuali dell’opera di Jaspers nei quali è possibile trovare riscontro a quanto abbiamo già affermato. Per rendere questo compito più facile divideremo questa sezione in alcune sotto-sezioni dedicate ognuna ad aspetti specifici delle problematiche toccate da Jaspers e che riguardano secondo noi più o meno da vicino anche il pensiero della Stein (o spesso anche di Husserl).
Data però l’enorme ricchezza di spunti offerti dal testo jaspersiano dovremo limitarci a trattare solo le suggestioni più rilevanti e generali che da esso emergono.

II.1 Jaspers come fenomenologo e la Stein.
Sul ruolo giocato da Jaspers nella Fenomenologia non vi può essere alcun dubbio. In particolare egli conta come il fondatore dell’approccio fenomenologico-psichiatrico. Eppure questo suo ruolo tende da molti a venire ricondotto molto direttamente alle complesse analisi psicologiche e ontologiche che vennero condotte da Husserl . Naturalmente viene ampiamente attestata anche l’esistenza di altre fonti della psichiatria fenomenologica ed inoltre anche della visione di Jaspers stesso, e cioè Hegel, Dilthey e Heidegger . La nostra questione al proposito è però duplice. Da un lato l’analisi di PWA evidenzia elementi che già a prima vista distanziano non poco Jaspers da Husserl. Dall’altro lato gli stessi Autori che abbiamo poc’anzi citato attestano che, se è vero che Jaspers di rifece inizialmente ad Husserl, è anche vero che poi se ne distanziò quasi totalmente. Galimberti (p. 176-183) dice che Jaspers protestò con particolare veemenza contro l’intendimento husserliano di filosofia come “scienza rigorosa”. Ed in effetti deve essere stato davvero inaccettabile il fatto che Husserl abbia criticato così severamente la scienza (rivolgendo i suoi strali molto direttamente verso lo stesso “psicologismo” empirico-naturalista combattuto da Jaspers) per poi riabilitare pienamente la scienza facendola equivalere addirittura alla filosofia stessa. È evidente che in questo modo quel “comprendere” (“verstehen”), che aveva intanto sostituito lo “spiegare” (“erklären”) – mettendo così in primo piano il senso delle cose (e facendo così dei esse dei “fenomeni”) –, finiva in tal modo per perdere molta della sua forza, rischiando addirittura di venire abolito nel suo ruolo e valore.
Ecco che Galimberti menziona il fatto che la forte delusione provata da Jaspers verso Husserl (proprio dopo che quest’ultimo aveva letto ed approvato PWA) si lascia riassumere nel fatto che la husserliana “visione dell’essenza” (“Wesenschau”) cominciò ad apparirgli nel complesso un deplorevole “vedere indifferente” (quindi affatto attento al senso). E questo apparve ad Jaspers come un vero e proprio “pervertimento della filosofia”; laddove è evidente che con questo egli intendeva anche una Fenomenologia tutt’altro che soddisfacente. Successivamente (in seguito alla vera e propria rottura che avvenne tra i due a Göttingen nel 1913) il pensatore accentuò ancor più il suo giudizio critico su Husserl, ritenendolo incapace di capire “cos’è la filosofia” ed anche responsabile di un vero e proprio “tradimento” della disciplina. Il che trova poi riscontro nel fatto che Heidegger, nello scrivere una recensione su PWA, ritenne che Jaspers aveva in quel testo denunciato un “fallimento della filosofia” proprio nell’atto di scoprire una “psicologia più principiale”, incentrata nella realtà dell’esistenza e lontana quindi dalla realtà del puro pensiero. Da tutto questo emerge anche quanto sia opinabile che per il pensatore la psicologia venne intesa come una vera e propria filosofia, e più precisamente come una “psicologia comprensiva” radicalmente opposta a quella “esplicativa” (ossia quella meramente empirico-naturalista, e quindi riduzionista).
Il Biondi spiega in maniera ancora più precisa la differenza tra i due pensatori. Egli dice infatti che, se per Husserl i vissuti di coscienza furono appena un mezzo per giungere ad una filosofia fondamentale con l’aspetto di una Fenomenologia (dove è primario il senso della cosa e non la cosa stessa), invece per Jaspers i vissuti costituirono la Fenomenologia stessa. E con ciò abbiamo davanti a noi quella psicologia (primaria rispetto alla filosofia) che è emersa nell’opera jaspersiana da noi esaminata.
Non vi è lo spazio in questo articolo per esaminare oltre la letteratura circa la relazione tra i due pensatori. Per cui, prima di passare all’analisi testuale, diremo solo che ci sembra abbastanza superficiale ed illegittima la tendenza di alcune scuole e di alcuni studiosi a considerare Husserl (anche grazie all’intermediazione di Jaspers) come il padre dell’attuale psichiatria fenomenologica. E vorremmo esporre la nostra perplessità al proposito con la seguente domanda: – posto che Jaspers (in quanto medico e psichiatra) è stato di fatto il più legittimo fondatore della psichiatria fenomenologica, e posto inoltre che il suo pensiero non coincide affatto con quello di Husserl, come si può sostenere che proprio a quest’ultimo vada invece fatta risalire l’intera psichiatria fenomenologica?
Jaspers dal canto suo esprime oggettivamente in PWA delle opinioni che lo rendono abbastanza lontano da alcuni concetti fondanti della Fenomenologia husserliana. Quando discute la presa di posizione contemplativa , quest’ultima viene equiparata ad un “puro pensiero” il cui presupposto fondamentale è la ”distanza” dalla realtà, e quindi anche l’assenza di “interesse” per gli oggetti del mondo. Il che, per il nostro pensatore, annulla di fatto ogni possibilità effettiva di conoscenza. Questo perché si tratta appena di una conoscenza soggettuale e non invece oggettuale (definita come “ontologica”) – essa concepisce pertanto l’oggetto unicamente nel modo in cui esso viene visto dal soggetto, e non assolutamente nel modo in cui esso esiste effettivamente (in maniera totalmente indipendente dal soggetto e della sua coscienza). Oltre a ciò tale forma di conoscenza viene considerata per definizione appena relativa, dato che si tratta solo di una tra le tante possibili WA. Ebbene ci sembra che qui venga posto seriamente in discussione il metodo fenomenologico proposto da Husserl. E precisamente in tre modi: – 1) il distacco teoretico dall’oggetto (praticato nell’epochè e nella riduzione trascendentale) non solo è l’esatto contrario di una conoscenza oggettuale ma è perfino come tale del tutto inefficace; 2) l’oggetto puramente interiore (o oggetto di coscienza) , una volta isolato dal contesto sensibile, non ha assolutamente nulla a che fare con l’oggetto reale e quindi non è affatto un’unificazione di quest’ultimo per mezzo dell’intuizione essenziale ; 3) tale forma di conoscenza è ben lungi dall’essere fondante, in quanto non è per nulla assoluta ma è invece solo relativa. Da tutto ciò appare chiaro che il “fenomeno” deve essere stato per Jaspers qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quello concepito da Husserl. Come può dunque la Fenomenologia del primo essere in continuità con quella del secondo? Naturalmente ciò coinvolge anche le convinzioni espresse dalla Stein nella prima metà della sua opera. C’è però da chiedersi se ella non si sia spostata progressivamente verso una posizione simile a quella di Jaspers slittando poco a poco verso una vera e propria “conoscenza ontologica”, ossia una conoscenza che prevedeva sì ancora il metodo dell’epochè ma comunque appariva alla pensatrice impossibile in assenza del riconoscimento di un mondo oggettuale esteriore totalmente indipendente dalla coscienza. E ciò avvenne proprio nel contesto del già citato Excursus. Ciò potrebbe quindi significare che questo percorso di pensiero steiniano non si mosse soltanto sotto l’egida dell’aspirazione ad un realismo anti-idealistico, ma anche sotto l’egida della messa in discussione della Fenomenologia così come venne instancabilmente concepita da Husserl.
Ne consegue che la Stein deve essersi in quel momento trovata davanti al “fenomeno” nella forma di quell’oggetto definito da Jaspers come “immanente” (laddove quello “trascendente” sarebbe invece di esclusivo interesse psicologico e quindi privo di qualunque connessione con la realtà sensibile), che sembra avere le caratteristiche di una sorta di oggetto pre-cartesiano, e quindi sarebbe lontanissimo dall’oggettualità così come venne concepita da Husserl. E a tale proposito va sottolineata la netta opposizione (secondo Galimberti) di Jaspers al dualismo cartesiano. Il che ci porta a chiederci come avrebbe mai potuto il suo pensiero coincidere con quello di Husserl, che era invece così manifestamente di ispirazione cartesiana. Non a caso, come poi vedremo, Jaspers deplorò fortemente la dottrina filosofica della separazione filosofica tra soggetto ed oggetto (e cioè tra anima e corpo-mondo).
Del resto ovunque nel testo jaspersiano la “Anschauung” (percezione, esperienza ed anche osservazione) viene considerato non solo il presupposto indispensabile di un’effettiva conoscenza ma anche il segno di una conoscenza di sicura efficacia com’è l’intuizione . Del resto proprio nel passo che stiamo discutendo (vedi nota 23) Jaspers afferma che l’intuizione va equiparata ad una vera e propria “intenzione”. Quindi è proprio grazie ad essa che avviene la conoscenza della pienezza dell’oggetto esteriore.
Come abbiamo già accennato, un momento davvero rilevante di divergenza di Jaspers da Husserl sta poi nel modo in cui egli definisce il WB di tipo metafisico, ossia il mondo metafisico . Quello che a lui sembra più concreto e vivibile è il mondo metafisico che viene considerato come la Totalità in cui viviamo e che da ogni parte ci circonda; pur non essendo affatto un oggetto sensibile, e quindi costituendo senz’altro un oggetto sovrasensibile ed un Assoluto. Ebbene questa Totalità è secondo lui l’insieme co-ordinato entro il quale soltanto le singole entità acquistano un senso; dato che altrimenti esse sarebbero solo una caotica congerie. Ma questo è esattamente il mondo nel quale noi come uomini-esistenti siamo immersi totalmente. E quindi questa sua intelligibilità contraddice molto stridentemente ciò che la Stein osserva sulla scorta di Husserl introducendo alla Fenomenologia come fondamentale filosofia – e deplorando proprio quell’immersione nelle cose sensibili che ci impedirebbe di avere la distanza teoretica senza la quale è impossibile una conoscenza affidabile. E ciò riguarda poi la contraddizione jaspersiana del concetto di “ingenuità” naturale (sostenuto dalla Stein di concerto con Husserl) sul quale non possiamo però soffermarci, per cui citeremo qui solo i luoghi testuali in cui può venire ritrovato .
Va però anche detto che, se Husserl rimase sostanzialmente su queste posizioni (nonostante tutte le sue approfondite riflessioni sull’hyletica), il pensiero della Stein si allontanò progressivamente da una visione così rigida. Ecco allora che ancora una volta, grazie ad Jaspers, la scoperta steiniana di un «mondo fuori di noi» può assumere non solo una valenza realistica ma anche la valenza di allargamento del campo di riflessione della Fenomenologia. Del resto in un suo articolo ella parlò proprio di questo, e cioè della Fenomenologia come “Weltanschauung”, nel menzionare Scheler e Heidegger ma senza chiamare in causa Jaspers
Le cose divengono però ancora più chiare nel passo immediatamente successivo, nel quale Jaspers affronta quel particolare genere di metafisica che si associa alla filosofia anche quando non sembrerebbe che sia così . E con ciò torniamo alla valenza contemplante di quello che per lui è appena “puro pensiero” ma non è invece effettiva conoscenza. Ecco che noi ci troviamo con ciò di fronte ad una vera e propria metafisica filosofica (o filosofia metafisica), che però si presenta a noi come la filosofia per eccellenza, e cioè quella che affida l’indagine sull’Assoluto al solo puro pensiero. Più in particolare si tratta di quella tendenza conoscitiva che è costantemente alla ricerca di WB assoluti e totalizzanti per mezzo dei quali fornire un’interpretazione completa ed esaustiva del mondo nella sua natura, secondo la specifica sostanza che viene riconosciuta come il suo fondamento (materia, spirito, divenire, etc.). Si tratta insomma dei vari –ismi per mezzo dei quali la natura del mondo viene definita. E questo è ciò che fa anche la scienza, sebbene l’aspirazione all’Assoluto renda l’indagine comunque tipicamente filosofica. Il problema è però secondo Jaspers sempre lo stesso – queste visioni pretendono dogmaticamente di essere oggettive, ma invece sono sempre soltanto soggettive, e ciò in quanto si tratta appena di WA tra le tante. Non solo, ma in questo caso esse sono costruzioni di puro pensiero astratto, che non si basano in realtà su alcuna esperienza. Ecco allora che ne scaturiscono delle teorie che hanno la valenza di vere e proprie “mitologie”. E di esse vi è traccia perfino in medicina (come nel caso dell’interpretazione meramente cerebrale della mente, secondo Wernicke). Proprio in tale contesto Jaspers riconosce però un “errore” tipico della filosofia, che a nostro avviso può venire (almeno in parte) ascritto anche alla Fenomenologia husserliana, e cioè la presupposizione di un incolmabile jato tra soggetto ed oggetto; laddove invece per la psicologia (in nome della quale parla il nostro pensatore) tra i due termini c’è una del tutto naturale continuità. La conseguenza di tutto ciò è che mentre il filosofo tende a vedere nel soggetto (quanto più distaccato possibile dall’oggetto) la garanzia di una conoscenza affidabile, lo psicologo invece sa che con ciò non si fa altro che forgiare una visione soggettiva dell’oggetto o del mondo, ossia una WA tra le tante che mette poi capo ad un WB tra i tanti. Una presa di posizione così relativa non può quindi avere alcuna speranza di ricostruire l’unità oggettiva del mondo. Cosa per cui lo psicologo (esattamente come fa lo stesso Jaspers lungo tutto la sua opera) si limita a raccogliere tutti i molteplici e relativi WB che stanno in relazione con le altrettanto relative WA prodotte dai filosofi. Si vede bene, dunque, che non vi è qui alcuno spazio per riconoscere un possibile vero atto di riduzione trascendentale da parte della filosofia. Vi è però la possibilità di vedere proprio nella psicologia lo scenario trascendentale nel quale rientra anche la stessa filosofia, venendone così riassorbita e notevolmente relativizzata nelle sue aspirazioni. In particolare il pensatore parla qui della PWA come di un “pensiero del pensiero”, e quindi anche come vera e propria “scienza fondamentale” (ossia una scienza fondante). Ed esso è tale perché indaga le forme del pensiero che possono potenzialmente insorgere nella psiche (o anima) umana e non invece nella coscienza filosoficamente intesa.
Ebbene è esattamente in questo modo che a nostro avviso Jaspers si pone come fenomenologo. Ed è facilmente possibile vedere che in tal modo la sua Fenomenologia non converge affatto con quella di Husserl. Tra l’altro (come abbiamo già detto) proprio qui emerge in Jaspers la suggestione che ci porta a pensare ad una possibile «psichiatria della filosofia» (o anche «psichiatria della personalità del filosofo». Infatti in ogni WB traspare la particolare psicologia del filosofo che lo ha forgiato. Il che significa ancora una volta che l’oggettualità di quel WB ne risulta fortemente svalutata e ridotta.
A tutto ciò va aggiunta un’altra forte critica mossa da Jaspers alla filosofia (partendo dalla psicologia), e cioè il giudizio emesso sulla tendenza costante dell’intera disciplina (da Parmenide, per Spinoza, fino ad Hegel) a costituire un “panlogismo” o “razionalismo”. Secondo il quale il Logos, o Ragione, o Spirito, va considerato come l’autentica origine di ogni realtà. E bisogna ammettere che sia Husserl che la Stein ricadono senz’altro in questo ambito, dato che per essi il mondo esiste d fatto solo se viene conosciuto.
Vi sono però anche luoghi in cui la Fenomenologia di Jaspers sembra collimare abbastanza bene con quella di Husserl. Avviene ad esempio laddove egli chiarisce cos’è l’”osservazione psicologica” (“psychologische Betrachtung”) . Si tratta di un atto conoscitivo-esperienziale che è sostanzialmente diverso da quello filosofico ed anche da quello scientifico. Proprio per questo esso è genuinamente “psicologico”. E tuttavia esso è un atto fondamentale nella sua capacità costitutiva, perché ci restituisce il mondo tipicamente prodotto dalla WA, ovvero un mondo che esiste unicamente in funzione del soggetto che lo produce (ed ha caratteristiche specifiche a seconda del genere di specifica WA). Si tratta in particolare di quanto Jaspers ci mostra come un mondo sostanzialmente umano, ossia l’orizzonte locale di esperienze che ognuno di noi considera spontaneamente (ma anche ingenuamente) come il mondo nella sua totalità, sebbene esso sia appena una parte molto ristretta del mondo, ossia il piccolo luogo o ambito (spaziale e temporale) in cui noi trascorriamo la nostra esistenza. Si tratta di ciò che Jaspers definisce come il nostro proprio “mondo domestico” (“Gehäuse”) E ci sembra che questo concetto possa essere fortemente approssimato al concetto heideggeriano di “radura dell’essere” (“Lichtung”) . Jaspers sta insomma qui affermando che il mondo oggettuale è in realtà costituito dal soggetto. Ed in tal modo egli assume una posizione molto simile a quella assunta da Husserl (con il pieno consenso della Stein) nella seconda parte delle Idee nel contesto della dottrina della costituzione . Almeno in questo senso le Fenomenologie dei due pensatori non possono che convergere. In altre parole anche Jaspers sta qui ponendo in primo piano criteri soggettivi come il «proprio» ed il «quoad nos» come decisivi per affrontare il problema dell’essere. Ed anche a tale proposito va sottolineata l’importanza della riflessione steiniana più prossima all’idealismo trascendentale di Husserl .
Non possiamo però dimenticare che Jaspers sta parlando qui di psicologia e non di filosofia.
Di certo proprio in questa sede egli si oppone con forza all’ingenuità tipica della psicologia empirica, la quale dà acriticamente per scontato il mondo colto dai sensi (convergendo così anche in questo con Husserl nella reazione allo “psicologismo”) . Ma sembra che, ricorrendo alla psicologia e non alla filosofia, Jaspers ci voglia dire che tale ingenuità non è affatto solo dell’uomo comune (chiuso nel suo piccolo mondo) e dello psicologo empirico, ma è anche del filosofo. E ciò è vero perché, stando a ciò che lui dice, anche l’atto di purificazione dell’esperienza per mezzo dell’epochè risulta in definitiva del tutto inutile conoscitivamente dato che inevitabilmente anche il filosofo dedito a questo atto è un uomo chiuso nel piccolo mondo umano che egli invano ritiene riscattato dall’atto di distacco teoretico dall’esperienza sensibile. E ciò ci riporta molto suggestivamente ai luoghi testuali in cui la Stein finisce per riconoscere che anche lo stesso Io trascendentale in ultima analisi non è altro che un esistente, ossia è pienamente appena un “Io psicologico” . In altre parole il pensiero della Stein sembra sfociare anche a tale proposito in un ordine di pensieri nel quale, oltre che di un realismo onto-metafisico, ne va dell’affermazione del primato dell’esistenza su ogni costrutto filosofico che cerchi di relativizzarne l’importanza. E ciò, oltre che ad Heidegger, ci riporta peraltro ad un’orizzonte filosofico ancora più ampio, che è quello rappresentato dal concetto di «in-mondo» indagato da Sartre e Merlau-Ponty .
Un’ulteriore momento di convergenza della Fenomenologia di Jaspers con quella di Husserl e della Stein è quello in cui egli parla delle caratteristiche proprie del WB “animico-culturale”, ossia quello incentrato sulla WA di tipo riflessivo (o auto-riflessivo), e cioè quella che ha come proprio oggetto il Sé umano (interiorità) e non invece l’oggetto esteriore . In questa sede infatti la riflessione del pensatore assomiglia in molti punti alle conclusioni alle quali giunse la Stein alla fine della sua indagine sulla psicologia, mettendo così in evidenza un mondo umano-culturale che ha le caratteristiche di un vero e proprio “spirito oggettivo” .
E questa riflessione collimò peraltro con quella di Husserl circa la relazione inscindibile tra l’hyletica (il mondo della cieca materia) e l’edificio culturale su di essa eretta dall’intelletto umano . Jaspers insomma ci mostra che accanto al “mondo sensibile” vi è un “mondo culturale” che rappresenta un’oggettualità non meno esperibile. Oggettualità che viene esperita proprio mediante il rivolgersi del soggetto verso sé stesso invece che verso il mondo esteriore. E ciò avviene nonostante il fatto che l’interiorità umana (cioè il Sé) sia di fatto un nulla ontologico, e quindi sia una solo metaforica oggettualità nel contesto dell’atto intellettuale auto-riflessivo. Ancora una volta però non possiamo dimenticare che l’impianto complessivo dell’opera jaspersiana si basa sull’affermazione del primato assoluto della dimensione conoscitivo-esperienziale psicologica su quella filosofica – riflessione della quale forniremo qui i riferimenti testuali senza poterci addentrare in essa . Ciò significa quindi che in tale contesto l’atto di auto-riflessione non equivale affatto all’atto (sostanzialmente filosofico) fondante l’essere, lungo un percorso che è lo stesso della riduzione trascendentale (ossia il rivolgersi dello spirito verso sé stesso per riconoscersi come l’unico luogo in cui l’essere esteriore trovi una forma compiuta). Ed in ciò va detto che Jaspers mette fuori gioco anche la ponderosissima riflessione condotta da Stein su questo aspetto proprio nella fase più matura della sua onto-metafisica, ossia in EES . Il richiamo di Jaspers ad un atto sostanzialmente psicologico (e non filosofico) ci ricorda ancora una volta che esso sarà magari anche fondante, ma appena nella veste di una tra le tante WA che sono alla portata della psiche (o anima o mente) umana. Ponendo in evidenza tale atto noi non abbiamo dunque fatto altro che descrivere una delle tante possibilità di conoscenza del mondo da parte dello spirito. Ma non abbiamo invece affatto messo al sicuro per sempre la conoscenza del mondo stesso.
A ciò va solo aggiunto che proprio in questo passo Jaspers precisa che uno dei più bassi mondi esperiti dall’uomo per questa via è quello “immediato”, ossia il mondo vissuto ma non ancora compreso. E questo è per lui (così come per Husserl e Stein) il mondo di una deplorevole ingenuità che senza dubbio attende di venire riscattata. Ed il riscatto consiste per lui (sempre in concordanza con la Fenomenologia husserliana) nella consapevolezza del “mondo dell’altro”. Solo con quest’ultimo, infatti, si può parlare di un’autentica conoscenza. Il che avviene per mezzo del riconoscimento di un’oggettualità (che sta davanti al soggetto, ovvero un “Gegenstand”) che non insorgerebbe mai se essa non venisse riconosciuta anche dall’altro. Stiamo insomma parlando della dottrina husserliana dell’inter-soggettività.

II.2. Il processo della formazione del mondo e dell’auto-formazione spirituale.
Nel pensiero di Edith Stein quello della formazione e dell’auto-formazione è un tema costante ed inoltre affrontato in maniera nel tempo sempre più nuova e ricca, nel corso dello sviluppo dell’opera in direzione di una franca metafisica religiosa. All’inizio la riflessione steiniana al proposito restò sostanzialmente all’ombra delle convinzioni espresse da Husserl, specie nella seconda parte delle Idee con la sua complessiva dottrina della costituzione. Ed in questo caso si tratta in primo luogo della formazione del mondo materiale da parte dello spirito umano in quanto Io intellettuale e razionale. Successivamente però (a partire dall’intensificarsi della vita religiosa associato all’incontro con il tomismo) la Stein iniziò a pensare da un lato ad una formazione di più ampio respiro (la formazione del caos materiale mondano da parte dello Spirito o Io divino) e dall’altro lato ad un’auto-formazione dell’uomo ad ente intellettuale-spirituale che ricalcava (in termini metafisico-religiosi e teologici) il percorso della «riduzione trascendentale» (in quanto atto del ripiegarsi dell’Io su sé stesso nell’osservazione del flusso dei suoi vissuti). In questo atto la Stein iniziò a vedere (rifacendosi intanto ormai non più a Tommaso alla grande tradizione agostiniana della riflessione sull’«Io sono» dell’Esodo, ovvero la principale affermazione di Dio sulla propria identità) il prototipo dell’auto-conoscenza e dell’auto-coscienza. Ossia le vie per mezzo delle quali l’uomo si riconosce come Io intellettuale-spirituale e quindi afferma la propria identità ed insieme natura spirituale, elevandosi così (con l’intermediazione dell’anima) sul corpo e sulla materia mondana. Questa complessiva riflessione iniziò nella seconda metà di Potenz und Akt (PA) e poi si prolungò in EES raggiungendo il culmine nella seconda metà di quest’opera .
A tale proposito (senza però poter scendere troppo in dettaglio) c’è da dire che Jaspers semplificò e snellì alquanto il concetto di auto-formazione unito poi inestricabilmente a quello di auto-riflessione (invece visto in maniera così complessa sia da Husserl che dalla Stein) . Egli infatti constatò che non vi è alcun risultato se al semplice «trovarsi davanti a sé stesso» non si aggiunge anche il “volersi”, e precisamente l’accettarsi esattamente come si è. Il che svincola pragmaticamente il processo di auto-formazione dal peso di qualunque ideale pregiudiziale da raggiungere, e quindi da qualunque ipoteca etica ed etico-religiosa. Cosa che oggettivamente relativizza non poco (almeno dal punto di vista di Jaspers) le così dense congetture steiniane su questo tema. Per il nostro pensatore l’atto di formazione è pertanto concreto, vitale e fattuale al massimo grado, dato che consiste appena nel ricongiungersi con la personalità che si è davvero autenticamente. Questo processo non ha quindi assolutamente nulla di teoretico e intellettuale né ha assolutamente nulla di metafisico-religioso (come nel contesto delle dottrine che teorizzano la naturale razionalità dell’uomo quale Io-Spirito in seguito al dono divino). E quindi tale processo non equivale né alla propria auto-formazione come «Io» (intellettuale-spirituale) né tanto meno al raggiungimento dell’auto-coscienza. Va da sé che in tal modo si tratta di un formarsi come “persona” che per Jaspers è totalmente diverso da quello sostenuto dalla Stein. Per cui non mette conto assolutamente parlare di questo aspetto nel quale i due pensatori sono così radicalmente diversi. Diremo quindi solo che la pienezza dell’auto-formazione si raggiunge per Jaspers nelle cosiddette “nature plastiche” (e non invece nelle nature ascetiche, rappresentate dal “santo”), ossia quelle che vivono avendo solo sé stesse come scopo. Qui la sua presa di posizione esprime una certa adesione al titanismo nietzschiano. Ma comunque non è su questo verte il nostro articolo.
Intanto non vi è alcun dubbio che, sia per Husserl che per Stein, questa complessiva dinamica equivale alla formazione razionale del caos mondano, che a sua volta (in termini teoretico-conoscitivi) corrisponde alla trasformazione dell’ente mondano in ente conosciuto, e quindi tanto oggetto di coscienza quanto oggetto dotato di senso. Ancora una volta ci troviamo dunque qui di fronte all’intendimento della cosa come “fenomeno”. Jaspers invece parla molto poco di spirito (se non piuttosto criticamente, e cioè negli usuali termini riduttivi impiegati in filosofia per definirlo). Egli parla invece continuamente ed intensivamente di “anima” (identificata con la mente in quanto psiche, e quindi entità ben più che naturale) vedendo in essa il centro motore dal quale si irradiano tutte le possibili WA ed i conseguenti relativi WB. E vede la formazione del mondo da parte dello spirito umano proprio nella relazione esistente tra anima, WA ed infine WB, ovvero le immagini del mondo che l’uomo si crea al solo scopo di poter esistere in esso. Tuttavia, pur annoverandola tra i vari possibili WB, egli esprime una certa sfiducia nella presa di posizione razionalistica (incentrata com’è proprio nella forza formatrice del pensiero) colta nella sua attitudine a portare ordine nel caos materiale . Tale atto consiste infatti per lui semplicemente nella “formalizzazione” e quindi nella sottomissione del dinamismo materiale reale, concreto e vitale, alla rigida fissità (astratta ed irreale) della forma. Non a caso egli giunge spesso a deplorare il conflitto tra Conoscenza e Vita che sempre è stato apportato dalla filosofia nell’esperienza umana . Ed inoltre giunge spesso a deplorare nel complesso l’opera del tutto astratta ed irreale della logica .
Commentando negativamente la formalizzazione, egli però sta svalutando anche quella complessiva dottrina teoretico-conoscitiva incentrata nel riempimento delle “forme vuote” che già si ritrova (in parte e solo indirettamente) in Husserl e che poi nella Stein non solo si sviluppa ma si riconnette anche alla tradizione medievale (specie a Duns Scoto oltre che a Tommaso d’Aquino) . Dobbiamo quindi presumere che le due vie per pervenire al “fenomeno” (quella di Husserl-Stein e quella di Jaspers) siano state molto diverse. Jaspers spera infatti di coglierlo nel pieno del divenire vitale mondano ed esteriore (grazie alla forza dell’intuizione, o “Anschauung”), mentre gli altri due pensatori sperano invece di coglierlo negli alti e sereni strati dell’interiorità, della coscienza egoica, dello spirito (umano-divino) ed anche delle grandi ed astratte forme categoriali (presso la Stein esattamente i Trascendentali del pensiero medievale) .
In particolare Jaspers ritiene che l’intuizione (per il fatto di muoversi nel mondo del divenire senza turbarlo) sia l’unica capace di lasciare l’oggettualità esteriore così come essa è (ossia come un “fenomeno”). Di conseguenza egli ritiene l’intuizione il presupposto irrinunciabile affinché davanti allo spirito si presenti realmente un’oggettualità. E bisogna dire che una posizione molto simile era stata espressa anche da Scheler nella sua davvero severa critica all’ambizione husserliana di concepire un “oggetto di coscienza” .
Ma in tal modo noi ci ritroviamo nuovamente di fronte allo spessore dell’ontologia («mondo fuori di noi» indipendente dalla coscienza) alla quale approdò la Stein dall’Excursus in poi. Ed in effetti, leggendo la sua opera, si ha esattamente l’impressione che da questo momento in poi la complessiva dottrina della conoscenza (incentrata nella formazione) sia rimasta senz’altro in piedi ma solo assumendo un ruolo di secondo piano. Bisogna però anche dire che nel corso dello sviluppo successivo (poc’anzi menzionato) ella ritornò in qualche modo ad una sorta di teoria della conoscenza, ormai però profondamente influenzata dalla metafisica religiosa agostiniana. E ci chiediamo allora se in questa fase (nel descrivere l’atto di ripiegamento dello spirito su sé stesso, auto-formandosi per mezzo del riconoscersi come identità che include in sé tutto l’essere possibile, sul modello dell’«Io sono» divino) ella non stia parlando di un atto di intuizione quasi esperienziale. Del resto il coglimento agostiniano del «cogito-sum» aveva in fondo esso stesso queste caratteristiche. Ebbene bisogna considerare che qui Jaspers sta tra l’altro contrapponendo la presa di posizione contemplativa a quella razionale. E l’intuizione gli sembra il nucleo stesso della prima. Dato che soltanto tale atto è per lui capace di lasciare integro un oggetto supremamente unitario come l’Assoluto invece di scinderlo fatalmente come fa la tendenza alla definizione concettuale che è propria della razionalità. Questo deve pertanto essere stato il tratto portante dell’estremo interesse del pensatore per la metafisica.
Va comunque detto che anche qui interviene il forte fattore svalutante che è rappresentato in Jaspers dall’affermazione del primato della psicologia sulla filosofia . Per lui infatti il processo di formazione del mondo, che si diparte dall’anima (in quanto centro) è un processo che tende all’infinito (la teorica totalità di tutti i possibili WA e WB) senza però mai poter giungere a compimento. Si tratta pertanto solo della relazione tra ideale (in quanto possibilità infinita) e reale (in quanto possibilità già realizzata). Ebbene, questo reale è senz’altro l’oggettualità in quanto WB posta di fronte alla relativa WA. Ma tale oggettualità è appena un’immagine e non invece l’effettivo “Gegenstand” (determinato e finito); che è poi l’oggetto stante davanti a noi del tutto indipendentemente dalla nostra presa di posizione. In primo luogo ne deriva quindi che l’intero processo di formazione è appena la metafora di qualcosa che avviene in verità solo nella nostra mente (e non invece nella realtà fattuale) ed in secondo luogo ne deriva che da esso non ci si può aspettare in alcun modo un risultato definitivo (come quello ipotizzato da Husserl e dalla Stein), cioè la completa ed esaustiva definizione dell’oggetto per mezzo dell’ormai ultimata intuizione essenziale. A ciò va solo aggiunto che presso la Stein ritroviamo (nella fase ultima della sua matura ontologia) uno schema molto simile della relazione tra la possibilità ideale infinita (le “essenzità”, o “Wesenheiten” trascendenti) e la realtà oggettuale concreta . E questo può essere un altro indizio della progressiva diminuzione in lei della fede nell’ontologia interiore e di coscienza (ideale), la quale qui viene riconosciuta essere appena una «possibilità di essere» ed affatto invece una realtà.
In una qualche misura, fin dal momento del suo pieno riconoscimento di un’ontologia esteriore, la Stein si era approssimata dal mondo ideale al mondo reale. Uno dei nuclei della sua contestazione dell’idealismo trascendentale di Husserl (insieme ad altri discepoli, in particolare Hering) fu proprio l’affermazione della necessità di ricostruire (per mezzo della ricerca fenomenologica) un mondo di essenze, ossia le cose come “fenomeni” (ontologia essenziale) nella realtà vissuta e non invece solo nella coscienza . Il progetto era insomma quello di restituire semplicemente ad ogni cosa il suo senso, senza dover necessariamente passare per il pesantissimo e complessissimo apparato dottrinario messo su da Husserl. E ritroviamo qualcosa del genere anche in Jaspers . Egli precisa infatti che la formazione da parte dell’anima si compie nel pieno della dimensione attiva, vitale e dinamica, ossia quella che è caratterizzata dal perenne movimento e quindi è infinitamente lontana dal piano (astratto e statico) della definizione concettuale.
Soffermandoci poi su altri aspetti del concetto di formazione jaspersiano possiamo notare che esso sembra a tratti voler sostituire con esso quello husserliano di intenzione . E non a caso ciò avviene ancora sul piano della vita. infatti egli afferma che, fermo restando l’oggetto esteriore nella sua irriducibile impositività ontologica, l’oggetto di visione interiore agisce ormai sull’anima appena come una forza e non più invece come un’effettiva oggettualità. È dunque proprio così che avviene la formazione (dal versante puramente soggettuale dell’esperienza), e cioè nel contesto del costituirsi di una WA che a sua volta delinea una determinata immagine dell’oggetto reale. Ne consegue ancora una volta che la formazione non è altro che un processo metaforico. Inoltre qui Jaspers sta di nuovo parlando di quella particolare WA che è la presa di posizione intuitiva, ossia quella che è molto più delle altre basata sull’esperienza immediata (“Anschauung”). Dato che esso è soggettuale, nemmeno questo atto può dunque venire considerato effettivamente formativo (invece che metaforico). E però esso, a differenza della presa di posizione razionale-pensante, è comunque in grado di rispettare l’oggetto come totalità (senza scinderlo nelle sue molteplici qualità, corrispondenti poi a categorie e concetti), e quindi riesce a restare ben più prossimo all’oggettualità reale che è esteriore alla coscienza. Tanto più perché qui si delinea un’esemplare e piena “chiarezza” dell’oggetto (garantita pienamente solo dall’esperienza immediata), della quale quella pensante-razionale è appena una pallida ombra. E peraltro Jaspers ci mostra come tutto ciò si presti perfettamente a definire una delle oggettualità più pienamente ontiche come sono il simbolo e l’idea.
I quali vengono colti intellettualmente nella loro unità su un piano molto simile a quello della percezione, e quindi senza alcuna sussunzione nell’universale e nell’inter-soggettività (solo il singolo può infattti coglierli).
Ebbene a nostro avviso questa dottrina potrebbe aiutare molto a comprendere il tipo di riflessione filosofico-metafisica che la Stein condusse (nel pieno della sua fase mistica) allorquando si occupò della teologia simbolica di Dionigi l’Areopagita. Quel che è certo è che ciò non sarebbe potuto avvenire se ella non avesse percorso (attraverso l’intermediazione dell’onto-metafisica tomista) una strada che recava verso una Fenomenologia esteriorista che in Husserl certamente non si ritrova. E tutto ciò diviene ancora più chiaro se teniamo conto di quanto dice Jaspers circa presa di posizione mistica . Egli equipara fortemente tale presa di posizione a quella intuitiva soprattutto per il fatto che un supremo oggetto unitario e totale (che peraltro si trova del tutto al di fuori del campo dell’esperienza sensibile) ha la caratteristica di rappresentare una “pienezza” oggettuale (la massima possibile) così grande da poter venire colta (ancor più che nel caso dell’oggettualità mondana) solo rinunciando del tutto alla tendenza analitica del pensiero razionale. Infatti se esso viene suddiviso, allora immediatamente svanisce (il che avviene quando all’Assoluto divino si attribuiscono qualità sensibili). Pertanto solo un coglimento immediato e incondizionato del tutto “irrazionale” può permetterci di coglierlo. E per giunta tale oggettualità deve necessariamente sfuggire a qualunque atto di “formazione razionale” in quanto essa si trova infinitamente aldilà del reale mondano e del sensibile. E quindi di fatto è un nulla. Tanto è vero che il luogo del suo coglimento è solo interiore ed affatto invece esteriore. Esso insomma non è un “contenuto” (“Inhalt”) ma è solo un “vissuto” (“Erlebniss”). Ebbene tutto questo è ciò che effettivamente avviene in quell’esperienza mistica della quale così intensivamente si occupò la Stein nell’ultima fase del suo pensiero. Ed in base a queste osservazioni, appare allora evidente che ciò non sarebbe stato mai possibile se ella avesse continuato a servirsi della presa di posizione razionale-pensante che è imprescindibile nel pensiero husserliano. Tra l’altro anche quando ciò che dice Jaspers sembra assomigliare a ciò che dice Husserl (definizione dell’oggetto mistico come un “vissuto”), appare chiaro che intanto esso si costituisce per una via completamente diversa da quella del distacco teoretico dall’esperienza sensibile. Anzi sembra costituirsi su un piano (quello dell’immediata intuizione) che è molto vicino a quello della percezione.
Nel complesso l’indagine condotta da Jaspers (fondandosi sulla psicologia e non sulla filosofia) riesce a vedere nella mistica un effettivo campo di conoscenza anche se esso (in maniera apparentemente paradossale ed incomprensibile) diverge tanto dall’esperienza quanto dal pensiero razionale. In particolare nella mistica mancano totalmente l’oggettualità e gli opposti logici, con la conseguenza della totale impossibilità di qualunque indagine razionale su di essa. Eppure, ciononostante, mentre la razionalità sfugge il compimento (a causa dell’aspirazione ad un’indagine infinita), la mistica invece punta proprio al compimento, ossia all’unione a Dio. E quindi pur con tutta la sua inconsistenza ontologica non vi è nulla di più concreto di questo genere di conoscenza.
Ebbene, una volta messe così le cose, il lavoro svolto dalla Stein nella sua ultimissima fase mistica appare perfettamente comprensibile sulla base di una Fenomenologia che non si lascia in alcun modo ridurre al rigore fanatico del razionalismo tanto filosofico che scientifico. Abbiamo visto infatti con quanta forza Jaspers protestò contro la filosofia come “scienza rigorosa”. Questa Fenomenologia appare pertanto in grado di contemplare qualunque genere di presa di posizione senza in alcun modo contestarne la legittimità (se non sottolineandone la relatività). Ed ecco allora che grazie a Jaspers il pensiero mistico della Stein è ben più comprensibile che non grazie ad Husserl. Rifacendosi solo ad Husserl, infatti, o si è costretti ad arrampicarsi sugli specchi per dimostrare un’inesistente continuità della mistica steiniana con la Fenomenologia husserliana, oppure si è costretti a dichiarare la totale rottura della pensatrice con quest’ultima (che è anch’essa una forzatura). Rifacendosi a Jaspers, invece, non è necessario nulla di tutto ciò.

