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Quello che ho detto del tempo nella diciottesima lezione vale più o meno anche per lo spazio.
Anche lo spazio è infatti una continuità, e pertanto il concetto di «sostanza» si presta bene a raffigurarlo (insieme al connesso concetto di «causalità»). C’è tuttavia una rilevante differenza tra le due dimensioni ontologiche. Ed essa consiste nella differenza esistente tra dinamismo e stasi – infatti l’essenza del tempo è il dinamismo, mentre l’essenza dello spazio è la stasi.
Ho concluso la precedente lezione dicendo che in verità l’essere va considerato dinamico, e quindi non posso qui contraddirmi affermando l’esatto contrario. Su questo aspetto potrò però essere più chiaro solo alla fine di questa lezione. In realtà ho però anche detto che l’essere non è né dinamico né statico, ma è semmai invece un insieme inestricabile di queste due dimensioni. E così posso ora aggiungere che l’essere dinamico alla fine sfocia sempre nell’essere statico nel momento in cui configura una Totalità. Quest’ultima può essere di certo una totalità infinita ma non per questo cessa di essere ciò che è, ossia una incommensurabile Unità. E come tale è inevitabilmente statica, ossia è e resta uguale a sé stessa. Il che avviene poi inevitabilmente nel tempo, ossia avviene perennemente. Quindi la Totalità quale Unità «è e resta perennemente identica a sé stessa», cioè resta identica a sé stessa sia spazialmente sia anche temporalmente. Come ho detto poc’anzi, alla fine di questa lezione potremo giungere alle definitive conclusioni circa questo aspetto.

Ci troviamo comunque in tal modo davanti alla stessa distinzione che abbiamo riscontrato per il tempo – vi è insomma uno spazio immanente ed uno spazio trascendente. Lo spazio immanente corrisponde all’effettiva estensione (che noi cogliamo molto distintamente per mezzo dei sensi), mentre lo spazio trascendente corrisponde ad una solo apparente estensione.
L’estensione spaziale effettiva è dunque quella che è caratterizzata dalla consecuzione (o sequenza) di luoghi in quanto punti, ed essa è talmente serrata da suggerirci sempre l’immagine di una linea. La linea è insomma una somma di punti, o anche luoghi. E su questo poi la filosofia ha iniziato a riflettere molto precisamente già da Aristotele in poi. Infatti nelle “Categorie” egli fa un’analisi molto precisa ed esaustiva della linearità spaziale. Ma non mi soffermo su questo perché dovrei entrare molto in dettaglio.
L’estensione solo apparente è invece quella che è caratterizzata da una linea (quale insieme di punti) in assenza però di una vera continuità. Infatti ogni suo luogo o punto essa rinvia alla Totalità dell’estensione, ed è quindi essa stessa un Tutto. Tale discorso è molto simile a quello che abbiamo fatto al riguardo della Totalità del tempo trascendente, ossia l’eternità. La differenza sta solo nel fatto che, mentre li si trattava dell’«eternità di un quando», qui invece si tratta dell’«ubiquità di un dove». In altre parole qualunque «dove» dell’estensione trascendente è sempre anche un «dovunque», e quindi configura sempre un «tutto spaziale». Invece qualunque «quando» del tempo trascendente è sempre anche un «sempre», e quindi configura un «tutto temporale».
Inutile dire che, almeno da Kant in poi, questo genere di discorso sullo spazio trascendente (così come sul tempo) è divenuto filosoficamente insostenibile. Kant direbbe che esso non trova alcun riscontro nell’esperienza, quindi è un assurdo logico costruito artificiosamente dalla mente (una “chimera” o “paralogismo logico”), e pertanto è privo di qualunque effettiva realtà. I moderni filosofi analitici e del linguaggio troverebbero inoltre in questo discorso tutta una serie di esiziali cortocircuiti logici che secondo loro hanno piena giustificazione nelle false connessioni tra cose che tende a venire istituita dalla mente soggettuale. E che poi sono prive di qualunque presa nella realtà oggettiva.
