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Archive for gennaio 2017

Ho visto a Lisbona il nuovo film di Scorsese Silenzio. Il film è stato qui una specie di evento nazionale, dato che il tema è di fatto ancora attualissimo per il Paese. Esso è infatti duplice, riguardando da un lato la storia delle colonizzazioni portoghesi e dall’altro il loro legame con l’espansione del Cattolicesimo.
Ora, nonostante il rinsavimento post-salazariano, il tema della colonizzazione è restato qui comunque al centro della sensibilità collettiva. Per alcuni (l’uomo della strada) lo è restato in termini di un’autentica nostalgia risentita, mentre per altri (gli intellettuali) nei termini di una nuova consapevolezza della «missione» universale del Portogallo; e cioè nel senso della solidarietà tra popoli diversissimi ma ormai uniti da una sola lingua e quindi anche cultura. Insomma in qualità etica del sentimento gli intellettuali sorpassano decisamente l’uomo della strada. Non a caso la letteratura lusa si è avvalsa negli ultimi decenni di non poche penne africane.
Quanto poi all’altro tema, quello della fede cattolica, esso è ancora tremendamente attuale in questo Paese. E qui le cose decisamente si invertono in termini di gerarchia qualitativa del sentimento. Come dappertutto, infatti, gli intellettuali tendono qui ad essere agnostici se non anti-religiosi, mentre invece la fede è molto intensamente ed autenticamente sentita e vissuta dall’uomo della strada. Come altre volte ho avuto modo di dire, il fervore che si avverte nelle chiese di questo Paese supera infatti di gran lunga quello che si può avvertire nel nostro.
Ma forse proprio in questo Scorsese ci mostra la piaga tuttora aperta e ci mette impietosamente dentro il dito. Il problema discusso nel film è infatti proprio il fervore vivissimo di quei gesuiti, che – da autentici impavidi soldati delle truppe d’assalto del Cattolicesimo – si gettarono allo sbaraglio nell’esperienza di evangelizzazione di popoli dotati di tradizioni e costumi immensamente diversi da quelli occidentali. E qui il Giappone davvero ha fatto la differenza. Dato che laggiù è miseramente fallita l’operazione che invece era riuscita praticamente dappertutto.
Con grande sapienza scenica ed anche grande onestà intellettuale, Scorsese ci mostra il crinale sottilissimo sul quale si giocò l’intera partita – tra il fervore ingenuo (ma anche insidiosamente violento) dei gesuiti, e la consumata saggezza (violenta ma in modo aperto e pragmatico) delle autorità politico-religiose nipponiche. La questione si gioca tutta intorno alla complicità di fatto dei preti missionari con i tormenti inflitti dalle autorità ai martiri per la fede. Ed è proprio questa complicità che poco a poco finisce per essere portata alla luce in tutta la sua tremenda nudità etica, per divenire alla fine la causa inevitabile stessa dell’apostasia dei predicatori. Si ripropongono qui insomma più o meno i termini del tremendo scenario tragico di contraddizioni etico-antropologiche che fu proposto da Conrad in Cuore di Tenebra (e poi ripreso da Coppola in Apocalypse Now). Qui, cioè – come in tante altre costellazioni oggi drammaticamente attuali –, le più solide certezze della cultura occidentale si infrangono miseramente.
E così, attraverso il dipanarsi di una vicenda in cui chiaramente viene messo in scena l’inconcepibile eroismo della fede proprio dei martiri cristiani (qui le masse di contadini convertiti ed i loro pastori), nello stesso tempo poco a poco emergono anche tutte le loro tremende contraddizioni. In tal modo alla fine la resa incondizionata dei due «apostati», Padre Ferreira e Padre Rodrigues, si rivela essere il suggello stesso di una rovinosa sconfitta ideologica, ovvero la sconfitta dell’intero spirito missionario cattolico. Insomma tutti i missionari, e primi tra tutti i gesuiti, avevano oggettivamente torto marcio nel sentirsi chiamati al diritto e dovere di «convertire» popoli che avevano già una propria legittimissima religione.
E qui il Giappone fa la differenza proprio perché, diversamente perfino dall’Impero romano, ha saputo realmente resistere all’arma più temibile dell’apostolato cristiano, e cioè quella della sollevazione delle masse diseredate. Ma proprio in relazione a questo, il film lascia emergere il fatto più sconvolgente per l’uomo di fede (e non solo cattolico) che si confronti con questi così estremi eventi: – i poveri contadini, i quali conducevano una vita miserabile e priva della minima speranza, nel Cattolicesimo cercavano solo la speranza di una vita migliore nell’Aldilà, e quindi vi cercavano di fatto solo la gloria della morte. Era in questo e solo in questo che consisteva la nostra fede. Per cui essi davvero andavano a morire per sé stessi. Non per Cristo.