II-3. Jaspers e l’ontologia realista.
Nel complesso l’impianto teorico della ricerca di Jaspers (incentrata sulla relatività di qualunque presa di posizione filosofica o scientifica rispetto all’essere ed al mondo) esautora per definizione tanto la posizione idealistica quanto quella realistica. Ci sembra pertanto abbastanza utile verificare cosa accade quando si applica questo schema alle idee più realiste sviluppate nel tempo dalla Stein nel distanziarsi dall’idealismo trascendentale husserliano.
Ecco che, esaminando i vari possibili WB, Jaspers pone alla base di tutti quello che viene professato tanto dall’uomo comune quanto dallo scienziato empirico, e cioè quello che vede il mondo come sostanzialmente sensibile e spaziale . Si tratta senza dubbio del mondo più concreto e reale che ci sia. Eppure, per quanto ciò sia sorprendente, le cose non stanno affatto così per l’uomo, proprio a causa del fatto che esso tende spontaneamente a formarsi una propria immagine del mondo dove vive. Pertanto nemmeno il mondo sensibile-spaziale è per davvero oggettivo ed assoluto, ma è invece appena relativo alla corrispondente WA umana. Jaspers suggerisce (sulla base del biologo von Üxküll) che questo mondo è davvero oggettivo solo per gli animali invertebrati, ossia quelli che non hanno nemmeno un barlume di coscienza. Dunque il mondo più immediato in cui viviamo è in realtà sempre solo un mondo umano e pertanto per definizione soggettivo. In altre parole qui Jaspers assume una posizione che (almeno in una certa misura) si può considerare sbilanciata verso l’idealismo, e con ciò esautora ogni forma di realismo in quanto presumibilmente ingenuo. Del resto da ciò che lui dice si può opinare che il mondo nel quale Husserl e la Stein temevano l’immersione da parte dell’uomo (con la conseguente impossibilità della conoscenza) sembra essere appena il mondo animale più basso possibile. Sulla base di tutto ciò si potrebbe quindi ritenere che la Stein si illuse sia quando assunse una posizione idealistica (insieme ad Husserl) sia quanto assunse poi una posizione realistica (insieme a Tommaso). Ma sta di fatto che quest’ultimo realismo era di stampo onto-metafisico (ed anche non poco influenzato dalla dogmatica cristiana di origine aristotelica) e quindi rispecchiava quella metafisica alla quale Jaspers non concesse alcun valore, ossia quella che nega la piena coincidenza tra il Trascendente ed il mondano (in una forma di vero e proprio panteismo) . L’onto-metafisica alla quale approdò ad un certo punto la Stein si incentrò infatti (almeno fino ad un certo punto) sul concetto di “analogia entis” tomista; secondo il quale l’ente mondano risaliva al supremo Ens divino.
Posizione che però non a caso venne da lei decisamente superata nell’iter successivo, anche grazie all’apporto del pensiero di Przywara .
Del resto Jaspers persiste in questa convinzione anche quando teorizza una differenza tra il punto di vista soggettuale ed il punto di vista oggettuale (due tra le principali forme di WA), riconoscendo poi in quest’ultimo una forma attiva ed una forma passiva. Ebbene, parlando della forma attiva della presa di posizione oggettuale egli la definisce come quella generata dall’espressa volontà umana di incontrare una resistenza nel mondo, e quindi di imbattersi in un “Gegenstand”. In tal modo sembra delinearsi più che mai un mondo indipendente esteriore, eppure esso continua a dipendere comunque dal soggetto. In altre parole esso ancora una volta non è affatto il mondo oggettivo, bensì è invece appena un mondo umano. Ma la Stein riconobbe la pienezza ontologica del “Gegenstand” proprio quando iniziò ad avere dubbi sulla costituzione dell’oggetto da parte della coscienza (intenzione). E non solo. Perché proprio per questa via ella pervenne al concetto di essere che invece era del tutto assente nella visione husserliana.
Tutto ciò sembra dunque suggerirci un altro ed opposto angolo visivo dal quale osservare il pensiero della Stein per l’intermediazione di quello di Jaspers. La visione di quest’ultimo sembra avere anche una certa portata soggettivistica (sebbene solo nel contesto del generale relativismo da lui sostenuto), per cui alla luce di essa il realismo perde non poco in forza e valore filosofico. Il che può significare poi che una Fenomenologia davvero appropriata dovrebbe essere capace di mantenere un saggio equilibrio tra idealismo e realismo (equilibrio che non sembra davvero esserci in quella husserliana). Ora, come abbiamo già suggerito, è probabile che la Stein abbia intuito questa necessità filosofica, e che quindi il suo realismo possa venire interpretato come la conseguenza negativa, forzosa e poco autentica di un suo vero e proprio intrappolamento nelle maglie della dogmatica tomista. Che sicuramente costituisce anche una delle più dogmatiche forme di realismo. Fatto sta che (come abbiamo già detto) la Stein si sottrasse poi a questo invischiamento. E quindi è probabile che il suo successivo percorso di pensiero sia stato tra l’altro anche la continuazione dello sforzo per allargare il campo della Fenomenologia.
Continuando l’analisi del testo jaspersiano constatiamo poi che secondo il pensatore il mondo esteriore rappresentato dal WB non è altro che quello “concresciuto” (“verwachsen”) insieme all’anima . Ecco allora che, tenendo presente Jaspers, così come fallisce il tentativo di dissecare un mondo oggettivo rispecchiato nella coscienza (dopo la sua purificazione per mezzo dell’epoché), allo stesso modo fallisce anche il tentativo di identificare un mondo esteriore totalmente oggettivo in quanto del tutto indipendente dal soggetto Esso, infatti, a causa della sempre modificante presenza del “Dasein” è altrettanto illusorio quanto il primo.
Giunto a questo punto Jaspers riconosce però che accanto al mondo concresciuto con l’anima (che è quello vissuto e reale, per quanto in parte soggettuale), e che è tipicamente sconosciuto, vi è molto marginalmente anche un mondo conosciuto (cioè quello considerato reale e valido per Husserl). Ma esso, per quanto conosciuto, è il mondo meno reale e più illusorio; lo dimostra il fatto che esso è quello meno “efficace” (“wirksam”). Nella gerarchia di oggettualità sta dunque decisamente in primo piano il mondo concresciuto con l’anima. Il mondo conosciuto è invece sostanzialmente quello dell’appercezione e della formalizzazione. Ecco che ancora una volta vediamo che della Fenomenologia di Jaspers idealismo e realismo trovano in equilibrio pressoché perfetto.
Possiamo poi trovare espressa la perfezione di questo equilibrio ritornando alla trattazione jaspersiana del mondo animico-culturale . Come abbiamo visto egli pone l’uno accanto all’altro il “mondo immediato” (puramente soggettivo) e il “mondo dell’altro” (puramente oggettivo). La pari legittimità di esistenza di questi due mondi dipende da quella indiscutibile continuità naturale tra soggetto ed oggetto che secondo Jaspers può venire ritrovata solo in psicologia (prendendo atto delle fondamentali funzioni della mente) e non invece in filosofia. Quest’ultima invece parte sempre da una scissione irrecuperabile tra i due termini, e quindi tende inevitabilmente a rappresentarsi un mondo soggettuale «posto davanti» al mondo oggettuale, e da esso fatalmente separato. Ecco che in tal modo insorge ineluttabilmente quel tema della «problematicità della conoscenza» che senza alcun dubbio è stato una delle principali molle che hanno fatto insorgere l’intera ricerca husserliana. Sta di fatto però che tale problematicità appare del tutto astrusa ed assurda agli occhi del medico (abituato com’è a considerare come scontate le naturali funzioni psicologiche nel contesto della conoscenza). E così è stato evidentemente anche per Jaspers.
Ebbene va detto che, pur nel suo lodevole tentativo di superare l’idealismo husserliano verso un realismo, la Stein restò lei stessa vittima della contrapposizione tra due visioni (idealismo e realismo), ognuna delle quali ha pretese assolutizzanti e trascendentalizzanti. Tuttavia, a moderazione di questa critica va considerato che, solo grazie a Jaspers, la negazione steiniana di un Io trascendentale viene completata dall’affermazione che vi è in verità appena un Io psicologico (che è poi l’Io-esistente da lei pienamente riconosciuto nel contesto della sua onto-metafisica) . Esso corrisponde poi allo spirito soggettivo di fronte al quale si trova un mondo oggettuale che qui anche Jaspers ammette come “spirito oggettivo”, ossia mondo della cultura. E così si ricostituiscono in fondo i termini di una alla quale la Stein era approdata.

III- Conclusioni.
Sulla base delle osservazioni testuali ci sembra che i principali obiettivi di questo articolo siano stati raggiunti. Essa ha dimostrato infatti che, se per molti versi la Fenomenologia di Jaspers (PWA) si contrappone non solo a quella di Husserl ma anche a quella della Stein, la sua analisi offre comunque la preziosa occasione di comprendere meglio quel percorso della pensatrice che (in misura maggiore o minore, secondo le varie interpretazioni) comunque si distanziò tangibilmente dal pensiero husserliano. Abbiamo visto che tale prospettiva si riflette soprattutto nella possibilità di intendere meglio il senso e la misura del distanziamento della Stein da Husserl durante l’ultimissima fase mistica del suo pensiero. Ma oltre a ciò (non volendo attardarsi in una polemica anti-husserliana che senz’altro può essere fazione e sterile), la presa in considerazione di Jaspers suggerisce con discreti argomenti che il complessivo percorso di pensiero steiniano debba venire inteso anche come lo sforzo di allargare l’ambito della Fenomenologia husserliana raccordandolo con un orizzonte storico-filosofico che oggettivamente fu molto più ampio.

Note.

Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016; Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018; Vincenzo Nuzzo, “È possibile pensare ad una Edith Stein cartesiana in quanto filosofa religiosa?”, Dialeghestai, 21, 2019; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95.
2Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/
3Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Forgotten Books, London 2018.
4Umberto Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2020, II, 9, 1 p. 178.
5Marco Tedeschini, “La controversia Idealismo Realismo (1907-1931). Breve storia concettuale della contesa tra Husserl e gli allievi di Monaco e Göttingen”, Internat. J. For the History of Texts and Ideas, 2, 2014, 235-260.
6Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald, Mainz 1998, II p. 18, VII p. 81-94; Edith Stein, “Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie”, in: Edith Stein, Freiheit und Gnade, ESGA 9, Herder, Freiburg Basel Wien 2014, 8 p. 143-158.
7Karl Jaspers, Psychologie… cit., I, IA, 3 p. 73-78.
8Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIC p. 160-188.
9Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9,3 p. 188-189.
10Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, V-VIII p. 239-441; Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches… cit., X, p. 129-133, XII p. 148-155.
1Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI p 344-386.
12Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch einer Gegenüberstellung“, in: Husserl zum 70. Geburtstag, N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-338; Edith Stein, “Was ist Philosophie? Ein Gespräch zwischen Edmund Husserl und Thomas von Aquino”, in: Edith Stein, Freiheit… cit., 6 p. 91-118.
3Vincenzo Nuzzo, “L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain”, Dialeghestai, 31 Dicembre 2018.
4Dermot Moran, “Immanence, Self-Experience, and Transcendence in Edmund Husserl, Edith Stein, and Karl Jaspers”, American Catholic Philosophical Quarterly, 82 (2) 2008; Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 2 p. 179-187.
5Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIC p. 160-188.
6Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Heidelberg New York 1973.
7Karl Jaspers, Psychologie… cit., III p. 189-407.
8Pare che, nel Dicembre 2007, nel corso di un colloquio privato avvenuto a Venezia presso l’Università Ca’ Foscari (nell’ambito del Master in Comunicazione e Linguaggi non verbali), Galimberti abbia affermato che ogni filosofo è tendenzialmente uno psicotico.
19John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022.
20Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 2 p. 180.
21Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9, 2 p. 179-187; Simone Biondi, “I due volti della psichiatria fenomenologica”, Comprendre, 25-26, 2015-2016, 131-152.
22Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 8-11 p. 168-220.
23Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2 p. 50-73.
24Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, I, 31-32 p. 67-73, I, II, II, 60-65 p. 78-86, I, II, III, 103-108 p. 135-141, I, III, II, 85-86 p. 213-221, I, III, 87-96 p. 222-246, I, IV, 97-102 p. 245-260, I, IV, I-III, 128-153 p. 338-382, II, I, I, 1-4 p. 441-448, II, I, I, 11-15 p. 461-479, II, III, I, 49 p. 611-621; Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia pura, Il Saggiatore, Milano 2008, III, A, 28-55, p. 133-215; Pedro MS Alves e Carlos Aurélio Morujão, Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Universidade de Lisboa, Lisboa 2007, II Voll, I, I, § 4, 25-38 p. 56-58, I, I, § 11, 49-51 p. 68-71, I, II, II, § 38, 67-69 p. 89-91, § 41-43, 73-80 p. 97-105, I, III, § 29-30, 97-104, p. 116-123.
25Edmund Husserl, Idee…cit., I, II-IV p. 115-375, II, III, I, 49 p. 611-621; Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão, Edmund Husserl…cit., II Voll., I, I, § 11, 49-51, p. 68-71, II, I, III, § 29, 97-101 p. 116-120.
26Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão, Edmund Husserl…cit., II Voll. § 17, 67-68 p. 87-89.
27Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 1 p. 177.
28Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA p. 50-73,
29Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, C, I p. 163-166.
30Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, Introd., p. 35-52, I, I p. 53- 86, I,II p. 87- 99; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, Introd. p. 39-44, I, 1-2, p. 45-71.
31Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2 p. 68-73, II p. 122-132.
32Edith Stein, “Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie”, in: Edith, Freiheit…cit., 8 p. 143-158.
33Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, C, II p. 166-177.
34Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
35Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano, 2008, p. 52-57; Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, Intr. II, 7-8 p. 46-60, I, I, I, 9 p. 64-68.
36Edmund Husserl, Idee…cit., II, I, I, 1-8 p. 439-454, II, I, I, 11 p. 461-463, II, I, I 18, p. 491-523.
37Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, I, 1-3 p. 9-50, V-VI p. 107-154.
38Edith Stein, Endliches… cit., III, 3 p. 68-72, III, 7 p. 83-86, IV, 3, 2-16 p. 144-181, VI, 4, 3 p. 293-296.
39Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9, 2 p. 179-180.
40Vedi nota 11.
41Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, I, I, 1 p. 37-40, III, II, 1 p. 354-389; Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 39-41, p. 121-124
42Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, B p. 147-160; Karl Jaspers, Psychologie… cit., I, B p. 78-102.
43Edith Stein, Psicologia… cit., I, 5, 2-3 p. 106-118, II, 2, 2 p. 221-240; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 3, p. 23-26; V, II, 2, p. 80-91.
44Angela Ales Bello, Il senso …cit., I, 1-3, p. 9-50, V – VI, p. 107-154.
45Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl. 4 p. 38-42, IA, 2 p. 50-73, IB, 2 p. 94-100, II p. 122-124, IIC, II-III p. 166-188.
46Edith Stein, Der Aufbau… cit., VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto… cit., V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365.
47Edith Stein, Endliches … cit., II, 7 p. 57-61, V, 5, 1 p. 239-241, VI, 4, 3-4 p. 288-296; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 115-120.
48Karl Jaspers, Psychologie… cit., IB, 2 p. 80-94.
49Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2c p. 61-65.
50Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl., 3, 1 p. 35, IA, 1c p. 61-65, IA, 2 p. 68-73, IB, 2c p. 93-94, IIB p. 147-160, IIC, II-III p. 166-188.
51Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 3 p. 76-78, IB, 2c p. 88-89, IIC, II p. 166-177
52Edith Stein, Potenza ed atto… cit., I, III, 8-13 p. 117-137; Sarah Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010, 2-4 p 36-115.
53Edith Stein, Endliches… cit., V p. 239-279.
54Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962, p. 7-10, II, 1, p. 11-13.
55Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
56Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p. 303-394. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXVII, 1 p. 20-25, 2 p. 26-40, 2 p. 54-58, 3 p. 56-64, 4 p. 115-126.
57Edith Stein, Potenza… cit., VI, 26, i-j p. 380-386; Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, di Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543.
58Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl., 1 p. 1-7
59Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2a p. 55-59.
60Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 3 p. 73-78.
61Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIA p. 133-147.
62Karl Jaspers, Psychologie… cit., II C p. 160-188.
63Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4 p. 288-302; Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335.
64Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, I p. 44-50.
65Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
66Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIB p. 147-160.
67Vedi nota 11.

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Introduzione.
Prima di entrare nel merito specifico della nostra investigazione, ci sembra che sia opportuno sintetizzare in grandi linee il messaggio filosofico e religioso che viene lanciato dalla Walther con il suo libro Fenomenologia della mistica.
La pensatrice pone chiaramente ed esplicitamente la possibilità piena di una comunicazione, a partire dall’immanenza, con il mondo trascendente e sovrannaturale. Si tratta in particolare dell’esperienza fisica, ma comunque sfuggente, di un mondo purissimamente ideale (spirituale); che è però anche pienamente ontico, ossia è percepibile sensibilmente. In ogni caso ella distingue dallo spiritismo (molto spesso tendenzialmente demoniaco) la pienezza di tale esperienza; che sta senz’altro in primo luogo nel contesto della mistica religiosa. In questo caso si tratta infatti di esperienza di Dio e nient’altro.
Su questa base la Walther lascia poi emergere la relazione esistente tra l’Io e le esperienze (fenomeni) che stanno alle sue spalle (a tergo, e nel profondo) – non invece davanti ad esso. Pertanto in tale contesto si può ritrovare l’affermazione di una primaria ontologia interiore, che appare destinata a dominare totalmente la dottrina dell’Io, qui completamente riformulata.
E come vedremo nelle conclusioni, si tratta con ciò (almeno da un certo punto di vista) di un idealismo filosofico decisamente anti-realista.
Con tutto ciò la Walther si fa nel complesso sostenitrice della necessità di spostare il luogo primario dell’esperienza dall’esteriore all’interiore. E ciò comporta inevitabilmente la forte relativizzazione della primarietà dell’Io che è stata affermata nell’intero pensiero moderno, ed in maniera forza ancora più spinta da Husserl.
È dunque su questa complessiva base filosofica che la pensatrice ci illustra la fenomenologia specificamente religiosa costituita dalla dimensione sostanzialmente interiore della relazione verticale dell’uomo con Dio. Tale relazione si colloca quindi entro la tradizione metafisico-religiosa e filosofica che ha considerato l’auto-conoscenza quale momento specificamente religioso della conoscenza nella sua interezza. La Walther si fa quindi sostenitrice di una diretta ed immediata esperienza di Dio – specie nella forma congiunta dell’emersione profonda del Suo Essere (sia nel cuore che nella testa) come Luce. Proprio la sostanza luminosa testimonia pertanto l’esistere ed agire qui di un’onticità che in tanto si lascia sensibilmente cogliere in quanto sfugge alla cattura da parte di qualunque percezione grossolana, e cioè materiale.
Ella sottolinea però con grande forza che si tratta di un Dio Trascendente, ma intanto presentantesi come Dio decisamente personale. Anche quest’ultima immagine di Dio assume però un senso del tutto diverso da quello usuale. Il Dio-Persona qui in causa è infatti radicalmente onto-spirituale, e quindi estremamente sottile nel Suo essere. Egli non è quindi in alcun modo un Dio circoscrivibile entro una concezione limitante. Non è in alcun modo il Dio onto-cosmologico della tradizionale metafisica tomistico-aristotelica (e della più tradizionale teologia dogmatica). Non è in alcun modo il Dio unilateralmente immanente, vivo e storico (appena formalmente ecclesiale), che l’attuale filosofia religiosa ci presenta nella persona del solo Gesù . E non è naturalmente in alcun modo nemmeno il Dio delle pratiche pietistiche acritiche, superstiziose e fanatiche, così come della fede cieca. Non a caso il Dio così intensamente percepito dai mistici – del quale ci parla la Walther – è un Dio che sempre invariabilmente si ritira dopo averci elevato fino alle Sue incommensurabili altezze . Così Egli ci lascia ricadere talmente in basso, che noi siamo costretti ogni volta a chiamarlo nuovamente dalle profondità della nostra disperazione.
Pertanto è proprio in relazione a tale ultima nettissima esclusione, che il «religioso» così provocatoriamente immediato, del quale ci parla la nostra pensatrice, non può avere assolutamente nulla di quello che le apparenze a prima vista ci suggeriscono. Non si tratta insomma assolutamente del «religioso» nella sua forma spiritistica, occultistica, o in qualunque modo frutto di speculazioni soggettivistiche ed arbitrarie (se non di tentazioni demoniache).
Si tratta invece esattamente della religiosità che è sempre stata propria dei veri mistici.
In tal modo, però, la visione religiosa così presentata non può avere nulla di provocatorio nemmeno per la filosofia stessa – quella filosofia rigorosamente laica che potrebbe ben considerare il pensiero waltheriano come inammissibile nel proprio ambito. In questo senso non vi è dunque alcuna contraddizione tra la Walther filosofa, quella mistica ed infine quella studiosa di fenomeni paranormali.

È su questa base che ci accingiamo quindi a pervenire all’oggetto della nostra investigazione, e cioè l’esplorazione delle relazioni esistenti tra il pensiero della Walther e quello di Edith Stein ed Edmund Husserl. Bisogna a tale proposito però menzionare che questo tema è stato già trattato abbastanza intensivamente da diversi autori (tra i quali la Prof. Ales Bello) .

I- Walther e Stein.
Inizieremo quindi ora a trattare prima di tutto delle relazioni esistenti tra il pensiero della Walther e quello di Edith Stein. Senz’altro va ricercata in primo luogo proprio qui la continuità esistente tra la visione della nostra pensatrice e la complessiva visione fenomenologica. È infatti ben noto che la Walther seguì a Freiburg le lezioni della Stein (oltre che di Husserl), e che inoltre fu attenta lettrice della di lei opera . La continuità esistente tra le due pensatrici è pertanto un fenomeno assolutamente scontato. Diversamente stanno invece le cose rispetto ad Husserl, del quale non a caso in Fenomenologia della mistica la Walther fa menzione molte meno volte. Con il di lui pensiero infatti non solo non sussiste alcuna continuità, ma semmai sussiste una ben chiara discontinuità, e forse perfino nel senso di un suo deciso superamento. Questa costatazione però non uscirebbe dai limiti di una questione puramente filologica (del tutto secondaria), se non fosse invece in gioco la dimensione radicalmente filosofico-religiosa del pensiero. La discontinuità del pensiero della Walther da quello di Husserl reca infatti esattamente a quest’ultima; pertanto il suo senso è questo. E quindi è proprio questo anche il vero significato della continuità esistente tra la Walther e Stein.
Ma ciò significa allora che la continuità di pensiero esistente tra le due pensatrici segrega di fatto, entro il complessivo pensiero fenomenologico, un’area che non solo è squisitamente filosofico-religiosa, ma che, proprio come tale, si pone anche molto al di fuori dell’orizzonte di pensiero tipico della scuola.
Ebbene, la nostra tesi è proprio quella secondo la quale la Walther ha sviluppato alcune tendenze già presenti nella visione steiniana (in relazione a quella husserliana), e peraltro dilatandone anche notevolmente la portata. E tali tendenze erano esattamente quelle che puntavano di fatto da una filosofia laica ad una filosofia intensamente religiosa. Intanto, però, nel pensiero di Husserl l’effettiva presenza di una dimensione filosofico-religiosa – nonostante una linea di ricerca (Ales Bello) la affermi con molta decisione – è da considerare estremamente vaga, se non del tutto assente. Al massimo, infatti, si può ritrovare in essa l’accenno ad una religiosità sostanzialmente a-teistica (nel senso di non «teista») e rigorosamente razionale. Ed in quest’ultima non può in alcun modo prevedere (né tanto meno teorizzare) un’esperienza religiosa davvero autentica ed effettiva in quanto viva ed intensa. Ebbene in generale – aldilà di specifiche questioni metafisico-filosofiche di tipo dottrinario-analitico – le cose non stanno in tal modo né per Edith Stein né per la Walther.
E questo sostanzialmente perché le loro visioni (entrambe decisamente e strenuamente filosofico-religiose) risultano intimissime l’una all’altra per mezzo della mistica. Quest’ultima costituì infatti interesse intensivo tanto dell’una quanto dell’altra pensatrice; e non solo come oggetto di riflessione ma anche di appassionata prassi. Sicuramente però presso la Walther la mistica ha assunto una dimensione più intensa. E ciò è vero in quanto, come abbiamo già visto, essa sconfina decisamente verso aree di pensiero, ricerca e di prassi che potremmo definire in generale come «spiritualismo» – e che includono le esperienze religiose dei mistici, unitamente ai fenomeni psichici cosiddetti «paranormali» (telepatia, ipnosi, esperienze medianiche etc.) . Proprio a causa di tali caratteristiche la visione filosofico-religiosa della nostra pensatrice sembra aver sviluppato e dilatato in maniera davvero estrema le tendenze già presenti presso la Stein. E ciò non può non comportare un distanziamento del pensiero di quest’ultima da quello di Husserl, che è ancora maggiore di quello che è già presumibile nel contesto dello studio dell’opera steiniana.
In parole molto semplici possiamo quindi dire che tanto più la complessiva visione waltheriana appare continua con quella steiniana, tanto più quest’ultima ci appare aver contenuto fin dall’inizio in sé una profonda aspirazione ad affrancarsi dal pensiero di Husserl.
Verificheremo quindi, per mezzo dell’esame testuale di Fenomenologia della mistica, se tale ipotesi può essere effettivamente confermata dai fatti. Ed inoltre verificheremo anche in quali modi e con quali contenuti tematico-dottrinari ciò può essere affermato.