Tuttavia – anche se non potrei menzionarne i luoghi specifici – nel pensiero antico lo spazio trascendente veniva considerato esattamente come io l’ho poc’anzi descritto. E prova può esserne il fatto che il discorso tomista sull’Atto puro (vedi lezione diciassettesima) si presta bene a venire extrapolato in questo senso – lo spazio trascendente insorge quando viene abolita la necessaria progressione di essere da potenza ad atto (cioè da possibilità a realtà), e quindi viene abolita la sequenza di luoghi. In questo caso il singolo luogo (potenza) è sempre ontologicamente equivalente alla totale estensione dello spazio (atto); ossia la potenza è sempre già tradotta in atto.
È evidente che con ciò si è sempre descritto lo spazio corrispondente al livello divino di essere – caratterizzato dall’eternità così come anche dall’ubiquità (o omnipresenza). Ed in effetti, se ci riportiamo al concetto gregoriano di “adiastáto”, possiamo constatare che lo spazio eterno è esattamente privo di estensione, e quindi non è assolutamente sequenziale.
Intanto bisogna registrare la davvero fondamentale riflessione cartesiana sullo spazio, che identificò quest’ultimo esattamente come “res extensa”, ossia attribuì ad essa esattamente il carattere essenziale dell’estensione. Per Cartesio insomma lo spazio non è altro che estensione, e quindi è invariabilmente sequenza. Ebbene, questo non è solo lo spazio immanente ma è anche il modello ontologico per qualunque genere di possibile spazio. Per cui non vi è per lui alcun altro spazio; meno che mai uno spazio trascendente. Quest’ultimo può infatti corrispondere al massimo a quella “res cogitans” che è la sostanza della mente, e come tale è un flusso più che non una sequenza.
Kant venne infine a dirci che, se è vero che lo spazio esiste primariamente nella nostra mente (come “a priori”), intanto esso viene però proiettato sulla realtà presentandosi così a noi invariabilmente proprio come una sequenza, e precisamente una sequenza casuale. Pertanto, pur essendo in principio soggettivo, per lui lo spazio oggettivo è comunque lo stesso di Cartesio.
E credo che di più davvero non ci sia da dire sulla classica trattazione filosofica dello spazio. Almeno io personalmente non ho studiato così approfonditamente il tema da poter elencare ulteriori dottrine che lo teorizzino.

A questo punto non mi resta che rifarmi, quindi, agli studi tradizionali che ho già altre volte menzionato nel corso di queste lezioni. I quali a loro volta si rifanno ad una riflessione metafisica che in Occidente è avvenuta soprattutto nel neoplatonismo (specie con Plotino), mentre in Oriente è avvenuta con i Vedanta ed in parte anche con il Buddhismo.
Secondo questa tradizione di pensiero (che potremmo genericamente definire «platonica») lo spazio immanente non esiste affatto almeno quanto non esiste affatto l’essere immanente. Essi sono certamente evidenti ai nostri sensi (tanto che all’uomo comune può sembrare una vera follia negare che esista qualcosa come lo spazio esteso), ma in verità tutto ciò è solo frutto di illusione.
Ebbene per tutto questo mi è sempre sembrata paradigmatica la riflessione condotta su tale aspetto da René Guénon [René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi, Milano 2006, 1-4 p. 19-55]. Egli sostiene in particolare che l’intera fisica moderna ha commesso il grave errore di scambiare la massa elementare con la corporalità elementare – come se, insomma, noi cogliessimo percettivamente ciò che è elementarmente quantitativo (cioè la struttura fondamentale delle cose, o enti) in quanto corpo. È un fatto, del resto, che l’intera fisica moderna (dalla filosofia della Natura rinascimentale in poi) ha descritto tutto il possibile in termini di relazioni tra “corpi”. Guénon sostiene invece che la corporalità è l’esatto contrario di ciò che è fisicamente elementare, e cioè la massa che noi (su sollecitazione della scienza) crediamo di cogliere come dimensione quantitativa basica. Quest’ultima è infatti quanto noi usualmente definiamo come «corpuscoli» (molecole, atomi etc.), che si ritiene poi vadano a costituire le cose del mondo in quanto corpi. Tutto ciò, dice lo studioso, non è altro che il livello più infimo dell’essere, ossia quello che appunto corrisponde alla “materia” bruta e primordiale.