Bene! Ora la visione di questo film viene consigliata dal Vaticano così come dal parroco della Chiesa di São Roque; dove visse ed operò a lungo lo stesso Padre Ferreira, unitamente ad un altro mitico gesuita locale, e cioè Padre Antonio Vieira. São Roque, una delle più belle chiese barocche di Lisbona, ospita anche un interessantissimo museo sulle rotte gesuitiche.
Ma insomma la perorazione attuale dei predicatori propone questo film come descrizione dell’attualità ancora oggi del martirio cristiano. Le cose però non stanno affatto così. Perché il film lascia semmai emergere le contraddizioni di quest’ultimo; insieme a quelle dello spirito missionario e forse dell’intero ecumenismo cattolico.
Questo non significa però affatto che si tratti di un film anti-cattolico e magari anche anti-religioso. Tutt’altro! Esso invece mostra semmai –  a chi sia ancora interessato all’esperienza di fede (in questo senso il film interesserà molto poco a chi alla fede non attribuisce più alcun valore oggettivo) – che esistono due diversi Gesù Cristo, i quali alla fine non hanno molto a che fare l’uno con l’altro. Ve ne è uno (il più autentico) che continua ad essere un dio a tutti gli effetti pur prendendo parte in prima persona a qualunque nostra sofferenza (ed ancor più gioia). Ed Egli si presenta a noi solo e soltanto in questo modo. Poi ve ne è un altro, il quale, nel corso della nostra esperienza religioso-esistenziale (sempre intessuta di dolore o gioia), si presenta a noi soprattutto in forma istituzionale (in immagini sacre e contenuti teologici). Egli si presenta insomma come il Dio esclusivo di una religione esclusiva.
Ebbene è di fatti in primo luogo proprio quest’ultimo quello che veniva predicato dai gesuiti. E la prova del nove sta proprio nella forma dell’atto di apostasia preteso dalle autorità giapponesi, ossia il calpestamento dell’immagine sacra di Gesù da parte del fedele. Sta di fatto che il vero Gesù Cristo, quello che soffre e gioisce con noi, non stava affatto in quella immagine. Ed anche se vi fosse stato, se ne sarebbe stra-infischiato del nostro patetico atto di poveri uomini, soggetti inesorabilmente alle ferree leggi del mondo.
È proprio comprendendo questo che i Padri apostatano. E ciò accade solo alla fine; quando di una fede evidentemente non autentica non restava ormai più nulla. Ebbene, quale fede c’è oltre quest’ultima? Difficilissimo dirlo e la terribile provocazione del film sta proprio in questo.
La domanda resta pertanto aperta, e spetta ad ognuno di noi la risposta ad essa. La mia personale risposta è che la fede autentica è quella in un Dio-Uomo (Gesù Cristo) che non si aspetta da noi nulla di quanto noi, da uomini, possiamo figurarci come fede. Egli infatti non vuole altro che starci accanto nel nostro periglioso, difficilissimo e scandalosissimo passaggio per questo mondo, in preparazione di quella che è la sola autentica vita. Egli non vuole fare altro che accompagnarci fino a questa meta, che poi consiste ontologicamente nel suo Corpo stesso. In questo senso Egli è tanto più «cattolico» (kathòlon) quanto meno appartiene a qualunque forma di teologia.

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Questo nostro saggio ha lo scopo principale di ri-affermare il valore del piccolo luogo in generale e del piccolo luogo civico più in particolare. Ciò nonostante sia evidente la scomparsa di entrambi tanto come realtà storico-geografiche che come valori universalmente condivisi. Questo è stato il frutto di un vasto e complesso processo (culturale, sociale, politico, economico) che ha visto il verificarsi contemporaneo di alcuni fenomeni: – 1) la progressiva svalutazione denigratoria del valore piccolo luogo, in forza di un vero e proprio crescente mito del grande luogo; 2) il sempre crescente inurbamento di masse umane in grossi centri; 3) il progressivo crescere del peso dell’agire economico rispetto a quello politico, a sua volta contemporaneo all’evoluzione da un’economia agricola a quella industriale; 4) la vera e propria progressiva esplosione dei limiti dei piccoli luoghi civici, che da un lato si trasformavano in grandi città e dall’altro lato tendevano sempre più ad inglobare i circostanti piccoli agglomerati urbani.
Nella riflessione su tutto questo è stata però essenziale la nostra personale esperienza di tale complessiva trasformazione. Esperienza la quale non poteva non generare un nucleo di sentimenti e considerazioni morali che debbono essere ritenuti inscindibili dall’investigazione filosofica sul tema. Per tale motivo la nostra trattazione è in questo senso sì filosofico-politica, ma non può non essere contemporaneamente anche filosofico-morale, filosofico-poetica e filosofico-religiosa.
Nel complesso dunque il nostro sforzo è stato quello di dare una veste riflessiva al sentimento di profondo cordoglio che personalmente proviamo per la perdita ormai definitiva del piccolo luogo (quale realtà e quale valore). Proprio per questo abbiamo anche tentato (nelle conclusioni) di definire cosa concretamente si possa e si debba fare oggi a fronte di tale cordoglio.