I-1. Il Fondamento animico-spirituale.
Innanzitutto bisogna partire dalla definizione che la Walther ci offre dell’ontologia che per lei è davvero fondamentale, ossia quella propria della vita interiore. È in tale sede, infatti, che va per lei collocata l’esperienza religiosa nella sua maggiore autenticità. Tuttavia non è di quest’ultima che intendiamo trattare direttamente. Ciò di cui ne va è infatti proprio il comprendere in che modo la pensatrice concepisca l’esperienza religiosa come specifica fenomenologia, ossia appunto fenomenologia dell’interiorità.
Per questo possiamo partire proprio da uno dei concetti sui quali la ricerca steiniana si è soffermata con maggiore attenzione, ossia quella dell’«originarietà» degli enti.
Ebbene dalla Walther può essere dedotto un concetto di «originario» che appare essere ben più avanzato di quello steiniano . E con tale concetto noi giungiamo immediatamente al nucleo stesso dell’ontologia interiore così come concepita dalla pensatrice. Tale ontologia è poi da considerare anche quella che per lei – come vedremo poi chiarirsi meglio poco a poco – è la più fondamentale, ossia quella che configura insieme il «Fondamento» tanto dell’essere interiore quanto anche dell’essere nella sua totalità. Il nucleo di tale ontologia sono le entità pienamente metafisiche, nel senso di oggetti razionalmente irreali ma comunque esistenti. E la Walther li definisce esattamente come l’«originario» per definizione. L’intero corpus della mistica è infatti per lei originario, in quanto lo è in maniera ontologica davvero radicale (“Urphänomen”). E per questo la sfera dei suoi enti sfugge al naturale, cioè alla composizione elementare. Si parla insomma qui di «originario» anche nel senso specifico della ricerca fenomenologica – in quanto l’onticità qui in causa è irriducibile a qualunque altro fenomeno. È un’essenza. Ma gioca qui un ruolo fondamentale un concetto di Origine decisamente metafisico (molto simile a quello di Eckhart). Intanto, comunque, in tal modo ci viene indicato anche quanto l’intera Fenomenologia intende come l’ente colto nella sua pienezza incondizionata, ossia l’essenza stessa delle cose. Va però infine precisato che la dimensione «originaria» equivale qui a quella della profondità interiore dalla quale sgorgano le esperienze proprie della mistica. Questo è insomma in luogo stesso nel quale per noi prendono forma le relative entità.
Lo stesso concetto può poi, secondo la Walther, venire applicato anche al flusso dei vissuti che emergono dal profondo. Anche qui noi ci troviamo di fronte all’«originario» nel senso dello spirituale profondo sconfinante verso l’Origine stessa. Ma intanto esso mette capo alla sua forma più immanente, rappresentata dalle entità personali spirituali che trasmettono all’Io – per la via dell’emersione interiore profonda – quelle esperienze che sono specificamente interiori ed affatto esteriori (dalla mistica ai fenomeni paranormali). A proposito delle entità che emergono nel corso i tali esperienze la pensatrice precisa che si tratta di oggetti immateriali che però vengono avvertiti con la stessa intensità propria della percezione esteriore. Essi, tuttavia, possono sussistere anche non propriamente come oggetti in carne ed ossa, bensì invece anche come oggetti che si stanno semplicemente «ri-presentando» (provenendo dal una sfera di essere attualmente lontana). E ciò allarga pertanto di molto la ricerca steiniana sul fenomeno della ripresentazione di oggetti mentali non più presenti in carne ed ossa (come ad esempio nelle memorie). Tale riflessione non era infatti intimamente legata ad alcuna ontologia interiore.
Comunque, in tale contesto, vi è da considerare anche il fenomeno rappresentato dal «retro-sguardo» dell’Io, che insorge quando ciò che intanto va emergendo dal profondo lo assorbe completamente. In tal caso avviene quello sprofondamento dell’Io nel suo stesso fondo spirito-animico, che più avanti esamineremo ulteriormente.
Il discorso appena svolto sull’«originario» si riconnette inevitabilmente a quello che la Walther conduce sulla “datità” . Ed anche qui il concetto viene impiegato in una maniera ben più ampia e profonda che non presso la Stein. Qui infatti si chiarisce ancor meglio che l’ontologia in causa è quella specificamente spirituale, ossia quanto tendiamo a definire come «onto-spiritualità».
La pensatrice parla infatti qui di “datità spirituale” (“geistige Gegebenheit”). Ella chiarisce inoltre che con ciò deve essere considerato qualcosa che esiste comunque nonostante i veti della Ragione.
Si tratta infatti di un altro campo di essere rispetto a quello ordinario. La Ragione (“Verstand”) e la coscienza soprassiedono infatti a tutte le esperienze di oggetti sensibili (“Gegenständlichkeiten”).
Ma non soprassiedono invece quelle che interessa gli enti metafisici (“metaphysische Wesen”).
In ogni caso proprio qui viene specificato che con questo genere di enti va inteso – come dicevamo poc’anzi – proprio quanto è «originario» nel senso di fenomenologicamente fondamentale.
La Walther dice infatti che qui sono in causa le essenze ideali degli enti (o esseri viventi), e cioè le idee degli esseri. Esattamente questo ci mostra come in tal modo noi stiamo davanti ad enti effettivamente metafisici, ma intanto pienamente reali (“metaphysisch reale Wesen”). In termini più mistici si tratta degli enti individuali che costituiscono le scintille (“Funken”) di un’unica sostanza fondamentale, ossia dell’infinito ed iper-spirituale, e cioè il “fondamento essenziale divino” (“göttliches Wesengrund”). La pensatrice richiama qui le emanazioni dell’Uno così come concepite da Plotino. E tale affermazione inscrive naturalmente il suo pensiero nella grande orbita della tradizione platonica.
È in questo modo che abbiamo davanti a noi il «Fondamento» stesso nella sua forma onto-spirituale più pregnante, e cioè lo Spirito. I relativi enti, dice la pensatrice, sono oggetti “di pura natura spirituale” (“rein geistiger Natur”), ossia oggetti che rientrano in quell’onticità immateriale e sottile che è propria dello Spirito. In tal modo, però, ci viene fornita anche definizione di “Gegenstand” – «oggetto» in quanto «stante-davanti» alla coscienza – che è ben più ampia di quella fornitaci nel contesto della Fenomenologia husserliana. E l’ampiezza consiste proprio nel fatto che qui c’è qualcosa che non esiste solo per il suo stare davanti alla coscienza – come avviene entro la dottrina husserliana dell’«intenzione».
Dopo aver chiarito tutto questo, la pensatrice afferma quindi che l’intelletto (inteso come Ragione) non può fare in alcun modo da arbitro in questo campo di essere. E pertanto esso di fatto non ha nulla da dire circa anima e spirito – sebbene si occupi comunque di estremamente astratti enti matematici. Si delineano in tal modo allora due ambiti epistemologici separati, ed ogni dei quali corrisponde ad una determinata ontologia – quello puramente interiore e quello puramente esteriore. La Walther precisa però anche che ciò non taglia affatto fuori la Ragione. Di essa infatti viene appena postulato un livello ben più alto. Si tratta della Ragione che ha di mira esattamene gli oggetti integralmente spirituali. Ma essa costituisce comunque tutt’altro genere di coscienza (“Bewusstsein”) rispetto a quella che la Fenomenologia prende in considerazione, ossia costituisce una coscienza che si sforza di andare oltre il sensoriale esteriore. Si tratta con ciò allora dello sforzo umano di cogliere oggetti puramente spirituali che tendono comunque a fuoriuscire dall’ambito usuale della coscienza. E questo è esattamente lo sforzo che è tipico del pensiero autenticamente metafisico-religioso.
Ebbene, tutto ciò esclude chiaramente che la definizione husserliana di «spirituale» possa valere anche qui. E vedremo poi questo in maniera ancora più chiara a proposito della relazione da riconoscere tra «spirituale» ed «intellettuale». In ogni caso, nel contesto della visione waltheriana, appare chiaro che si deve parlare di un intellettuale che è già anche spirituale, senza con ciò dover affatto dilatare il proprio spazio di conoscenza. In altre parole l’intellettuale concepito in maniera solo riduzionistica, come accade in Husserl – e cioè come uno spirituale ben al di sotto del livello dell’ontologia spirituale, così come concepita dalla metafisica religiosa (ed anche dalla Walther) –, deve venire ricompreso in uno «spirituale» che ha una valenza intellettuale del tutto implicita.
E che pertanto non ha alcun bisogno di essere ricondotto all’«intellettuale» solo riduzionisticamente concepito. È quindi in questo senso che lo spirituale (una volta concepito nella sua vera integralità) non equivale affatto all’intellettuale.
È da tutto questo che può allora scaturire una definizione di “psichico”, ed anche del rapporto tra psichico e spirituale. La Walther menziona la differenza in genere riconosciuta tra il sensibile come frutto di percezione (“sinnliche Wahrnhemung”) ed il “puro psichico” (“rein Psychisches”), o anche “puro spirituale” (“rein Geistiges”). Ma tale differenza è per lei da considerare insufficiente. Perché essa non include affatto tutta una serie di atti psichici (memorie, rappresentazioni, opinioni – supposizioni), i quali hanno il carattere essenziale del “blosses Meinen”; ovvero della misteriosa, vaga e sfuggente impressione psichica (come nel «sento che…», oppure «ho l’impressione che…»). In esse si avverte insomma qualcosa che intanto né i sensi né l’intelletto sono in grado di cogliere. Ma è proprio in questo genere di oggetti, che consiste l’esperienza interiore nella sua pienezza così come descritta dalla pensatrice.
In tal modo si delinea pertanto un «puro psichico» che ha pochissimo a che fare con l’entità mentale definita in tal modo dalla Erkenntnistheorie. Si tratta infatti dei contenuti di specifiche esperienze, le quali contengono in sé in nuce la possibilità di emersione di contenuti dal profondo, che a loro volta non hanno nulla a che fare con il mondo esterno in modo fisico (telepatia, ipnosi), oppure hanno addirittura a che fare con l’altro mondo. Né essi hanno nulla a che fare con le usuali rappresentazioni mentali di oggetti nel senso di oggetti astratti. Tuttavia tali rappresentazioni mentali – in quanto esperienze di un vero e proprio «in carne ed ossa» (indagato anche dalla Stein nella ri-presentazione) –, hanno comunque qualcosa del puro psichico così come viene definito dalla Walther. Esempio classico sono le esperienze visive come quelle in cui vediamo fisicamente davanti a noi la nostra casa natale; ma ciò senza che riusciamo a rappresentarci tutto questo in modo davvero visivo (“uns anschaulich vorstellen”). L’oggetto mentale che vediamo in carne ed ossa si costituisce proprio per questo come un’effettiva “datità” (“Gegebenheiten”). E proprio per questo, nel contesto di tali esperienze integralmente spirituali (di entità puramente psichiche), noi sperimentiamo per davvero percettivamente qualcosa che intanto è presente davanti a noi fisicamente e corporalmente (“leibhaftig”). Eppure ciò avviene solo e soltanto interiormente, e quindi indipendentemente da qualunque relativo oggetto reale esteriore. Si tratta insomma di oggetti puramente ed integralmente interiori. Eccoci insomma davanti ad una vera e propria percezione spirituale di tipo corporale. Per la precisione, dice la Walther, la cosa sta davanti a noi solo con la sua essenza intima, e non invece effettivamente (cioè non in forza della percezione sensoriale o dell’elaborazione mentale astratta).
Viene così nel complesso delucidato un alternativo modello psichico di rappresentazione, che effettivamente pone allo scoperto un oggetto davvero esclusivamente psichico. Esso esiste solo come tale ed esiste pienamente, ossia costituisce un’effettiva ontologia! Eccoci insomma davanti ad un’altra lettura del fenomeno del mondo spirituale (costituito da pure essenze) del quale la Stein parla (in particolare in relazione ai valori) con accenti pur molto simili.
In relazione a quanto abbiamo già detto a proposito del concetto di «originario», il retro-sguardo dell’Io si rivolge esattamente verso questo genere di entità metafisico-spirituali. E sono quindi proprio esse stesse, quale oggetto intenzionale interiore (totalmente rivisto rispetto ad Husserl e Stein), a trasfigurare completamente la dottrina dell’intenzione. Essa infatti non è più affatto appena teoretica (e quindi anche fatalmente esteriore), ma è invece interiore ed inoltre anche inevitabilmente sentimentale. In essa infatti l’Io sprofonda nel suo stesso fondo, ossia verso la fonte delle emozioni che lo coinvolgono. E così distoglie totalmente l’attenzione (“aus dem Auge”) dal proprio oggetto intenzionale esteriore. Ecco allora che il massimo del coglimento intenzionale dell’oggetto avviene in realtà interiormente e non invece esteriormente.
In questo modo è andato pertanto delineandosi un mondo interiore dotato di una sua ben definita ontologia, e quest’ultima si è rivelata chiaramente spirituale. Ma la sua comprensione sarebbe incompleta se non ne riconoscessimo un ulteriore carattere essenziale, e cioè quello del quale abbiamo già parlato come di un «Fondamento». La sostanza qui in causa è infatti tale, in quanto è collocabile molto indietro rispetto all’Io, e precisamente in una profondità che pertanto rispetto ad esso si trova sempre “a tergo”. Vedremo poi più avanti che tale assetto viene molto efficacemente spiegato dalla pensatrice per mezzo dell’immagine esemplare di una lampada ad olio.
Ecco insomma qualcosa che costituisce una dimensione del «retro» (o anche «fondo», oppure infine «sfondo») per definizione. Di tutto questo la Walter ci fornisce una definizione molto precisa . Si tratta per lei infatti della “Einbettung”, o, più complessivamente, del “Grundwesen”.
I due termini congiunti ci illustrano il sussistere di un profondo alveo di essere che accoglie l’Io, e nello stesso tempo costituisce anche il ”fondamento essenziale” dell’intera compagine individuale, nella quale l’Io stesso esiste e vive la propria vita. In parole più semplici si tratta del fondamento spirito-animico-corporeo dell’Io. E qui va colta una differenza davvero fondamentale rispetto al corrispondente aspetto triadico, così come viene riconosciuto anche da Husserl (nel contesto della sua dottrina dell’antropologia). Qui infatti lo spirito non è affatto (quale Io) il primo termine di una triade concatenata che rechi dall’interiore all’esteriore (specie per mezzo della fondamentale interazione esistente tra corpo e mondo) lungo una linea orizzontale. Esso è invece quanto sta al di sotto dell’Io insieme all’anima ed al corpo. Per la Walther si tratta di una suprema onticità di specifica sostanza psichica, e che è quindi tendenzialmente già di per sé intellettuale; ma lo è solo in termini di effettiva onto-spiritualità. Nello stesso tempo è però anche un hypokeimenon, ossia ciò che «sta sotto» in quanto «sottostà» a qualunque ente e fenomeno. Esso è proprio in questo senso il “fondamento essenziale” (“Grundwesen”) di ogni cosa. E nel quale quindi tutto esiste ed accade.
E proprio per questo è anche il “nucleo essenziale” della persona umana. Lo è evidentemente anche perché l’uomo è un ente onto-spirituale. Quindi, se il Fondamento sottostà ad ogni cosa, a maggior ragione esso sottostà all’uomo, ed in particolare lo fa coincidendo con il suo stesso centro.
Proprio per queste caratteristiche molto ampie e profonde, non si può trattare assolutamente (secondo la pensatrice) dell’inconscio psicanalitico (“Unterbewusstsein”); ossia qualcosa che per sua costituzione ontica sia indipendente dalla coscienza (“Bewusstsein”). Ma la dinamica che intanto lega i due termini è estremamente significativa. Perché essa è rappresentata dal fenomeno della riflessione da parte dell’Io. Che, così come concepita dalla Walther, è un ripiegarsi su sé stesso dell’Io stesso, ed insieme anche un volgere indietro il proprio sguardo spirituale. Si tratta insomma dell’atto di «rivolgimento» del quale parla Platone nel Fedro . Ancora una volta, dunque, il platonismo appare potere essere la sfera di pensiero nella quale molto naturalmente si adagia la visione waltheriana.
Dal fondo così identificato avviene comunque il fenomeno altrettanto fondamentale dell’emersione di elementi che sono oggetto di esperienza interiore. Ma tale emersione sfugge a qualunque riduzionismo, così come ad esso sfugge anche il Fondamento stesso. Ed in questo, per la Walther, è di importanza critica il fenomeno dell’assoluta ed incondizionata attualità, ossia quello dell’“ora” (“jetzt”). Esso si manifesta soprattutto in maniera iper-spaziale, e cioè come un fondo che simultaneamente conosce sempre anche un oltre che sta intanto alle sue spalle. Ecco allora un centro che presuppone sempre un antecedente centro dei centri ancora più profondo (ossia davvero insondabilmente profondo). È infatti proprio da tale insondabile Abisso che il fenomeno dell’emersione trae la sua forza di spinta. Ragion per cui il nucleo interiore personale può poi generare intorno a sé cerchi e strati concentrici di essere che procedono fino all’Io. Ma in tal modo è stato definito anche lo spirito in maniera davvero ultimativa, e cioè come quanto è caratterizzato da una profondità sempre (simultaneamente) antecedente qualunque altra realtà attuale.
Appare pertanto con ciò particolarmente evidente in quale senso quello spirituale, che ha sempre anche una valenza intellettuale («psichico»), trascende per definizione l’Io in tutti i sensi – e quindi non potendo in alcun modo venire ridotto ad esso. È quindi sempre in questo senso che lo spirito va collocato «al di sotto» dell’Io, e non invece (come avviene in Husserl) nel suo stesso luogo.
È dunque proprio in forza del fenomeno dell’emersione che, presso la Walther, si ripresenta la dottrina steiniana ed husserliana dell’antropologia spirito-animico-corporea. Lo spirito è in qualche modo anche qui il primo termine, e quindi anche il motore primario di una realtà ternaria sempre statico-dinamica, e proprio per questo unitaria – nel senso di «originario» e «fondamentale». Ma ciò significa anche che, per sua natura, lo spirito è fatto in modo tale da stare intanto sempre nel profondo («retro»), ed inoltre da sprofondare oltre il nucleo più profondo.
Non per nulla l’Io è spirituale proprio in quanto esso, secondo la nostra pensatrice, ha facoltà di sprofondare nel suo fondo. Lo spirito è dunque un «primo» (della serie) soprattutto in quanto è un «profondo» (dei profondi).
In ogni caso resta pienamente possibile che lo spirito inteso quale puro intelletto (Io) possa porsi in comunicazione con lo spirito inteso quale puro fondo. La Walther ci mostra che ciò accade tipicamente nella soluzione improvvisa di problemi intellettuali o esistenziali – laddove ne va insomma di radicali scelte e decisioni, secondo il principio del «cosa fare?». È quanto in genere tutti tendiamo a definire come «misteriosa ispirazione» – intuendo però con ciò molto vagamente qualcosa che di certo sentiamo distintamente, ma di cui non abbiamo alcuna spiegazione.
Si tratta, dice la pensatrice, di un raggio di luce che si sprigiona dal basso provenendo dal “fondamento” (“Grundwesen”) spirituale. E così l’Io, intanto da esso inglobato, viene trasportato totalmente nell’interiore. Di nuovo esso sprofonda. Ebbene proprio questa può essere considerata l’azione di ciò che tendiamo a definire come «voce di Dio». Quindi sta qui il fulcro stesso dell’intera religiosità mistica della quale ci parla la Walther.
Questo fondo divino-spirituale è pertanto il Trascendente stesso. Esso è quindi del tutto indipendente dall’esteriore inteso come trascendente (così come concepito da Husserl in termini estremamente riduzionistici) . Infatti la presa di contatto con il proprio fondamento spirituale (“Grundwesen”) non viene affatto sollecitata direttamente dall’oggetto esteriore. In questo caso infatti il limitante dell’Io, ossia l’oggetto per mezzo del quale esso si riconosce («non-Io») – diventando così esteriormente visibile –, è il proprio fondo stesso (“Grundwesen”), e non invece l’oggetto esteriore. In altre parole viene qui riconosciuto che l’Io ha per proprio oggetto esattamente il fondo di essere che intanto lo sostiene e lo alimenta da dentro.
Ecco che allora la trasformazione dello spirito soggettivo (Io) in spirito oggettivo (“objektiverter Geist”), e cioè “Gegenstand”, avviene semmai nell’interiore, e non invece nell’esteriore. Ancora una volta, insomma, il mondo spirituale (o spirito oggettivo) appare essere ben più interiore che non invece esteriore.

I-2. La dinamica interiore sentimentale ed il flusso dei vissuti. Empatia e telepatia.
Una volta chiarite le premesse più propriamente ontologiche (e quindi statiche) dell’interiorità (così come interpretata dalla Walther), dobbiamo ora rivolgerci a considerarne gli aspetti più specificamente dinamici. In realtà abbiamo già accennato ad esso nel fenomeno dell’emersione.
Ma nella trattazione che ne andremo a fare ora emerge un ulteriore carattere, e davvero fondamentale, di tale fenomenologia, e cioè quello sentimentale. Sullo sfondo di esso di delineerà poi inevitabilmente anche la dimensione etico-estetica.
Ebbene non vi è forse un punto di partenza migliore per tale trattazione, se non la complessiva dottrina steiniana dell’empatia. In essa risiedono infatti i germi stessi di quella visione waltheriana che poi giunge a concepire una forma di empatia ancora più estrema, e cioè la realtà telepatica . Non vi può essere pertanto luogo dottrinario migliore di questo, per cogliere la continuità esistente tra le due pensatrici. Esamineremo quindi qui la serie di riferimenti a questo tema che emergono nel testo della Walther .
Effettivamente presso quest’ultima la dottrina steiniana (e relativo concetto) di empatia trova davvero molti echi. Ma ciò avviene specificamente in intima relazione con l’ontologia interiore della quale abbiamo appena esposto i caratteri. La pensatrice chiarisce infatti che nell’uomo il vissuto dell’esteriorità è sempre solo interiore (il dolore corporeo viene vissuto sempre solo dall’interno). È dunque come se l’esperienza esteriore fosse realmente solo interiore. E ciò introduce quindi nella dinamica dell’empatia la dimensione fondamentale della riflessione, e cioè del retro-sguardo dell’Io del quale abbiamo già parlato. In essa infatti per definizione l’Io viene distolto dall’attenzione rivolta al mero oggetto esteriore, per vederne invece in primo luogo il solo riflesso interiore. E così, dice la Walther, noi di fatto, nel momento in cui vediamo un oggetto esteriore, vediamo sempre soprattutto il nostro nucleo interiore. In base a quanto abbiamo visto prima, noi insomma vediamo intanto quello che è l’unico vero oggetto del nostro Io, ossia noi stessi.
Per la verità, precisa la Walther, noi siamo in grado di vedere il nostro nucleo interiore solo attraverso gli oggetti esteriori. Ed è proprio qui che interviene la complessiva dottrina dell’empatia esposta dalla Stein – con tutti i successivi sviluppi che poi essa ebbe nel suo pensiero (configurando poco a poco la dottrina di un’ontologia spirituale interiore in profonda risonanza con quella esteriore). Infatti cruciale è qui l’azione di quel “nucleo” che reagisce all’influsso degli oggetti esteriori per mezzo dei meccanismi dell’«essere toccati» e della «presa di posizione» morale. Ma, chiarisce la nostra pensatrice, si tratta con ciò di null’altro se non dell’atteggiamento sostanzialmente valutativo dell’Io nei confronti degli enti colti intanto come valori. Caso emblematico di ciò è il sentirsi profondamente toccati dalla bellezza delle cose. Ma ben più chiaramente che la Stein, ella mette in luce il fatto che ciò comporta un influsso avvertito dall’Io come “da sotto” (“wie von unten”), o anche come “dal cuore” (“wie vom Herzen”). Si tratta quindi di emersione di emozioni. Tutto questo modifica quindi tangibilmente la forma della relazione esistente tra Io ed esteriorità per quanto riguarda i valori. Prevale infatti in tal modo il paradigma dell’emersione da dentro, e quindi prevale anche decisamente la dimensione interiore dell’essere. Ecco che in tal modo la sensibilità ai valori da parte dell’Io si rivela essere un fenomeno fondato solo interiormente, e cioè un fenomeno ontologicamente animico-spirituale ed affatto invece egoico. È proprio per questa via che l’Io viene spinto a sprofondare nella sostanza che ad esso retrostà. E più sprofonda più esso si concentra intanto di più sull’oggetto esteriore che intanto aveva appena sollecitato tutto questo. Se infatti l’oggetto esteriore viene colto come valore, ciò non avviene infatti per nulla a causa di sue qualità oggettive, ma invece solo in forza della coloritura che esse assumono nell’interiorità che lo coglie e lo giudica.
In ogni caso la Walther sottolinea che in effetti anche gli stessi segnali esteriori dell’empatia (come la mimica) vengono in realtà colti totalmente nell’interiore. E qui ella ricalca decisamente la Stein: –io colgo l’altro immerso nell’anima come lo sono io stesso. È quindi la percezione profonda dell’altro come spirito. Posto questo, allora la forma più completa di empatia è comunque proprio quella telepatica. Essa infatti prescinde totalmente dall’esteriorità ed avviene quindi solo nel profondo.
Si tratta così di esperienze che si comunicano a me come se emergessero da me stesso (e questo è l’effetto del contatto incondizionato con il nucleo che l’Io sviluppa in tale contesto). E questo ci riconduce al cospetto del fenomeno ulteriore della presa di contatto con l’unicità individuale nucleare, del quale parleremo più avanti. Più precisamente – come abbiamo prima anticipato (e come spiegheremo meglio dopo) – la pensatrice ci mostra che il fenomeno telepatico si basa sulla comunicazione esistente tra due lampade ad olio. Accade insomma che l’olio (cioè l’intera sostanza interiore spirito-animica) fluisce di fatto da una lampada all’altra, in modo tale che lo stoppino (l’Io) di ognuna è impregnato anche dall’olio dell’altra; e proprio di esso brucia producendo così la sua tipica luce. Ma l’unificazione è intanto solo inconscia (radicalmente profonda), e quindi non è affatto dei due Io che intanto rimangono sempre tra loro separati. E questo amplia in maniera davvero straordinaria la concezione dell’empatia sviluppata dalla Stein. Quest’ultima infatti non era mai giunta a considerare il fenomeno come addirittura indipendente dall’Io. La Walther invece lo fa. Sebbene il suo interesso sia rivolto ad illustrare una forma davvero molto estrema di fenomenologia empatica, ossia quella telepatica. Tuttavia da ciò che ella mostra, appare ben probabile che risieda proprio in questo l’essenza più profonda dell’empatia.
In ogni caso, comunque – come ella ci fa vedere – anche in questo caso (così come nel fenomeno dello sprofondamento) l’Io viene distolto dal suo usuale oggetto esteriore; per venire in tal modo assorbito totalmente dall’esperienza dell’altro. Cosa che evidentemente avviene esattamente attraverso l’inconscio, ossia attraverso l’emersione dell’inconscio dell’altro nel proprio. In ogni caso la comunicazione solo interiore vede un disinnesco dell’Io nel suo ruolo di intermedio tra interiore ed esteriore.
Con quanto appena illustrato si riconnette poi l’intera fenomenologia (anch’essa di intenso interesse da parte della Stein, di concerto con Husserl) dei vissuti di coscienza e del flusso nel quale essi sono intimamente uniti. L’interconnessione con tale fenomenologia avviene perché, in relazione al fenomeno della conoscenza del proprio nucleo per mezzo di un oggetto esteriore, viene alla luce anche il fenomeno dell’immediatezza. E ciò nel senso specifico dell’emersione di vissuti (esperienze) dal profondo secondo il paradigma del «da sè», ossia come emersione spontanea, e per questo immediata. Si tratta così di un flusso inesauribile di esperienze (“Erlebnisse”), che si presentano al modo (messo in luce dalla Stein) dell’”unità di esperienza” (“Erlebnisseinheit”); ossia un’ininterrotta continuità dinamica. Ed anche qui domina il principio della preferenza interiore di alcuni tipi di oggetto esteriore, che avviene in ragione delle specifiche qualità del nucleo individuale: – “colorazione” (“Färbung”). La forza di spinta dell’emersione immediata sta proprio nel potente impulso che promana da questo centro in direzione di un solo ed uno solo oggetto (quello preferito). Tuttavia la dimensione immediata del flusso consiste soprattutto nel fatto che qui non è affatto in gioco appena di una somma di qualità (tra loro slegate), ma si tratta invece di un’inscindibile unità. E ciò vale tanto per il nucleo caratteriale, che sta esprimendo il proprio atto di preferenza, quanto anche per la consecuzione di momenti che costituisce l’emanazione risultante dall’atto stesso. Tale consecuzione viene infatti totalmente riassorbita nell’unità di un getto assolutamente fulmineo; nel quale non è più riconoscibile né il momento di inizio nè quello di fine (così come anche i suoi momenti intermedi). È dunque proprio in virtù di questo, che l’atto emanazionale di preferenza (dipartentesi dal nucleo) fa immediatamente suo l’oggetto che da esso è stato intanto investito. È come se letteralmente lo inglobasse (con un meccanismo simile alla fagocitosi) in sé non appena ha anche solo scelto di farlo.
E anche questo ci conduce nuovamente al cospetto dell’unicità individuale irripetibile, che per la Stein caratterizza l’individuo umano. Infatti qui sono in atto esperienze che di fatto vengono determinate dal nucleo, in relazione alle qualità specificissime con le quali esso si esprime. Tuttavia la somma di queste qualità non restituisce affatto l’interezza del nucleo personale, che è in realtà qualitativa e non invece quantitativa. E noi questo lo sappiamo poi infallibilmente. Il che prova che noi dobbiamo già da sempre conoscere effettivamente il nostro nucleo interiore. Ecco dunque l’immediatezza nella forma di connessione immediata e fulminea dell’Io con il nucleo.
Il che è poi totalmente indipendente dalla nostra relazione con l’esteriore.
Tutto ciò pone pertanto in luce la dimensione del flusso di vissuti in correlazione stretta con la dimensione del fondo come retro. Infatti l’Io esperisce un flusso di vissuti di esperienza che provengono unicamente dal fondo (a tergo), e non invece dall’esteriorità. Si tratta di onde che promanano dal fondo e che investono l’Io stesso. Va quindi considerata proprio questa la vera via fisiologica della relazione tra Io ed esteriorità. Ed il paradigma dominante è comunque quello dell’affinità qualitativa (molto strenua) dell’Io con queste esperienze – quelle che sono più congeniali al proprio essere.
A tutto ciò si riconnette poi (per mezzo del fenomeno dell’«essere toccati») anche un altro aspetto specifico dell’empatia, e cioè l’atto del rivolgersi totalmente all’interno da parte dell’Io. Ciò avviene proprio perché esso viene investito da un flusso che emerge totalmente all’interno. E questo determina quel fenomeno dello sprofondamento del quale abbiamo già parlato. Tale fenomeno può essere pertanto considerato l’esatto equivalente dell’atto di inglobamento fulmineo dell’oggetto preferito da parte del nucleo. Esso continua infatti finché l’Io stesso non è pervenuto al centro (“Mittelpunkt”) della fonte di emozioni (“Gefühlsquelle”) dalla quale emerge il flusso.
È proprio in forza di questo che l’Io viene catturato, così che esso si distoglie perfino dall’oggetto esteriore. La sua percezione diviene così interiore e riflessiva, in quanto ormai rivolta totalmente all’indietro.
La dinamica dell’intensa relazione dell’Io con il suo retrofondo viene illustrata comunque dalla Walther anche nei suoi aspetti problematici o addirittura negativi, e cioè in relazione a quel fenomeno del fondarsi su sé stesso – la capacità di «auto-sostegno» –, nel quale la Stein vedeva uno dei caratteri davvero primari della spiritualità umana. Forse si può cogliere proprio qui uno dei pochi (o forse l’unico) elemento di dissidio tra lei e la Stein. L’auto-sostegno dell’Io compare infatti per la Walther nel momento che precede più direttamente la presa di posizione mistica, e cioè quando l’Io stesso ha perso interesse per qualunque ente e valore mondano; e quindi cerca invece ormai solo Dio. L’esperienza è quella della perdita (“…alles verloren hat”), e del fatale stare ormai solo su sé stesso da parte dell’Io (e dunque dell’individuo).
Vi è ancora la relazione con la propria essenza fondamentale (Grundwesen), ma in maniera sentimentalmente negativa ed anche vuota; in quanto di fatto l’Io non ha più sé stesso come proprio oggetto. Infatti il soggetto personale qui in causa ormai si disprezza. Con una lucidità devastante ma acutissima, egli guarda alla propria intera esistenza come ad un ripugnante cumulo di errori e bassezze. E quindi ritiene anche sé stesso un disvalore al pari di tutte le altre cose del mondo. L’Io sente che allora non può più in alcun modo tornare al mondo che ha appena abbandonato. E quindi sa di avere una sola via davanti: –l’abisso alieno nel quale esso può solo sprofondare senza fine. Abisso che è un «oltre» interiore ed insieme profondo. Ma, appunto, non si tratta solo di perdita del mondo, bensì forse ancor più di sé stesso, ossia del proprio fondo spirito-animico-corporeo (Grundwesen). Ecco allora che la propria spiritualità (isolata-individuale-determinata) non gli basta più ed egli vuole ormai uno spirito oggettivo, diffuso ed infinito.
Si tratta indubbiamente di un ulteriore presa di posizione critica della Walther verso il valore dell’onticità dell’Io; che qui viene decisamente posto in questione. Quando infatti l’Io sta al massimo della sua pienezza (ossia quando si è distaccato perfino dal quel fondo istintivo-sentimentale che costantemente lo contraddice), esso sta anche nel pieno della sua solitudine (solipsismo). E questa costituisce per esso una vera angoscia di morte.

I-3. La dimensione del «proprio», l’unicità individuale e il mondo spirituale.
In relazione a tutto questo si può quindi ora esplorare la serie di concetti che riconnettono la visione della Walther a quella parte della visione della Stein, in cui vengono toccati i temi del «proprio» (eigen) e dell’unicità individuale. In base a quanto abbiamo appena visto, infatti, appare chiaro che il fondo, quale “qualcosa” (“Etwas”) – ossia quale ontologia interiore –, è sempre insieme strenuamente interiore ed anche personale. Ecco insomma quell’oggetto che è sempre strenuamente «mio» – come del resto abbiamo costatato quando esso si rivelava essere l’oggetto per eccellenza con il quale l’Io si rapporta. Il fondo è pertanto il proprio intimo per definizione, ossia l’«eigen» nella sua pienezza. Ancora una volta la dottrina dell’intenzionalità fa qui un notevole passo avanti – sia rispetto alla Stein che ad Husserl. Perché qui di tratta del centro come nucleo assoluto del relazionarsi dell’Io con il proprio oggetto. Ciò supera dunque decisamente l’intenzionalità come un rispecchiarsi dell’Io nel mondo esteriore. Perché l’oggetto pur così trovato viene poi subito perso allorquando l’Io si rivolge a sé stesso. Tuttavia la direzione di tale intenzionalità – rivolta sempre verso ciò a cui tengo di più (il mio) – va comunque soggetta ad invertirsi, proiettandosi così verso l’esterno per mezzo di un Io la cui intenzione è in tal modo non più appena freddamente teoretica ma è ormai anche sentimentale. Se l’intenzione esteriorizzante dell’Io è quindi appena un vago stare alla finestra, in forza di questo appare ora esserlo comunque in maniera anche sempre fortemente sentimentale. Ed in questo senso l’Io qui in causa non sarà mai un Io puro.
Ma la Walther ci illustra una fenomenologia che va anche ben oltre quella appena discussa. Ed è quella che entra in vigore in un momento di intellettualità che prelude fortemente alla mistica (anche se in modo diverso dall’esperienza dell’Io prima descritta). E non a caso si tratta di un momento in cui l’intellettualità si trasfonde completamente nella spiritualità. In questa situazione avviene dunque in maniera molto incrementata tutto quanto abbiamo visto poc’anzi. Qui infatti l’intero essere individuale viene elevato a quella sfera superiore di luce, laddove lo sguardo spirituale diviene straordinariamente chiaro ed acuto. In tale caso, insomma, si sta meno che mai in relazione con un oggetto rispetto al quale si resta estrinseci. Si sta invece semmai immersi in una sfera ontica. E quindi è qui che ritroviamo il nostro proprio (eigen) – lo ritroviamo esattamente nell’esservi ormai totalmente immersi.
Tutto ciò viene completato da quanto accade nella fenomenologia dell’emersione di vissuti provenienti da presenze spirituali esteriori ma che si pongono in contatto profondo con noi.
Gli elementi che emergono sono sempre estranei (“fremde”). Qui insomma l’elemento estraneo percorre all’inverso la stessa strada che percorre l’Io nel porsi in contatto con il proprio (eigen).
L’appena discusso tema del proprio (eigen) si fonde così presso la Walther con quello dell’unicità individuale proprio come accade anche presso la Stein. E ciò implica anche in questo caso il tema del carattere. Ma nel contesto del discorso della nostra pensatrice, quest’ultimo rischia di costituire un argomento riduzionistico. E ciò avviene in quanto esso pone il «proprio» (e quindi anche l’unicità) come ciò che spiegherebbe interamente i fenomeni interiori, spogliandoli in tal modo di tutta la loro metafisicità (effettiva ontologia spirituale interiore, e non invece appena inconsistente suggestione interiore). In tale riduzionismo vengono inevitabilmente inclusi anche i fenomeni dell’emersione. Ma, sottolineando l’oggettività inoppugnabile di fenomeni sostenuti da prove (“sie sind trotzdem da”), la pensatrice afferma che in realtà l’emersione è assolutamente immediata, e quindi non viene in alcun modo condizionata (negativamente) dalla specificità individuale.
In altre parole bisogna qui prendere atto di un fenomeno effettivo in quanto totalmente esogeno. Esso, cioè, non è affatto riducibile a ciò che solo apparentemente è esogeno, ma invece in realtà è dovuto appena a quanto viene prodotto artificiosamente dalle nostre tendenze soggettive interiori. In questo caso si tratterebbe infatti di fenomeni interiori del tutto effimeri, e quindi privi di qualunque realtà oggettiva.
Ma la dimensione dell’unicità individuale si delinea presso la Walther anche a proposito della direzione dello sguardo intenzionale dall’Io rivolto verso il proprio oggetto interiore. Quest’ultimo però corrisponde di fatto anche al relativo oggetto esteriore sentito come valore e quindi investito di amore. Secondo la pensatrice, però, la psiche umana può sostenere solo limitatamente un’esperienza così intensa. In quanto in questo caso l’amore tende a trasformarsi molto facilmente in un desiderio divorante. Lo stesso tuttavia non accade invece affatto quando lo sguardo intenzionale dell’Io assume la stessa attitudine dello sguardo di Dio (in questo caso esso vede infatti davanti sé una sua “creatura”). E proprio così si delinea pertanto l’unicità individuale come oggetto dell’intenzionalità sentimentale dell’Io, e quindi come intensificazione sentimentale dell’individualità prodotta dall’Io. Anche tutto ciò sta comunque in relazione con diversi aspetti della dottrina dell’empatia della Stein (essere toccati etc.). Ma ciò che più importa è che è proprio su questo piano che si finisce per riconoscere anche l’umano-divinità. Gli altri esseri vengono infatti riconosciuti unici in quanto creature divine, ossia come figli di dio (elevati alla filialità divina). E bisogna dire che – per quanto mai troppo esplicitamente sottolineato dalla pensatrice – la dottrina steiniana dell’unicità individuale tende a sfociare proprio in una dottrina dell’umano-divinità.
In questo ambito di fenomeni rientra poi anche l’intera dottrina (anch’essa di ascendenza steiniana) del «mondo spirituale». A questo concetto dobbiamo però approssimarci per mezzo di altre riflessioni della Walther – deviando pertanto per un po’ dal tema dell’unicità per poi ritornare nuovamente ad esso.
Bisogna partire da quanto segue. L’evenienza di una manifestazione effettiva di Dio (ammessa dalla pensatrice in alcune inconfondibili occasioni) porta allo scoperto anche l’effetto della percezione spirituale che abbiamo visto prima. Cosa con la quale si delineano poi le datità squisitamente spirituali. Tale genere di percezione avviene quindi nel puro spazio ontico dello spirito (onto-spiritualità). E quindi mette capo ad una sensorialità superiore, che è in grado di cogliere specificamente il mondo spirituale.
Parlando dell’investimento di luce spirituale da parte dell’Io rispetto agli oggetti esteriori (in seguito allo sprofondamento dell’Io nel suo fondo, dopodiché la luce spirituale fuoriesce dal buio del fondo e prende a galleggiare liberamente dietro), la Walther postula quindi un’irradiazione di ritorno da parte degli oggetti. E questo integra non poco il concetto steiniano di mondo spirituale – entro il quale comunque veniva posto in evidenza un effetto di ritorno, dovuto all’investimento etico-emozionali degli oggetti da parte dell’interiorità individuale. Ma tale fenomeno viene indagato dalla Walther in maniera ben più completa ed estesa rispetto alla Stein. Perché lei parla di una fusione tra la luce esteriore e quella interiore; con il confluire poi di entrambe in una Luce spirituale di ancora maggiore portata, ossia un’unitaria sfera di luce. L’effetto di ciò è quindi l’abolizione di qualunque spazialità, specie come differenza tra interiore ed esteriore. E questa non rappresenta altro se non lo “spirito divino” (“göttlicher Geist”) stesso (o anche Spirito santo, “Heiliger Geist”), del quale gli uomini sono scintille. Questa è la fonte primaria di luce (“Urquelle”) e pertanto anche di qualunque emersione interiore.
Più precisamente accade questo. Dagli oggetti promana una luce che viene incontro a quella promanante dall’Io. E così la luce centrale umana sembra derivare da quella degli oggetti (Essere), mentre poi quest’ultima sembra a sua volta derivare dalla stessa Luce divina (o Spirito santo).
Sperimentando e riconoscendo tutto questo, l’uomo si riconosce quindi possessore di una sfera spirituale luminosa profonda, che a sua volta rinvia ad una “fonte spirituale primaria” (“geistige Urquelle”). Anche a tale riguardo, allora, il concetto steiniano di mondo spirituale viene estremamente dilatato. Infatti è proprio per questa via che l’uomo si riconosce parte del “mondo spirituale” (“geistige Welt”), o anche “regno spirituale” (“geistiges Reich”). Esso sta chiaramente nel profondo, ma è anche per sua natura un «mondo», ossia è un’ontologia. E quindi è fatto di altri – estranei che hanno influsso su di noi, ovvero, più precisamente ancora, entità metafisico-spirituali e relative presenze spirituali.
Possiamo quindi costatare come il concetto di mondo spirituale configura presso la Walther una vastissima ontologia i cui caratteri sono apertamente non solo mistici ma anche teosofici. Presso la Stein invece si delinea in primo luogo un’ontologia cristocentrica . E quest’ultima si allinea poi ad una dottrina metafisica religiosa – quella di Cristo come «carne» del mondo –, che è anch’essa tendenzialmente mistica, ma lo è solo tendenzialmente. Il suo punto di ancoraggio primario è infatti soprattutto teologico.
La Walther ci mostra poi anche come il discendere della Luce spirituale divina (come accade, ad esempio, in situazioni di grave rischio di vita) – nella forma di raggio proveniente dalla “sfera di luce spirituale” che avvolge l’Io – ha l’effetto specifico di consegnarlo esattamente al mondo spirituale nella forma specifica di impregnazione spirituale del mondo stesso. Il rafforzamento dell’Io (con la conseguente decisione di continuare la lotta) – che risulta di tutto ciò – non avviene infatti sulla linea delle leggi del mondo, ma invece all’opposto, e cioè sottraendolo ad esse.
E quindi consegna di fatto l’Io ad un altro mondo. Il mondo spirituale è dunque anche questo: – un altro mondo, o anche il mondo ideale parallelo a quello reale. Non vi è dubbio che solo la prova (dolore e sventura), affiancata dalla manifestazione divina, ci permette di sperimentarlo nel corso di questa esistenza. Per mezzo della complessiva esperienza, infatti, noi ci rendiamo conto di vivere in realtà letteralmente accanto ad un mondo del tutto invisibile; che è però il più bello, giusto e buono che esista.
Ebbene l’appena descritto fenomeno della fusione delle due sfere di luce comporta per l’uomo un riconoscersi come ente spirituale, e simile al Dio-Spirito, che è poi un ulteriore aspetto sia dell’unicità che anche dell’umano-divinità. Si tratta per la precisione di “qualità spirituale individuale” (“individuelle geistige Qualität”); ed è ancora unicità in termini specificamente onto-spirituali, in quanto sta sempre in relazione con la sensibilità individuale (sempre di natura spirituale) a determinati enti-valori (mondo spirituale). In questo l’uomo resta però comunque onto-spiritualmente inferiore allo Spirito divino; che pure è esso stesso altrettanto unico (fino ad essere personale), ma intanto sfuggendo all’individualità. Questo significa però anche che la Walther allarga il significato dell’unicità umana (indagata dalla Stein) a quella di una spiritualità che forza notevolmente i limiti dell’’individualità e della personalità. Il che significa che, almeno per questo aspetto, la sua filosofia religiosa supera anche la prospettiva steiniana, ponendosi così fuori di un orizzonte di pensiero cristiano che è stato quasi interamente personalista .
Ecco che la spiritualità umana, una volta colta nella sua pienezza, appare tendere ad andare ben oltre i limiti della persona, e quindi nel senso della morte della persona e dell’Io. L’unicità individuale non è fatta insomma per celebrare sé stessa e restare com’è. Come tale infatti essa è appena un Io, ossia ente intellettuale dotato di facoltà (equivalenti onticamente alla spiritualità personale, e non invece a quella impersonale o divina). Essa è fatta invece per superarsi. In ogni caso la pensatrice ammette che l’unicità umana come individualità resta comunque pur sempre sul piano immanente – com’è evidente nella preferenza di alcuni particolari oggetti.
In rapporto a tutto ciò può poi venire esaminato presso la Walther un tema che compare entro la riflessione metafisica steiniana davvero più prossima alla mistica, e cioè quella riguardante il mistero della dinamica trinitaria. Vedremo però che a tale proposito emergono anche importanti elementi di differenziazione della dottrina waltheriana da quella husserliana dell’Io e della pura teoresi, che ad esso viene attribuito dal pensatore tedesco.
La pensatrice chiarisce infatti che il raccogliersi in sé stesso dell’Io (lo sprofondamento) genera sempre una gioia che inevitabilmente irradia all’esterno (Austrahlung). Questa irradiazione è poi contemporanea alla stessa emersione interiore del sentimento. Ma il tutto ci riporta a quel «procedere da sé stesso» (“Herausgehen”) che la Stein ha messi in evidenza appunto in relazione alla dinamica trinitaria . Si tratta in particolare di una dinamica effusiva, procedente dal primo termine della triade divina (il Padre), nel contesto della quale tutto viene donato senza che intanto avvenga alcuna consumazione di essere. A tale proposito la Walther sottolinea poi in particolare l’impossibilità di equiparare l’effettiva filialità divina con quella umana. In questo senso la sua dottrina è decisamente anti-gnostica.
Ma a tutto ciò va aggiunta anche la dimensione di passività che si viene a stabilire in quel raccoglimento dell’Io in sé stesso che è anche concentrazione, e quindi superamento della spazialità. Si tratta pertanto dell’intensificazione spasmodica dell’interiorità, che a sua volta sembra tendere a superare la diffusione e dispersione spaziale. Infatti l’Io raccoglie anche il suo sguardo, normalmente disperso, in modo tale che esso si acuisce in maniera straordinaria. E così di nuovo l’intenzione assume un volto totalmente diverso rispetto alla dottrina fenomenologica. Perché in tal modo non c’è più né l’avere di mira un oggetto né il muoversi di un flusso di vissuti entro la coscienza. Infatti, sebbene sia stato comunque un oggetto esterno ad aver catturato l’attenzione dell’Io, non è affatto nell’usuale senso che si muove l’intenzione. Essa non è più diretta in senso lineare – puntando così dritta sull’oggetto –, ma è invece modulata; e quindi non affatto incondizionata come lo è quella puramente teoretica. La dimensione della modulazione è qui rappresentata dalla presa di posizione di uno spirito che non è affatto solo intelletto puro (teoresi pura), ma è anche sentimento. Ed inoltre la concentrazione dell’attenzione esprime proprio questa libertà come auto-determinazione dell’Io; più che invece indeterminata ed incondizionata sua cattura da parte di un esteriore neutrale in senso etico-estetico. È proprio a tale proposito che entro il riscorso della Walther si chiarisce che lo spirito (“Geistiges”) è un’intellettualità davvero superiore (ente umano); e che quest’ultima è opposta allo psichico (“Psychisches”) in generale, che è invece appena funzionale ed animale. È solo in questo ultimo caso che si può parlare di una reazione davvero incondizionata tra l’interiorità psichica e l’oggetto esteriore. E proprio la Stein aveva chiarito tale fenomenologia, parlando dell’”apertura” (“Aufgebrochenheit”) incondizionata dalla psiche animale verso l’oggetto esteriore, al quale essa è legata per mezzo dell’istinto.
Ebbene proprio a tale proposito nella psiche umana gioca evidentemente un ruolo davvero fondamentale la dimensione emozionale-sentimentale; in assenza della quale evidentemente la stessa teoresi (tipicamente umana) resta comunque incompleta. A tale proposito, infatti, la Walter critica la de-sentimentalizzazione dell’Io come affermazione della pura teoresi.
Tale discorso si riconnette poi a quello che faremo più avanti a proposito di Husserl sulla differenza tra Io, spirito ed intelletto. Infatti – in linea con quanto abbiamo appena visto – possiamo costatare che (nella visione della Walther) lo sguardo spirituale dell’Io non investe più solo linearmente nell’esteriore gli oggetti (“Gegenstände”) in maniera concentrata (cioè in funzione del solo determinato). Esso è invece una luce che sprigiona dall’Io investendo globalmente gli oggetti stessi. Ma questo pone di nuovo in primo piano il «procedere da sé stesso» trinitario (Herausgehen). Infatti qui nel complesso avviene la trasformazione completa del fondamento spirituale (“Grundwesen”) retrostante all’Io: – esso si libera e si diffonde come una sfera di luce interiore, che a sua volta trasforma lo sguardo spirituale da concentrato a diffuso-splendente (la sfera esemplifica proprio il fenomeno dell’irradiazione di luce da un centro, ovvero Ausstrahlung). E ciò deve evidentemente corrispondere alla conoscenza come illuminazione.