E quest’ultima è “quantità”, in luogo di “qualità”, esattamente perché non è organizzata in alcuna struttura. Dunque essa è solo puro caos, e pertanto non può essere nemmeno intelligibile.
Per questo si tratta di massa e non di corporalità. Quest’ultima è invece organizzata e composta per definizione, e pertanto è perfettamente intelligibile.
È evidente, quindi, che quanto non ha alcuna struttura non può nemmeno in alcun modo costituire la struttura fondante la realtà. Ossia (nella questione che stiamo dibattendo) la struttura fondante la realtà non può essere affatto lo spazio occupato dai corpi che a loro volta stanno tra loro in relazione dinamico-causale. Tutto ciò significa allora che è stata del tutto arbitraria l’assunzione di poter toccare il fondamento delle cose semplicemente portando l’indagine sempre più in basso lungo i livelli di essere. Tutto ciò ha avuto quindi solo il significato di pervenire al supremo «basso». Ma non ha significato affatto pervenire ad una spiegazione ultima.
In altre parole l’accusa di Guénon alla moderna scienza empirica (con al centro la fisica della massa e dei corpi in relazione causale tra loro) è quella di averci condotto a conoscere un mero nulla, ossia di averci portato a non conoscere affatto.
Ecco che allora ciò che ci viene dato come struttura fondamentale della realtà, è in verità una costruzione totalmente artificiosa ed irreale. In tal modo, infatti, dice Guénon, ci viene dato appena di venire a sapere del livello di essere che si trova al di sotto (“infra”) del vero ed autentico livello basilare della realtà, che è appunto caratterizzato dai corpi (in quanto strutture composte e complesse, e non invece elementari).
È in tale contesto che, secondo lo studioso, è nata nella scienza della Natura l’idea dello spazio come estensione fondamentale, ossia contesto nel quale dei corpi elementari starebbero in relazione tra loro costituendo così il tessuto sottilmente quantitativo di qualunque forma di realtà. È evidente che allora, se pure tale spazio può venire concepito, esso non può venire affatto inteso come il fondamento della realtà. E quindi diviene giustificatissimo considerarlo appena un’illusione dei sensi. Esso, infatti, corrisponde perfettamente al luogo più infimo ed oscuro dell’essere in cui regna in verità il più puro caos, e cioè quello corrispondente alla materia bruta. Anzi per Plotino questo è il luogo in cui non regna altro che il male stesso.
Del resto non è affatto difficile provare la veridicità di tutta questa dottrina. Basta infatti che io mi giri intorno nella mia stanza e non vedrò altro che corpi, cioè strutture complesse e composte invece che elementari – tali sono la sedia su cui siedo, il tavolo al quale mi appoggio, e le mura che mi circondano etc. Io non percepisco altro che questo, e quindi addirittura non ho alcuna prova dell’ipotetico spazio invisibile che (come continuità infra-sensibile) connette tutte queste cose. Di certo io intanto «mi oriento nello spazio», cioè identifico delle grandi direttrici che mi fanno sentire al centro di uno spazio ben ordinato.
Ma anche questo non è che un insieme composto e complesso, ossia è un blocco corporale e quindi è una Totalità corporale.
È ovvio però che qualunque moderno scienziato della Natura (ancor più coloro che hanno approfondito la fisica sub-particellare) potrebbe solo sbellicarsi dalle risate di fronte ad una dottrina come questa.
