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(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

Il pensatore francese Louis Lavelle (conosciuto come uno dei maggiori esponenti dello Spiritualismo personalista francofono) ha scritto molti libri tra i quali due dedicati alla definizione di cosa è «essere».
I titoli di questi libri sono i seguenti: − Louis Lavelle, Introduction a l’ontologie, Presses Universitaires de France, Paris 1951; Louis Lavelle, De l’être, Librairie Féliz Alcan, Paris 1928.
Ed il secondo (la cui copertina ho riportato in foto) è a mio avviso quello più denso, completo ed anche davvero prezioso al giorno d’oggi. Esso ci permette infatti di tornare a gettare sull’«essere» uno sguardo che è insieme profondo, amplissimo, equilibrato e soprattutto libero da fuorvianti pregiudizi ideologici di parte (come, ad esempio, quello di Heidegger). Quindi questo è il libro di Lavelle che io consiglio più caldamente di leggere.
Tuttavia per comprendere il valore di questo libro dovrò fare una piuttosto lunga premessa. E spero che qualcuno dei miei lettori abbia la motivazione per seguirmi in questo percorso. Quanto poi ai miei lettori che sono filosofi, dico subito che possono sorvolare su molte parti della susseguente esposizione, dato che esse sono certamente ad essi già arcinote.
Il pensiero dell’essere (circa l’essere) è ciò da sempre che in filosofia viene definito come ontologia (dai termini greci “On” e “ontos” che identificano appunto questo elemento e concetto). Apparentemente questo argomento può interessare poco alla maggior parte di noi, anche se invece ai filosofi ha interessato molto (sebbene con fasi alterne). Ma sta di fatto che nell’essere noi non solo ci viviamo totalmente immersi − e fino al punto che nemmeno ce ne rendiamo conto (come ebbe a dire Romano Guardini), con la conseguenza che possiamo non vederlo e nemmeno conoscerlo −, ma inoltre, se non fossimo «essere» (ossia se non ricevessimo e anche possedessimo questa entità), noi semplicemente non esisteremmo.
Ossia «non saremmo».
È evidente (ed assolutamente intuitivo) che quindi l’essere equivale all’esistenza. E precisamente al suo sostegno, per quanto invisibile ed inafferrabile. Per cui è altrettanto evidente che i filosofi si sono dovuti interessare da sempre dell’essere, dato che esso è il nucleo stesso della loro riflessione su ciò che osservano tutt’intorno a loro, ossia cose, uomini ed eventi Diciamo che la riflessione su questo aspetto è iniziata con Parmenide in primo luogo, e poi con Eraclito, Aristotele e Platone. Per poi passare alle riflessioni di Agostino di Ippona e Tommaso d’Aquino (unitamente all’intera Scolastica medievale della quale egli fece parte). In ogni caso la riflessione sull’essere va considerata praticamente obbligatoria per il filosofo.
Fatto sta che non tutti i filosofi hanno inteso l’essere allo stesso modo. Ed inoltre i filosofi antichi lo hanno inteso in modo molto diverso da quelli moderni. Bisogna anche dire che tra quelli antichi ha sempre prevalso la definizione dell’essere fornitaci da Aristotele. Quindi di fatto quando si parla di ontologia si tende a parlare del suo intendimento dell’«essere». E con quest’ultimo è stato inteso soprattutto l’essere esteriore, ossia quello mondano ed universale che si trova al di fuori della coscienza e tuttavia resta comunque alla sua portata. Ma intanto per il pensatore greco l’«essere» era sì ciò che esiste tutt’intorno a noi, però lo era soprattutto come ciò che esiste realmente, ovvero indubitabilmente (per quanto sia qualcosa di inafferrabile). E la realtà veniva allora interamente intesa come ciò che è più conoscibile ossia ciò che è più vero. Allora tuttavia la conoscenza più vera era quella «meta-fisica», e non invece quella «fisica». Era cioè quanto era possibile conoscere solo andando oltre quanto i sensi (la percezione dei nostri organi sensoriali) ci suggeriscono come reale. Tommaso e la Scolastica finirono poi per identificare l’«essere» più reale possibile (l’”Ens realissimus”) con Dio in persona (specie in relazione al concetto di mondo volontariamente creato).
E su questa falsariga l’ontologia è andata avanti per secoli almeno fino a Cartesio, a partire dal cui pensiero la filosofia ha iniziato poi ad interessarsi molto più di ciò che esiste dentro di noi (la coscienza e l’Io conoscente-pensante) che non di ciò che esiste dentro di noi. Essa ha insomma iniziato a disinteressarsi sempre più di quell’antico concetto di essere che comunque era stato sempre considerato prevalentemente esteriore. Con gli empiristi e Kant infine l’ontologia finì per venire addirittura condannata come campo di pensiero nel quale venivano presi in considerazioni solo oggetti irreali. Emblematico per questo è stato il concetto di «sostanza», che da Aristotele in poi era stato considerato l’essere invisibile ma realissimo che sorregge l’esistenza delle cose. Era nato con ciò l’orientamento prevalentemente «idealistico» della filosofia, ossia la sua convinzione che la realtà (ossia di fatto l’essere stesso) può venire colto solo in quanto conosciuto. Il che richiedeva l’azione indispensabile di un soggetto cosciente-pensante-conoscente, ossia il nostro Io. Cosa che poi poneva in primo piano in filosofia la «teoria della conoscenza» in luogo della questione e realtà dell’essere.
Da allora in poi un lungo oblio ha seppellito l’ontologia facendo credere agli uomini che essa non sarebbe risorta mai più. Naturalmente lo stesso oblio ha seppellito la metafisica, che all’ontologia era stata sempre intimamente congiunta. Infatti non a caso (come abbiamo visto) essa si era intrecciata fino dall’inizio con il concetto di essere entro una conoscenza che aveva l’ambizione di cogliere l’invisibile, ossia l’ultra-sensibile.
Ma di questo oblio fu infine responsabile soprattutto il Positivismo, con la sua idea secondo la quale non vi è alcun «essere» ma vi è solo la realtà mondano-universale conosciuta in primo luogo dalla scienza (e precisamente per mezzo degli esperimenti permessi dagli strumenti tecnici). Bisogna anche dire che, da questo momento in poi, la scienza empirica (sperimentale) stessa si è eretta come un angelo dalla spada di fuoco per impedire agli uomini di tornare all’ontologia.
Eppure questo veto non ha avuto effetto. Perché a partire dal XX secolo (e con diverse premesse già nel XIX secolo, come quella del nostro Antonio Rosmini) in modo davvero stupefacente l’ontologia riappariva in filosofia. Il che avveniva ovviamente soprattutto nel contesto di una generale e violenta reazione al Positivismo. In altre parole i filosofi ricominciarono a chiedersi cosa fosse mai quell’invisibile e pur tangibile «quid» esistente dietro le cose, ossia ciò che fa sì che le cose esistono. Insomma era ridiventata stupefacentemente di nuovo del tutto attuale la domanda squisitamente metafisica circa il «cos’è l’essere?». E con ciò era rinata di fatto anche la metafisica.
È comunque evidente che – in seguito all’accumulo nel tempo di una grande mole di conoscenze filosofiche e scientifiche, e tutte estremamente pragmatiche − l’ontologia non poteva più rinascere nella sua forma antica. Eppure, però, essa rinacque non solo nella mente dei filosofi ma anche nella mente dei teologi.
E per questi ultimi (dopo la lettera enciclica “Sapientae Christianae” di Papa Leone XIII nel 1890) essa rinacque esattamente nella sua forma antica, ossia quella scolastica di ispirazione aristotelica. Dato che essa aveva continuato intanto ad essere equivalente alla conoscenza dogmatica del mondo che la Chiesa cattolica aveva conservato disinteressandosi quasi completamente della filosofia e soprattutto della scienza. Intanto comunque diversi filosofi credenti si conformarono a questa nuova e vecchia forma dell’ontologia. Il loro numero è molto grande, e la relativa scuola di pensiero assunse il nome di “neo-scolastica” o “neo-tomismo” (con esponenti in tutti i paesi del mondo). Ma tra loro bisogna nominare notissimi pensatori come Jacques Maritain e Edith Stein (sebbene la loro ontologia fu per diversi aspetti notevolmente diversa) ed infine Erich Przywara e Romano Guardini.
Il fatto interessante è però che l’ontologia rinacque anche in altre forme, ossia forme non-teologiche.
E non pochi furono i filosofi che si allinearono su questa forma non teologica ed a-religiosa della riflessione sull’essere. Uno dei più noti tra loro fu senz’altro quel Martin Heidegger, secondo il quale non si doveva parlare più assolutamente di «essere» ma invece solo di esistenza, ossia del cosiddetto «esser-ci» (“Dasein”: «essere-qui») che poi corrispondeva all’uomo esistente. Ecco dunque insorgere una seconda dicotomia entro la nuova filosofia dell’essere o ontologia (dopo quella causata dalla teologia), e cioè quella che fece nascere la «filosofia dell’esistenza» o «esistenzialismo». Eppure essa ebbe l’ambizione di lasciare di fatto ancora nell’oblio il concetto di «essere» portando in primo piano solo quello di esistenza. Nemmeno così però il concetto di «essere» sparì dall’ambito di interesse dei filosofi. Ed ecco che ci approssimiamo finalmente al campo al quale appartenne la riflessione di Lavelle.
Questi filosofi vollero insomma continuare a pensare all’«essere» come ad una realtà tanto invisibile quanto innegabile e perfino tangibile, ossia come l’elemento entro il quale tutto esiste. Anche qui i nomi da fare sarebbero moltissimi. Ed anche in questo campo ci si sono da fare molte differenziazioni nella definizione dell’«essere». Ma io mi limiterò a menzionare soltanto Nicolai Hartmann, Karl Jaspers, Nicolaj Berdjaev e appunto Louis Lavelle.
I primi due ebbero una visione del tutto a-religiosa dell’«essere». Eppure vi è una sensibile differenza tra il primo, Hartmann (per il quale l’essere coincide con non nient’altro che il mondo reale in tutte le sue forme, ossia quel mondo che filosofia e scienza possono indagare senza nemmeno entrare in conflitto tra loro), e il secondo, Jaspers (per il qual l’essere è l’”avviluppante” invisibile di ogni cosa, che sussiste indubitabilmente ma si trova del tutto al di fuori della nostra portata, ossia il totale ”Oltre”; e quindi può venire colto solo dalla metafisica). È evidente la differenza che vi è tra questi due concetti di «essere». Quello di Hartmann coincide infatti con la Totalità di cose e concetti esperibile del mondo, e quindi non è altro che quanto sperimentiamo tanto nell’esperienza esteriore che interiore. Per Jaspers, invece, l’«essere» è e resta qualcosa di inafferrabile e misterioso (esattamente così com’era nell’antica onto-metafisica),e sulla cui natura quindi siamo costretti a restare assolutamente muti.
Ebbene in tal modo la dimensione del mistero dell’«essere» si rivela costituire così la terza grande dirimente della moderna ontologia. E non c’è bisogno di dire che (si sia o meno religiosi), una volta inteso l’«essere» a questo modo, è di nuovo estremamente prossimo il suo intendimento come Dio. Ecco che, esattamente come era avvenuto nell’antica ontologia (specie cristiana e scolastica) è ri-emerso il concetto di Dio-Essere; ossia di Dio come la forma più alta, estesa, profonda, inafferrabile e indicibile dell’«essere».
È evidente che non si tratta di altro che di quell’«esistenza di Dio» che la Scolastica aveva troppo semplicisticamente identificare con l’universo (il mondo creato) e che Agostino prima e Cartesio poi avevano molto più acutamente identificato con la Sua presenza nella nostra interiorità animico-spirituale.
E bisogna dire che anche Edith Stein (nonostante il suo allineamento all’antica onto-metafisica scolastica) aveva inteso l’esistenza divina in questo modo (specie ispirandosi ad Agostino; ma, per l’intermediazione di Alexandre Koyré, anche a Cartesio).
Comunque è chiaro, in questo più generale riconoscimento dell’«essere» come mondo, ovviamente la moderna ontologia laica coincide in molti aspetti con quella religioso-teologica (com’è riconoscibile in Maritain, Stein, Przywara e Guardini). Ora però, se Berdjaev ha certamente inteso l’«essere» come Dio, ma soprattutto nella forma di un’inesauribile e possente potenza creativa che non cessa di generare il «nuovo», Lavelle invece lo ha inteso come Essere, ma soprattutto come la Totalità inesauribile, eterna, omni-presente, avvolgente, inafferrabile e soprattutto totalmente misteriosa, nel cui seno tutto esiste. Insomma, senza ricorrere affatto ai concetti e strumenti dell’antica onto-metafisica (specie l’intendimento aristotelico-tomistico dell’essere come puro concetto), egli ha di fatto restaurato l’antica concezione metafisica dell’«essere». Ed in questo modo ha permesso a tutto di noi di supporne indubitabilmente la presenza schiacciante dietro ogni cosa ed ogni evento. In particolare nel tenere presente che tutto il mondano-universale (ossia cose e individui) non sono altro che parti finite che certamente non sussisterebbero se non ricevessero costantemente il “dono” dell’essere che l’«essere-quale-Dio» elargisce loro (amorosamente e misericordiosamente).
Tuttavia, per tornare alle antiche definizioni di «essere», Lavelle fa emergere la più forte di esso (in quanto immediatamente intuitiva), ossia quella di Parmenide – l’essere non è altro che «ciò che è» in quanto diverge radicalmente dal Nulla. E fino al punto che il Nulla stesso non è assolutamente in grado di minacciarlo, dato che in definitiva rientra inevitabilmente in esso (infatti l’affermazione di qualcosa di negativo è pur sempre l’affermazione di un «qualcosa»). È evidente la straordinaria forza che ebbe questa definizione di Parmenide, che ancora oggi si oppone quindi a quella (ben più intellettualistica e sfumata) di due tra i maggiori geni della filosofia, ossia Platone ed (un po’ meno) Aristotele.
Orbene, è evidente che ciò ci permette di intendere la nostra esistenza e quella del mondo come dotate di un senso che nessuna visione filosofica non-ontologica ci consente di fare. Il che implica inoltre anche la possibilità (della quale Lavelle parla esplicitamente) di vivere la nostra vita nella prospettiva prevalente dell’eternità (ossia l’immortalità della nostra esistenza animico-spirituale), nel rapporto costante ed intimo con Dio, ed infine rinunciando alla schiavitù al tempo ed allo spazio (che sono null’altro che forme parziali dell’«essere»), ossia soprattutto la schiavitù verso cose ed eventi mondani (inclusa ovviamente l’ossessione per il possesso e per il successo).
Per questo consiglio a chi senta la voglia e la forza per farlo di leggere senz’altro l’estremamente illuminante libriccino di Lavelle dal titolo “De l’être”.
Naturalmente il pensiero di Lavelle è estremamente più complesso e profondo di quanto emerga in questa mia estrema sintesi. Per cui il mio prossimo lavoro filosofico (a Dio piacendo) sarà un’analisi delle prevalenti forme moderne dell’ontologia

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(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Nello studioso di sapienza esoterica insorge molto forte la tentazione di considerare come unica valida ed autentica l’ontologia puramente dinamica. In essa l’Essere sussiste solo in quanto diffuso lungo la linea dello sviluppo recante dal Principio divino originario fino all’individuo determinato che emerge al termine di questo processo. Esso si presenta insomma unicamente come un flusso e non invece come un «qualcosa». In questo modello dottrinario l’Essere sarebbe quindi il contrario esatto della stabilità, contraddicendo così in primo luogo l’impressione (definita dai filosofi come «ingenua») che noi abbiamo di esso nella nostra esperienza quotidiana e nel corso della nostra esistenza. È evidente che in questo modo noi assimiliamo mentalmente l’Essere allo spazio ed all’estensione, riservando il dinamismo soltanto per il tempo. Al quale viene attribuito il nome di «divenire» ed al quale si ha difficoltà ad attribuire lo statuto di ontologia.
Non a caso vedremo più avanti che il tentativo filosofico heideggeriano di identificare temporalità ed essere viene considerato come il prodotto di questa dottrina onto-dinamistica.
Inutile dire comunque che questa questione ha attraversato l’intera filosofia. Agli inizi del pensiero greco infatti Anassimandro (nel concepire il divenire come polarizzazione degli opposti di un dio totalmente indefinito) ed Eraclito [Alessandro Lami (a cura di), I presocratici, Rizzoli Milano 2008, p. 129-139, 198-223] identificarono l’Essere proprio come dinamismo per poi venire controbattuti da Platone. Secondo il quale non era concepibile alcuna forma di autentica realtà che non fosse assolutamente stabile – e ciò sia a livello trascendente (Uno) che a livello immanente, e al livello dell’Essente. Il divenire infatti era per lui caratterizzato da una mutevolezza dell’Essente che ne rendeva impossibile fissare e determinare l’essenza della cosa, e conseguentemente conoscerla. Pertanto a suo avviso il far equivalere l’Essere al flusso inarrestabile del divenire generava un che di assolutamente indifferenziato e indeterminato rispetto al quale non era possibile alcuna conoscenza. E questo significava che non si poteva nemmeno essere certi della sua esistenza.
Ma subito dopo di lui venne Aristotele che – osservando la Natura proprio come avevano fatto Anassimandro ed Eraclito – considerò come perfettamente concepibile l’Essere dinamico in quanto processo di formazione dell’Essente a partire dalla sua originaria pura possibilità di essere, o potenza (“dynamis”) fino alla sua realtà individuale e determinata, o atto (“enérgheia”). Si tratta della famosa dottrina della potenza-atto che poi si sarebbe affermata come un caposaldo dell’ontologia.
Questo non significa però affatto che l’ontologia debba essere necessariamente dinamica. Infatti, al di là di questo, Aristotele elaborò in modo molto preciso il concetto di Essere considerandolo ciò che comunque sta al di sotto di questo movimento costituendo così ciò in cui assenza nulla può sussistere – né in quanto essere statico né in quanto essere dinamico. In questo senso quindi l’ontologia aristotelica fu solo apparentemente dinamica. Anzi essa costituisce il punto di riferimento di ogni ontologia staticista proprio nel porre al centro dell’attenzione l’Essere definito metafisicamente (che poi trovava la sua espressione nella «sostanza prima» o «ousía», corrispondente all’essenza platonica) che è da considerare come la realtà che, una volta ignorata, rende impossibile concepire qualunque genere ontologia. In altre parole, grazie alla riflessione aristotelica, noi sappiamo che, prima ancora di decidere se l’Essere sia statico o dinamico, dobbiamo concepire l’Essere come possibilità del «qualcosa». Ed esso è senza ombra di dubbio unicamente statico.
Individuare poi quali pensatori successivamente concepirono un Essere dinamico significherebbe fare un lunghissimo e corposo excursus entro in tutta la filosofia fino ai giorni nostri. Cosa evidentemente impossibile nello spazio di questo articolo. Per cui ci limiteremo a menzionare alcuni nomi di pensatori che concepirono l’Essere in questo modo nel corso del tempo: − sostanzialmente (tra gli altri) il Neoplatonismo (specie di Proclo), Eckhart e Heidegger.
Ma non vi è dubbio che il contesto di pensiero in cui l’onto-dinamismo è stato affermato in modo più deciso è stato certamente la Cabbala.
Per quanto ci riguarda abbiamo nel passato tentato di dare un volto all’ontologia dinamica in alcuni articoli che si servivano per questo della visione di alcuni pensatori in particolare, ma soprattutto sulla base della Cabbala [Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68]. Ed in essi abbiamo dunque preso proprio la Cabbala come modello dottrinario per un’ontologia dinamica. E va detto che le cose stanno effettivamente così. A quel tempo avevamo nel complesso ritenuto troppo artificioso ed irrealistico (dal punto metafisico) il concetto statico di «essere» fino a considerarlo del tutto destituito di fondamento nel momento in cui si tenta di concepire un’ontologia. Specie in quanto esso era stato posto al centro dell’ontologia dalla Scolastica (ispirata da Aristotele) in relazione alle esigenze dogmatiche della teologia cristiana interessata a fornirci di Dio l’immagine del trascendente creatore dell’Essere universale. Il che stava poi in relazione agli studi che avevamo compiuto sull’onto-metafisica tradizionale recuperata da Edith Stein e riproposta in un realismo che intendeva superare l’oblio dell’ontologia verificatosi da Cartesio in poi e perpetuata da una lunghissima tradizione idealistica. Oggi ci siamo avveduti che invece le cose stanno in maniera esattamente opposta – l’unico modo per concepire una vera ontologia è quella di considerare l’Essere come statico e non come dinamico.
Su questa base recentemente però ci siamo imbattuti in tre generi di ricerca molto diversi tra loro, e cioè quella di Nicolai Hartmann [divisa nelle opere dal titolo “Neue Wege der Ontologie” (NWO), ”Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO), e ”Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941; Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982] – che ha appunto reintrodotto l’ontologia in filosofia proprio come Stein], quella di Julio Meinvielle dal titolo “L’influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano” (IGEAC) [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1995] e quella di Pietro Vassallo dal titolo “La restaurazione della filosofia” (RF) [Piero Vassallo, “La restaurazione della filosofia”. Appunti per una storia della metafisica nell’epoca moderna, C:/Users/admin/OneDrive/Desktop/Libro%20-Pietro%20Vassallo%20-%20METAFISICAE%20MODERN%20-%20TOMISMO.pdf].
L’opera di Meinvielle critica sostanzialmente la dottrina cabalistica in relazione all’onto-metafisica cristiana tradizionale, mentre quella di Vassallo sostiene la necessità di reintrodurre in filosofia l’ontologia tomista e cristiana. Ed allora abbiamo compreso che il concepire un’ontologia dinamica ha implicazioni che vanno ben oltre la questione filosofico-metafisica in sé, investendo anche i campi della cultura, della religione e dell’etica. Ci siamo accorti infatti che la Cabala di fatto rende impossibile concepire un’effettiva ontologia, e che quindi l’ontologia dinamica non può venire considerata in alcun modo l’ontologia nella sua pienezza, anzi deve venire considerata una non-ontologia. E questo (come vedremo nelle conclusioni) ha appunto rilevanti conseguenze in vari campi.
Ma come si può vedere uno degli indicatori più sensibili di tali conseguenze resta la visione cristiana dell’Essere, dell’uomo e del mondo. Infatti le due ultime opere che abbiamo considerato sono due opere apologetiche scritte a difesa del Cristianesimo. E se la prima si occupa solo della Cabbala e della Gnosi, senza mai nemmeno porre il tema dell’ontologia, la seconda invece pone questo tema esplicitamente ma sempre in relazione alla difesa del Cristianesimo. Tuttavia, nonostante abbia altre intenzioni, Meinvielle ci descrive di fatto l’onto-dinamismo cabbalistico.
Per questa serie di motivi il testo che più terremo presente in questo articolo soprattutto sarà proprio il suo IGEAC. Anche esso se è un testo molto istruttivo solo nella misura in cui è intanto estremamente settario e ristretto nel punto di vista che lo anima. La tesi di Meinvielle è infatti che Cabbala e Gnosi insieme avrebbero congiurato fin dai tempi remoti (già dal tempo di Mosé) contro il Cristianesimo per distruggere la civiltà e cultura da essa generata. La tesi di Vassallo (RF) sottolinea invece esclusivamente la necessità dell’onto-metafisica tradizionale per una visione che sia veramente in linea con una filosofia cristiana. Pertanto questo testo ci servirà per completare alcune argomentazioni di IgEAC.

1- I tratti fondamentali di una vera ontologia.
Per trattare questo tema ci serviremo in particolare dei testi di Hartmann NWO, GZO ed ELO.
Ora il pensatore tedesco non è stato assolutamente un filosofo cristiano, per cui la sua ontologia non reca affatto i tratti di questa visione filosofica né reca alcun tratto religioso. E peraltro essa sta in deciso conflitto con l’onto-metafisica tradizionale (iniziata con la Scolastica), che, come ben sappiamo, fu decisamente cristiana. La ricerca di Hartmann ha comunque il grande merito di aver fatto risorgere l’ontologia dopo che essa era stata seppellita totalmente dalla filosofia moderna di stampo sostanzialmente idealistico, che era iniziata da Cartesio e che aveva assunto la forma prevalente di una teoria della conoscenza. Per essa insomma è possibile accedere all’essere solo per la via della conoscenza (o anche della coscienza) – ossia ad opera del soggetto. Ma questo è avvenuto unicamente in maniera problematica e critica, ossia per mezzo di una forte messa in discussione dell’ovvietà del sussistere dell’Essere, la cui esistenza è stata quindi condizionata decisamente agli atti del soggetto ed ai contenuti di coscienza.
In questo modo quindi è stata fatta praticamente svanire soprattutto quella presa di posizione ingenua e quotidiana (quella dell’uomo comune esistente, che Hartmann definisce “naturale”) che del tutto giustamente ci fa apparire l’Essere come la più ovvia delle cose, ossia ciò in cui siamo indubitabilmente immersi nel corso della nostra esistenza come in una realtà assolutamente statica che ci trascende e soprattutto ci precede, ossia costituisce lo spazio in cui noi viviamo fin al primo momento del nostro venire al mondo. E bisogna dire – ad onta di tutte le pretese dell’idealismo da Cartesio in poi – che ciò è l’unica cosa al mondo che sia davvero indubitabile. Il resto è tale solo sulla base di pregiudizi. Cosa che Hartmann pone in evidenza con molta forza, sottolineando la natura unilaterale della presa di posizione idealistica rispetto alla Realtà – essa infatti non è altro che un’arbitraria visione del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54].
Non a caso una delle più forti affermazioni di Hartmann a favore dell’ontologia è quella secondo la quale l’Essente è “più antico” di qualunque oggetto generato dall’atto conoscitivo, ossia quell’oggetto che fronteggia la coscienza (come “Gegenstand”) per poi venire trasformato in “oggetto di conoscenza” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., ., Einleitung 11 p. 16-19, I, I, 1 ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54, II, III, 9 p. 77-83, II, III, 10b p. 84-85, II, I, 12c p. 96-97, II, III, 20bc p. 141-146, II, I, 12c p. 96-97, III, I, 22ab p. 151-153, III, I, 23 p. 156-162, IV, II, 42d p. 271-273; Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., IV p. 24-33]. Ed a ciò egli aggiunge che l’Essente è del tutto indifferente verso qualunque forma assunta da quest’ultimo, ossia sussiste in maniera assolutamente primaria e indipendente da qualunque condizionamento soggettuale [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., V p. 34-39].
Ecco, senza entrare entro gli aspetti estremamente complessi dell’ontologia di Hartmann − che abbiamo comunque esaminato ultimamente da diversi punti di vista [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann”, in: < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>; Vincenzo Nuzzo (*), “Nicolai Hartmann. Ontologia e conoscenza. La rinascita dell’essere”., in:
< https://cieloeterra.wordpress.com/2023/11/11/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-ontologia-e-conoscenza-la-rinascita-dellessere/ >] – queste due affermazioni pongono l’ontologia in una maniera così forte che è davvero difficile dubitare di ciò che essa sostiene. E peraltro l’argomento dell’antichità dell’essere rinvia inevitabilmente anche ad una sua concezione religiosa, e precisamente all’atto creativo divino. E dal punto di vista filosofico ciò pone il primato indubitabile del realismo.
Hartmann comunque (non condividendo alcuna concezione metafisico-religiosa) pone l’Essere (e precisamente l’Essente) come equivalente alla complessiva struttura del concreto mondo reale.
Ma intanto pone quest’ultimo come quel “contesto” (“Zusammenhang”) nel quale sussistono tutte le forme di Essere sulle quali ha speculato la filosofia, incluso quell’”essere ideale” che corrisponde in parte all’essenza ideale (posta per primo da Platone) ed in parte alla conoscenza stessa in quanto forma a priori in assenza della quale l’Essente manca del suo aspetto primario ossia l’«è», e quindi la sua determinazione stessa. Quest’ultima realtà infatti sussiste per noi uomini solo se siamo in grado di ri-conoscere ciò che abbiamo davanti, e quindi solo se siamo in grado di definire quel vago «qualcosa» che ci fronteggia nel mondo. In tal modo dunque noi diamo ad esso un nome, che a sua volta corrisponde ad un’essenza, e quindi ad un’idea o concetto. Hartmann definisce tutto questo come “obiettivazione” dell’Essente (corrispondente al suo intendimento come “Gegenstand”), ma di nuovo ribadisce che l’atto conoscitivo qui implicato non cambia assolutamente nulla nel suo sussistere assolutamente primario.
Questa insomma può venire considerata un’ontologia schietta e sobria, ossia coincidente con il mondo reale senza alcun bisogno di fare nemmeno ricorso a concetti metafisici come quelli che costituiscono l’intera ontologia tradizionale e cristiana, ossia quella di stampo scolastico. Vi manca per esempio totalmente quel concetto di “sostanza” senza il quale l’antica ontologia non osava nemmeno affrontare la realtà del mondo. E la sostanza non è altro che l’Essente metafisicamente compreso, ossia sussistente sulla base di quell’Essere che è anch’esso una realtà spiegabile in maniera unicamente metafisica – e cioè come il sussistere di «qualcosa» in luogo del nulla.
Ma in fondo lo stesso Hartmann ammette molto alla lontana questo concetto metafisico dichiarando che l’Essente è e resta qualcosa di assolutamente inafferrabile conoscitivamente e quindi di fatto inconoscibile [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3ab p. 46-48]. La differenza dell’antica onto-metafisica rispetto a questa presa di posizione consiste proprio nel fatto che essa, invece, non intendeva rinunciare a conoscere e comprendere la natura profonda dell’Essere (come realtà effettiva ed anche concettuale). Tuttavia ovviamente per poter fare questo doveva scendere nelle profondità metafisiche di tale realtà, ripercorrendo peraltro il cammino che si dipana dal suo primo insorgere fino alla realtà esperibile sensibilmente. Essa insomma sentiva il bisogno di accoppiare il concetto di Essere a quello di una Causa originaria del tutto nascosta alla vista ed anche irraggiungibilmente remota. Si tratta insomma dell’idea di Dio come Causa e come paradigma di ogni Essente. Dunque, entro l’onto-metafisica antica, l’Essere veniva associato strettamente all’esistenza divina. Ma questa associazione manca totalmente nell’ontologia di Hartmann, il quale rinuncia di fatto ad interrogarsi sulla natura ultima dell’Essente, dichiarando che esso sconfina senz’altro in una dimensione metafisica che però l’ontologia iper-realista da lui posta non ha alcun bisogno di indagare. Infatti per lui le “categorie dell’essere” (ossia quei grandi contesti di essere che permettono di raggruppare le singole cose ed eventi dando ad esse un volto unitario) sono totalmente deducibili dal mondo reale, e quindi non richiedono l’apporto di alcuna conoscenza metafisica (NWO).
Ma comunque ecco davanti a noi ciò che può venire considerato come una vera ontologia – che essa venga concepita in maniera religiosa o meno. Ed in termini filosofici essa deve venire considerata equivalente a un generico realismo. Questi insomma sono i tratti essenziali di quella che è una vera ontologia.