I-4. La dottrina dell’anima, della triade spirito-anima-corpo e della relazione tra anima e corpo.
Sulla base di tutte queste premesse si può ora ritornare alla struttura ontologica statica dalla quale siamo partiti, tentando così di delineare quelle che sono per la Walther (sullo sfondo delle relative dottrine steiniane) la dottrina dell’anima, la dottrina della relazione tra anima e corpo e la dottrina della compagine spirito-animico-corporea, ossia di fatto l’antropologia .
A tutto questo va premesso però che finora di fatto abbiamo parlato proprio della realtà spirito-animico-corporea. L’intera sostanza interiore e retrostante all’Io ha infatti esattamente questa natura. Quando pertanto si parla di retrofondo dell’Io si parla di spirito, si parla di anima, e si parla del corpo nel senso specifico di “Leib”. Ossia (come chiarito proprio dalla Stein) si parla di corpo animico – cioè una corporalità intimamente unita all’animicità, e da essa pertanto profondamente impregnata.
Tuttavia proprio qui è necessario pervenire ad una differenziazione ontologica ancora più netta di intellettualità e spiritualità. Laddove va qui precisato che l’anima, a causa della sua valenza conoscitiva, può qui venire intesa come equivalente all’intelletto. Vedremo però tra poco che ciò può essere sostenuto solo per approssimazione. Ebbene, la pensatrice sostiene con estrema decisione la dovuta differenziazione ontologica tra anima e spirito. Laddove la prima è per lei (proprio come per Plotino) da assimilare onticamente al secondo in maniera totale. In questo senso la sua presa di posizione è decisamente gnostica (almeno nella tendenza). Ma tutto ciò sta in intima relazione con quanto già detto circa le caratteristiche del fondo quale retro, ossia realtà aperta posteriormente verso uno spirito impersonale. Inoltre ciò sta in relazione anche con il fenomeno dello sprofondamento dell’Io nel proprio stesso fondo. Quindi, in forza di tali caratteristiche, sta di fatto che spirito ed anima si pongono in una continuità così serrata da configurare un’unità inscindibile. La quale poi corrisponde esattamente all’antropologia spirito-animico-corporea, ossia quanto la Walther definisce come una tri-unità. Tuttavia il paradigma di tale unità è propriamente dinamico, e cioè equivale perfettamente al fenomeno dell’emersione. Più precisamente si tratta dell’irradiazione di essere (immateriale e sottile), a partire da una sostanza profonda, che però è l’essenza stessa di tutto quanto da essa viene emanato. In altre parole la sostanza implicata nell’emersione è una sola cosa con il processo stesso dell’emersione – essa è ciò che è proprio in quanto è totalmente dinamica. E questo è senz’altro un ulteriore carattere della sostanza spirituale. Si tratta insomma dello spirito quale Pneuma.
Naturalmente, ci dice la Walther, bisogna tenere conto dei diversi punti di vista metafisici che sono da sempre esistiti rispetto a questo insieme di tre sostanze. E questi, scindendo l’unità tri-unitaria, hanno sempre teso ad interpretarla per mezzo di una sola delle sue possibili forme: – o spirito, o anima o corpo. Ed ecco quindi anche le varie visioni di uomo; secondo quella che viene giudicata volta per volta la sua essenza: – uomo corporeo, uomo animico, uomo spirituale.
In ogni caso la Walter protesta molto esplicitamente contro chi ha voluto negare la primaria natura spirituale dell’anima (ed anche qui ella assume una posizione decisamente gnostica). Proprio affermando questo, la pensatrice si produce dunque nella proposta di una vera e propria dottrina dell’anima. E quest’ultima, per quanto affermata davvero in pochissimi concetti, è estremamente decisa e chiara: – l’anima non è altro che spirito. Pertanto la differenza tra le due sostanze esiste eccome. Anche se essa può essere moderata (come fa Plotino) affermando l’esistenza di una parte superiore dell’anima ed anche dello spirito. Per esemplificare ciò in campo metafisico-religioso, la Walther si rifà qui alla natura essenzialmente spirituale di Gesù Cristo (ecco ancora la gnosi) – riconosciuta da alcuni (demoni) ed invece negata da altri (Pilato e Farisei). A tale proposito la pensatrice si sofferma poi nuovamente sulla definizione “psichico”. Esso designa infatti per lei un’ontologia immediatamente superiore a quello del mero corpo. E non a caso lo psichismo risulta evidente anche in animali e piante (con la gradazione verticale esistente tra di essi), nella forma specifica rappresentata dalla funzione conoscitiva dell’anima (anima conoscente). Ma nello stesso tempo si tratta comunque di qualcosa di diverso dall’intelletto: – qualcosa di meno, certamente, ma soprattutto di diverso. L’onticità dell’anima è infatti sostanzialmente emozionale. Essa è thymos, e quindi rappresenta tutto quanto è sentimentale ed umorale (“Gemüt”, “Gefühl”).
Ma, come abbiamo detto, tutto questo si esprime in maniera sostanzialmente dinamica. E ciò ripropone decisamente il tema steiniano ed husserliano della formazione animico-spirituale. Quest’ultima viene letta però dalla Walther in maniera ancora una volta decisamente sentimentale, e cioè come volontà ed amore. Lo sguardo spirituale dell’Io è infatti per lei sostanzialmente questo, ossia una vera e propria forza creatrice e trasfigurante. E ciò deve avvenire proprio perché essa è sorretto da una forte spinta emozionale emergente dal fondo interiore.
La pensatrice comunque – in obbedienza ad una visione che in generale sottolinea la corporeità delle entità spirituali – non può qui avvalorare la posizione platonico-pitagorica della totale riduzione del corpo allo spirito (come nel concetto di corpo come prigione dell’anima). Per lei bisogna insomma pienamente ammettere la valenza spirituale del corpo (corporalità spirituale). Sebbene non si possa nemmeno ridurre lo spirito al corpo. La dimensione spirituale del corpo viene vista da Walther soprattutto nel processo (sostanzialmente spirituale) della formazione animica che reca al risultato finale della bellezza corporea: – propria solo di un essere perfettamente integrato spirito-anima-corpo. Tale fenomeno esprime quindi nuovamente l’unità statico-dinamica spirito-anima-corpo, che a sua volta va ancora una volta di pari passo con il fenomeno di emersione.

II- Walther e Husserl.
Il discorso fatto per la Stein, vale naturalmente anche per Husserl – almeno rispetto a diversi elementi del comune pensiero. Abbiamo infatti già visto (a proposito dei concetti di intenzionalità, proprio o eigen, inter-soggettività e teoresi pura) che la visione della Walther integra e dilata sia quella della Stein che quella di Husserl.
Alcuni aspetti specifici della sua riflessione sembrano però riferirsi ben più direttamente al solo pensatore tedesco. E pertanto li esamineremo seguendo in una certa maniera lo stesso schema già seguito in relazione alla Stein, e cioè partendo dall’ontologia di fondo della visione waltheriana.

II-1 Gli oggetti irreali, ovvero metafisici.
Un primo elemento da esaminare è quindi nuovamente quello delle entità che per la Walther stanno al centro dell’ontologia interiore, ossia gli enti davvero strenuamente metafisici .
Abbiamo già visto chiaramente infatti che la pensatrice ammette pienamente, e senza la minima difficoltà razionale, l’esistenza fisico-corporea di oggetti irreali nel senso di enti puramente metafisici caratterizzati dall’assoluta sottigliezza immateriale di essere. E questo non si può dire certamente per Husserl. A questo punto bisogna anche ricordare alcuni momenti testuali del suo pensiero, nei quali egli, proprio nel escludere recisamente l’ammissibilità razionale dell’effettivo esistere di tali enti, assunse una posizione nettissimamente anti-metafisica . Proprio questo rende impossibile pensare nel suo caso al sussistere di una vera filosofia religiosa. Ebbene appurare questo non è l’obiettivo del nostro articolo, e tuttavia almeno brevemente dobbiamo occuparci qui della questione. Certo è infatti che quanto nel caso di Husserl risulta impossibile, risulta invece del tutto possibile entro la “fenomenologia della mistica” waltheriana. Come abbiamo visto, proprio in quest’ultima sono collocabili gli oggetti che sono ragionevolmente irreali, eppure sono anche tangibilmente esistenti. E lo sono per il semplice motivo che noi ne «sentiamo» chiaramente l’esistenza dentro di noi. Con ciò la Walther non mette insomma minimamente in discussione la realtà effettiva dei fenomeni che si verificano nell’esperienza religiosa colta nella sua effettiva pienezza, e cioè davvero viva ed intensa. Si tratta del presentarsi effettivo in essa di enti assolutamente irreali – come avviene nell’emersione di contenuti interiori totalmente sine materia. In particolare abbiamo qui l’emersione dal profondo di elementi di esperienza che non sono mai assolutamente passati per l’Io. Esi insomma non hanno affatto seguito la via esteriore, ma invece solo quella interiore. Del resto poi essi stessi esistono nel mondo esteriore anche in una maniera assolutamente ultra-sensibile, e cioè nella forma di entità personali emananti influssi energetici assolutamente non materiali; oppure addirittura come presenze purissimamente spirituali.
In questo caso avviene quindi senz’altro un’esclusione dell’Io cosciente – un bypassamento dell’Io che è poi un vero e proprio disinnesco della coscienza –, con il conseguente passaggio diretto degli elementi estranei all’”Einbettung” personale, seguito poi dall’emersione interiore alle spalle dell’Io.
Si tratta insomma di una comunicazione interpersonale non esteriore ma invece tutta interiore.
E si può ben dire che di tale fenomenologia la Stein ha esplorato solo la parte più in linea con la più rigorosa filosofia e psicologia. La Walther va invece ben oltre.
Ora è evidente che, per tutto il tempo del verificarsi di questi fenomeni, l’Io non viene a sapere assolutamente nulla di ciò che accade. In questo modo, allora, viene alla luce una fenomenologia psichica entro la quale la coscienza non gioca assolutamente alcun ruolo. E per la precisione ciò non avviene già sul piano della semplice psicologia. Pertanto ciò non avviene in maniera ancora maggiore sul piano di quella Fenomenologia, la quale tende ad assegnare alla coscienza (e quindi all’Io) un ruolo di importanza davvero cruciale.
A fronte delle osservazioni della Walther, bisogna quindi ammettere che ci troviamo davvero anni luce lontano dalla visione di Husserl. I termini della Fenomenologia di quest’ultimo sono quindi da considerare totalmente assenti presso la nostra pensatrice. E pertanto lo sono anche i termini della Fenomenologia storica che non fu husserliana (quella scheleriana e heideggeriana). Per quanto (per alcuni aspetti) ciò possa sembrare paradossale, l’elemento che accomuna queste tre visioni filosofiche appare essere proprio quello di un realismo del quale non vi è invece alcuna traccia nella visione della Walther. Ed in questo modo appare chiaro quanto quest’ultima si distacchi sullo sfondo del pensiero del suo tempo. La forte tendenza teosofica della visione waltheriana va pertanto senz’altro intesa come il segno dell’operare in lei di una vera e propria “perennis philosophia”. Non a caso la pensatrice protesta energicamente contro la negazione scettica dei fenomeni che lei invece avvalora pienamente. Ella sostiene infatti che, anche nel caso che tale negazione avesse le sue ragioni, essa urta comunque contro l’evidenza secondo la quale nella contemplazione noi possiamo effettivamente osservare oggetti (concetto, essenza, idea) in maniera puramente astratta.

II-2 L’Io secondo la Walther.
La visione waltheriana non può quindi rapportarsi a quella di Husserl se non in maniera fortemente critica. E ciò non può non avere conseguenze sulla dottrina dell’Io.
Di quest’ultimo infatti la pensatrice pone in forse peso e consistenza . Abbiamo già visto con quanta forza la pensatrice pone allo scoperto l’inconsistenza ontica dell’Io proprio quando esso appare nella sua forma più autarchica e quindi nel pieno di una vera e propria sua manifestazione di potenza. Si tratta insomma del fenomeno del solipsismo. Che qui però la Walther esamina nella sua manifestazione più schietta, ossia nel contesto di una vera e proprio ontologia dell’Io.
La pensatrice afferma infatti davvero senza mezzi termini che il soggetto non è affatto una monade senza finestre (Leibniz), e quindi per definizione non è affatto chiuso in sé stesso. Esso invece sempre condivide l’essere con gli altri. Per tale motivo il soggetto è per lei esso stesso un “fenomeno originario” (“Urphänomen”). Ed è in questo senso che esso costituisce un “campo di forze”.
Il riferimento è qui chiaro alla posizione e ruolo affidati da Husserl all’Io – ossia alla sua valenza di “Io-centro” che sta conoscitivamente alla radice (originario) di qualunque essere, e precisamente per mezzo di un atto di coscienza e conoscenza (forza). Ma abbiamo già visto (in relazione alla Stein) che la realtà caratterizzata dall’«originario» è ben lontana dall’ontologia che può essere del solo Io. Ne consegue pertanto che, se quest’ultima può avere caratteristiche di «originarietà», ciò può avvenire solo se essa risulta riconducibile all’ontologia interiore fondamentale posta dalla Walther. Ed infatti quest’ultima colloca l’originarietà del soggetto proprio nel contesto dell’ontologia spirituale interiore. E ciò implica poi tutte le caratteristiche da essa comportate – in particolare la dimensione sentimentale ed empatica (laddove l’empatia è testimone dei fenomeni di esperienza sostanzialmente interiore). Infatti la dimensione del non-solipsismo del soggetto (necessaria condivisione) comporta anche l’inevitabile percezione dell’altro, e quindi porta l’Io ad avere una percezione della vita interiore dell’altro nel contesto della sua visione interiore di sé stesso (“Innenschau”). E due sono le strade per mezzo delle quali ciò si verifica: – 1) dedizione (“Zuwendung”) al mondo esteriore; 2) risonanza incondizionata (“unmittelbare Mitschwingen”) con le esperienze dell’altro. La Walther ci mostra così di fatto la strada stessa che, proprio per mezzo dell’empatia, aveva portato da Stein a Husserl.
Del resto, come abbiamo già visto nella precedente sezione, alla solitudine dell’Io la nostra pensatrice da un volto ed un corpo davvero eccezionali; descrivendoli come il desolante stato spirituale ed intellettuale che precede di poco l’esperienza mistica. Qui viene insomma da lei descritto lo stato di spaventosa solitudine dell’Io nella sua pienezza concentrata (solipsismo), che sembra essere quello della teoresi piena, ma invece si rivela essere quello del distacco. Proprio come tale esso prelude all’esperienza mistica nella sua pienezza.
Per comprendere meglio tutto questo dobbiamo però entrare nei dettagli di quanto la pensatrice ci illustra. L’Io è infatti per lei germe (“Keim”) dello spirito solo in quanto esso si pone in relazione con il fondo spirito-animico (Grundwesen) – quale sua base di appoggio (punto di partenza) per l’auto-determinazione (auto-conoscenza), in relazione a ciò che ognuno di noi deve diventare in forza del proprio fondo o nucleo. Nello stesso tempo però in tal modo appare chiaro che anche il fondo stesso ha assolutamente bisogno dell’Io come proprio vertice (“Aufgipfelung”). Si pone quindi così (in tutto il suo valore) l’esistenza indipendente dell’Io rispetto al fondo quale sua base.
E funzionalmente ciò avviene al massimo nella concentrazione piena dell’Io (diversa alla condizione del fondo in cui l’attenzione è sempre divisa). Qui si delinea dunque una condizione di vera e propria libertà dell’Io dal fondo. Ed il suo paradigma è in via di principio estremamente negativo – Lucifero stesso ci viene qui presentato come esempio della pienezza incondizionabile dell’Io. Ma alla fine tutto ciò, grazie allo sconfinamento dell’intera fenomenologia egoica nel campo della mistica, si rivela nei fatti totalmente positivo. Si delinea infatti in tal modo un isolamento dell’Io che in sé configura l’autentico Io puro (“reines Ich”). Ma si tratta solo di un momento di splendore dell’Io nella sua incondizionatezza ontica. Qui si ha infatti l’esperienza pura di sé stesso (e perfino di Dio), ma intanto ormai totalmente in assenza del mondo. Si tratta insieme di un isolamento dell’Io ed anche di un massimo di coscienza. In questa situazione l’Io è pertanto autentica e indispensabile cerniera tra ciò che gli sta dietro (Grundwesen) e ciò che gli sta davanti (mondo). Ecco dunque l’Io raffigurato come occhio dell’anima. Ma questa sua straordinaria elevazione non appare affatto fine a sé stessa, né appare affatto destinata a rappresentare il suo status ontico in assoluto. E questo è esattamente quello al quale cerca di dar corpo Husserl. Almeno in questi termini, quindi, la visione waltheriana va considerata decisamente anti-idealista.
Inevitabile è dunque la decisa relativizzazione della centralità dell’Io da parte della Walther . L’intero concetto di “Io-centro” (“Ichzentrum”) viene infatti sottoposto dalla pensatrice ad una critica fortemente limitante. E ciò si esprime anche nell’affermare (nell’ambito della fenomenologia ed ontologia qui illustrata) la sua totale assenza di potere rispetto alle esperienze esteriori.
Di converso però all’Io viene concesso un grande potere nelle esperienze interiori. Si tratta insomma di un potere di ritorno, e del quale l’Io resta debitore proprio alla sostanza che lo nutre dal fondo – l’olio della lampada, che è il combustibile in assenza del quale lo stoppino non potrebbe mai assolvere al suo ruolo, e cioè quello di irradiare luce.
Ovviamente non si tratta però di un potere assoluto, ma invece solo relativo. Si tratta cioè della capacità dell’Io di facilitare (per mezzo della sua sensibilità solo verso alcuni vissuti) l’esperienza interiore. Ma questo mette inevitabilmente in primo piano quella dimensione etica della coscienza (atteggiamento valutativo), che invece in Husserl è del tutto secondaria (sebbene considerata contemporanea) rispetto all’atteggiamento teoretico . E questo pone di nuovo in questione l’intenzionalità stessa in quanto “coscienza di” un oggetto. Così formulata, essa esprime infatti il possesso inalienabile dell’Io sull’oggetto. Specie nel senso che l’inizio dell’atto di coscienza è tutto suo. La Walther introduce invece una netta differenziazione in tale convincimento di Husserl (sebbene in parte anche confermandolo). Ella afferma insomma che non è affatto dell’Io il possesso sull’oggetto esteriore. Infatti, come abbiamo visto prima (a proposito della Stein), l’oggetto esteriore è in verità il momento di inizio di un’esperienza psichica sostanzialmente interiore.
E sta solo qui il suo effettivo valore. Non sta invece laddove esso è invece un indifferente oggetto esteriore sul quale si soffermi l’Io senza intanto intrattenere alcuna relazione con il profondo.
La Walther completa quindi la dottrina husserliana dell’intenzionalità affermando che la “coscienza di” è sostanzialmente auto-coscienza. Non è “Bewusstsein” (“essere cosciente”) ma è “Selbstbewußstsein” (“essere cosciente di sé”). È quindi vera e proprio coscienza del proprio Sé.
È pertanto quel «sapere di sè», quale tratto fondamentale dell’onto-intellettualità umana. Ebbene a tale costatazione Husserl sembra concedere un grande spazio e peraltro di concerto con la Stein – nel contesto della concezione spirituale del soggetto cosciente-conoscente. E tuttavia è evidente che tale concessione è solo incompleta se non si coniuga per davvero con la postulazione della primarietà dell’ontologia interiore. E ciò avviene solo entro quelle visioni filosofico-metafisiche che concepiscono l’«auto-conoscenza» quale dimensione radicalmente primaria dalla conoscenza stessa (Platone, Agostino etc.) . Dunque, più che di un coglimento di vissuti (rispetto ai quali si sia ontologicamente estranei), si tratta con ciò di un sapere dei propri vissuti. Ed ecco che il «sapere di sé» proprio dell’Io assume ben altro senso che quello di un’auto-coscienza puramente teoretica e solipsistica. Si tratta insomma del fatto che, quando conosce coscientemente, l’Io prima di tutto coglie sé stesso nel conoscere. Ma questo introduce nella dottrina husserliana dell’Io la primarietà di un’ontologia interiore (rispetto a quella esteriore), che invece in essa era completamente assente. E quindi ciò inaugura un idealismo anti-realista (tipico di ogni spiritualismo religioso) che è incentrato sulla conversione all’interiore. Conversione che poi ha lo stesso identico significato che ha il fenomeno del «rivolgimento» (platonico) da noi già posto in luce.
Si può dire allora che con la Walther noi riconosciamo al campo della conoscenza (proprio dell’Io) lo spessore e la dignità di un’ontologia non più separata dall’Io – in quanto esteriore e quindi ad esso irrecuperabile (idealismo) –, ma invece sempre inclusa in esso stesso. In tal modo l’Io stesso viene una sostanza primariamente interiore. Come tale questa realtà interiore sarà quindi caratterizzata da un’oggettualità tipicamente metafisica, e quindi onto-spirituale: – corporea ma immateriale e sottile. Ed eccoci dunque di nuovo al cospetto della fondamentale fenomenologia dello sprofondamento dell’Io nel suo fondo. Si tratta con esso del raggiungimento da parte dell’Io del culmine del potere effettivamente a sua disposizione – che però non è diretto affatto verso l’esterno, bensì in realtà solo verso l’interno. In esso avviene allora il coglimento dell’essere nella sua forma spirituale. Ed il fenomeno dello sprofondamento dimostra dunque che cogliere lo spirituale è possibile solo se ci immergiamo in esso. Ciò comporta pertanto un arretramento dell’Io rispetto all’esteriore proprio nel senso dello sprofondamento verso il retro. Solo lì c’è infatti lo spirituale.
Ecco allora che il fondamentale intervento della Walther nel contesto della Fenomenologia husserliana mette a nostra disposizione contenuti riflessivi che altrimenti in essa forse non sarebbero mai maturati.

II-3 Anima e spirito sullo sfondo della visione husserliana.
Da qui si può dunque pervenire ad una precisazione circa la dottrina dell’anima e dello spirito, così come si sviluppa nel pensiero waltheriano in relazione alle premesse husserliane della ricerca fenomenologica.
In realtà tutto quanto abbiamo finora chiarito – a proposito dello sprofondamento dell’Io, dell’ontologia interiore e del solo relativo spessore ontico dell’Io rivolto all’esteriore – porta allo scoperto, presso la Walther , una dottrina dell’anima della quale in Husserl non vi è alcuna traccia. Eppure è innegabile che essa sia presente nei suoi scritti (come ad esempio nella seconda parte di Idee per una fenomenologia pura). L’intera dinamica descritta dalla nostra pensatrice presuppone infatti una struttura, e cioè la primaria posizione profonda nell’insieme personale che in qualche modo si contrappone all’Io. E questa è poi la più autentica ontologia interiore. Di essa pertanto è presumibile che l’Io sia la parte più superficiale ed onticamente meno consistente. Questo insieme profondo è, come abbiamo visto, la dimensione spirito-animica contrapposta all’Io. E l’importanza del suo influsso sull’Io l’abbiamo già costatata nel conferimento all’Io stesso dei presupposti sentimentali per un atteggiamento conoscitivo sostanzialmente emozionale-estetico ed etico.
Tutto ciò si ricollega comunque all’immagine della lampada illustrata da Walther. Ella chiarisce infatti che all’interno di tale struttura (il recipiente limitato più esternamente dalle pareti stesse del corpo) vi è comunque una barriera ontologica tra spirito-animico e corporeo (Leib). Essa è porosa, ma comunque sussiste. La lampada è quindi di un doppio recipiente, la cui parte interna (interiore) è anima-spirito-mente, e la cui parte esterna è il corpo. Ciò significa allora che sempre ed invariabilmente “noi sperimentiamo il nostro corpo da dentro e non da fuori” (“wir erleben unser Leib von innen”). La nostra esperienza è insomma primariamente interiore, e non esteriore; e diviene esteriore solo a causa dell’interfacie esistente tra corpo e mondo. Tale interfacie è però esattamente quanto Husserl presuppone come il limite più estremo dell’Io, e quindi come la parte più periferica e secondaria di un’ontologia la cui pienezza coincide invece proprio con l’Io stesso nella sua estensione. Al contrario, in virtù di quanto ci mostra la Walther, tale ontologia si rivela essa stessa coincidente con l’esteriorità. Essa è insomma tutta esteriore, includendo infatti perfino l’Io (esso stesso solo superficiale, e quindi esteriore) con tutto ciò che intanto si distende davanti ad esso.
Per tale motivo essa è allora anche del tutto secondaria ed irrilevante ontologicamente.
La parte dell’essere più consistente e rilevante (dal punto di vista psichico) sta invece per la Walther del tutto alle spalle dell’Io. E quindi essa cessa decisamente di essere consistente già a partire dall’Io. Si tratta insomma di quanto avevamo già chiarito (criticamente) mostrando come la sequenza lineare orizzontale spirito(Io)-anima-corpo, procedente dall’interno verso l’esterno, costituisce un’immagine non fedele delle cose. Infatti lo spirito non sta per davvero appena dietro l’anima ed il corpo su una sequenza lineare orizzontale. Anzi esso non si identifica nemmeno con l’Io stesso come primo termine di tale sequenza. Lo spirito invece sta al di sotto dell’anima e del corpo, e più ancora sta al di sotto dell’io. È pertanto solo da questo «retro» e «sotto» (prima da noi costatato quale insondabile profondità) che inizia per davvero la sequenza spirito-anima-corpo.
L’intera critica waltheriana alla concezione husserliana dell’Io passa quindi obbligatoriamente per la rigorosa distinzione tra spirito e intelletto. Laddove presso Husserl la relazione tra i due elementi è stata lasciata fin troppo in un’ambiguità che non può ingenerare altro che confusione. Nel suo pensiero si sentiva infatti ancora l’effetto del riduzionismo positivistico e storicistico applicato al concetto di «spirito». E quindi, l’impiego husserliano del termine ha senz’altro una valenza di restaurazione di valore. Tuttavia ciò è ancora troppo poco finché non perviene alle sue effettive conseguenze. Ed ecco allora che la Walther, posta di fronte alla questione della possibile spiritualità dell’Io – espressa nella forma di differenziazione di altezza dell’Io stesso in direzione della spiritualità [“alto sé” (“höheres Selbst”) o anche di “alto Io” (“höheres Ich”), con i quali si intende poi un “fondamento spirituale” (“geistes Grundwesen”)] – precisa che non può esservi null’altro che spirito . Ancora una volta si tratta di un problema il cui stesso affronto pone in primo piano l’atteggiamento filosofico-religioso. Il quale poi a sua volta impone, quando autentico, l’affermazione di un’ontologia spirituale. E ciò è esattamente quanto fa la Walther nel sottolineare l’assoluta primarietà dello spirito. Ella afferma insomma che non vi è nulla di alto che non sia integralmente spirito. Ed ecco che dunque l’Io in sé (quello concepito da Husserl) non può in alcun modo essere spirituale in quanto «alto». Ma nemmeno può essere davvero spirituale, se prima non cessa di essere sé stesso per assimilarsi così totalmente alla realtà spirituale.
Inoltre ciò è ancora più vero se all’Io si vuole attribuire una valenza di «fondamento». Esso lo può essere solo e soltanto se è identificabile totalmente con la sostanza spirituale. Ed infatti solo lo spirito è fondamento spirituale, e come tale è anche «alto» – un alto che non a caso, come mostrato da Platone , è anche il profondo più profondo che si possa mai immaginare.
Tutto ciò deve quindi venire differenziato nettamente dall’Io nella sua originarietà, ossia dall’Io-centro (“Ichzentrum”). Con il quale si può poi anche intendere l’Io «alto» nel senso specifico di «centro funzionale», e quindi come Io puro. Si può dire allora che l’Io-centro resta semmai costantemente incluso nell’Io superiore, ovvero nello Spirito stesso. Come tale (cioè solo come spirito) esso è fondamento spirituale (Grundwesen) dell’entità personale, ma non è intanto affatto identico ad esso. Il mondo spirituale (“Welt des Geitigen”) è infatti, dice la Walther, una regione (“Region”) dell’essere per sé (“für sich”). E ad essa appartiene anche l’uomo come spirito. In forza di tale incidentale assimilazione essa ha pertanto perfino facoltà del genere di quelle intellettuali umane: – amore spirituale, volontà spirituale. Ma intanto non coincide affatto con l’uomo-intelletto quale spirito (“…der Geist ist auch nicht etwa mit dem Intellekt identisch”). Ecco allora che la sostanza spirituale è in sé radicalmente diversa dall’Io-Intelletto. Perché questo è sempre tendenzialmente naturale-ontico, e quindi è sempre differenziato . In questo senso esso è un possesso della facoltà attiva (che nell’Io è propria del carattere): – volere, amare. Lo spirito puro non possiede Io, e non ha quindi queste facoltà. Lo spirito è infatti ontologicamente più che intelletto: – è propriamente luce. E la luce è sempre globale. Ecco allora che il mondo dello spirito sovrastà all’uomo come spirito e non equivale invece ad esso. Si tratta così semmai molto più del sussistere ben primario di un “essere spirituale” (“geistiges Wesen”), il quale poi nel suo essere equivale pienamente all’ontologia spirituale. La pienezza dell’essere spirituale si ha quindi soltanto nell’essere spirituale per eccellenza, e cioè nello spirito puro. E qui bisogna dire che la visione waltheriana si differenzia radicalmente da quella husserliana proprio in quanto si approssima alla visione della Stein. Anche in quest’ultima infatti il paradigma più pieno della spiritualità umana viene visto nello spirito puro .
Tutto ciò significa allora che, se proprio si vuole attribuire all’Io il carattere dell’originarietà (Io-centro come radice dell’essere), allora bisogna travalicare la sua ristretta ontologia e postulare invece l’ontologia spirituale. In termini filosofico-religiosi ciò pone poi necessariamente la prospettiva della morte dell’Io e della morte della persona. Non a caso è esattamente in questa direzione che si muove l’Io dopo aver raggiunto quell’apogeo della sua pienezza. Nel quale però intanto la sua pochezza ontica solipsistica emerge in tutta la sua tragica evidenza.
In ogni caso di tutto ciò possiamo avere un’immagine dinamica allorquando osserviamo il fenomeno già commentato (Stein) del liberarsi della luce intellettuale-spirituale dal fondo (retro) nel quale essa era nascosta, per galleggiare liberamente alle spalle dell’Io (nell’interiore non più oscuro), in modo da porsi anche in contatto con esso.