Sta di fatto, comunque, che essa non ha alcuna pretesa di essere una dottrina scientifica, bensì vuole essere solo una dottrina metafisica, e specificamente onto-metafisica. Abbiamo anche visto che peraltro l’argomentazione non è priva di una sua logica ineccepibile.
A questo va aggiunto però che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo iniziò a svilupparsi quella teoria “gestaltica” che diede ragione dell’essere proprio come insieme di Totalità corporali organizzate ed esso stesso alla fine Totalità corporali organizzata [Barry Smith (ed), Foundation of Gestalt Theory, Philosophia Verlag, München Wien 1988]. Ma sta di fatto che questo era stato già perfettamente intuito da Platone nel Timeo.

Che dire allora?
La visione metafisica (specie se orientata «platonicamente») ci permette di non incorrere in una molto probabile illusione nella quale sembra incorrere perfino la scienza empirica più rigorosa e realista. E si noti bene che questa è una metafisica davvero estrema. In essa è infatti del tutto assente perfino quel concetto di sostanza che, da Aristotele in poi, è stato impiegato proprio per giustificare l’idea di una spazialità fondamentale. Infatti nell’argomentazione di Guénon non vi è alcuna traccia di tale concetto. E del resto, altrove nello stesso libro, egli identifica la dimensione qualitativa dell’essere (ossia quella per lui davvero rilevante) con l’”essenza”; laddove invece la dimensione quantitativa viene da lui identificata con la “sostanza”.
Ecco allora che l’onto-metafisica di stampo aristotelico si presenta come un vero e proprio materialismo a fronte di quella platonica. E sembra quindi che proprio da tale materialismo (che esso sia scientifico o addirittura metafisico) si debba fuggire per non cadere in una delle più robuste illusioni che caratterizzano la nostra esistenza, cioè quella di vivere restando costantemente immersi in uno spazio. Del resto va al proposito anche osservato che sia il concetto di «spazio» che quello di «mondo» sono sostanzialmente metafisici e non scientifici. Nessuno di noi infatti si imbatte, nel corso dell’esperienza sensibile, in un oggetto riconoscibile come spazio o mondo. E ciò rende le cose davvero paradossali.

Bene! Allora quale lezione possiamo trarre da tutto questo, sintetizzando la questione a vantaggio dell’uomo comune? Se lo spazio (immanente) è in verità solo un’illusione, quale ricaduta può avere questa consapevolezza nella nostra esistenza quotidiana?
Io direi che la principale ricaduta è quella che ho evidenziato anche alla fine della lezione sul tempo. Infatti l’assenza di un fattuale «dove» corrisponde abbastanza bene all’assenza di un fattuale «quando».
E pertanto, quando io soggiorno in un luogo (avendo così davanti a me la prospettiva di dovermi penosamente ed interminabilmente trascinare da questo luogo ad altri luoghi successivi) in verità non sono affatto davvero lì, ma sono invece in qualunque possibile luogo dell’infinità corrispondente allo spazio trascendente. Ecco allora che la dimensione dell’eternità (corrispondente al tempo trascendente) equivale alla dimensione dell’infinito (corrispondente allo spazio trascendente).

In verità non è affatto difficile rappresentarsi questa costante relazione esistente tra lo spazio immanente e quello trascendente. Anzi essa ha perfino una sua stringente logicità di tipo simbolico-geometrico.
Tale logicità consiste in due fatti appaiati e interconnessi tra loro. Il fatto che lo spazio immanente è una Totalità unitaria solo potenziale, cioè per davvero molteplice, e quindi per davvero essa consiste in una sequenza di punti-luoghi (i molteplici «dove»); e il fatto che lo spazio trascendente è invece una Totalità unitaria pienamente attuale, cioè per davvero unitaria, e quindi per davvero essa consiste in un solo punto (che a sua volta in maniera sublime corrisponde ad una linea priva di estensione sequenziale). Ecco che la Totalità unitaria potenziale è l’effettiva spazialità intesa come sequenza, mentre la Totalità unitaria attuale è la super-spazialità infinita.