2- Cabbala e ontologia.
Una volta posta questa immagine dell’ontologia dobbiamo però restringere il nostro campo di indagine. La Cabbala infatti non contestava affatto l’esistenza del mondo reale né ne discuteva criticamente la sua struttura oggettiva. Al massimo essa si interrogava sulla sua necessità etica, dato che vedeva chiaramente nel mondo il male per eccellenza.
Per il resto essa si interrogava sulla natura ed origine dell’Essere esattamente come fa l’onto-metafisica cristiana, e quindi concepiva almeno una tendenziale relazione tra Dio ed Essere.
Vedremo quindi se l’ontologia a-religiosa debba venire eventualmente esclusa dall’impossibilità dell’ontologia che secondo noi scaturisce dalla Cabbala.
E veniamo quindi al testo di Meinvielle.
Dal punto di vista religioso il fatto fondamentale è che tanto le Scritture cristiane quanto quelle ebraiche fanno riferimento all’atto creativo divino originario rappresentato dalla creazione di Adamo. E (almeno in via di principio) la Cabbala in questo non è da meno, dato che anch’essa si è riferita fin dall’inizio a questo atto ed al suo frutto ossia il primo uomo Adamo [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 17-21]. E secondo l’autore lo fece peraltro elaborando contenuti dottrinari (sostanzialmente una “tradizione orale”) che conteneva già concetti metafisici cristiani (tra i quali la Trinità e la figura del Cristo quale Figlio). Peraltro era qui prevista anche una scienza di altissimo livello (in possesso di Adamo, e quindi teoricamente di ogni uomo) che consisteva nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri. Sussisteva insomma già una Gnosi, che però non aveva nulla di anti-cristiano. Essa però era limitata alla facoltà della Ragione concessa da Dio all’uomo. Proprio per questo, entro la sua suprema capacità conoscitiva, l’uomo era sottomesso a Dio (alla sua Grazia) e non concepiva assolutamente un’ascesa autonoma al divino che fosse in concorrenza con Dio. Per l’Autore si è in tal modo delineata quella “Cabbala buona” (in perfetta con le verità cristiane) che poi si sarebbe affiancata al Talmud, e cioè all’esposizione del culto divino come osservanza della Legge. Ed è estremamente probabile che essa abbia concepito anche il Dio-Essere. Tanto è vero che, come poi vedremo, entro le sue evoluzioni successive, la Cabbala tenne fortemente presente l’affermazione di Dio stesso circa la propria natura di Essere, e cioè l’”Eyeh”, ossia quell’”Io sono Colui che sono” (pronunciato nell’Esodo) che secondo Beierwalters non è altro che l’affermazione divina stessa circa la propria natura di Essere [Werner Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2004, I-V p. 5-82]. In altre parole è Dio stesso ad affermare la necessità assoluta di un’ontologia.
Comunque nel complesso in questa fase siamo di fronte ad una Rivelazione divina che non solo non differenza affatto Ebraismo e Cristianesimo, ma inoltre si presenta anche con alcuni dei caratteri di quella Sapienza che poi i moderni pensatori tradizionalisti avrebbero indentificato come Scienza Sacra originaria ed universale [René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 15-59; Swami Sri Yukteswar, La scienza sacra, Astrolabio, Roma 1993, p. 31-57; 107-117; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988; LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 7-79; Luc Brisson, Neutrum utrumque. La bisessualità nell’antichità greco-romana, in: A. Faivre & F. Tristan (a cura di), Androgino, ECIG, Genova 1991, p. 58-60; Elemire Zolla, L’Androgino alchemico, ibd., p. 196; Pierre Deghaye, L’uomo virginale secondo Jacob Böhme, ibd., p. 205-230; Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995, p. 79-85]. In tal modo essa trascenderebbe tutte le Rivelazioni connesse a teologie specifiche e conterrebbe tutte le maggiori Verità metafisiche. Verità divine che l’uomo può conoscere non essendo costretto a limitarsi, nella relazione con Dio, alla sola fede cieca.
Mainvielle pone però in evidenza il progressivo divergere di questa tradizione orale ad opera dei “dottori” (precursori di Farisei e di altri sapienti settari ed esoterici) i quali sequestrarono il relativo sapere in sette élitarie (e spesso segrete) che escludevano la massa dei fedeli [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 20-23]. Questa Sapienza si sarebbe poi evoluta (in maniera sostanzialmente negativa e deviante) passando per varie fasi ed arrivando fino ai giorni nostri, ed inoltre passando da orale a scritta: − 1) una prima fase oscura in cui l’Ebraismo assorbì contenuti religioso-metafisici di tutti i popoli pagani orientali (specie gli Egizi e i Caldeo-Babilonesi); 2) una seconda fase rappresentata dagli scritti di Yochanàm ben Zakkày (nata I secolo a.C. e poi evolutasi fino al V-VI secolo d.C.); 3) una terza ed estremamente lunga fase che ha come centro e base il “seper-ha Zohar” di Mosè de Leòn (e che pare avrebbe ricevuto la sua sistematizzazione intorno al XII-XIII secolo d.C.); 4) una quarta fase rappresentata dalle fantasiose elaborazioni teosofiche rinascimentali, ed in particolare quella di Isak Luria.
Non vi è dubbio che lo Zohar rappresenta il cuore e centro di tutta la Cabbala. In ogni caso fin dall’inizio esso cominciò a presentare elementi gnostici che secondo l’autore sono di paternità primariamente giudaica (prima che cristiana), così che secondo lui, nel corso del tempo e delle varie elaborazionim Cabala e Gnosi finirono per coincidere quasi completamente. Va sottolineato però che la Cabbala lurianica (e quella simile, come ad esempio quella di Codovero) va considerata quella più lontana possibile dalla Rivelazione, in quanto basata sostanzialmente su una serie di riflessioni filosofico-teosofiche e metafisiche che decisamente sconfinerebbero nella pura fantasia.
Ecco dunque il contesto nel quale si sono formate le premesse dottrinarie necessarie per poter esaminare la possibilità di un’ontologia entro la Cabala.
Partiamo allora dalla prima delle idee metafisico-religiose in essa maturate, e cioè quella sviluppata sulla base del primo capitolo del Genesi (Ma’ asé Bereshit) ed inoltre del primo capitolo di Ezechiele (quello contenente la famosa visione del Carro). Siamo insomma esattamente alle origini dell’Essere. Questa idea è quella della Merkaba, ambiente divino del tutto simile allo gnostico Pleroma, e quindi realtà composta di esseri spirituali come gli Eoni [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 28-30]. Questa fu un’idea maturata nei circoli farisaici prima ancora del Sefer-ha Zohar di Mosè de Leòn. E tale dottrina contemplava anche la creazione divina per mezzo delle lettere dell’alfabeto ebraico, ossia le Sephiroth (che corrispondono chiaramente alla Parola o Verbo). E su questo si iniziò peraltro a concepire tutta una prassi teurgica che mirava all’ascesa intellettuale del tutto autonoma (ancora una volta tipicamente gnostica al divino), oltre che ad influenzare la creazione divina (a favore dell’uomo con mezzi magici) dato che Dio stesso era considerato creatore in quanto Mago. Nel complesso, sottolinea Meinvielle [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, I p. 24-26], in ciò possiamo constatare un allontanamento dalla tradizione primordiale che seguiva il principio demoniaco del “sarete dèi” unito al “non serviam”. E questo ci riporta alle profonde riflessioni fatte su questo da Dostoevskij nel considerare la libertà umana come la causa primaria del male [Nikolaj Berdjajew, Das Ich und seine Objekte, Holle, Darmstadt 1951, IV, 3 p. 191-194; Nikolaj Berdjaev, La concezione del male in Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, I, p. 8-25, I p. 32-35, I p. 40-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-81, V p. 85-93, VI p. 104-109, VIII p. 160-166; Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995 I, II, p. 88-110, II, I, p. 113-131].
In altre parole lo Gnosticismo (distinto dalla del tutto legittima Gnosi sia nell’Ebraismo che nel Cristianesimo) si presenta come un appoggio dottrinario potentissimo ad un atteggiamento umano negativo (in quanto anti-divino) che risale fino allo stesso Peccato originale, e quindi rappresenta perfettamente la ribellione dell’uomo a Dio e la separazione da Lui. Inoltre con ciò il peccato inizia a mostrarsi essere anti-divino in quanto chiaramente conoscitivo. E quindi finisce per assomigliare in maniera impressionante alla presa di posizione filosofico-idealistica moderna (sicuramente di stampo gnostico) che, proprio concentrandosi sulla teoria della conoscenza, ha finito per distruggere completamente l’ontologia. Ontologia che, invece, come abbiamo visto, era voluta espressamente da Dio stesso. E questo viene confermato peraltro dai riflessi cabbalistico-gnostici che Meinvielle (sebbene esagerando in severità ed anche in genericità dell’accusa) riconosce praticamente in tutta a filosofia moderna [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo…cit., I, VIII p. 96-101, I, IX p. 102-106, I, X p. 107-115].
Questo è comunque senz’altro un primo indizio per la costituzionale avversione della Cabbala all’ontologia, e quindi dell’impossibilità di concepire un’ontologia nel suo contesto.
Ma il primo dei momenti decisivi di questa tendenza viene quando iniziamo ad esaminare la dottrina dello Zohar [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, II, I, 4 p. 33-35]. Qui infatti si delinea un supremo mondo divino (costituito dai “tre splendori supremi”: − dall’En-Sof, dall’Adam Kadmon (corrispondente all’’Hochmah) e dall’Intelligenza, o Binah, corrispondente più o meno alla Sapienza divina femminile o Sophia). Il resto del mondo (costituito dalle dieci Sephiroth) è infinitamente separato da questa sfera suprema, ma configura intanto il mondo vero e proprio, ossia il mondo fisico e materiale. Ebbene la dinamica che produce il mondo supremo è propriamente emanazionistica, mentre quella che produce il mondo reale è invece propriamente creativa. Ma con l’emanazione di delinea quella continuità di essere che inevitabilmente lega il mondo divino a quello immanente portando il divino stesso in quest’ultimo. Pertantro questo della continuità (indissolubilmente legata all’emanazione) è senz’altro uno degli elementi più decisivi dell’intera dottrina.
Infatti si assume qui che, essendo Dio unità, le dieci Sephiroth del mondo (che sono di fatto gli attributi divini) non sono separati da Lui e quindi di fatto devono spostare totalmente Dio nell’immanenza. La continuità (quale carattere dell’emanazionismo) non permette altra possibilità.
Il problema è insomma che l’intero processo inizia come emanazione e non come creazione. E da qui tutto dipende. A causa di questo, infatti – per quanto grande possa essere la distanza tra il mondo divino supremo e quello inferiore –, comunque essi sono strettamente uniti dalla continuità.
Ma nella Cabbala le cose non si fermarono affatto qui. Infatti, secondo Meinvielle; in essa iniziò poco a poco un’interpretazione decisamente “naturalista” dello Zohar (che ebbe come protagonista Mosè de Leòn e poi anche Alolf Franck e Gershom Scholem), nella quale lo schema appena esposto venne modificato per mezzo dell’inserimento in esso di un elemento metafisico decisivo, ossia la separazione dell’En-Sof da tutte le entità successive [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., , II, II p. 37-48]. Cosa che portò alla modifica dell’Albero sefirotico, che assunse pertanto la struttura tutt’oggi nota. Ma comunque il Dio più radicalmente trascendente (l’En-Sof), ossia il Dio nella sua pienezza, cominciò a venire concepito come l’Abisso stesso, e cioè un totale “Deus absconditus” (totalmente privo di attributi e pertanto inconoscibile ed irraggiungibile), e quindi coincidente totalmente con il Nulla. Esso insomma non era unito più nemmeno al mondo dei “tre supremi splendori” ed infatti li al suo posto come prima entità comparve Keter, la Corona.
Questo però ha delle inevitabili conseguenze concettuali. In primo luogo questo Dio supremo è tutto tranne che Essere. Tanto che corrisponde al Nulla stesso. Motivo per cui non può essere in alcun modo un Dio-Persona che sia oggetto di conoscenza e di amore, così come Egli stesso non può essere soggetto di amore. In secondo luogo un siffatto Dio non può assolutamente creare, nemmeno secondariamente (come avveniva prima), per cui l’atto emanazionistico si rafforza ancora di più e con esso la continuità diviene ancora più inevitabile. E se non fosse così questo Dio svanirebbe semplicemente nel nulla e con Lui svanirebbe anche ogni prospettiva religiosa.
Esso infatti, come abbiamo visto, è inconoscibile ed irraggiungibile. Insomma, entro tale visione, è come se Dio non ci fosse affatto. Ne consegue ovviamente che – grazie al solo schema emanazionistico e non a quello creativo (che esige invece una Presenza divina ontica e personale, ossia esige il Dio-Essere) – Dio può manifestarsi solo se si traspone totalmente nel mondo. Cosa per la quale Egli deve abbandonare necessariamente la sua vera natura e quindi deve non solo trasporsi nel mondo ma anche trasformarsi totalmente in esso. Ecco insomma chiaramente esposto l’inevitabile panteismo della Cabbala. Che però non rappresenta (come sembra a prima vista) la positiva impregnazione divina del mondo, ma rappresenta invece l’espressione della del tutto negativa nullità di Dio, e quindi l’affermazione della sua inesistenza.
Il senso della “Shekinah” nello Zohar è esattamente questo, ossia la totale immanenza divina. Laddove essa manifesta il disperato bisogno che Dio ha del mondo. Cosa che poi inevitabilmente coinvolge anche l’uomo facendo di esso un dio. E così il cerchio si chiude.
Effettivamente, come ipotizza Meinvielle, per mezzo dell’affermazione dell’immanenza divina, la Cabbala realizza perfettamente l’originaria tentazione demoniaca manifestatasi nel Genesi – l’uomo diviene dio senza alcun intervento della Grazia, e peraltro nella totale assenza di un Dio-Essere e di un Dio-Persona. Dio insomma non è né un «qualcosa» né è all’origine di un «qualcosa».
Meinvielle ce lo fa vedere in modo magistrale. In virtù di Dio come Nulla, infatti, il passaggio dal «nulla al qualcosa» avviene per un improvviso (inspiegabile e arbitrario) arrovesciamento dell’Abisso originario divino (Caos, o En-Sof) in qualcosa, attraverso il dispiegamento di ciò che fino ad allora era avviluppato (ripiegato) in sé stesso. E così il Nulla divino si trasforma di colpo in pienezza ma intanto resta nulla, un “nulla mistico”.
Ecco allora che il cruciale «perché qualcosa e non nulla» si spiega senza ricorrere assolutamente al concetto di Essere. Che diviene così del tutto secondario, rendendo in tal modo del tutto superflua l’ontologia. E non è che per questo sia cruciale l’identificazione dell’Essere con Dio. Ciò che è cruciale è invece, in alternativa, l’Essere originario (che anche Aristotele aveva concepito senza in alcun modo concepire un Dio personale). Dunque è in sua mancanza che l’ontologia si dissolve.
Il che vale pertanto sia per l’ontologia atea (come quella di Hartmann) che per quella religiosa.
Ma intanto ciò sottolinea non solo l’apparenza ma anche l’inconsistenza apparente del tutto gnostica del mondo (per quanto dichiarato formalmente divino). Infatti, dice l’Autore, in realtà quando nel mondo prendiamo contatto con il «qualcosa» creato, noi in verità prendiamo contatto con il Nulla divino senza il quale esso non sussisterebbe. Il che equivale a prendere contatto con il Nulla. Perché peraltro questo passaggio da Nulla a qualcosa avviene esclusivamente in Dio, e noi ne cogliamo appena i riflessi apparenti. Questo mondo nel quale pure Dio vive ha insomma i caratteri di una totale inconsistenza di essere. È insomma di fatto esso stesso è appena un nulla apparente. Ci troviamo di fronte ad un chiaro panteismo, ma esso appare molto meno grave rispetto alla dissoluzione dell’Essere alla quale intanto qui assistiamo.
Ecco quindi un chiaro secondo indizio per l’impossibilità dell’ontologia nella Cabbala. Ed essa appare qui in stretta relazione con il paradigma emanazionistico, che assume la sua formulazione più forte in relazione all’Abisso-Nulla divino. Carattere fondamentale dell’emanazione, infatti, è quello dell’erompere assolutamente spontaneo, “istantaneo”, naturale e casuale dell’Essere divino, in assenza di qualunque volontà e scopo. Siamo insomma già in pieno nichilismo.
Infatti l’Essere compare ormai come del tutto secondario al Nulla.
E dobbiamo peraltro registrare che proprio in questo modo viene concepito il Dio in quanto Nulla che oggi è stato ripreso dalla teologia scientifica di ispirazione buddhista; entro la quale viene affermata la secondarietà dell’essere e la negazione di Dio come Persona. Ma con ciò diviene ovvio anche il divenire attuale, entro l’attuale teologia, del discorso circa panteismo ed anche di una sua certa valorizzazione.
Meinvielle sottolinea il fatto che la Cabbala ha tentato in tutti i modi di nascondere il panteismo dietro un discorso teista. Ma ovviamente non poteva riuscirci. Infatti ciò si lascia riconoscere nella dottrina zoharica della creazione, che è in verità pura teogonia (auto-rivelazione divina racchiusa in sé stessa) a sua volta inestricabilmente unita ad una cosmogonia (che è dispiegamento dell’unità, differenziazione e separazione). Questi due processi sono quindi una sola cosa (due facce di una stessa medaglia), e quindi alla fine puntano unicamente al basso. La creazione insomma è appena il dispiegamento delle forze che operano e vivono in Dio. Dunque essa rappresenta appena il Dio Nulla riflesso nel mondo, che è quindi solo apparentemente manifestato nella separazione.
E questo è del resto inevitabile, dato che, come abbiamo detto, non vi è un Dio-Essere-Persona che resti in sé, separato dal proprio atto creativo e dal mondo, ma comunque agente.
Ecco perché non può esservi alcun teismo.
Il che ripropone di nuovo il paradigma fondamentale dell’immanentismo. Infatti questa unità di poli nell’apparente separazione non prevede alcuna differenza tra trascendente ed immanente. Dunque in tal modo viene negata la trascendenza come carattere essenziale di Dio. E questo lascia trasparire chiaramente lo Gnosticismo: − cioè il Dio creatore trascendente come cattivo Demiurgo [LMA Viola, La Gnosi cristica integrale, Victrix, Forlì 2008 , I, IVb p. 53-54; René Guénon, Il Demiurgo ed altri saggi, Adelphi, Milano 2007, III, III p. 202-211; Vangelo di Filippo, in: Marcello Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990, 6-8 p. 510, 34-36 p. 517, 112-113 p. 535; ; Vangelo dello Pseudo-Tommaso, ibd., p. 29-30; Vangelo di Filippo, ibd., 9-14 p. 510-512, 84-85 p. 526; Samuel D. Cioran, Vladimir Solov’ëv and the Knighthood of the Divine Sophia, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1977, I, 1 p. 19-27; Giulio Busi, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 349-351; James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 43-45].
Peraltro di nuovo traspare qui il fantasma di una teoria della conoscenza (almeno in abbozzo). Infatti sulla base di tutto ciò (p. 41-42) Dio non è affatto un Soggetto (il paradigma dei soggetti coscienti-conoscenti), ma è invece al massimo un soggetto trasfuso nell’oggetto. In Dio insomma soggetto ed oggetto si sono separati, ma l’abisso tra di essi viene continuamente colmato unicamente dall’atto soggettuale.
Ebbene sulla base di tutte queste contraddizioni non potevano che insorgere le disperate teorie filosofico-teosofiche di Luria che aggravarono ancor più l’immagine di un Dio inteso come a Abisso e Nulla. Qui si aggiunge infatti la descrizione di fenomeni divino-cosmici – come lo “zimzum” (l’auto-generazione in sé stesso di un Vuoto da parte di Dio perché nasca l’essere, che è poi anche processo di auto-purificazione dal male che esiste in Lui stesso), la “rottura dei vasi” (che tenta di spiegare il fallimento della creazione divina a causa del fatto che Egli, contenendo anche il male, non poteva che generare il male nel mondo), il “tiqqum” (raggio di luce che parte dall’Adam Kadmon generando finalmente quel Volto divino rivolto verso il mondo che era fino a quel momento sempre mancante). A nostro avviso questi sforzi non sono altro che il frutto della cattiva coscienza per una concezione del tutto deviante di Dio che in particolare manca di considerarlo come Essere. Non a caso queste teorie parlano di un Dio sostanzialmente impotente (al quale è addirittura sfuggita di mano la creazione) che è totalmente coinvolto nella responsabilità per il male.
Siamo insomma così in pieno Gnosticismo.
E comunque la natura meramente umana di questo costrutto rende la Cabbala aliena da qualunque Rivelazione originaria universale. A nostro avviso anche da quella concepita dai moderni pensatori tradizionalisti come Guénon, che invece Meinvielle (secondo noi a torto) coinvolge pienamente nel pensiero cabbalistico-gnostico [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo…cit., I, XI p. 116-129].
Ma più avanti l’Autore ci offre ulteriori elementi per considerare impossibile un’ontologia entro la Cabbala [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., IV p. 64-68]. Egli si chiede infatti cos’è mai lo gnosticismo cristiano (p. 66-68). E ne conclude che esso ha delle caratteristiche del tutto sovrapponibili a quelle dello Gnosticismo ebraico, dal quale in effetti secondo lui deriva.
Ma queste caratteristiche riguardano propriamente l’ontologia. In sintesi infatti la metafisica cristiana è basata sulla distinzione (e discontinuità) ontologica tra Dio e mondo (riscattata però dall’Amore di Cristo), mentre quella gnostica è invece basata invece sulla continuità tra di essi.
Il primo schema è creativo ed il secondo è emanazionistico. Ed a ciò si aggiunge la dottrina della Realtà: − Dio viene considerati l’unica Realtà in assoluto ma comunque è un Nulla, e quindi essa è estesa al mondo come mera apparenza (ossia di fatto nulla). Dunque manca qui in primo luogo l’Essere ossia un’ontologia autentica, inclusa quella atea.
In particolare Meinvielle chiarisce che lo Gnosticismo è dualismo perché considera la materia il male – però solo perché lo stesso Principio contiene il male, dato che esso è realtà e non privazione (come nel Cristianesimo) − ma intanto è anche un monismo proprio in virtù della continuità tipica dell’emanazione. Quest’ultima infatti fa sì che la Realtà divina sia una Totalità ontologica che unisce la dimensione trascendente a quella immanente, anzi le fonde totalmente tra loro.
Vi è dunque una totale “continuità di sostanza” tra Dio e il mondo-uomo, in luogo della discontinuità esistente invece nel modello creativo, nel quale Dio è ontologicamente separato dal mondo ed è Causa prima. Per la precisione, entro lo schema aristotelico-tomistico, Dio è di certo la sostanza prima, e come tale rappresenta l’intero Essere. Ma ciò non toglie che la sostanza divina sia diversa dalla sostanza mondana in quanto la prima è infinita e la seconda finita.
Ecco comunque che proprio qui (a proposito di questa continuità di sostanza) si potrebbe pensare entro la Cabbala ad un’ontologia dinamica (quella emanazionistica) che generi comunque un essere, ossia la Totalità di sostanza costituita dal continuo flusso del divino che si cristallizza nel mondo. Ma il fatto è che Dio è unica e sola Realtà (ad ogni livello) solo in quanto è un Nulla. Quindi non è Essere ma Nulla ciò che sgorga dall’Abisso costituendo tale Realtà totalizzante.
E conseguentemente tale Realtà totalizzante è essa stessa un Nulla – è cioè appena apparenza, “māyā”. E ciò effettivamente, come dice l’Autore, richiama il platonismo, la teoria upanishadica dell’”advāita” e il Buddhismo.
Dunque dov’è qui l’ontologia? Il flusso potrebbe far pensare ad essa in forma però dinamica e non statica, ossia come onto-dinamismo. Ed in questo caso l’essere vi sarebbe ma sarebbe inafferrabile come l’acqua del fiume di Eraclito. Ma invece non vi è ontologia perché non vi è Essere. Vi è invece solo Nulla. E ciò che sembra essere (il mondo) è in realtà solo apparenza, ossia nuovamente nulla.
Ecco dunque il terzo indizio per un’impossibilità dell’ontologia nella Cabbala, ed ovviamente anche nello Gnosticismo.
Vale la pena quindi di ricordare quanto Meinvielle sottolinea a proposito della metafisica cristiana, e prendendo Tommaso come suo principale rappresentante [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., I, VI, 2 p. 83-84]. Egli dice che per essa l’Assoluto non è il mondo, ma è solo Dio. E il mondo non può in alcun modo essere un assoluto perché esso non sussiste prima dell’atto creativo divino. Il mondo insomma comincia a sussistere solo dal momento in cui il Dio-Essere infonde in esso l’Essere iniziando alla materia (anch’essa del tutto inesistente prima dell’atto creativo). Dunque tutto gira intorno alla «creazione dal nulla». E con ciò ci ritroviamo perfettamente dove ci trovavamo prima con Hartmann – l’Essere è “antico” per definizione, ossia è originario. Ma soprattutto vi è un chiaro stacco ontologico tra esso e il Nulla. Insomma anche la metafisica cristiana tiene presente il Nulla, ma non come una sorta di pseudo-essere che trasbordi Dio dall’Abisso al mondo, bensì come ciò che precede l’Essere ed inoltre lo contraddice realmente. E conseguentemente noi non saremo mai di fronte all’Essere se non quando esso si è differenziato completamente dal Nulla – sia a livello trascendente, nel supremo Ente divino, sia a livello immanente, nell’ente finito.
Ma siccome il carattere dinamico conferito all’essere fa di esso una sorta di nulla (qualcosa che sfugge tra le mani senza che mai potremo essere sicuri di aver davvero toccato un’entità), allora bisogna concluderne che la completa differenziazione dell’Essere dal Nulla avviene solo quando il primo si è fermato, ossia è divenuto solido, stabile e soprattutto tangibile. Dov’è Dio in questo momento? È là dov’è sempre stato nel mentre si compiva questo processo. E dunque, quando il mondo si cristallizza, Egli non è nel mondo (se non come sostanza puramente metafisica trascendente che possiamo solo immaginare). Vi sarà realmente soltanto quando, in virtù di un atto di infinito amore (che in qualche modo è rinuncia a sé stesso), il Padre si farà uomo nel Figlio e discenderà nel mondo. Ma senza mai (neanche in questo caso) assimilarsi a quest’ultimo.
Ecco che allora l’onto-metafisica cristiana può anche non essere l’ontologia per eccellenza, o addirittura l’unica possibile. Ma almeno essa corrisponde perfettamente ai caratteri oggettivi che un’ontologia deve avere per essere tale. E questi sono i caratteri enunciati da Hartmann.
Ma comunque, per avere un’ontologia, così come la continuità bisogna secondo Meinvielle evitare anche la dottrina del «tutto in tutto» che per lui è tipicamente cabbalistica ma intanto si è presentata nel bel mezzo della filosofia cristiana proprio perché quest’ultima è stata infiltrata profondamente dalla Cabbala, specie dal Rinascimento in poi [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., VII p. 96-101]. E questo perché questa formula richiama ovviamente l’intero schema di pensiero che abbiamo finora illustrato, e cioè quello che connette la trascendenza divina con l’immanenza mondana, generando non solo un Totalità di Realtà ma inoltre considerandola divina. In modo tale che il mondo divino esprime la presenza di Dio, che è il Tutto, in qualunque realtà e livello di realtà.
E qui egli chiama in causa i maggiori pensatori (filosofi e teosofi) che hanno operato dal XV al XVII secolo, come Cusano, Bruno, Böhme, Spinoza, Leibniz. E secondo lui un decisivo contributo al «tutto in tutto» è stato offerto dalla “coincidentia oppositorum” di Cusano (p. 96). Dio è così infatti infinito e finito, eternità e tempo, necessità e contingenza, ossia è tutti gli opposti. E quindi è insieme (senza alcuna contraddizione) trascendenza ed immanenza. Ecco dunque che manca proprio qui quel netto stacco tra essere e non-essere in assenza del quale l’Essere mai si delinea e si cristallizza. E questo trova una forma molto specifica nell’affermazione dell’indifferenza tra finito e infinito. Per Cusano infatti Dio è simultaneamente “massimo” e “minimo”.
In tale contesto insorge solo il sospetto che Meinvielle unifichi troppo il neoplatonismo con la Cabbala. Infatti molte delle caratteristiche di pensiero dei pensatori qui citate risalgono al neoplatonismo greco. Ma anche questo per l’Autore non è altro che una specie di Cabbala.
E questa ci sembra sinceramente una tesi troppo estremistica. Per il resto l’analisi unicamente polemica e negativa di una teosofia come quella di Böhme (assimilata totalmente alla Cabbala) sottovaluta il fatto che il Cristianesimo (così come qualunque religione locale) nasconde legittimamente delle profondità esoteriche che non contraddicono affatto il magistero ufficiale ma intanto permettono ad un gruppo ristretto di fedeli di comprendere in maniera meno semplicistica alcune verità. E l’ascendenza neoplatonica di molte delle riflessioni dei pensatori di questa epoca si presta proprio a questo. Quindi in fondo non vi è alcun bisogno di equiparare tali riflessioni all’eterodossia sicuramente rappresentata da una Cabbala che fu sostanzialmente deviata.
E questo riguarda tutte le assimilazioni cabbalistiche che, da questo momento in poi, vengono riconosciute da Meinvielle, e che giungono fino all’Idealismo tedesco. Quest’ultimo infatti è stato con tutta la ragione assimilato da Beierwaltes al neoplatonismo greco, ma ciò non significa affatto che sia anche totalmente assimilabile anche alla Cabbala.
Oltre a ciò la totale assimilazione alla Cabbala di visioni filosofiche come quelle di Böhme e Spinoza suggerisce che probabilmente – nel confrontare Cabbala e Neoplatonismo – dobbiamo tener presente che è estremamente difficile comprendere cosa viene prima e cosa viene dopo. Pertanto è estremamente probabile che non ci sia stata alcuna antecedenza, e che quindi entrambe le dottrine abbiano fatto parte di un’unica Sapienza di carattere fortemente esoterico.
Insomma da questo momento in poi le tesi del nostro Autore diventano troppo settarie, di parte, estremistiche, polemiche e ideologiche per poter venire considerate credibili. In altre parole la filosofia occidentale moderna non può venire considerata appena una manifestazione della Cabbala.
Ma comunque alcune intuizioni di Meinvielle restano valide. Innanzitutto l’Autore sembra nel giusto quando afferma che l’Idealismo tedesco non ha fatto altro che sostenere la separazione definitiva tra Dio e uomo affermando la totale divinità dell’uomo [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., X p. 107-115]. E ciò si basa su quella totale immanentizzazione di Dio che abolisce totalmente il Dio trascendente (il che per l’Autore è tipicamente cabbalistico). Ma, come abbiamo già visto, la trascendenza divina comporta il Dio-Essere (e donatore dell’Essere) e il Dio-Personale.
Quella dell’Idealismo tedesco è quindi una via breve per affermare la totale impossibilità dell’ontologia in un pensiero cabbalistico o anche simil-cabbalistico. In particolare l’Idealismo tedesco ha fatto sì che il mondo apparisse come null’altro che il versante negativo di Dio e quindi la sua esistenza si presenta unicamente in negativo. Laddove poi ovviamente il concetto di essere non si addice affatto ad un Dio che, anche in questo ordine di idee, è essenzialmente il Nulla stesso.
Ma in tale contesto emerge un estremamente forte concetto riguardante la tendenza anti-ontologica del pensiero di Cartesio, che poi sicuramente, insieme a Spinoza, fu un precursore dell’Idealismo tedesco (p. 108-109). Meinvielle si rifà qui alle tesi di Cornelio Fabro, secondo il quale il «cogito» cartesiano reitera il concetto di immanenza nella forma di affermazione della presenza della realtà nella coscienza. Si tratta di fatto dell’affermazione dell’idea di Dio “in mente” e quindi dell’antico «argomento ontologico» che contrappose Tommaso ad Anselmo. Ma ovviamente si tratta anche dell’affermazione della generazione della realtà da parte della coscienza umana. Che è stato per secoli il caposaldo dell’idealismo fino all’Idealismo tedesco ed anche oltre fino alla Fenomenologia husserliana.
Ebbene qui ci troviamo di fronte ad un ben probabile ulteriore indizio per l’impossibilità dell’ontologia entro la Cabbala. Infatti l’Autore contrappone a tutto ciò la visione di Tommaso per il quale la realtà trascende la coscienza in quanto l’essere trascende totalmente la conoscenza.
E con ciò ci troviamo nel pieno della tesi ontologica di Hartmann, secondo la quale appunto l’essere non solo trascende la coscienza ma inoltre la contiene e risolve in sé.
Questa così forte affermazione dell’immanenza fa di Cartesio, secondo Mainvielle, il primo pensatore che abbia separato la metafisica dalla religione, con un conseguente inevitabile ateismo specie filosofico. E questo ci riconduce non solo alla tendenza anti-metafisica dell’attuale teologia basata sulla ricerca religioso-scientifica, ma anche ala coincidenza tra tendenza anti-ontologica ed anti-metafisica, che poi esamineremo sulla base di Vassallo.
In ogni caso quello ciò che viene dopo nel libro di Meinvielle [Julio Meinvielle, L’influsso dello gnosticismo ebraico…cit., , XI p. 116-129] è un autentico fuoco di artificio di attribuzioni della Cabbala ad una quantità enorme di pensatori e dottrine moderne – dai pensatori tradizionalisti come Guénon, ai pensatori induisti, ed a pensatori occidentali come Nietzsche, Heidegger. E questo indica che l’accusa di cabalismo è in fondo in questo libro estremamente ampia ed imprecisa, e come tale viene usata a piacimento in modo ideologico e settario per soddisfare simpatie ed antipatie politiche. Per tale motivo da questo momento in poi abbiamo rinunciato a seguire le tesi di Meinvielle.
Forse però egli ha una certa ragione rispetto a Nietzsche e Heidegger. Il primo infatti ha affermato un nichilismo che converge totalmente con le tendenze della Cabbala. Ed il secondo ha affermato un onto-dinamismo basato sulla temporalità dell’essere che spiazza totalmente la staticità dell’Essere stesso. E così ha contribuito non poco (ad onta delle sue stesse aspirazioni) all’abolizione dell’ontologia.

3- Anti-ontologismo e rinuncia alla metafisica.
Come Meinvielle, Vassallo si riferisce in particolare agli studi critici di Cornelio Fabro rispetto alla modernità, con il conseguente appello a riprendere in considerazione la tradizionale onto-metafisica. Vassallo descrive sostanzialmente uno scenario di moderna crisi culturale e sociale che è stato ed è dominato dal fenomeno conoscitivo della rinuncia totale alla metafisica [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., Introduzione p. 5-10]. Questa rinuncia sarebbe stata voluta da Kant, e a suo avviso senza alcuna ragione perché al soggetto non competono assolutamente (quale sede provilegiata) i giudizi sintetici a priori e quindi l’universale, in quanto principi e forme a priori della conoscenza. Invece l’universale non può che stare nell’oggetto e quindi non può che esser oggettivo (Balbino Giuliano). Ed eccoci quindi ad un significativo risvolto inevitabilmente anti-ontologico della rinuncia a quella metafisica che fu sostanzialmente idealistica – la collocazione dell’universale nel soggetto e non nell’oggetto.
Come antidoto a questo anche Vassallo, come Meinvielle, propone il ritorno alla filosofia di Tommaso [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., I p. 15-29]. Ma quella autentica e non a quella neo-tomistica di Maritain e Gilson, che egli ritiene del tutto spuria perché ha occultato la vera ripresa degli studi tomistici iniziata già nel XIX secolo [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., Introduzione p. 10-15]. Altro pensiero onto-metafisico spurio viene da lui considerato quello di Suarez, il quale fu secondo lui sedotto dal mentalismo (con i relativi essenzialismo e nominalismo) non meno dei suoi contemporanei, con l’affermazione della secondarietà della realtà alla “ratio” ed al pensiero, e quindi secondarietà dell’essere alla conoscenza. In concordanza con questo vi sono i suoi costanti riferimenti polemici a Leibniz e Malebranche [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., II p. 32-37] in quanto sostanziali razionalisti moderni (in perfetta sintonia Cartesio e Spinoza). Quindi la loro apparente onto-metafisica religiosa (mero paravento religioso del moderno razionalismo idealistico) spicca per il fatto di stare dall’altro lato della barricata verso il vero pensiero cristiano, ossia quello tomista. E rientrano in questo anche i residui di idealismo platonico anti-realista che si ritrovano in essi. Ma Vassallo stesso si fa sostenitore di un razionalismo che trova secondo lui la sua piena espressione in Tommaso e quindi non è affatto in contraddizione con l’onto-metafisica [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., II p. 30-41]. Per Tommaso infatti la Ragione non può in alcun modo essere discordante dalla Fede e quindi non può contraddire l’ontologia in quanto mondo creato da Dio sulla base della pretesa mentalizzazione dei suoi presupposti.
Il razionalismo da lui condannato è dunque decisamente solo quello moderno e non quello antico (tomista-aristotelico). E per lui senz’altro Hegel ne viene considerato il protagonista insieme ad ogni idealismo [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., III p. 41-51,]. Proprio su questa base egli valorizza il pensiero di Kirkegaard (anti-hegeliano per definizione) in quanto di fatto affermatore dell’atto di esistere nella sua concezione tomistica. Ed inoltre valorizza il pensiero di Rosmini in quanto ri-attualizzatore della Scolastica e quindi dall’assoluta non illusorietà della realtà [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., IV p. 51-63]. E qui il suo discorso concorda fortemente con quello di Meinvielle in quanto Rosmini (da profondo conoscitore della metafisica orientale che fu) si oppose energicamente all’idea di un “Dio pneumatico” e quindi non più “Ipsum esse”, ovvero Dio-Essere. Inoltre, sul piano teoretico-conoscitivo, si oppose energicamente all’idea che l’oggetto esista solo in quanto conosciuto. E qui ci troviamo di nuovo in perfetta concordanza con i caratteri di un’ontologia basica (indipendentemente dalla sua religiosità) che sono stati esposti da Hartmann.
Estremamente significativo per i nostri scopi è comunque il capitolo da lui dedicato all’onto-metafisica religioso-cristiana di Edith Stein [Piero Vassallo, “La restaurazione… cit., VIII p. 107-123]. In particolare egli non fa mistero del suo stupore per la fedeltà di Stein al pensiero del suo maestro Husserl, protagonista di un pensiero decisamente a-religioso ed inoltre in perfetta linea con tutte le istanze anti-ontologistiche del pensiero idealistico moderno (ossia Cartesio e Kant). In particolare egli sottolinea a ragione un’affermazione decisamente anti-ontologistica e idealistica di Husserl: − “cancelliamo la coscienza, cancelliamo il mondo”. Ma Husserl fu allievo dello scolastico Brentano, e quindi per Vassallo, egli non è stato altro che un mezzo per il passaggio dall’onto-metafisica di quest’ultimo a quella di Stein.
Il richiamo di Vassallo alla reintroduzione dell’onto-metafisica cristiana coincide quindi per molti versi con la condanna della Cabbala da parte di Meinvielle.

4- Critica all’onto-dinamismo.
Come abbiamo già detto, noi stessi abbiamo sostenuto nel passato la possibilità di un onto-dinamismo che trova il suo fondamento effettivo proprio nella Cabbala [Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: Ivan Pozzoni, Mauro Murzi, in: Moderni orizzonti della scienza e della tecnica, vol. V, 2017, Limina Mentis]. E questo è senz’altro vero – la Cabbala è certamente una delle più decise dottrine dell’onto-dinamismo.
Ma ora il problema che si presenta è il seguente: − può tale onto-dinamismo venire considerato una vera ontologia?
Cercheremo di comprenderlo attraverso la critica al nostro stesso articolo. Che poi si basava su un’ampia disamina dei contenuti della dottrina cabbalistica, e quindi getta una luce piuttosto diretta su quest’ultima.
Ebbene la risposta a questa domanda può essere immediatamente negativa. E questo per due motivi: − 1) l’emanazione produce entità sprovviste di qualunque onticità, e quindi sostanzialmente “forze e poteri”, “ko’aḥ” (entità unicamente energetico-spirituali); essa dunque non è per davvero un’emanazione di essere ma è solo l’esternazione della Potenza divina che intanto resta assolutamente immutata e quindi non procede affatto verso l’atto; allo stesso modo le entità emanate non sono altro che potenze; 2) nel contesto di questo paradigma fluente non vi è assolutamente alcuna scansione e quindi alcun prima e dopo tra loro connessi, e quindi esso non può mettere capo ad alcun determinato finale in quanto Essere finalmente stabile; in altre parole il flusso non è affatto una sequenza di entità.
Insomma le Sephiroth emanate del Principio non sono altro che radice virtuale di ogni cambiamento. E quindi stanno al massimo alla radice dell’essere dinamico, ma non costituiscono affatto l’essere statico. L’emanazione viene quindi simboleggiata perfettamente da metafore come quelle della luce solare e del flusso d’acqua. Ecco quindi una differenza davvero rilevante verso un’autentica ontologia
La base per affermare questo è comunque l’esposizione della Cabbala che ci ha offerto Scholem stesso [Gershom Scholem, La Cabala, Mediterranee, Roma 1982, I, 3 p. 102-121].
Già da questi tratti generali risulta evidente che l’onto-dinamismo emanazionistico non può in alcun modo configurare alcuna vera ontologia.
Ma entriamo più nel dettaglio della complessiva questione.
Il paradigma che emerge è sostanzialmente quello della produzione di essere, che è sensibilmente diverso da quello della creazione. Ed esso si ritrovava anche nel neoplatonismo, ma senza assumere affatto la stessa identica forma che ha nella Cabbala. Infatti, se l’onto-dinamismo cabbalistico esprime una continuità davvero ininterrotta tra Principio e manifestato, Proco ad esempio affermava la manenza totale degli effetti nel principio causale, e quindi non intendeva affatto l’emanazione come una continuità davvero ininterrotta [Proclo, Elementos de teologia, Aguilar Buenos Aires 1975, B, p. 23-28, C, p.36-48, I, p.87-95]. Quindi non intendeva nemmeno i prodotti della Causa come entità energetiche del tutto prive di onticità. Pertanto in qualche modo postulava una sequenza che anticipava chiaramente il concetto di creazione – il Principio quale Causa dava insomma forma realmente al mondo, e non invece appena alle sue premesse energetico-potenziali. Il che viene affermato nuovamente proprio da Scholem [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 3 p. 102-108]. E questo ci conferma nel ritenere esagerata la totale assimilazione tra Cabbala e Neoplatonismo che viene affermata da Meinvielle. Semmai tra di essi vi fu una prossimità storica e dottrinaria; che sicuramente vide la Scuola di Alessandria come momento fondamentale, ma non vi fu mai una completa assimilazione tra le due dottrine. E questo lo afferma lo stesso Scholem insieme a diversi altri studiosi [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 2 p. 16-17, I, 2 p. 30-37, I, 3 p. 93 – 94; LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì 2008, I, VIa p. 99-102, I, Vb p. 105-106, I, VIc p. 127-128, I, VId p. 139-140; Paul Carus, “Gnosticism in its relation to Christianity”, The Monist, 8 (4), 1898, 502-546; Norman Bentwich, “From Philo to Plotinus”, The Jewish Quarterly Review, 4 (1) 1913, 1-21; W. R. Inge, “The permanent influence of Neoplatonism upon Christianity”, The American J. of Theology, 4 (2) 1900, 329-344; Pierre Hadot, La fine del Paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina, Milano, 2011, pp. 119-150].
Come abbiamo già visto, però, preoccupazione costante della Cabbala fu quella di preservare l’unità divina (espressa nel permanere dell’”Emanatore” in sé stesso). Ciò non avveniva però nel concepire un Dio immune dal dinamismo creativo e quindi dal divenire, bensì, al contrario, nel concepire un’unità continuamente ricostituita a partire alla divisione immanente. Cosa che avveniva per il perenne rifluire a ritroso delle entità molteplici emanate dal divino. E questo comporta il panteismo perché riconferma di fatto la continuità nel dinamismo (che evidentemente avviene progressivamente e regressivamente). Non a caso Scholem sostiene che la Cabbala non può sussistere senza panteismo [Gershom Scholem, La Cabala… cit., I, 3 p. 146-155]. Ma ciò conferma anche nuovamente la totale non-onticità della sequenza ipostatica, e quindi l’assenza totale di ontologia. Nulla infatti potrebbe tornare al Principio se si fosse già cristallizzato nel determinato; se non attraverso la sua dissoluzione ontica.
Tutto questo può però avvenire solo a partire da un Nulla di essere principiale, che in Scholem è l’”Ayin” (composto dei supremi principi “alef”, “yod” e “nun”), dal quale procedono poi le prime tre Sephirot. Una pienezza di essere invece non potrebbe fare altro che produrre l’Essere. Ed a tale proposito viene chiarito che quello emanazionistico è invece appena di un atto di auto-rispecchiamento dell’”Io” nel “Tu” entrambi divini. Il che corrisponde appunto ad un atto intra-divino che in verità non ha alcun corrispettivo esteriore. Anche questo è insomma emanazione invece di creazione. Manca insomma l’inizio letterale della produzione di Essere, il suo innesco concreto.
Quanto al Neoplatonismo, nel nostro articolo ponemmo in evidenza la differenza (sottile ma significativa) che esiste tra esso e l’onto-dinamismo cabbalistico, specie in Proclo [Proclo, Elementos… cit., A, 1-13 p. 23-36; Pauliina Remes, Neoplatonism, University of California Press, Berkeley Los Angeles 2008, 1 p. 7-10, 2 p. 36-42, 2 p. 51-75, 3 p. 77-98, 4 p. 99-133]. Presso questo pensatore infatti la Causa produttiva dell’emanazione è troppo forte (nella sua presenza e nella sua azione) per dissolversi totalmente nell’effetto (per quanto l’effetto sia già presente in essa). E quindi la continuità onto-dinamica sussiste senz’altro, ma sicuramente non mette capo ad un’immanenza divina, ossia ad una perfetta identità tra produttore e prodotto. L’Uno insomma mantiene pienamente la propria identità. E proprio in relazione a questo l’onto-dinamismo rientra nel classico schema circolare manenza-produzione-ritorno.
Il Neoplatonismo arabo-ebraico poi, impersonato da Maimonide, si lasciò invece assimilare a tutte le caratteristiche dell’emanazionismo cabbalistico [Joseph A. Buijs, “A Maimonidean critique to thomistic Analogy”, J. of History of Philosophy, 41 (4) 2003, 449-470; Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, UTET, Torino 2009, I, LXVIII, 112.15-114.20 p. 238-242, II, XII, 195.1-195.25 p. 356-357]. Sebbene egli si stato tra coloro che accentuarono maggiormente la trascendenza divina.
Infine, entro il neoplatonismo cristiano, Meister Echart senz’altro sostiene un emanazionismo di stampo fortemente cabbalistico in quanto pone l’insieme inscindibile di trascendenza ed immanenza, ed inoltre ci mostra un Dio presente in tutte le cose [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, V, 23 p. 223-234; Elisabeth Brient, “Transition to a modern cosmology: Meister Eckhart and Nicholas of Cusa on the intensive Infinite”, J. of History of Philosophy, 37 (4) 1999, 575-600; Meister Eckhart, Predica 5 (Q 22), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 67; Meister Eckhart, Predica 9 (S 101), ibd. p. 147; Meister Eckhart, Prediche 43 (Q 54a) – 44 (Q 54b), ibd. p. 629; Meister Eckhart, Predica 47 (Q 47), ibd. p. 664-669; Meister Eckhart, Predica 55 (Q 80), ibd. p. 761-769]. Ma in questo la sua intenzione fu più che altro quella di sottolineare la generosa sovrabbondanza divina come infinita ricchezza di possibilità. Ed inoltre egli pose alla base di tutto ciò la dinamica trinitaria.
Possiamo quindi dire in conclusione che l’emanazionismo greco fu molto più diverso da quello cabbalistico rispetto a quello cristiano di Eckhart.
Ma comunque anche alla fine di questa revisione critica del nostro articolo può venire confermato che l’onto-dinamismo emanazionista non corrisponde affatto ad un’ontologia.