Conclusioni.
Il nostro intero excursus testuale ci ha rivelato in modo davvero chiaro la continuità serratissima esistente tra il pensiero della Walther e quello della Stein. Sebbene in alcuni punti abbiamo visto che la prima addirittura supera la seconda nella pienezza di alcuni concetti filosofico-metafisici (come per esempio laddove la Walther osa varcare il confine delle più rigorose psicologia e filosofia). Nello stesso tempo ci è stato mostrato anche come l’approfondimento e la dilatazione della portata dei corrispondenti elementi dottrinari steiniani, da parte della Walther, fa sì che le tendenze già chiaramente presenti presso la Stein giungano a compimento nella forma specifica di una metafisica religiosa davvero intensissima. E tutto questo conferma decisamente la veridicità dell’ipotesi dalla quale siamo partiti.
Ma a ciò si aggiunge come elemento dirimente quanto abbiamo costatato esaminando le relazioni tra Walther e Husserl. Qui infatti la distanza tra i due pensieri si è rivelata essere davvero abissale.
Ed allora ciò significa che la forma strenuamente metafisico-religiosa assunta dalla visione steiniana, grazia all’opera svolta su di essa dalla Walther, segna anche un distacco definitivo di essa dalla visione husserliana. Di un tale distacco ci sono in verità avvisaglie anche nei testi dell’ultimissima opera della pensatrice. Ma ciò può essere constatato solo in concomitanza all’altrettanto evidente continuità ininterrotta (totalmente volontaria) che legò la sua visione a quella husserliana fine nei suoi momenti più ultimi.
È pertanto evidente che la dimensione espressamente filosofico-religiosa del pensiero gioca qui un ruolo fondamentale. Ma abbiamo anche detto che di quest’ultima non intendiamo interessarci direttamente in questo articolo. Più importanti ci sembrano gli elementi di fondo sui quali poggia la filosofia religiosa waltheriana, e cioè quegli enti intesi in una maniera strenuamente metafisica la quale non potrebbe essere tale se non fosse anche strenuamente religiosa. Parliamo insomma della dichiarazione dello spirito come davvero autentica, e quindi davvero originaria, ontologia. E per spirito va inteso quindi qui un’onto-spiritualità che, nello stesso tempo in cui è totalmente tangibile (nel corso dell’esperienza interiore), denota anche un’onticità immateriale e sottile, ossia estremamente rarefatta. Di essa possiamo avere esperienza nella nostra interiorità, ma è evidente che nella sua pienezza essa si trova solo negli spiriti puri, ossia in quelle persone spirituali che vanno dai demoni, agli angeli, e che culminano con Dio. La consapevolezza netta di tali entità ha caratterizzato l’intera metafisica religiosa occidentale, e senza alcuna vera distinzione tra la sua fase pre-cristiana («pagana») e cristiana . Non a caso in Origene noi possiamo prendere ancora pienamente atto di una visione che le prevede tutte. Va precisato però che la concezione davvero spiritualistico-religiosa di tali entità – ossia la concezione nella quale si afferma effettivamente senza mezzi termini che l’Essere è Spirito divino e nient’alto – si ritrova solo pensiero cristiano platonico e gnostico-platonico.
Fatto sta che, chiaramente accennate nella visione metafisico-religiosa steiniana (ma molto più in connessione con una metafisica religiosa tomistico-aristotelica), tali entità vengono concepite nella loro pienezza solo presso la Walther. In Husserl invece esse sono non solo assenti, ma vengono anche negate. Possiamo quindi prendere proprio questo come l’elemento in relazione al quale trarre le nostre conclusioni sulla presente investigazione. La precisa misura della distanza esistente tra Husserl, Stein e Walther si può avere infatti proprio in relazione allo svilupparsi progressivo – nel contesto della complessiva visione fenomenologica – di un onto-spiritualismo che, giunto davvero alla sua pienezza, si pone poi inevitabilmente come autentica filosofia religiosa.
Ebbene, sta di fatto che in tal modo si giunge a pensare un’ontologia che il pensiero filosofico moderno (unanimemente vincolati ai veti kantiani) non ha mai nemmeno lontanamente voluto considerare ammissibile. Con l’ontologia waltheriana noi ci troviamo non a caso proprio sul piano di quelle affermazioni metafisiche sulle quale le moderne filosofie decostruzioniste (analitica, della mente, del linguaggio, cognitivista), tutte radicalmente anti-metafisiche, avrebbero da sollevare una serie infinita di obiezioni demolitorie. E del resto chi frequenta gli ambienti della Filosofia accademica sa bene che di cose come queste non è di fatto lecito parlare nemmeno negli ambienti nei quali si coltiva ancora lo studio di un pensiero autenticamente religioso (come accade negli studi del pensiero antico).
È proprio qui insomma che possiamo cogliere davvero con mano quale sia stato il contributo offerto dalla Walther, nel contesto delle relazioni che esistono tra il suo pensiero e quello della complessiva scuola fenomenologica. Ed è evidente che il carattere di tale contributo è quello di una straordinaria originalità, che poi è sicuramente anche non conformistica. E quello dell’originalità è senz’altro un carattere anche del pensiero steiniano. Il che significa che la Walther lo ha portato a compimento anche da tale punto di vista.
Dobbiamo però ancora chiarire quali sono gli elementi specifici più generali del contributo waltheriano. Ebbene, essi sono emersi piuttosto chiaramente nel corso della nostra investigazione.
Il primo luogo si tratta di un radicale idealismo religioso che naturalmente sta in perfetta sintonia con lo spiritualismo metafisico-religioso. Pertanto tutte le così seducenti possibili affinità gnostiche del pensiero waltheriano (forse solo apparenti) si spiegano alla fine proprio in forza di questi due elementi congiunti – idealismo religioso e spiritualismo metafisico-religioso
Ciò significa allora che l’originalità della Walther si presenta nella forma di una totale estraneità della sua visione filosofica (e soprattutto filosofico-religiosa) al realismo che decisamente ha preso il sopravvento dopo il tramonto dell’idealismo husserliano. Naturalmente però va anche precisato che la pensatrice non si allinea affatto nemmeno a quest’ultimo. E lo abbiamo visto con chiarezza nel contesto della sua davvero radicale critica alla dottrina husserliana dell’Io. Abbiamo visto inoltre anche che la sua visione è per alcuni aspetti anche anti-personalistica.
In questo senso si può dire che la sua complessiva presa di posizione è anche anti-idealistica.
Lo è però, come abbiamo visto, nel contesto di un suo riconoscersi di fatto nella tradizione di quella “perennis philosophia”, il cui tratto dottrinario fondamentale è stato sempre quello dell’idealismo strenuamente religioso. Come tale esso non ha mai avuto il carattere dell’idealismo filosofico moderno occidentale, ossia non ha mia posto il soggetto umano (ovvero l’Io) come l’origine di fatto di tutto ciò che è reale e ontologico. Proprio per questo nell’idealismo religioso non si è mai configurata una contrapposizione inconciliabile tra soggetto ed oggetto. E ciò ha quindi sempre escluso tanto un idealismo unilaterale quanto anche un realismo unilaterale. L’idealismo religioso autentico è stato quindi sempre tendenzialmente un «idealismo realista».
Ma nemmeno in questo caso esso è assimilabile all’idealismo realista fenomenologico-husserliano sintetizzato dal principio del “zur Sache selbst”. E qui va sottolineato che, in relazione al «sapere di sé», noi abbiamo dovuto costatare presso la Walther perfino una sorta di idealismo decisamente anti-realista. La sua relativizzazione del ruolo e valore dell’Io sottrae infatti ogni valore al mondo esteriore che sia totalmente indipendente dall’essere soggettivo.
Anche questo sta ad indicare che l’idealismo religioso waltheriano è ciò che è proprio in quanto è estremamente radicale. Ed in questo senso la sua visione può e deve venire considerata come il polo diametralmente opposto dell’attuale iper-realismo della filosofia religiosa ed anche della filosofia in generale.
Questi sono dunque i tratti fondamentali della visione metafisico-religiosa sviluppata dalla Walther sulla base degli elementi offerti dalla complessiva dottrina fenomenologica. Ed è evidente ancora una volta che, in virtù di essi, la visione della nostra pensatrice si offre a noi come la possibilità di concepire oggi una filosofia religiosa del tutto diversa da quella attuale. Il che significa che allora essa molto difficilmente può essere fatta ricadere nell’ambito dell’attuale Fenomenologia religiosa.

Note.

Heinrich von Sass, “Event-Management. Vom Ereignis und seinem theologischen Horizont”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 61 (1), 2015, 79-100; Markus Kneer, “Das Verhähaltnis von Phänomenologie und Theologie neu gewendet: Der Ansatz von Emmanuel Falque“, ibd., 62 (2) 2015, 350-367; Markus Lipowicz, “Das Leben als das Unausprechliche ‒ oder : Simmel und Wittgenstein als Vordenker der Postmoderne”, ibd., 61 (1), 2015, 24-44; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, ibd., 62 (2) 2015, 310-335; Tamsin Jones, “Questions from the borders: a response to Kevin Hart’s Kingdom of God”, Sophia, 56 (1) 2017, 5-14; Bradley B. Onishi, “Between a Saint and a Phenomenologist: Hart’s theological criticism of Marion”, ibd., 56 (1) 2017, 15-31; J. Aaron Simmons, “Cheaper than a Corvette: the relevance of phenomenology for contemporary philosophy of religion”, ibd., 56, 2017, 33-43; B. Keith Putt, “A poetic of parable and the ‘basileic reduction’: ricoeurean reflections on Kevin Hart’s Kingdom of God”, ibd., 56, 2017, 45-58; Joshua Lupo, “The affective subject: Emmanuel Levinas and Michel Henry, on the role of affect in the constitution of subjectivity, ibd., 56, 2017, 99-114; Kevin Hart, “Concretion and concrete: a response to my critics”, ibd., 56, 2017, 69-80; Shan Mackinlay, “Hermeneutic perspective on ontology, after metaphysics has been overcome: from Levinas to Merleau-Ponty”, ibd., 56, 2107, 115-124; Mikel Burley, “Dislocating the Eschaton? Appraising realized eschatology”, ibd., 55 (3) 2016, 1-18; John D. Caputo, “The return of anti-religion: from atheism to radical theology”, J. of Cultural and Religious Theory, 11 (1) 2011, 32-124.
2 Gerda Walther, Phänomenologie der Mystik, Walter-Verlag, Freiburg im Breisgau 1955, 18 p. 202-213.
3 Angela Ales Bello, Marina Pia Pellegrino, Incontri possibili. Empatia, telepatia, comunità, mistica. Edith Stein, Gerda Walther, Castelvecchi, Roma 2014; Angela Ales Bello, Francesco Alfieri, Mobeen Shahid, Edith Stein Hedwig Conrad-Martius Gerda Walther. Fenomenologia della persona, della vita e della comunità, Giuseppe Laterza, Bari 2011;
4 Il tema è stato trattato in maniera molto specifica dagli autori prima menzionati (vedi nota 3). Vi sono poi studi che trattano più ampiamente del percorso filosofico della pensatrice [Andreas Resch & Eberhard Ave-Lallemant, Gerda Walther – Ihr Leben und Werk, Resch Verlag, Innsbruck 1983; Corinne Pouilly, “Gerda Walther”, Revue de Théologie et de Philosophie, 138 (3) 2006, 209-225; Paola Ricci Sindoni. “Mistica femminile, mistica duale percorsi filosofici nel Novecento”, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 99 (3) 2007, 441-456].
5 Angela Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio – Credere in Dio, Messaggero, Padova 2005, II, 1-5, p. 37-80.
6 Gerda Walther, “Reinkarnation und Parapsychologie“, Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte, 9 (2) 1957, 191-199.
7Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 2 p. 47-53, 9 p. 110-118.
8Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-46, 9 p. 110-118.
9Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 2 p. 47-53, 7 p. 93-99, 10 p. 119-130, 11 p. 131-134.
10Platone, Fedro, Rizzoli, Milano 2006, 244a-257b p. 177-227; Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano, 2005, 17, 5-25 p. 865-873.
11 Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, I, 38, 67-69 p. 89-91, 41-43, 73-89 p. 97-105.
12 Vedi nota 3 (Ales Bello)
13 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 2 p. 47-53, 3 p. 54-62, 9 p. 110-118, 4 p. 63-77.
14Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 13 p. 142-161.
15Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl., p. 21-34, 1 p. 35-46, 3 p. 54-62, 6 p. 89-92, 9 p. 110-118, 10 p. 119-130.
16 Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 8 p. 358-360, VII, 9 p. 360-391, VIII, 3 p. 422-441.
17 E questo è estremamente singolare se si constata che oggi si tende a considerare superato il pensiero della Stein (di concerto con quello di Husserl) proprio in quanto ad esso viene attribuito il personalismo come carattere essenziale [Enrica Lisciani Petrini, “Fuori dalla persona. L’impersonale in Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze”, Daímn, Revista Internacional de Filosofía, 55 (2012), 73-88]. L’osservazione viene qui fatta in uno spirito tutt’alto che filosofico-religioso, e precisamente nel contesto di quell’ultra-moderno realismo che ormai si oppone recisamente a qualunque genere di idealizzazione soggettivista del mondo. Tenendo però presente il fatto che il superamento del personalismo si manifesta ugualmente presso la Walther, tutto ciò indica allora che forse tale sviluppo era effettivamente necessario anche perché la stessa filosofia religiosa facesse in tal modo un passo avanti. Ma in questo caso ciò non avviene in direzione di un realismo. Avviene invece in direzione di un intensissimo idealismo religioso come quello vedantico. È infatti proprio in quest’ultimo che viene con maggiore decisione postulata la necessità della morte della persona [Ananda K. Coomaraswamy, Due passi tratti dal «Paradiso» di Dante, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 18 p. 277-292; Ananda K. Coomaraswamy, Ākiṃkañña: l’annullamento di sé, in: Ananda K. Coomaraswamy, ibd., 7 p. 115-133; Ananda K. Coomaraswamy, Ātmayaiña : il sacrificio di sé, ibd. 8 p. 135-175; Ananda K. Coomaraswamy, Il Vedānta e la tradizione occidentale, ibd.1 p. 42-47].
18 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 1 p. 35-46, 10 p. 119-130, 20 p. 224-230.
19Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches…cit., VII, 2, p. 307-310; VII, 6, p. 352-356; VII, 9, 6 p. 377-385.
20 Edith Stein, Der Aufbau …cit., IV, 1-8 p. 45-56.
21 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 7 p. 93-99, 8 p. 100-109, 9 p. 110-118.
22 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 4 p. 63-77.
23 Edmund Husserl, Idee… cit., I, II, 46 p. 111-114.
24 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 3 p. 54-62, 12 p. 135–141.
25 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 1 p. 35-46.
26Edmund Husserl, Ideen…cit., II, I, I-II, 11, 25-45 p. 461-481.
27Su tale aspetto ci siamo soffermati molto intensivamente in un saggio da noi dedicato all’interpretazione sacra della Psicologia [Vincenzo Nuzzo, La Psicologia Sacra, Victrix, Forlì 2018 (in via di pubblicazione)].
28 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 2 p 47-53, 9 p. 100-118.
29 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 10 p. 119-130, 10 p. 119-130
30Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, III p. 77-87.
31 Non a caso, entro i fenomeni dello sviluppo psico-motorio umano, dall’indifferenziazione olistica iniziale si passa ad una differenziazione sempre maggiore che è anche sempre maggiore determinazione in facoltà specifiche e ben localizzate
32Edith Stein, Excursus sull’idealismo trascendentale, in: Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, g p. 367-369; ibd. p. 387-389.
33Jean Daniélou, Origene. Il genio del Cristianesimo, Arkeios, Roma 1991, I, I p. 23-48, I, IV p. 121-129; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: Ivan Pozzoni, Mauro Murzi, in: Moderni orizzonti della scienza e della tecnica, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. V, 2017 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XI, 2017 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017.
34 Jean Daniélou, Origene …cit., III, I-II p. 251-294.

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Indice.

Introduzione, p. 2

I- Il pensiero evoluzionistico di Hedwig Conrad Martius, p. 2-11

I.1 - Il cosmo vivente e l’evoluzione, p. 3-12

II – Il pensiero evoluzionistico-personalistico di Edith Stein, p. 13-27

II.1- La costituzione della persona umana e l’evoluzione, p. 13-24

    II.1.1 - L’uomo non è un animale, p. 13-14
    II.1.2 - L’idea di animale e l’idea di uomo nel contesto dell’evoluzione, p. 14-16
    II.1.3 - L’evoluzione (teoria evoluzionistica), l’unicità individuale e il concetto di specie, p. 
                14-24.

II.2 – La Totalità organizzata, p. 24-27

Introduzione

Le relazioni intrattenute da Edith Stein con Hedwig Conrad-Martius furono tra le più intense ed appassionate della sua vita. La pensatrice fu moglie di Theodor Conrad (detto Autós) – divenuto intanto rappresentante della Fenomenologia a Monaco −, che aveva avuto un ruolo di primo piano in quella sorta di secessione che fu la protesta di molti allievi di Husserl (tra i quali la Stein ed Hering) contro l’idealismo trascendentale al quale di fatto approdò il maestro. Quest’ultimo significava in definitiva che la vera ontologia risiedeva solo nella coscienza, ossia negli oggetti già presi di mira dall’intenzione cosciente e trasformati così da meramente esistenti a conosciuti. Pertanto era da ritenere che gli oggetti esistenti fossero troppo poco ben definiti (conoscitivamente) per non correre il rischio di fare confusione tra il reale e l’irreale. A me sembra evidente che il bersaglio di questa visione fu l’onto-metafisica (il che fa dell’opera husserliana qualcosa di molto più prossimo a Kant di quanto si possa pensare), ossia proprio quella disciplina alla quale intanto la Stein si era data anima e corpo rivolgendosi allo studio di Tommaso e della filosofia antica (incluso Aristotele ed anche Platone). E non deve essere un caso che anche la Conrad-Martius si rivolse ad un’indagine guidata da tale disciplina.
Fatto sta comunque che l’indagine conradiana sull’evoluzione appare essere un vero e proprio modello esemplare per quell’indagine sulle essenze mondane che i dissidenti della scuola husserliana avevano auspicato con la piena condivisione della Stein. Fu proprio questa l’alternativa all’idealismo trascendentale, ossia una sorta di indagine realista che era sorretta dall’idealismo, ossia da quella precisa definizione delle essenze che ovviamente può avvenire solo entro la coscienza. Si trattava però di un idealismo affatto riduzionistico, nel senso che esso non intendeva condizionare la pienezza dell’esistenza all’atto di coscienza
Si trattava insomma in qualche modo di riconoscere e definire l’essenza oggettiva delle cose esistenti, cioè l’essenza che è in gran parte incondizionabile alla coscienza, cioè al soggetto. Pertanto l’impiego di questa opera per l’accostamento tra Stein e Conrad-Martius mi sembra forse più appropriato e fruttuoso che non l’analisi di quei famosi “Dialoghi metafisici” che intanto rappresentarono per la prima lo stimolo a prendere definitivamente le distanze dal pensiero di Husserl, nell’affermare con decisione che è possibile anche pensare ad un mondo esistente senza la presenza condizionante della coscienza. Fu di fatto l’ingresso della Stein nell’orbita del pensiero realista, entro la quale si trovavano anche Tommaso ed Aristotele.
Ecco perché ritengo che sia particolarmente utile esaminare il testo conradiano dal titolo “Origine e costituzione del cosmo vivente” (Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos, UALK), ossia il testo nel quale la pensatrice affrontò direttamente la teoria evoluzionistica così come la stessa Stein aveva fatto in Der Aufbau der menschlichen Person (AMP). Orbene, poiché quest’ultima opera è di fatto dedicata allo sgombero del campo dall’ipotesi evoluzionistica allo scopo di poter liberamente riaffermare il valore dell’uomo, e quindi della persona umana, possiamo senz’altro dire che (almeno in grandi linee) il confronto tra queste due ricerche può e deve fornire supporto anche all’assimilazione della Stein nell’universo di pensiero personalista.
Per usare una delle più centrali affermazioni conradiane nel suo libro, va detto insomma che l’uomo non può venire in alcun modo considerato come in fondo null’altro che una specie di ex-protozoo. L’uomo è invece un ente che è caratterizzato da un suo valore molto specifico ed assolutamente incondizionabile a quello di altri enti.
Questo è insomma il lemma sotto il quale questa discussione verrà condotta, anche laddove non si farà riferimento ad esso.

I- Il pensiero evoluzionistico di Hedwig Conrad Martius

Qui esporremo gli aspetti principali dell’opera della pensatrice su questo tema dal titolo Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos (UALK) [Hedwig Conrad Martius, Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos, Otto Müller, Salzburg-Leipzig 1938].

I.1 – Il cosmo vivente e l’evoluzione
Molto in generale la Conrad-Martius entra in forte contraddizione con la teoria evoluzionistica (specie nelle versioni di Darwin ed Haeckel), ma intanto si fa scrupolo di analizzare con molta attenzione le più diverse teorie che sono insorte nel tempo in tale contesto. Questa ricerca può senz’altro venire considerata un modello di indagine sulle essenze mondane, e quindi essa deve aver impressionato molto la Stein. Vi è infatti menzione nella corrispondenza tra le due pensatrici dell’interesse della Stein per questa indagine.
In particolare, sulla base di tale analisi, la Conrad-Martius pone in evidenza almeno due teorie alternative a quella evoluzionistica: − 1) quella biologistica (risalente a diversi ricercatori, tra i quali in parte anche allo stesso Haeckel, e a mio avviso assimilabile alle teorie di Mendel cioè alla disciplina della genetica) che pone l’accento sulle potenzialità insite nel germe-uovo (di fatto il materiale genetico fondamentale) assimilando così l’evoluzione delle specie (collettiva) ai fenomeni dello sviluppo individuale; 2) quella prossima alla tassonomia ed alla morfologia (e quindi tendenzialmente all’onto-metafisica specie aristotelica) che pone l’accento sui grandi ordini sistematici degli esseri viventi. Si tratta cioè di un’attualità della quale prendere atto senza più presupporre alcuna insorgenza degni esseri viventi per provenienza dai un progenitore unico originario e primordiale. Laddove quest’ultima è l’essenza della teoria evoluzionistica in quanto teoria della “discendenza”.
Gli aspetti nei quali la Conrad-Martius critica quest’ultima sono molteplici e li prenderemo in esame più avanti. Ma intanto ci sono in primo luogo da registrare delle osservazioni critiche di carattere molto generale.
La prima di tali osservazioni critiche è quella che nega il sussistere di una consecuzione continua tra le specie (nella forma di un albero genealogico diramantesi dal supposto comune progenitore originario), e ciò in primo luogo per il fatto che non è assolutamente possibile immaginare il trapasso da un tipo all’altro. Il tipo corrisponde infatti ad un determinato piano costruttivo (che nelle teorie biologistiche viene fatto risiedere nel germe-uovo) nel cui contesto avviene la solo relativa evoluzione di individui e raggruppamenti di individui di rango gerarchico inferiore al tipo stesso (ossia di fatto la razza, il genere e la specie stessa). Ovviamente vi è qui da prendere atto del fatto che la specie viene intesa dalla Conrad-Martius come affatto identica al tipo. Essa invece è di rango molto più inferiore (corrispondendo appena alla classificazione tassonomica più generale di un determinato essere vivente: ad esempio la felix tigris). Tuttavia, entro il discorso della pensatrice, il termine “specie” viene comunque in genere usato (così come in Darwin) come se esso fosse identico al termine “tipo”. In ogni caso il tipo corrisponde ad un contesto entro il quale avviene una sorta di relativa evoluzione, che però non ne supera mai i molto ben determinati limiti.
Ma per avere una continuità tra specie (come quella immaginata da Darwin e da tutti i sostenitori della teoria della discendenza) occorrerebbe proprio che questi limiti venissero superati con una sorta di loro rottura (Sprengung). Dopo di che però insorgerebbe un tipo radicalmente nuovo, ossia un piano costruttivo totalmente diverso e cioè una radicale neo-organizzazione; come poi vedremo, un radicalmente nuovo “centro di formazione”. E sta di fatto che, qualora ciò avvenisse, il filo continuo dell’evoluzione dovrebbe spezzarsi. Il che costituisce poi un vero e proprio nuovo inizio dell’evoluzione (proprio come se prima non fosse accaduto assolutamente nulla). La pensatrice pone quindi a nudo un gravissimo paradosso della teoria evoluzionistica: − per avere la continuità tra specie (tipi) che essa esige bisogna che si verifichi una fortissima discontinuità. Questo significa allora che l’evoluzione esperibile effettivamente (e che avviene solo nel contesto di un tipo che mai cambia) non è altro che un fenomeno appena relativo e secondario.
In altre parole – come viene sottolineato dalla pensatrice (II, VIII p. 112-28) – la fenomenologia evolutiva non può che essere dominata dal principio della conservazione e non invece da quello della specializzazione. La quale invece tende ad esigere una deviazione, che a sua volta poi esige la continuità come diramazione (ossia l’albero genealogico evoluzionistico). E va osservato, per inciso, che la deviazione (al contrario della conservazione) viene considerata da Naef mortifera per definizione, e quindi assolutamente incompatibile con l’evoluzione (III, X p. 165-183). Se però è vero tutto questo, deve essere anche vero che il principio dominante della fenomenologia evolutiva non può essere altro che la teleologia, la quale poi esige una metafisica che la supporti. E questo vale in particolare per un ente supremo come l’uomo. Evidentemente, per poter pervenire ad un simile risultato, la barra del timone dell’evoluzione può solo restare salda al centro puntando così invariabilmente verso il suo unico e solo risultato. Con questo concetto siamo pertanto già molto prossimi all’accento posto dalla Stein sull’unicità della persona umana.
Una volta chiarito che in verità non vi è alcun trapasso tra un tipo e l’altro (né esso è logicamente possibile), appare evidente che dell’evoluzione presupposta da Darwin (ed anche da Haeckel) non vi è alcuna traccia nell’esperienza scientifica effettiva; se non nelle mere ipotesi che collocano questo fenomeno nella dimensione dei pressoché infiniti tempi della paleontologia, e peraltro senza che in essa sia mai stato possibile trovare prove fossili di anelli intermedi tra le specie.
La seconda delle osservazioni critiche è quella in cui la Conrad-Martius propende molto più per la teoria biologistico-genetica, la quale postula un’evoluzione che altro non è se non un universale sviluppo procedente dal germe-uovo proprio di ogni specie. E ciò peraltro a somiglianza di quanto avviene nello sviluppo individuale con tutti i suoi cicli vitali (nascita, crescita e morte). È a prima vista evidente che qui non vi è alcun progenitore unico originario-primordiale dal quale, per evoluzione, si diramerebbe la molteplicità delle specie giungendo così fino alla molteplicità degli esseri (e relativi regni della Natura) che constatiamo attualmente. Anche qui però vi è una continuità. Essa però non è unica ma è invece distinta in tanti percorsi paralleli di sviluppo quanti sono i germi-uovo (corrispondenti fin dall’inizio alle specie), in ognuno dei quali è inscritto un ben determinato piano costruttivo. Il quale corrisponde poi bene allo spazio ontologico del tipo.
È tuttavia evidente che proprio qui non sussiste alcun passaggio da un tipo (specie) all’altro. E già in questa teoria inizia dunque a delinearsi la possibilità di una “creazione originaria” delle specie (III, XVIII p. 325-338), che è poi l’ipotesi (sostanzialmente teologico-metafisica) alla quale la pensatrice presta più fede. Anche questa teoria non è però esente da debolezze, ed in particolare una che vedremo tra poco.
In ogni caso vi è un altro motivo per il quale la Conrad-Martius preferisce questo genere di teoria (II, VIII p. 112-28). Infatti esse evidenziano il fatto che l’evoluzione in fondo altro non è se non il percorso per mezzo del quale in Natura si perviene ad un organismo completo in quanto specifico, ossia in quanto tipologicamente diverso da un altro, ossia unico. Ne risulta insomma che il modello di riferimento (fondamentale) è lo sviluppo individuale, e non certo invece l’evoluzione della specie.
Aldilà di questa parziale concordanza, la pensatrice si dichiara però nel complesso in disaccordo con questo complesso di teorie perché, proprio in base ad esse, si è finito per sostenere che l’uomo altro non sarebbe che un protozoo evoluto. E questo è realmente inaccettabile.
La terza delle osservazioni critiche è quella in cui la Conrad-Martius (a conclusione della sua indagine) prende chiaramente posizione a favore della teoria tassonomico-morfologica che delinea i grandi ordini gerarchico-sistematici, schierandosi così sia contro qualunque teoria della discendenza (evoluzione continua delle specie) sia contro la teoria biologistica dello sviluppo dall’originario germe-uovo. Qui ella ci mostra la primarietà di quella che va considerata come una vera e propria stasi ontologica (anche se di origine creativa), che è radicalmente opposta a qualunque divenire generante (III, XVI p. 280-303).
Bisogna però comprendere bene il perché della preferenza accordata dalla Conrad-Martius a questo genere di teoria. Infatti la principale obiezione sollevata con ciò dalla pensatrice verso le prime due teorie dell’evoluzione sta nel fatto che esse non riescono in alcun modo a rispondere alla più problematica delle domande relative all’evoluzione. E cioè la seguente: − in che modo è spiegabile l’insorgenza dell’autentica ed effettiva novità, ossia quel trapasso da un tipo all’altro che non solo di fatto interrompe qualunque continuità evolutiva ma inoltre di fatto ricostituisce ogni volta un davvero radicale nuovo inizio? Infatti ciò che qui si verifica (III, XVI p. 280-303) è una vera e propria uscita dallo spazio del tipo, che a sua volta deve venire definita come una “de-eredificazione” (Enterbung), ossia lo sradicamento della fenomenologia in atto addirittura dall’antecedente predisposizione genetica. Qualcosa, insomma, di inconcepibile. Si tratta (almeno dal punto di vista logico) di un vero e proprio “mistero”, che la Conrad-Martius non esita a dichiarare come del tutto insoluto nel contesto di tutte le teorie da lei prese in esame. Ed ella constata che non a caso questa domanda è stata sempre accuratamente evitata proprio da parte dei teorici della discendenza (III, XVII p. 306).
A moderazione di tale affermazione c’è solo il fatto che non è affatto da escludere che, nel corso dei lunghissimi tempi della paleontologia, sia effettivamente avvenuto in alcuni momenti un immane trapasso da una specie (o meglio tipo) all’altro. La pensatrice (sulla base di alcune delle teorie esaminate) giudica ciò possibile in forza di un fenomeno esso stesso misterioso, e cioè quella fluidificazione della rigidità del tipo che avrebbe generato periodi di “fioritura esplosiva”. Questa ipotesi ha poi portato Beurlen (II, IX p. 129-161) a postulare una serie di fasi dell’evoluzione che sono le seguenti: 1) fase esplosiva o metachinesi; 2) fase statica o ortogenesi (caratterizzata dall’ordinario mantenimento del tipo); 3) iper-specializzazione che reca ad estinzione e morte. La metachinesi venne comunque postulata e studiata anche da Naef (III, X p. 165-183), il quale la intese come una regressione alla fase embrionaria da parte degli organismi adulti e maturi; ciò in modo che, partendo da questa fase potenziale, fosse possibile rilanciare la spinta evolutiva in direzione di un altro tipo. Questo tipo di ipotesi (simile a tutte quelle che ruotano intorno alla dottrina della ricapitolazione) è stata comunque utilizzata per superare la difficoltà costituita dall’evoluzione a partire da organismi maturi e adulti, che era stata invece ritenuta possibile da Darwin. Riprenderemo poi questo tema. In ogni caso, come si può vedere, la fase dell’ortogenesi corrisponde a ciò che avviene ordinariamente nel corso dei grandi tempi paleontologici, ossia la conservazione. La fase della fioritura (metachinesi) corrisponde invece a ciò che avviene straordinariamente, e cioè alla deviazione. Dall’altro lato la specializzazione corrisponde ad una sorta di deviazione entro la conservazione; che, una volta spintasi oltre un certo limite, porta necessariamente alla dissoluzione del tipo. Questa classificazione ci mostra comunque nuovamente che la continuità evolutiva è assolutamente impensabile. Il nuovo tipo insorge infatti solo dopo che il vecchio è stato totalmente distrutto. In ogni caso l’ordinarietà delle fasi di conservazione (entro le quali avviene un’evoluzione appena relativa) ci mostra che la fenomenologia evolutiva è in verità assolutamente chiusa, e ciònin ragione di un ben determinato piano costruttivo (tipo) che di per sé non ammette né deviazioni né superamenti.
Proprio in questi periodi di straordinaria fioritura si sarebbe comunque verificato effettivamente (almeno ipoteticamente) l’in sé impossibile trapasso da un tipo all’altro. Ma si tratta di un trapasso solo metaforico, perché in verità si tratta invece di un salto. Siamo insomma in tal modo al cospetto di un tentativo di spiegazione che però lascia insoluto un ulteriore mistero. Ma comunque, una volta preso atto di tutto questo (a fronte soprattutto delle enormi difficoltà implicate da qualunque teoria della continuità), la pensatrice sembra volerci suggerire (ed in maniera non poco pragmatica) che a noi non resta che ricorrere alla teoria tassonomico-morfologica. Essa infatti si limita a prendere atto del fatto che siamo attualmente davanti a un grande ordine gerarchico e sistematico; per cui non mette assolutamente conto interrogarsi su come si sia pervenuti a questo risultato. Va tuttavia anche detto che questa teoria si sposa in parte con quella biologistico-individuale (genetica) per il fatto che le linee parallele dipartentesi da ciascun germe-uovo di una specie (o meglio tipo) non fanno altro che culminare nelle nette linee divisorie esistenti all’interno di questo grande ordine attuale (nella forma dell’esito di specifici piani costruttivi). E così si può ben affermare (sulla base di entrambe le teorie) che l’ipotesi più plausibile è quella che le specie siano da sempre esistite come una molteplicità (sebbene all’inizio solo latente), e quindi non sarebbero state prodotte per mezzo di un passaggio dall’unità originaria alla molteplicità attuale.
Orbene, una volta stabilito questo, la Conrad-Martius si sente in dovere di far notare che in tal modo siamo di fronte non solo alla tassonomia morfologica prevista dalla moderna teoria della Gestalt, ma anche di fronte alle antichissime categorie riconosciute dalla tradizionale onto-metafisica. La quale peraltro si rende plausibile anche a causa della sua dottrina della relazione tra potenza ed atto (come vedremo più avanti). Ma, oltre a ciò, la teoria tassonomico-sistematica rende plausibile anche quella sussistenza fin dall’inizio della molteplicità di specie che si sposa perfettamente con la dottrina teologico-metafisica della creazione. Discuteremo ciò più avanti, ma comunque va qui anticipato che la pensatrice non ritiene per nulla impossibile concepire una creazione divina originaria seguita poi da quella creazione secondaria che ella definisce (proprio sulla scorta di Haeckel) come “creazione naturale”. Perveniamo in tal modo all’acme dell’indagine della pensatrice, che consiste nella costatazione dell’inevitabilità di fatto della spiegazione teologico-metafisica dell’evoluzione. Con l’aggiunta che, se essa è stata invece ampiamente rigettata, ciò è accaduto a causa di un generale pregiudizio attualista (“attualismo”) secondo il quale ciò che c’è oggi può essere solo il frutto di ciò che c’era già materialmente un tempo, e quindi non può essere stato in alcun modo posto in essere a partire dal nulla.
Anche per questo motivo, dunque, la teoria evoluzionistica appare essere molto più il frutto di una forzatura ideologica che non invece il frutto di una necessità scientifico-empirica o anche logico-razionale. Anzi essa urta in molti punti contro la logica, oltre che contro la stessa evidenza empirica.
La quarta delle osservazioni critiche può essere considerata una sorta di sintesi delle obiezioni conradiane alla teoria evoluzionistica. Infatti la pensatrice sembra voler smantellare l’intera teoria evoluzionistica a vantaggio di una dottrina incentrata su tre principi: 1) decisività della specificazione finale; 2) evento originario primario rappresentato dalla potenza di sviluppo (germe-ovulo con il suo materiale genetico); 3) modificazioni decisive compientesi solo nell’adulto e senza alcun cambiamento di specie. Riprenderemo poi quest’ultimo aspetto discutendo il fenomeno della specificazione.
Questi tre principi annientano totalmente la teoria evoluzionistica, dato che non vi è affatto il passaggio da una specie (-tipo) all’alta ma invece solo una miriade di sviluppi individuali che si compiono tutti nel solco di una specie (-tipo) determinata fin dall’inizio. Il che conferma la dottrina della creazione unita alla teoria di Aristotele.
In particolare la pensatrice sottolinea con forza che, a dispetto di qualunque ipotesi regressiva impiegata per spiegare l’evoluzione – così come tutte le teorie che presuppongono una ricapitolazione embrionaria della filogenesi da parte dell’ontogenesi, oppure un ringiovanimento dell’organismo adulto alle sue fasi embrionarie per poter evolvere verso nuovi tipi sfruttando la toti-potenza dell’embrione; tra queste le teorie della neotenia e della fetalizzazione (II, VI p. 76-92) e la teoria della neomorfosi (III, XVII p. 304-324) −, la specificazione degli esseri viventi è sempre un fenomeno finale (I, II, p. 30-39). In caso contrario non si raggiunge mai la netta delimitazione di un tipo rispetto ad un altro. E, anticipando ciò che diremo poi a proposito della creazione, la Conrad-Martius ci lascia intendere che anche allorquando noi ipotizziamo la creazione (in luogo dell’evoluzione) ciò che conta è sempre molto più quanto avviene alla fine che quanto avviene all’inizio. Ecco allora che proprio la teoria evoluzionistica pone dogmaticamente un criterio del «prima» che in verità non ha alcuna ragione di essere.
In effetti va detto al proposito che la pensatrice ci mostra come teoria della ricapitolazione (introdotta soprattutto da Haeckel ed in sé non perfettamente in linea con la teoria darwiniana) rientri di fatto nell’orbita della teoria evoluzionistica. Tanto è vero che essa si scontrò frontalmente con le ipotesi di von Bear il quale invece postulò linee parallele di sviluppo dipartentesi ognuna dal germe-uovo e corrispondenti al piano costruttivo proprio del tipo. Quindi proprio queste ultime ipotesi finiscono per dare supporto alla teoria sistematico-gerarchica escludendo da essa qualunque criterio del «prima» ed affermando unicamente quello dell’«ora», o attualità (III, XII p. 198-218). Pertanto la teoria della ricapitolazione esula decisamente dalla teoria sistematico-gerarchica. È evidente infatti che quest’ultima ricade nell’orbita delle teorie dalla stasi mentre la prima ricade nell’orbita delle teorie del dinamismo.
Ma a ciò va aggiunta anche una quinta serie di osservazioni critiche conradiane, che riguarda la sua valutazione differenziale delle due principali teorie evoluzionistiche, ossia quella classica della discendenza e quella invece biologistica incentrata sul germe-uovo. A tale proposito la Conrad-Martius sostiene una radicale opposizione tra l’idea di sviluppo e l’idea di evoluzione (III, X p. 172-173). Ella pone in particolare in primo piano la rilevante difficoltà logico-ontologica che è comportata dal preteso sviluppo del “diseguale” dall’”identico” originario. Cosa che per lei è davvero difficilmente pensabile.
Ma sta di fatto che successivamente (come abbiamo già visto) la pensatrice pone in discussione entrambe le teorie (III, X p. 179-180). L’obiezione ad etrambe consiste nel fatto che – anche una volta spostato l’accento sulla dimensione di sviluppo dell’evoluzione, e quindi sulla dimensione individuale a sua volta risalente al germe-uovo – resta comunque in piedi un fondamentale intendimento dinamico dell’insorgenza degli esseri. Il quale a sua volta rischia fortemente di ricadere in quell’ipotesi del “tutto da tutto” che è poi tipica della teoria evoluzionistica. La primaria verità è infatti che tutto è di fatto già accaduto nel germe-uovo in quanto materiale genetico, per cui tutto ciò che viene dopo è solo secondario. Da ciò la pensatrice deduce che quindi nemmeno la “storia dello sviluppo” (Entwicklungsgeschichte) può essere il luogo (ontologico) originario (Ursprungsort) della “trasformazione tipica” (typische Umgestaltung). Esso semmai invece appena il “punto” (Stelle) nel quale ciò diviene “visibile” (sichtbar), ossia viene allo scoperto. Il luogo originario è invece solo il “materiale del germe-uovo” (Keimmaterial), e senza che da ciò si debba affatto far partire un determinante e indispensabile percorso dinamico di tipo fattico. Ebbene ciò elimina totalmente la dimensione dinamica dello sviluppo (insieme a quella dell’evoluzione) quale teatro autentico degli eventi. Il vero teatro degli eventi è invece solo l’origine in quanto potenza. Solo lì vi è in stato involuto tutto ciò che poi si esplicherà (secondariamente) nello sviluppo. Come poi vedremo poi, ciò avviene però secondo un paradigma puramente energetico, e non invece fattico-fisicalistico. Il che significa che anche la linea parallela che si sprigiona dal germe-uovo (in quanto piano costruttivo) non è altro che un’esplicazione di possibilità e non invece una reale consecuzione fattuale di esseri. Tutto ciò implica che ancora una volta gli scienziati hanno guardato al non-essenziale distogliendo lo sguardo dall’essenziale.
E, secondo la Conrad-Martius, tutto questo dà pertanto un totalmente nuovo significato all’espressione di Haeckel “storia naturale della creazione” (natürliche Schöpfungsgeschichte), che si rivela degna di venire indagata e narrata addirittura sul modello della narrazione biblica.
Ecco quindi la giustificazione di una scienza naturale sul modello di quella sovrannaturale. Ma di questo parleremo specificamente più avanti.