Nell’Introduzione (il cui testo riporteremo più avanti in stralcio) abbiamo cercato di collocare la prospettiva del localismo sullo sfondo dell’oggi trionfante Globalismo. Il quale è da considerare anche il protagonista di fatto (quale erede ultimo del Progressismo) di quella stessa mitica del grande luogo, che ha progressivamente eroso e dopo annientato l’esistenza ed il valore del piccolo luogo. Il discorso da noi condotto su tale sfondo si è poi diretto (Capitolo I) in particolare in modo polemico contro la moderna ideologia del movimento, cambiamento e del viaggio, che ultimamente ha preso la forma della retorica dei viaggi spaziali. Ed a margine di tale polemica abbiamo cercato di chiarire come il pianeta Terra stesso sia da considerare il «luogo» nel suo massimo valore, in quanto è il naturale, unico e solo habitat di quell’essere che è effettivamente «uomo».
Nel Capitolo II abbiamo poi cercato di chiarire più a fondo cosa si debba intendere con il piccolo luogo quale paradigma più adeguato di località e quali ne siano state le caratteristiche storiche più tipiche. In tale contesto abbiamo individuato il principale atto costitutivo del piccolo luogo, ossia la delimitazione segregante che lo rescinde dalla Natura facendone un luogo architettonico; ed abbiamo anche iniziato a delineare i fenomeni della sua degenerazione secondo il paradigma del superamento espansivo di tale limite. Su questa base abbiamo poi esaminato le caratteristiche del piccolo luogo storico, come polis ed anche come polis tendenzialmente imperiale. Al di là delle pure possibili caratteristiche negative di quest’ultima, abbiamo cercato di chiarire come l’imperialità non deve essere intesa come espansione (nel senso del degenere superamento dei limiti) ma invece prima di tutto come affermazione della ferma convinzione degli abitanti della polis circa il valore del piccolo luogo al quale essi sentono di appartenere.
Nel Capitolo III abbiamo preso in esame diversi aspetti del complesso ed articolato paradigma metafisico-religioso e metafisico-politico, al quale a nostro avviso si è sempre (direttamente e indirettamente) ricollegato il piccolo luogo specie nella forma della polis.
Nel Capitolo IV abbiamo tentato di esaminare due specifiche forme di degenerazione del piccolo luogo quale valore; ossia la sua trasformazione in valore meramente idolatrico, ed inoltre la sua evoluzione cancerosa secondo il più pieno paradigma dell’espansione a grande luogo civico.
Nel Capitolo V abbiamo infine tentato di dare un volto all’attuale localismo dottrinario; riconoscendone la forma più propria in un localismo politico (o anche regionalismo) che attribuisce massimo valore alle «piccole patrie».
Infine nelle Conclusioni abbiamo cercato di fare il punto sul concetto di piccolo luogo (e relativo valore) sia sul localismo stesso. Ed in particolare in relazione al primo punto, abbiamo cercato di comprendere come si possa oggi vivere all’ombra della così dolorosa e disastrosa perdita del piccolo luogo.
Rispetto a ciò abbiamo poi riportato piuttosto per esteso la vasta analisi critica di uno dei massimi esponenti del localismo politico-regionalista, e cioè Bernard Charbonneau. Tale analisi ha infatti il merito di collocare la riflessione sul valore del piccolo luogo entro le gravi problematiche sollevate da quel Progressimo, culminato poi nel Globalismo, entro il quale ha fatto sentire il suo effetto una scienza moderna tecnologica organizzatasi poi chiaramente nell’estrema struttura assunta dall’iper-capitalismo. Quest’ultima è costituita infatti da un immenso e mostruoso Apparato vertiginosamente produttivo, il quale, nel mentre ha trasformato il mondo nell’iper-mega-città prima menzionata, ha completamente annientato sia la realtà dell’uomo sia i suoi veri bisogni ed interessi. Pur rimandando per tutto questo al testo del saggio, crediamo necessario porre qui in risalto il principale contributo di Charbonneau alla così rilevante riflessione sul tema.
Egli ci mostra infatti che sarebbe ancora fin troppo bello se l’amarezza delle nostre considerazioni potesse essere mitigata appena ripiegandosi su una meditazione sul piccolo luogo scomparso per serbarne in tal modo almeno la così grata memoria. Le cose sono infatti troppo serie per potersi permettere questo atto così privato e contemplativo. Come testimoniato dallo studioso, infatti, la gravità ed urgenza della situazione consiste nel fatto che proprio ora, ad opera del Progressismo globalista ed iper-capitalista, sta giungendo al suo compimento ultimo la distruzione di qualunque forma di antico ordine. Dopodiché c’è da attendersi l’insorgere di un vero Ordine Nuovo, i cui caratteri negativi, nonostante le pur così serie avvisaglie a nostra disposizione, non siamo nemmeno in grado di immaginarci. E per questo egli chiama a gran voce tutti noi a raccolta perché finalmente diveniamo consapevoli e reagiamo: – “L’ordine di ieri non è più nostro e quello di domani non lo è ancora; possiamo considerare l’uno e l’altro dall’esterno. Siamo in una situazione eccezionale per dare un giudizio, se non identifichiamo questo stato di cose precario per la nostra libertà. Tocca a noi afferrarla; è tempo di farlo. Le nostre nuove catene saranno ancora più solide di quelle antiche, perché saranno forgiate dalla forza che le ha spezzate”. [Bernard Charbonneau, Il sistema e il caos, Arianna, Casalecchio 2000., II, II p. 154].