Un diagramma può servire a comprendere meglio questa relazione. Esso consiste in definitiva in un semplicissimo triangolo la cui base poggia sulla linea dello spazio immanente mentre il suo vertice tocca un punto della linea dello spazio trascendente. Possiamo facilmente constatare come un solo punto dello spazio trascendente (quello toccato dal vertice del triangolo) abbraccia in sé un intero segmento della linea dello spazio immanente (corrispondente alla base del triangolo). E così possiamo dire che i due punti (apparentemente) separati da questo segmento sono in verità uniti nel punto trascendente. Tutto questo può del resto valere anche per la relazione tra tempo immanente e tempo trascendente. Per cui ciò che vale per l’infinito vale anche per l’eternità. Pertanto, così come l’intero tempo di un’esistenza (o anche di un mondo) può essere ricompreso in un solo punto dell’eternità, allo stesso tempo l’intero spazio di un’esistenza (o anche di un mondo) può venire ricompreso in un solo punto dell’infinito.
Bisogna far notare che questa serie di immagini teoriche non è altro che la conseguenza della dottrina filosofico-metafisica (prevalentemente platonica) secondo la quale l’Uno (cioè il Punto supremo, o anche Principio) contiene in sé totalmente la molteplicità immanente.

Ebbene, tutto ciò ha una conseguenza estremamente importante dal punto di vista metafisico-religioso, che è stata analizzata in maniera profondissima da Edith Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006]. Uno degli aspetti della località rigorosamente determinata è infatti quello della nostra finitezza di enti umani. Noi, insomma, sentiamo di non avere il diritto di considerarci anche appena un po’ più grandi di quel punto infinitesimo ed insignificante che effettivamente siamo nell’universo. In verità, però, noi siamo dei finiti in costante relazione con l’Infinito. E quindi siamo potenzialmente degli enti infiniti.
Dunque, così come noi viviamo nell’eternità ogni attimo della nostra esistenza, allo stesso modo viviamo nell’infinito non solo in ogni luogo in cui ci intratteniamo ma addirittura anche nel luogo che più ci intrappola nello spazio immanente (quello caratterizzato da un limite insuperabile), e cioè il «noi stessi» in quanto individui corporali (dotati di un’identità che in primo luogo è differenziazione, cioè netta separazione da tutto ciò che non siamo). Ma in verità noi viviamo ben oltre questi limiti. E ciò ci viene attestato proprio da Edith Stein nel sottolineare un aspetto dell’ente umano che ha una sua precisa validità filosofica oltre che metafisico-religiosa – l’uomo in quanto spirito (o più precisamente anima spirituale), e quindi Io spirituale, trascende sé stesso quale corpo proprio non essendo in alcun modo sottomesso al vincolo della localizzazione [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, II, IIB, 6 p. 191-193, II, III, 4-5 p. 226-229 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 5, 3 p. 115-116, II, Intr. II, 1, 1 p. 157-163, II, 2, 3 p. 240-255; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 22-23 p. 321-344; Edith Stein, Endliches …. cit., VII, 2-4 p. 307-323, VII, 9, 8 p. 385-387]. La spiritualità umana differisce da quella vegetale esattamente per questo motivo. E quindi essa è nella sua essenza perfettamente equivalente al senso più ardito che ha la parola “spirito”, e cioè quella di “Pneuma” o “Ruah”, cioè “alito” (Hauch), soffio che «va dove vuole». Per la pensatrice, infatti, la nostra vita intellettuale è spirituale proprio per questo; in quanto essa, per definizione, si muove in ogni direzione dello spazio e del tempo senza alcuna limitazione. E questo è poi anche uno degli aspetti sviluppati da Agostino (vedi diciottesima lezione) nel sottolineare la facoltà della memoria di cui dispone l’anima conoscente – essa è vissuto quotidiano e costante dell’eternità.