Conclusioni.
Sulla base di tutto quanto abbiamo posto in evidenza crediamo di poter senz’altro confermare l’ipotesi iniziale di questo articolo – sulla base della Cabbala non è assolutamente possibile fondare un’ontologia. E peraltro, se ciò è vero per la prima Cabbala scritta succeduta all’iniziale tradizione orale di origine mosaica (“Cabbala buona”) – e sostanzialmente zoharica −, è ancora più vero per le sue evoluzioni successive, fino a giungere alla fantasiosa Cabbala rinascimentale (sostanzialmente lurianica). Infatti in quest’ultima si accentuò ancora di più il carattere negativo del Principio divino, e quindi svanì completamente l’idea di Dio come Causa agente, come Essere e come Persona. Quindi si consolidò totalmente uno schema dottrinario che prevedeva il trapassare completo di Dio (per mezzo della continuità emanazionistica) dalla trascendenza all’immanenza, con la completa cancellazione della differenza sussistente tra di esse. E così si affermò un totale panteismo. Inoltre si accentuarono ulteriormente i paradossi etici comportati da questo schema dottrinario con la postulazione non solo di una corresponsabilità di Dio nel male ma anche una sua vera e propria impotenza rispetto alla presenza del male nel mondo.
Ebbene questo è senz’altro il versante più metafisico-religioso dell’impossibilità dell’ontologia entro l’onto-dinamismo. Ma nel corso del suo esame abbiamo visto anche aspetti che investono l’impossibilità a-religiosa dell’ontologia.
In primo luogo la continuità emanazionistica, a differenza della creazione, cancella un Essere originario dal quale tutto parta, e quindi nega quell’”antichità” del mondo che abbiamo vista affermata anche dall’ontologia a-religiosa. Soprattutto perché Dio non è né un «qualcosa» né è all’origine di un «qualcosa».
In secondo luogo, dato che il principio di ogni cosa viene considerato il Nulla, nel concepire il processo che reca al «qualcosa» il concetto di Essere diviene del tutto secondario. Infatti non vi è alcuna potenzialità originaria che rechi in sé i caratteri dell’Essere, e quindi proprio per questo rechi dall’Essere infinito a quello finito o determinato. Ne consegue che il determinato si dissolve nell’indeterminato, anche se mondano, che coincide poi con la mera apparenza delle cose. Inoltre svanisce anche lo stesso concetto di «oggetto» per venire sostituito da quello di forze agenti.
Ma la ricaduta della dimensione metafisico-religiosa su quella a-religiosa e naturale risiede forse soprattutto nella netta distinzione (creazionistica)che vi è tra la distinzione ontologica esistente tra Dio e il mondo ed invece l’assenza (emanazionistica) di tale distinzione, ossia la continuità che unisce Dio al mondo. Abbiamo visto che quest’ultima configura una Totalità di Realtà (peraltro fortemente unitaria) e quindi sembra apparentemente adombrare un Essere. Ma quest’ultimo svanisce poi immadiatamente perché questa Totalità di Realtà – proprio in forza dell’ininterrotta continuità – nasce dal Nulla principiale e quindi è essa stessa Nulla.
Qui insomma viene contraddetto il concetto di Essere stesso, ossia quello affermato da Aristotele.
Ma questo ha delle conseguenze inevitabili anche per la possibilità di un’ontologia a-religiosa ed a-metafisica. Infatti non è assolutamente possibile concepire un Essente (per quanto mondano e concreto) se non sulla base del concetto di Essere – ossia il sussistere di un «qualcosa».
In questo modo quindi l’impossibilità cabbalistica dell’ontologia raggiunge il proprio nucleo, il centro e cuore stesso dell’ontologia. E l’espressione di ciò è l’idea secondo la quale la Realtà stessa non sarebbe altro che un Nulla. Ecco insomma la premessa di ogni nichilismo.
A questo proposito però gioca un ruolo decisivo la contraria dottrina che Meinvielle rintraccia nel Cristianesimo nel sottolineare l’importanza della «creazione dal nulla» da parte di Dio. Solo quest’ultima, infatti, garantisce quello stacco netto tra Nulla ed Essere in assenza del quale è impossibile concepire l’Essere stesso nella sua pienezza. Che corrisponde poi alla completa differenziazione del non-essere dall’essere, ossia corrisponde in tal modo al «qualcosa determinato». Inoltre Meinvielle sottolinea l’anti-ontologicità della dottrina del «tutto in tutto», la quale, attraverso la mancata postulazione della differenza tra trascendente ed immanente, contribuisce anch’essa a cancellare lo stacco esistente tra nulla ed essere.
L’ultimo indizio per l’anti-ontologicità dell’onto-dinamismo cabbalistico emerge laddove l’Autore sottolinea la deteriorità dell’immanentismo introdotto dall’Idealismo fino dai propri inizi, e cioè con Cartesio. Si tratta insomma della postulazione del sussistere di una vera realtà entro la coscienza. Che poi in termini religiosi corrisponde alla presenza dell’idea di Dio “in mente”, ossia al famoso «argomento ontologico». Questa presa di posizione ha annullato l’Essere proprio secondo quanto sostiene l’ontologia a-religiosa di Hartmann, cioè ha ritenuto che esso sia strettamente condizionato alla conoscenza. E come abbiamo visto commentando il suo pensiero, in questo modo si dissolve il vero oggetto e si delinea unicamente un oggetto di conoscenza.
Abbiamo poi visto sulla base di Vassallo che laddove svanisce la metafisica svanisce anche l’ontologia. E ciò è avvenuto partendo da Kant, il quale ha avocato al soggetto conoscente i principi che rendono possibile l’esistenza di oggetti reali (principi che, come dice Hartmann, vengono considerati anche di essere e non solo di conoscenza).
Infine abbiamo visto che proprio laddove si attribuisce un grande valore all’onto-dinamismo (come accadde nel nostro antecedente articolo) l’ontologia si dissolve invece del tutto dato che le cose si trasformano in forze energetiche che non sono altro che potenze. Dunque nel contesto di questo paradigma fluente non vi è assolutamente alcuna scansione e quindi alcun prima e dopo tra loro connessi, e quindi esso non può mettere capo ad alcun determinato finale in quanto Essere finalmente stabile; in altre parole il flusso non è affatto una vera sequenza di entità. È invece molto più somigliante al Nulla.
E tutto ciò sta poi in relazione (come abbiamo visto) con il fenomeno della produzione di essere contrapposto a quello della creazione.
Detto dunque tutto questo, riteniamo che la nostra tesi sia stata sufficientemente dimostrata.
Tuttavia crediamo comunque che valga la pena di spendere qualche parola sulle conseguenze dell’impossibilità di concepire un’ontologia. Esse infatti non sono solo religiose, filosofiche e scientifiche, ma sono anche soprattutto etiche. E su questo Meinvielle insiste molto.
Il fatto è, cioè, che all’impossibilità di concepire l’Essere consegue inevitabilmente il nichilismo.
E quest’ultima è una forza erosiva e distruttiva per tutto ciò che è umano-mondano. Con esso infatti noi smettiamo di credere non solo del mondo in cui viviamo ma anche della Cultura che abbiamo eretto su di esso. Di conseguenza tutta l’etica finisce per diventare indifferente ed alla fine (come è accaduto in Nietzsche) svanisce completamente.
Quindi ci ritroviamo in un mondo la cui esistenza non solo non ha alcun senso ma non comporta nemmeno precise regole comportamentali nell’esistere e nel relazionarsi con gli altri.
E la conseguenza di ciò non è altro che quanto posto in evidenza da Dostoevskij nei Karamàzov, ossia il principio del “tutto è possibile”. E non c’è bisogno nemmeno di dire cosa questo comporti.
In altre parole, proprio come sostiene Meinveille, la dottrina onto-dinamistica (che vede nella Cabbala forse il suo maggiore sostenitore, più ancora che Eraclito), rappresenta per l’uomo e per la società un’autentica calamità. Il ritorno all’ontologia, dunque, ha giustificazioni non solo filosofiche ma anche etiche.

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(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Lo studio dell’ontologia di Hartmann al quale ci siamo recentemente dedicati è estremamente ricco di spunti. E ci riferiamo con ciò in particolare alle sue tre opere che abbiamo letto e meditato ultimamente: − “Neue Wege der Ontologie” (NWO), “Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO) e “Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941; Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982]. ZGO è certamente la sua opera più vasta, sistematica e dettagliata, per cui i materiali delle altre due opere sono in gran parte riconducibili ad essa. Infatti i loro contenuti vengono molto più ampiamente trattati in ZGO però in maniera a volte meno specifica. Ecco perché ELO pone l’accento su un tema assolutamente centrale nel pensiero di Hartman, ossia la relazione esistente tra conoscenza ed essere (e viceversa); e quindi lo tratta in maniera estremamente specifica ed esauriente. Per tale motivo ci sembra che esso meriti un’analisi a parte. Quanto agli altri testi essi ci sono stati da noi già utilizzati per una serie di altre specifiche ricerche che abbiamo esposto in alcuni precedenti articoli [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann”, in: < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: < https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>; Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia delle Leggi di Platone e la moderna ontologia filosofico-scientifica”, in:
< https://cieloeterra.wordpress.come/2013/11/04/vincenzo-nuzzo-lontologia-delle-leggi-di–Platone-e-la-moderna-ontologia-filosofico-scientifica/ >]. Questi articoli sono stati da noi pubblicati integralmente sia nel blog menzionato sia anche in Academia Edu e quindi sono pienamente accessibili al lettore eventualmente interessato. In ogni caso anch’essi riguardavano molto da vicino la conoscenza, ma senza una trattazione specifica del tema. Che però ci sembra estremamente utile e fruttuosa.
ELO è comunque il testo di una conferenza tenuta da Hartmann presso la Münchener Kantgesellschaft nel 1949 e deriva da un altro testo dedicato alla metafisica della conoscenza dal titolo “Grundzüge einer Metaphtsik der Erkenntnis” del 1921; testo che è ovviamente ben più ampio [Joseph Stallmach, Einführung, in: Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss …cit, p. IX-XLIV]. Laddove, secondo Stallmach, con la “metafisica della conoscenza” Hartmann intendeva una teoria della conoscenza basata sull’ontologia e che anzi è praticabile solo sulla base di quest’ultima. È dunque questo lo spirito del testo che andiamo ad esaminare, e pertanto è chiaro che con esso il pensatore intendeva comunque esporre ed avallare una teoria della conoscenza invece di abolirla del tutto. Però, anche se ciò è senz’altro vero, nel testo traspare in maniera molto spesso estremamente chiara come Hartmann intendesse l’essere in relazione alla conoscenza, e cioè anche nella forma di una radicale contrapposizione.
E questo ci lascia comprendere la sua ontologia spesso ancora meglio di quanto sia possibile leggendo NWO e ZGO. Soprattutto laddove egli dimostra l’assoluta indifferenza dell’Essente (quale primario esistente) alla prassi dell’atto trascendente di conoscenza (e quindi alla sua tendenza oggettivante), ed inoltre ci mostra quanto l’usuale teoria filosofica della conoscenza abbia distorto il concetto di essere (specie pretendendo di generarlo) ed ancor più abbia occultato l’essere stesso e soprattutto la sua primarietà in un mondo che è costituito unicamente di reali esistenti (o meglio detto, “Essenti”). Tali sono infatti sia il soggetto conoscente, sia la coscienza, sia l’oggetto.
Altro momento forte della sua riflessione è inoltre l’affermazione della totale irrilevanza della complessiva teoria della conoscenza nella concezione e postulazione di un autentico oggetto, o “Gegenstand”, ossia l’Essente vero e proprio. E ciò si lascia comprendere chiaramente allorquando risulta evidente che la teoria della conoscenza dà vita unicamente ad un “oggetto di conoscenza”, il quale ha pochissimo a che fare con l’autentico oggetto – per la cui sussistenza è assolutamente indifferente se esso venga o meno conosciuto. E bisogna riconoscere che (se in gran parte Hartmann non mette mai in discussione le basi poste da Kant) queste sue prese di posizione spazzano via due tra le principali prese di posizione filosofiche del XX secolo, e cioè il neo-kantismo e la Fenomenologia di Husserl (non a caso entrambe più o meno incentrate nell’usuale teoria della conoscenza).
Insomma a suo avviso la dimensione dell’essere resiste ostinatamente a qualunque investimento di esso da parte della dimensione della conoscenza. E quindi si rivela a noi come l’unico autentico aspetto del mondo con il quale abbiamo a che fare costantemente – tanto nell’esistere che nel conoscere.
Detto questo, se la nuova ontologia di Hartmann senz’altro spiazza la rilevanza (soprattutto concettuale) dell’essere così com’era stata affermata nell’antica ontologia, comunque ha il grande merito di portare di nuovo alla ribalta questa realtà in filosofia, riscattandola così da una lunga dimenticanza. Nello stesso tempo comunque dimostra anche come questa dimenticanza sia stata il frutto di rilevanti distorsioni operate dal pensiero, se non veri e propri errori. Ed in questo senso egli per davvero riapre la strada a quello che era sempre stato il campo di pensiero nel quale si era da sempre mossa la filosofia. Anzi egli riapre letteralmente la strada alla filosofia stessa, e soprattutto, come lui dice in ZGO, in quanto “filosofia prima” ed inoltre in quanto conoscenza basata su un atto trascendente che coglie incondizionatamente ed in modo diretto l’effettivo ed autentico oggetto [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 18 p. 31-33, III, I, 22c p. 159-160]. Il che poi corrisponde alla liberazione del pensiero dal dominio oppressivo dei moderni relativismo e scetticismo.
Ebbene questo relativizza non poco l’aspetto (pur senz’altro vero) rappresentato dal suo intento di trattare di una teoria della conoscenza ontologicamente fondata. Infatti sposta la nostra attenzione sul suo sforzo di reintrodurre in filosofia quella trattazione dell’essere che era stata del tutto ingiustamente oscurata dalla filosofia moderna specie per mezzo della teoria della conoscenza.

1- Analisi testuale
Non essendovi elementi specifici da trattare (se non quello primario e centrale già delineato) ci limiteremo qui appena a seguire il testo di Hartmann nel suo procedere. Per cui, se si vuole, questo articolo può venire considerato anche un commento sintetico al testo e/o una sua recensione oppure compendio.
Nel Capitolo I (del quale abbiamo trattato negli altri articoli) egli ci mostra che il risorgere dell’ontologia va necessariamente di pari passo con una rimessa al centro dell’oggetto reale del tutto indipendente dalla coscienza, e quindi assolutamente incondizionato. Esso deve quindi costituire un reale che è destinato a venire trovato, e pertanto non può in alcun modo venire presupposto senza smarrire la sua natura. Che è quella di Essente e di “in sé”. Poco importa, quindi (come abbiamo già visto), se esso in tal modo finisce per essere in larga parte sconosciuto. Questo suo ultimo ambito di esistenza corrisponde infatti a quella dimensione metafisica (costituita per lui da oggetti sconosciuti e questioni insolute che hanno il pieno diritto di venire postulati dato che sono del tutto fisiologici) che egli non ha alcuna intenzione di abolire, anche se la sua ontologia coincide unicamente con il mondo reale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 1-2 p. 1-5, 5-8 p. 6-12, 10-11 p. 14-19, 13 p. 21-23, 17 p. 29-31, I, I, 1a p. 39-40, I, I 3bc p. 47-49, II, II, 5a p. 57-59, II, II, 7b p. 68, II, III, 8a p. 72-73, II, I, 12bc p. 95-97, III, I, 22d p. 154-156]. Dunque è forse anche in questo senso che egli parla di una metafisica della conoscenza. Egli ci vuole dire cioè che la prassi di una teoria della conoscenza non può in alcun modo eliminare l’alone metafisico che circonda la conoscenza del reale.
Ma comunque fondamentale è nel testo l’affermazione della differenza sostanziale che c’è tra conoscenza e pensiero: − essi sono infatti due cose radicalmente diverse tra loro [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., II p. 7-15]. E ciò comporta, a differenza di Husserl, la presa in considerazione di un’intenzione che, pur restando interna (sguardo rivolto verso sé stesso, verso i vissuti), è comunque trascendente la coscienza (così come anche la conoscenza degli oggetti) e quindi non resta entro in alcun modo entro la coscienza. Altrimenti essa cessa di essere conoscenza, ossia, per la precisione, “relazione di conoscenza” con l’essere; che poi costituisce un atto conoscitivo che trascende sempre e comunque la coscienza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 11 p. 16-19, I, I, 4d p. 55-57, II, III, 9a p. 77-83, II, III, 10c p. 83-84, III, I, 22b p. 152-153, III, I, 23a p. 156-157, IV, III, 47d p. 297-298].
Su questa base egli postula allora una “doppia intenzionalità”, che è però solo della conoscenza e non del puro pensiero. Si tratta cioè di un’intenzione rivolta verso l’oggetto reale nel mentre però questo sta davanti alla coscienza nella sua indipendenza. E ciò rivoluziona totalmente la teoria della conoscenza fenomenologico-husserliana. L’intenzione di coscienza infatti non mette capo ad un oggetto se non vi è, ben oltre la sua collocazione (ai margini della coscienza), un oggetto reale-mondano del tutto indipendente. Altrimenti (come vedremo poi) si delinea appena un “oggetto di conoscenza”, ossia un oggetto reale che viene completamente trasformato dalle operazioni mentali della conoscenza.
Ecco allora che si delinea in modo chiaro la primarietà assoluta del mondo degli oggetti reali rispetto ai contenuti oggettuali presenti nel soggetto. Esso infatti è onticamente molto più ”antico” del soggetto, e quindi lo precede in maniera radicale nel tempo ed anche nello spazio. E questo, a nostro avviso, lascia almeno intravvedere le implicazioni per un realismo religioso (incentrato nel concetto di creazione del mondo) che esistono (sebbene in modo nascosto e certamente non voluto) nell’ontologia di Hartmann.
Su questa base, comunque, il pensatore fa una precisazione che esautora decisamente buona parte dell’antica onto-metafisica. Egli dice infatti che il concetto di verità dell’essere è del tutto inadeguato perché tra verità ed essere vi è una differenza radicale ed inconciliabile (p. 12). Per cui
o noi prendiamo in considerazione la verità di una cosa oppure il suo essere. E con ciò svanisce anche ogni relatività dell’essere, dato che essa riguarda unicamente la verità.
A tale riguardo egli fa un’osservazione critica che ha una grande importanza rispetto al dominio della conoscenza che oggi la scienza empirica si auto-attribuisce. Sebbene il pensatore intenda questo più come la presa d’atto di una problematicità gnoseologica della scienza che non come una sua costituzionale insufficienza. Quanto appena detto, infatti, getta un’ombra non poco inquietante sul cambiamento delle verità che si è sempre verificato nella scienza, come ad esempio nella cosmologia fin dai suoi primordii. Non a caso non vi è più alcuna traccia delle una volta rivoluzionarie ed illuminanti teorie cosmologiche di Newton e Keplero. Dunque potrebbe ben essere che il mondo non corrisponda né all’antica né alla nuova verità.
Ecco perché egli afferma che bisognerebbe pensare ad una “verità in sé” del mondo, che è quindi del tutto indipendente da qualunque opinione o sapere attuale. Questa infatti, come egli sottolinea, fu l’idea sviluppata da Bolzano. Tale affermazione sembra voler quindi reintrodurre la possibilità e soprattutto la necessità di una verità oggettiva e dunque stabile; che trascenda pertanto qualunque stato attuale delle conoscenze. Al contrario invece la moderna scienza sperimentale dà per scontato che sia «verità» una conoscenza basata appena sull’attuale stato della prassi sperimentale. È evidente, insomma, che (nonostante le apparenze) questo genere di conoscenza non rispecchia affatto la realtà effettiva del mondo.
Ma questo è un nostro personale corso di pensieri e non quello di Hartmann. Egli trae infatti da tutto ciò un’estremamente pragmatica conseguenza teoretico-conoscitiva (p. 13), e cioè quella secondo la quale sarebbe necessario considerare il sapere circa la verità (il “ritenere per vero”) come completamente diverso dall’effettiva verità o non verità o falsità delle cose. Il che esautora una delle principali prese di posizione dell’usuale teoria della conoscenza. E questa presa di posizione è esattamente quella che incoraggia il relativismo della conoscenza, e dunque il tendenziale scetticismo.
Ma proprio qui viene in nostro soccorso l’ontologia (p. 13-15). Essa postula infatti una del tutto
alternativa teoria della conoscenza che non solo pone in evidenza l’insufficienza della definizione corrente di conoscenza (non basata sulla relazione di conoscenza ma invece sul solo presunto potere conoscitivo della rappresentazione), non solo pone in evidenza l’assenza fisiologica di un criterio di verità assoluto, ma pone in evidenza anche la necessaria storicità della conoscenza e quindi la sua necessaria approssimazione alla verità invece della sua conquista definitiva. Che in effetti non avviene mai, né mai potrebbe avvenire.
In altre parole, invece di indulgere al relativismo (depotenziando così l’atto conoscitivo nella sua capacità effettiva di intercettare l’oggetto reale, se non quando esso sia stato completamente conosciuto) bisognerebbe accettare che la conoscenza non è mai compiuta, e quindi non ha alcun potere di esaurire l’essere. Tutto ciò ci salva secondo Hartmann da quel relativismo della conoscenza che invece ambisce ad essere assoluto, e quindi esita in un vero e proprio scetticismo.
E per questo, secondo il nostro pensatore, non è nemmeno necessario ricorrere all’antica teoria ontologica degli universali, che intanto è stata comunque definitivamente modificata dal dominio della teoria della conoscenza [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., III p. 15-24]. Né è per lui una soluzione il ricorso all’ingenuo realismo naturale, dato che esso è sbagliato per il fatto di cancellare totalmente il problema trascendentale, e quindi sposta la conoscenza unicamente sul piano dell’esperienza del tutto incondizionata dagli a priori mentali (p. 16).
Su questa base Hartmann ritiene di poter pervenire ad una definizione di una teoria della conoscenza davvero ontologicamente fondata. E così espone quella che è per lui la teoria della conoscenza più plausibile, in quanto davvero fedele alla sua vera natura mondana (p. 16-17).
Per fare questo bisogna però prima sottrarla totalmente alla sua definizione come relazione tra soggetto e mondo oggettuale. Egli ci mostra quindi che la conoscenza è in verità un atto ed anche un pezzo del mondo tra i tanti, ossia appartiene al mondo come contesto, e quindi è essa stessa oggettiva invece di essere assurdamente onto-generante. Nello stesso tempo, allora, la natura del mondo non è affatto determinata dal soggetto: − infatti il mondo nella sua sostanza non è affatto oggettuale ma è invece appena un contesto di atti. Dei quali l’atto di conoscenza è solo uno tra i tanti atti, che includono l’azione, l’aspettativa, le emozioni etc. E pertanto è semmai il mondo a generare la conoscenza e non viceversa. E quindi essa trova posto (“luogo ontologico”) entro gli strati di essere del mondo, e precisamente in quello spirituale. Non è di certo lo spirito stesso (come riteneva Hegel) ma è comunque allocata entro lo spirito; che a sua volta in sé (in via di principio) non appartiene al mondo ma nei fatti appartiene ad esso quale uno dei suoi strati.
Una volta posto questo si può comprendere come e perché lo spirito diviene oggetto della conoscenza in quanto teoria della conoscenza e scienza dello spirito (p. 18).
Abbiamo quindi in tal modo un’analisi della teoria della conoscenza che si svolge dal punto di vista puramente ontologico (p. 19-20). Ed è in tale contesto che Hartmann prende in considerazione la gradazione esistente tra la dimensione spirituale della conoscenza e gli altri strati dell’essere, riconoscendo così in essa la diversa implicazione (a seconda dello strato) dell’”intentio recta” (atteggiamento naturale) e dell’”intentio obliqua” (riflessione). Laddove questi concetti erano stati precisati in ZGO, nello sforzo di differenziare la conoscenza riflessiva (ritorta su sé stessa, e quindi mediata e anche distorta dalle operazioni mentali) da quella diretta (includente anche quella naturale o ingenua), che è semplicemente diretta verso l’oggetto interiore e quindi è capace di intercettarlo realmente.
Tuttavia Hartmann ritiene che nemmeno a tale proposito di debba essere unilaterali.
Bisogna infatti per lui riconoscere che la teoria della conoscenza ha insieme un versante riflessivo ed un versante naturalistico, invece di avere solo il primo. E quindi non può venire davvero compresa senza lo schema ontologico del mondo reale diviso in strati in quanto autentico scenario degli eventi (che rende così del tutto secondario il soggetto ed ogni idealismo, affermando in tal modo il solo realismo). La conoscenza, insomma, assume una forma più aprioristica (tendenzialmente riflessiva) agli strati alti (spirito), mentre assume una forma più fattuale agli strati bassi (fisico-materiale).
Tuttavia (p. 20-21), nell’illustrare la diversa accessibilità del mondo oggettuale esteriore e di quello interiore (e quindi la diversa rilevanza dell’intentio recta e di quella obliqua entro la teoria della conoscenza), Hartmann sottolinea la primarietà del mondo esteriore cosale per l’orientamento umano nel mondo, e quindi pone la dimensione antropologica (corrispondente per così dire alla primarietà della dimensione dell’«in-mondo») come completamento indispensabile della teoria della conoscenza. Una teoria della conoscenza pura, dunque, non può esistere. E ciò sottolinea appunto l’importanza decisiva e necessità dell’ontologia.
Naturalmente ciò implica necessariamente (p. 22) la negazione del «cogito» cartesiano come luogo di certezza, dato che in questo caso la conoscenza è appena rivolta verso i processi psichici e nemmeno per davvero verso il flusso dei vissuti. Questo discorso coinvolge quindi criticamente anche Husserl − specie con il suo concetto di sguardo rivolto ai vissuti, che invece sono solo processi psichici e quindi rappresentano un’oggettualità del tutto diversa da quella reale.
Ma la definizione più chiara, sintetica e completa di conoscenza ci viene fornita nel capitolo IV [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., IV p. 24-33]. Essa consiste infatti per Hartmann semplicemente nella coincidenza tra oggetto di conoscenza ed oggetto ordinario (p. 25). Di conseguenza le categorie che il soggetto impiega nella costruzione della rappresentazione sono di fatto le stesse che intervengono nella costruzione dell’oggetto. E quindi non esiste alcuna discrepanza tra le due operazioni conoscitive e tra le due dimensioni dell’essere.
Proprio per questo, egli dice, Kant considerò equivalenti le categorie del giudizio a priori con quelle dell’esperienza. La conclusione è che entro ogni oggetto vi è un limite di conoscibilità che dipende dal limite esistente entro l’identità tra categorie della conoscenza e categorie dell’essere.
Tale identità infatti si spinge solo fino ad un certo punto, ossia solo fin laddove l’oggetto viene effettivamente conosciuto. E poi si dissolve.
E quindi esattamente qui il pensatore evidenzia la realtà inoppugnabile dell’inconoscibile che in ZGO (come abbiamo già visto) corrisponde alla metafisica con i suoi misteri insoluti.
Da ciò emerge pertanto, a suo avviso, che la prassi dell’analisi categoriale è difficile per definizione dato che le categorie sono sempre in parte di conoscenza ed in parte di essere. In altre parole non è per nulla facile riconoscere nell’oggetto qual’è la parte conosciuta e qual’è la parte reale. Proprio perché, come abbiamo appena visto, il limite tra queste due parti è assolutamente fluido e imprevedibile.
E questo ancora una volta esautora l’aspettativa dell’usuale teoria della conoscenza secondo la quale l’oggetto autentico sarebbe solo quello completamente conosciuto, e quindi ricondotto all’unità che i sensi invece non ci trasmettono. È evidente che il bersaglio critico è qui (ancora una volta) anche la pretesa husserliana di ritrovare la cosa nella sua pienezza mediante quell’intuizione essenziale che ci fornirebbe secondo lui la sua pienezza unitaria e la sua verità. Ed infatti Hartmann obietta a questo punto (p. 26) proprio ad Husserl che il vissuto non è affatto il vero oggetto e cioè l’oggetto di coscienza, dato che i processi reali della Natura si svolgono molto lontano dal mondo della coscienza e quindi non ne vengono affatto rappresentati. Dunque l’oggetto di coscienza non rispecchia, non rappresenta né sostituisce quello reale.
Ebbene tutto questo è di importanza davvero fondamentale, perché introduce una grande correzione nelle prospettive gnoseologiche che hanno completamente snaturato la conoscenza oggettuale fin quasi a renderla impossibile o almeno piena di incertezze.
E tuttavia a nostro avviso (almeno a questo riguardo) non ne esce molto bene nemmeno l’ontologia di Hartmann. Infatti, da quanto detto, emerge chiaramente la grande limitazione conoscitiva introdotta dalla nuova ontologia (p. 26). Infatti tale moderna ontologia è soprattutto un campo di grandi insicurezze per la confusione inestricabile che vi è tra oggetto conosciuto ed oggetto reale. Hartmann infatti salva la conoscenza dell’oggetto reale dalle incertezze gettate su di essa dalla moderna teoria della conoscenza, ma non può evitare la fatale domanda: − l’oggetto conosciuto e l’oggetto reale sono davvero la stessa cosa? L’incertezza quindi esiste tanto al polo puramente gnoseologico quanto anche al polo puramente ontologico. Tanto che lo stesso pensatore adombra a tale proposito la possibile insufficienza della nuova ontologia rispetto a quella antica. La quale (almeno con Aristotele) considerava per davvero simultaneamente l’oggetto conosciuto e l’oggetto reale entro la realtà della sostanza prima. Sebbene per questo fosse costretta a ricorrere al soccorso di universali (essenza) totalmente astratti dall’esistenza. Cosa che giustamente Hartmann pone invece severamente in discussione.
Posto tutto questo il pensatore ritorna ad un discorso che aveva sviluppato soprattutto in NWO, e cioè la natura assolutamente realistica delle categorie (p. 38). Le quali (una volta largamente sintetizzate) non sono altro che i quattro principali livelli della realtà mondana: − fisico-materiale, organico-vitale, animico-mentale e spirituale-intellettuale. Ed afferma poi che la curva della conoscenza (oscillante nella sua capacità di avere effettivamente un oggetto, e quindi di essere davvero efficiente) raggiunge uno dei punti più bassi in corrispondenza della realtà organico-vitale ed animica. Dimensioni che egli intanto ha svincolato totalmente dall’antica onto-metafisica, la quale proprio all’anima attribuiva invece il più alto grado di realtà – come abbiamo visto nell’articolo dedicato alle “Leggi” di Platone, il quale identificava l’anima con l’ontologia stessa nella sua pienezza e totalità. E naturalmente organico-vitale ed animico stavano allora per sostanza e causalità (Causa prima), che sono concetti anch’essi ormai totalmente svaniti dall’ontologia.
Ecco che allora – per ammissione dello stesso Hartmann (p. 29) − il sistematico fallimento conoscitivo odierno rispetto all’organico-vitale (con conseguenti larghe aree di inconoscibilità) esprime la limitazione della nuova ontologia rispetto all’antica. In quest’ultima infatti le nozioni metafisiche di sostanza e causalità erano invece in grado invece di spiegare totalmente l’essere mondano (sia pure su un piano affatto coincidente con l’effettivo reale). Ed un aspetto centrale di questo è peraltro la rinuncia al finalismo dei processi organici in ontologia.
Eccoci dunque ad un momento dell’ontologia di Hartmann nel quale non vi è più alcuna traccia di metafisica. E quindi la sua aspirazione ad una “metafisica della conoscenza” ha tutto un altro significato rispetto a quello che si potrebbe immaginare a prima vista.
Ma oltre a ciò l’anima ha avuto nel passato una valenza non solo ontologica ma anche conoscitiva.
Ed anche questa viene messa radicalmente in discussione dal nostro pensatore, specie sulla base di evidenze empiriche che gli provengono dalla psicologia (p. 30). Egli afferma infatti (qui ed anche altrove nel testo) l’assoluta impossibilità dell’auto-conoscenza in quanto conoscenza del proprio interiore animico; che è poi simile alla fallimentarietà della conoscenza dell’organico. Ed il motivo di ciò è il per lui l’assurdo conoscere sé stesso per mezzo di sé stesso. Cosa che costituirebbe un ostacolo insormontabile rappresentato appunto dall’intermediazione di sé stessi. Dunque la Psicologia fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il suo primario obiettivo. E peraltro tutto ciò rende per lui la conoscenza aprioristica radicalmente diversa da un vero atto conoscitivo (che può essere realmente trascendente solo quando ha davanti un oggetto pienamente reale).
Tuttavia quello che non riesce a fare la Psicologia sembra che non riesca a farlo nemmeno quella Fenomenologia che ha tentato di sostituirsi ad essa. Ed il problema è qui proprio quello appena sottolineato dell’insufficienza di una conoscenza solo aprioristica. Di nuovo infatti Hartmann (p. 31) coglie l’occasione per fare piazza pulita dell’aspirazione fenomenologico-husserliana alla famosa «zur Sache selbst» («verso la cosa stessa»), mostrando che essa (con tutta la teoria del costante oggetto intenzionale) riguarda unicamente il campo degli oggetti spirituali e quindi è solo una conoscenza aprioristica, che quindi non tocca assolutamente il reale. Essa insomma non tocca assolutamente il vero oggetto (come invece pretende di fare) in quanto non si serve affatto di un atto trascendente di conoscenza, restando esso infatti totalmente racchiuso nello spazio della coscienza.
E tuttavia non è per tutto questo che l’ontologia di Hartmann va considerata fallimentare. Essa non lo sembra affatto se teniamo conto del culmine della presa di posizione ontologica che viene raggiunto nel testo per mezzo dell’affermazione della totale indifferenza dell’Essente al venire conosciuto ossia al divenire “Gegenstand” (oggettivazione) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntniss…cit., V p. 34-39].
Infatti, egli dice, l’Essente né si difende dalla conoscenza né la richiede. Insomma non va incontro ad essa e nemmeno vi si sottrae. E ciò conferma la recettività e non attività della conoscenza, eliminando così ogni artificiosa teoria della costituzione. Dunque tutte le operazioni mentali del soggetto generano appena un oggetto di conoscenza, senza generare (né influenzare) alcun oggetto nella realtà. E quindi nel concepire una conoscenza davvero autentica non resta che tornare (almeno in parte) a quella fisiologia empiristica e sensistica (mai abbandonata dalla Medicina) che presuppone la presa d’atto dell’oggetto reale per mezzo degli organi sensoriali.

Conclusioni.
Il nostro excursus estremamente sintetico sull’opera di Hartmann è consistito essenzialmente nell’estrarre da essa i concetti portanti, rinunciando così a seguire le sue argomentazioni come sempre estremamente fitte, profonde, complesse ed anche non poco difficili da comprendere.
E quindi questo articolo può essere utile a chi volesse conoscere i concetti fondamentali della sua ontologia senza dover affrontare la lettura diretta dei suoi testi. In questo senso il nostro lavoro può pertanto essere (almeno in una certa misura) venire considerato come una sorta di compendio e di recensione di ELO.
Tuttavia non è certo questa la nostra intenzione primaria. Questo nostro articolo vuole infatti essere soprattutto una ricerca che va ad aggiungersi a quelle che abbiamo già svolto sulla visione di Hartmann e che mira sostanzialmente a cogliere il valore che ha la sua ontologia nel pensiero moderno. Ed abbiamo già detto che gli aspetti principali di quest’ultima ci sembrano essere la reintroduzione della trattazione dell’essere ed inoltre una revisione estremamente critica della teoria della conoscenza nel senso di una sua possibile riconciliazione con l’ontologia. E nei precedenti articoli abbiamo visto che ciò ha la valenza di una vera e propria ricostruzione della conoscenza.
Ebbene tutto questo è emerso in modo chiaro nella nostra discussione del testo. Sono inoltre emersi anche i limiti di questa nuova ontologia rispetto a quella antica. Ma nemmeno questo è l’obiettivo primario della nostra ricerca. Oltre a ciò sono comunque emersi alcuni importanti aspetti che vale la pena di sottolineare ancora una volta.

Abbiamo visto con sorpresa emergere la possibilità di una sorta di inavvertito realismo religioso incentrato in un mondo di cose che è infinitamente più antico dell’uomo. Ovviamente è possibile che Hartmann parli dell’evoluzione e non della creazione. Tuttavia sta di fatto che entro il realismo religioso (sicuramente per certi versi ingenuo, ma intanto con il pieno diritto di esserlo) l’essere mondano si presenta sempre con i chiari caratteri del «già stato» ed anche per questo esso trascende infinitamente l’uomo in quanto originaria produzione divina. Ciò significa allora che reintrodurre un’ontologia radicale come quella di Hartmann rende possibile attualizzare anche nuovamente il realismo religioso.
Qualcosa di simile vale anche per l’invito del nostro pensatore a reintrodurre una “verità in sé” e quindi la verità stabile ed oggettiva. Anch’essa si pone quindi con i caratteri della radicale antecedenza trascendente rispetto all’uomo storico ed inoltre evoluzionistico. E nulla vieta quindi di ricavare da questo il concetto di verità divina. E tutto ciò coincide poi perfettamente con l’affermazione da parte di Hartmann della storicità della conoscenza nel senso della sua inevitabile e cronica incompiutezza. La conoscenza umana infatti mai potrà raggiungere e possedere la Verità divina.
Questi erano una serie di aspetti positivi estraibili dalla visione di Hartmann. Sebbene si tratti appena di extrapolazioni. E questo significa allora che è sufficiente reintrodurre in filosofia il concetto di essere per veder riapparire con esso anche una serie di concetti religioso-metafisici che credevamo ormai morti e sepolti da tempo, ossia svalutati ed archiviati per sempre.
Tuttavia ci si stiamo trovati anche di fronte ad un aspetto negativo emergente dall’ontologia di Hartmann, e cioè l’impossibilità della metafisica una volta che le categorie tradizionali siano state trasformate in quelle del solo mondo reale (i suoi strati di essere). A questo punto infatti viene meno uno dei presupposti fondamentali per la metafisica, ossia quel concetto di anima che evidentemente Platone non a caso aveva posto alla base dell’ontologia senza nemmeno dover porre il concetto di spirito. Questo è insomma il problema della nuova ontologia. Essa si copre di infiniti meriti reintroducendo il concetto di essere. Eppure può arrivare solo fino ad un certo punto dato che è pur sempre un’ontologia iper-realistica e quindi per nulla contemplativa.

Pertanto, volendo addivenire ad un bilancio finale dell’analisi di quest’opera, ci sentiamo di poter dire che il nucleo di valore dell’intera ontologia di Hartmann sta forse nelle ultime battute della nostra trattazione (ossia nel capitolo V del libro), e cioè nella sua affermazione dell’assoluta indifferenza dell’Essente rispetto alla conoscenza. Tale affermazione non abolisce di certo la teoria della conoscenza da lui presentata. Dato che questa mette capo esattamente all’Essente, svincolandosi così da qualunque condizionamento aprioristico, soggettivistico e dogmaticamente teoretico-conoscitivo, ossia da quella dimensione che Hartmann stesso ha riassunto nelle sue opere con la presa di posizione costituita dalla “riflessione”. La conoscenza da lui concepita punta infatti direttamente all’Essente. E lo fa ancora più coerentemente perfino quando fallisce nel conoscerlo esaurientemente. Infatti essa non cade mai nella trappola (e vicolo cieco) teoretico-conoscitivo di scambiare l’Essente per l’oggetto di conoscenza.
Proprio in questo consiste infatti la forza della sua ontologia, la quale pone un mondo costituito unicamente da Essenti (ossia le vere oggettualità reali) che esiste non solo incondizionatamente ma soprattutto intangibilmente (rispetto alla coscienza).
L’Essere cioè, secondo lui, è lì davanti a noi ed esiste perfino indipendentemente dal condizionamento dell’«è» (essenza), così come anche dal condizionamento dell’«esserci» (esistenza). Esso non coincide dunque nemmeno con l’esistente. È invece qualcosa di inafferrabile eppure è più che reale. È insomma qualcosa di cui non possiamo assolutamente dubitare e che ci avvolge pertanto realmente da ogni parte, costituendo così non l’esistenza o l’esistente (puri concetti astratti) ma invece il mondo in cui viviamo e nel quale vivono perfino le dimensioni più trascendenti che costituiscono la conoscenza (a priori).
Tutto ciò sacrifica senz’altro la sontuosità metafisica dell’antica ontologia, e forse (come abbiamo visto) perfino una certa sua superiore capacità esplicativa. E tuttavia, dopo secoli di eccessi teoretico-conoscitivi, rappresenta una dottrina che ci offre finalmente di nuovo un’immagine salda della realtà in cui viviamo, e quindi nella quale agiamo, patiamo e conosciamo.
E questo non è per nulla poco in un’epoca in cui filosofia e scienza sembrano essersi coalizzate per farci perdere quelle vitali certezze in assenza delle quali non possiamo che cadere nella disperazione perdendo con ciò completamente il senso del nostro vivere.
Diremmo pertanto che l’ontologia di Hartmann è un antidoto non solo contro le incertezze circa la realtà che sono state insinuate dalla filosofia centrata nella teoria della conoscenza, ma è un antidoto anche contro la disperazione senza rimedio che è stata causata dalla filosofia centrata nell’esistenzialismo.

E riteniamo che con ciò possiamo considerare conclusa la nostra complessiva ricerca sul pensiero di Hartmann, dato che probabilmente è venuto fuori quello che è il suo principale valore e ruolo entro il mondo moderno.

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(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona.