Siamo così insomma di fronte ad una possente chiave di comprensione di tutta la fenomenologia che abbiamo tentato di illustrare descrivendo l’annientamento del piccolo luogo nel corso di uno sviluppo che è lo stesso affermatosi per mezzo della revoca totale del valore dell’Antico e del Passato a favore del valore del Moderno e del Futuro. E qui non ne va infatti nemmeno dell’opinabile crimine così commesso, e consistente nella perdita di qualcosa di prezioso. La posta in gioco è invece ancora più alta, in quanto essa è ancora più critica.
Ebbene Charbonneau parlava nel 1990. È forse già troppo tardi? Forse si, o forse no. È difficile dirlo. In ogni caso ci sembra che, finché esiste anche solo una flebile speranza di reazione, varrebbe comunque di lottare per essa. Ma per questo è assolutamente necessaria la condivisione.
Ed è esattamente questo il motivo principale per il quale abbiamo scritto questo libro.
Segue lo stralcio del testo introduttivo al saggio:
Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace / fé l’uomo buono e a bene, e questo loco / diede per arr’ a lui d’etterna pace. / Per sua difalta qui dimorò poco; / per sua difalta in pianto e affanno / cambiò onesto riso e dolce gioco” [Dante Alighieri, Purgatorio, in: Dante Alighieri, La Divina Commedia, Mondadori, Milano 1985, XXVIII p. 91-96].
“…oggi questo corpo vile trionfa alla luce del solo, qua e là velato dagli ultimi frammenti di religione e di morale. Le nostre società sono in primo luogo economiche; se la politica governa, la produzione comanda e giudica. Ed è la religione ad essere a sua volta rimossa nell’inconscio collettivo, o in un cielo vuoto” [Bernard Charbonneau, Il sistema e il caos, Arianna, Casalecchio 2000, I, II p. 71].
Come ormai tutti sanno, viviamo ormai in un mondo cosiddetto globalizzato.
E la cosa viene vista da tutti noi in un modo così naturale e scontato, da essere entrata ormai nell’ordine delle cose. Il «globalismo» è insomma universalmente condiviso nel suo valore, in quanto viene considerato un’indiscutibile necessità. Insomma, anche se qua e là spuntano delle voci che i politologi dichiarano avverse a questa evoluzione delle cose, si può invece presumere che tutti noi (e con pochissime eccezioni) siamo convinti che quanto è accaduto e accade al mondo sia assolutamente giusto, logico, naturale, dovuto, e dunque (in una sola parola) inevitabile.
Soprattutto inevitabile!
Noi riteniamo che sia da vedere proprio in questo la radice stessa del problema.
Da molti secoli ormai siamo stati tutti convinti a forza – dal momento in cui da bambini mettevamo per la prima volta piede in un’istituzione scolastica, e successivamente ad opera di intere schiere e generazioni di intellettuali ed informatori di ogni genere – che quanto viene definito come «Progresso» è stato ciò che si meglio poteva capitare al genere umano.
Ci si felicita, dunque – con molta enfasi ed universalmente –, che ci sia stato un tempo qualcuno che iniziò ad affermare il valore del Progresso, continuando poi a sostenerlo coraggiosamente contro l’arroganza cattiva e sanguinaria di oscurantismi vari; allora decisi a qualunque costo a non perdere terreno. Ma alla fine gli esponenti delle forze di reazione hanno perso, mentre hanno stravinto coloro che li combattevano. E così, da quel momento in poi, tutto è stato ripensato, riscritto, risentito e riproclamato, nella logica del valore assoluto del Progresso.
Intanto però il Progresso non si limitava a restare una parola, bensì invece produceva i suoi frutti concreti in tutti i campi possibili. Ciò avveniva nella cultura in generale, nella vita sociale e politica, ma soprattutto nel contesto di una scienza che oramai aveva cessato di essere una conoscenza teorica e era divenuta invece una prassi, ossia «tecnologia». E quest’ultima iniziò a cambiare la faccia della terra e la vita dell’uomo comune, così come mai era avvenuto nell’intera storia dell’umanità. Soprattutto lo fece venendo definitivamente e sempre di più incontro a ciò che all’uomo comune risulta più facile e spontaneo desiderare; ossia il «vivere bene» in termini immediatamente corporali, materiali, sensibili ed immanenti. Cosa possibile nei fatti reali ed attraverso il possesso e l’uso di oggetti concreti. Questa non era insomma più la promessa di un tempo (quella del famoso radioso avvenire sempre preannunciato dalle forze progressiste di qualunque genere), ma era invece ormai un fatto molto concreto; e precisamente un fatto quotidiano, e dunque banale, prosaico, scontato. In una parola ormai assolutamente indubitabile.