Una volta chiariti questi aspetti più generali della critica conradiana alla teoria dell’evoluzione, dobbiamo ancora mettere in luce alcuni punti specifici di essa.
La Conrad-Martius (II, VII p. 93-111) ci fa osservare che la teoria evoluzionistica (specie quella di Darwin, basata sul passaggio da razze a specie) afferma il principio logicamente aberrante secondo il quale il piccolo e particolare starebbe all’origine del grande e generale (o universale). Ma l’evidente preponderanza dell’universale (corrisponde bene all’amplissimo spazio del tipo, entro il quale di fatto tutto avviene) ci mostra che le cose stanno in maniera esattamente opposta. E, siccome l’universale assume questo ruolo nel contesto del grande ordine gerarchico-sistematico, viene allo scoperto un ulteriore pregiudizio ideologico che ha condizionato il formarsi della teoria evoluzionistica, ossia il bisogno di affermare il primato del caos sull’ordine.
La pensatrice (II, VIII p. 112-28) ci mostra anche (in relazione al discorso sui piani costruttivi dipartentisi da ciascun germe-uovo di specie) che la tendenza teleologica spiega i fatti attuali (ossia la netta definizione dei tipi) molto meglio di un percorso continuo che è incentrato su deviazioni che causano a loro volta le diramazioni (quindi un albero genealogico che parte dall’originario progenitore). Infatti, se osserviamo le cose a posteriori (ossia a partire dall’essere vivente ben definito secondo il tipo, e quindi dall’attualità), noi dobbiamo necessariamente postulare un piano costruttivo che punta verso tale risultato senza la minima deviazione.
Di estrema importanza è poi la serie di obiezioni che insorge entro la profondissima riflessione metafisica conradiana sul tipo come idea-forma-potenza, e quindi come un modello costruttivo che però resta trascendente (III, XIII p. 219-229). Uno dei grandi torti di Darwin pare essere stato infatti quello di aver scambiato per fattico e reale ciò che invece è appena logico-ontologico, e cioè quel tipo ideale che poi corrisponde bene allo stesso universale. Proprio il tipo ideale può cioè venire inteso a pieno diritto come l’“originario”, intendendo ovviamente con ciò affatto un’origine fisico-storica e fattuale, ma invece appena un’origine ideale-trascendente, ossia la potenza stessa. Siamo dunque di nuovo alla dimensione energetica del percorso dipartentesi dall’origine. Ma si tratta con ciò dell’originario inteso anche in altro senso (più logico che non ontologico), e cioè appunto quella grande categoria universale (divisa a sua volta al suo interno) che ci permette di portare mentalmente ordine nel caos della realtà. È evidente che lo scienziato moderno (volontariamente digiuno di filosofia e metafisica com’è) non può avere la minima idea di tutto ciò, e pertanto cade molto facilmente nella trappola logica con la più sconcertante delle ingenuità.
La Conrad-Martius commenta criticamente tale attitudine come tendenza a scambiare il superficiale (reale-fattico) con il profondo (ideale-trascendente); inoltre (come vedremo più avanti) si tratta anche della tendenza a scambiare quella che è appena una deduzione logica con una pretesa consecuzione causale.
Il tipo ideale è infatti non a caso ciò che resta al fondo dell’intero divenire evolutivo senza venire coinvolto né nello spazio né nel tempo. E del resto la costanza effettiva del tipo (in quanto invariabile contesto che tutto contiene) rinvia chiaramente a questo. Ma a tale proposito la Conrad-Martius sottolinea con forza anche l’onticità del tipo ideale, il quale sussiste ed esiste indubitabilmente (in quanto è qualcosa che è stato posto in essere) sebbene sia una forma e quindi una potenza. Insomma esso non è per nulla un mero astratto perché è un qualcosa che è nettamente diverso dal nulla. Poco importa, a questo punto se esso sia stato creato oppure sia insorto dal nulla. Nel primo caso lo si può infatti intendere in maniera esplicitamente teologica (come prodotto volontario di Dio), ma nel secondo caso lo si può ancora intendere almeno onto-metafisicamente. Fatto sta che esso è un’entità in assenza della quale nulla accade, ossia non vi è alcuna determinazione di specie. Prova ne sia il fatto che, anche se una radicale variazione ne dovesse abolire l’effetto tangibile, esso comunque continuerebbe ad esistere latentemente. La sua natura è infatti quella di una dotazione interna.
Quindi decadono in questo modo tutte le teorie evoluzionistiche del mondo «generatosi da sè» ossia a partire da un semplice nulla. Senza l’essere, ossia senza l’insorgenza del tipo, nulla accade e pertanto nulla esiste.
Sta di fatto che comunque (come la Conrad-Martius sottolinea con forza) il tipo, per poter avere tale valenza, deve venire inteso staticamente, e quindi come radice in primo luogo di un ordine gerarchico-sistematico tangibile, ossia l’attuale molteplicità di esseri (ben classificati) che abbiamo davanti a noi. Ciò infatti non è altro che il reale stesso entro il quale viviamo e di fronte al quale ci mettiamo quando vogliamo conoscerlo. In assenza di questo ci ritroviamo infatti tra le mani appena quel vago concetto di specie (insorgente per via dinamica e sempre sul punto di dissolversi a causa della variazione) che non solo è improprio ma inoltre ci impedisce di lavorare su una tangibile sistematica. Questo significa quindi che (come abbiamo prima accennato) il concetto di specie compare nella teoria evoluzionistica solo in maniera inappropriata. Pertanto, sebbene si tenda ad usare indifferentemente i termini “tipo” e “specie” come quasi sinonimi, in verità bisognerebbe parlare solo di tipo. In particolare la pensatrice chiarisce che il tipo è un’entità in termini qualitativi e non quantitativi. Precisazione che impedisce la confusione tra ciò che esiste in maniera ideale (qualitativa) e ciò che esiste invece appena in maniera fattiva (quantitativa). E sta di fatto che, almeno in via di principio, l’unico tipo che davvero esista stabilmente (senza incorrere in alcuna evoluzione) è solo quello ideale. Quello fattico invece evolve proprio in quanto non è tipo nel senso pieno, ma invece è solo manifestazione parziale di quest’ultimo. Esso insomma è appena un tipo apparente. Ci riferiamo con ciò ai raggruppamenti più bassi e ristretti di esseri viventi.
Ma a tutto ciò bisogna aggiungere qualche elemento in più estraendolo dalla riflessione conradiana sul tipo come idea-forma (III, XIII p. 219-229). Il che poi ci mostrerà come questo intendimento stia a fondamento della primarietà (da lei postulata) della teoria sistematico-gerarchica. L’idea-forma è sostanzialmente una potenza, in quanto è il luogo in cui origina una determinata possibile esplicazione di possibilità. Essa è quindi un’entità nella misura in cui è una forza originaria, e non un individuo originario, ossia il fattico progenitore unico universale della teoria evoluzionistica. Conseguentemente (trattandosi solo di una dimensione energetica e non di materia) il percorso a ritroso verso tale entità ci fa riconoscere una deduzione logica e non invece una consecuzione causale, ossia qualcosa di materiale e fattico.
Questa è la confusione di concetti che (come ci dice la Conrad-Martius) venne denunziata da Troll entro la teoria evoluzionistica. Ciononostante (ancora una volta) l’idea-forma quale potenza non è affatto una pura astrazione, dato che anche quella energetica è un’entità. Per la precisione si tratta di un’entità che irradia centrifugamente delle possibilità (secondo un modello stellare e non lineare) in modo da causare una rosa di raggruppamenti sistematici corrispondenti ciascuno ad un tipo. Altrove la Conrad-Martius definisce questa entità come un “centro di formazione” che, ogni volta (dopo l’ipotetico salto di tipo) si ricostituisce come motore formativo di una tipologia radicalmente nuova (III, XVI p. 280-303).
La pensatrice però molto opportunamente chiarisce un altro importante aspetto della solo apparente astrazione di tale entità, e cioè la sua natura di disposizione interiore. Infatti lo schema platonico-idealistico entro il quale inevitabilmente deve venir concepita tale idea-forma potrebbe lasciar pensare ad una sorta di onticità ideale esteriore, e quindi in qualche modo anch’essa fattica, sebbene trascendente ed invisibile. Proprio per evitare quest’altra aberrazione di pensiero, la pensatrice corregge allora la rotta della sua riflessione metafisica passando dal platonismo all’aristotelismo (e tomismo), e parlando quindi dell’idea-forma come “forma-potenza presente” (gegenwärtige Formpotenz). Come tale essa non è altro che l’entelechia, ossia l’omni-presente ed eterna disposizione interna che punta verso un determinato scopo.
Ed ecco delinearsi di nuovo la teleologia.
Una volta chiarito questo (III, XIV p. 230-250) la pensatrice sottolinea che la natura statico-morfologica del tipo sta in fondo in relazione con il coglimento dell’essenza che ad esso esattamente corrisponde, specialmente in quanto estensione e delimitazione. Fatto questo, allora, diviene del tutto irrilevante indagare sull’ipotetica provenienza di tale essenza (teoria della discendenza). Piuttosto bisogna dedicarsi al lavoro di indagine necessario per differenziare chiaramente le essenze corrispondenti ai tipi. E proprio in questo modo si costruisce una ben strutturata sistematica gerarchica. È ciò che in termini scientifici va definito come “diagnosi di specie” (III, XV p. 252-279). Dunque l’omissione di tale atto di conoscenza comporta il grave rischio di una serie di deragliamenti nella comprensione degli esseri viventi (come quelli che si verificano nelle teorie che giustificano solo dinamicamente la loro insorgenza), dato che la loro struttura e natura resta nella più totale confusione. È su questa base che la pensatrice attribuisce un ampio credito alla teoria morfologico-sistematica di Agassiz, sebbene non la sposi del tutto. Agassiz comunque, nel porre chiaramente la primarietà di un approccio morfologico-sistematico, coglie il tipo esattamente nella maniera qualitativa che la Conrad-Martius auspica, e proprio in questo senso lo identifica con la tradizionale categoria. Tuttavia, la precisazione della sua qualitatività permette di costruire una sistematica che non può ricadere in quella tassonomia pedante la quale scambia per fattico ciò che è invece ideale, e quindi considera l’estensione dei raggruppamenti come un’estensione concreta di tipo spaziale (geografico) o temporale. Questo è non a caso uno dei motivi per i quali la distribuzione geografica differenziale delle razze è stata scambiata da molti per una sistematica tipologica.
Ma il culmine del discorso conradiano viene raggiunto laddove ella pone chiaramente sul tappeto il concetto di creazione; e ciò unitamente a quei concetti onto-metafisici che sono più appropriati a descrivere su larga scala i fenomeni dell’essere, come la dottrina della potenza-atto (III, XVII p. 304-324).
In via generale (III, XVIII p. 325-338) la Conrad-Martius ritiene che la creazione originaria (almeno dal punto di vista evoluzionistico) debba venire intesa sostanzialmente come messa in essere delle possibilità ideali (e non invece degli enti effettivi). Proprio questo però (in concordanza con quanto abbiamo visto a proposito dell’idea-forma in quanto forza o energia) configura una forza vitale che si presenta come immanente alla Natura, e quindi non a caso va ad impregnare di sé (insieme allo specifico piano costruttivo proveniente dai pensieri divini) il materiale genetico dei progenitori. Eccoci insomma di fronte alla creazione immanente.
In ogni caso la pensatrice ci mostra in generale quanto sia essenziale l’assimilazione del concetto di evoluzione a quello di creazione. Bisogna dire però che, come abbiamo appena visto, ella parte dal basso e cioè dall’ammissione di quella “creazione naturale” (immanente); la quale poi, sul piano dottrinario, può venire sommata all’effettiva primaria creazione divina oppure può venire anche preso in considerazione da sola. Il fatto importante sembra essere tuttavia che la buona intuizione insita nella teoria evoluzionistica consiste esattamente nell’idea che la Natura sia pienamente in grado di creare, ossia di lasciare insorgere la molteplicità degli esseri. Non è dunque questo che va obiettato alla teoria evoluzionistica, ma invece semmai quanto abbiamo già chiarito prima, e cioè che laddove sembra che vi sia evoluzione (nel trapasso di tipo) in verità il filo continuo dell’evoluzione invece si spezza per permettere l’insorgere di una radicale novità, ossia di un pieno tipo ex novo. E bisogna dire che già questo introduce di per sé il concetto di creazione, dato che la continuità evolutiva si rivela essere del tutto incapace di giustificare l’insorgenza di una totale novità. E quindi, che ci si ponga all’inizio assoluto degli eventi o anche in un loro momento successivo, è comunque necessario presuppore un atto abrupto e privo di precedenti che ponga in essere la novità.
Su questa base allora la Conrad-Martius afferma che la “creazione naturale” sussiste allorquando, sulla base di “potenze virtuali” (ossia possibilità originarie) avviene uno sviluppo a partire dalla dimensione materiale originaria che caratterizza la Natura. Il che si traduce nell’insorgenza di un “surplus” rispetto a ciò che vi era all’inizio. Dunque consiste proprio in questo la capacità creativa della Natura – nella capacità di produrre più di quanto sia effettivamente disponibile, ossia moltiplicare ciò che effettivamente c’è. Pertanto l’essenza dell’evoluzione (una volta illuminata dal concetto di creazione) si rivela non consistere affatto nella continuità ramificata che si diparte da un unico progenitore originario. Ciò è solo secondario.
Primaria è invece l’illimitata produttività, ossia ciò che giustamente potremmo definire come «creatività».
È evidente che qui siamo davanti all’esatto contrario di un riduzionismo. Anzi, dato che l’essenza dell’evoluzione appare essere la creazione di totalmente nuove forme (davvero nuove di zecca), e non invece l’insorgere del nuovo dal vecchio, è evidente anche che la stessa creazione naturale non è altro che la riproduzione immanente della creazione trascendente. Sebbene va detto la metafisica ci mette in guardia dal postulare un’equivalenza tra le due creazioni, dato che solo quella trascendente è capace di partire dall’assoluto nulla, ovvero è capace di creare insieme la materia (destinata a venire formata) e la forma (destinata a formare la materia). E questo la Conrad-Martius lo precisa chiaramente.
Ella sottolinea però che, nel caso noi ci soffermiamo sulla dottrina metafisica della potenza-atto, allora ci troviamo di fronte ad un immane fenomeno anche solo al cospetto della sola creazione naturale. Abbiamo già visto infatti che l’insorgenza del tipo è possibile solo postulando delle potenze originarie. E queste ultime (aldilà del fatto che sono quasi infinitamente fruttifere) sono immanenti, e quindi rendono possibile per davvero un’autonomia creativa della Natura. In ogni caso resta però la necessità di capire chi o cosa ponga in essere queste potenze immanenti. E qui si delinea nuovamente la necessità di una creazione divina o trascendente.
Sempre in termini metafisici assume una certa importanza la precisazione fatta dalla pensatrice a proposito dell’effetto di adattamento evolutivo provocato dall’ambiente. Esso infatti non è altro che l’abito (habitus) che si va a sommare al tipo, senza però mancare di subordinarsi ad esso, in quanto ontologicamente secondario (I, I, p. 13-29) Orbene, in base a tutto ciò che abbiamo detto circa i tipi secondari effettivamente evolventi, appare chiaro che essi corrispondono ad un movimento dell’abito e non del tipo. Ecco che allora l’evoluzione altro non è se non il comparire dell’abito nel contesto del tipo. Altrove la pensatrice (II, V p. 61-75) chiarisce anche che l’abito corrisponde al fenotipo mentre il tipo corrisponde al genotipo.
Ma la dottrina della potenza-atto si rivela imprescindibile anche per un altro motivo, e cioè nel contesto delle precisazioni fatte dalla Conrad-Martius a proposito della relazione esistente tra il “tipo tipico” (il vero tipo corrispondente al tipo globale o anche tipo in funzione di forma ideale, che è quello non evolvente) ed il tipo non pienamente tipico, ossia quel tipo che è appena apparente e quindi semplicemente manifesta concretamente il primo. Quest’ultimo corrisponde in qualche modo all’animale (o raggruppamento basso di animali) che abbiamo davanti nell’esperienza; e nel quale crediamo di riconoscere il tipo nella sua totalità (ossia il generale-universale), mentre invece esso ne rappresenta sempre solo una parte. E non vi è dubbio circa il fatto che proprio questo è il tipo (o meglio sotto-tipo) che noi vediamo effettivamente evolvere. Ecco allora che il generale-universale non è affatto quello dal quale si possa pensare che si diparta l’evoluzione fattica. Perché l’evoluzione dal generale-universale al particolare avviene solo sul piano ideale, e quindi è trascendente. Pertanto ciò avviene a partire dal “tipo tipico”, quale autentico tipo globale, e dunque potenza trascendente originaria in quanto eterna ossia sempre latente (in quanto mai fattica). Quest’ultimo è esattamente il tipo che noi intuiamo per mezzo dell’animale concreto che (sempre solo parzialmente) lo manifesta.
Ebbene, una volta posto questo, è evidente che la teoria evolutiva fallisce anche allorquando essa assume concetti onto-metafisici come quello del generale-universale. E fallisce nel senso che essa, impiegando un concetto solo riduttivo di potenza in relazione all’atto (riduttivo in quanto assimilato alla fatticità), non riesce in alcun modo a cogliere la totalità dell’essere (distesa tra ideale e reale) come fa invece la correttamente impiegata dottrina della potenza-atto. Del resto solo quest’ultima è capace di rappresentare nella sua pienezza quel divenire evolutivo che evidentemente si compie (almeno teoricamente) solo a livello ideale. Solo a tale livello sarebbe infatti possibile immaginare il trapasso da un tipo ideale all’altro. Ecco allora che solo la piena dottrina potenza-atto è in grado di cogliere e rappresentare il divenire dell’essere su larga scala. E bisogna registrare che propria questa appare essere stata l’aspirazione della teoria evoluzionistica nel postulare uno sviluppo che coprisse l’intera estensione del tempo (dall’origine all’attualità) ed anche dello spazio (nel fornirci una giustificazione della totalità attuale degli esseri).
Ma evidentemente tale teoria ha fallito miseramente.
Peraltro la Conrad-Martius chiarisce anche che (I, I, p. 13-29) il passaggio dall’universale al particolare corrisponde ad un’altra serie di concetti filosofico-metafisici che delineano il passaggio dal semplice al complesso. E ciò riflette a sua volta un dinamismo intrinseco all’essere che non ha in sé nulla a che fare con l’evoluzione, ancor più se la si postula in maniera fattica. Si tratta insomma ancora una volta di una tendenza che noi cogliamo nell’essere in maniera puramente mentale ed a posteriori. In questo senso, quindi, la teoria evoluzionistica potrrebbe ben venire totalmente sostituita (e quindi resa del tutto superflua) dagli a priori categoriali neo-metafisici, che Kant aveva riconosciuto come punti di riferimento mentali imprescindibili per la nostra esperienza.

Veniamo ora ad alcune considerazioni più ampie sugli aspetti specifici che abbiamo appena messo in luce.
Alcune di tali considerazioni saranno particolarmente utili per costruire una connessione tra il pensiero della Conrad-Martius e quello della Stein, ma anche per costruire una connessione con altre linee di pensiero (sia moderne che antiche). In altre parole vorremmo qui tentare di riconoscere i possibili raccordi della complessiva dottrina conradiana con alcuni specifici punti di riferimento storico-filosofici.
Ponendo in primo piano il discorso sulle essenze la Conrad-Martius senz’altro riafferma le esigenze della Fenomenologia entro un campo che negli ultimi secoli è stato occupato interamente dalla scienza empirica. E a tale proposito va detto che il misconoscimento delle essenze (del quale è responsabile appunto la scienza empirica) comporta il rischio di una conoscenza completamente erronea e confusionaria, quindi nel complesso perfino scientificamente inutile. Inoltre il connesso discorso conradiano sul tipo ideale rende attuale (come lei stessa dice) un tangibile platonismo ed anche idealismo. Il che poi, per mezzo della menzione della dottrina delle idee creative presenti nella mente divina (III, XVIII p. 325-338) si riconnette alla parte più platonica del pensiero di Tommaso. Tuttavia il generale ricorso alla teoria dell’ordine sistematico-gerarchico (con l’espressa menzione delle categorie) ed inoltre il ricorso alla dottrina della potenza-atto riconnettono il pensiero della Conrad-Martius soprattutto a quello di Aristotele. Del resto abbiamo già visto come la pensatrice stessa tenta di non restare racchiusa nell’orizzonte platonico, rinviandoci dal concetto di idea-forma a quello di entelechia. In altre parole, entro l’approccio filosofico-metafisico conradiano, entrano in gioco tanto la visione platonica quanto quella aristotelica.
In particolare, comunque, la Conrad-Martius sembra voler affermare la primarietà dell’ontologia aristotelica sulla teoria evoluzionistica, dato che essa ha stabilito una volta per tutte l’ordine imprescindibile dell’essere come categorie e generi. Ecco che l’ipotesi del passaggio da una forma (cosa) all’altra viola questo ordine che è in primo luogo logico.
A ciò va però aggiunto che la pensatrice accusa (I, III p. 40-45) proprio una parte dell’idealismo metafisico (ossia il razionalismo del XVII con l’inclusione di Leibniz) di aver posto le basi di una dottrina dello sviluppo che è totalmente svincolata dall’evidenze empiriche, che poi è sfociata nell’idea di un ipotetico progenitore originario comune a tutte le specie. Idea più poetico-romantica che non scientifica o filosofica, dato che essa prese forma nell’ipotesi goethiana di una Urpflanze. Del resto proprio questa visione filosofica appare a lei responsabile dell’allora diffusa idea secondo la quale il nuovo potrebbe derivare solo dal vecchio. Ed ecco quindi il circolare storico dell’idea di sviluppo prima ancora che Darwin la captasse trasformandola nella teoria dell’evoluzione.
La preferenza accordata alle teorie sistematico-morfologiche (sconfessando così qualunque ipotesi dell’insorgenza dinamica delle forme viventi, e quindi anche qualunque ipotesi che fondi l’ontologia attuale delle forme viventi per mezzo della somiglianza con un progenitore) rinsalda poi la dottrina conradiana con un forte movimento moderno morfologista di idee che ha avuto espressioni molteplici (Adolf Portman e scuola di Eranos, Thompson W. D’Arcy). Ma la rinsalda inoltre anche a quella complessiva moderna dottrina della Gestalt, che poco a poco si è diffusa in filosofia, psicologia e biologia – in generale questa dottrina afferma che il tutto è molto più che una mera somma di parti, e quindi costituisce un insieme integrato con la valenza di vera e proprio individualità organismica. Specialmente in relazione a quest’ultima sta anche la preferenza accordata dalla Conrad-Martius alle teorie biologistiche che assimilano l’evoluzione delle specie allo sviluppo individuale in quanto fenomenologia che punta allo strutturarsi di un organismo ben articolato in membra (III, XV p. 252-279). Quest’ultimo può infatti venire assimilato allo stesso ordine sistematico-gerarchico in quanto struttura ben articolata in raggruppamenti. Laddove poi questi due elementi si raccordano perfettamente con il tipo inteso come piano costruttivo presente fin dall’origine, e che punta esattamente a tracciare le linee divisorie tra raggruppamenti. In ogni caso si può dire che la Conrad-Martius pensa ad una somiglianza unicamente specifica e differenziale (quindi attuale, assoluta, statica e definitiva), invece che ad una somiglianza dinamica che si muova sulla linea della continuità evolutiva dinamica, e quindi solo relativa ed evanescente. Tuttavia la pensatrice sembra approssimarsi alla dottrina della Gestalt anche nel suo prendere atto di quella teoria scientifica della “comunanza di sangue”, la quale (rifacendosi anch’essa allo sviluppo individuale) lascia che si delinei una Totalità quale autentico spazio occupato dall’intera fenomenologia evoluzionistica (II, IX p. 129-161). E questa Totalità corrisponde da un lato ad un organismo ben articolato giunto ormai a compimento e dall’altro lato all’ordine naturale stesso, articolato com’è in raggruppamenti, ossia sistematico-gerarchico. Corrisponde insomma alla Natura stessa come organismo il cui sviluppo è puramente interno. Pertanto (anche se questa teoria resta essa stessa entro l’orbita delle teorie della discendenza) questa Totalità sottolinea la dimensione unitaria e non invece consecutiva della fenomenologia evolutiva. Essa presuppone infatti che quest’ultima non sia affatto il passaggio da un organismo all’altro, bensì invece il movimento interno ad un unico organismo, entro il quale non avviene altro che lo sviluppo necessario per pervenire alla maturazione individuale. Pertanto anche questa teoria (anche se molto indirettamente) autorizza l’ipotesi di uno spazio unitario privo di qualunque scansione, e nel quale quindi non vi è alcun trapasso di tipo.
In relazione poi alla discussione conradiana delle due principali teorie evoluzionistiche (quella incentrata sulla sequenza consecutiva delle specie collettive sulla linea dei tempi lunghissimi della paleontologia, e quella incentrata sullo sviluppo simil-individuale dipartentesi da molteplici germi-uovo) bisogna dire che la prima lascia prevalere una visione esterioristica e meccanicistica, mentre la seconda lascia prevalere una visione interioristica ed essenzialistica. E quest’ultima è senz’altro più in linea con il modo in cui la Conrad-Martius intende l’evoluzione.
Inoltre (II, IX p. 141), a proposito dell’evoluzione come creazione esplosiva (in cui le specie sono solo momenti di stasi), possiamo pensare ad una forza creativa concentrata nel dinamismo che, metafisicamente, non sarebbe altro che la spinta presente nel ciclo manifestazione-ritorno concepito dal neoplatonismo. Esso punta al recupero del Dio assoluto, e quindi sgretola nel suo cammino qualunque concrezione statica, com’è ad esempio l’ego individuale. Essa insomma punta sempre oltre l’individuo.
E qui vi sono echi anche del vitalismo di Bergson.
Va tenuta presente infine la spesso molto decisa presa di posizione anti-scientifica della Conrad-Martius.
In generale infatti, specie in alcuni punti (III, XIV p. 251), risulta evidente la sua severa critica alle teorie scientifiche che hanno preteso di sostituirsi alla metafisica. E con ciò viene di fatto condannata la tendenza disinvolta della scienza a teorie che in realtà sono solo mito, sebbene intanto la dimensione metafisica potrebbe stare anche per esse assolutamente a portata di mano (III, XV p. 252-279) Questo relativismo si mostra essere null’alto che la dissoluzione per via dinamistica di quella sistematica entro la quale avviene non solo l’ordinamento razionale del confuso caos dell’evoluzione ma anche la valorizzazione delle categorie entro un ordine gerarchico. E ciò per Conrad reca a gravi errori specie nella forma della contraddizione (Verstoss) della fondamentale legge dell’essenza.
Infine va considerato che (I, I, p. 13-29) la teoria evoluzionistica ha avuto conseguenze negative di non poco conto sul vissuto umano (spirituale e psicologico) di sé stesso e del mondo. infatti il forte riduzionismo rispetto all’essenza umana (la quale viene relativizzata nella sua originarietà nel supporre una forma animale che la giustifichi e la fondi) ha fatto sì che l’uomo perdesse gran parte della consapevolezza del senso e valore della propria esistenza. Le conseguenze antropologiche di questa teoria sono quindi di grande impatto, e proprio questo sembra aver spinto la Stein ad occuparsi del tema nell’indagare i fondamenti filosofico-metafisici della persona umana

Volendo quindi pervenire ad una sintesi degli aspetti più concreti e scientifici di tutto ciò che abbiamo detto, ci sarebbe da concludere nel modo seguente quello che la Conrad-Martius pensa della fenomenologia evoluzionistica: − 1) il vero sviluppo (ossia la vera evoluzione) è solo nella sua sostanza individuale cioè tipologico, e quindi affatto continuo-consecutivo ma invece discontinuo; 2) quello che lo sorregge (al fondo di tutto e sulla larga scala dell’essere nella sua totalità), non è affatto l’evoluzione della specie ma invece la dinamica onto-metafisica potenza-atto (che include biologicamente il fenomeno del germe-ovulo come totipotente); 3) l’evoluzione (in quanto basata necessariamente sulla deviazione) è in grado di spiegare al massimo la teratogenesi ma per nulla, invece, lo sviluppo fisiologico, ossia ciò che ordinariamente avviene in Natura.
Una volta precisato questo, appare dunque chiaro che, una volta analizzata con estrema attenzione dal punto di vista filosofico-scientifico e filosofico-metafisico, la teoria evoluzionistica non va considerata più di una teoria strampalata, irrealistica e piena di errori e deragliamenti logici. Inoltre, una volta tenuto conto delle sue versioni poetico-romantiche, essa sembra avere perfino un carattere non poco pseudo-scientifico (I, I, p. 13-29). Intanto comunque va constatato – come ci lascia capire la Conrad-Martius in questa parte del suo testo – che la teoria evoluzionistica di ispirazione darwiniana, non è in fondo altro che un mito che ha cercato invano di soppiantare un altro mito, e cioè la narrazione biblica della creazione. Precisamente si tratta del mito di uno sviluppo privo di causa ed intenzione, ossia di una produzione totalmente automatica di forme da parte della Natura. Tuttavia sta di fatto che questo è stato un mito che è nel tempo divenuto un dogma indiscutibile. Sebbene (precisa la pensatrice) lo stesso Darwin pare che sia stato perfettamente consapevole delle debolezze della sua teoria, a suo tempo poste in luce da molti critici.