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione
In via di principio (ossia attenendosi a schemi interpretativi piuttosto rigidi) attribuire a Platone un’ontologia non è cosa affatto facile. Eppure vi sono nei suoi testi ed anche in letteratura numerosissime testimonianze del fatto che egli l’abbia concepita fin dall’inizio [Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 159d p. 81, 177e p. 133, 181cd -186e p. 145-157, 189a-190a p. 167-171, 193d p. 185, 202a p. 207, 206e-207c p. 223; Platone, Cratilo, Laterza, Roma Bari 2008 , 385c-386d p. 7-11; Platone, Lettere, Rizzoli, Milano 2008, 324-352 p. 133-224; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Paperback Edition. New York 1960; Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme, in: Platone Teeteto…cit., 8 p. 266-267; Davide Spanio, Il mondo come teogonia, Aracne, Roma 2012, Introd., 1-2 p. 13-24; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008, VIII p. 169-173; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI, III p. 172-176; Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014, II, III, 4 p. 315-333; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. Egli era stato in effetti un pensatore dell’essere in maniera piuttosto inapparente, sia perché pensava soprattutto alla stabilità in quanto verità dell’essere stesso, e quindi alla sua immunità del divenire, sia perché in fondo l’essere consisteva per lui nella stratificazione dell’anima, e quindi in una realtà intellettule-spirituale e non certo invece cosale.
Quindi già prevaleva nel suo pensiero un elemento ontologico che in conclusione vedremo riconfermato nelle Leggi, ossia appunto l’anima. Tuttavia ai posteri è sempre sembrato che egli non avesse formulato alcuna ontologia proprio perché quest’ultima veniva pensata in termini unicamente aristotelici e cioè dinamici, immanentisti e realisti, ossia come il processo stesso di formazione delle cose. Eppure pare che proprio quest’ultimo concetto di essere abbia cominciato a delinearsi anche verso la fine della vita ed opera ed opera di Platone, e cioè entro i dialoghi “Timeo” e “Leggi” [Platone, Timeo, Rizzoli, Milano 2003; Platone, Leggi (a cura di Patrizio Sanasi), in: C:/Users/admin/OneDrive/Desktop/Libro%20Platone%20Leggi%20.pdf]. Infatti Luciano Montoneri legge in questa parte del suo pensiero addirittura un realismo filosofico ed inoltre l’esposizione di una vera e propria Fisica [Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Forlì, Victrix 2014, VIII, p. 339-349]. Una Fisica che però costateremo essere tutt’altro che materialistica in quanto costituita in effetti unicamente dalla realtà animica. Le cose infatti vengono solo dopo quest’ultima.
Il Timeo, lo ricordiamo, contiene una descrizione estremamente dettagliata addirittura della struttura e dinamica del corpo umano in relazione ad alcune strutture e dinamiche fondamentali dell’essere [Platone, Timeo… cit., 73-90 p. 361-421]. Inoltre contiene una dottrina delle grandi rotazioni cosmico-trascendenti che sono causa dell’essere, ed infine ci offre una visione d’insieme dell’Essere originario e totale nello ”sferoide” [Platone, Timeo…cit., 33b-36c, pag. 197-205, 44d-48a p. 241-253].
Il discorso condotto nelle “Leggi” è invece abbastanza diverso già solo per il suo titolo, dato che il dialogo concerne in quasi tutta la sua estensione la struttura legislativa dello Stato, ovvero della città. In via di principio, dunque, nulla è più lontano di questo da un discorso sull’Essere. Discorso che invece Aristotele avrebbe sviluppato in maniera estremamente diretta, formulando così anche una definizione dell’Essere che sarebbe restata per lungo tempo paradigmatica per ogni ontologia.
E tuttavia nel capitolo X dell’opera di Platone sopravviene effettivamente una descrizione dell’Essere che nello stesso tempo fonda l’intera etica ed anche la stessa realtà legislativa.
Il discorso riprende qui la realtà più volte descritta dell’anima, ma la pone questa volta alla radice dell’Essere stesso, ossia dà ad essa una veste decisamente cosmico-ontologica oltre che onto-generativa; e quindi se vogliamo perfino realistica (come dice Montoneri). L’anima insomma finisce per apparirci come l’equivalente dei grandi circoli cosmici che muovono sé stessi, e quindi è la massima espressione di quel «causa sui» che giustifica ogni cosa (essere) ed ogni divenire, ossia ogni movimento che noi possiamo riscontrare nell’essere.
Ora a prima vista è difficile dire quale sia il motivo di un approccio così singolare all’ontologia come scelta di Platone. Ma essa intanto è reale. Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che, come dicono Friedländer e perfino Romano Guardini [Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2004, I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 260-279] Platone fu sempre (e lungo tutto il suo pensiero) prima un teorico dell’etica politica e solo dopo un filosofo. L’altra spiegazione è poi la straordinaria genialità, originalità e profondità di pensiero di quello che è stato senz’altro il maggiore filosofo della storia. In ogni caso la ragione di questa assimilazione tra leggi ed essere ci risulterà man mano più chiara ed inoltre anche di importanza assolutamente centrale.
Bene, prima di addentrarci in maggiori particolari di questa dottrina, dobbiamo prendere atto del fatto che (prescindendo dall’ontologia aristotelica) alcune ontologie moderne hanno chiamato in causa in vari modi proprio Platone. E ci riferiamo per questo all’espressa ontologia di Nicolai Hartmann [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941] ed inoltre al discorso su filosofia e scienza svolto da Whitehead [Alfred North Whithead, Scienza e filosofia, Castelvecchi, Roma 2014].
A questi due autori aggiungeremmo anche quell’altra espressa ontologia che fu di Christian Wolff, e che rientra in un razionalismo metafisico che senz’altro riconosce tra i suoi padri (sebbene molto alla lontana) anche Platone stesso [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006]. In ogni caso il pensatore tedesco non parlò mai in quest’opera del filosofo ateniese. E quindi esso vi ricorre solo come suggestione e richiamo alla lontana nel contesto di quel razionalismo filosofico che aveva avuto intanto una lunghissima storia, e quindi in qualche modo (sebbene con le dovute cautele) si può ritenere sia iniziato proprio con Platone.
Hartmann, comunque (in modo simile a molti filosofi moderni), tratta di Platone in una maniera decisamente negativa – egli infatti non solo annovera il suo pensiero in quelle dottrine unilaterali e moniste (ossessionate dall’unità dell’essere) che pretendevano di ridurre tutto ad un solo principio (nel caso specifico l’Idea), ma inoltre lo ritiene essere uno dei principali responsabili del dualismo che spesso era scaturito da queste visioni, ossia la tendenza a separare nettamente l’essere ideale da quello reale. Whitehead è stato invece decisamente molto meno severo verso Platone, anzi non ha nascosto una notevole ammirazione verso il suo pensiero. E tuttavia nemmeno così ha reso giustizia alla vera natura del suo pensiero. Lo ha infatti ritenuto il protagonista di una serie di idee (sostanzialmente intuitive e fortemente contemplative, se non mistiche) che in qualche modo hanno offerto alla scienza basi preziose per potersi sviluppare. Anzi in qualche modo lo ha ritenuto (diversamente da Aristotele, che invece era egli stesso uno scienziato) il prototipo del filosofo che serve la scienza pur senza né concepirla né praticarla; ossia intuendola al confine del proprio filosofare. Quanto poi a Wolff abbiamo già detto in che modo il suo pensiero può comunque richiamare Platone per alcuni aspetti.
Ora, entrambe le prime due letture di Platone appaiono abbastanza riduttive e per molti versi anche ingiuste se non erronee. Innanzitutto chi ha approfondito davvero il pensiero di Platone sa bene che il dualismo da lui sostenuto fu solo apparente – e questo viene affermato non solo da suoi studiosi ma anche da filosofi antichi che si ispirarono al suo pensiero [Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276; Ilaria Ramelli, Il platonismo nella filosofia patristica nel De Anima e nelle altre opere del Nisseno, in: Ilaria Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I-II p. 959-1151; Gregorio di Nissa, Dell’anima e della resurrezione, ibd. I, 7, 44-48 p. 381-387, III, 72-77 p. 417-423, V, 5, 121-128 p. 473-481]. Egli infatti volle semmai offrirci un’immagine totalizzante e continua dell’Essere (sebbene pensata mediante progressivi livelli ipostatici procedenti dal trascendente verso il reale), entro la quale la distinzione tra essere ideale ed essere reale serviva solo a dimostrare che la vera cosa è in realtà l’Idea. Ed essa lo è non in quanto isolata in un mondo trascendente (l’essere ideale), ma invece in quanto posta in continuità ininterrotta con la cosa reale. Di quest’ultima infatti l’Idea è paradigma e modello. Tuttavia nell’esserlo è dotata di un’effettiva onticità, per quanto affatto equiparabile a quella corporea e materiale. Di questo decisivo aspetto abbiamo comunque trattato intensivamente nel nostro saggio dedicato a Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. Ma esso viene confermato anche dalla magistrale analisi del concetto di Idea platonica che è stata fatta dal Prof. Reale [Giovanni Reale, Per una nuova… cit., II, VI, p. 158-213]; oltre che anche da altri studiosi [Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 241; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154].
Quanto poi alla lettura di Platone che viene fatta da Whitehead, non crediamo affatto che il pensatore ateniese vada preso in considerazione unicamente per i servigi da lui prestati alla scienza empirica ed al suo sviluppo. Questo intendimento risente infatti fortemente della del tutto fuorviante e distorta ri-lettura di Platone che iniziò con Schleiermacher nel XIV secolo, attraversò poi molti sistemi filosofici del XX secolo (tra i quali la Fenomenologia husserliana, con l’appendice di Lotze, e la Filosofia matematica di Frege) per culminare infine in Natorp e nel neo-kantismo.
E bisogna ricordare a questo punto che proprio Hartmann ha ritenuto la vera ontologia del tutto incompatibile con una simile presa di posizione [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I, 4d p. 55-57]. In tale contesto interpretativo, comunque, Platone è stato di fatto ridotto al pensatore della Ragione per eccellenza. Laddove come tale egli avrebbe semmai potuto venire scelto come modello da un Wolff e dai suoi simili. Mentre invece, entro il sistema filosofico platonico, la Ragione occupa un posto appena come facoltà dell’anima e più ancora come emanazione dell’Intelletto divino. E non a caso esattamente in questa sua forma noi la ritroviamo nelle Leggi.
Whitehead mette comunque in luce una forte tendenza di Platone ad affermare il valore dell’”armonia” dell’Essere, quale “proporzione” e “misura”, e ciò per mezzo dell’accento da lui posto sulla scienza matematica [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. E questo aspetto è realmente presente nel dialogo, sebbene (come vedremo) con un significato abbastanza diverso da quello sottolineato dal filosofo inglese. Inoltre tale elemento ci porta nuovamente molto vicino a quella visione ontologica di Wolff, anche entro la quale l’appello alla matematica ha un senso molto diverso da quello platonico – essa rientra infatti in una sapienza filosofica che non solo punta all’esattezza assoluta dei supremi Principi logici (dai quali ogni cosa viene dedotta) ma inoltre resta in intima connessione con gli aspetti unicamente quantitativi della realtà ossia ai cosiddetti “fatti” dell’esperienza [Christian Wolff, Discours préliminaire sur la philosophe en general, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006, I, 12-19 p. 75-82, I, 27 p. 87-88, II, 34-36 p. 92-94, III, 139 p. 175-178].
Ma vedremo che nelle Leggi di Platone le cose stanno in modo molto diverso per quanto riguarda il valore attribuito alla matematica.
Tuttavia Whitehead sostiene inoltre che l’accento posto da Platone sulla matematica in particolare anticipava una scienza che voleva avere la precisione logica che è appunto propria della matematica stessa [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4-5 p. 22-39]. Questo sarebbe stato infatti per lui l’insegnamento svolto nell’Accademia. Ma – a parte il fatto che l’insegnamento svolto da Platone nell’Accademia fu sostanzialmente ed interamente mistico ed esoterico, e quindi metafisico-religioso e non logico [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 80-88, II, IA, 1 p. 419-429; Giovanni Reale, Per una nuova …cit., I, III, p. 75-111; Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 11-36; Alexandre Koyré, Discovering… cit., p. 1-7; Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10, Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136, II, V p. 167; Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3 p. 45-52, 5 p. 63-67, 6 p. 77-84] −, quello che dice Whitehead ancora una volta è verosimile semmai per un pensatore come Wolff, ma non per Platone. Spicca a tale proposito infatti il senso evidente di quanto Platone affermò nella sua VII lettera a proposito dell’insegnamento unicamente orale che egli svolse nell’Accademia (cioè del tutto al di fuori della materia scritta dei Dialoghi) [Platone, Lettere…cit., VII, 341cd p. 193]: – “Non esiste nessun mio scritto sull’argomento; né mai esisterà. Non si tratta assolutamente di una disciplina che sia lecito insegnare come le altre; solo dopo lunga frequentazione e convivenza col suo contenuto essa si manifesta nell’anima, come la luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco…”. E la scintilla è appunto, secondo Friedländer, il simbolo che più pienamente incarna la natura esoterica dell’insegnamento di Platone – si tratta infatti di una conoscenza misterica e profondissima che di colpo erompe, invadendo e pervadendo l’anima dopo una lunghissima e faticosissima preparazione. Pertanto semmai lo studio della matematica fu in Platone funzionale a questo ed affatto invece fine a sé stesso.
Una volta premesso tutto ciò, quindi, tenteremo una rilettura sintetica delle Leggi che metta in luce l’ontologia in essa esposta allo scopo di verificare se possa o meno venire ridotta ad una scienza dell’essere puramente razionalistica come quella sostenuta soprattutto da Wolff e da Whitehead; oppure possa tradursi in un realismo «in-mondanistico» ed immanentistico come quello di Hartmann, del quale la metafisica costituisce appena gli sfumati e remotissimi margini. E peraltro anche quest’ultimo pensatore ritenne che una siffatta ontologia debba stare in stretta sintonia con la scienza [Nikolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1949, II p. 11-20, IV p. 27-35, VII p. 51-59; Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 19 p. 33-35, 21 p. 37-38, I, I, 4ac p. 51-55, II, I, 13a p. 101-102, II, III, 20c p. 144-146, IV, II, 42ad p. 267-273, IV, III, 47ad p. 293-298]. Naturalmente non crediamo affatto che tali assimilazioni siano possibili.
Ma quello che dice Whitehead potrebbe fare pensare che sia così. In ogni caso solo l’analisi testuale delle Leggi lo potrà dimostrare.
Per l’ontologia di Hartmann bisogna però fare un discorso a parte. È vero che di certo nemmeno lui svaluta la Ragione. Però è troppo avverso a tutte le forme di ontologia condizionate dal razionalismo e mentalismo per poter venire considerato un sostenitore del culto della Ragione entro la scienza dell’Essere. Anzi egli sostiene espressamente che la presa di posizione razionalistica (incentrata nell’atteggiamento “riflessivo” e quindi sulla riduzione dell’Essente mondano alla rappresentazione ed al pensiero, è quello che più ha nuociuto all’ontologia quale equilibrato e sobrio realismo filosofico [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung… cit., Einleitung 1 p. 1-2, 10 p. 14-16, I, I 3c p. 48-49, I, I, 4d p. 55-57, II, III, 10a p. 83-84, II, I, 13ab p. 101-104, III, I, 22dc p. 153-156, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157, IV, II, 42c p. 270-271]. Pertanto è possibile che tutto sommato i suoi giudizi radicalmente negativi su Platone possano venire moderati tenendo conto di un’ipotetica somiglianza (sebbene molto alla lontana, e solo da questo punto di vista) tra la sua ontologia e quella del pensatore ateniese. Del resto egli punta lo sguardo sull’Essente in quanto irriducibile. E più o meno lo stesso fa Platone nel Teeteto.
A questo scopo esamineremo pertanto sinteticamente il contenuto delle Leggi allo scopo di dare un’immagine chiara dell’ontologia da essa contenuta, nel mentre contemporaneamente faremo riferimento ai pensatori menzionati laddove ciò si rivelerà utile (oltre i richiami ad essi che abbiamo già fatto).

1- L’ontologia di Platone nelle Leggi.
Il dialogo inizia [Platone, Leggi…cit., I p. 4-16] con un discorso molto generico nel quale emerge comunque già il fatto che la legge promuove “beni” (ossia “virtù”), che sono sostanzialmente più divini che non umani. Ed in generale si tratta del distacco dal piacere ed inoltre della disponibilità a sottomettersi a pratiche che favoriscano la capacità di sacrificio (gli esercizi faticosi). Ed il tutto tende quindi allo sviluppo di un atteggiamento anti-egoistico, anti-edonistico ed anti-solipsistico. Si tratta insomma di fatto della capacità di auto-dominio, ossia il controllo delle passioni.
E bisogna ammettere che questa così sublime ed integra morale pagana avrebbe dovuto essere oggetto di ammirazione (e non di disprezzo) da parte dei cristiani.
Ma già laddove Platone vede nell’educazione dei fanciulli la base stessa della legge [Platone, Leggi…cit., II p. 17-27], emerge il valore di quelle armonia e proporzione numerica che abbiamo vista sottolineato da Whitehead. In altre parole la virtù e la connessa legge hanno anche un versante numerico in quanto connesse al comportamento armonico che scaturisce dall’abitudine all’auto-dominio. Platone sottolinea però il fatto che questa tendenza proviene agli uomini dagli dèi, come si può del resto constatare entro le narrazioni mitiche.
In ogni caso emerge nel dialogo da subito [Platone, Leggi…cit.III p. 28-40] che gli elementi fondanti della legge (in quanto costituzione) sono l’anima e la conoscenza che la contraddistingue, opposta com’è all’ignoranza e quindi in concordanza con l’azione della Ragione. Si tratta dell’antica idea di Platone (giunta a maturazione dopo l’influsso orfico-pitagorico ed espressa soprattutto nel Fedone) secondo la quale l’anima è un’entità insieme etica e gnoseologico [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2005; Raphael, Iniziazione… cit., p. 31-44; Paolo Scarpi, Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007, III, F4 p. 425; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates….cit., p. 145-285; Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I p. 35-39, I, I, I p. 41-46; Luciano Montoneri, Il problema… cit., IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155]. Ma essa assume ora un aspetto anche ontologico. Ecco infatti emergere il nucleo stesso dell’ontologia platonica nelle Leggi, ossia l’anima stessa, ed appunto nella sua dimensione non solo etica ma anche gnoseologica. E ciò ci riporta certamente in una certa misura a Wolff, con la sua ontologia fondata su principi razionali assolutamente certi che sono però anche principi dell’essere [Christian Wolff, Discours…cit., II, 30 p. 90, II, 33 p. 91-92, II, 36 p. 93-94, III, 69 p. 117 III, 73 p. 121-122, III, 93-94 p. 133-135, III, 111-112 p. 146-147], III, 117–18 p. 154, III, 125 p. 161-162, III, 128 p. 165-166]. Sebbene abbiamo già constatato il significato molto diverso che ciò ha rispetto al razionalismo della visione filosofica e dell’ontologia platonica.
E infatti tutto quello che Whitehead dice rispetto a questo è radicalmente diverso da quanto sostiene invece Platone. Il filosofo inglese sottolinea cioè a questo proposito che si tratta di principi astratti opposti ai meri fatti ossia all’immediata esperienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 1 p. 7-12]. In particolare si tratta di una generalizzazione induttiva prendente le mosse dai fatti che troviamo sostenuta anche in Wolff [Th. Arnaud, W. Feuerhahn, J.-F. Goubet et J.-M. Rohrbasser, “Christian Wolff le «maître des allemands»”, in: Christian Wolff, Discours…cit., p. 22-25]. Ed essa poi reca all’elaborazione di generali ed estremamente ampie leggi di natura [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Whitehead sottolinea che in questo la filosofia e la scienza concordano fortemente, sebbene la prima preceda di molto (nel tempo e nell’agire) la seconda con le sue intuizioni. Dato che, quanto era stato un tempo intuito astrattamente, poi con la scienza empirica finisce per diventare oggetto di una precisa misurazione quantitativa.
Ma a questo punto questo universo di pensiero appare essere lontanissimo da Platone, dato che per lui la conoscenza razionale non solo è connessa con una sostanza oggi considerata totalmente irrazionale, come l’anima, e tuttavia inoltre è connessa con fatti reali di tipo etico e non meramente cosale, come l’organizzazione legislativa dello Stato e della società. Ed ecco quindi che il razionalismo attribuito da Whitehead a Platone si rivela essere (almeno nel contesto delle Leggi) del tutto erroneo. E conseguentemente lo è anche l’attribuzione a Platone di un interesse specifico per la scienza (come poi vedremo nella seconda sezione). In particolare (in riferimento a quello che abbiamo posto in luce nell’Introduzione) tutto questo non significa affatto che Platone avesse intenzione di comprendere il mondo (cioè l’essere) per mezzo della matematica. Tanto è vero che, come vedremo, egli pone alla radice dell’essere una realtà radicalmente metafisico-etico-gnoseologica come l’anima. Semmai egli ritenne invece la matematica uno strumento per dare una forma concreta alla tendenza dell’essere (in quanto dominato dall’anima) ad assumere l’assetto dell’armonia, della proporzione e della misura. E ciò, ancora una volta, riguarda molto più l’etica che non invece la matematica in sé. Ancora una volta insomma l’insegnamento della matematica si rivela essere nel suo pensiero un mero strumento per assurgere ai livelli più eccelsi della conoscenza metafisico-religiosa ed esoterica.
Non a caso, proprio in questa parte del dialogo (dopo aver discusso delle narrazioni religioso-mitiche del diluvio, ossia le grandi catastrofi che ciclicamente distruggono le Civiltà), Platone ci mostra come il venire a mancare dell’armonia sul piano politico (che a sua volta è connesso all’uso di un Intelletto di origine divina e spinge quindi verso la solidarietà) è la causa effettiva del fallimento e del tracollo di grandi potenze (come quella di Sparta). E il male è qui per lui quell’ignoranza che poi altro non è se non il mancato ricorso all’anima da parte dell’uomo.
Infatti l’essere diretti dall’anima equivale per lui all’essere diretti dalla Ragione, e ciò spinge naturalmente verso l’armonia. Il problema delle leggi (così come dell’essere) è dunque in effetti il problema del difetto dell’orientamento dei desideri dell’anima all’Intelletto (che è poi sostanzialmente divino).
Ecco quindi che inizia con ciò a divenire chiaro il perché della sua ontologia inserita entro una trattazione delle leggi. Le leggi infatti riflettono l’ideale assetto etico dell’essere che è orientato appunto all’armonia, alla proporzione ed alla misura. L’essenza di ogni legislatività è dunque questa – che essa si manifesti nelle cose della Natura o invece nella società.
Ma nella sezione successiva Platone afferma anche che ciò non avviene senza l’intervento del divino, che non a caso genera le leggi proprio secondo questi principi [Platone, Leggi…cit. IV p. 41-49].
Non a caso, in assenza di tale intervento, le leggi meramente umane non riescono ad avere alcuna stabilità, venendo così continuamente soverchiate dall’urto delle casuali circostanze mondane ed esistenziali, e quindi rischiando continuamente di deragliare in tal modo dai principi che devono strutturarle e regolarle. Ecco perché, in questa parte stessa del dialogo, egli ricorre di nuovo al mito religioso menzionando il Regno di Crono come il modello assoluto dell’assetto legislativo (e conseguentemente dello stesso essere) in quanto retto direttamente dall’Intelletto divino. Esso è dunque anche il modello sia della stabilità delle leggi sia della felice stabilità dell’essere.
E di nuovo emerge qui allora uno dei contenuti del Timeo unitamente alla riaffermazione di quella perfetta misura dell’essere che senz’altro per lui va ritrovata nelle proporzioni matematiche.
L’Intelletto divino è infatti caratterizzato dal fatto di essere principio e fine di tutto nel compiere in maniera impeccabile e perfetta il suo percorso rigorosamente circolare. Il conformarsi al dio rende quindi capaci gli uomini di imitare questa perfetta armonia. Il che si lascia poi riassumere nel seguente principio di governo e legge: − “Il simile ama il suo simile, quando è moderato, mentre le cose che non hanno misura non si amano fra di loro e non sono amate da ciò che contiene la misura. Il dio è per noi misura di tutte le cose”.
Ecco dunque che, a contraddizione decisa della lettura di Whitehead, appare chiaro che il riferimento alla matematica di Platone è sostanzialmente etico-religioso ed affatto invece scientifico. Scientifico lo è semmai solo molto secondariamente.
Del resto, laddove egli parla di una cura dell’anima da parte del singolo (che sta in perfetta sintonia con i principi affermati dalla legge), ci dimostra che il fine stesso della legge è sostanzialmente etico ed anche tendenzialmente religioso, dato che esso consiste nel porre l’uomo in una condizione che sia all’altezza del valore ontologico dell’anima ed anche del suo possesso [Platone, Leggi…cit., V p. 50-58].
Il discorso del dialogo si sposta comunque poi direttamente sull’anima a partire dal capitolo IX [Platone, Leggi…cit. IX p- 100-102], nel quale viene fatto un accenno ad un aspetto di quella tripartizione dell’anima stessa, che è attestato essere una produzione intellettuale di Platone sulla base della dottrina orfico-pitagorica. L’anima infatti si rivela qui essere il punto di riferimento principale della tendenza al delitto a causa delle sue tendenze tra le quali l’ira (anima irascibile come opposta a quella razionale).
E veniamo con ciò al capitolo nel quale emerge finalmente un’ontologia incentrata esattamente nell’anima in quanto essere primario ed anche principio di essere [Platone, Leggi…cit. X p. 113-125].
Qui il discorso inizia da quello che tutti e tre i partecipanti (l’Ateniese, cioè Platone stesso, il cretese Clinia ed lo Spartano Megillo) considerano il peggiore delitto tra tutti, e cioè quello di empietà, che di fatto consiste nell’ateismo, e quindi nel rifiuto di accettare l’esistenza degli dèi.
Platone allude al proposito (senza dirlo) ai pensatori pre-socratici (in quanto sostanzialmente materialisti ed estremisticamente naturalisti), dato che essi considerano gli elementi (enti inanimati e cieche forze elementari) come l’unica causa di tutte le cose − per il fatto di mescolarsi (a caso, ciecamente e disordinatamente) tra loro, dando così origine a tutte le forme di essere: − dalle cose, agli astri e fino agli esseri inanimati). E così viene espressamente negato recisamente l’esistere ed agire di un’Intelligenza creatrice.
Ecco allora che, nel ricercare il vero elemento che può essere considerato l’origine e causa di tutto, ossia l’anima (a sua volta espressione dell’Intelletto divino), Platone espone di fatto una vera e propria ontologia dinamica che contempla anche il divenire. Non vi è dubbio che si tratti di una radicale novità entro il suo pensiero; che (come abbiamo già visto) fino a quel momento si era fermato a considerare l’essere in maniera statica in quanto costituito da livelli sovrapposti dei quali quello delle Idee era il più alto ed anche paradigmatico. Al di sopra di esso c’era poi quell’Uno divino che fissava e riuniva ogni cosa in un’ancora più assoluta stabilità [Giovanni Reale, Per una nuova …cit., II, VI, III p. 172-176, I, VII, I-IV p. 214-227, III, XII, I-V p. 362-388, IV, XVI-XVII p. 536-582].
Comunque anche già il Timeo aveva cominciato a contraddire questo schema nel considerare l’Uno come il supremo circolo e centro (in perenne movimento) dal quale emanava l’intero Essere. Ebbene qui l’anima è quindi l’origine non solo delle cose e dei corpi ma anche dei processi di generazione e corruzione che avvengono nella Natura in maniera apparentemente autonoma.
Essa insomma viene “prima” e non “dopo” gli elementi basilari ed inanimati dell’essere. Essa è pertanto l’unica e vera causa di ogni cosa, ed è pertanto all’origine di tutto. Inoltre non è affatto soltanto all’origine delle cose, ma anche degli stessi processi di generazione e corruzione. Il che avviene semplicemente perché essa è divina (e quindi le spetta il primato assoluto entro l’essere) mentre è unicamente “mortale” (ossia temporale) tanto la realtà degli elementi inanimati quanto tutto l’essere che si presume consegua ad essi. Questa, egli dice, è la vera “essenza dell’anima”, e cioè il suo esistere molto prima dei corpi e di qualunque cosa sia corporea. E così gli elementi (solo apparente causa di tutte le cose) sono in effetto appena il prodotto dell’anima.
Possiamo pertanto constatare che qui si delinea chiaramente un’ontologia ormai dinamica, dato che l’anima è all’origine anche dei processi immanenti di formazione. Inoltre viene sottolineato anche un aspetto che ci lascia nuovamente comprendere il senso etico-religioso (e non scientifico) del razionalismo di Platone. Egli afferma infatti che chi non comprende queste cose (come accade ad atei e pre-socratici) professa semplicemente una “stolta opinione”, che a sua volta deriva da un cattivo uso della Ragione.
Oltre a ciò egli corregge il confuso e contraddittorio concetto di Natura affermato dai presocratici affermando così che la “natura vera e propria” viene in effetti prodotta anch’essa dall’anima. E quindi ciò che avviene «in natura» o «naturalmente» non implica affatto l’agire di elementi e forze cieche (non divine, e quindi non intelligenti ed agenti per caso), ma avviene invece anch’esso sotto la direzione dell’anima e quindi in maniera intelligente e razionale. Sembra insomma di vedere qui affermata una teleologia simile a quella di Aristotele. Ma Platone non ne parla espressamente ed inoltre egli non dimentica mai l’ascendenza divino-trascendente di ciò che nel mondo si muove verso un fine. Pertanto (diversamente da Aristotele) egli sostiene una causalità efficiente e non finale.
In ogni caso, come abbiamo visto, l’anima ci viene presentata come origine e causa sia dell’essere che del divenire. In particolare l’anima è l’essere stesso ed anche l’origine dell’essere.
Tuttavia l’elemento fondamentale della dottrina è la spiegazione metafisica ultima di queste capacità dell’anima in base ad un’originaria assoluta stabilità dinamica (ancora una volta circolare ed inoltre assolutamente centrale, ossia in fondo quella del Timeo), e cioè la capacità dell’anima stessa di muovere sé stessa (secondo il modello metafisico del «causa sui»). Infatti, esattamente come il supremo circolo raffigurato nel Timeo, l’anima è ciò che, restando al suo posto, ossia muovendosi circolarmente e dunque «sul posto» , e quindi trascendendo così lo spazio ed il tempo, muove alla fine tutte le cose. Essa è insomma ciò che stando ferma fa sì che le cose si muovano. E questa differenza ontologica è esattamente quella che differenza il “causante” dal “causato”. Eccoci dunque di fronte alla natura radicalmente metafisica di un’ontologia che è sì dinamica ma per nulla immanentista. Essa infatti non è per nulla indotta dall’osservazione dei fenomeni naturali mondani (come avviene invece in Aristotele) entro la quale domina una causalità temporalmente consecutiva e quindi meccanicistica. Ci troviamo infatti davanti a ciò che, solo perché “muove sé stesso”, è in grado di causare un “mutamento” che a sua volta può venire determinato solo “dal movimento che muove se stesso”. Pertanto quello dell’anima è “il movimento che causa tutti i movimenti”, e quindi è “il movimento più vecchio e potente”.
Sta qui insomma la formula di un’ontologia dinamica che può sussistere in Platone solo perché è radicalmente metafisica.
Ecco insomma la totale inversione della dottrina materialistica e meccanicistica dell’azione causante, secondo la quale gli effetti vengono prodotti da ciò che si muove. Ed in questo sarebbe poi consistita l’ontologia dinamica di Aristotele. A differenza di quest’ultima, quindi, l’ontologia di Platone è veramente una dottrina integralmente onto-metafisica. Essa trascende infatti totalmente le aspettative dell’esperienza e dell’intelligenza umana, introducendo così idee del tutto iper-razionali. Quindi vediamo bene che quello di Platone non può in alcun modo venire considerato un razionalismo. Sebbene egli veda proprio in questo la vera Ragione, ossia quella divina e non umana.
E così l’anima in generale viene posta prima di tutto ciò che è corpo.
Ma in generale emergono in tale contesto tre elementi concettuali fondamentali: − 1) la coordinazione ontica strettissima esistente tra anima ed Intelletto divino (senza la quale l’anima non potrebbe mai esercitare la funzione onto-generativa che esercita); 2) in forza di questo le facoltà animiche (opinione, ragionamenti, memoria, costumi) precedono anch’esse tutto ciò che è corporeo; 3) la natura dell’azione dell’anima è etica, oltre che ontologica, così che è solo da essa che deriva tutto ciò che è anche legislativamente rilevante, ossia il buono, il bello, il giusto ed i loro contrari (brutto, cattivo o male, ingiusto). In altre parole dall’anima deriva non solo il nudo essere ed il suo movimento, ma anche le forme più altamente spirituali-oggettive che ne scaturiscono, ovvero la struttura della Civiltà e la Storia – come affermerebbe l’ontologia di Hartmann indicandoci lo strato più alto dell’essere (umano-personale ed impersonale) [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit.]. Ed una delle conseguenze di ciò è che il contenuto etico della legge (virtù e promozione della virtù) è senz’altro di origine animica e pertanto divina.
In tal modo è stata quindi trovata l’essenza della legge, la quale evidentemente risiede nelle profondità etico-religiose dell’essere stesso. Che Platone riusciva a scrutare con una potenza di penetrazione intellettuale della quale nessun altro filosofo sarebbe in seguito stato capace [Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77-87]. Per tale motivo, dunque, secondo lui è impossibile immaginare un mondo privo di leggi, ovvero un essere che non sia divino-legislativamente normato.
Ed ecco che in questo modo possiamo definitivamente comprendere il perché della trattazione dell’ontologia nel contesto del discorso sulle leggi. L’idea di Platone è insomma che tanto l’essere che la struttura della società (in sostanza umano-spirituale) sono ispirate alla più perfetta armonia e quindi obbediscono in qualche modo ad una precisa legislatività divina il cui fine ultimo è soprattutto il Bene.