Ecco che con ciò l’uomo era cambiato per sempre, insieme al mondo che ancor più di prima era l’espressione del suo essere ed agire. Ci si trovava insomma di fronte ad una vera e propria nuova antropologia. Dunque, nulla più di ciò che un tempo l’aveva contraddistinta, poteva essere ancora in alcun modo valido. Era nato un uomo completamente nuovo, e con esso un mondo completamente nuovo. Cosa ovviamente salutata da tutti come il meglio che all’umanità potesse capitare.
È dunque con questo background che siamo pervenuti all’atto estremo di questo complessivo movimento, ossia alla proclamazione dell’avvento della cosiddetta «globalizzazione». Anticipata dalle avanguardie filosofiche ed artistiche, che coniavano il termine astruso ed esoterico di “post-modernismo” (con non poche assonanze marxiste ed hegeliane), la globalizzazione entrava finalmente in vigore divenendo così il pane quotidiano di tutti noi. Ed ovviamente, sebbene il termine stesso continuasse ad essere sfuggente (per il comune comprendonio), si trattava comunque di qualcosa di estremamente concreto. La globalizzazione è in primo luogo fatti e cose; non teorie. In particolare è oggetti di possesso e di uso; più precisamente «di consumo».
Essa è aerei che solcano incessantemente ed in lungo ed in largo i cieli del mondo; a prezzi sempre più bassi, e trasportando ormai perfino quei contadini (dei vari «interni» del mondo) che prima non avevano nemmeno mai visto il mare. Essa è economia totalmente interrelata a livello planetario. Essa è strutture produttive ed organi finanziari diffusi a ragnatela su immense aree del mondo. Essa è comunicazione (ovvero relazione ultra-fisica) resa possibile a distanze incommensurabili, e con mezzi potentissimi posti sempre più alla portata di tutti. Essa è storia geograficamente simultanea; perché qualunque evento nel luogo più sperduto del mondo si ripercuote ormai (in modo piò meno evidente) ad onde concentriche in tutti gli altri luoghi.
Ma tutto ciò è stato reso possibile proprio dagli oggetti creati dalla tecnologia, e subito dopo gettati in pasto al cosiddetto «mercato». E questo è avvenuto senz’altro in primo luogo sul piano della comunicazione. Prima la radio ed il telegrafo, poi il telefono, poi la televisione, poi il personal computer, ed infine il telefono cellulare. La cui ultima generazione, totalmente simile ad un mini-computer, costituisce oggi il vero compimento dell’intero processo.
Indubbiamente è proprio questo il simbolo della globalizzazione. E per le caratteristiche che quest’ultima ha per la psicologia collettiva, non poteva trattarsi di altro che di un feticcio.
Del resto da sempre il feticcio aveva rappresentato il modo più soddisfacente che l’uomo conoscesse, per esprimere le sue pulsioni erotiche; e dunque era ciò che ad esso riusciva più facile amare incondizionatamente. A nulla è mai servita alcuna protesta moralistica contro questo. Quella di Mosè è stata continuamente sorpassata e ridicolizzata dalla storia della società umana.
E quella di Marx è stata infine appena un vano e vuoto pretesto retorico. Le prassi politiche che sono scaturite dal suo pensiero si sono infatti guardate bene dal condurre una vera lotta contro il feticcio. E così esso ormai domina e regna incontrastato. Ha trionfato totalmente insieme suo degno compare, il dio Danaro. E così entrambi vengono ormai incondizionatamente adorati.
E così al loro cospetto ormai tutti si prostrano in religioso silenzio.
Come si può dunque pensare che oggi esistano per davvero forze politico-ideologiche o sociali davvero schierate contro il globalismo? Come potrebbe essere possibile, se tutti siamo incondizionatamente convinti dei suoi valori, e di essi facciamo uso ogni giorno con sviscerata passione? Ci si sbraccia tanto oggi a parlare dell’insorgere di un nuovo “populismo”, che sarebbe poi decisamente sempre più schierato contro il “globalismo”. Ma forse che tale forza si muove, pensa, sente, ed agisce in modo diverso da quanto esattamente è previsto nel contesto dei valori della globalizzazione? Ovviamente no!