In termini filosofico-gnoseologici ed anche in termini neuro-fisiologici si tratta del fenomeno della “ripresentazione”. Il quale poi ci riporta a quanto abbiamo visto a proposito del saggio di Ricoeur dedicato alla memoria (vedi ottava lezione).
Ebbene il divenire consapevoli di tutto ciò può essere per ognuno di noi ben più che un’astratta e cervellotica consolazione. Può essere infatti consapevolezza della speciale natura ontologica dell’intellettualità che ci contraddistingue come enti umani, e cioè consapevolezza della natura spirituale di tale status. E ciò significa in primo luogo trascendenza del mondo in quanto sconfinata libertà.
Ma, in termini più specificamente religiosi, ciò implica inoltre la straordinaria similitudine del nostro essere con quello divino. Si tratta insomma di quanto continuamente ci ricorda la davvero straordinaria preghiera del Pater Noster – noi viviamo corporalmente nella spazialità immanente, ma in verità nello stesso tempo (grazie al nostro discendere dal Padre in quanto «figli») viviamo nell’eternità. Il che significa che, allorquando noi veniamo letteralmente dilaniati o stritolati dalle molteplici conseguenze della sequenza spazio-temporale, in realtà noi non siamo affatto lì, ma invece siamo del tutto al sicuro sotto le ali del Padre. Ciò avviene specialmente nella forma davvero atroce del dover pagare a caro prezzo fino all’ultimo dei nostri passati errori; e spesso addirittura essendo totalmente innocenti, a causa del fatto di aver commesso errori solo in piena buona fede e magari anche con ottime intenzioni.
In ogni caso, se nemmeno questo serve a farci sentire meglio come individui (comunque gettati nel mondo e inchiodati da altri aspetti, ben meno gradevoli, della consapevolezza intellettuale), almeno può servire ad avere un maggiore rispetto per il nostro prossimo umano. Infatti, per quanto spregevole quest’ultimo possa essere, comunque parteciperà anch’esso della straordinaria dignità che ho appena descritto.

Ma c’è un ulteriore aspetto da tener presente quando si intravvede l’orizzonte trascendente ed infinito della spazialità. Ed ancora una volta esso ha una stretta relazione con la dura condizione rappresentata dalla nostra finitezza. Si tratta in particolare di un aspetto etico che sta in connessione con la spazialità intesa come (in primis) località delimitata. Di tutto ciò ho parlato comunque nel saggio da me dedicato al valore che a mio avviso dovrebbero ritornare ad avere i piccoli luoghi [Vincenzo Nuzzo, Localismo. Il valore sacro del piccolo luogo, Victrix, Forlì 2020].
Il fatto è insomma che (sulla base di quanto abbiamo visto finora), allorché noi ci troviamo confinati in un luogo molto drasticamente circoscritto (come avviene per ogni piccolo luogo tagliato fuori dall’intensissima rete di scambi che caratterizza invece i grandi luoghi civici), noi possiamo avere una ragionevole dose di certezza che è così solo apparentemente. È così, infatti, solo sul piano di una consapevolezza che tiene presente il solo spazio immanente, ossia quello impostoci dall’illusione sensoriale quale incontrovertibile evidenza. Non è così invece tutte le volte che la nostra consapevolezza inizia a tener presente (e magari anche contemplare) il concetto di spazio trascendente. Ecco che allora l’uomo si ritrova proiettato di colpo in quell’infinito che è insieme anche eternità. Egli si ritrova quindi a vivere in una condizione in cui il muro (apparentemente impenetrabile) delle apparenze viene continuamente trapassato (o letteralmente sfondato) in direzione di una dimensione esistenziale radicalmente diversa da quella immanente.
È insomma come se noi vivessimo contemporaneamente in due mondi, in due dimensioni parallele dello spazio ed anche del tempo – quella immanente (nella quale siamo immersi corporalmente) e quella trascendente (della quale partecipiamo in quanto enti spirituali).