2- L’ontologia animico-etico-metafisica delle Leggi e l’ontologia razionalista-scientista di Wolff, Hartmann e Whitehead.
Abbiamo già toccato il pensiero di questi filosofi nelle nostre precedenti osservazioni. Ma ora va completato il discorso sulle loro ontologie in relazione a quella di Platone. In ogni caso abbiamo già constatato quanto le visioni di Wolff, Hartmann e Whitehead siano divergenti da quella di Platone nonostante le apparenti somiglianze che le accomunano (accomunandole peraltro anche tra loro stesse). Ma comunque il punto di partenza di queste nostre riflessioni sono in primo luogo le esplicite menzioni di Platone da parte di Whitehead nel contesto di un’ontologia la quale non è altro che quella oggi esistente in comune tra filosofia e scienza (cioè la conoscenza empiristica del mondo reale). E quindi da esse dobbiamo iniziare.
Del resto, pur essendo molto più sbilanciata verso la filosofia, anche l’ontologia di Hartmann ha tale carattere intenzionale. Quanto poi a Wolff c’era nel suo pensiero (come in quello di tutti i metafisici razionalisti del suo tempo) l’auspicio di qualcosa si abbastanza simile (almeno apparentemente). Sebbene per loro una filosofia in sintonia con la scienza empirica si basava su grandi induzioni a partire dall’essere mondano e reale (esperienziale) che puntavano verso quei Principi razionali perfetti ed universali in assenza dei quali la conoscenza è impossibile o del tutto non veridica. Ne risultava così proprio quella ontologia che Hartmann avrebbe poi rigettato, ossia quella in cui essere e mondo venivano completamente concettualizzati e quindi di fatto non corrispondevano più alla realtà tangibile.
Ma prima di tutto va qui completato il discorso di Whitehead a proposito di Platone.
Il filosofo inglese è fermamente convinto che Platone (insieme con Aristotele) sia stato ( perfino intenzionalmente) un antesignano della scienza moderna − prima per mezzo dell’elaborazione della Filosofia della Natura pre-socratica e poi aprendo la strada alla Scuola di Alessandria, secondo lui culla della scienza moderna [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Ma proprio nelle Leggi abbiamo visto come, nel momento in cui Platone si decide a dare corpo ad un’ontologia, fa l’esatto contrario del riferirsi ai pre-socratici. Anzi li sconfessa decisamente.
Evidentemente Whitehead non è mai stato profondo lettore e cultore di Platone e quindi lo conosceva solo piuttosto superficialmente, o meglio forse per preconcetti. In ogni caso egli è almeno ben consapevole del fatto che il filosofo ateniese non aveva la minima intenzione di mettere su una scienza del genere di quella aristotelica, ossia basata sull’osservazione dettagliata e sulla classificazione del reale concreto, ossia sulla tassonomia [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31].
E addirittura azzarda l’ipotesi che nella famosa VII lettera Platone si sia espressamente rifiutato di consegnare alla scienza le proprie intuizioni pre- e pro-scientifiche. Ipotesi certamente erronea dato che (come abbiamo già visto) in questo scritto Platone non volle dire altro che la famosa sua “seconda navigazione” metafisica [Giovanni Reale, Per una nuova…cit., II, IV-VI, I p.147-213], ossia quella davvero decisiva in quanto radicalmente metafisico-religiosa, era destinata ad essere oggetto di un insegnamento esoterico unicamente orale, e quindi riservato a pochissimi eletti (tra i quali non c’era certamente Aristotele). E questo insegnamento non aveva assolutamente nulla a che fare con la scienza empirica. Lo dimostra chiaramente, secondo noi, il dialogo sulle Leggi, che è uno degli ultimi scritti di Platone prima del suo ritirarsi proprio nell’intimità isolata dell’insegnamento esoterico orale. Esso contiene infatti un’ontologia che è l’esatto contrario di un’ontologia filosofico-scientifica, e quindi differisce nettamente tanto da quella di Wolff tanto da quella di Hartmann.
Ma comunque in questa sezione Whitehead dimostra di aver ben colto la specifica natura di filosofo che caratterizza Platone: − egli era infatti l’esatto contrario di un professore. Ed in effetti per il filosofo inglese la filosofia inizia a diventare scienza solo dal momento in cui essa inizia ad essere professorale (con la fatale conseguenza, da lui tutt’altro che deplorata, di allontanarsi dalla vita e dal percorso di crescita spirituale) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 2 p. 13-16]. Va a tale proposito però fatto notare che Hadot vede le cose in modo diametralmente opposto – per lui infatti la filosofia professorale fu l’inizio della morte di una disciplina che (proprio con Socrate e Platone) aveva dimostrato di potere e volere essere una prassi esterna alle scuole e quindi dedicata esclusivamente alla crescita spirituale dell’uomo comune e del cittadino [Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Rinaudi, Torino 2010, VIII, p. 143-166]. E siamo certi, quindi, che Platone sarebbe stato d’accordo con quest’ultimo, e non invece con Whitehead.
Per il resto il filosofo inglese ha una vaga, ma non poco fedele, intuizione di ciò che per Platone è la “Natura”, ossia ciò che abbiamo constatato proprio entro l’ontologia esposta nelle Leggi [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,4 p. 22-31]. Essa è infatti per lui l’”hypodoxé” cioè il “ricettacolo”, ossia “la nutrice di ogni divenire” in quanto priva totalmente di forma, e quindi non è affatto il comune spazio geometrico. Per Whitehead si tratta della materia così come venne poi concepita anche da Galileo e Newton. Ma il filosofo inglese sconta in questo sia i suoi preconcetti scientistici sia la scarsa conoscenza del pensiero di Platone e del suo vero spirito. Perché, stando invece all’ontologia esposta nelle Leggi, questo ricettacolo (quale luogo del divenire) non è altro che l’anima. Dunque qualcosa di profondamente diverso dalla materia (in quanto molto sottilmente metafisico), per quanto comunque esistente e reale. Ciò che però è comunque vero è che, come dice Whitehead, tale entità e realtà non ha assolutamente a che fare con lo spazio-tempo (entro il quale non avviene affatto ciò che è davvero rilevante), e quindi corrisponde secondo lui a quanto va scoprendo oggi la Fisica quantica. Ciò è vero, ma fino ad un certo punto. E questo è quanto abbiamo cercato di comprendere nelle nostre ultime ricerche, specie quelle relazionate all’ontologia invocata dal fisico quantico e filosofo Wolfgang Smith [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e la nuova ontologia di Nicolai Hartmann” < http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-lontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann&gt;; Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”.
< https://cieloeterra.wordpress.com /2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza/>]. Nel corso di queste ricerche è infatti emerso che molto probabilmente l’ambito di essere scoperto dalla Fisica quantica rischia fortemente di essere appena un inconsistente e vuoto artificio strumentale, che è dunque del tutto irreale e non esistente. Ed in questo caso esso non ha assolutamente nulla a che fare con il “ricettacolo” che Whitehead ritrova nell’ontologia di Platone.
La comprensione dell’intenzionale non-scientificità del pensiero di Platone viene comunque debitamente constatata da Whitehead anche più avanti [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 5 p. 31-39].
Egli afferma infatti che il filosofo ateniese (molto diversamente da Aristotele) perseguì una conoscenza in verità unicamente filosofica e non scientifica. E l’aspetto più rilevante di ciò è il suo disinteresse per il fatto, sia pur nel contesto di una conoscenza matematica dell’essere. E questo ci riporta decisamente a Wolff per il quale (come abbiamo già visto) invece il fatto esperienziale era fondamentale – solo da esso scaturiva infatti l’induzione che infine recava ai Principi certi della conoscenza e dell’essere (e quindi il fatto era per lui, come per Kant, assolutamente vincolante). Eppure, nonostante questo, Whitehead non rinuncia a pensare che la filosofia con le sue profonde intuizioni (quella di Platone ed anche di altri) sia comunque una guida per la scienza. È in qualche modo ciò è anche vero. Ma intanto – dimostrando ancora una volta di non aver compreso lo spirito del platonismo – il filosofo inglese deplora il misticismo nel quale secondo lui scivolò il pensiero di Platone presso coloro che ne furono i successori, ossia (aggiungiamo) nel medio-platonismo e nel neo-platonismo. La verità è insomma che la filosofia può essere considerata guida per la scienza empirica, ma non senza mantenere una sua visione dell’essere che, nella sua autenticità, è ineluttabilmente metafisica e quindi iper-razionale. Esattamente così è infatti l’ontologia incentrata nell’anima, esposta da Platone nelle Leggi.
In ogni caso Whitehead alla fine del suo libro spezza decisamente una lancia a favore di Platone [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 8 p. 48-50]. Egli afferma cioè che il “fatto” va effettivamente concepito in modo completo. E per questo sono indispensabili le nozioni fondamentali che solo la filosofia formula e possiede. In questo consistono le sette principali idee intuitive secondo lui sviluppate da Platone (idee, elementi fisici, psiche, eros, armonia, relazioni matematiche, ricettacolo) [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Sta di fatto però che oggi secondo lui la scienza si vede costretta a fare la stessa cosa. E per questo le teorie si aggiungono continuamente alle teorie senza mai arrivare ad una fine. Il loro sviluppo si basa infatti proprio su quell’intuizione che fu il centro stesso del filosofare di Platone.
Ecco quanto era possibile desumere da Whitehead, associando al suo pensiero alcuni elementi dedotti da Wolff. Ma vediamo ora cosa di può dire di Hartmann, il richiamo al quale pure si presenta nell’esposizione di Whitehead.
Il filosofo inglese contraddice frontalmente Hartmann (pur senza nominarlo) affermando che l’omni-comprensività dei sistemi filosofici è tutt’altro che inutile per la scienza [Alfred North Whithead, Scienza… cit.,3 p. 16-21]. Insomma i sistemi filosofici (e dunque le visioni omni-comprensive dell’essere) servono per lui effettivamente per il progresso della conoscenza. Quello che li rende deleteri è solo un loro aspetto puramente qualitativo negativo, ossia l’”errore dogmatico”, e cioè la pretesa di descrivere la complessità del mondo mediante nozioni estremamente definite, e quindi isolate nella loro specificità unilaterale. Si tratta insomma di quelle idee matematiche che invece per Wolff (e per l’intera metafisica razionalista) erano da considerare decisive per la comprensione del mondo. Ma questa critica all’antecedente filosofia è una di quelle cose che Hartmann aveva posto alla base della necessità di una nuova ontologia incentrata sul mondo reale e non sulle visioni del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung….cit., Einleitung 18 p. 31-33, I, I, 4c p. 54-55, II, II, 5a p. 57-59, II, III, 10a p. 83-84, IV, III, 46a p. 287-288]. Posto questo, per il resto Whitehead sembra concordare con Hartmann nel considerare altrettanto inefficaci sia la pura conoscenza matematica (centro dell’ontologia di Wolff) – in quanto essa non può in alcun modo esaurire la complessità del mondo – sia anche una metafisica perfetta e trionfante (alla quale tende senz’altro il pensiero di Wolff e di tutto il suo tempo) in quanto presuntivo esaurimento di tutta la possibile conoscenza. Ne deriva per Whitehead un aspetto assolutamente necessario della conoscenza scientifica moderna e cioè la sua capacità di generare appena “sistemi parziali di generalità limitata”, a loro volta incentrati su nozioni limitate. Questo è quanto è stato compreso nel XX secolo con il collasso di qualunque dogmatismo. E dogmatismo era senz’altro anche quello di Wolff. Ecco allora che, secondo Whitehead, si è stabilita tra filosofia e scienza una sorta di azione e reazione, cioè una reciprocità inscindibile. La filosofia delucida il fatto concreto (sul cui sfondo c’è l’essere esistente, cioè l’Essente) dal quale poi la scienza deve astrarre. La scienza poi trova i propri principi nei fatti ormai compresi che il sistema filosofico presenta.
Ma c’è da considerare anche un altro aspetto, e cioè quello della tendenza all’unità che caratterizza così spesso l’approccio filosofico all’essere [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 4 p. 22-31]. Platone per Whitehead tende fortemente a questo proprio per mezzo della matematica che prefigura l’interconnessione di tutte le cose. Ma Hartmann considera invece proprio questo la contraddizione in termini di una vera ontologia. Per Whitehead non sembra invece essere così, dato che la “Physis” per lui è, come per Platone, ciò che garantisce l’interconnessione in quanto “ricettacolo”.
Connesso con ciò vi è poi in Whitehead un ulteriore aspetto, che chiama in causa sia Hartmann che Wolff [Alfred North Whithead, Scienza… cit., 6 p. 39-43]. Egli afferma infatti che la scienza prevede sempre due ordini tra loro coordinati, e cioè quello “osservazionale” (fatti) e quello “concettuale”. Ebbene Wolff concepisce una perfetta coordinazione tra il primo e il secondo per mezzo dell’induzione. Hartmann invece intende espressamente spazzare via il secondo in quanto pregiudizievole per un’autentica ontologia. Quanto poi a Whitehead, egli ritiene il primo debole per definizione, dato che i fatti sono troppo spesso vittima dell’apparenza (con conseguenze paradossali del tipo dell’immagine pre-scientifica di una terra piatta). Ne deriva che la speculazione (sostanzialmente filosofica) è chiamata ad andare oltre i fatti, e ne deriva inoltre che non serve a nulla indurre la verità da fatti che sono in sé così incerti (come invece pretende Wolff considerandoli certi per definizione).
Ebbene diremmo che tutta questa multiforme riflessione viene spiazzata in un solo colpo da un’ontologia come quella platonica. La quale aveva preso le sue decisioni prima di sottomettersi a qualunque necessità così concepita. Essa aveva infatti deciso per una visione etico-religioso-gnoseologica dell’essere, e per questo aveva posto l’anima alla radice di tutto. Dunque la si può senz’altro considerare arbitraria e falsificante quanto si vuole (ed è quello che senz’altro farebbero, di concerto, pensatori dell’essere come Whitehead, Hartmann e Wolff). E tuttavia la prova del nove della sua consistenza sta nella sua perfetta applicabilità alle leggi che regolano la convivenza sociale, ossia ad una delle realtà più rilevanti per l’esistenza umana. E questo spiega ancora una volta perché Platone abbia trattato i due problemi insieme.
Il problema insomma è che il vero filosofo deve in realtà essere un genio visionario, ossia deve essere capace di osservare le cose in profondità e ad immensa distanza dal proprio punto di osservazione, e non invece solo superficialmente e confusamente. Platone ne fu capace. Non ne furono invece assolutamente capaci pensatori come Whitehead, Hartmann e Wolff, nonostante la loro intelligenza, la potenza del loro pensiero e la pregevole preparazione filosofico-scientifica che li caratterizzò come filosofi.

Conclusioni.
Abbiamo affrontato il testo delle Leggi sostanzialmente sulla base delle sollecitazioni espresse da Whitehead nel senso di un determinato intendimento del valore della filosofia di Platone.
Abbiamo scoperto in questo testo quell’ontologia che già sapevamo di potervi e dovervi ritrovare. Ed abbiamo compreso non solo il contenuto di tale ontologia ma anche la pur paradossale relazione che Platone aveva stabilito tra essa e le leggi.
Poi, ritornando indietro ai giudizi espressi da Whitehead sul valore, senso e contenuto del pensiero di Platone, abbiamo ritrovato la possibilità di giudicare la sua ontologia sulla base dei contenuti di alcune fra le ontologie moderne. Che, nel corso della lettura di Whitehead, si presentano come riferimenti quasi inevitabili.
Ebbene quali possono essere le conclusioni di questa indagine?
A nostro avviso essa conferma che Platone ha saputo vedere le cose in maniera ben più profonda e sottile di quanto sarebbe poi avvenuto dopo di lui fino ai giorni nostri. Per tale motivo la sua ontologia può davvero fare scuola e presentarsi quindi come paradigma assoluto (ben più di quella di Aristotele). Non a caso essa sfugge all’eccessivo realismo di Hartmann, al trascendentismo razionalista di Wolff ed all’idea di Whitehead (in gran parte forzata) secondo la quale filosofia e scienza per davvero siano una sola cosa.
Platone ci dimostra invece che non è affatto così.
Un’ontologia incentrata sull’anima (e quindi sulla virtù e sul culto degli dèi) è pertanto qualcosa di assolutamente unico ed irripetibile in filosofia. E quindi ci permette di non perderci negli eccessi tanto della filosofia che della scienza. In tal modo, al suo confronto, l’ontologia di Whitehead si rivela essere null’altro che la banale presa d’atto della conoscenza scientifica del mondo, quella di Hartmann si rivela essere appena la presa d’atto del mondo così com’è, e quella di Wolff (massimamente artificiosa) si rivela essere null’altro che il frutto di una induzione del tutto fantasiosa del mondo ideale a partire dal mondo reale.
Dunque, come sempre, non ci resta che affermare che chi vuole davvero conoscere la filosofia (inclusa anche la scienza dell’essere) non deve rivolgersi a nessun altro pensatore che non sia Platone. Egli è davvero infatti il filosofo per eccellenza ed insuperato – come del resto hanno affermato alcuni tra i suoi più sensibili interpreti – [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, I, p. 15-46, I, I, III p. 73-104; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates…cit., p. 260-279]. E come tale è davvero l’unico vero padre della filosofia che sia mai esistito. E lo è anche allorquando non si limita a trattare del mondo ideale ma anche del mondo reale.

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(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
L’ontologia di Nicolai Hartmann non è stata cero l’unica forgiata nel XX secolo. Tra le tante altre vanno infatti certamente ricordate anche quelle della neo-scolastica tomista (tra le quali spicca quella di Maritain), quella di alcuni seguaci della Fenomenologia di Husserl, come Edith Stein ed Hedwig Conrad Martius ed infine quella del pensatore russo Nikolai Berdjaev; oltre ovviamente a quella di Heidegger, che però esce troppo fuori dagli schemi per restare nei limiti di un’autentica ontologia. Vanno poi ricordare anche le puntate in campo ontologico di pensatori esistenzialisti come Sartre, Merleau-Ponty e Gabriel Marcel. Tuttavia in questo modo abbiamo dato al lettore appena un’immagine molto approssimativa di uno scenario di pensiero estremamente composito, ricco e complesso.
Intanto, comunque, l’ontologia di Hartmann ha qualcosa di così tanto originale, da distinguersi molto nettamente da tutte le altre scienze simili concepite nel periodo in cui egli operò.
In primo luogo perché egli sottolinea con forza la radicale novità della sua concezione dell’essere, specie nei confronti della sua forma antica. E questo lo approssima senz’altro in qualche modo ad Heidegger. Ma non si tratta solo di questo perché il nostro pensatore dà alla sua ontologia un’impronta fortemente realista − che però sfugge decisamente al classico realismo filosofico (specie in quanto visione unilaterale diametralmente opposta all’idealismo) – esteriorista ed immanentista. E quest’ultima impronta si caratterizza per una quasi totale equiparazione dell’essere (colto dal pensatore in quanto “Essente come Essente”, o “Essente come tale”, “Seiende als solche”) con il mondo reale, e quindi con la realtà tanto esperibile quanto indubitabile.
Questa equiparazione si spinge fino al punto di considerare la filosofia dell’essere come una disciplina che si trova in perfetta sintonia con la scienza naturale, ossia si occupa di fatto degli stessi suoi oggetti e fenomeni. Tuttavia Hartmann non identifica affatto totalmente la filosofia dell’essere con la scienza naturale, dato che egli è intanto costantemente alla ricerca dei fondamenti ontologici ultimi delle cose e dei fenomeni (ossia le categorie dell’essere) sulla base dei quali si sviluppa la conoscenza scientifica senza però nemmeno avere consapevolezza di essi.
In ogni caso, però, il nostro rientra tra i pensatori del XX secolo secondo i quali la filosofia deve rinunciare definitivamente all’ambizione di sviluppare una conoscenza in contrasto con i risultati della ricerca scientifica che si sono andati accumulando a partire dalla Filosofia della Natura rinascimentale, passando poi per l’Illuminismo ed il Positivismo. Non a caso egli non si sogna nemmeno di porre in discussione teorie scientifico-naturalistiche come ad esempio l’evoluzione darwiniana. Tale approccio si lascia avvertire soprattutto in una delle due sue opere che abbiamo analizzato, e cioè “Neue Wege der Ontologie” (NWO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968]. In particolare in questa ricerca il pensatore di dedica al chiarimento di quelle che sono le autentiche e davvero reali categorie dell’essere, abolendo in tal modo la gran parte dei fantasiosi e astratti relativi concetti ontologici che si ritrovano nell’antica ontologia. E proprio in questo modo egli ci mostra che le categorie dell’essere corrispondono puntualmente agli oggetti studiati dalla scienza empirica, sebbene debbano venire filtrati da una riflessione filosofica che non perde mai di vista i concetti di Essere e di Essente. In ogni caso l’intera indagine ci mostra quale sia la struttura del mondo nei suoi vari strati, a partire da quello meramente fisico-materiale (inanimato) fino a quello animico-psichico e spirituale-mentale. Ed in particolare nessuno di essi manca del carattere di realtà che anche per la scienza empirica è assolutamente imprescindibile.
Ne risulta quindi che in tal modo l’ontologia viene purificata da tutti i concetti dell’antica metafisica che forgiavano entità assolutamente irreali. E già qui, pertanto, si ritrova l’affermazione secondo la quale l’ontologia abbraccia senza alcuna contraddizione tanto l’essere reale (esistenza) quanto l’essere ideale (essenza). Entrambe le sfere dell’essere corrispondono infatti ad entità dotate di un’effettiva onticità, e quindi corrispondenti a realtà oggettuali esperibili e conoscibili tanto in modo filosofico quanto in modo scientifico. In particolare, comunque, la definizione dell’Essere che qui viene fornita si differenzia radicalmente da quella tradizionale per la rinuncia a qualunque forma di unità ottenuta per assimilazione di ogni cosa ad una sola ed esclusiva sfera o principio di essere (quella reale o quella ideale). Caratteristica portante dell’Essere è dunque un’unità che risulta unicamente dalla molteplicità. La sua struttura è dunque a strati. E questo contraddice in modo davvero radicale qualunque forma di ontologia che sia stata concepita nell’antichità (con l’inclusione della Scolastica cristiana), continuando poi a manifestarsi nel tempo anche molto oltre fino alle soglie della modernità, ossia almeno fino all’Illuminismo. E ciò coinvolge ovviamente anche ontologie moderne costruite su quella antica come quella di Maritain, Stein e Conrad-Martius. Inevitabilmente ciò induce Hartmann a riferirsi continuamente alla rivoluzione kantiana del pensiero filosofico, e quindi alla sua de-metafisicizzazione. Questo non significa però che il nostro pensatore sia un neo-kantiano, dato che in più sedi egli si esprime in maniera molto critica verso questa scuola filosofica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941, Einleitung, 1 p. 1-2, 3 p. 3-5, 10-11 p. 14-19, III, I, 25b p. 169-170, IV, II, 42a p. 267-268]. Tutto ciò è quanto si può dire sinteticamente di questa ricerca di Hartmann, della quale nel presente articolo parleremo però solo marginalmente. Di essa abbiamo però parlato più diffusamente in un altro articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e l’ontologia realista di Nicolai Hartmann”, in: http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-l’ontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann ] dedicato alla critica della riforma ontologica della scienza empirica che è stata recentemente tentata da Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Ma Smith aveva tentato di ricostruire la conoscenza anche in un’altra sua precedente opera dedicata alle novità gnoseologiche secondo lui apportate dalla nuova Fisica sub-particellare e quantistica [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001].
Nell’altra opera di Hartmann appena menzionata, invece – “Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO) −, si può toccare con mano il nucleo più profondo del suo progetto di riforma dell’ontologia, che ancora una volta ripropone in grandi linee l’unità nella molteplicità dell’Essere attraverso l’evidenziazione della pari onticità dell’essere reale e dell’essere ideale. Quest’opera però contiene un’analisi estremamente dettagliata, sistematica, vasta, ricca e complessa di tutte le strutture dell’Essere; fino al punto da poter venire considerata quasi enciclopedica. E proprio per questo essa è estremamente interessante per qualunque cultore di filosofia, allo scopo di potersi rendere conto di quale sia la forma assunta modernamente dall’ontologia. In questo senso si tratta di un’analisi ancora oggi molto attuale e soprattutto istruttiva. In ogni caso questo libro rappresenta una vera e propria rivoluzionaria rivelazione per tutti i filosofi, ma soprattutto per chi (come noi) si è sempre occupato intensamente dell’antica ontologia. Una rivelazione della quale però ci sembra imprescindibile prendere atto, dato che (piaccia o meno) oggi la scienza dell’essere ha assunto una forma molto diversa da quella che ha avuto nel passato. Dunque oggi l’ontologia è questa e non più quella antica.
Comunque, a causa dell’estrema ricchezza e complessità di quest’opera, sebbene nella nostra ricerca ci riferiremo soprattutto ad essa – e quindi andremo anche esponendo man mano i suoi concetti portanti −, ci sembra impossibile farne una sorta di completa recensione. E quindi ci occuperemo soprattutto di uno degli aspetti specifici che in essa emerge, e cioè quanto nel titolo abbiamo definito come “ricostruzione della conoscenza”. Tale aspetto costituisce però anche uno di quelli più centrali dell’intera visione del pensatore, dato che esso sta in intima correlazione con l’accento da lui posto sul concetto di ”Essente” (“Seiende”) quale punto di riferimento assolutamente obbligatorio di quella sua revisione dell’ontologia che porta con sé inevitabilmente anche una radicale riforma della concezione della conoscenza. L’idea portante rispetto a questo è duplice: − 1) l’Essente è la Totalità che abbraccia in sé tutte le sfere dell’Essere ed oggettualità delle quali si deve prendere atto in ontologia (esso corrisponde infatti alla piena onticità tanto dell’essere reale che dell’essere ideale); 2) la conoscenza è in primo luogo “relazione di essere” tra soggetto cosciente ed oggetto, e quindi sussiste per davvero solo quando il primo (uscendo totalmente da sé stesso) intercetta realmente un effettivo Essente. E questo esautora decisamente l’intera teoria della conoscenza che è stata poi il nucleo della filosofia moderna a partire dall’Idealismo del XIX secolo (con le sue premesse già nel dualismo cartesiano separante nettamente “res cogitans” e “res extensa”) spingendosi poi fino alla Fenomenologia ed al neo-kantismo. Infatti, sulla base di quanto sostiene Hartmann, non è data conoscenza che non sia una schietta presa d’atto dell’oggetto del mondo reale (da intendere quale Essente) e che quindi non comporti da parte del soggetto il “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggettualità mondana, esteriore e indipendente nella sua totalità. Inevitabilmente questa concezione della conoscenza mette completamente fuori gioco tutte le varie forme della paradossale ritorsione dell’atto conoscitivo su sé stesso mediante uno sguardo rivolto verso l’interno (verso l’oggetto di coscienza) invece che verso l’esterno. E ciò è quanto Hartmann critica aspramente come “riflessività” della conoscenza. Ma proprio l’accento posto su quest’ultima ha fatto sì che la moderna teoria filosofica della conoscenza finisse per sconfinare in un vero e proprio scetticismo che è stato concepito come «problematicità della conoscenza», e quindi sua sostanziale e naturale incertezza ed inefficienza. Il che è avvenuto sulla base dell’idea secondo la quale sarebbe un autentico mistero il rapporto che in essa si viene a stabilire tra l’interiore soggettuale e l’esteriore oggettuale, ossia due sfere dell’essere che la filosofia moderna ha considerato da Cartesio in poi totalmente ed inconciliabilmente separate tra loro. E a questo punto l’auto-riflessivi accurato esame puramente interiore restava l’unico modo per garantire una conoscenza veridica
Con l’abolizione di tutti questi artificiosi apparati teoretico-conoscitivi si compie quindi in Hartmann una vera e propria ricostruzione della conoscenza in quanto pienamente possibile ed efficace già nella sua forma naturale ed ingenua. Ma questo è stato anche quanto è stato sostenuto da Smith. E quindi questo nostro articolo sta in relazione con quello precedente dedicato alle riflessioni di da questo pensatore.
In ogni caso ci sembra comunque che proprio in questo modo Hartmann abbia assunto, con la sua ontologia, una posizione davvero unica nello scenario della moderna filosofia. Egli ha infatti spazzato via quei dogmi non poco astrusi (in particolare quello della “riflessività”) che avevano portato la filosofia a deragliare da quel suo usuale percorso entro il quale sempre la scienza dell’essere era rimasta al suo centro. E questo fu del resto quanto sostiene anche Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, V p. 172-185; Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 2 p. 39-48, II, 1 p. 66-70]. Non a caso entrambi i filosofi si sono dedicati ad una critica di quell’atto di ”oggettivazione” (da parte della coscienza) per mezzo del quale la gran parte del pensiero moderno ha spostato l’attenzione dall’esistenza dell’oggetto alla sua sola conoscenza. Insomma, nel contesto di questo scenario filosofico a dir poco paradossale, si sentiva fortemente la necessità di un ritorno a quell’ontologia che ormai da molto tempo (già da Cartesio in poi) era letteralmente svanita dal pensiero. E certamente la ricostruzione moderna di questa scienza offre vantaggi estremamente rilevanti rispetto alla semplice ripresa dell’ontologia antica. Infatti, se vogliamo restare entro i limiti di una filosofia ortodossa (e quindi di una storia della filosofia praticamente condivisa da tutti i pensatori moderni senza eccezioni), bisogna tener conto del fatto che la riforma kantiana aveva per sempre sbarrato la strada a qualunque visione che in qualche modo assomigliasse all’ontologia antica. Pertanto la ripresa di quest’ultima offre fatalmente il fianco alla critica distruttiva da parte dell’intera filosofia moderna avendo quindi pochissime speranze di sopravvivere. Non per nulla i progetti filosofici di pensatori come Maritain, Stein e Conrad-Martius sono tramontati per sempre con la scomparsa dei loro protagonisti. E questo proprio perché la loro ontologia, riesumata dal passato, non aveva affatto forze sufficienti per controbattere la più diffusa e condivisa presa di posizione filosofica moderna. Non così appare essere invece per la moderna e rivoluzionaria ontologia di Hartmann. La quale non solo si distingue per una geniale originalità, ma inoltre mostra anche di avere forze sufficienti non solo per resistere alla critica bensì anche per esercitare una solida contro-critica, e precisamente una contro-critica talmente intensa da giungere ad essere demolitoria. Alla luce del suo pensiero infatti quei concetti dogmatici della filosofia moderna, che all’uomo comune (ed anche al filosofo poco disposto al conformismo) appaiono giustamente astrusi, assurdi e perfino ridicoli, si sono rivelati finalmente estremamente poco consistenti, ingiustificati e soprattutto per nulla oggettivi e necessariamente condivisibili.

Al proposito di questo tema della conoscenza, da noi estratto dal contesto di ZGO, bisogna comunque aggiungere che esso fu talmente importante per il pensatore che egli dedicò ad esso una brevissima opera specifica dal titolo “Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7]. Qui Hartmann sostiene soprattutto che è stato Kant a porre per primo in evidenza l’intima ed ineluttabile relazione esistente tra le categorie della conoscenza e le categorie dell’essere. Ed in questo consisté in fondo soprattutto la sua riduzione trascendentale. Poi però sono stati sottolineati solo altri aspetti della sua “Critica alla Ragion pura”, e così il suo pensiero è stato completamente distorto per poi venire addirittura dimenticato. Come conseguenza quindi l’oggetto è stato completamente eroso e dissolto dal primato attribuito alla rappresentazione (“Vostellung”), con la totale soppressione dell’evidenza secondo la quale l’oggetto sussiste in maniera totalmente indipendente dalla coscienza, e precisamente non solo come spaziale-materiale ma anche come animico e spirituale (ossia come Totalità). E così la teoria critica della conoscenza ha fatto sì che risultasse impossibile all’uomo conoscente anche solo approssimarsi ai veri oggetti, ossia all’Essente. Pertanto nel complesso gli errori della moderna filosofia teoretico-conoscitiva sono stati due: − 1) il ritenere come conoscenza veridica unicamente quella mentale; 2) la totale perdita di vista dell’oggetto reale in quanto indipendente dalla coscienza, ossia l’autentico oggetto reale. Dunque, con questa premessa, filosofia e scienza hanno poi seguito strade completamente erronee.

Esporremo nelle conclusioni che comunque proviamo, in quanto pensatore tradizionalista, contro questa del tutto nuova ontologia. E tuttavia va intanto ammessa che la ricerca di Hartmann si presenta non solo come genialmente originale ma anche come estremamente meritoria. Essa ha infatti tentato di riportare la filosofia sulla retta via. Non a caso nell’introduzione a ZGO [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 2 è. 23-] egli denuncia lo stato di stanchezza della filosofia moderna che ha causato l’abbandono della trattazione delle grandi questioni (la principale delle quali è ovviamente quella dell’essere) ed inoltre ha causato il consolidarsi di un relativismo secondo il quale non esiste alcuna verità oggettiva. Inoltre denuncia anche che la filosofia ha smesso di riconoscere il mistero nel quale sconfinano molte realtà dell’essere (e quindi del mondo) dando così vita a problemi del tutto naturalmente insolubili per qualunque forma di conoscenza.
Questo concetto viene comunque da lui sottolineato più volte anche in NWO [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IV p. 27-35]. Dunque non a caso, sebbene anche la visione di Hartmann sia tramontata sotto l’urto del pensiero sviluppatosi dal dopoguerra in poi, comunque se ne avvertono ancora oggi gli echi (di sapore appunto ontologico) in alcune forme di realismo filosofico (come quelle di Sellars) [Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2013, I, 2-6 p. 53-147, I, II, 2 p. 164-185, II, III, 1 p. 266-283, II, III, 2-3 p. 283-309, II, III, 4 p. 315-333; Diego Marconi e Gianni Vattimo, Nota introduttiva, ibd., p. V-XXXIV Miguel Pérez de Laborda, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, p. 137-152] che sono succedute recentemente alla grande ubriacatura razionalista costituita dalla Filosofia analitica unita a quella logico-matematica, della mente e del linguaggio.
Detto questo passeremo all’analisi di alcune parti di ZGO nelle quali è possibile prendere atto più direttamente della riforma della conoscenza in quanto uno dei prodotti principali dell’ontologia di Hartmann.

1. I tratti fondamentali del concetto di Essente. Il “realismo naturale” di Hartmann.
La migliore, più chiara, più semplice, più completa e sintetica definizione dell’Essente ci viene offerta da Hartmann laddove egli ci indica in esso null’alto che «ciò che è» [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 5a p. 57-59]. Ma ciò significa due altre cose fondamentali: − 1) esso non è altro che il mondo reale così com’è, ovvero tutto quanto «c’è» nel mondo e come tale può venire esperito e conosciuto esattamente com’è al di fuori di ogni dubbio ed incertezza; 2) esso è molto più della mera cosa, ossia l’oggettualità esteriore indipendente dalla coscienza e dalla conoscenza; semmai è ciò che sta al fondo di queste realtà. Proprio per questo esso è un “ultimo” e pertanto è una realtà ontica sicuramente di natura metafisica (tale è per la precisione l’”Essente come Essente”); infatti in definitiva esso è concettualmente inafferrabile sebbene possa venire indubitabilmente conosciuto, e precisamente in tutta la sua esteriorità mondana e assolutamente reale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3ab p. 46-48]. Pertanto, nel conoscerlo, non dobbiamo fare altro che constatare dove esse “è dato”, e quindi constatare la realtà mondana nella sua assoluta immediatezza e nel suo assoluto essere incondizionata. In qualche modo esso è dunque la “datità” per eccellenza, sebbene (come poi vedremo) questo concetto sia stato fortemente condizionato dalla filosofia riflessiva.
Per tutti questi motivi, esso, in quanto “Essente come essente”, è la Totalità stessa dell’Essere in quanto composta da parti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 7d p. 69-71].; e quindi è caratterizzato da quella unità nella molteplicità (corrispondente ad una struttura a strati) della quale abbiamo già parlato sulla base di NWO. Inoltre è il reale stesso in quanto opposto del possibile, e quindi (nonostante la sua così metafisica ultimità) coincide con il mondo reale stesso [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 8ab p. 72-74]. Ciononostante − come da Hartman dimostrato nel successivo corso del libro, entro un’analisi estremamente minuziosa di tutto ciò che è “essenza”, ossia “l’essere così” (“Sosein” connesso al “esser-ci” o “Dasein”), l’essere ideale, e le “essenzità” (“Wesenheiten”), cioè le essenze dotate di onticità – per lui anche la possibilità è comunque dotata di realtà, in quanto è inscindibilmente connessa a quest’ultima quale “natura” (“Beschaffenheit”) o qualità delle oggettualità. La possibilità pertanto rientra pienamente nel regno di «ciò che è» (realmente), invece di rappresentarne la premessa trascendente ed astratta. Per questo egli critica la definizione di realtà come “Wirklichkeit” in quanto per lui essa tende ad escludere il possibile dal reale, negando così ad esso ogni onticità.
Per tutti questi motivi per Hartmann l’ontologia è scienza dell’“Essente come essente” e non invece scienza della mera ed immediata oggettualità cosale, ossia la cosiddetta “cosalità”, “Dinglichkheit” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 4ab p. 51-54]. In questo senso essa è scientifica. Ma nello stesso tempo corrisponde anche ad una conoscenza naturale e del tutto ovvia delle realtà, che è quella dell’uomo comune in quanto immerso nel mondo. La sua natura scientifica si esprime comunque soprattutto nella rigorosissima ricerca delle molteplici categorie che costituiscono l’essere e precisamente l’essere reale del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3a p. 46-47].
Ma comunque è qui più che mai evidente la distanza enorme che vi è tra la nuova ontologia di Hartmann e quella antica. Non vi è qui infatti alcuna traccia dell’intendimento dell’Essere come concetto, ossia dell’«Essere in quanto tale» di Aristotele. Questo perché, in questo suo intendimento, l’Essere diviene quanto mai inafferrabile e pertanto non si presta in alcun modo a rappresentare la realtà mondana, anzi è qualcosa di unicamente astratto e puramente speculativo. Al contrario Hartmann ha l’ambizione di lasciarlo delineare solo e soltanto attraverso la definizione delle molteplici categorie che lo compongono [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1b p. 40-41].
Ma queste categorie stesse devono essere assolutamente reali, e quindi non devono corrispondere ad alcun oggetto che sia frutto di una speculazione astratta. Ed ecco quindi che questa nuova ontologia viene espunta di tutti i concetti astratti (e senz’altro metafisici) dell’antica ontologia, come – indipendenza, unità, determinato, indeterminato, sostanza, forma etc. [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 5bd p. 59-63]. In conclusione Hartmann si rifiuta decisamente di accettare un’ontologia (come quella antica) che sia incentrata nella posizione dell’essere come concetto.
Una volta posto tutto questo appare evidente che il realismo di Hartmann non corrisponde affatto a quello tradizionale, che si identifica totalmente con l’affermazione della primarietà di un mondo esteriore meramente oggettuale-cosale concepito nella sua immediata indipendenza dalla coscienza, ossia con il mondo delle cose (che si è sempre teso ad intendere come «mondo fuori di noi»). Abbiamo visto infatti che l’Essente è per il nostro pensatore molto più che una mera cosa. Semmai è invece (entro certi limiti) una datità, che rappresenta qualcosa di metafisicamente molto più complesso e profondo della mera cosa. Del resto egli stesso afferma che la sua visione supera non solo la presa di posizione idealistica ma anche quella realistica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54]. Entrambe le prese di posizione sono infatti appena visioni filosofiche del mondo, e come tali unilaterali, ossia tendenti a riportare l’essere da un unico e solo principio (ideale o reale). Invece il “realismo naturale” al quale egli punta aspira ad un coglimento affatto unilaterale della realtà immediata del mondo (certamente comunque colta nella sua totale esteriorità alla coscienza) che accomuna la conoscenza scientifica con quella naturale ed ingenua dell’uomo comune. Questa conoscenza considera comunque del tutto ovvia la constatazione della realtà del mondo, e pertanto, almeno in questo senso, si pone (almeno in parte) al di fuori della filosofia.
In ogni caso con essa viene spazzata via qualunque problematicità della conoscenza.
A tutto ciò va aggiunto che, come poi vedremo, uno dei caratteri essenziali dell’Essente è quello di costituire un «in sè», ossia un’”essente in sé” (“Ansichseiende”), ma ciononostante (diversamente da quanto statuito da Kant) resta comunque conoscibile.