E la cosa è largamente ridicola, se non tragica. Infatti il nuovo presunto strumento di democrazia vissuta e di rivolta democratica, apportato da questa forza, è la cosiddetta “rete”; e cioè esattamente quanto di tecnologico è stato predisposto dalla globalizzazione per asservirci totalmente ai suoi valori. Forse che gli strumenti tecnologici sui quali poggia la rete sono stati creati per altruismo idealista o secondo una visione del Bene universale? No! Sono stati esclusivamente creati per un’immensa ed inestinguibile sete di guadagno. E la prova di tale infamia è la stessa icona religiosa che è stata eretta con l’immagine di uno come Steve Jobs – non a caso oggi idolo indiscusso di tutti i venditori senza scrupoli di mezzo mondo. È insomma un nuovo Sant’Antonio.
Oltre a ciò si suppone che queste forze anti-globalistiche pensino, sentano ed operino contrastando la vasta a-moralità o immoralità che oggettivamente è uno dei principali portati della globalizzazione. Niente di più falso! Invece chi invece si muove in questo modo, pensa, sente ed opera nel modo più strenuamente immorale che sia previsto dallo spirito del tempo. Infatti movimenti populisti oggi rampanti, ricevono forza proprio da chi al mondo sta mediamente meglio e vuole difendere i suoi privilegi snudando finalmente la spada; liberarsi così di ogni pregiudizio e remora morale. Dicono di voler “finalmente cambiare”, ma intendono con ciò la riesumazione della più cieca e bieca conservazione. E questa non è affatto una conservazione che davvero abbia valore. Infatti – e qui le cose divengono ancora più tragicamente ridicole – si tratta solo di quella bieca, aberrante, immorale, ingiusta ed impura neo-conservazione che lo stesso globalismo ha introdotto. Si tratta di quella forma di conservazione che non prevede affatto la giustizia, ma invece prescrive i valori di una nuova barbarie civile e politica. E l’unico credo di quest’ultima è la decisione sempre più proterva dell’individuo a consumare e godere il più possibile ed il più possibile da solo. In altre parole si tratta di conservazione solo nei termini di quell’aberrante conservatorismo darwinistico-dionisiaco che fu introdotto da Nietzsche. [Vincenzo Nuzzo, Nietzsche. Il grande nemico della Tradizione, Victrix, Forlì 2006].
È la riaffermazione della legge della giungla, ossia della lotta per la sopravvivenza nella sua forma più brutale ed irriguardosa. E questo è il tratto più deciso della nuova antropologia introdotta dal Progressismo e portata a compimento dal Globalismo, ossia quella caratterizzata dall’annientamento della Cultura-Civiltà a vantaggio della Natura. Una Natura alla quale ormai si aggiunge la dimensione tecnologica come suo naturale prolungamento.
Ma tutto questo getta luce su uno scenario ancora più inquietante. Ce ne possiamo rendere conto prendendo atto del contenuto di uno dei principali atti di protesta del populismo (presuntamente anti-globulista), ossia il rifiuto dei cosiddetti “migranti”. Ebbene, a cosa è dovuto il fenomeno dei migranti (autentica fenomenologia storica con i caratteri soverchianti di un fenomeno bio-fisico come quello dell’osmosi) se non agli stessi valori introdotti dal Globalismo?
È vero che le cause del fenomeno sono spesso guerre e disordini vari. Ma la causa principale è un genere di «carestia» molto più ampia e profonda di quella alimentare e materiale (nel cui verificarsi il Globalismo non è affatto innocente!), e cioè quella che rende agli uomini odioso il piccolo luogo in cui sono nati e vivono. Infatti ormai il prevalente ordine di valori del mondo (diffuso e sorretto ogni giorno dai mezzi di comunicazione di massa) è tale che, più piccolo è il luogo in cui viviamo, più odioso esso ci diventa. E questo perché, più o meno chiaramente, ognuno di noi è convinto di valere molto più di quanto quel luogo del mondo, al quale egli appartiene, sia disposto ad ammettere. La caratteristica di questo disvalore può essere diversa e più o meno sofisticata (più andare dalla scarsità di cibo e di lavoro all’aspettativa di grandiose prospettive di carriera), ma la natura del fenomeno non cambia.
E così assistiamo al paradossale fenomeno di immense ondate di marea umana, sollevate ogni giorno dal Globalismo, che incontrano dall’altro lato del mondo (quello fortunato) l’ostilità sempre più astiosa di gente sempre più prossima alla decisione di armarsi fino ai denti e sparare su chi oggettivamente li sta invadendo. Ogni giorno sempre più persone lasciano la loro casetta ed il loro campicello in qualche sperduto luogo del mondo, disposti ad attraversare anche il mare per trovare qualcosa di meglio (è l’eterno sogno dell’emigrante). Ed ogni giorno sempre più persone, dall’altra sponda del mondo, rumoreggiano, bofonchiano, e continuamente minacciano di armarsi per respingere questa invasione. E tutto compare davanti a noi sotto mentite spoglie. Da un lato vi è un esercito invasore (i barbari di un tempo) sotto le mentite spoglie di una massa di diseredati in cerca di compassione ed accoglienza. E dall’altro lato vi è un esercito arcigno, xenofobo ed in armi, schierato dietro il suo vallo di Adriano, il quale attende solo l’ordine che lo autorizzi a rovesciare fiumi di fuoco sugli invasori. Ed il colpevole è uno solo: – lo Spirito della Globalizzazione.