Ebbene, io personalmente conosco due circostanze in cui è possibile vivere tutto ciò in una maniera estremamente concreta, ovvero per mezzo di atti simbolici dal significato molto forte.
La prima di queste circostanze è molto in generale l’esperienza religiosa, e più in particolare la preghiera.
E senz’altro qualcuno potrebbe a buon diritto aggiungere a quest’ultima l’esperienza della famosa «meditazione» (sebbene io resti convinto che la prima è infinitamente superiore alla seconda).
La seconda di queste circostanze è l’attività intellettuale-spirituale stessa, e più precisamente quella davvero intensa. Anche di questo ci ha parlato Edith Stein descrivendo lo straordinario quanto ordinario fenomeno dell’”assorbimento intellettuale” – quando io sprofondo in un pensiero (che sia da me prodotto o venga solo letto) è come se perdessi ogni connessione con lo spazio circostante [Edith Stein, Psicologia… cit., I, 2, 2 p. 60-65]. Cioè è come se vivessi per davvero nell’infinito.
Ma torniamo brevemente sul fenomeno della preghiera. Personalmente da molti anni vivo quotidianamente questa esperienza e mi sforzo anche di comprenderla ogni volta sempre più profondamente per mezzo delle intuizioni che essa provoca in me. E ciò che posso dire è che essa è un’esperienza propriamente ontologica più che gnoseologica. Insomma, quando io (come uomo) prego, è come se mi immergessi una realtà trascendente – che poi è l’essere divino stesso al quale in quel momento sto elevando la preghiera (il Padre, Gesù Cristo, Maria Vergine, uno dei tanti santi…). L’infinito e l’eterno sono queste Persone divine in cui la preghiera ci immerge per mezzo di quel vero e proprio mantra che è la formula linguistica rituale da noi recitata. Per questo non importa tanto se molto spesso, nel mentre preghiamo, noi ci allontaniamo da ciò che stiamo dicendo recitando per davvero solo con le labbra.
In ogni caso resta infatti sempre una certa dose di immersione del nostro essere nell’essere divino che ci trascende. E quindi, quando noi non partecipiamo più mentalmente al contenuto della formula recitata, è come se essa stessa si incaricasse di trasportarci mantenendoci in alto e sollevandoci verso il divino.
Credo che sia stato esattamente per questo che qualcuno (non ricordo più chi) ha affermato che la preghiera è in sé impossibile all’uomo. Per cui, se dipendesse solo dall’uomo, essa non raggiungerebbe mai Dio. Pertanto, quando si prega, è sempre Dio per primo a muoversi per venirci incontro. Il resto viene fatto dal nostro sincero desiderio ed ancor più il nostro amore per il «colui» che stiamo pregando.
Su questa serie di aspetti consiglio chi fosse interessato di leggere lo straordinario libro di Guardini dal titolo “Introduzione alla preghiera” [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009].

Ma tale discorso sulle possibilità che sono alla portata della più ristretta località ci riporta ad un aspetto che abbiamo finora toccato solo marginalmente, e cioè l’ipotetico valore superiore della stasi rispetto al valore del dinamismo. Anche di questo aspetto ho trattato approfonditamente nel mio articolo dedicato all’onto-dinamismo, e cioè al dinamismo dell’essere [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227].
Abbiamo visto che sono in fondo statici sia lo spazio trascendente che lo stesso tempo immanente. Entrambi sono infatti delle Totalità proprio in quanto costituiscono dei blocchi ontologici e cioè delle vere e proprie Unità singolare. La nostra logica ci impedisce di rappresentarci coerentemente tali Unità, dato che esse sono nello stesso tempo limitate ed illimitate – tali sono infatti tanto l’infinito (spaziale) quanto l’eternità (temporale). E ciò non avviene invece per alcun ente unitario che noi incontriamo nell’esperienza; dato che essi sono tutti esclusivamente delimitati. Ecco allora che l’infinito spaziale è una sorta di super-luogo, dato che (in quanto Unità singolare) non vi è assolutamente nulla al di fuori di esso. Esso occupa infatti tutto lo spazio possibile. Pertanto è come se fosse un unico luogo infinito. Quanto all’eterno temporale esso è parimenti una sorta di super-momento (o super-attimo), dato che al di fuori esso il tempo cessa totalmente di scorrere. Ma esso non scorre nemmeno al suo interno, dato che si tratta appunto di un attimo eterno, ossia una frazione infinita di tempo che però occupa tutto lo spazio possibile del tempo.