2. L’atto conoscitivo e l’Essente. La critica demolitoria ad ogni teoria della conoscenza.
La ricostruzione della pienezza ed efficacia dell’atto conoscitivo si basa in Hartmann soprattutto sulla critica ad una delle principali prese di posizione filosofiche che hanno fatto della filosofia stessa unicamente una teoria della conoscenza, e cioè la “riflessività” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 9e p. 77-83]. In particolare egli obietta a questa presa di posizione che: − 1) essa confonde i limiti della conoscenza (conoscibilità) con i limiti dell’essere (per cui l’Essente per lui sussiste ben oltre i limiti del conoscibile); 2) essa ignora che l’Essente include anche il soggetto stesso e la relazione di conoscenza che esso mantiene con l’oggetto. Naturalmente questa critica va di pari passo con la severa critica al concetto di “intenzione” quale nucleo di un atto conoscitivo ritorto su sé stesso, e cioè non diretto verso l’esteriore (come entro la conoscenza intesa quale “relazione di essere”) ma invece verso l’interiore, ossia verso i contenuti di coscienza; i quali poi non sono altro che puri atti mentali (rappresentazione, pensiero, fantasia) totalmente disconnessi dalla realtà [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 10a p. 83-84]. Ne consegue che l’oggetto intenzionale non ha assolutamente nulla a che fare con l’oggetto reale; invece di esserne la purificazione ed unificazione entro la coscienza. L’appello ad esso, quindi, non mette affatto al sicuro la conoscenza, ma semmai la demolisce; come del resto testimoniato dall’intendimento dell’oggettualità come “Gegenstand”, ossia ciò che esiste solo perché sta «davanti» alla coscienza conoscente [[Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 11 p. 16-19, I, I, 4b p. 52-54, II, III, 9 p. 77-83, II, III, 10b p. 84-85, II, I, 12c p. 96-97, II, III, 20c p. 144-146, II, I, 12c p. 96-97, III, I, 22ab p. 151-153, IV, II, 42d p. 271-273]. In questo consiste quindi anche la critica di Hartmann all’”oggettivazione” quale tentativo di rendere intelligibile la realtà mediante la mera esteriorizzazione di un contenuto concettuale della coscienza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 18c p. 130-133, III, I, 22a p. 151-152, III, I, 22c p. 159-160, III, I, 25b p. 167-170, IV, III, 47a p. 293-294]. Un’operazione questa che mai potrebbe essere capace di cogliere la realtà del vero Essente, che appartiene invece totalmente al mondo e nulla ha a che fare con i prodotti della coscienza, ossia i meri contenuti mentali.
In ogni caso per approssimarci alla definizione di conoscenza proposta dal nostro pensatore dobbiamo di nuovo riprendere alcuni aspetti della sua analisi dell’Essente (e quindi indirettamente anche dell’Essere).
Prima di tutto appare evidente che la sua critica alla teoria della conoscenza è ben più ontologica che non gnoseologica. E qui ci troviamo di fronte ad una delle principali tesi ontologiche di Hartmann (alla quale abbiamo già accennato) – l’essere ideale possiede esattamente la stessa onticità dell’essere reale. Pertanto le “essenzità” (“Wesenheiten”) non sono affatto prive di realtà, ed inoltre l’essenza (meglio intesa come “Sosein”) non è affatto separata dall’esistenza (meglio intesa come “Dasein”) [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 11c p. 91-92, II, I p. 94-101]. Pertanto nel complesso questo intero essere ideale fa pienamente parte della realtà. Il pensatore accusa Platone di avere per primo sottratto l’onticità alle “Wesenheiten”. Ma su questo non siamo affatto d’accorso dato che il Prof. Reale ha mostrato chiaramente che, per il pensatore ateniese, uno dei caratteri dell’idea fu un Platone proprio la sua paradigmatica ed assoluta realtà, sebbene di natura radicalmente trascendente [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano , II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. E noi abbiamo sottolineato questo concetto nel nostro saggio su Platone, entro il quale abbiamo sostenuto che per lui l’idea non era null’altro che la più reale delle cose [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. In ogni caso Hartmann attribuisce a pensatori come Kant e Scheler la radicale divisione istituita tra “Sosein” e “Dasein”, con la conseguenza di scindere in questo modo uno dei caratteri fondamentali dell’essere reale, ossia l’unità omnicomprensiva dell’Essente (del quale i due menzionati elementi non sono parti separate ma invece appena aspetti diversi). E qui possiamo riconoscere nuovamente la natura del suo realismo, che non coincide affatto con il solo “Dasein” in quanto solo ed autentico «atto di esistere» e quindi costituente quello che il realismo tradizionale concepisce come «mondo fuori di noi». Così questo intendimento del realismo non può in alcun modo essere appropriato, dato che esso è unilaterale, cioè esclude totalmente l’essere ideale (“Sosein”), il quale invece per Hartmann è intimamente unito all’essere reale (“Dasein”) entro la Totalità rappresentata dall’Essente. Un autentico realismo quindi si deve incentrare nell’Essente e non nel solo “Dasein”. Ed è ovvio pertanto che in questo l’ontologia di Hartmann differisce radicalmente da quella di Heidegger.
Ma soprattutto questa presa di posizione distingue l’ontologia del nostro pensatore da quella antica, entro la quale veniva secondo lui concepita l’alternativa ineluttabile (entro l’essere) tra il possibile ed il reale, in modo tale che una cosa debba essere necessariamente o l’uno o l’altro [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15-16 p. 110-118]. E ciò corrisponde per lui all’”argomento modale” di Aristotele, secondo il quale vi sono solo modalità opposte dell’essere, in luogo della loro contemporanea presenza entro l’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 16b p. 116-117]. Invece per Hartmann i “modi dell’essere” esistono senz’altro (come essere ideale, o “Sosein”, ed essere reale, o “Dasein”), ma intanto si ritrovano nella realtà mondana sempre intimamente uniti tra loro. E questo porta pensatore ad assumere (almeno qui) una posizione nettamente avversa alla tradizionale metafisica, dato che per lui non esistono affatto due sfere dell’essere separate tra loro, ossia quella trascendente (ideale e sprovvista di onticità ossia di realtà) e quella immanente (reale e quindi provvista di onticità ossia di realtà). Il mondo invece (e quindi anche l’essere) è nella sua totalità unicamente reale. Questa sua presa di posizione fa dunque sì che la sua ontologia diverga questa volta in modo inaccettabile (almeno agli occhi del pensatore tradizionalistae) da quella antica, nel senso che essa di fatto sacrifica totalmente la trascendenza dell’essere alla sua realtà unicamente immanente. E pertanto almeno in questo il suo realismo appare inaccettabile per il pensatore tradizionalista.
In ogni caso un aspetto estremamente specifico della sua riflessione al proposito è quella circa la definibilità dell’Esssente, che poi è un caposaldo della moderna teoria della conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 13c p. 104-105]. Egli nega infatti che l’Essente possa e debba essere completamente definibile (per mezzo del “Sosein”), tenuto conto che la definizione di qualcosa riguarda in verità unicamente il “Sosein” stesso, lasciando così fuori il “Dasein”. E questo è un altro argomento contro la teoria della conoscenza, dato che essa è incentrata sulla necessità di definizione dell’oggetto in modo che esso possa venire sottratto (in obbedienza ai dettami kantiani) all’inconoscibilità ed illusorietà del puro e nudo “Dasein”, ossia di fatto l’”in sé”.
Grazie invece alla perfetta convergenza (entro l’essere reale) di “Sosein” e “Dasein”, l’«è» ontologico (esistenza) diviene totalmente sovrapponibile all’«è» gnoseologico, ossia quello predicativo (rappresentato dal “Sosein”). Tra essi insomma non vi è né distanza né contraddizione, ma semmai invece sovrapponibilità. E così di fatto «ciò che è» (ossia l’Essente) risulta conoscibile senza alcuna difficoltà nonostante il fatto che esso sia sostanzialmente un “in sé”, ossia qualcosa che da solo non è conoscibile ma lo è solo grazie al concorso del “Sosein”.
Oltre a ciò egli sottolinea che l’insieme inestricabile dei “modi dell’essere” (“Sosein” e “Dasein”) abbraccia l’intero essere iin quanto fatto di essere ideale ed essere reale, e quindi ci restituiscono la totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15a p. 110-112].
In relazione a tutto ciò egli sente il bisogno di sottomettere ad una radicale critica l’aspirazione della Fenomenologia a ricavare l’essere reale per mezzo del metodo della «messa tra parentesi» o epoché [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 17f p. 126-128]. Questa aspirazione (della quale senz’alto Husserl è stato protagonista) è secondo lui vittima di una fatale illusione, e cioè quella per cui la messa tra parentesi riguardi per davvero la cosa reale e non invece appena il “fenomeno”. Ne risulta allora che la Fenomenologia crede addirittura di ricostruire in tal modo l’ontologia, ma in verità resta invece lontanissima da essa. Successivamente poi – sulla base di una riflessione estremamente complessa (occupante l’intero capitolo 18), entro la quale Hartmann rigetta la natura meramente inerente del “Sosein” (secondo Aristotele), e quindi differenzia tale elemento dal “Dasein” solo per il fatto che quest’ultimo è “a portata di mano”, o “vorhanden” (ma senza che l’unità ed assimilabilità dei due elementi venga intanto negata) – Hartmann giunge ad una delle più chiare definizioni della sua ontologia incentrata nell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 19a p. 133-134]. Egli sostiene infatti che ogni “Sosein” di qualcosa (“etwas”) “è” sempre anche “Dasein” di qualcosa, e viceversa (il “Dasein” è sempre anche “Sosein”). Solo che questo qualcosa non è “uno e lo stesso “ (“ein und das selbe”). E così l’insieme di “Sosein” e “Dasein” si approssima alla Totalità del mondo in quanto identità. Questa è dunque la costituzione effettiva dell’Essente che supera la concezione scolastica secondo la quale l’esistenza è anche essenza mentre l’essenza è anche essenza (perché in questo caso ciascuno dei due termini veniva di fatto isolato nella propria sfera dell’essere).
Da tutto ciò scaturisce comunque una riflessione che ci fa ben comprendere come vada intesa la nuova ontologia [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 20bc p. 141-144]. Essa è caratterizzata soprattutto dal fatto che la determinazione è reale per definizione (è esistenza o “Dasein”) e quindi non è affatto deducibile da un mondo trascendente di “Wesenheiten” puramente ideali. Inoltre essa non può risolversi nel concetto di sostanza, corrispondente ad una realtà del tutto inconsistente rispetto a quella fatta di “natura” (“Beschaffenheit”) delle cose, e quindi anche dal loro mutamento e dalle relazioni che esistono tra esse. Infine non può più venire sostenuto il sussistere di un intreccio tra mondo dell’essenza e mondo dell’esistenza se essi restano intanto sovrapposti l’uno rispetto all’altro (in quanto l’uno trascendente e l’altro immanente). L’aspetto principale della nuova ontologia appare quindi essere nuovamente la totale non separazione tra “Sosein” e “Dasein”, i quali non rappresentano più affatto un essere differente nella loro rispettiva essenza (“Wesenverschiedenheit”), cioè essere ideale ed essere reale. Essi invece sono sempre presenti insieme in ogni cosa del mondo, così che non vi sono affatto mondi (o sfere) dell’essere separati tra loro. Mentre essi sono intanto appena concepibili come “modi dell’essere” (“Seinsweisen”) diversi tra loro in maniera solo relativa (l’uno inerente al “Dasein”, ovvero il “Sosein”, e l’altro rappresentato dal “Dasein” stesso). Essi sono dunque null’altro che membri dell’essere legati tra loro entro un unico Essente. Che è poi null’altro che la cosa reale nella sua pienezza ontica e anche metafisica.
Una volta chiarito tutto questo possiamo approssimarci maggiormente alla definizione della conoscenza secondo Hartmann. E qui, entro la sua esposizione, non a caso inizia a delinearsi chiaramente la natura di “in sé” dell’Essente (“essere in sé”, o “Ansichsein”). In questo discorso si parte dal suo ribadire che l’Essente è sostanzialmente “ciò che è” e nient’altro, e quindi costituisce un’oggettualità ontologica, ed affatto invece gnoseologica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 22 p. 151-156]. Ma in filosofia è possibile riconoscere questo solo dopo aver spazzato via la necessità di un atto riflessivo per potere cogliere l’oggetto in quanto “Gegenstand”, e cioè di fatto appena un concetto obiettivato. Quest’ultimo è infatti unicamente un oggetto di conoscenza e rende quindi tale anche qualunque Essente si concepisca.
Il vero oggetto ontologico è dunque quello che sussiste “in sé” e non invece “per noi” (come accade per il “Gegenstand”). E proprio per questo esso coincide unicamente con l’Essente in quanto “ciò che è”. Ecco allora che nuovamente l’ontologia ci appare non appena come campo dei meri oggetti reali indipendenti posti fuori della coscienza (il «mondo fuori di noi» del realismo tradizionale), ma è invece ciò abbraccia tutto l’essere esteriore e l’essere interiore in quanto consiste in tutto ciò che “è”.
A tale proposito tuttavia il concetto di “datità” si rivela costituire un problema, in quanto esso è strettamente connesso con l’intendimento dell’oggetto come gnoseologico e non ontologico, e quindi come oggetto di conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23 p. 156-162]. L’Essente infatti in verità è per Hartmann appena «tutto ciò che è», e quindi è qualcosa di totalmente indipendentemente dalla coscienza. Mentre l’oggetto quale datità dipende in una certa misura da quest’ultima. Quindi, secondo lui, l’Essente non è né cosa, nè fenomeno, né “Gegenstand”, nè apparenza (o apparizione). E pertanto non coincide né con la sola esteriorità mondana (indipendente dalla coscienza) né dalle forme di oggettualità che la coscienza genera. Pertanto l’ontologia è quanto trascende tanto l’esteriorità mondana (concepita quale unica realtà dal tradizionale realismo) quanto l’interiorità.
Naturalmente tutto ciò comporta nuovamente la severa critica di Hartmann al concetto husserliano di “intenzione” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23d p. 160-162] in quanto questo atto è appunto produttivo dell’essere e quindi onto-generativo. Ed ecco che allora, proprio con tale opposizione, si delinea finalmente l’atto di conoscenza. Essa infatti costituisce per il nostro pensatore un atto trascendente e quindi è capace di cogliere davvero l’«è» cioè l’Essente in quanto con esso il soggetto supera i limiti della coscienza. Pertanto, diversamente da quanto avviene nell’intenzione, l’atto non resta entro i limiti dei puri atti mentali senza mai poter intercettare l’essere. L’atto di conoscenza così inteso è pertanto un vero “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggetto in quanto Essente, ed infatti non è attivo-produttivo ma è invece ricettivo (quindi è connesso alla percezione ossia alla passività del soggetto). In tal modo la conoscenza resta sì un atto di coscienza ma in un modo radicalmente diverso, ossia tende ad uscire dai suoi limiti per incontrare un essere alieno che esiste del tutto indipendentemente da essa. Ebbene questa è la conoscenza com’è stata sempre intesa in tutta la sua ovvietà prima di venire completamente sovvertita dalle astruse teorie filosofiche moderne. E quindi è la conoscenza come può e deve venire intesa da tutti noi – dal filosofo, dallo scienziato e dall’uomo comune. Essa è dunque una piena conoscenza naturale. E come tale non può essere considerata altro che indubitabilmente efficace. Insomma nessuna teoria scettica può toccarne l’integrità.
Tuttavia Hartmann sottolinea anche la primarietà della conoscenza naturale rispetto a quella scientifica, e ciò in forza della sua dimensione vitale ed esistenziale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II, 42 p. 267-273]. Infatti innanzitutto la conoscenza naturale della realtà è un pieno coglimento dell’Essente in quanto non è condizionato dalla rappresentazione. In essa quindi l’oggetto reale prende il sopravvento sul relativo concetto. Pertanto essa è per definizione ingenua. Ma lo è ancor più perché sullo sfondo di questo sopravvento vi è il fenomeno emozionale dell’”essere colpiti” (“Betroffensein”) dalla realtà incondizionata nel contesto della vita quotidiana. E ciò è radicalmente diverso da quanto accade nella scienza. Con ciò si pone dunque l’”impositività” (“Aufdringlichkheit”) che caratterizza l’Essente, ossia quella sua forza e peso che rendono impossibile non coglierlo conoscitivamente. Ma ciò avviene solo in virtù della sua natura solidamente ontica.
Nell’esposizione successiva Hartmann si dedica soprattutto a dimostrare la sua tesi secondo la quale l’essere ideale non è impositivo come l’essere reale e quindi viene conosciuto con difficoltà molto maggiore sebbene non sia affatto privo di onticità ed inoltre rientri comune nella totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II-III, p. 267-322]. Peraltro egli sottolinea nuovamente che l’essere ideale (“Sosein”) si presenta sempre associato all’essere reale (“Dasein”) nell’esperienza e nella realtà, per cui la conoscenza dell’uno implica la conoscenza dell’altro. Ebbene questa è l’estrema sintesi di una riflessione che è estremamente analitica, dettagliata, profonda, vasta e complessa, e quindi su di essa non possiamo soffermarci. L’unico aspetto di essa che va sottolineato è comunque quello che riguarda più da vicino l’atto di conoscenza, e cioè la parte in cui Hartmann critica il concetto di “visione essenziale” (proprio della Fenomenologia husserliana) ritenendolo affatto scevro da errori e quindi per nulla capace di cogliere infallibilmente la verità; e peraltro senza con questa difettività nulla cambi nell’esistenza dell’essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, III, 47d p. 297-298]. Si riconferma quindi che la conoscenza è autentica solo quando essa intercetta un oggetto reale che ha inevitabilmente le caratteristiche dell’”in sé”, e quindi è del tutto indipendente da qualunque forma di conoscenza e/o atto e contenuto di coscienza (inclusa quella apparentemente posta al sicuro da Husserl mediante l’estrazione dell’oggetto per mezzo della messa tra parentesi).
L’oggetto di questa riflessione può questo quindi venire considerato il suggello finale dell’ontologia di Hartmann, la quale senza ombra di dubbio va di pari passo con l’eradicazione dalla filosofia di qualunque problematicità della conoscenza. Alla quale evidentemente la Fenomenologia non aveva posto alcun vero rimedio.

Conclusioni.
Dopo aver constatato tutto ciò possiamo ritenere confermato il fatto che Hartmann ha compiuto un’operazione estremamente lodevole nel sottrarre l’ontologia all’astrattezza e ad una serie infinita di visioni pregiudiziali ed arbitrarie che avevano caratterizzato l’antica ontologia, ma che poi sono persistite entro quella filosofia moderna che intanto aveva spazzato via ogni ontologia. L’accento posto sulla riflessione (con tutte le sue conseguenze teoretico-conoscitive, specie l’affermazione della problematicità della conoscenza) rientra infatti pienamente in queste visioni unilaterali.
Su questa base, dunque, il nostro pensatore ci obbliga a considerare con un certo disincanto ciò che è l’Essere in quanto prima di tutto reale, ossia quello mondano. E ciò scava senz’altro un profondo fossato tra la sua ontologia e la tradizionale onto-metafisica.
Ebbene è proprio questo, secondo noi, l’aspetto che rende non poco criticabile la stessa ontologia di Hartmann. Almeno da un determinato punto di vista. E quindi, aldilà di tutto il positivo che abbiamo constatato in essa, bisogna anche mettere in luce ciò che è invece negativo. Almeno dal punto di vista del pensatore tradizionalista, per il quale è molto difficile (se non impossibile) accettare che l’antica ontologia (che poi era in primo luogo metafisica) sia stata davvero superata, e fino ad aver bisogno di una radicale riforma.
È evidente infatti che, checché se ne possa dire, tale appello al disincanto a fronte dell’Essere deve essere considerato il frutto di un’operazione decisamente anti-metafisica. Tuttavia, oltre a ciò, possiamo davvero considerare “ontologia” una disciplina che di fatto identifica l’Essere unicamente con tutto ciò che è contenuto nel mondo dell’esperienza, ed è quindi reale in quanto noi possiamo tangibilmente prendere contatto con esso (in maniera più o meno sensibile)? Eppure, come abbiamo visto, Hartmann stesso afferma che l’essere è in sé qualcosa di inafferrabile ed incomprensibile. Ma poi mitiga questa affermazione sostenendo che le sue specificazioni (“Besonderheiten”) mondane non lo sono affatto. Anzi sarebbero l’esatto contrario. Tuttavia l’ontologia non è scaturita forse nel cuore della filosofia di tutti i tempi proprio perché si sentiva il bisogno di cogliere l’Essere al di fuori delle sue specificazioni tangibili, ossia l’«essere come tale»? E questo non è forse accaduto proprio perché l’uomo avverte con forza straordinaria la decisività del concetto di «essere» rispetto a qualunque aspetto della sua esistenza ed esperienza – in perfetta obbedienza al concetto lebniziano del “perché qualcosa e non nulla?”? [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. L’uomo insomma ha sempre sentito forte l’esigenza di comprendere cosa mai fosse questo qualcosa di inafferrabile e misteriodo, entro il quale però esso vive la propria esistenza e del quale, inoltre, sono fatte tutte le cose con le quali l’uomo stesso viene in contatto nel corso della propria esistenza. Ma quale modo vi era per cogliere questo mistero se non un’indagine che, con non poco sforzo, gettasse lo sguardo dietro e aldilà di quelle evidenze e specificazioni reali che, a fronte del mistero, possono benissimo essere appena delle mere apparenze e quindi solo illusioni. Ora, è vero che l’antica ontologia, ha compiuto questo lavoro in gran parte in base a prese di posizione pregiudiziali (visioni del mondo) che potevano ben essere non meno illusorie delle apparenze sotto le quali essa intanto scavava. Ed è vero anche che questo può avere recato a concetti astratti le cui contraddizioni vengono giustamente messe impietosamente in luce da Hartmann. Tuttavia ciò non è forse accaduto perché la filosofia (con pochissime eccezioni, come quelle di Pitagora e Platone) aveva deciso già ai suoi primordii di distaccarsi da quel «mito» il quale era tutt’altro che una favola, trattandosi invece dell’originaria Rivelazione circa l’Essere che era stata offerta all’uomo da Dio stesso per mezzo della Scienza Sacra originaria? Il mito era infatti in verità la stessa Sapienza e Scienza che da tempo immemorabile era stata custodita nel Tempio, e non certo invece nelle Accademie filosofiche. Non a caso Platone (indubbiamente il padre dell’intera filosofia) aveva fatto un deciso salto di qualità nella profondità del suo pensiero dopo aver soggiornato nel tempio di Heliopolis [Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 26-36] oltre che nella Magna Grecia dove prese contatto con la Sapienza filosofico-religiosa orfico-pitagorica [Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974, XII, 1 nota 32 p. 663-671]. Ed inoltre anche Schelling ha affermato che la filosofia ha avuto un tempo una totale consonanza con la Sapienza custodita nel Tempio [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam, Conn. : Spring Publication, 2010, p. 7-10].
Qui ci troviamo dunque di fronte ad una serie di contenuti che sono sempre stati il frutto di una riflessione di tipo contemplativo (e non razionale), quindi profondissimamente intuitiva ed iper-razionale. Motivo per cui essa non è mai stata astratta e meno che mai pregiudiziale ed arbitraria (dietro di essa vi era infatti la Verità divina stessa e quindi anche la stessa Sapienza divina). Pertanto essa è stata sempre lontanissima dai principi logici (contraddizione etc.) ai quali invece si è rifatta acriticamente l’antica ontologia criticata da Hartmann (e qui del tutto giustamente) almeno a partire da Aristotele e poi entro la Scolastica ed in tutte le sue successive evoluzioni.
Dunque, se non vi fosse stato il fatale distacco da tale Sapienza, probabilmente l’antica ontologia non si sarebbe mai abbandonata a costrutti unilaterali ed arbitrari. E di conseguenza non ci sarebbe mai stato bisogno che nascesse una nuova ontologia. La quale si caratterizza per il fatto che di tutto questo lavoro di scavo nell’Essere non vuole sapere assolutamente nulla dato che esige di rifarsi appena alle evidenze mondane. Se così fosse stato, allora, non vi sarebbe stata mai la necessità di una distinzione tra antica e nuova ontologia. Una distinzione che è essa stessa non poco artificiosa e pochissimo credibile. Infatti, almeno in una certa misura, rinnovandosi così radicalmente l’ontologia rischia di perdere la propria natura.
Detto questo però va riconfermato che (come abbiamo già accennato), senza l’ontologia di Hartmann, l’antica ontologia riesumata nel XX secolo non avrebbe mai avuto la forza sufficiente per ricostruire la pienezza della conoscenza. E questo avrebbe lasciato la filosofia nel pantano costituito da una serie di visioni avevano reso la conoscenza impossibile, consegnandola in tal modo di fatto nelle mani di un nuovo distruttivo scetticismo. Certamente anche la filosofia di Hartmann non ha retto all’urto delle recenti forme immanentistiche di pensiero che hanno di nuovo reso impossibile l’ontologia (insieme alla metafisica). E tuttavia essa resta come un punto di riferimento dal valore inestimabile in uno scenario filosofico che già allora stava per incamminarsi in questa così deleteria direzione.
Questo conferma quindi l’importanza del suo ruolo e del suo valore, e pertanto la necessità di studiarla e non dimenticarla quando si pensa alla filosofia del XX secolo. Il nostro articolo, dunque, vuole essere sostanzialmente un richiamo a questa necessità.

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(*) Dottore in filosofia presso la FLUL di Lisbona.

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

INTRODUZIONE.
Quando si parla di ontologia ci sembra evidente che non si possa prescindere dal prendere in considerazione e definire il concetto di «essere». E ciò implica necessariamente (che piaccia o meno) doversi riferire alla definizione che ne ha dato Aristotele nel suo quinto Libro della Metafisica come «essere come tale» o anche «essere in quanto essere» [Aristotele, Metafisica, Mondadori, Milano 2008, V, 1, 1003a, 20-30 p. 741].
Si tratta evidentemente dell’essere concepito nella maniera più astratta possibile, ossia come concetto; che poi appare costituire il modo più pienamente metafisico di concepire tale realtà. Ma è comprensibile che questo possa suscitare un forte disagio presso i realisti di tutti i tempi (specie quelli moderni), i quali non a caso hanno cercato sempre di porre il concetto di «Essente» al posto di quello di «essere». Il che corrisponde poi al sottrarre tale realtà alla dimensione astratto-concettuale riportandola interamente sul piano dell’esistenza reale. È evidente che uno dei maggiori protagonisti di questa operazione è stato Heidegger. Ma intanto la lettura di un libro come quello di Nicolai Hartmann Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968 scritto nel 1949 – unitamente alla lettura della sua precedente e più estesa opera Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941 – pone davanti a questa operazione in una maniera molto più obiettiva e sobria, in quanto esente dai vertiginosi funambolismi (da giocoliere del pensiero e del linguaggio) ed inoltre astrusità che caratterizzano il pensiero di Heidegger. Per questo l’analisi di queste opere ci sembra particolarmente appropriata per esaminare criticamente l’appello all’ontologia fatto dal fisico quantistico e filosofo Wolfgang Smith nelle sue opere.
In questo articolo ci riferiremo comunque soprattutto alla prima opera menzionata di Hartmann (NWO), in quanto essa è ben più agile e breve della seconda, ed ha inoltre il merito di porre la necessità di una nuova ontologia (incentrata unicamente nell’Essente) in relazione con prospettive filosofiche e scientifiche piuttosto ampie, estremamente attuali ed infine trattate in maniera estremamente pragmatica. E tuttavia in ogni caso ci riferiremo anche alla seconda opera (sebbene in maniera molto ridotta data la sua molte) laddove ciò si rivelasse necessario.
Ma, collateralmente al nostro scopo primario, ci interessa anche chiarire se la nuova ontologia abbia per davvero il diritto di prendere il posto di quella antica, presentandosi così a noi come la disciplina con la quale oggi bisognerebbe confrontarsi allorquando si sente l’esigenza di chiamarla in causa. Del resto a ciò va aggiunto che la trattazione di una nuova ontologia rappresenta comunque un’operazione filosofica che è impossibile trascurare, dato che (aldilà dei tentativi di diversi pensatori del XIX e XX secolo di riesumare quella antica) essa è provocatoria e assertiva per definizione, e quindi non si lascia ignorare tanto facilmente. Infatti il parlare di una nuova ontologia in uno scenario filosofico nel quale si era ritenuto che tale disciplina fosse ormai morta e sepolta per sempre, implica la necessità di constatare che questo seppellimento forse non è mai stato del tutto giustificato. Sta di fatto però che la nuova ontologia di Hartmann non è più nemmeno lontanamente somigliante a quella antica. Essa infatti pretende di essere totalmente realistica (avendo liquidato per sempre il concetto di una realtà trascendente) ed inoltre definisce sé stessa come una vera e propria scienza. Inoltre in ZGO Hartmann chiarisce a più riprese che essa non coincide affatto con la metafisica, e quindi non costituisce affatto (come quella antica) un’«onto-metafisica», sebbene comunque della metafisica sia rimasta in ontologia la dimensione della misteriosità e insolubilità di alcune questioni [Nicolai Hartmann. Zur Grundlegung…cit., Einleitung 1-8 p. 1-12, 10-11 p. 14-19, 13 p. 21-23, 16-17 p. 27-31, I, I, 1a p. 39-40, I, I 2b p. 44-46, I, I 3bc p. 47-49, II, II, 5a p. 57-59, II, II, 7b p. 68, II, III, 8a p. 72-73, II, I, 12bc p. 95-97, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157]. In ogni caso, se mettiamo insieme l’intera esposizione di Hartmann in ZGO, possiamo constatare che per lui la metafisica è in fondo ancora giustificata, purché si rassegni a costituire appena lo sfondo inconoscibile dell’essere. Pertanto per lui l’ontologia ha semmai l’ambizione di costituire uno sguardo filosofico-scientifico estremamente sobrio gettato sul mondo così com’è. Ed in questo è senz’altro molto diversa dall’antica conoscenza onto-metafisica. E quindi, nello studiarla, si è costretti a prendere atto di prospettive e concetti completamente nuovi rispetto a quelli dell’antica ontologia. In altre parole, chi oggi ritenesse necessario chiamare nuovamente in causa l’ontologia, è costretto a verificare prima se intende riferirsi a quella antica o a quella nuova. E poi (almeno in via di principio) si vede di fatto costretto a riferirsi sola alla prima.
Non sembra proprio però che Smith si sia sentito obbligato a questo atto di scelta. Egli infatti, in veste di
filosofo e fisico quantistico (e quindi di esponente della scienza empirica), sembra aver ritenuto di poter riferirsi unicamente all’antica ontologia, ossia all’onto-metafisica. È dunque in questo modo che egli si è dedicato all’opera di applicare l’ontologia alla scienza, senza preoccuparsi minimamente di ciò di cui invece Hartmann si preoccupa molto, e cioè della necessaria sintonia che oggi l’ontologia (una volta chiamata in causa) dovrebbe avere con la scienza empirica. Laddove egli presuppone che quest’ultima non si occupi di entità para-metafisiche ma invece di entità assolutamente reali (che esse siano fisiche, animiche o spirituali).
Ebbene il nostro scopo primario in questo articolo è quello di capire se questo riferimento all’onto-metafisica antica è davvero giustificato in un ambito eminentemente scientifico com’è quello che Smith indaga. Dobbiamo però a questo punto precisare che noi personalmente non condividiamo affatto il nuovo assetto (iper-realista e scientifico) che Hartmann ha dato all’ontologia. Dato che riteniamo che quest’ultima abbia ricevuto la sua forma definitiva nel suo assetto antico e tradizionale, e quindi corrisponda anche perfettamente alla conoscenza metafisica. Il che fa poi sentire molto la mancanza della trattazione del concetto di «essere» una volta nella sua dimensione astratto-concettuale. E per di più riteniamo che questo concetto abbia ricevuto la sua definizione ben prima che nel pensiero di Aristotele, e cioè nel contesto di quella cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale che secondo noi rappresenta la vera fonte di ogni filosofia. E questa è quella della quale (riducendo di molto la ricchezza delle fonti) ci hanno parlato pensatori tradizionalisti come Guénon e Schuon specie in alcune loro opere più prossime all’ontologia
[René Guénon. Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi Milano 2006; Frihtjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988]. E per questo riteniamo imprescindibile in particolare la riflessione di Guénon, secondo il quale la vera natura dell’essere è effettivamente astratto-concettuale in quanto è radicalmente trascendente, dato che coincide in verità unicamente con il concetto di «essenza» ideale e sovra-essenziale, che poi corrisponde largamente alla visione platonica dell’Idea come la più reale delle cose [René Guénon, Il Regno…cit., 57 p. 300-304; 69-75 p. 355-396]. Ma più o meno delle stesse cose parla anche Schuon [Frithjof Schuon, Sulle tracce… cit., 2 p. 19-29; Frithjof Schuon, Logica… cit., 9 p. 139-144].
Tuttavia è evidente che né Aristotele, né Hartmann né Smith fanno riferimento a questo genere di ontologia, sebbene (come vedremo) l’ultimo pensatore incentri la sua ontologia proprio su questa visione platonica. Anzi uno dei principali bersagli critici di Hartmann, oltre che Aristotele, è proprio Platone con la sua dottrina dell’essere ideale trascendente.
Detto questo, l’appello di Smith dovrebbe sembrarci incondizionatamente giustificato. Eppure non è così. Sia per la scarsa chiarezza del suo concetto di “ontologia” sia anche per il fatto che egli intende applicare quest’ultima ai dilemmi della più avanzata tra le scienze empiriche, e cioè la Fisica quantistica. E questo appare a noi contraddittorio e sospetto per definizione, dato che nulla può essere più lontano dal concetto tradizionale di «essere» quanto lo è la più estremamente moderna delle scienze empiriche. E di questo sembra del resto consapevole lo stesso Smith, dato che egli denuncia la cattiva piega presa dalla scienza empirica a partire dall’Illuminismo e poi ancor più dal Positivismo. Secondo lui infatti le linee lungo le quali si è mossa la Fisica quantistica trovano la loro radice proprio in queste erronee premesse.
A causa di tutto questo, quindi, bisogna secondo noi essere molto prudenti nell’accettare che la correzione di tale tendenza possa avvenire servendosi dell’antica onto-metafisica. Quest’ultima infatti non si presta secondo noi ad alcuna forma di commistione con la moderna scienza empirica (mentre invece vi si presta in qualche modo la nuova ontologia di Hartmann). E questo perché la sua vera natura (anche andando oltre il suo apparente padre, Aristotele) trova la sua espressione solo nella metafisica tradizionalista. Bisogna quindi supporre che, se Smith avesse voluto essere davvero coerente, avrebbe dovuto semmai fare riferimento alla nuova ontologia, ossia una disciplina naturalmente in sintonia con la scienza. Tuttavia non sappiamo se il pensatore abbia mai avuto conoscenza di questa disciplina. E quindi è probabile che egli si sia servito di quello che effettivamente aveva a disposizione.
Vedremo comunque che alla fine Smith, nel suo argomentare, non si trova in linea né con l’antica né con la nuova ontologia. E questo per un fatto sostanzialmente negativo, ossia perché il suo intendimento del termine (e della relativa disciplina) è distorto da una sua interpretazione non solo estremamente personale e arbitraria ma anche evidentemente compromessa dalla carenza di letture in questo ambito, ossia dalla carenza o superficialità delle sue conoscenze in campo ontologico. Ma oltre a ciò è possibile anche che il pensatore abbia comunque intuito che l’ontologia da chiamare in causa non poteva essere compromessa né con le sue forme antiche né con le sue forme moderne. E questo sarebbe estremamente lodevole.
In ogni caso vedremo poco a poco – nel corso dell’esposizione sintetica delle idee da lui esposte nel libro “Phisics: a science in quest of a ontology” (PSQO) [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023] − che il riferimento di Smith all’ontologia (nonostante le sue imprecisioni, carenze e contraddizioni) non solo diviene sempre più chiaro ma anche più plausibile, e ci permette così di attribuire (almeno parzialmente) la disciplina di cui egli parla in parte tanto all’antica quanto alla nuova ontologia.