Si tratta infatti di quello Spirito che esige l’abolizione di ogni differenza locale, che esige l’equiparazione definitiva e totale di tutto ciò che al mondo, essendo «locale», è anche necessariamente «diverso». E può esserlo solo se resta tale, ossia se tra un luogo e l’altro esistono oggettive barriere che nessuno si sognerebbe mai di valicare. È per questo che lo Spirito di Globalizzazione evoca l’unica forza alla quale nulla e nessuno si può opporre, cioè quella in atto nel fenomeno dell’osmosi. Questo è il fenomeno in cui una massa inarrestabile di acqua libera attraversa una membrana permeabile dal lato in cui c’è una minore concentrazione di soluti al lato in cui la concentrazione di soluti è maggiore. È esattamente in virtù di questa forza che, nel momento in cui gli imperi si indebolivano, masse immense di migratori li invadevano cancellandoli dalla faccia della terra.
È questo che sta accadendo, e non ci sono moralismi che tengano (in un senso o nell’altro). Molto più proficuo sarebbe cercare il colpevole di tutto questo. Ed il colpevole è senz’altro chi ha fatto in modo che un lato del mondo fosse sempre più sfacciatamente ricco, mentre l’altro fosse sempre più scandalosamente povero. Ma anche tutto questo è avvenuto sulla falsariga dell’abbandono dei piccoli luoghi. La crescita incontrollata della ricchezza di alcuni paesi è infatti andata di pari passo con la perdita progressiva di qualunque forma di umiltà e di remissività.
Ebbene, a tutto questo va aggiunta l’infinita serie di guasti già da tempo provocati dalla scienza trasmutatasi in tecnologia: – inquinamento e riscaldamento del pianeta, aberrazioni varie introdotte dalla tecnologia (in medicina e nei costumi), disintegrazione ed imbarbarimento della società, crescenti isolamento, infelicità, follia, immoralità. E chi più ne ha più ne metta.
Ed infine bisogna prendere atto dei cambiamenti ancora più profondi introdotti dalla Globalizzazione. La quale con una mano dà a profusione, mentre con l’altra toglie spietatamente e sempre di più. Con la concentrazione del potere di acquisto (e perfino politico) nelle mani di ristrettissime ed anonime Organizzazioni (irresponsabilizzabili ed illocalizzabili), sono infatti spariti completamente aspetti della vita civile che avevano sempre caratterizzato la condizione umana fin dai suoi stessi albori: – famiglia come luogo di riparo, lavoro, fede nel futuro, trasmissione di tradizioni tra generazioni, stabilità di valori e costumi, ragionevole senso dell’esistenza, ecc.
Questo è il desolante e devastato scenario. E dunque, se oggi veramente intendiamo dichiararci anti-globalisti, dovremmo essere capaci di guardare alla profondità dei fenomeni e non invece alla superficie. Il che poi implica anche la capacità di fare delle rinunce davvero radicali sul piano del «benessere» al quale il Progresso ci ha ormai abituato come ad una vera e propria scontata ovvietà.
Del resto Platone ci aveva ben avvertito di cosa accade alla città ed al mondo stesso, quando i suoi abitanti si trasformano in lerci e lascivi “fuchi” gonfi di corrotti umori, e che non vivono più per attendere al compito loro assegnato dall’ordine civile e cosmico. [Platone, Repubblica, Laterza, Roma Bari 1999, I, XXIII-XXIV, 353e-354c p. 73-75, III, XIV-XVI, 405d-408e p. 197-203, IV, I, 420c-421c p. 229-231, IV, XIII-XIV, 438a-444a p. 275-281, IV, XVIII-XIX, 444b-445e p.291-295, VI, XIV-XV, 502a-504a p. 427-429]. Oggi però questa così saggia e severa lezione viene meno che mai ascoltata. Ed infatti qui si pone il problema del chi tra noi realmente può davvero sentire la serie di esigenze imposta dallo scenario in cui ormai viviamo.
È un fatto che tali esigenze devono essere sentite in modo davvero radicale, per poter poi diventare la radice di una consapevolezza che davvero indirizzi la reazione in una direzione corretta (e non invece controproducente o paradossale).
Ebbene chi e quanti sentono oggi fino in fondo queste esigenze?
È davvero difficile rispondere a questa domanda. La risposta ad essa potrebbe essere infatti anche del tutto negativa. Nel senso che oggi forse non c’è davvero nessuno che davvero abbia tale capacità. Ed a questo punto nulla vieta che ciò riguardi dopotutto perfino chi scrive, cioè noi stessi.