A mio avviso è sempre stato esattamente questo il significato dell’espressione «eterno presente» − concetto forzato e tradito invece da Nietzsche, che ne volle fare una sorta di infinito circuito avvolto su sé stesso (“eterno ritorno all’uguale”).
Da tutto ciò discende allora che – almeno entro un discorso sull’essere in cui domini l’etica ossia il giudizio di valore a sua volta gerarchico – la stasi appare ricomprendere totalmente in sé il dinamismo, rendendolo così ad essa relativo e pertanto di valore decisamente secondario.
Possiamo quindi sì affermare che stasi e dinamismo si lasciano in via di principio concepire come contrari, e possiamo sì a questo aggiungere anche che in qualche modo il dinamismo porta la stasi ad un compimento che essa altrimenti non avrebbe mai – sia nel caso dello spazio che del tempo. Infatti, la Totalità non insorge mai se luoghi e momenti non si distribuiscono su una linea dinamica e quindi fluente. E tuttavia questo non è che l’inizio del discorso. Se però portiamo invece il discorso fino alle sue estreme conseguenze, noi vediamo apparire il tempo eterno (tempo trascendente) e lo spazio infinito (spazio trascendente). E qui ricompare quindi davanti a noi la stasi nella forma specifica di un valore davvero supremo. Cosa che poi ci permette di contemplare l’Uno divino nella sua dimensione effettivamente suprema, ossia il livello ontologico nel quale non esiste altro che l’immobile e totale Quiete.
A questo tipo di considerazioni ci conduce un altro grande autore appartenente alla sfera degli studi tradizionali, e cioè il nostro L.M.A. Viola – laddove egli esplora i vari gradi della dimensione sovra-essenziale dell’Uno divino così come essa si è presentata nel pensiero occidentale soprattutto neoplatonico [LMA Viola, Essere Italiani, Victrix, Forlì 2015, I, I p. 21-34]. Ma anche in Oriente questo concetto è stato espresso con forza nell’immagine del Principio quale “mozzo della ruota”, e quindi immobile centro dei centri dal quale emanano per irradiazione tutti i possibili gradi di realtà (ovviamente decrescenti dal centro verso la periferia) [ Ananda K. Coomaraswamy, L’esemplarismo vedico, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 13 p. 209-229; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd.., 21 p. 371-376].
Inoltre direi che in Occidente forse nessun filosofo è riuscito a descrivere tutto questo meglio di Scoto Eriugena, nella sua discussione dell’intero ciclo onto-evolutivo nascente dall’Uno e ritornante infine all’Uno come definitiva e suprema Stasi [Nicola Gorlani (a cura di). Giovanni Scoto Eriugena. Divisione della Natura, Bompiani, Milano 2013].
Una volta chiarito tutto questo possiamo comprendere ancora meglio perché il piccolo luogo civico ha un valore infinitamente superiore al relativo grande luogo nonostante la sua così miserevole delimitazione.

Dunque tutto ciò può dirci la filosofia sulla realtà dello spazio. Questa volta però abbiamo constatato che dobbiamo rivolgerci ad una sfera di studi che la disciplina ufficiale perfino disconosce come discorso filosofico. Ossia dobbiamo rivolgerci a quella metafisica davvero estremista che viene esposta solo nel contesto degli studi tradizionali. Per il resto la filosofia dello spazio può dire davvero molto poco a noi uomini comuni.

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