1- Smith e l’ontologia.
A tutto quanto diremo va premesso che, molto in generale, non è assolutamente chiaro, lungo tutto lo scritto, cosa Smith intenda con i termini “ontologia” ed “ontologico”. Ma in diversi punti dell’esposizione è possibile avanzare su questo almeno delle ipotesi. In ogni caso, a moderazione di questa critica, vi è da constatare che in un passo del suo libro Smith parla di “ontologia della fisica”. È ipotizzabile quindi che egli si riferisca ad un’ipotetica ontologia che è ciò che è in quanto è espressamente destinata a venire applicata alla Fisica quantistica. E questo quindi impone al suo appello le restrizioni delle quali abbiamo appena parlato. Quale sia però la fonte filosofica di questa ontologia non è dato saperlo. Quanto poi ai suoi contenuti, essi sarebbero quelli esposti da Smith stesso, così che è estremamente probabile che si tratti non dell’ontologia in assoluto ma invece della sua personale ontologia. In ogni caso, una volta ammesso questo, bisogna concluderne che (almeno nelle sue linee generali, a parte alcune eccezioni) quanto il pensatore definisce come “ontologia” è qualcosa che è stato sempre sconosciuto ai filosofi.
Innanzitutto, diversamente da quanto ci mostra Hartmann in NWO e soprattutto in ZGO, Smith sembra considerare l’ontologia equivalente alla metafisica. Ma sembra inoltre anche considerare quest’ultima come una forma di conoscenza compiuta, e quindi non solo in grado di trattare in maniera esauriente i problemi che affronta ma anche di concorrere pari a pari con la conoscenza scientifico-empirica. Hartmann ci lascia intendere che invece l’ontologia è (almeno in gran parte) diversa dalla metafisica in quanto è sostanzialmente scientifica e non filosofica. Inoltre per lui la metafisica non è affatto in grado di conoscere a fondo gli stessi oggetti della scienza empirica, ma invece si limita a trattare questioni che restano sullo sfondo tanto della ricerca filosofica che di quella scientifica, e ciò per il fatto che tali questioni sono e restano di fatto insolubili. Secondo lui quindi la metafisica non ha alcuna possibilità di costituire una conoscenza compiuta. E quindi si presta molto poco a risolvere i dilemmi della scienza, come invece Smith ritiene che sia pienamente possibile.
A tale proposito abbiamo immediatamente l’immagine della contraddizione alla quale soggiace l’operazione smithiana quando egli invoca in concetto di “totalità irriducibile” (da lui attribuito tanto all’intero essere quanto al cosmo quanto all’individuo), considerandolo peraltro come un concetto squisitamente metafisico. Orbene nulla è più lontano (come poi vedremo) dall’assetto che Hartmann ha dato all’ontologia, dato che essa aborre qualunque tentativo (certamente tipicamente antico-metafisico) di ridurre ad una totale unità l’essere, il mondo e l’uomo. Questo significa infatti per lui tradire la realtà sulla base di visioni pregiudiziali e soprattutto unilaterali, che hanno sempre vanamente tentato di ridurre l’essere ad uno solo dei suoi diversi aspetti; che per lui sono tutti realmente esistenti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 19 p. 33-35, II, II, 6c p. 65-66, II, II, 7a p. 66-68, II, III, 18c p. 129-133, IV, II, 42a p. 267-268]. Mentre invece per Smith (in pieno accordo con le aspirazioni dell’antica metafisica) l’unificazione implica il chiarimento ultimo della realtà. Per Hartmann infatti l’essere è per definizione molteplice (e proprio per questo fatto a strati) per cui non è riconducibile ad alcuna totalità, specie se definita come “irriducibile”. Peraltro Smith afferma che la Fisica quantistica pretende essa stessa di configurare un’unità ed un ordine che fanno di essa (almeno tendenzialmente) un’immagine decisamente “ontologica” del mondo. Ma questo per Hartmann non è altro che uno dei tanti monismi metafisici, e quindi non ha alcun reale valore scientifico. Tuttavia comunque vedremo più avanti quanti dubbi vengono sollevati da una definizione del mondo fisico sub-particellare (il più basso che esista) che pretenda di fare di esso quello che più contraddice quello che Hartmann definisce lo strato più inferiore dell’essere; cioè appena uno degli strati dell’essere ed affatto invece l’essere nella sua totalità ultima. Su questo comunque Smith appare essere assolutamente d’accordo con Smith dato che per lui il mondo sub-particellare quantistico equivale tutt’altro che all’essere. Esso infatti non ha semplicemente i caratteri oggettuali e realistici dell’Essente.
Dall’ontologia Smith si aspetta comunque la soluzione dei misteri che sono derivati allorquando (da Heisenberg a Schrödinger) in poi è crollato per sempre il dogma della Fisica classica, e cioè quello secondo il quale la realtà fisico-materiale (in obbedienza a Cartesio con la sua famosa “biforcazione” dell’essere tra res extensa e res cogitans) non sarebbe stato altro che res extensa, ossia ricadente pienamente nel campo della categoria della spazialità e dell’estensione. Da quel momento in poi è iniziata ad emergere l’evidenza secondo la quale la sub-particella (quella che secondo loro è davvero il fondamento del mondo fisico e quindi della materia) non sarebbe altro che una “funzione d’onda”, e quindi una realtà puramente probabilistica. La sua esistenza è insomma per nulla oggettiva ma invece puramente relativa alla misura.
E ciò ha generato quel mistero della misura che Smith ritiene di poter risolvere nel concepirlo in una maniera “ontologica”. Affermazione con la quale egli intende una serie di evidenze metafisiche che vedremo più avanti, tra le quali si ritrova anche quella della totalità irriducibile. In questo egli trova comunque giustificata l’affermazione di Feynmann secondo la quale la Fisica quantistica sarebbe sostanzialmente incomprensibile. E questo perché anche secondo lui questa serie di rivoluzioni concettuali in Fisica ha stravolto completamente l’evidenza più immediata e razionale.
Ma il senso dell’appello smithiano all’ontologia diviene molto più chiaro allorquando egli – ricollegandosi all’altra sua opera “The Quantum enigma” (QE) [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001] – ci suggerisce che il biforcazionismo cartesiano ha fatto si che considerassimo irreale il mondo esteriore e conoscibile nel quale siamo immersi. Dunque, secondo lui, l’enigma della misura deve essere risolvibile per via “ontologica” proprio per il fatto che le apparenti stranezze irrazionali della Fisica quantistica (del tutto incompatibili con l’antecedente assetto della Fisica) in realtà nascondono una serie di fenomeni che avvalorano pienamente l’esistenza di un mondo esteriore (res extensa) diverso dal soggetto conoscente (res cogitans). Esse insomma porterebbero alla luce un’autentica ed irriducibile oggettualità oggettiva sulla quale il soggetto non ha alcun influsso. Ed infatti egli ci informa del fatto che il solo apparente mistero della misura fu risolto solo allorquando la premessa cartesiana venne finalmente rigettata dagli stessi fisici quantistici. L’ipotesi guida da lui impiegata in questo (sulla base di esperimenti condotti sulla percezione visuale da Gibson) è che la nostra percezione del mondo esteriore non si verifica per mezzo di elementi derivanti dalla scomposizione atomistica dell’oggetto (che impressionano poi la retina venendo in essa di nuovo riunificati) ma invece avviene invece in blocco, ossia come una vera e propria totalità irriducibile. In termini onto-metafisici ciò corrisponde per lui alla forma dell’antica metafisica. Ma vedremo poi con Hartmann che la nuova ontologia svaluta totalmente la teoria della forma in quanto essa otterrebbe l’unità del mondo per mezzo del sacrificio della molteplicità che invece caratterizza l’essere. Per lui invece la Totalità conoscibile non è altro che l’Essente nella sua piena realtà in quanto “ciò che è”. E per questo rimandiamo il lettore all’analisi più accurata di ZGO che abbiamo fatto in un altro nostro articolo [Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: http//:cieloeterra.wordpress.com/2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza].
Ed eccoci dunque di fronte all’impiego da parte di Smith di un concetto antico che l’ontologia moderna ha destituito totalmente di fondamento. Questo impiego dell’ontologia induce comunque il pensatore a considerare il “corporale” come la totalità irriducibile che noi cogliamo nel mondo esteriore, senza che il soggetto (res cogitans) giochi alcun ruolo in questo processo. Il che coincide poi con l’oggettivo-oggettuale nella sua indipendenza che rappresenta il mondo reale esteriore. E questo si ricollega per lui alla riflessione sulla relazione che esisterebbe tra l’oggetto corporale effettivo (X) e l’oggetto fisico (SX) che cogliamo unicamente per mezzo della misurazione entro la Fisica quantistica.
Insomma abbiamo immediatamente qui davanti a noi il senso che egli attribuisce all’aggettivo “ontologico” (e quindi anche all’ontologia) – esso corrisponde a quanto è ordinariamente percepibile nel contesto dell’esperienza mondana, ossia il mondo corporale stesso. Ma è assolutamente evidente che questo lo pone fin dall’inizio in radicale dissidio con l’onto-metafisica antica, la quale invece definiva sé stessa come una scienza dell’essere che per definizione trascendeva il sensibile. Ebbene bisogna dire che questo dissidio resta in tutta l’opera di Smith, costituendo così il suo principale limite concettuale (in quanto lampante contraddizione), e dunque mostrandoci chiaramente che (almeno per certi versi) egli ha profondamente frainteso il concetto di ontologia. Egli ha cioè identificato l’«ontos» con la sola dimensione corporale.
E questo non viene affermato nemmeno da Hartmann, pur con tutto il suo realismo. Dato che per lui l’«ontos» non è altro che la totalità dell’Essente, ossia qualunque aspetto e livello reale del mondo (dal corporale allo spirituale).
Comunque, nel momento in cui Smith affronta il problema della misura quantica, inizia a divenire ancora più chiaro cosa egli intenda come “ontologia”. Egli presuppone infatti una “differenza ontologica” tra l’oggetto fisico (l’oggetto SX, non unitario in quanto rappresentato appena da particelle e quindi privo delle qualità che sono solo dell’oggetto unitario e pertanto non percepibile sensorialmente) e l’oggetto corporeo (l’oggetto X, unitario, provvisto di qualità e percepibile, ma del quale non percepiamo le particelle componenti). Dunque il problema della misura (in Fisica quantistica) è per Smith irrisolvibile perché, essendo lo strumento di misurazione esso stesso corporeo, non permette di percepire ciò che non giunge ad essere corporeo, ossia quell’oggetto fisico che è esclusivamente particellare, anzi radicalmente sub-particellare. Esso è insomma solo «parte» e non «corpo», ossia non è un Tutto.
Ancora una volta sembra quindi che egli si riferisca al dominio ontologico come quello che è caratterizzato dalla categoria della corporeità in quanto percepibile e quindi sensibile. Quanto poi alla fisicità essa sarebbe per lui esclusa dal dominio ontologico in quanto non percepibile.
Insomma il ragionamento scientifico-metafisico è qui alquanto confuso per vari motivi: − attribuzione all’ontologia della sola categoria della corporeità, esclusione della categoria della fisicità dall’ontologia, identificazione totale della sola corporeità con la percepibilità, ipotesi che esista una sorta di secondo mondo «non-ontologico» (caratterizzato da oggetti fisici che di fatto sono dei non-oggetti) e che sarebbe stato aggiunto all’essere da parte della Fisica quantistica. Sembra insomma che vi siano qui diverse illazioni del tutto infondate. Soprattutto ci si chiede a quale ontologia Smith abbia attinto per riconoscere in essa la possibilità di ricavarne questi contenuti e queste affermazioni. Per quanto ne sappiamo non è mai esistita un’ontologia che abbia sostenuto tutto questo, meno che mai quella antica e nemmeno quella moderna di Hartmann. Di conseguenza diviene del tutto arbitrario anche l’aggettivo “ontologico” entro l’uso che Smith ne fa. Certo è che la nuova ontologia di Hartmann menziona chiaramente la dimensione fisica tra le categorie più basse dell’essere; ma senza che la categoria della corporeità sia affatto in concorrenza con essa né la abolisca. Oltre a ciò Smith sembra voler escludere dall’ontologia tutti gli oggetti dei quali si occupa la scienza empirica più avanzata – come se essi non appartenessero affatto all’essere. Ne dobbiamo concludere che in definitiva per lui ontologia è tutto ciò che non è scienza nell’osservazione dell’essere, e quindi che l’ontologia sarebbe una disciplina che si occupa dell’essere in modo solo parziale – e precisamente entro i limiti di un determinato frasario, includente determinati termini (come forma, sostanza etc.) per designare le stesse cose che la scienza designa invece con un altro frasario. La questione insomma sarebbe solo meramente linguistico-concettuale. Ma questa è solo una nostra extrapolazione. L’ipotesi più probabile, invece, è che Smith parli di quella che è appena la «sua» personale ontologia, ossia ciò che egli personalmente (e arbitrariamente) intende con questo termine.
Tuttavia il discorso del nostro pensatore diviene ancora più astruso e arbitrario allorquando – ritenendo di aver finalmente risolto il problema della misura grazie al teorema di Dembski – non solo aggiunge alla causalità orizzontale (essa stessa ben nota categoria dell’essere entro la nuova ontologia di Hartmann) anche una curiosa ed oscura causalità “verticale”, ma ritiene quest’ultima stessa una tipica realtà ontologica. Cosa sia questa causalità verticale non è immediatamente chiaro, anche se il suo riferimento all’”intelligent design” sembra ricollegarla alla classica teleologia dell’antica metafisica. Tuttavia ciò diverrà comunque chiaro più avanti entro un discorso radicalmente metafisico che si rifà a Platone. In ogni caso Dembki ci mostrerebbe come causalità orizzontale (caratterizzata da un rigido determinismo dominato dalla concatenazione causale tra elementi isolati tra loro) non è in grado di spiegare alcuna “l’informazione specificata complessa”, ossia alcuna complessità di essere, e quindi alcun genere di individuo personale o di struttura ad esso somigliante. L’unico modo per spiegare quest’ultimo sarebbe invece una causalità svincolata dal cieco determinismo orizzontale, e quindi anche dalla mera concatenazione, e che quindi deve essere necessariamente verticale. Il che, in termini ontologici, significa per Smith che la causalità verticale deve emanare dal centro dell’essere per puntare direttamente ed incondizionatamente verso quell’unico e solo individuo, ossia verso un fine ben preciso ed assolutamente non preceduto da alcuno sviluppo orizzontale. E qui di nuovo l’ontologia smithiana collide frontalmente con quella di Hatmann, il quale ritiene che nell’essere non possa venire supposta alcuna teleologia [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., I p. 5-11, III-IV p. 20-35, VI, p. 44-51]. Infatti per lui la teleologia non è altro che il frutto dell’antica (e prevalentemente aristotelica) divisione dell’Essente in virtù della postulazione di due sfere completamente diverse e separate dell’essere, ossia la forma e la materia.
Oltre a ciò Smith chiarisce che la causazione verticale è ciò che permette il trapasso dal fisico al corporale, mettendoci così nella condizione necessaria per percepire e misurare. Essa sarebbe comunque per lui “ontologica” perché sfugge all’ambito nel quale operano le sole equazioni matematiche, che Smith dichiara incapaci per definizione di arrivare a comprendere alcuni rilevanti aspetti dell’essere. Ecco allora che per lui l’ambito dell’ontologia (almeno nel contesto dei problemi sollevati dalla Fisica quantistica) è interamente rappresentato dalla distinzione tra corporale e fisico ed inoltre dalla distinzione tra causazione orizzontale e verticale. In questo insomma si riassume la sua ontologia.
A ciò si aggiunge poi l’affermazione davvero incomprensibile secondo la quale il mondo degli oggetti fisici (tutti non percepibili ossia nascosti sotto l’oggetto corporale: particelle, frequenze…) apparterrebbe alla sfera delle res extensae, mentre invece il mondo degli oggetti corporali non vi apparterrebbe. Questo significa dunque due cose: − la corporalità non corrisponde all’estensione spaziale ed inoltre l’ontologia non include la categoria dell’estensione. E ciò sta nuovamente in grave conflitto con l’ontologia di Hartmann, oltre che con qualunque altra ontologia, inclusa quella antica.
Quelle appena menzionate (corporeo VS fisico, causalità orizzontale VS verticale) sarebbero comunque per Smith le prime due “concezioni ontologiche”. La terza concezione ontologica corrisponderebbe poi alla cosiddetta “totalità irriducibile”, che Smith dichiara essere strettamente intrecciata alla causazione verticale.
Si tratterebbe insomma di due facce della stessa medaglia che ancora una volta riguarda direttamente l’oggetto corporeo, dichiarato dal pensatore perfettamente equivalente ad una totalità irriducibile.
Questo perché esso non è in alcun modo una somma di parti, e precisamente di parti costituite dagli elementi tra loro separati di una concatenazione spazio-temporale. Ed ancora una volta l’ontologia collide qui con la Fisica, dato che quest’ultima non conoscerebbe veri oggetti proprio perché conosce solo elementi concatenati lungo una linea spazio-temporale. Ne consegue quindi che anche la spazio-temporalità andrebbe considerata (di nuovo in forte contraddizione con Hartmann) una categoria che non fa parte dell’essere; e questo perché la sua consecuzione non può in alcun modo generale una totalità, ossia un oggetto corporeo. Il che fa emergere poi un’istantaneità (propria dell’oggetto corporale) che diverge totalmente dalla causalità operante nel tempo, appunto la causalità orizzontale. Ecco dunque perché la causalità verticale è per lui l’unica che riguardi l’oggetto corporeo. E per porre tutto questo sul piano metafisico, Smith si riferisce alla stratificazione dell’essere concepita da Platone, entro la quale ha caratteristiche di oggetto soltanto ciò che non è soggetto al divenire. Ne dobbiamo dedurre che il nostro pensatore identifica il nucleo ontico della corporalità con l’idea-essenza di Platone, ossia quella entità ideale (quindi assolutamente non materiale) che ha la valenza di cosa trascendente e paradigmatica. Egli precisa che questo nucleo non è altro che l’eterno (“evi-eterno”), che è poi come un circolo centrato nell’idea-essenza-cosa trascendente, del quale la dimensione corporea rappresenterebbe invece la circonferenza esterna. Egli (richiamando Dante e la Divina Commedia) definisce questo luogo come il “perno” assolutamente centrale intorno al quale gira tutto il cosmo, ossia tutto l’essere percepibile.
Ora, Smith non sembra voler negare che l’oggetto corporale sia immerso anch’esso nel divenire (ossia nella consecuzione spazio-temporale). Ma per lui comunque, prima ancora che ciò avvenga, esso esisterebbe in forza dell’ascendenza al proprio nucleo trascendente. Il quale farebbe di esso una presenza eterna che proprio per questo è saldamente unitaria; almeno tanto quanto esso è insorto istantaneamente in forza dell’emanazione della causalità verticale dal centro assoluto dell’essere. E questa ascendenza è dunque proprio la stessa causalità verticale – laddove il verticale implica l’istantaneità della causazione onto-genetica ed anche della stessa esistenza attuale.
In altre parole l’oggetto corporeo sussisterebbe in virtù di una generazione verticale dal centro − assolutamente sottratta allo spazio-tempo (e quindi eterna), ed anche alla composizione come sommazione di parti nel tempo − che ne sorreggerebbe perennemente la presenza. Insomma essa è “una totalità irriducibile immediata”, come dice Smith.
Bisogna dire comunque che questo è forse uno dei pochi punti del libro nel quale è chiaro cosa Smith intenda con il termine “ontologia”. Egli sta infatti richiamando un’ontologia antica ben nota, ossia quella platonica; e peraltro con non pochi addentellati nel pensiero dell’idealismo vedantico [Ananda K. Coomaraswamy, Il Vedānta e la tradizione occidentale, p. 27-47, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 1 p. 27-47; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd. 21 p. 371-418] che però Smith non menziona. E dobbiamo dire che personalmente condividiamo pienamente queste concezioni in quanto esse rientrano in una metafisica religiosa fortemente contemplativa. Sta di fatto però che ciò ha poco a che fare con l’onto-metafisica antica alla quale Smith si riferisce, che non a caso non ha mai visto come protagonista né Platone né l’idealismo vedantico. In effetti invece, come abbiamo visto all’inizio, l’ontologia antica si è basata sempre prevalentemente su quella aristotelica. La quale del resto affronta direttamente il problema della definizione dell’essere. Cosa che invece Platone non fa.
In ogni caso Smith non esclude la totalità irriducibile dal dominio della quantità. E quindi il sussistere di questa categoria fondamentale dell’essere viene da lui rispettata.
Smith parla inoltre di “assiomi ontologici” per descrivere due altri fenomeni oltre quello della causalità verticale che genera l’oggetto corporeo, e cioè la causalità verticale emanante dallo stesso oggetto corporeo e la totalità irriducibile che è il prodotto di questo atto. E di nuovo qui viene un riferimento effettivo e credibile all’antica metafisica, dato che egli afferma chiaramente che la sua definizione di entità corporale corrisponde alla sostanza e precisamente a quella che egli chiama “forma sostanziale”. Si nuovo non è ben chiaro cosa egli intenda con quest’ultima entità, ma è opinabile che si tratti della forma agente sulla materia per produrre la sostanza prima, ossia l’oggetto metafisico trascendente che sta alla radice dell’oggetto corporale. Si tratterebbe insomma di quanto l’antica onto-metafisica aristotelica considerava l’universale sebbene nella sua collocazione immanente. Più avanti, facendo chiaro e coerente riferimento all’antica onto-metafisica (scolastica) Smith dirà poi che si tratta dell’”ens” quale “unum” e quindi della “quiddità”, designante ciò che un oggetto è inequivocabilmente. Ed infatti per la Scolastica l’”unum” rientrava negli Universali o Trascendentali. Ed infatti Smith dirà più avanti anche che la forma sostanziale è ciò che produce la totalità irriducibile, dato che essa si trova sul piano principiale corrispondente al centro dell’essere, ossia il livello più trascendente dell’essere stesso.
In ogni caso il carattere fondamentale di “sostanza” fa si, secondo lui, che l’oggetto corporeo sia un’unità da cima a fondo (un’assoluta unicità), e quindi non sia in alcun modo un composto di parti, né lo è stato mai nel corso della sua insorgenza. Esso è infatti insorto esattamente così com’è nel momento in cui lo osserviamo, ossia come assoluta unità ed inoltre come perfetta identità con sé stesso. È evidente che con ciò Smith (sebbene non lo dica) si riferisce a quella speciale onto-genesi oggettuale che è la Creazione divina.
E questo sarebbe quindi per Smith l’oggetto corporale nella sua effettiva realtà. Ciò significa allora che l’oggetto corporeo non è in alcun modo un “insieme” (come invece è l’oggetto SX della fisica), ossia non è composto di particelle e sub-particelle. Ora, tutto questo è plausibile onto-metafisicamente, eppure sembra che Smith si dimentichi (o forse ignori) del fatto che la sostanza per l’antica ontologia (prevalentemente aristotelica) è sì assolutamente unitaria ma intanto non corrisponde assolutamente all’oggetto corporale. Basta infatti dare anche solo una scorsa alle “Categorie” di Aristotele per comprendere che l’oggetto reale è una sostanza prima solo nella misura in cui contiene in sé altre sostanze (seconde) ad essa strettamente inerenti – e queste ultime non sono veri oggetti corporali in quanto non sono altro che le qualità (in Platone le idee) che confluiscono nell’unità dell’oggetto reale. Quanto poi alla sostanza prima essa non è altro che l’invisibile premessa metafisica dell’oggetto reale, ma non coincide affatto con esso.
Ebbene di tutto questo Smith non parla affatto, così che il suo discorso appare largamente lacunoso in termini onto-metafisici. Egli invece si limita ad insistere unicamente sull’insostenibilità dell’idea secondo la qiale la Totalità sia somma delle parti. Ma questo non è mai stato un oggetto di riflessione di alcuna ontologia (né antica né moderna), bensì appena della recentissima riflessione sulla dimensione «sistemica» dell’essere, ossia sulla natura organismica che caratterizza gli enti. Questa però è un’ontologia solo di riflesso.
Ma comunque Smith ritiene di muoversi sul piano ontologico anche nell’affermare che alla fine la stessa parte, ossia l’oggetto SX, è in fondo una totalità irriducibile ossia un’unità. Ed è proprio in virtù di questa stranezza che secondo lui la fisica quantistica resta incomprensibile. Tuttavia la totalità irriducibile proviene per lui all’oggetto SX unicamente dall’oggetto X, ossia dal vero oggetto corporale, e quindi di fatto l’oggetto SX non la possiede affatto (costituendo in tal mondo un’entità meramente “psichica”, ossia relativa unicamente all’osservazione strumentale). Ne deriva quindi che la scomposizione in parti dell’oggetto corporale comporta la perdita sia delle qualità (che sono solo unitarie) ma anche della stessa totalità irriducibile, e quindi in definitiva dell’oggettualità. E così egli ne conclude che senza totalità irriducibile non vi è essere. Il suo severo rimprovero alla Fisica quantistica è qui chiaro: − scomponendo i veri oggetti per via puramente strumentale, essa non ha ottenuto altro che uno sguardo gettato sul Nulla, ossia su ciò che non è essere (se vogliamo la Materia prima dell’antica metafisica). Ed in tal modo quindi la Fisica quantistica ha finito per non conoscere un bel nulla. Ma comunque, aldilà di questo, possiamo qui comprendere che Smith intende per “ontologia” non la disciplina nota ai filosofi ma semplicemente l’effettiva presenza dell’essere nella sua integralità. La quale però coincide per lui con una ed una sola categoria ossia la corporalità sensibile. L’essere sarebbe quindi mono-categoriale. E questo cozza decisamente sia con l’antica onto-metafisica sia anche con la nuova ontologia di Hartmann.
Ma comunque Smith aggiunge a questo punto all’ontologia una nuova dimensione (corrispondente pienamente all’oggetto SX) e cioè quella “transcorporale”. Naturalmente non vi alcuna traccia di entità come queste nell’ontologia (antica o nuova che sia), per cui appare qui più chiaro che mai che il riferimento del pensatore a questa disciplina è del tutto abusivo e arbitrario, basandosi unicamente su sue personali elucubrazioni e definizioni che non trovano alcun riscontro nelle dottrine note alla filosofia. Eppure egli insiste su questa invocazione dichiarando che il fenomeno paradossale della multilocalizzazione delle particelle si spiega con il fatto che le entità transcorporali sarebbero delle “potentiae”. Ecco ancora una volta il riferimento ad un concetto realmente ontologico (e precisamente di nuovo alla Materia prima).
E però intanto cos’abbia a che fare tutto questo con il concetto di potenza nella sua completezza è davvero difficile comprenderlo.
Dopo aver affermato tutto questo, a Smith non resta che definire l’ontologia come il campo dell’essere oggettivo ed effettivamente oggettuale (percepibile) rispetto al quale la dimensione transcorporale (coincidente con il mondo apparentemente scoperto dalla meccanica quantica) non sarebbe altro che un apparente essere, ossia un vero e proprio non-essere, che sussiste solo in virtù dell’assolutamente nuovo fenomeno (reso possibile da strumenti mai prima esistiti) dell’interazione dell’uomo con la Natura. L’uomo non è più, dunque, spettatore della Natura, ma invece assume rispetto ad essa una posizione «partecipativa» e quindi interattiva. Dunque la Fisica quantistica non sarebbe altro che questo, ossia una specie di artefatto dell’osservazione umana per mezzo dello strumento, e cioè una mera e del tutto vana e vuota creatura del progresso tecnologico. Ma intanto, nonostante questo, per Smith non cesserebbe mai il movimento centrifugo per mezzo del quale, a partire dal nucleo centrale dell’essere (perno del cosmo) l’essere stesso si irradia (per mezzo della causalità verticale) trasferendosi fino alla pur del tutto inconsistente dimensione transcorporale. Ora, è del tutto chiaro che questa non è altro che un’interpretazione molto riduttiva di ciò che è ontologia – un’interpretazione che può venire sostenuta soltanto perché le stranezze della Fisica quantistica costringono a riprendere in considerazione cos’è davvero «essere». Sta di fatto però che qui non si parla affatto dell’essere come vero tema di conoscenza.
Si parla invece soltanto dell’essere che traspare tra le maglie delle astrusità matematiche della Fisica quantistica; e quindi un essere che è stato inutilmente coartato da una ricerca della quale avremmo (almeno filosoficamente) potuto fare benissimo a meno. Quello che è certo è comunque che quest’ultima, come Smith dice a chiare lettere, non ha alcun diritto di ritenere di avere scoperto la realtà prima, ossia la radice dell’essere. Ed a proposito di tale osservazione critica va notato (come abbiamo fatto notare all’inizio) che l’appello del pensatore all’ontologia (per quanto confuso e contraddittorio) diviene almeno in questo del tutto legittimo – cioè almeno dal punto di vista di una giustificata critica filosofico-metafisica alla scienza empirica moderna. Egli ci fa notare infatti che l’ossessiva “caccia all’inosservabile”, iniziata con il Positivismo e raggiungente poi il suo culmine in Einstein, ha portato alla fine alla catastrofica scomparsa del concetto di sostanza, e conseguentemente al dissolversi del concetto di oggettualità. Ciononostante, molto opportunamente, il pensatore ci fa osservare che il mondo transcorporale (e quindi il mondo della Fisica quantistica) non sussisterebbe affatto se esso fosse restato in continuità con la reale fonte dell’essere (il perno del cosmo). E l’intermediario di questa continuità resta quell’oggetto corporeo che noi ancora ordinariamente conosciamo nonostante le astrusità (tutto sommato inutili) della meccanica quantica.
Ebbene di questo, secondo Smith, bisogna rendere grazie alle osservazioni auto-critiche di Heisenberg.
Posto tutto questo possiamo avere un altro varco di accesso all’intendimento di ontologia da parte di Smith. Egli dice infatti che il mondo della Fisica quantistica rappresenta null’altro che un «micro-mondo» del tutto secondario rispetto al «macro-mondo» costituito dagli oggetti corporali. Ne risulta che “ontologico” è per lui ciò che è davvero primario nella struttura del mondo e conseguentemente anche nella concezione del mondo e nella sua conoscenza. Ed in questo diremmo che (nonostante la mono-categorialità da lui affermata) la sua ontologia coincide abbastanza con quella realistica di Hartmann.
Del resto tutto ciò è estremamente illuminante, servendo anche a riconciliare il filosofo con l’ontologia di Smith. Egli afferma infatti che lo “statuto ontologico” delle sub-particelle quantiche è caratterizzato dal fatto che esse ricevono dal mondo corporeo tutto ciò che sono. Ne risulta (come ancora una volta sospettato da Heisenberg) che esse in sé non sono altro che non-essere, ossia molto probabilmente (come dicevamo) Materia prima, e cioè la pura potenza dell’antica onto-metafisica. Il che ci porta a dover correggere l’affermazione critica che avevamo fatto prima – Smith non aggiunge all’essere alcuna categoria (l’ultracorporeo) ma si limita invece a parlare semplicemente del non-essere, ossia di qualcosa che è stato aggiunto pleonasticamente all’essere da parte della Fisica quantistica. Ma del resto naturalmente l’antica metafisica ha sempre tenuto ben presente la realtà del non-essere. Anzi Parmenide costruì il proprio concetto di essere proprio dalla rigorosa sua differenziazione dal non-essere.
Da tutto ciò risulta, secondo Smith (e qui con tutta la ragione), che non è nemmeno pensabile che le sub-particelle possano essere considerate le parti che vanno a costituire l’oggetto corporeo. Egli afferma infatti a chiare lettere che esse non sono affatto “particelle reali”. E questo significa che le sub-particelle non hanno alcuna possibilità (in quanto parti) di andare a costituire l’oggetto corporeo, dato che non sono altro che “potentiae”. Detto questo appare per lui chiaro che le entità della Fisica classica non ricevono affatto il loro essere dalle sub-particelle classiche, ma invece solo dal dominio corporeo, ossia dal dominio del percepibile o sensibile. E proprio per questo tale disciplina può essere ciò che è nella sua essenza, ossia «scienza della misura». Il che significa che la Fisica può esistere solo come dominio del quantitativo, al di fuori del quale essa non può affermare assolutamente nulla. Ma intanto proprio questo è per Smith “ontologia”, e quindi essa designa semplicemente il reale e del tutto evidente «è» delle cose. In questo senso quindi il nostro pensatore converge nuovamente con l’ontologia assolutamente realista di Hartmann. In ogni caso Smith chiarisce che l’unico modo perché una sub-particella irreale diventi reale (e quindi parte di un corpo) dipende dall’irradiazione della totalità irriducibile da parte di un’entità corporea, il che equivale all’incorporazione della sub-particella da parte dell’oggetto corporeo, che soltanto in tal modo cessa quindi di costituire il non-essere. Questo quindi è il modo in cui l’entità corporea prosegue la primaria ed originaria emanazione di totalità irriducibile dal centro dell’essere. Solo in questo modo è possibile il passaggio della sub-particella dalla potenza all’atto, che non è quindi mai un atto della particella stessa.
Non prenderemo in considerazione la gran parte delle considerazioni di Smith nella seconda parte del suo libro, dato che abbiamo già elementi a sufficienza per chiarire la questione che ci interessa ed anche perché il pensatore si diffonde qui in argomentazioni secondarie. Nel complesso diremo soltanto che in questa seconda parte della sua opera egli dà voce in modo chiaro all’aspirazione che evidentemente sorregge il suo intero progetto scientifico-metafisico, e cioè quella che afferma l’assoluta impossibilità di concepire l’essere come qualcosa che insorga “dal basso”. Il che ci mostra come effettivamente la moderna Fisica quantistica – ben lungi dall’essere una straordinaria rivelazione della vera natura dell’essere (come molti oggi sono disposti a credere) – non è altro che l’estremo frutto scientifico del riduzionismo illuminista e positivista. Non a caso in questo essa converge totalmente con l’evoluzionismo che il nostro pensatore non manca di criticare serratamente in questa parte della sua opera.
E su tutto questo non possiamo che essere totalmente d’accordo con Smith.

2- L’ontologia realista di Hartmann.
Una volta giunti a questa conclusione positiva, dobbiamo però dire che l’analisi degli scritti di Hartmann – entro i quali viene dato un volto a quella che egli definisce nuova ontologia e precisamente un’ontologia realistica, scientifica ed in gran parte non metafisica (se non nelle sue sfumature) – ci permette di osservare che il complessivo progetto di Smith finisce per divenire pericoloso e controproducente proprio per una visione metafisica dell’uomo e del mondo. Infatti, se in esso si introduce l’antica onto-metafisica, la riflessione diviene molto spesso proprio per questo lacunosa, poco autentica e fuorviante (specie a causa della scarsa precisione dei concetti in essa esposta). Mentre, se in esso viene introdotta l’ontologia (sostanzialmente non metafisica) che è emersa nel pensiero più avanzato del XX secolo (come quello di Hartmann), la riflessione diviene addirittura contraddittoria rispetto ai propri scopi. Questa ontologia infatti non ha la benché minima intenzione di correggere la scienza nella sua descrizione della realtà e nei principi che essa ne deduce.
Su questo ci diffonderemo nelle conclusioni, però abbiamo già visto che tutto sommato in Smith non accade né l’una né l’altra cosa; dato che la sua ontologia converge molto spesso sia con quella antica che con quella moderna.
E tuttavia restano nella sua esposizione molte carenze, contraddizioni ed oscurità. Dunque, per questo motivo, anche se non condividiamo affatto l’ontologia scientifica ed iper-realistica di Hartmann, ci sembra necessaria discuterla a margine del progetto di Smith in modo che non insorgano equivoci nell’invocazione da parte di quest’ultimo proprio dell’ontologia come strumento dottrinario per completare una riflessione (quella dei fisici) che a lui appare carente e troppo piena di difficoltà non risolte. Del resto l’onto-metafisica antica alla quale Smith si rifà di fatto non esiste più, mentre invece, nel corso del XX secolo, si sono accumulate troppe revisioni di questa disciplina per permettersi di ignorarle completamente.
Ebbene la nuova ontologia di Hartmann vuole essere una scienza empirica (molto diversa dalla filosofia metafisica e quindi dalla tradizionale onto-metafisica), e precisamente nel porre come primaria l’effettiva conoscenza di un super-oggetto (Essente), i cui principi (categoria) sono molto lontani dai principi della conoscenza critica (teoria della conoscenza). Essi vanno ricercati infatti su un piano che è lo stesso della scienza.
E quindi le aspirazioni di Smith rispetto alla gnoseologia della nuova Fisica si dovrebbero in verità concentrare sull’accento posto sulla conoscenza effettiva di un oggetto, ed in null’altro. Smith afferma del resto proprio questo in QE, ma poi in PQO va alla ricerca di un’ontologia che riempia le lacune della Fisica per mezzo di concetti che in parte derivano dall’antica ontologia ed in parte vengono forgiati da lui stesso in modo autonomo ed arbitrario. Intanto comunque l’antica ontologia viene severamente condannata da Hartmann come del tutto inadeguata a comprendere l’essere. E quindi – posto che Smith è uno scienziato e le sue osservazioni critiche sono dedicate alla correzione della scienza empirica – almeno in via di principio se egli vuole fare ricorso all’ontologia, dovrebbe rivolgersi a quella nuova e non a quella antica. Ma sta di fatto che, se si invoca al suo modo la prima e non la seconda, allora alcuni concetti (come quello di sostanza) appaiono totalmente destituiti di fondamento fin dall’inizio e quindi non si prestano affatto allo scopo perseguito da Smith. Infatti abbiamo constatato che la sua intera ontologia si incentra su questo molto poco chiaro concetto.
Ne deriva che (per quanto il suo complessivo progetto possa venire considerato lodevole) il nostro pensatore rischia fortemente di finire per seguire una strada anacronistica, che (almeno in relazione all’assetto della nuova ontologia) è destinata al fallimento per definizione. Infatti due sono le possibilità: −
1) o si impiega l’antica ontologia, che però non ha nulla a che spartire con la scienza moderna (inclusa la Fisica) e soprattutto non si presta in alcun modo al suo reale chiarimento; 2) oppure si impiega la nuova ontologia che però non aggiunge nulla di nuovo alla moderna scienza e quindi non ambisce nemmeno a risolvere i dilemmi in cui essa si dibatte (essa infatti ricerca i principi dell’essere sullo stesso piano sul quale si muove la scienza moderna). E questo Hartmann lo afferma in modo chiarissimo in ZGO; e rimandiamo il lettore all’altro nostro articolo per prenderne atto.
Una volta chiarito tutto questo, emerge una serie di questioni entro le quali Smith pretende di ricondurre la Fisica a concetti onto-metafisici antichi, specialmente ad una visione metafisica ed animico-spirituale del mondo che intende essere espressamente unilaterale, ossia vuole ridurre l’intero essere ad un solo principio. Sta di fatto però che Hartmann non solo smantella questi concetti eliminandoli totalmente dall’ontologia ma soprattutto spazza via dall’ontologia ogni unilateralismo. E lo fa specialmente mostrandoci le deviazioni alle quali è andata soggetta l’antica metafisica fino all’Idealismo e perfino fino a parti della riflessione del XX secolo (Husserl). E così – almeno sul piano dell’obiettività conoscitiva − la ricerca di Smith minaccia di sprofondare in un vuoto filosofico (almeno nel contesto del pensiero moderno). Essa cioè – anche aldilà delle sue stesse contraddizioni interne – rischia di prestare il fianco ad una moderna critica che è in grado di demolirla completamente. E questo non è affatto desiderabile, dato che nel complesso il progetto del pensatore merita un grande rispetto ed anche un valore non indifferente Per questo motivo questa seconda sezione può sembrare una critica severa a Smith ma è invece un tentativo di difesa della sua visione.
Ma vediamo ora quali sono gli aspetti, messi in luce da Hartmann, che si prestano di più allo scopo di restituire (sia pure per mezzo della critica) un’appropriatezza ed obiettività filosofica che le permettano di stare in piedi. Nel fare questo, però, faremo come se lo strato di essere posto in evidenza dalla Fisica quantistica non corrisponda al non-essere (come suppone Smith) ma costituisca invece probabilmente l’ultimissimo strato dell’essere, e cioè quello fisico nella sua massima espressione. Inoltre (sebbene con un certo grado di imprecisione) assumeremo che quello che Smith considera lo strato più alto dell’essere (ossia il centro verticale dal quale tutto nasce) corrisponda al supremo strato spirituale supposto da Hartmann, ossia lo strato più immateriale che ci sia.
Va però fatto notare che quest’ultimo pensatore – nel fornirci un’immagine complessiva dell’essere – non considera in alcun modo il mondo delle sub-particelle (se non per rari accenni ad esso). E quindi assumeremo che quest’ultimo corrisponda al più basso strato dell’essere da lui considerato, e cioè quello dell’estensione spaziale. Sebbene evidentemente, seguendo lo schema dell’essere presentato da Smith, bisogna pensare che il mondo sub-particellare non sia altro che il substrato invisibile e profondo dello strato della spazialità e dell’estensione.
Ebbene tutto ciò è valido soprattutto in quanto Smith pretende di mostrarci nel mondo sub-particellare una realtà vagamente spirituale (nel senso primario di immateriale e imprevedibile) del tutto svincolata dalla spazialità e dalla temporalità. Laddove invece questo implica invece per Hartmann la dissoluzione dell’ontologia, che è per lui un tutto compatto (stratificato) nel quale lo spirito non è affatto sconnesso dai caratteri degli strati inferiori e solidamente fisici dell’essere.
Innanzitutto, secondo Hartmann, non è assolutamente possibile introdurre in Fisica un’ontologia che preveda concetti in linea con un essere statico e connotato dal tipico carattere dell’eternità atemporale; per cui i processi dinamici sub-particellari, appunto atemporali, non sono affatto riducibili ad una siffatta ontologia senza venire radicalmente contraddetti nel loro esistere [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, III p. 20-27].
Inoltre non è possibile correggere l’a-finalismo irrazionale e nulliforme del mondo sub-particellare per mezzo della sua riduzione al senso dell’agire ed ancor più ad un fine (teleologia); come per Smith avviene nel mondo corporeo una volta che abbia riassorbito in sé le sub-particelle [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IV p. 27-35].
Ancora una volta ciò significa per Hartmann tradire le caratteristiche ontologiche dell’estremo stato fisico dell’essere (corrispondente all’inanimato nella sua massima espressione), che ha le sue leggi irriducibili a quelle dello spirito. Ed inoltre lo spirito dipende da esse così come dipende dal mondo organico. In altre parole, in termini ontologici moderni, non è possibile in alcun modo razionalizzare e soprattutto spiritualizzare l’irrazionalismo che appare caratterizzare il comportamento delle particelle sub-fisiche. In ogni caso il reciproco compenetrarsi di modi diversi di determinazione rende impossibile ridurre la realtà sub-particellare ad alcuna realtà di ordine superiore, e quindi esautora completamente le aspettative che Smith ha verso un’onto-metafisica in grado di farci comprendere i misteri della Fisica quantistica. Ancora più inadeguato è l’uso dell’ontologia per introdurre la comprensibilità in quel mondo dell’Essente che Hartmann decreta essere e restare in larga parte inesauribile nella sua misteriosità.
A fronte di tutto ciò (ossia l’ontologia descritta nella sua struttura più realistica, ed in questo senso molto poco metafisica) va osservato che, se Smith cerca un’ontologia (come risorsa per la soluzione delle irrazionalità quantiche e quindi cornice di senso), al massimo potrebbe riconoscere nella Fisica un settore dell’essere con le sue proprie categorie [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, V p. 35-44]. Che però non si estende affatto all’intero essere, tanto nella sua forma corporea che nella sua forma sub-corporea. Infatti i processi fisico-energetici non equivalgono per Hartmann affatto all’intero essere, e quindi non ne sono nemmeno il sottofondo nascosto. Meno che mai essi hanno qualcosa a che fare con l’organico (caratterizzato da un continuo rinnovamento) che evidentemente costituisce un settore completamente separato dell’essere.
E quindi bisogna assumere che il mondo corporeo (considerato da Smith l’essere stesso nella sua totalità) diverge drammaticamente dallo strato di essere al quale esso appare più affine, ossia quello organico-vitale.

Per inciso va a tale proposito osservato che, nel libriccino “Die Erkennitns im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7] Hartmann ci mostra (in maniera del resto simile a quanto fa anche Smith) che la Fisica sub-particellare è finita in un vicolo cieco proprio per colpa delle distorsioni introdotte dalla filosofia come teoria della conoscenza. E questa colpa consiste in primo luogo nell’aver perso di vista l’Essente come autentico ed unico oggetto di conoscenza, del tutto indipendente dalla coscienza, e molteplice (ossia Totalità di tutto ciò che «è»: fisico, animico e spirituale)), e quindi conoscibile solo mediante un lungo e faticoso cammino di approssimazione, che non conosce né certezze né campi privilegiati di conoscenza (come quello dell’elementare sub-particellare). Però Hartmann osserva il fenomeno in maniera ben più profonda di Smith. Per cui secondo lui l’errore della Fisica non sta affatto negli arzigogoli (di stampo vagamente ontologistico) escogitati da Smith, ma invece nel semplice fatto che essa non riconosce che solo il vero Essente è il reale stesso nella sua complessa Totalità. E quindi non si rende conto del fatto che esso non è stato ancora conosciuto (nè non potrà mai esserlo) per il semplice fatto che si ci è fermati alla scomposizione elementare dell’oggetto. La quale non è dovuta affatto (come dice Smith al solo intervento dello strumento), ma invece avviene già (da sempre e del tutto naturalmente) per l’azione dei sensi su di esso.
Ne consegue che la Fisica quantistica ha lavorato su un campo del totale irreale (quello delle particelle elementari) che è ancora più intenso di quello sul quale aveva sempre lavorato l’empirismo, senza comprendere che questo è invece appena il luogo di passaggio verso il pieno e vero riconoscimento dell’Essente. In altre parole la Fisica quantistica (influenzata dal Positivismo, come dice anche Smith) si è solo illusa di trovarsi davanti ad un vero campo conoscitivo. Tuttavia il fenomeno, secondo Hartmann, non riguarda affatto solo la scienza empirica bensì anche la stessa esperienza quotidiana dell’uomo comune. Anche quest’ultimo soggiace infatti alla confusione tra l’oggetto e le sue molteplici apparizioni. E quindi anch’esso è coinvolto in un cammino conoscitivo fallimentare perché non si rende conto che qualunque genere di conoscenza (filosofica, scientifica e naturale-ingenua) raramente procede fino alla fine, ossia fino al coglimento dell’Essente, con la conseguenza che lungo questo cammino restano molto misteri, che rappresentano poi le inevitabili questioni insolute ed insolubili della conoscenza umana. In tal modo la Fisica quantistica si è solo illusa di avere scoperto il vero fondamento dell’essere. In verità essa si è invece persa nelle paludi dell’elementare. E restando in questo ambito non si va assolutamente da nessuna parte. Questo è quindi il vero errore della Fisica quantistica, e non quello escogitato da Smith per mezzo della sua comparazione con la presunta pienezza della conoscenza ontologica così come da lui concepita.