Se così fosse, il nostro discorso non avrebbe alcun senso; e dunque non resterebbe che prendere atto delle oggettive necessità storiche, negative o positive che siano, rinunciando a qualunque giudizio su di esse e soprattutto a qualunque forma di conseguente reazione.
Tuttavia, per fortuna, ciò che comunque ancora non è sparito dall’essenza umana è la tenacia della speranza. Virtù che è ancora più tangibile quando essa si muove sul piano di una totale utopia.
Dunque noi ci accingiamo a scrivere del tema del localismo (che è principale oggetto di questa riflessione) sostanzialmente perché nutriamo ancora la speranza che le cose potrebbero cambiare; o almeno che esse idealmente dovrebbero cambiare.
Nutriamo insomma ancora la speranza che l’umanità possa storicamente ancora riscuotersi da questo sonno di morte, ritrovare la sua vera dignità e finalmente levare la sua vera voce indignata. Nutriamo ancora la speranza che nel fondo di noi stessi viva ancora un minuscolo germe di consapevolezza positiva, e che anzi nulla in fondo possa ucciderlo; per quanto sia possente e diabolicamente astuto com’è oggi la Forza globalistica. La quale non è in fondo altro che l’estrema forma di quel Nichilismo di cui Heidegger (chiosando Nietzsche) dichiarò l’ineluttabile necessità storica [Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010, p. 107-123; Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, Adeplhi, Milano 2010, p. 27-68, 94-102, 110-127].
Ed infine nutriamo ancora la speranza che un giorno questo minuscolo Daimon interiore (che è individuale ma è anche super-individuale e quindi universale) possa di nuovo iniziare a far sentire la sua voce, ed inizi a farlo gridando sempre più forte. Finché nessuno potrà fare più finta di non sentire. Ed infatti probabilmente non è ancora sparito nemmeno l’altro tratto tipico dell’essenza umana, e cioè quello di ascoltare sempre appunto la propria interiorità; credendo così ad essa molto più che a qualunque apparenza.
Potrebbe insomma accadere che, dopo tutta questa selvaggia ubriacatura, giunga finalmente il giorno dello smaltimento dell’ebbrezza e del rinsavimento.
Per questo noi scriviamo. Per quanto abbiamo la certezza quasi assoluta di restare di fatto inascoltati. Ma sperare serve sempre, anche se non si può sapere come. E noi non intendiamo rinunciare a farlo. Riteniamo infatti questo il nostro personale contributo alla lotta per il Bene, alla quale non siamo mai riusciti a sottrarci in nessun momento della nostra vita. Sebbene spesso l’abbiamo perfino desiderato.
E dunque, pronunciarsi contro il Globalismo non può significare altro che pronunciarsi a favore del Localismo. Pertanto, se anche non avessimo voluto parlare di quest’ultimo, le cogenze ed urgenze storiche ci impongono di farlo.
Del resto, come abbiamo già accennato, uno dei principali atti storici del Globalismo è stato ed è proprio quello di sforzarsi di cancellare dalla faccia della terra quelli che noi definiamo come «i piccoli luoghi». E con questi ultimi intendiamo molto concretamente (come abbiamo già detto) quei posti della terra che hanno i caratteri del luogo nel quali siamo nati, e siamo stati quindi naturaliter destinati a vivere. Questi sono infatti gli unici veri luoghi ai quali noi tutti possiamo dire di appartenere per davvero. È anche in questo che noi siamo uomini. Perché il legame di terra e sangue che ci unisce in modo corporale-materiale al luogo di origine (come accade anche agli animali ed ancor più alle piante) è cosa che presso noi umani diviene anima e spirito, e cioè storia, tradizione, passato. Diventa insomma lunghe catene di generazioni che si distendono dietro di noi fino a distanze incommensurabili ponendoci in interrotta continuità con tutto ciò che c’è alle nostre spalle. E poiché il ritorno al passato è anche progressiva dilatazione, in tal modo il piccolo luogo compie l’autentico miracoli, nel radicarci in esso, di ricollegarci ad orizzonti sempre più vasti e perfino sempre più alti. Fino a pervenire all’assoluta Origine di ogni cosa. Per l’astronomo ed il fisico sarà l’indicibile nucleo di chissà-che-cosa dal quale si è sprigionato il big-bang. Noi preferiamo credere che si tratti di null’altro che dell’Uno divino.
Ed ecco allora che la linea orizzontale che lega al Passato, si trasforma nella linea verticale che ci lega all’Origine. È proprio in questa linea che i filosofi, metafisici e religiosi più profondo-vedenti hanno riconosciuto quella che è per davvero l’ultima essenza umana, e cioè la sua totale identità a Dio. Perché quest’ultima sia attuale, e quindi diventi storica, occorre però risiedere in un piccolo luogo. E tale è stata sempre la polis, ossia l’autentica città; prima che essa si trasformasse nella sua orrenda copia demoniaca a cancerosa.

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