II – Il pensiero evoluzionistico-personalistico di Edith Stein
In questa sezione esporremo le riflessioni svolte dalla Stein nel libro dedicato alla costituzione della persona umana, Der Aufbau der menschlichen Person (AMP) [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001.

II.1- La costituzione della persona umana e l’evoluzione
Come abbiamo già detto, Il discorso steiniano riguarda soprattutto la fondazione filosofico-metafisica della persona umana, e cioè l’antropologia intesa come una realtà spirito-animico-corporale, che ella deduce in parte dalla Fenomenologia husserliana ed in parte da quell’onto-metafisica tomistica con la quale stava già confrontandosi al tempo in cui scrisse AMP. Appare evidente che gli intenti della pensatrice non consisterono esattamente in quelli che guidarono la Conrad-Martius, dato che la sua non sembra voler essere esattamente un’indagine sulle essenze mondane. Però, in qualche modo e almeno parzialmente, essa è anche questo, dato che punta a comprendere cosa sia esattamente l’uomo, e dunque tende ad indagare a fondo l’essenza di questo ente. Ecco che quindi forse la sua fu un’indagine essenziale di portata più limitata di quella della Conrad-Martius. Eppure ella dice fin dall’inizio del suo libro (I p.2-17) che la teoria dell’evoluzione (insieme al riduzionismo della psicologia empirica ed insieme all’esistenzialismo nichilista di Heidegger) rappresenta uno dei riduzionismi che hanno più fortemente hanno danneggiato l’antropologia. Specificamente a proposito dell’evoluzione lei menziona esplicitamente l’antropologia tradizionalmente coltivata entro la “metafisica cristiana” (I, A, II p. 8-16) Pertanto ella deve aver avvertito la pressante necessità di confrontarsi con questa teoria, e conseguentemente la ricerca conradiana deve esserle servita senz’altro da guida. Non a caso il filo conduttore della sua intera riflessione sull’evoluzione corrisponde al tema dominante anche in UALK, e cioè la difficoltà insuperabile di spiegare la novità in termini puramente scientifici. Inoltre anche la Stein definisce la teoria evoluzionistica soprattutto come una “teoria della discendenza” (Deszendenztheorie)

Ma veniamo ora ad illustrare alcuni dei punti più rilevanti della riflessione steiniana a tale proposito.
Prima di iniziare devo però chiarire che in effetti il discorso della pensatrice concerne in primo luogo il grande problema onto-metafisico dell’individuazione. Problema che senz’altro le si era imposto per mezzo dello studio del pensiero di Tommaso. Naturalmente, come poi vedremo, la trattazione di questo problema si presenta nel suo libro come frammista a quella della relazione tra filosofia e scienza empirica, cosa che risente ancora fortemente delle esigenze più fondamentali espresse da Husserl. Parte degli intenti filosofici della Stein consiste insomma ancora nel negare che l’ingenuità scientifico-empiristica (incentrata nell’acritica presa d’atto delle leggi della Natura, in particolare la causalità fisica) possa pretendere di spiegare da sola l’essere, e tanto più una realtà così complessa come l’uomo. Comunque, sebbene calata in questo contesto, la sua preoccupazione di spiegare l’individualità si presenta intimamente unita all’esigenza di affermare l’unicità individuale. E questa è decisamente una preoccupazione che rientra nel pensiero personalista. In ogni caso questi studi sull’individuazione sarebbero poi stati continuati dalla Stein in Potenza ed atto (PA).
Da tutto questo possiamo capire perché l’indagine steiniana è meno ampia e dettagliata di quella della Conrad-Martius. Ciò accade non certo per mancanza di strumenti filosofici (tutt’altro!) e nemmeno per carenza di studi approfonditi. Accade semplicemente perché, mentre per la Stein la teoria evoluzionistica ha un’importanza solo relativa quale oggetto di conoscenza (ossia è appena un ostacolo da eliminare sulla via di una piena visione antropologica), per la Conrad-Martius essa rappresenta invece un oggetto di studio affrontato direttamente ed in maniera esclusiva. E ciò è senz’altro avvenuto perché quest’ultima pensatrice era stata da sempre appassionata di studi biologici e botanici. Non a caso era divenuto famoso il frutteto che ella curava insieme a suo marito a Bergzabern, e che la Stein conoscenza benissimo ed ammirava molto.

II.1.1 – L’uomo non è un animale
Il problema che la Stein vede in primo luogo (II, II,1-4 p. 26-29) è (come abbiamo visto nel contesto di UALK) quello della fondazione della realtà umana sull’antecedente realtà animale. Ma, in maniera ben più chiara che presso la Conrad-Martius, ella impiega il metodo fenomenologico per smontare questa visione. La Stein dice infatti che, una volta rivolto verso l’uomo uno sguardo intellettuale-spirituale che prescinda dall’immediata esperienza, e quindi dall’ingenuità (lo sguardo ottenibile per mezzo dell’epochè), allora l’antropologia spirito-animico-corporea cessa di essere un’invenzione metafisica e diviene invece una costatazione effettiva (quasi esperienziale). Ci troviamo infatti davanti alla realtà stessa dell’uomo, e precisamente la realtà corrispondente a quello che è il vivente per eccellenza. La chiave di volta di questa costatazione è però uno sguardo che sia rivolto verso l’interiorità e non invece verso la sola esteriorità. Infatti l’uomo ha davanti a sé chiaramente ciò che esso è solo allorquando coglie sé stesso per mezzo dell’introspezione e si riconosce quindi come un sostanziale “corpo vivente” (Leib), ossia un corpo vivificato dall’anima ed inoltre ancor più dallo spirito. E qui ci troviamo immediatamente al di fuori di una visione meramente esterioristica dell’uomo in quanto mera corporalità animale. Naturalmente anche la Conrad-Martius fa una simile denuncia affermando che l’uomo non può in alcun modo venire considerato come un ex-protozoo.
A questo punto, comunque, la Stein assume una posizione ben più determinata di quella della Conrad-Martius, e afferma che la vitalità specificamente animico-spirituale è l’essenza stessa dell’uomo in quanto sua interiorità. E cioè, più precisamente, è la sua unicità di essere vivente del tutto speciale. Nessun essere vivente, infatti (per quanto non più giustificato evoluzionisticamente), può venire colto nella sua unicità come può venire colto l’uomo. Abbiamo visto che anche la Conrad-Martius giunge a volte alla conclusione dell’unicità umana sulla base della contestazione della teoria evoluzionistica. Ma questo è presso la Stein un tema molto più sentito, dato che viene sviluppato in tutta la sua opera specie nei punti più intensi di Endliches und ewiges Sein, EES.

II.1.2 – L’idea di animale e l’idea di uomo nel contesto dell’evoluzione.
Laddove l’indagine steiniana diviene senz’altro più essenziale è nella parte del testo in cui ella si sforza di chiarire la necessità di pervenire ad una chiara definizione delle essenze differenziali tra i diversi regni della Natura per mezzo della definizione delle idee dei relativi esseri viventi: pianta, animale e uomo (IV, 4-8 p. 49-56). In particolare si tratta della parte del testo in cui la pensatrice affronta direttamente la natura di ciò che è “animale” (das Animalische). Non si tratta comunque ancora della parte del testo in cui la Stein affronta direttamente la teoria evoluzionistica appunto in quanto teoria.
Si tratta di una complessiva riflessione nella quale la pensatrice non affronta ancora direttamente il tema della teoria evoluzionistica. Ma qui ci troviamo comunque di fronte a qualcosa di molto simile a quello che è di fatto l’approdo dell’intera riflessione di Conrad-Martius su quest’ultima, cioè la necessità di tenere presente in primo luogo l’ordine sistematico-gerarchico della Natura. E poiché la Stein è qui già alle prese con la filosofia della Natura tomistica, è evidente che entrambe le pensatrici hanno ruotato di concerto intorno a questo centro orbitale.
La Stein precisa comunque un’altra volta che qui si pone un’esigenza conoscitiva di tipo pratico, e cioè quella di chiarire a fondo dei concetti che la scienza empirica usa invece in maniera piuttosto imprecisa, superficiale ed inoltre conoscitivamente ed eticamente disinvolta. Ed ella precisa che gli strumenti per fare questo sono metafisica e teologia, ossia la Rivelazione stessa.
Per realizzare questo complessivo obiettivo la pensatrice analizza l’essenza dell’anima umana paragonandola a quella animale. E giunge alla conclusione che la prima è caratterizzata da una sorta di spazialità metaforica che a sua volta corrisponde all’intervallo che esiste tra la percezione e l’istinto come forma di azione. Parliamo insomma di fatto della coscienza come spazialità propria della mente umana. Cosa che manca totalmente nell’animale, presso il quale invece alla percezione segue immediatamente ed incondizionatamente l’azione istintuale. Lo spazio della coscienza corrisponde quindi alla condizionatezza dell’azione umana in rapporto alla percezione. Presso l’uomo infatti l’azione può venire posta in atto oppure no, specie nel caso che essa venga avvertita come moralmente inappropriata. Ecco che la spazialità umana della coscienza corrisponde all’interiorità stessa in quanto spazio di riflessione, di auto-coscienza critica e di consapevolezza etica.
Nel complesso si delinea pertanto una dimensione animica che è ben superiore a quella basico-animale, ossia immediatamente naturale. Dato che quest’ultima (come constatato da Tommaso sulla base di Aristotele) è caratterizzata da “potenze” che corrispondono esattamente alle forze istintuali messe in moto incondizionatamente dalla percezione.
Ma l’anima animale possiede un altro carattere tipico, che poi la pone a livello intermedio tra anima vegetativa (piante) ed anima umana. Essa è fortemente legata al corpo. Ma non lo è affatto con la stessa intensità propria dell’anima vegetativa, la quale non è minimamente separata dal corpo. Ciò è evidente se si considera che nelle piante non vi sono organi, ossia non vi è alcuna differenziazione dell’immediata unità corporea. E la presenza di organi nell’animale sottolinea pertanto una sorta di animicità (ossia dimensione più che immediatamente materiale-cosale) che è commista al corpo ma è anche già piuttosto accennata in quanto è distinta dall’immediata unità. In questo senso la pianta, pur essendo un vivente, è caratterizzata da quella compattezza ontologica che è propria delle morte cose, e che invece nell’animale inizia a svanire.
Ecco allora che presso la pianta il corpo riassorbe così tanto in sé l’anima (la non-materialità), che è come se ne nascondesse e perfino annientasse la presenza. Naturalmente invece l’anima umana è quasi interamente separata dal corpo specie nella sua parte più spirituale.
Devo far notare che ho impiegato questa riflessione steiniana per una mia riflessione sull’anima come entità corrispondente al livello più che anatomico dell’uomo, e quindi di fatto corrispondente al livello fisiologico ed anche a quello della sofisticata regolazione cibernetica degli organi anatomici.
Va però considerato che la reattività istintiva dell’anima animale, pur essendo meno evoluta rispetto all’uomo, è più evoluta rispetto alla pianta in quanto configura un certo grado di apertura verso l’esteriorità. La pianta è invece è totalmente chiusa in sé stessa, e questa è poi una caratteristica tipica della sua animicità. Secondo la Stein si può assumere che ciò corrisponda all’ontologia dell’organico puro, ossia a quello più basico ed elementare. Mentre invece l’animale rappresenta già un organico di livello più alto.
A questa chiusura della pianta corrisponde poi un altro aspetto della sua incondizionata unità corporea, ossia una compattezza che impedisce qualunque differenziazione o articolazione. Siamo quindi davanti a quella totalità organismica che è per definizione «organizzata», ossia differenziata in quanto articolata non in mere parti ma invece in membra, ossia parti perfettamente integrate nel tutto. È evidente che qui ci troviamo esattamente al cospetto di ciò che la Conrad-Martius ritiene l’aspetto del vivente che più stridentemente contraddice la teoria dell’evoluzione. E quindi è probabile che la Stein abbia accolto da lei questa presa di posizione entro la sua visione. Ella aggiunge però un aspetto ben più specifico a tale elemento, e cioè il fatto che la differenziazione organismica va (quanto a livello evolutivo) di pari passo con la maggiore o minore lassità della relazione tra anima e corpo. Più precisamente vi è una proporzionalità inversa tra i due elementi – più l’anima è lontana dal corpo, più l’essere vivente è caratterizzato da una differenziazione organismica; e naturalmente viceversa. Non è un caso, quindi, che proprio a tale rispetto (e magari proprio sotto l’influsso della trattazione conradiana) la Stein senta l’esigenza di menzionare la teoria dell’evoluzione. Anzi qui sembra che la pensatrice stia parlando di qualcosa di molto simile al tipo conradiano. Ella afferma infatti che l’idea di un determinato raggruppamento di esseri viventi (pianta, animale, o uomo) costituisce l’unità del raggruppamento stesso senza che sia necessario affatto postulare un’unità di tipo genetico, e quindi di fatto una comunque “origine” nel senso dell’”ascendenza”. Ella menziona qui espressamente l’”origine delle specie” (Ursprung der Arten) e parla del “principio genetico” come qualcosa che sta in conflitto con la dottrina dell’idea di essere vivente.
Ebbene questa presa di posizione è ben più radicale di quella della Conrad-Martius. La Stein sembra infatti qui decisa a non prendere nemmeno in considerazione la dimensione genetica degli esseri viventi (non solo come principio causale meccanicistico ma anche e soprattutto come principio di organizzazione). È difficile dire se ella intendesse proprio questo, ma comunque quel che è certo è tale così decisa negazione rende senz’altro più limitata la sua indagine rispetto a quella conradiana. E ciò ci mostra quanto sia vero quanto dicevamo nell’introduzione al corso – quando noi gettiamo lo sguardo nei dintorni del pensiero steiniano troviamo (almeno per alcuni argomenti) trattazioni molto più estese e complete di quelle che sono presenti nella sua opera. Qui infatti la trattazione conradiana si mostra non solo più ampia, attenta ed approfondita in termini filosofico-scientifici, ma anche più esemplare in quanto indagine fenomenologica sulle essenze mondane. Tra le quali indubbiamente rientra anche la dimensione genetica.
Intanto però non possiamo dimenticare che le due indagini restano comunque convergenti. Soprattutto perché l’invocazione dell’idea non richiama solo la dimensione dell’unità ma anche quella del progetto creativo. E ciò è quanto la Conrad-Martius definisce come quel progetto di costruzione che è intimamente connesso all’idea, che a sua volta sta alla base del tipo.
Tuttavia la visione steiniana è a tale proposito ben più sofisticata metafisicamente rispetto a quella conradiana perché il progetto creativo viene da lei visto come una “continuità” (Kontinuität) tra i vari raggruppamenti di esseri che ha un andamento verticale, ossia ascendente, e quindi culmina nell’uomo come suo più alto prodotto.
In tale contesto, inoltre, ella ammette la necessità di postulare le specie (corrispondenti qui ai vari raggruppamenti di esseri viventi, ossia ai regni naturali), ma solo nell’ambito di un piano costruttivo nel quale la continuità ascendente predomina nettamente su qualunque causalità. Ed escludendo la causalità la Stein allude quindi piuttosto chiaramente alla messa in essere diretta (per via creativa) delle diverse specie di esseri viventi. Anche se poi ammette in tale contesto un divenire ascendente che, partendo dall’elementare in quanto basso si muove verso il complesso in quanto alto. È plausibile che ciò stia in una certa connessione con quanto affermato dalla Conrad-Martius circa la relazione tra creazione originaria (trascendente) e creazione secondaria (immanente). Tuttavia anche a tale proposito il discorso conradiano è molto più preciso e approfondito in termini filosofico-scientifici.
Su questa base la Stein approfondisce alquanto il discorso della relazione tra anima animale ed anima umana chiarendo che essa consiste in un’interiorità che è poi anche spiritualità. E questo è poi l’oggetto dell’intero capitolo che qui stiamo esaminando (IV, 1-8 p. 45-56). Dobbiamo omettere questo complessivo discorso perché ci allontanerebbe dal nostro tema. Tuttavia in tale contesto emerge di nuovo la teoria evoluzionistica per mezzo del concetto di specie, e precisamente in relazione a quel concetto di individualità che va di pari passo con quelli di interiorità e spiritualità. Ebbene il concetto di specie appare alla Stein diametralmente opposto a quello di individualità in quanto la specie designa una collettività di meri esemplari mentre solo l’individualità configura l’unicità. In particolare si tratta della ripetibilità degli esemplari di specie opposta all’irripetibilità degli individui per i quali l’appartenenza di specie non ha quasi nessun significato. Ebbene l’uomo è unico e irripetibile per definizione in quanto è un ente dotato di un’interiorità spirituale; e come tale si colloca del tutto al di fuori della dimensione evoluzionistica delle specie. Ecco dunque in cosa sfocia il processo ascendente che passa per i vari livelli di animicità – con l’uomo si delinea qualcosa di molto maggiore che l’animicità elementare e cioè l’animicità spirituale. Ma non si tratta solo di questo bensì anche di quel cruciale problema della novità che abbiamo visto trattare anche alla Conrad-Martius. Secondo la Stein, infatti, la novità non insorge per definizione se non si delinea una piena individualità e quindi un’unicità individuale.
Anche in questo ella è quindi molto più radicale della sua interlocutrice, dato che, da tutto ciò bisogna concludere che la novità di fatto non insorge mai nel corso dell’evoluzione. Essa insorge invece solo laddove ormai l’evoluzione (anche secondo Darwin) si è definitivamente spenta, e cioè con l’uomo. Infatti, ella dice, “…beim Menschen Individualität einen neuen Sinn bekommt, der bei keinem untermenschlichem Geschöpf zu finden ist”.

II.1.3 – L’evoluzione (teoria evoluzionistica), l’unicità individuale e il concetto di specie.
Quello appena discusso non era però altro che un discorso appena introduttivo alla trattazione della teoria evoluzionistica, e precisamente un discorso generale sull‘antropologia.
L’evoluzione viene affrontata in una sezione specifica dell’indagine steiniana che si occupa proprio dell’origine delle specie, e della “specie” (species) e del “genere” (genus), una volta posti in relazione con la realtà dell’individuo (V, II, 1-10 p. 57-73). E nell’introduzione a questo discorso la pensatrice dichiara ancora di muoversi secondo i dettami del metodo fenomenologico (in quanto descrittivo) in luogo del metodo scientifico che è solo deduttivo e tende quindi all’astrazione del reale. Ecco perché a quest’ultimo sfugge totalmente la dimensione vitale dei fenomeni. È un discorso questo che ci dice subito quale valore la Stein attribuisca alla teoria evoluzionistica, e peraltro nel senso di una critica alla scienza che più forte di quella conradiana.
Ma per entrare più nel merito della questione conviene partire dal capitolo in cui la Stein trae le conclusioni del suo intero discorso (V, II, 10 p. 71-73) Apparentemente la sua presa di posizione sembra più morbida rispetto a quella conradiana, in quanto ella pare essere disposta ad accettare la plausibilità del nucleo stesso della teoria evoluzionistica. La pensatrice afferma infatti che la filosofia non può rifiutarsi di accettare le evidenze proposte dalla scienza, e quindi, nello specifico, non può rifiutarsi categoricamente di accettare un qualcosa come la teoria della discendenza. Ciò nel senso che quest’ultima postula in definitiva l’esistere di molteplici “principi di forma” (Formprinzipien) – e forse anche un solo principio di forma −, in modo tale che diviene plausibile presupporre forme inferiori che siano alla base di quelle superiori.
Ciò che però non è ammissibile per la filosofia è che la legislatività agente nell’ambito delle forme inferiori sia omnivalente, e quindi viga pienamente anche nell’ambito delle forme superiori. Ciò infatti conduce ad un riduzionismo che è inaccettabile non solo in sé ma anche in quanto impedisce alla filosofia di svolgere il compito che essa ha in relazione alla scienza, e cioè di fungere da sua guida e fondamento nel condurre autentiche indagini ontologiche. E questo è un compito che tutti i fenomenologi consideravano assolutamente doveroso. Ma sta di fatto che la postulazione di principi di forma comporta inevitabilmente anche la postulazione di principi dell’essere, e l’indagine su questi ultimi spetta decisamente alla filosofia. Ecco allora che, quando ciò non avviene (cioè quando la scienza opera senza l’appoggio della filosofia), ne nascono indagini sull’essere che producono mere teorie che rischiano fortemente di essere infondate. Ebbene, la teoria della discendenza corre per la Stein esattamente questo rischio. A questo punto, allora, entra per lei in gioco non solo la metafisica ma anche la stessa teologia, ossia di fatto lo stesso racconto biblico della creazione, e cioè la Rivelazione. Ciò avviene perché entrambe hanno come base quei principi dell’ontologia che in definitiva sono pienamente razionali. Uno di questi è il principio che pone la necessità inderogabile del “qualcosa” in luogo del “nulla”. E questo è uno di quei principi che si spiega da sé, ossia non ha bisogno di alcuna fondazione fattuale (cioè di tipo empirico-scientifico). Lo stesso vale però anche per gli stessi principi di forma ai quali si appella la teoria evoluzionistica. Ed ecco allora che la filosofia metafisica (congiunta alla teologia) è perfettamente in grado di indagare su questi ultimi anche senza servirsi affatto della scienza empirica, e cioè, nel caso specifico, della teoria evoluzionistica. Queste discipline infatti dispongono della conoscenza di diversi principi di essere (materia e forma) ed inoltre sono in grado di cogliere il legame (concatenazione) esistente entro la varietà. Il quale viene affermato entro l’ontologia come struttura gerarchica dei vari livelli stratificati di essere.
Ma, tornando alle premesse di queste conclusioni (ossia ai primi paragrafi del cap. V, II), possiamo constatare che la Stein, in maniera praticamente sovrapponibile alla Conrad-Martius, oppone frontalmente alla teoria evoluzionistica (quale deduzione-astrazione scientifica, tendente a dedurre dai fatti delle grandi leggi universali) la descrizione comparativa non solo come filosofia ma anche perfino come morfologia scientifica. Ecco che la contestazione filosofica steiniana della teoria evoluzionistica approda come quella conradiana alla necessità inderogabile della morfologia come scienza.
Orbene, al metodo scientifico della deduzione-astrazione la Stein imputa la tendenza a generare teorie dell’essere che, non essendo né filosofiche né basate su un’effettiva esperienza, hanno una forte probabilità di essere puramente mitologiche. Nell’affermare questo ella parte dal criterio rappresentato dalla “varietà” degli esseri viventi (Mannigfaltigkeit), la quale può venire affrontata con l’approccio descrittivo-comparativo oppure con quello deduttivo-astrattivo. Usando il primo approccio non si farà altro che studiare i grandi raggruppamenti viventi in base alle differenze essenziali che li caratterizzano e delimitano. Invece, usando il secondo, si tenderà a cercare la relazione causale tra le varie forme morfologiche e la si troverà nel legame dinamico-temporale che le unisce. Si metterà così in luce la presunta concatenazione e consecuzione solo vagamente gerarchica (Reihe), che ne distribuisce nel tempo l’insorgenza. Ecco insomma l’evoluzione come presunta legge naturale universale, che evidentemente viene fatta risalire di fatto alla più elementare legge della causalità. Tuttavia, usando questo metodo, si trascurerà l’atto conoscitivo forse più importante al cospetto della varietà degli esseri viventi, e cioè quello della loro definizione differenziale, ossia appunto la morfologia. E così di fatto noi conosceremo la (supposta) concatenazione causale che giustifica l’insorgenza degli esseri viventi, ma della loro natura non sapremo assolutamente nulla.
Qui bisogna dire che la convergenza tra Stein e Conrad-Martius è praticamente perfetta, sebbene la prima caratterizzi in modo più chiaro le premesse metodologiche della teoria evoluzionistica (deduzione-astrazione) a fronte di quelle della morfologia. In ogni caso entrambe le pensatrici affermano che è la morfologia la scienza alla quale rivolgersi più appropriatamente a fronte della varietà degli esseri vicenti.
Laddove la Stein ci offre un ulteriore prezioso contributo di chiarezza sintetica è poi nella valutazione generale degli aspetti della teoria evoluzionistica, che ella descrive in maniera molto generale (ma anche circostanziata) sfuggendo così all’indagine diretta delle svariate teorie, alla quale invece si dedica invece la Conrad-Martius. E tale generalizzazione ci aiuta forse a capire meglio come stanno le cose. Ebbene, la teoria evoluzionistica si divide secondo la Stein in due branche. La prima (di ascendenza certamente mendeliana) è incentrata nei due reali fenomeni della modificazione formante (mutazione) e della mescolanza formante (incroci procreativi) del materiale genetico (e quindi riguarda la trasmissione dei caratteri genetici). La seconda è incentrata nel solo supposto fenomeno della selezione naturale sulla base della lotta per la sopravvivenza. Una volta fuse insieme, queste due branche, hanno poi portato a supporre un progenitore unico in quanto forma originaria (”Urform”) di tutte le specie. Ecco insomma il nucleo stesso della teoria della discendenza. Ebbene, mentre verso il primo genere di fenomeni la pensatrice non sembra aver nulla da obiettare (si tratta di fenomeni esperienziali per lei incontestabili), invece del secondo genere di fenomeni essa rileva il carattere di ipotesi non solo ideologicamente arbitraria (e quindi probabilmente fantasiosa) ma anche astrusa ed assurda. Proprio per la sua via si giunge infatti a supporre un progenitore originario, con la conseguenza di far poi partire da qui un divenire incessantemente trasformativo per mezzo del quale dovrebbe essere spiegabile non solo l’insorgenza ma anche quella forma degli esseri viventi che intanto non viene nemmeno conosciuta a fondo.
Ed eccoci in tal modo di fronte la centrale problema messo in luce anche dalla Conrad-Martius – il problema della giustificazione del tipo che poi è anche il problema del passaggio da un tipo all’altro.
Ed infatti anche la Stein si appiglia al tipo (“Typus”) nell’affermare che la filosofia dispone di una spiegazione molto più efficiente e plausibile di esso, e cioè quella che è basata sulla formazione e non invece sulla trasformazione. Ma la formazione è interna, in forza di una “forma interna” (innere Form), e quindi è di fatto è basata su un paradigma statico ed interioristico. Mentre invece la trasformazione basata su un paradigma dinamico ed esterioristico.
Ebbene proprio a tale proposito possiamo constatare che, laddove l’indagine della Conrad-Martius è sicuramente più ampia in termini di esame di teorie e specifici fenomeni, invece quella della Stein, pur essendo ben più ristretta in questo senso, va però intanto senz’altro molto più in profondità. E vedremo ora che ciò accade perché ella ha costantemente davanti agli occhi il problema dell’individualità in quanto unicità, cioè il problema dell’unicità individuale. Ella ci fa notare infatti che la spiegazione dinamico-esterioristica non fa altro che prendere atto di ciò che ha davanti sulla linea di un percorso evolutivo che del tutto casualmente genererebbe esseri viventi, e quindi non costituisce in alcun modo un’autentica formazione ma invece solo una cieca e meccanica concatenazione. La vera formazione sussiste invece laddove è riconoscibile un’evidente e ben definita attività in direzione di uno scopo. Il che esige poi la supposizione di una ben definita forma interna che viene allo scoperto, e che quindi rappresenta qualcosa di statico in quanto del tutto indipendente dal divenire formante (ossia di fatto omnipresente ed eterno anche se invisibile). Tutto ciò manca completamente laddove dominano unicamente il puro dinamismo, la causalità cieca e meccanica (priva totalmente di scopi) e per di più anche l’esteriorità come fattore causale dirimente (selezione ambientale). In sintesi, una volta formulata la questione in termini rigorosamente filosofici, ciò che qui manca è una formulazione della “relazione” (Verhältniss) tra “forma generale” (allgemeine Form) e “istanza formale interna” (inneres Formprinzip). È evidente insomma che, in termini rigorosamente logici (per non parlare di quelli esperienziali), la teoria evoluzionistica gira letteralmente a vuoto. Quindi essa va considerata tanto insufficiente in termini scientifici quanto lo è in termini filosofici; ossia prima ancora di arrivare alla metafisica ed alla teologia. E qui insomma la critica steiniana affonda il coltello molto più efficacemente di quella conradiana.
In sintesi tale teoria risulta del tutto incapace di spiegare il tipo, e conseguentemente risulta del tutto incapace di spiegare il problema ancora più rilevante dell’insorgenza di esseri viventi, e cioè quello dell’unicità individuale. Ancora una volta quindi la Stein pone un criterio molto più alto di insufficienza della teoria evoluzionistica, rispetto a quelli posti dalla Conrad-Martius.
Tuttavia proprio qui la Stein passa a quel problema della metafisica che la sua interlocutrice aveva sottolineato ancor più di quello della filosofia. E lo fa nuovamente con una forza, efficacia e profondità che, pur nella ristrettezza dell’indagine, offrono un apporto fondamentale alla critica della teoria evoluzionistica.
Ella sottolinea insomma lo spaventoso vuoto metafisico (ossia vuoto di pensiero) che vi è dietro tale teoria, così come del resto dietro tutte le teorie dell’essere forgiate dalla scienza empirica. La teoria evoluzionistica, infatti (sebbene senza nemmeno saperlo), fa riferimento alla materia “non formata” (ungeformte Materie) nel pretendere intanto che la materia stessa in sé (cioè un’istanza che la metafisica riconosce come totalmente indeterminata e quindi totalmente priva perfino di quantità), ossia la materia astratta e cieca, sia la protagonista assoluta ed il fondamento irrinunciabile di una fenomenologia evolutiva che è destinata ad approdare all’individuo completamente formato. La teoria evoluzionistica, insomma, non ha la minima idea del fatto che la materia, per poter formare, deve venire prima formata. E ciò implica inevitabilmente un progetto costruttivo già pienamente in atto (e fin dall’inizio), ossia quella intelligenza divina che interviene ad elevare la cieca materia primordiale (di poco differente dal nulla e comunque del tutto impotente) ad un luogo di potenza creativa.
Ecco che immediatamente ci ritroviamo nel contesto di quel richiamo alla metafisica unita alla teologia (e quindi alla Rivelazione) con il quale culminava l’intera indagine della Conrad-Martius. Eccoci insomma di fronte alla formazione colta davvero nella sua pienezza e radicalità, ossia quella che la Stein chiama “formazione originaria” (ursprüngliche Formung), ossia la creazione divina.
Ma a ciò va aggiunta la denuncia di una pecca teoretica ancora più grave della teoria evoluzionistica. Essa pretende infatti che proprio quella qualità che in verità può insorgere nella materia solo allorquando essa sia stata già elevata (da Dio) a quantità – ossia la “varietà qualitativa” (qualitative Mannigfaltigkeit) – sia quanto essa avrebbe rivelato all’uomo dopo che prima esso era rimasto obnubilato dalle fatue favole metafisico-teologiche. Tale varietà qualitativa sarebbe infatti quella molteplicità degli esseri per la quale la teoria evoluzionistica ritiene di aver trovato una giustificazione ciecamente materialistica e meccanicistica, e peraltro lasciando nella totale oscurità la questione dell’unicità individuale.
Infine, aldilà di questo, la teoria evoluzionistica non è consapevole del fatto che, chiamando in causa la materia primordiale astratta, essa pretende di fondare l’esistente su ciò che di fatto non esiste, ovvero non è affatto ancora un “qualcosa” distinto dal “nulla”. Essa insomma non si rende conto di toccare il tremendo problema dell’esistenza e più in generale dell’essere, senza intanto possedere i benché minimi strumenti conoscitivi per farlo. Il problema dell’insorgenza degli esseri viventi consiste infatti proprio in questo. Ed ancor più se, seguendo la Stein, noi poniamo al suo centro il problema dell’unicità individuale, ovvero il problema dell’uomo, l’antropologia.
Ritornando però da questo all’esame filosofico della teoria evoluzionistica, la Stein ci fa notare che è riduttivo ed improprio lo stesso porre la dimensione della riproduzione procreativa (sullo sfondo della quale vi è poi la dimensione della specie) come fondamento della spiegazione dell’individuo. La verità è infatti che l’individuo è forma per sé stesso, e quindi ha in sé stesso quell’istanza di formazione che fa di esso ciò che è. Insomma è per sé stesso istanza di formazione. Dunque il chiamare in causa procreazione e specie non solo è ingenuo (in quanto è come spiegare la necessità intrinseca di una cosa per mezzo della descrizione di come si è arrivati ad essa, cioè del meccanismo causale che l’ha generata) ma è anche del tutto fuori luogo. È cioè un colpevole allontanamento dal nucleo del problema.
Tutto ciò significa però che l’individuo è ontologicamente l’assoluto degli assoluti, e quindi è del tutto insensato condizionare il suo esistere a qualunque altra cosa, meno che mai al meccanismo causale che appena materialmente lo ha prodotto. Quest’ultima non è dunque affatto una spiegazione dell’interezza del suo essere. E ciò è vero soprattutto perché, come la Stein sottolinea, la stessa formazione dell’individuo trascende la più generale formazione degli enti, ovvero delle morte cose. Ecco allora che la giustificazione dell’essere individuale precede non solo la realtà della materia ma anche quella della stessa forma, ovvero la formazione. Dire che l’individuo è forma per sé stesso significa allora proprio questo. La Stein esprime così questo pensiero riferendosi con l’”essa è questo” (“sie es ist”) all’efficacia della forma sulla materia, ossia alla formazione: − “…il fatto che essa sia tale, non è comprensibile né partendo solo dalla materia né partendo solo dalla forma; tanto più quanto meno l’individuo è pensabile come esistente solo attraverso sé stesso” (“…daß sie ist, ist weder aus der Materie allein noch aus de Form allein begeiflich; so wenig wie das Individuum als durch sich selbst existierend zu denken ist”). Insomma, essendo esso stesso un assoluto, l’individuo non ha alcun bisogno di venire giustificato per mezzo di un assoluto, come invece avviene per gli enti ordinari – “Ogni finito e condizionato rinvia ad un Assoluto come sua Origine, così come anche ad un’originaria formazione della materia” (” “Alles Endliche und Bedingte weist auf ein Absolutes als auf seinen Ursprung, eben damit aber auf eine ursprüngliche Formung der Materie hin…”.
Ora, se riportiamo tutto ciò al paradigma del divenire evolutivo, e se intanto constatiamo che l’individuo ne è necessariamente il prodotto ultimo (in quanto a pienezza e perfezione), è evidente che veniamo in tal modo rinviati alla specificazione finale quale momento più autentico dell’individuazione. E riprenderemo più avanti questo così decisivo tema.
Per mezzo di tutto ciò la Stein perviene ad un’analisi filosofica della specie che in parte converge nuovamente con quella condotta dalla Conrad-Martius sulla natura universale-generale del tipo.
Per la precisione la prima parla comunque qui del “genere”. Si tratta in particolare del fatto che quest’ultimo corrisponde a quell’intendimento evoluzionistico della specie che lascia delineare non l’individuo ma invece la generalità astratta nel quale esso si pone – l’umanità nel caso dell’uomo.
Ma proprio questo ci allontana moltissimo dall’effettiva formazione, dato che la generalità astratta non è altro che la “forma vuota” (Leerform) di ciò che gli individui hanno in comune, ossia la specie. È in questo senso che, su un piano unicamente logico, il genere si pone gerarchicamente al di sopra della specie.
In ogni caso è solo su questo piano astratto che l’eguaglianza prevale sulla particolarità, e quindi assume interesse ontologico primario come avviene nella teoria evoluzionistica (incentrata com’è sulla consecuzione di specie come spiegazione delle attuali forme viventi). Su questo piano l’individuo è pertanto appena un’entità logico-ideale e quindi è anch’esso puramente astratto. Ma, secondo la Stein, non è possibile cogliere per davvero l’individualità se non ci si pone pienamente sul piano ontologico. Proprio per tale motivo ella ritiene la specie (in quanto meno astratta del genere) quale momento fondamentale per il delinearsi dell’individualità. E questo discorso verrà poi sviluppato ulteriormente in PA indicando nella specie la di fatto ultima e finale determinazione dell’essenza ideale trascendente designante un certo tipo di essere vivente. Proprio per questa via si giunge alla fine al cospetto di quell’individualità unica davvero piena che non è più nemmeno il “questo” (delineatosi per mezzo della specie finale) ma è invece il “certo questo”, ovvero Socrate in persona. Non si tratta insomma appena di “questo uomo”, ma invece si tratta di “questo certo uomo”. E proprio quest’ultimo è il vero assoluto ontologico al quale punta l’individuazione, ossia la creazione divina di una persona unica e irripetibile.
Una volta giunta a porre il problema dell’eguaglianza in conflitto con quello della piena individualità unica, la Stein finisce per intercettare ancora una volta la riflessione della Conrad-Martius, ossia la cruciale questione della novità. Infatti l’eguaglianza sta in conflitto proprio con quest’ultima, e dunque anche la specie stessa sta in questo conflitto. Dall’altro lato la pienezza dell’individualità in quanto unicità può sussistere solo in quanto essa è irripetibile, e quindi appunto per questo radicalmente nuova.
Si tratta insomma del fatto che alla fine del percorso evolutivo che reca all’individuo non può che esserci altro che qualcosa che prima non c’era e che non è ritrovabile in alcun luogo. Il che, per inciso, ci riporta alle relazioni esistenti tra il personalismo steiniano e quell’accento posto da Tommaso sull’«atto di esistere» che fu esemplarmente ripreso da Maritain.
Naturalmente, comunque, allorquando noi diciamo che l’individuo deve rappresentare una novità in quanto assolutamente unico ed irripetibile, stiamo supponendo un piano originario che puntava esattamente a questo risultato, e quindi non poteva che venire guidato da un’idea di individuo unico di fatto già presente all’inizio. Ebbene tale presupposizione confligge inconciliabilmente con l’assunto principale della teoria evoluzionistica, e cioè quello secondo il quale invece il prodotto finale dell’evoluzione non era assolutamente prevedibile all’inizio in quanto il divenire che reca ad esso sarebbe del tutto meccanico, cieco e casuale.
Si tratta insomma dell’originarietà della forma (per quanto di fatto determinata definitivamente solo alla fine) e la sua determinazione solo in itinere. Questo quindi esautora l’intero discorso dell’evoluzione delle specie come via per arrivare all’individuo.
Per questo la Stein parla a tale proposito della distinzione da fare tra una novità (nuova forma) che insorge “già pronta” (schon fertig) ed una novità che invece insorge solo per l’intermediazione di un continuo cambiamento di forme. È evidente che la prima è una forma statica ed assoluta (data per sempre), mentre la seconda è una forma appena dinamica e relativa. Ed è pertanto evidente che nel primo caso il divenire evolutivo è un fenomeno secondario (che però intanto la Stein non esita ad ammettere come reale), mentre nel secondo caso esso è un fenomeno primario. In ogni caso la pensatrice, a proposito della forma insorgente come “già pronta”, parla di un “venire ad esistenza”. Ebbene proprio questo fatto, una volta ammesso, si pone in radicale conflitto con la teoria evoluzionistica. E questo ancora una volta sottolinea l’unicità della piena individualità. Dato che il “venire ad esistenza” lascia che si delinei un individuo insorto in maniera “separata” (gesondert), e non invece per mezzo della generazione, ossia di concerto con altri individui uguali ad essi. È evidente insomma che la Stein sta parlando di una creazione della persona che, per quando invisibile al di sotto dell’effettivo divenire naturale, avviene di fatto fin dall’inizio.
La pensatrice non sembra però intenzionata a spazzare via totalmente la constatazione del divenire evolutivo in forza di una visione così sofisticata in termini metafisico-teologici. Infatti ella si sente in dovere di porsi il problema di una possibile rilevanza della dimensione della specie entro il processo dell’insorgenza dell’individuo. Per la precisione si tratta del problema − del quale fu ben consapevole anche la Conrad-Martius (nel contesto della sua riflessione sulla relazione tra creazione trascendente ed immanente) − del possibile necessario continuo intervento creativo tendente (per mezzo della generazione procreativa e nel contesto guidante costituito dalla specie) a determinare ciò che viene ad esistenza solo in modo ancora indeterminato. Stiamo insomma parlando anche qui di una sorta di creazione continua, per mezzo della quale la Natura continua e completa la creazione originaria. In tal modo la genesi della novità corrisponde perfettamente alla continua ricreazione indotta dalla generazione.
Nuovamente però la Stein pone in primo piano il cruciale problema dell’esistenza. E sottolinea quindi che, in assenza di un originario atto creativo, non si può affatto pensare che l’evoluzione di specie (sebbene così concepita ed ammessa) possa giungere a spiegare addirittura l’esistenza. Non solo, ma ella constata anche che soltanto quella sorta di creazione continua che si delinea dietro il divenire evoluzionistico (cioè l’evoluzione delle specie) è in grado di spiegare la novità come invece la teoria evoluzionistica non è assolutamente in grado di fare. Infatti il trapasso da una specie all’altra è appena una consecuzione di entità distribuite sulla linea di una solo supposta evoluzione, ma non è affatto essenzialmente un’evoluzione. Dato che quest’ultima sussiste solo quando vi è la trasformazione da una forma all’altra. Laddove poi la trasformazione è discontinuità e non invece continuità, ossia è radicale cambiamento di ciò che c’era prima, e cioè “Veränderung der Form”.
Di nuovo qui l’indagine steiniana coincide quasi totalmente con quella conradiana laddove quest’ultima sottolinea la pecca principale della teoria evoluzionistica, ovvero l’insipiegato trapasso da un tipo all’altro. Ma ciò avviene con una certa differenza, e cioè il fatto che la Conrad-Martius definisce come “trasformazione” lo stesso passaggio evoluzionistico da una specie all’altra, e dunque include anche questo fenomeno nell’orbita della teoria della discendenza. Tuttavia può anche trattarsi si una mera questione terminologica.
Non a caso le due visioni ritornano a coincidere totalmente laddove la Stein afferma che tale trasformazione di forma è possibile e pensabile solo sulla base di una “forma generale” (allgemeine Form) che costituisca il fondamento del divenire, e quindi l’indispensabile stabile criterio del cambiamento.
E questa forma di fondo è per lei l’idea stessa di essere vivente (l’idea di pianta, di animale e di uomo).
Anche se in una maniera molto più generale ci troviamo qui nel contesto di quell’identificazione di tipo e idea-forma che viene sostenuta anche dalla Conrad-Martius. Quindi ci troviamo di fronte all’affermazione dell’assoluta primarietà della specie (o meglio il tipo) come entità statica originaria, invece che mero prodotto del cambiamento.
La Stein aggiunge però un ulteriore elemento a tale serie di affermazioni, e cioè la natura di Totalità originaria che ha questa forma di base. E tale Totalità è dunque una collettività di individui che è originaria e tale rimane. Eccoci dunque di fronte alla specie così come viene intesa dalla pensatrice. Ma data la sua staticità (originaria e successiva) a suo avviso è perfettamente pensabile che la creazione ponga in essere effettivamente la specie prima ancora che gli individui. A questo punto allora anche la specie stessa (così come l’individuo) ha una sua unicità latente fin dall’inizio, e questa per la Stein corrisponde all’entelechia. Ecco allora che a suo avviso la somiglianza entro la stessa specie contraddice solo apparentemente l’unicità.
Giunta a questo punto la pensatrice fa comunque un deciso passo in avanti (in termini esplicitamente metafisico-teologici), e parla quindi di una “creazione originaria” (Urschöpfung) generante una Totalità generale in forza del fatto del suo essere il “modello” (Urbild) posto entro lo stesso “spirito divino” (im göttlichem Geist), mentre invece le forme specifiche ne sono appena le “copie” (Abbilder). Detto questo risulta chiaro che creazione divina di entità collettive (gruppi di individui), in luogo di singolarità, non comporta affatto la così tanto deplorata creazione diretta della molteplicità di esseri che noi attualmente osserviamo. Né esclude un divenire che si diparta da questo momento originario fino all’attualità. Però esclude direttamente l’insorgenza della molteplicità degli esseri sulla sola e semplice base del divenire evolutivo, e quindi il passaggio da un supposto progenitore unico fino all’attuale molteplicità delle specie.
Ma al di sotto di tutto questo discorso vi è anche l’affermazione secondo la quale, comunque stiano le cose, in assenza di un atto creativo originario (che poi si ripercuote come un’onda successivamente) non può verificarsi alcuna insorgenza di esseri viventi. Con ciò la Stein vuole dire che sola dottrina della progressiva (e non originaria) venuta ad esistenza degli esseri mediante la generazione di successive specie (cioè la teoria dell’evoluzione) non spiega assolutamente nulla.
Scendendo ancora più in dettaglio, ciò appare essere vero per due ordini di motivi. È vero perché, così come l’assenza di un atto creativo non spiega l’insorgenza originaria, essa non spiega nemmeno il successivo insorgere di novità, e cioè quel trapasso da una specie all’altra dalla quale la teoria evoluzionistica si aspetta invece tutto. Ed è vero anche perché, in assenza di un atto creativo originario, la specie cessa di essere una Totalità originaria – la quale è collettività di individui entro la quale vi è una costante somiglianza senza che intanto venga a mancare quell’unicità che altro non è se non la Totalità come forma originaria − che poi fa da fondamento al passaggio da una specie all’altra, ossia all’insorgenza della novità.
Una volta chiarito questo emerge nella riflessione steiniana in maniera ben più chiara di prima la differenza radicale che esiste tra creazione e generazione procreativa. E ciò perché proprio quest’ultima non appare davvero in grado di spiegare la novità come trapasso da un’individualità all’altra. Tuttavia la Stein analizza a tale proposito due paradigmi ancora più fondamentali, e cioè quello della discontinuità e quello della continuità; laddove attribuisce al primo il più forte rischio di non riuscire a spiegare la novità. Ma ella non fa solo questo, bensì si spinge fino a sottomettere a tale dicotomia (tra discontinuo e continuo) non solo la generazione procreativa ma anche lo stesso concetto di creazione. Ella distingue infatti la creazione una tantum (in sé discontinua) dalla creazione invece continua; riconoscendo poi nella prima la tradizionale e popolare dottrina della creazione dell’individuo fuori della specie (ossia come entità destinata a non evolvere) e nella seconda la dottrina della creazione dell’individuo entro la specie (ossia come entità destinata ad evolvere per giungere alla sua pienezza). Orbene, in via di principio quest’ultima si sposa benissimo con la teoria evoluzionistica.
Ma sta di fatto che la Stein la intende in maniera ben più radicale (perché metafisico-teologica), ossia in radicale opposizione con il paradigma discontinuo che (nonostante le apparenze) di fatto a sua volta si presenta entro la generazione procreativa da individuo a individuo. E, per mezzo della Conrad-Martius, sappiamo bene che quest’ultima viene prevista nella teoria evoluzionistica addirittura più classica, e cioè quella di Darwin. La nostra pensatrice sembra quindi attribuire solo alla creazione continua (e cioè la creazione dell’individuo entro la specie, ossia la creazione che mette capo all’evoluzione) la capacità almeno potenziale di poter spiegare l’insorgenza della novità. E ciò per l’ovvio motivo che solo per questa via si delinea un divenire evolutivo che invece manca completamente nel contesto della creazione una tantum. Tuttavia per lei le cose cambiano sensibilmente qualora la creazione continua venga intesa in modo meramente riduzionistico, e cioè appena come la generazione procreativa che avviene nel trapasso da individuo a individuo. Il che avviene allorquando il paradigma della continuità viene spogliato della sua dimensione creativa, e preso in considerazione appena in maniera fattuale. In questo caso, infatti, finisce per emergere di nuovo la discontinuità. Questo significa allora che il paradigma continuo (a sua volta assimilabile alla generazione procreativa qualora questa non scada a discontinuità) è in grado di spiegare l’insorgenza della novità (nel contesto della stessa evoluzione) soltanto quando esso viene appaiato al paradigma creativo. Altrimenti non descrive altro che il banalmente naturale fenomeno della generazione procreativa (di fatto la riproduzione sessuale), la quale avviene non tra specie ma invece solo tra individui. Ed è pertanto fatalmente discontino. Ma ciò accade perché (almeno in via di principio) in quest’ultima insorge appena una copia del progenitore e non invece un’autentica novità. Ed allora la constatazione generale (che viene alla fine di tutto questo discorso) è che la novità insorge solo allorquando si può effettivamente parlare del nuovo individuo come una radicalmente nuova possibilità di formazione, ossia come un radicale nuovo inizio.
Si tratta di ciò che dice anche la Conrad-Martius quanto parla del nuovo tipo come radicalmente nuovo “centro di formazione”.
Ma perché ciò sia possibile è necessario che, al di sotto ed attraverso questa fenomenologia, scorra il letto fluviale impetuoso di una continua forza di formazione che può essere solo quella creativa. Ed allora, sia che si parli di specie sia che si parli di individuo, si avrà l’autentica possibilità di una novità.
Tuttavia, parlando in termini più esplicitamente metafisici, siamo così di nuovo di fronte al fenomeno della formazione in quanto fondamentale “formazione della materia” (Formung der Materie). Dunque, se non chiamiamo in causa quest’ultima, sia che parliamo di specie che di individui, avremo davanti a noi null’altro che una mera generazione procreativa.
Una volta detto questo, comunque, la Stein riconferma di credere pienamente nel paradigma della generazione entro la specie (a sua volta equivalente appunto al paradigma della creazione continua). Infatti dice chiaramente che Dio ha creato l’”umanità” (Menscheit) e non l’uomo. Va detto però anche che con ciò ella si riferisce al concetto altamente metafisico-teologico dell’Uomo prototipico, ossia l’uomo come “Adam”, e cioè null’altro che lo stesso Logos divino in forma di Figlio.
Non stupisce che, una volta ammesse (almeno in una certa misura e comunque entro un discorso molto sofisticatamente metafisico) la creazione dell’individuo entro la specie ed inoltre la stessa necessità di una certa fenomenologia evolutiva, la Stein non si sottragga nemmeno all’ammissione anche del condizionamento ambientale-materiale del processo di individuazione. Si tratta in qualche modo dell’ammissione di quell’adattamento ambientale che è uno dei punti capitali della dottrina evoluzionistica darwiniana. E si tratta anche dell’ammissione di un certo condizionamento esteriore e materiale (ossia pienamente naturalistico) del quel processo che secondo lei procede verso un obiettivo altissimo, ossia la genesi dell’unicità individuale. Infine si tratta anche dell’ammissione di quella molteplice varietà naturale degli esseri (nel senso di insorgenza di esemplari diversi di una specie) che a prima vista sembrerebbe contraddire l’unicità in quanto essa rende indifferente la differenza, e quindi trasforma quest’ultima in un’eguaglianza di fondo entro la specie. Tutto ciò è però per lei ammissibile, solo nella misura in cui non si giunga a pensare che è soltanto per queste vie naturalistiche, materialistiche e puramente quantitative che si giunga alla piena individualità. Certamente, infatti, bisogna ammettere che la materia esercita un certo condizionamento, in quanto essa impone il completamento graduale del lavoro inizialmente svolto con la creazione, ossia con la messa in essere dell’essere vivente. Ma intanto bisogna continuare a tenere presente che l’individuo unico è un’entità in primo luogo qualitativa, e quindi solo una formazione qualitativa può davvero condurre ad esso. Ecco che allora bisogna (sul piano ontologico) scindere nettamente tra la ben determinata unicità dell’individuo e quella differenziazione dinamica delle specie (sotto l’effetto delle circostanze ambientali e materiali) che è un aspetto solo molto secondario dell’individuazione. In altre parole bisogna riconoscere ancora una volta che tra “individuo” e “specie” vi è una grandissima differenza ontologica.
Il più deciso attacco della Stein alla teoria evoluzionistica avviene comunque allorquando il suo discorso appare coincidere con quello conradiano per due fondamentali aspetti. Il primo aspetto è la constatazione che, se vi è una fenomenologia evolutiva da forme primitive a forme avanzate, ciò è dovuto al fatto che il risultato finale di ciò è un ordine gerarchicamente stratificato nel quale le forme basse compaiono come base delle forme alte. Ed è chiaro che solo tra le prime può venire ritrovato un individuo unico, ossia l’uomo. Il secondo aspetto è la constatazione che il verificarsi effettivo della novità esige una trasformazione della forma interiore e non di quella esteriore. Con ciò ne va infatti dell’insorgere non tanto di una mera forma (tra le tante) ma invece di “un nuovo principio di forma” (ein neues Buildungsprinzip). Pertanto nemmeno le modifiche del materiale genetico (ossia la prima branca della teoria evoluzionistica) – che a prima vista sembrano rinviare proprio a questo – riescono a spiegare la novità. Perché il materiale genetico non è affatto davvero principialmente formante. Esso infatti è materia formata e non materia formante.
A fronte di questo risulta allora ben più chiaro perché una fenomenologia così incondizionabile (com’è quella che si muove lungo la linea dell’insorgenza di nuovi principi formanti) non possa in alcun modo venire condizionata da fattori esteriori (come avviene nella teoria della selezione naturale). E a questo proposito ritorniamo di nuovo alla distinzione ontologica operata dalla Stein tra “individuo” e “specie”. Infatti, in base a tutto ciò che abbiamo detto, l’insorgenza di un individuo appare rappresentate una novità su una scala troppo esponenziale per poter davvero coincidere con l’insorgenza di una specie.
Naturalmente la Stein a questo punto si sente obbligata a fornirci una definizione di ciò che ella intende per “specie”. Qui, nel complesso, la pensatrice sembra voler dire che l’unica definizione piena di specie è quella che è assimilabile alla definizione di individuo davvero unico. Ciò esige però tale definizione sia assolutamente interioristica e qualitativa, invece che esterioristica e quantitativa. Se le cose non stanno così, allora bisogna giocoforza definire la specie come qualcosa di radicalmente diverso dall’individuo (secondo quanto abbiamo del resto finora visto). Ebbene la definizione interioristica e qualitativa della specie ricorre solo allorquando essa viene ritenuta equivalente ad una “forma interna” (innere Form) fin dall’origine pre-determinata ed intangibile nel suo procedere verso sé stessa nella sua pienezza, ossia verso l’individualità unica come forma per sé stesso. Per tale motivo non è assolutamente possibile pensare (come fece invece Darwin) che si possano ottenere delle vere specie per mezzo di modifiche artificiose dell’essere vivente che si ha a disposizione, ovvero gli incroci condotti negli allevamenti. In questi casi infatti la forma esteriore o tipo (che sembrerà suggerirci di stare al cospetto di una vera specie) differirà sempre da quella interiore. Queste modifiche non appartengono dunque ad altro se non a quell’ambito di circostanze esteriori per le quali l’evoluzione individuale deve effettivamente passare. Ma senza che ciò modifichi alcunché in quella “forma originaria” (Urform) che attende di venire realizzata solo per mezzo di una “differenza finale”, ossia la finale specificazione. Tale forma originaria, quindi, non è altro che la potenza che attende la sua piena attualizzazione. Ma quest’ultima dev’essere essa stessa radicalmente specifica. Ecco allora che il termine “specie” assume la sua vera pienezza ed appropriatezza proprio quando rinvia all’effettiva specificità (qualitativa), ossia all’unicità. Altrimenti esso indica appena qualcosa di esteriore e appunto quantitativo.
È da qui che la Stein perviene a quelle sue estreme conclusioni che abbiamo già discusso.

Successivamente poi il discorso da lei condotto abbandona il tema dell’evoluzione per spostarsi su quello della definizione dell’anima spirituale che è tipica dell’individuo unico, ossia è solo umana. Ma anche qui è essenziale per lei la comparazione tra uomo, animale e pianta, e quindi la valutazione ontologica differenziale dei diversi regni della Natura. Ovviamente ella non avrebbe potuto raggiungere il suo risultato di riflessione se non avesse sgomberato il campo dal principale equivoco causato dalla teoria evoluzionistica, e cioè quello rappresentato dalla supposta mancata differenza di fatto che vi è tra gli esseri distribuiti nei vari regni della Natura. E così (VII, IV p. 130-133) ella potrà finalmente affermare, se vi è un’evoluzione essa è senz’altro verticale e non invece orizzontale, cioè procede dal basso verso l’alto.
E − siccome (come abbiamo visto finora solo per mezzo di accenni) l’uomo come individuo unico ed insieme entità collettiva o specie (cioè umanità), e quindi come persona davvero nella sua pienezza – corrisponde di fatto all’Uomo prototipico universale, è chiaro che questo risultato evolutivo viene raggiunto solo nel supremo Alto, e cioè nel Logos cristico come Uomo-Figlio. Pertanto, se noi vogliamo correttamente concepire l’evoluzione, dobbiamo farlo non più sul piano scientifico-empirico, naturalistico, esteriore ed eticamente indifferente, ma invece sul piano metafisico-teologico, interiore, sovrannaturalistico e eticamente rilevante. Si tratta insomma dell’atto della nostra ascesa a Dio. Del resto non raggiugeremo mai la dimensione di persona se non compiremo questa ascesa nella quale riconosciamo noi stessi e il prossimo come persone in quanto esseri generati da Dio quali creature assolutamente uniche, e quindi Suoi figli.
È in tal modo, quindi, che l’indagine steiniana, pur essendo molto più ristretta di quella conradiana, in realtà è molto più profonda e densa nei suoi significati religiosi ed etici.

II.2 – La Totalità organizzata
Alla postulazione della Totalità organizzata come forma vivente di massimo livello (III, II p. 38-44), la Stein perviene approfondendo ulteriormente l’indagine sull’uomo, e precisamente interrogandosi su tutti gli aspetti inferiori che lo caratterizzano, cioè quelli inerenti la corporalità materiale ed animale. E questo occupa una serie di capitoli del suo libro (II, III p, 29-32; III, I p. 33-37).
Inizialmente (II, III p. 29-32) ella si chiede come possiamo intendere la relazione esistente tra l’uomo come essere animico-spirituale e vivente e l’uomo come mera entità materiale. E qui ella riprende sostanzialmente gli argomenti molto tempo prima sviluppati a proposito dell’”empatia”; nel chiarire che noi uomini cogliamo l’altro non per via esteriore ma invece per via interiore, e ciò avviene anche nel caso della corporalità materiale altrui (non solo nel caso della vita psichica). Noi insomma cogliamo l’altro a partire dalla conoscenza di noi stessi che abbiamo, specie nell’essere consapevoli interiormente di tutto ciò che fa di noi dei viventi unicamente in forza della nostra essenza di persona unica e quindi di spirito. In altre parole noi uomini siamo dei viventi in modo non solo estremamente speciale ma anche determinato dalla nostra natura interiore, e non dalla vita esteriore. Conseguentemente tutto ciò che in noi è vivente proviene da dentro. E quindi non è un caso che gli aspetti più concreti suggeritici dall’auto-osservazione siano per Stein la nostra autonoma capacità di movimento («auto-movimento») ed inoltre la sensibilità specialmente dolorosa che caratterizza l’integrità del nostro corpo materiale. Laddove quest’ultima ci rinvia sempre a noi stessi (alla nostra soggettività) come criterio fondamentale – infatti il dolore è insopportabile ed inaccettabile soprattutto perché è il «mio» dolore.
E già qui noi possiamo intuire la totalità organizzata che caratterizza l’uomo in quanto specifico vivente, ossia vivente in quanto essere animico-spirituale e come tale persona assolutamente unica. Infatti la dimensione del «mio» rinvia direttamente a quest’ultima.
In particolare noi avvertiamo chiaramente come la nostra facoltà di movimento stia in stretta connessione con l’animicità vivificatrice propria del nostro essere, a sua volta del tutto opposta alla staticità della morta cosa. Ecco perché, come dice qui Stein, suscita in noi uno spontaneo orrore e raccapriccio il pensare ad un pezzo di morta materia che sia capace di muoversi autonomamente. Ma questo pezzo di morta materia altro non è se non l’esatto contrario di una Totalità organizzata, e cioè una congerie di unità materiali disconnesse tra loro e quindi non connesse da una realtà unificante com’è l’anima.
Inoltre noi avvertiamo chiaramente come la nostra sensibilità corporea sia innanzitutto legata al dolore in quanto quest’ultimo insorge quando una parte della nostra totalità viene scissa dall’insieme. Ed anche qui proviamo uno spontaneo orrore e raccapriccio per questo, in quanto abbiamo l’impressione che qualcosa venga «strappato via» violentemente, invece di semplicemente staccarsi dall’insieme in maniera naturale e neutrale. Si tratta insomma di un altro aspetto del vissuto del dolore come «mio» − noi avvertiamo la nostra Totalità organizzata come la stessa unicità ed unità personalistica dei nostri vissuti.
Insomma ciò che noi avvertiamo in tutte queste esperienze è quell’”unicità personale” (individuelle Eigenart) che va di pari passo con la natura animico-spirituale e vivente della nostra individualità.
E tutto ciò avviene su un piano in cui sono decisive la dimensione sentimentale delle esperienze (ben superiore alla mera percezione) ed anche la loro dimensione comunitaria. Noi insomma cogliamo il corpo dell’altro come qualcosa che ci riguarda sempre intimamente (entro una relazione intima in cui insorge del tutto naturalmente la compassione). E quindi ancora una volta domina qui una conoscenza dell’altro che si basa sull’interiorità nel trascendere invece quasi totalmente l’esteriorità.
Ma comunque, aldilà anche della Totalità organizzata, è evidente che tutto questo ci mostra nuovamente come sia estremamente riduttivo considerare l’animalità umana il prodotto di un’evoluzione che ci costituisca ponendo alla nostra base l’animalità stessa come qualcosa di fondamentale e condizionante.
Cosa per la quale, come abbiamo visto in Conrad-Martius, entro la teoria evoluzionistica l’idea di uomo si riduce non solo a quella elementare di un animale, ma addirittura di un protozoo evoluto.
Invece, in tutto ciò che abbiamo visto, la definizione della realtà umana decisamente sorpassata e surclassata, se non annulla, la dimensione dell’animalità.
E la Stein sottolinea molto opportunamente che ciò risulta evidente in quella vera e propria esperienza che scaturisce dalla nostra attitudine allo sguardo intellettuale-spirituale rivolto verso noi stessi. Pertanto il superamento dell’animalità non è affatto una fumosa astrazione metafisica. Lo è invece semmai proprio il predominio dell’animalità entro la realtà umana che viene supposto dalla teoria evoluzionistica. Dunque, ancora una volta, la Stein sottolinea che quest’ultima ha tutti i caratteri di una teoria che non si basa affatto sull’esperienza, e quindi è di fatto solo astratta.
Una volta chiarito questo ella aggiunge un altro tassello all’introduzione del discorso sulla Totalità organizzata e cioè la specifica definizione di “organismo” (III, I p. 33-37).
In via di principio quest’ultimo corrisponde esattamente alla materialità e naturalità corporea in quanto base della realtà umana e quindi anche elemento che la ricollega gli strati inferiori dell’essere mondano.
Sta di fatto però che secondo la pensatrice anche la “corporalità pura” (presupposta dalla scienza empirica come fondamento di ogni cosa, bassa o alta che sia) non è altro che una teoria astratta. Proprio la realtà umana sta infatti a dimostrare che la corporalità è in verità determinata da dentro (interiormente), e precisamente in forza di un’essenza ossia la natura animico-spirituale dell’uomo. E ciò trascende in tal modo l’elemento centrale della dottrina della corporalità pura come fondamento universale, ossia la composizione elementare e basica dei corpi materiali, ovvero la loro costituzione per mezzo di sostanze pure, cioè gli elementi chimici. Con ciò si tratta ovviamente di una realtà in cui prevale molto più la disintegrazione che non l’integrazione, anzi la prima diviene addirittura decisiva in senso costitutivo.
Ecco allora che di nuovo si lascia da noi intravvedere la Totalità organizzata. Infatti la realtà umana inizia solo apparentemente dal basso, ossia a partire da questa composizione elementare. La verità è invece che semmai essa inizia solo allorquando tale dimensione (in sé disintegrata) sia stata superata e trascesa nell’integrazione (lungo il percorso ascendente dell’evoluzione). Ma allora è proprio quest’ultima (e non invece la composizione elementare) ciò che per davvero caratterizza essenzialmente ciò che è “organismo”.
In altre parole la dimensione dell’organismo si presenta nella sua più autentica essenza solo al culmine del processo evolutivo, ossia nell’uomo. È allora per questo che uomo e “organismo” sono ontologicamente una sola cosa.
Ed eccoci allora finalmente in presenza della Totalità organizzata in quanto realtà davvero suprema nel contesto dei gradi dell’essere mondano (III, II, p. 38-44). Ed è esattamente a questo punto che la Stein inizia a parlare dell’uomo come “organismo vivente” (lebendiger Organismus). Ed il perché di ciò l’abbiamo appena menzionato – l’essenza dell’uomo implica inevitabilmente anche la realtà dell’organismo vivente.
E qui immediatamente riemerge l’intera problematica del divenire evolutivo. Perché la nostra pensatrice chiarisce subito che la Totalità organismica viene determinata da dentro, e precisamente secondo il principio del «dentro-verso-fuori». Non si tratta quindi di altro se non della formazione animica. Ma ciò sottolinea nuovamente che l’elemento critico della fenomenologia evoluzionistica (e nello stesso tempo evolutiva, a livello individuale) è proprio l’esistere di un principio interno di formazione. Non a caso esso riesce a dare corpo a quella Totalità organizzata umana che è il risultato più alto dell’evoluzione.
Pertanto, sia che noi parliamo dell’evoluzione delle forme viventi sia che noi parliamo dello sviluppo individuale, tutto in realtà accade solo grazie all’azione di un principio interno di formazione. E nulla invece accade grazie all’azione delle circostanze ambientali o esteriori.
Ebbene in termini più concreti si delinea qui per Stein una “forma interna” (innere Form) che è senz’altro l’anima vegetativa, ma ancora più ampiamente è la Vita stessa nel suo ruolo formante. E tale complessiva formazione si muove per definizione verso un ben preciso “telos”, o scopo (in linea con la dottrina aristotelico-tomistica dell’”entelechia”, cioè della causalità finale determinante). Questo scopo specifico è comunque la stessa Totalità organizzata in quanto organismo articolato in membra (Glied), ognuna delle quali ha uno specifico compito entro un ordine armonico che deriva dalla costante integrazione di parti ed azioni. Devo ricordare al proposito che ciò ci riporta necessariamente ad una dottrina in cui Platone ha fatto da precursore e maestro specie nella Repubblica, nel Timeo e nelle Leggi. Per lui infatti la stessa società non è altro che un organismo politico che ricalca l’organismo animico-corporeo umano. E devo ricordare anche che Stein aveva espresso un’idea molto simile nella parte finale di Psicologia e scienze dello spirito, ed anche nella sua indagine sullo Stato [Eine Untersuchung über den Staat]
Vi è inoltre per Stein una certa restrizione naturale dei risultati raggiungibili in ragione della natura sempre già formata della materia (fin dall’inizio) con conseguenti circostanze limitanti. Ma questo senz’altro accentua la specificità del risultato finale in base ad una determinazione iniziale ben precisa.
In ogni caso la dinamica integrativa propria della Totalità organizzata si caratterizza per alcuni aspetti specifici i quali evidenziano nuovamente l’agire in essa di un’istanza formante interna. Secondo la Stein si tratta del movimento per mezzo del quale le parti interagiscono ed inoltre dell’attività di generazione, ossia la procreazione di nuovi organismi. Ed in particolare l’internità dell’istanza determinante si manifesta nuovamente nell’autonomia del movimento («auto-movimento»), le cui espressioni sono le seguenti: −
1) l’“auto-sostegno”, ossia capacità autonoma di sostenersi (“sich selbst hält”), cioè di fatto la verticalità della postura; 2) l’”auto-spostamento”, ossia la capacità autonoma di movimento nello spazio nel senso del riuscire ad auto-trasportarsi (“sich selbst trägt”) 2) l’”auto-movimento”, ossia la letterale capacità autonoma di muoversi, cioè il muoversi in forza dalla sola propria decisione (volontà) e relativa capacità (“sich selbst bewegt”). In termini fisiologici questo trova espressione nell’esistenza e funzione di centri nervosi interni che comandano e regolano il movimento.
Una volta definito tutto ciò, la Stein si accorge immediatamente che una realtà così alta quale prodotto dell’intera dinamica evoluzionistica non può in alcun modo essere giustificata dalla dottrina tomista dell’”unità della forma sostanziale”. La quale suppone nell’animicità (diffusa, universale e generica) il substrato comune all’intero sviluppo verticale che unisce i tre regni della Natura (pianta, animale e uomo). Infatti, proprio evidenziando le caratteristiche essenziali dell’organismo umano (quale Totalità organizzata) emerge immediatamente che esso rappresenta non solo una radicale novità evoluzionistica (ossia qualcosa completamente diverso da ciò che c’era prima), ma anche qualcosa di simile ad un paradigma operante costantemente dall’alto. Era questo dunque il senso più profondo del “telos”. Si tratta insomma di qualcosa che riassume in sé − portandolo a compimento ultimo e quindi a ultima differenziazione − tutto ciò che c’era prima ed in basso (in maniera ancora indifferenziata). Ecco che per lei l’uomo (quale momento ultimo di un’evoluzione di tipo verticale-ascendente) si presenta come la realtà in cui tutto viene ricapitolato.
E ciò porta la Stein necessariamente ad equiparare di nuovo l’uomo al Logos cristico in quanto Uomo prototipico, ossia paradigma universale di creazione. E questo è l’”Adam”. Proprio quest’ultimo è infatti l’uomo in quanto unità di tutte le cose e conseguentemente anche principio direttivo-formante (eternamente esistente ed operante) per l’insorgere e svilupparsi di qualunque entità cosmico-naturale: − “Essere uomo significa in forza di ciò: essere allo stesso tempo cosa, pianta, animale e spirito, ma tutto questo in maniera unitaria” (“Mensch sein heißt danach : zugleich materielles Ding, Pflanze, Tier und Geist sein, die alles aber in einheitlicher Weise”).
In altre parole il principio formativo dell’intero essere (e dell’universo) è il Logos in quanto paradigma nella forma di Uomo prototipico.
Ora, nel menzionare il Cristo come “Adam” la Stein si rifà senz’altro alla teologia cristiana (specie quella paolina). Tuttavia io ritengo che ciò rappresenti in lei anche l’effetto di una dottrina (quella dell’”Adam Kadmon”) che è stata esposta in maniera ben più ricca, completa, profonda ed articolata entro la Cabbala ebraica (specie quella lurianica). E qui forse proprio Paolo ha rappresentato un elemento di raccordo. Inoltre lo stesso elemento si ritrova anche nel pensatore ebraico Filone Alessandrino e nella Patristica greca con Gregorio di Nissa (“Macroanthropos”). Tuttavia, comunque, bisogna considerare anche l’effetto della formazione religiosa della Stein entro la cultura ebraica (come del resto testimoniato dalla presenza di Filone in tale contesto). Questo è quanto ho sostenuto in un mio articolo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95
< https//repositorio.ul.pt/bitstream/14051/40557/1/VincenzoNuzzo_Philosophica_51.pdf (ul.pt)>].

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