Intanto va osservato che Smith vorrebbe sottomettere la Fisica (dotata di una sua propria categoria di essere) proprio a categorie generali dalle quale tutto dedurre, ossia la corporeità. E tuttavia la nuova ontologia ha completamente abolito qualunque categoria generale, e quindi ogni possibile monismo, per definizione sempre fatalmente unilateralistico [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit VI, p. 44-51]. Da un punto di vista ontologico-moderno, quindi, nemmeno la corporeità sensibile si presta a rappresentare l’intero essere.
Hartmann afferma che la determinazione del mondo animico-spirituale è e resta del tutto sconosciuta e al massimo può venire definita come spontaneità [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit. VII p. 51-59]. Ora è possibile che nel mondo sub-particellare venga supposto il dominio di un simile meccanismo di determinazione, che quindi è destinato a restare sconosciuto ed incomprensibile (assimilando così il mondo quantico a quello spirituale-immateriale). Certamente però alcun concetto della vecchia metafisica potrà portare chiarezza in esso.
In ogni caso va detto che qui l’imputato non è Smith ma semmai quei fisici quantistici che hanno voluto assimilare (con ragionamenti recentemente in gran parte esoterici) il mondo sub-particellare a quello spirituale-immateriale nella sua estrema libertà e creatività.
Dunque, sulla base di quanto afferma Hartmann (severamente critico verso i concetti dell’antica onto-metafisica), Smith sbaglia se intende applicare la dottrina materia-forma al mondo sub-particellare, dato che questa non sarebbe stata altro che un’inconsistente e fantasiosa illazione dell’antica metafisica che non trova alcun riscontro nel mondo reale [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., VIII p. 59-67]. Allo stesso modo è impossibile ricorrere all’antica idea metafisica del mondo come costituito da spirito e materia tra loro separati [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IX p. 67-79]. Ed abbiamo visto che Smith in fondo avvalora proprio questa struttura, delineando un mondo ideale-cosale trascendente (il centro dell’essere) a partire dal quale, per causalità verticale, insorge l’oggetto corporeo quale totalità irriducibile.
Il tentativo di vitalizzare, finalizzare e dare consistenza ontica (per mezzo dell’ontologia) alle forze irrazionali ed afinalistiche agenti nel mondo sub-particellare – sia pure mediante la sua riduzione al mondo corporeo −non ha dunque alcun senso [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IX p. 67-79]. Esso infatti rappresenta appena ciò che nudamente è, ossia lo strato fisico nella sua presenza ed anche azione che è del tutto indifferente alla vita ed a qualunque scopo. Le particelle e sub-particelle, dunque, non sono altro che il fondamento fisico ultimo del mondo, e vanno quindi prese appena per quello che sono, senza che l’applicazione ad esse di qualunque visione superiore, possa rendere intelligibile il loro esistere in quel modo specifico. Pertanto la Fisica quantistica non può essere altro che incomprensibile (senza alcuna possibilità di riscatto, cioè di chiarimento ontologico), e quindi può venire appena descritta senza che da ciò si possano trarre conclusioni di sorta. Quindi l’ontologia (anche se autentica) applicata ad essa non risolve alcun dilemma.
Peraltro secondo Hartmann, dato che il mondo sub-particellare costituisce certamente uno strato di essere fisico estremamente inferiore, appare essere impossibile che esso possa venire svincolato dalla rigida legislatività che caratterizza naturalmente l’inanimato [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XII p. 98-106]. Per cui appare molto improbabile che la sua irrazionalità (sicuramente a-finalistica) possa venire ricondotta ad un determinismo non causalistico e finalistico come quello organico ed evoluzionistico. Pertanto la tentazione dei fisici di considerare le sub-particelle come una sorta di enti viventi (totalmente liberi ed auto-determinati, e quindi spirituali nella loro immaterialità) – simili alle monadi di Leibniz − sembra destinata a fallire. Evidentemente tutto ciò è il frutto dello sforzo illegittimo di trasformare il mondo quantico in un mondo fisico che sfugga alle leggi della Natura. Ma del resto è destinato a fallire anche il tentativo smithiano di considerare il mondo corporeo come il luogo dell’essere che (ricomprendendo in sé il mondo sub-particellare e dando così ad esso consistenza ontica) possa rappresentare pienamente tanto il mondo della vita quanto quello spirituale. Del per Hartmann appare inspiegabile perfino la non soggezione del mondo vitale-organico alle leggi fisiche, e quindi forse ci troviamo qui di fronte ad uno di quei dilemmi che il pensatore considera insolubili tanto per la scienza quanto per l’ontologia. E quindi probabilmente alcuna operazione di razionalizzazione appare giustificata. Inclusa quella di Smith.
Del tutto suggestivamente (ma anche paradossalmente) Hartmann afferma comunque che l’ontologia potrebbe aiutare molto nel risolvere le questioni sollevate dalla nuova Fisica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Ma egli non lo afferma allo stesso modo di Smith. Lo afferma invece solo perché, come abbiamo visto in ELO, secondo lui la Fisica quantistica è stata vittima di quel devastante deragliamento conoscitivo di tipo filosofico (teoria della conoscenza) che ha svincolato le categorie della conoscenza dalle categorie dell’essere (e che secondo lui invece Kant aveva cercato di correggere senza poi venire seguito da nessuno) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis…cit. I p. 1-7]. Tale deragliamento ha fatto sì che il pensiero di fatto dissolvesse la pienezza dell’oggetto, costringendo così la stessa scienza empirica a cercare l’oggetto per vie del tutto devianti. E così è del tutto chiaro perché la nuova ontologia potrebbe collocare nel posto che ad esso compete quel mondo delle sub-particelle che, dopo tante riflessione ed illazioni (specie di non filosofi), ha finito per assumere caratteri categoriali che probabilmente non gli competono affatto. Anzi è estremamente probabile che si tratti appena di una categoria della conoscenza (generata artificiosamente dagli strumenti) e non dell’essere.
E come abbiamo visto la riflessione di Smith converge abbastanza (almeno in parte) con questa conclusione.
Ebbene, questi erano i dettagli di un’analisi dell’ontologia di Hartmann in relazione ad aspetti significativi di quella di Smith. C’è poi un ulteriore aspetto di carattere generale che è di grande importanza, ed al quale abbiamo comunque già accennato. Smith fa riferimento ad un’onto-metafisica (di fatto l’antica metafisica specialmente aristotelica), mentre invece per Hartmann ontologia e metafisica sono due discipline completamente diverse (che convergono unicamente laddove la conoscenza si dissolve in mistero ed in questioni insolute ed insolvibili). La prima infatti è sostanzialmente scientifica, mentre la seconda è sostanzialmente filosofica nel riferirsi ai misteri di fondo che restano sullo sfondo della ricerca sia ontologica che empirico-scientifica. Ma Smith sente intanto l’esigenza di un’ontologia, ossia di una solida e produttiva conoscenza metafisica dell’essere. E quindi (tenendo conto delle rigorose distinzioni fatte da Hartmann), egli in verità fa appello alla metafisica e non all’ontologia. Non si tratta però di una metafisica che illustra appena il mistero (ossia l’inconoscibile oppure il non ancora conosciuto), ma invece si tratta di una metafisica che ha l’ambizione di descrivere l’essere in maniera non meno legittima della scienza empirica. E questa rischia di essere appena una penosa illusione, a meno che (come avviene presso i pensatori tradizionalisti) si ammetta pienamente una conoscenza contemplativa ed irrazionale che non ha alcuna ambizione di essere né rigorosamente filosofica né rigorosamente scientifica, ossia una vera e propria conoscenza dell’inconoscibile (la cui base è la Rivelazione di verità universali contenuta nella Scienza Sacra),
Inoltre, in base alle considerazioni di Hartmann [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, VII p. 51-59], c’è da considerare che in fondo il mondo quantico appartiene già ad un’ontologia, entro la quale domina il principio materia-forma (secondo il paradigma della composizione verticale a partire dal basso), per cui l’atomo è materia della molecola che è la sua forma. Per tale motivo le sub-particelle possono anche venire considerate forse la materia ultima delle forme superiori. Ed infatti abbiamo visto che esse corrispondono molto probabilmente a ciò che l’antica onto-metafisica definiva come Materia prima, ossia un non-essere che costantemente è in procinto di trapassare nell’essere. Questa considerazione esautora ovviamente tutte le affermazioni di Smith circa la totale inconsistenza ontica di questo solo presumibile strato dell’essere. E tuttavia potrebbe costituire un modo meno critico e più positivo per approcciare la questione. Ed in questo caso il merito di tale approccio andrebbe totalmente alla nuova e pragmatica ontologia di Hartmann. Tale merito consisterebbe nel fatto nell’evitare qualunque interpretazione troppo ampia circa questo mondo, limitandosi così semplicemente alla presa d’atto del suo esistere.
In ogni caso la riflessione di Hartmann circa la conoscenza e la verità sembra mostrare che questo è forse l’unico aspetto nel quale Smith ha davvero intercettato correttamente l’ontologia nel contesto dell’analisi critica della Fisica quantistica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Entrambi i pensatori infatti mettono in luce la presenza di un’oggettività esteriore indipendente (per Hartmann l’Essente, ovvero l’essere stesso) al quale la conoscenza deve necessariamente mettere capo per poter sussistere. E questo istituisce comunque una certa convergenza, tra i due pensatori, circa la centralità assoluta del mondo corporeo.
Ma bisogna anche dire che in questo non vi era alcun bisogno della nuova ontologia, dato che il concetto antico-metafisico di verità dell’essere si muoveva esattamente in questi paraggi.

Conclusioni.
Crediamo che questo articolo abbia mostrato soprattutto che oggi il rinnovato ricorso all’ontologia in filosofia è estremamente problematico per diversi motivi, sebbene sia comunque estremamente giustificato in quanto chiarificante e de-complessizzante a fronte degli eccessi di epistemologismo della moderna filosofia (con il netto e schiacciante prevalere della teoria della conoscenza su qualunque pensiero riguardante l’essere). In altre parole il richiamo all’ontologia ristabilisce un equilibrio (tra le due questioni dell’essere e della conoscenza) che da troppo tempo era stato infranto, e per motivi affatto necessariamente condivisibili. In ogni caso tutti i moderni richiami all’ontologia ci mostrano che la totale epistemologizzazione della filosofia non ha risposto affatto ad una necessità oggettiva, dato che è ancora oggi pienamente giustificato il fatto che tale disciplina si occupi dell’essere. Si è quindi trattato appena di una del tutto inaccettabile unilateralizzazione della filosofia.
L’aspetto fondamentale della problematicità dell’appello all’ontologia consiste comunque nel fatto che l’antica onto-metafisica è davvero storicamente tramontata nel mondo della filosofia, mentre nel mondo della scienza empirica essa non è mai stato nemmeno presa in considerazione (a parte nei suoi primordii nel contesto della filosofia della Natura del XVII e XVIII secolo). Ebbene, tenuto contro di questo incontrovertibile dato di fatto storico-filosofico, nel contesto di questa nostra ricerca abbiamo assistito a due operazioni molto diverse: − 1) quella di Smith, che invoca un’ontologia dai caratteri molto confusi, oscuri e contraddittori, nel tentativo (pur pienamente giustificato) di criticare l’aspirazione della Fisica quantistica (quale forma estrema della scienza empirica) ad offrirci una visione totalizzante dell’essere movente dal basso più estremo (quello rappresentato dal mondo sub-particellare); 2) quella di Hartmann, che invece si è dedicato a smantellare totalmente le aspettative totalizzanti dell’antica metafisica delineando su questa base una del tutto nuova ontologia realistica e pragmatica, che è poi infine destinata a convergere con la scienza. In qualche modo il primo è un progetto decisamente anti-scientifico mentre il secondo è un progetto decisamente pro-scientifico.
Ma aldilà di tutto questo, uno dei problemi principali del ricorso all’ontologia si è rivelato essere la definizione di ciò che si intende come “ontologia”. Il modo estremamente bizzarro e problematico in cui Smith tratta questo tema è ciò che pone la questione. Per cui da una parte abbiamo il tentativo di Hartmann di rendere l’ontologia una scienza fra le altre (e quindi priva di qualunque aspirazione ad imporsi sulla scienza) per mezzo di una sua revisione (rispetto al suo assetto antico) che è filosoficamente molto solida e ottimamente documentata; e quindi delinea una disciplina capace davvero di presentarsi come una realistica e rispettabile alternativa all’antica ontologia. Dall’altro lato invece assistiamo in Smith ad un richiamo a quella che vorrebbe essere l’antica ontologia, il quale ambisce intanto all’esatto contrario, e cioè a colmare gravi lacune emerse nella scienza ed anche a correggerne alcune conoscenze. E tuttavia ciò avviene per mezzo di affermazioni che (a parte alcune eccezioni) propongono come “ontologia” una visione bizzarra, arbitraria (in quanto puro prodotto della personale interpretazione del pensatore), estremamente limitata (dato che considera come essere unicamente la dimensione corporale) e quindi in larga parte irriconoscibile per il filosofo. Dunque in essa è estremamente difficile riconoscere per davvero l’antica ontologia. Ma oltre a ciò essa è assolutamente inconciliabile con la nuova ontologia proposta da Hartmann.
Per questa serie di motivi una valutazione dell’ontologia smithiana dovrebbe suggerire solo considerazioni negative. Ed inoltre un suo confronto con l’ontologia di Hartmann dovrebbe mostrarci solo che il progetto di Smith è in effetti filosoficamente di retroguardia (oltre che poco fondato filosoficamente), e quindi non ha alcun valore nello scenario del pensiero attuale.
Abbiamo detto però che noi partiamo da convinzioni tradizionaliste che non ci fanno sentire affatto obbligati ad accettare come praticabili solo le vie di pensiero che oggi vengono ordinariamente percorse.
E quindi l’assoluta attualità dell’ontologia di Hartmann non rappresenta per noi un criterio vincolante di riferimento. Tuttavia il riferirsi ad esso appare essere comunque utile dato che Hartmann come Smith si muove nel mondo della scienza empirica oltre che in quello della filosofia. E quindi la presa in considerazione dell’ontologia del primo può servire a due scopi: − 1) a valutare quanto giustificato e fondato sia l’impiego della sola antica ontologia da parte di Smith; 2) a valutare quanto appropriato sia l’impiego di concetti anti-metafisici allorquando ci si muove in un campo che riguarda la scienza empirica molto da vicino, e quindi tiene strettamente presenti i caratteri del mondo reale.
E nella nostra ricerca sono emersi alcuni interessanti elementi rispetto a questo.
Il riferimento all’ontologia di Hartmann è servito dunque a mettere in luce le molte insufficienze dell’ontologia di Smith; specie una volta che lo strato di essere sub-particellare viene considerato alla stregua del livello più basso dell’essere descritto da Hartmann ed inoltre una volta che si sia preso atto che in relazione a quest’ultimo è ingiustificato e falsificante ogni monismo in ontologia (ossia ogni tentativo di ridurre l’essere all’unità ricorrendo così ad una sola categoria). Riguardo al primo aspetto abbiamo visto che in alcune occasioni la responsabilità dell’errore non va attribuita a Smith ma invece agli stessi fisici quantici. Essi infatti abbastanza spesso – nel contesto di elucubrazioni filosofico-metafisiche costruite sulla natura e senso dello strato sub-particellare – finiscono per attribuire ad esso una confusa valenza spirituale-immateriale (a volte razionale e finalistica) credendo di esorcizzare così l’irrazionalità del comportamento delle sub-particelle. Ed in questo modo contraddicono apertamente la natura delle categorie che secondo Hartman caratterizzano lo strato più basso dell’essere.
Inoltre i fisici quantistici promettono anche addirittura (nelle versioni più esoteriche di queste elucubrazioni) – una volta considerato il mondo sub-particellare come l’essere per eccellenza (cosa comunque severamente condannata da Smith) – di assimilare questo infimo strato di essere a quello spirituale-immateriale che secondo Hartmann è caratterizzato dall’assoluta libertà e quindi dalla totale spontaneità con tendenziali inclinazioni creative. Lo stesso Smith comunque – sulla base di una visione onto-metafisica risalente a Platone – ritiene che le sub-particelle possano entrare nella costituzione delle entità corporali perdendo così tutta la loro irrazionalità ed assumendo così i caratteri di un oggetto che rappresenta l’intero essere, da quello supremamente spirituale a quello infimamente fisico. Inoltre colpisce negativamente anche la bizzarra distinzione istituita da Smith tra corporale e fisico (corrispondente a sua volta al mondo sup-particellare), laddove invece per Hartmann il fisico rientra insieme al corporale entro uno strato inferiore dell’essere che è unitario in quanto caratterizzato dalla concreta categoria della spazialità. Infine colpisce negativamente la davvero incomprensibile assimilazione smithiana del mondo sub-particellare all’estensione spaziale, laddove invece la corporalità sfuggirebbe ad essa. Cosa che risulta assolutamente inconcepibile entro l’ontologia di Hartmann, oltre che essere assolutamente illogica.
A controbilanciare queste osservazioni critiche negative viene però la saggia costatazione di Smith, secondo la quale l’intero campo della Fisica quantica non sarebbe altro che un costrutto ideologico per nulla autentico e perfino poco scientifico. Esso infatti appare essere il puro frutto della costruzione di strumenti che hanno realizzato la “caccia all’inosservabile” inaugurata dall’Illuminismo e dal Positivismo, e che poi trovò realizzazione nelle teorie di Einstein (che il nostro non esita a criticare apertamente). Da questo deriva che il mondo delle sub-particelle non è altro che l’artificio prodotto dall’osservazione da parte del soggetto umano, e quindi non ha alcuna oggettività così come alcuna consistenza ontologica. È insomma un puro mondo della fantasia. Ma questo dovrebbe significare che esso non ha nulla a che fare con il fisico che Smith stesso riconosce come reale in contrapposizione con il corporale (corrispondente comunque per lui all’autentico reale). Ed abbiamo visto che alcune specifiche affermazioni di Hartmann convergono con questo giudizio negativo sulla qualità della conoscenza dell’essere che viene perseguita dai fisici quantistici.
Oltre a ciò l’ontologia di Smith finisce per convergere addirittura con quella di Hartman nel considerare la corporalità come il puro e semplice «è» delle cose esistenti (da sempre riconosciuto dall’antica onto-metafisica) e quindi come il dominio del quantitativo. E peraltro con ciò si riaggancia la dottrina gnoseologica da lui esposta in QE, secondo la quale la conoscenza mette sempre capo ad un’oggettualità reale esteriore che è del tutto indipendente dalla coscienza [Wolfgang Smith, The quantum… cit., I p. 21-28, II p. 33-45]. E questa dottrina poi trova un riscontro ben preciso nelle estreme conclusioni di Hartman a NWO, laddove egli parla di una “conoscenza di essere” che vede la coscienza del soggetto unicamente attiva nel relazionarsi al mondo reale (invece di contenere essa stessa gli oggetti [Nicolai Harmann, Neue Wege… cit., XIII p. 98-106]. Rispetto a questo, quindi, le due ontologie si rivelano essere entrambe estremamente realiste. E questo ha un grande valore filosofico, tenuto conto dello squilibrio affermatosi in filosofia con l’eccessivo ontologismo.
Che conclusioni estreme è possibile dunque trarre da tutto questo?
L’ontologia invocata da Smith è senz’altro in gran parte arbitraria, sia perché essa semplifica ed a volte distorce complessi e profondi concetti dell’antica onto-metafisica (che forse il pensatore non conosce a fondo), sia perché considera come “ontologia” unicamente il mondo corporeo (affermando così un monismo che l’ontologia di Hartmann condanna severamente e con tutta la ragione), sia perché essa introduce una notevole confusione negli aspetti categoriali che invece Hartmann descrive con molto rigore e precisione. E questo dimostra che il confronto della sua personale ontologia con la nuova ontologia di Hartmann serve non poco allo scopo di lasciar emergere distorsioni concettuali estremamente rilevanti, che molto probabilmente inficiano quella di Smith in molte sue parti. Il confronto con la nuova ontologia serve inoltre anche a rendere estremamente problematica l’aspirazione si Smith a riempire le lacune della scienza empirica nel riferirsi ad un’antica ontologia che non solo è ormai tramontata nel mondo filosofico, ma che egli impiega anche in maniera spesso non solo distorta ma anche estremamente carente di profondità e complessità, e quindi in una maniera troppo semplificata. Cosa che inficia in partenza il suo progetto di riforma della conoscenza scientifico-empirica.
Ciononostante, però, egli conferma alcuni aspetti molto rilevanti della nuova ontologia realistica di Hartmann (specie la concezione dell’oggettualità e la teoria della conoscenza applicata ad essa) ed inoltre ha il grande merito di mettere in luce la totale insufficienza del nuovo tentativo di monismo unificante l’essere (peraltro radicalmente “dal basso”) che si è affermato nella Fisica quantistica nel contesto di un nuovo sforzo della scienza empirica di monopolizzare la conoscenza dell’essere. E questa condanna è ancora più giustificata tenendo conto del fatto che, come egli dice, l’intero edificio della Fisica quantistica risulta in definitiva un costrutto del tutto artificioso che è dovuto all’intervento intrusivo dell’uomo nell’essere per mezzo degli strumenti.
Pertanto ci sembra che – a causa di tutti questo motivi − sia ampiamente positivo il bilancio di questa ricerca, che non solo valuta criticamente in assoluto l’intendimento di ontologia impiegato da Smith, ma inoltre si sforza anche di valutarlo relativamente alla nuova ontologia oggi disponibile in filosofia.
Dunque, dal punto di vista che ci sta più a cuore (quello tradizionalista) possiamo concluderne che (anche aldilà dei presumibili obblighi imposti dalle rigorose precisazioni della nuova ontologia) l’impiego dell’antica ontologia, per contrastare le aspirazioni egemoniche della moderna scienza empirica, è assolutamente giustificato. A patto solo che si rinunci ad interpretazioni personali ed arbitrarie della disciplina e la si impieghi quindi nel pieno rispetto della sua effettiva profondità e complessità. Perché se non si fa questo si rischia di vedere dissolversi nell’insufficienza concettuale il proprio intero progetto.
Detto questo ribadiamo che comunque anche il valore dell’antica ontologia va considerato con prudenza, dato che essa (in maniera molto simile alla nuova ontologia) si è distaccata dalla propria fonte originaria (quella costituita dalla Scienza Sacra originaria e primordiale) facendo così risaltare un concetto di essere che pretende di ignorare la primarietà dell’essenza trascendente. E questa distorsione trova peraltro il suo estremo esito nell’equiparazione totale di Essere ed Essente che viene affermata dalla nuova ontologia di Hartmann.

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(*) Dottore di ricerca in Filosofia presso la FLUL di Lisbona

[ATT: questo saggio è protetto dalle vigenti leggi del copyright, e pertanto si diffida dal riprodurne integralmente o parzialmente il testo senza menzionarne l’autore]

Introduzione.
Definire cosa sia una «filosofia religiosa» (FR) è in sé estremamente difficile. E, conseguentemente, lo è ancora di più definire se e quando essa sia davvero autentica. Inoltre, a queste difficoltà, si aggiunge il fatto che oggi si tende ad intendere la FR non solo nei modi più diversi ma anche intuitivamente molto inappropriati. Vedremo ad esempio che in genere si tende ad intendere come FR quella che è appena una filosofia della religione (FdR), cioè lo studio scientifico (in via di principio imparziale e quindi privo di fede) del fenomeno religioso.
A fronte di questo si può dire che FR (ed anche estremamente autentica) dovrebbe essere di fatto solo la teologia, e precisamente una teologia che, per perseguire i suoi fini specifici, si serva così tanto degli strumenti della filosofia da scegliere di essere di fatto «filosofica», ossia di basarsi sul filosofare stesso nella sua pienezza e appropriatezza. Questo però solleva una miriade di difficoltà che rendono in problema quasi impossibile da risolvere.
Diciamo subito però che in Bonaventura c’è la possibilità di trovare la soluzione quasi ideale a tutte queste difficoltà, dato che nessuno come lui sembra essersi posto il problema dell’assoluta necessità di una filosofia che fosse integralmente religiosa invece si essere semplicemente «pura». Vedremo però (specie nelle conclusioni) che questa nostra affermazione ha dei limiti ed inoltre che la costruzione di questa piena FR risente dei caratteri di un ambiente di pensiero che è stato unicamente quello medievale. E questo relativizza alquanto quella definizione bonaventuriana di FR che a prima vista sembra assoluta e paradigmatica. Il che pone poi il problema del se, dopo Bonaventura, ci siano state forme di FR davvero piene ed autentiche, e se esse siano costruibili ancora oggi. Vedremo tra poco che questo problema rinvia all’annosa (e mai risolta) questione della relazione tra Ragione e Fede.
Quali sono, comunque, le difficoltà sollevate dal porsi della teologia filosofica come autentica FR?
Il filosofare del teologo implica innanzitutto (per definizione ed in via di principio) l’abolizione totale dell’oggettiva differenza tra Ragione e Fede che invece lo stesso Bonaventura (riletto ed analizzato da Gilson in maniera estremamente approfondita sapiente) ammette ed accetta, sebbene tentando nello stesso tempo di risolverla nel senso della conciliazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura, Jaca Book, Milano 2017II p. 105-112]. E dobbiamo ricordare a questo punto che la riflessione filosofico-metafisica tradizionalista, basando il proprio filosofare sulle Verità assolute ed eterne contenute nella Rivelazione universale (detta “Scienza sacra” originaria, e considerata in realtà sovrumana ossia divina), ha affermato in effetti quella che è la vera definizione paradigmatica di FR. In essa infatti Ragione e Fede sono assolutamente una sola ed unica cosa [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72, 7, p. 101-131, 10, p. 145-156]. Anzi la Fede viene addirittura riassorbita interamente nella Ragione (meglio definita come Intelletto), dato che la relazione con Dio è vista come unicamente intellettuale e conoscitiva. Tale posizione potrebbe apparire a prima vista come equivalente a quella secolarista di Habermas, nella quale la Fede viene completamente ridotta a Ragione. Ma non è così perché in quest’ultimo caso la Ragione, riassorbendo la Fede, non si impregna di essa (ossia non diviene un conoscere religioso) ma invece la annienta. Nella visione dei pensatori tradizionalisti invece la Ragione cessa di essere a-religiosa ed immanente, e così, impregnandosi di Fede, diviene religiosa e trascendente. Cioè finisce per assimilarsi all’Intelletto divino.
In ogni caso si configura così una sorta di «intelligenza di fede»; che ha sempre una valenza tanto filosofica che religiosa, e quindi configura senz’altro un’autentica e salda FR – in essa in particolare tutte le verità sono insieme intellettuali e religiose. Del resto il riassorbimento totale della Fede nella Ragione esclude recisamente l’ammissibilità di una Fede presa in considerazione da sola, ossia un cieco ed unilaterale fideismo.
In ogni caso questa definizione tradizionalista di FR si rende non poco sospetta dato che essa prevede unicamente l’autonoma ascesa dell’Io umano al divino (nel corso una «teoresi filosofica» concepita soprattutto al modo del Neoplatonismo pagano) senza alcun intervento da parte di quest’ultimo, e soprattutto senza l’amoroso offrirsi discensivo di Dio alla conoscenza per mezzo della Grazia. In altre parole questa definizione di FR si pone largamente al di fuori della tradizione cristiana main stream, comparendo invece solo in forme di Cristianesimo eterodosso (se non eretico, come quello gnostico o simile), oppure ponendosi apertamente come neo-pagana. Menzioneremo diverse volte (attraverso i suoi esponenti) questo polo di pensiero e richiameremo la definizione con la quale spesso lo abbiamo designato: − «onto-intellettualismo». Con esso intendiamo un Essere divino-trascendente che equivale totalmente alla sostanza intellettuale. E quest’ultimo è stato teorizzato in campo cristiano in primo luogo da Eckhart [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, I, 6-10 p. 111-115]; però con la contemporanea teorizzazione di un auto-annientamento dell’Io umano perché Dio possa effettuare la sua discesa verso l’immanente (Amore, Grazia) rendendosi così conoscibile. Il che secondo lui è assolutamente impossibile in assenza dell’auto-annientamento dell’Io.
Ma prendendo in considerazione Habermas, vediamo una teologia realmente filosofica chiamata a sottomettersi per definizione al concetto filosofico moderno di «ragione», cessando così di fatto di essere una teologia vera e propria per trasformarsi davvero totalmente in una sorta di «teologia filosofica». La quale, a sua volta, ambisce ad essere molto più una filosofia (specie nel senso moderno del termine) che non invece una teologia. E così si dissolve per sempre la possibilità di una FR.
Da tutto ciò dobbiamo dedurre che – sebbene lo stesso Bonaventura si sia allineato prudentemente all’intero pensiero medievale nell’ammettere la distinzione da mantenere tra Ragione e Fede (sostanzialmente nel timore che la seconda svanisca nell’unirsi alla Ragione) – di fatto un’autentica FR non insorge mai se questi due elementi non si fondono completamente fra loro; come abbiamo visto avvenire solo nel pensiero tradizionalista. Questo, invece, non è di fatto mai avvenuto davvero integralmente nel pensiero cristiano, incluso quello di stampo platonico. Infatti una teologia filosofica come quella teorizzata da Habermas ha i caratteri della sola Ragione, e non quelli della Fede. E quindi non è per nulla una FR.
Eppure l’intero pensiero cristiano ha finito sempre per concepire una simile teologia – lui stesso lo sottolinea [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, Feltrinelli, Milano 2022, Prefazione p. 1-8] −, vedendosi così non poche volte costretto a considerare l’ambito della Fede come completamente separato da quello della Ragione, e quindi vedendosi costretto a smantellare tanto la teologia filosofica quanto la possibilità di una FR. Pertanto il titanismo dell’Io (nella conoscenza di Dio) è uno svantaggio del pensiero tradizionalista che però viene controbilanciato decisamente dalla sua capacità di porre le condizioni davvero ideali per una FR.
Vi è poi la presa di posizione dell’intero razionalismo metafisico (che Malebranche rappresenta in pieno), secondo il quale la FR più autentica non sarebbe altro che una metafisica totalmente assimilata alla più pura filosofia, e secondo la quale Dio non sarebbe altro che l’estrema istanza della conoscenza, ossia il luogo dei cosiddetti “principi primi”. Laddove invece Bonaventura (per bocca di Gilson) ci dimostra che questa non è per nulla una vera metafisica religiosa ma è invece nient’altro che una filosofia pura rivestita di una veste metafisica [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128, IV p. 139-140]. In essa infatti Dio non è altro che il supremo luogo della Ragione intesa in senso unicamente umano e quindi naturale.
Ebbene, se si resta intrappolati entro questa serie di difficoltà non si riuscirà mai a districare la complessa matassa, e quindi non si riuscirà mai a definire cos’è una FR e quando essa sussiste realmente ed è davvero autentica. Eppure Bonaventura (almeno secondo Gilson ed almeno parzialmente, ossia formalmente) sembra essere stato capace di riuscire in questo intento.
E quindi la sua riflessione ci servirà come guida per poter definire una FR – sebbene tutti i limiti (prima menzionati) che essa comunque avrà. È vero infatti che anche per lui quest’ultima non è altro che una teologia filosofica (entro la quale Ragione e Fede sono insieme unite e distinte). Ma nello stesso tempo non lo è affatto nel senso che oggi (per esempio in Habermas ed inoltre nell’estremamente ricca attuale riflessione «scientifico-teologica») viene dato al termine. Essa è infatti un filosofare che prende le mosse dalla più alta Verità oggettiva (Rivelazione cristiana) per poi ritornare ad essa (dopo aver compiuto pienamente il suo usuale percorso) dando così compimento alla la più alta aspirazione della filosofia, e cioè giungere al possesso pieno della Verità. E, come poi vedremo, qui la via per giungere a questo risultato non è altro che il Cristo stesso offerentesi come la più piena Verità.
Su questa base condurremo la nostra riflessione, che si baserà quindi sostanzialmente su cinque testi: − Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura (LFB) [Etiénne Gilson, La filosofia di Bonaventura…cit.], Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici (PM) [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici, Carabba, Lanciano 1911], Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane (CC) [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999], Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia (TNG) [Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia, ETS, Pisa 1991], Jürgen Habermas, una storia della filosofia (USF) [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit.].
Per poter utilizzare il contenuto dei testi di Malebranche e Habermas cercheremo in un primo paragrafo di specificare più dettagliatamente il concetto di FR che può venire derivato dalle loro riflessioni.

Tuttavia, in base a quanto abbiamo accennato più su riguardo al pensiero tradizionalista, altro nostro scopo in questo articolo (oltre quello di rintracciare la definizione di FR) è quello di riprendere una problematica metafisico-conoscitivo che abbiamo già trattato in altri scritti e che riguarda sostanzialmente la potenza straordinaria della conoscenza intellettuale. Ebbene Bonaventura stesso concepisce qualcosa di simile nel considerare pienamente possibile la conoscenza di Dio. Tuttavia egli assegna precisi limiti a questa conoscenza, e quindi pare differenziarsi non poco dai moderni pensatori tradizionalisti, i quali hanno visto nella conoscenza intellettuale di Dio (CIAD) una forma di conoscenza che non ha alcun limite e che (come abbiamo già visto) costituisce anche il corpo stesso di una FR senz’altro ideale e paradigmatica.
Con ciò appare dunque chiaro che le due problematiche – FR e conoscenza di Dio – sono strettamente intrecciate tra loro. Non sembra essere dunque un caso il fatto che Bonaventura (differenziandosi da moltissimi pensatori della sua epoca), nel mentre concepì la pienezza della FR, fu anche uno dei pochi che ritiene pienamente possibile la conoscenza di Dio da parte dell’uomo.
Le uniche eccezioni appaiono essere qui gli averroisti. I quali, nel concepire un Intelletto divino-trascendente impersonale che supera ogni altro intelletto (situato a livello ontologico più basso), di fatto abbraccia totalmente in sé questi ultimi, e quindi rende in tal modo possibile la conoscenza di Dio in una maniera però solo passiva e indiretta.
In ogni caso – anche se in alcun modo si potrebbe dire che Bonaventura è assimilabile al moderno pensiero tradizionalista – si può dire che la sua riflessione sulla FR e sulla conoscenza di Dio tende ad appaiarsi in modo estremamente suggestivo a questa sfera di pensiero, che intanto però non può in alcun modo venire inclusa nella tradizione cristiana. Paradossalmente però essa ci offre una definizione di FR che appare essere la più impeccabile, completa ed autentica.

1- La FR secondo la moderna FdR e secondo la metafisica razionalista del XVIII secolo.
Menzionando queste due possibili istanze di giudizio sulla religiosità della filosofia, abbiamo in realtà preso in considerazione un orizzonte estremamente ampio ed estremamente eterogeneo di riflessione filosofica.
La moderna FdR è infatti un fenomeno dominato (più o meno, a seconda dei vari pensatori e delle varie aree) da laicismo, scetticismo e perfino ateismo, ossia è una filosofia a-religiosa o anche addirittura apertamente anti-religiosa. Ed è paradossale che questo atteggiamento venga oggi condiviso perfino da molti teologi nel concepire una sorta di moderna «religiosità senza religione» i cui caratteri principali vogliono essere quelli dell’immanenza secolare, della pura storicità ed umanità (con l’abolizione definitiva di ogni pretesa di trascendenza e sovrannaturalità della relativa istituzione). Caratteristico in questo senso è lo sforzo di moltissimi moderni teologi cristiano-cattolici rivolto a superare il teismo nel concepire una del tutto nuova religione «post-teista» − menzioneremo a tale proposito una ricchissima letteratura che però non è altro che un campione di una messe davvero sterminata di articoli che intanto cresce sempre più nel tempo [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417; Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-89; Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191; Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571; Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338; Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in: Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194]. E tutto questo ha come conseguenza che la stessa dimensione specificamente confessionale ed istituzionale delle varie dottrine religiose perde autenticità, valore ed anche credibilità.
In tal modo, peraltro con la premessa del massimo valore attribuito alla dimensione ecumenica (ritenuta a sua volta perfettamente parallela ad un globalismo accettato come dato di fatto incontrovertibile), si tende ormai a concepire la religione come un mero atteggiamento (appena naturale e fisiologico) dello spirito umano (o meglio della mente umana), che si traduce a sua volta in strutture istituzionali per definizione assolutamente secondarie e deboli (in quanto a ruolo e valore) dal punto di vista religioso, dato che esse sarebbero state erette nel tempo su basi assolutamente inautentiche e quindi inconsistenti.
Va notato inoltre che tale ridefinizione decostruttiva della religione non può essere altro che l’opera di osservatori del tutto esterni al fenomeno religioso. Essi sono insomma dei pensatori che si pongono nella posizione di «filosofi della religione», e quindi nella posizione di studiosi imparziali che in via di principio non professano alcuna fede né sono in alcun modo coinvolti nelle strutture e nella vita che caratterizzano la fede stessa. Ebbene, in questo modo non può configurarsi in alcun modo una «filosofia religiosa» (FR), ma invece solo una «filosofia della religione» (FdR), ossia una scienza della religione che (almeno in via di principio) è assolutamente priva di fede. Alla FdR si affiancano poi altre pure scienze empiriche (imparziali e scettico-atee) del fenomeno religioso (caratterizzate dallo stesso atteggiamento): − psicologia, sociologia etc. Ed in tal modo potremmo dire che ancora una volta Ragione e Fede vengono fuse tra loro. Non però al modo dei pensatori tradizionalisti (i quali riassorbono la seconda nella prima), ma invece con la totale abolizione della Fede a favore del prevalere assoluto della Ragione. In altre parole il definitivo e completo trapasso della FR in FdR coincide storicamente con la scomparsa di fatto della religione (ossia della Fede). Cosa che poi va di pari passo con il progressivo sgretolarsi e dissolvere di quasi tutte le istituzioni e strutture religiose.
Intanto è veramente paradossale (se non scandaloso) che questo atteggiamento verso la religione venga condiviso anche dagli stessi teologi confessionali. Non a caso essi hanno dato vita ad una ormai rigogliosissima ricerca «scientifico-religiosa» nel contesto della quale la riflessione teologico-filosofica non prende più a proprio riferimento normativo il contenuto delle Scritture (Rivelazione con relative Verità di fede) ma invece unicamente i risultati della scienza sperimentale empirica (specie quella cognitiva). Secondo la quale la dimensione religiosa non è altro che un aspetto naturale della funzione mentale senza alcun relativo oggetto reale connesso, ossia senza l’esistenza di alcun Dio. A proposito del post-teismo abbiamo citato molte voci della vastissima letteratura nata ad opera di questi teologi uniti ai filosofi.
Inoltre abbiamo già commentato i caratteri di questo scenario di riflessione attraverso diversi nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e una filosofia integralmente religiosa”, Dialeghestai, Dic 2023; Vincenzo Nuzzo, “Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo” < https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/20/“Berdjaev davanti alla scienza analitico-cognitiva della Religione e il post-teismo”. | cielo e terra (wordpress.com) >]. Ebbene Habermas ci offre indubbiamente un nuovo angolo visivo dal quale osservare questo complessivo fenomeno. È certo però che anch’egli non fa altro che descrivere il moderno fenomeno della FdR.
La sua presa di posizione parte però sostanzialmente da una ri-definizione della filosofia stessa, alla quale vengono attribuiti i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità [Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 9-27]. Specialmente questo ultimo carattere di fatto spazza via definitivamente qualunque possibilità che la filosofia sia religiosa, e (come abbiamo visto) anche qualunque possibilità che esista una religione. Nello stesso tempo, indirettamente, Habermas sostiene con tutto ciò che, entro tale contesto, la religione deve definitivamente rassegnarsi a rientrare nei limiti di quella “vita razionale”; limiti entro i quali rientra anche la filosofia insieme a qualunque altra disciplina. Questo significa che, esattamente come la filosofia, la religione stessa può sussistere oggi solo e soltanto se ha i caratteri della modernità, secolarità e post-metafisicità. Che poi di fatto non sono altro che i caratteri di una sua totale assenza. È evidente che ciò impedisce alla religione di coltivare studi metafisici e di associarsi a scienze metafisiche. E questo implica che la dimensione del Sovrannaturale deve svanire totalmente dal suo ambito.
Questa è la sola forma di religione che ormai venga ammessa dagli intellettuali e quindi dalla Cultura stessa. E quindi ciò rafforza l’ipotesi che avevamo avanzato prima: − non vi è oggi alcuno spazio per il sussistere di una FR.
Tale fenomeno rientra poi nella comune totale soggezione della filosofia e della religione alla scienza sperimentale ed empirica, che Habermas ritiene un fenomeno talmente normale da non aver bisogno di venire assolutamente discusso. In altre parole la filosofia è inevitabilmente scientifica, ed in qualche modo lo deve essere anche la stessa religione. Dobbiamo far notare che nel corso del XX secolo pensatori come Berdjaev e Jaspers si erano opposti decisamente a questa concezione della filosofia, ed inoltre avevano anche sostenuto la piena legittimità dell’esistere di una metafisica [Nikolaj Berdjajew, Das Ich und die Wel der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I,1 p. 11-38; Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956, IIC, I-II p. 160-188]. Sebbene per Jaspers la dimensione metafisica è pienamente immanente, corrispondendo a quell’”Omnicomprendente” (Allumafassende) che ci circonda da ogni parte come un Tutto, e nel quale siamo completamente immersi in modo che esso di fatto ci trascende come enti finiti, e precisamente al modo di un vero e proprio «oltre» che ci rinvia costantemente oltre le apparenze sensibili.
Tuttavia nemmeno una metafisica così poco ambiziosa ha più diritto di cittadinanza in filosofia e religione. E quindi, evidentemente, l’opposizione critica di pensatori come questi non ha cambiato affatto il corso delle cose. Il mondo ha infatti continuato la sua inarrestabile marcia, molto genericamente «razionalista» e scettica, verso la distruzione della religione e della metafisica.
Eppure Habermas insiste continuamente sul fatto che è sempre esistita (e continua ancora oggi ad esistere) una profonda affinità tra filosofia e religione [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., Prefazione p. 1-8, I, 2, 2-p. 60-92, I, 3, 1-2 p. 95-116, II, 1, 1-4 p. 168-277, 1 p. 421-424]. Anzi in realtà questa è una sua tesi centrale, dato che il suo discorso al proposito si prolunga in tutto il saggio esaminando la religione dai più diversi punti di vista e nei più diversi contesti (incluso quello della FdR). Per cui è impossibile riportarlo per intero nello spazio di questo articolo. In generale però egli vede nella religione un fenomeno sostanzialmente inautentico, in quanto esso sarebbe apparso insieme alle grandi immagini del mondo (tutte falsificanti per quanto possenti) che sono insorte nell’”età assiale”, ossia alla radice delle grandi Civiltà planetarie nel contesto delle quali è nata di fatto anche la filosofia. E per questo il discorso religioso si è presentato fin dall’inizio come pensiero connesso intimamente al pensiero filosofico. Tuttavia egli ritiene anche che il possibile valore attuale della religione (proprio nel tenere conto delle sue profonde consonanze con la filosofia) si riassuma nell’ipotesi che essa sia sempre stato sempre nient’altro che uno dei tanti fenomeni dello “spirito oggettivo”, e quindi abbia sempre avuto una valenza sostanzialmente sociale e culturale (molto più che gnoseologica ed anche autenticamente religiosa). È evidente quindi che egli attribuisce al fenomeno religioso un valore solo nella misura in cui esso viene inteso in modo riduzionistico e demistificante – il che significa innanzitutto che nel suo contesto non si manifesta affatto l’evidenza di Dio. Anche se esso appare essere ancora oggi associato intimamente alla filosofia. E ciò ovviamente non implica assolutamente l’insorgere di una FR, ma al massimo invece di una FdR per definizione atea, scettica e critica.
Comunque proprio su questa base egli sostiene che le due discipline alla fine condividono i tre fondamentali ed obbligatori caratteri (modernità, secolarità e post-metafisicità) che una moderna razionalità deve necessariamente avere. Tale razionalità non è più infatti nemmeno quella kantiana, che intanto aveva impregnato di sé la “filosofia del soggetto” (nel corso del XIX secolo e parte del XX) [[Jürgen Habermas, Una storia della filosofia…cit., I p. 17-26, I, 1 p. 27-59, I, 4, 3 p. 145-152, 3 p. 429-435]. Non è cioè la Ragione umana trasformata in istanza trascendente, assoluta ed universale. È invece una razionalità profondamente intrecciata alla più immanente e relativa dimensione antropologica e storica, e quindi reca impressi in sé i caratteri della società e della cultura locali. In altre parole essa si presenta in una veste decisamente relativa, che quindi trascina nel relativismo tutto ciò che le si sottomette, specie filosofia e religione.
La razionalità è insomma per Habermas un fenomeno sostanzialmente umano in quanto sociale, storico e culturale. In questo senso la dimensione gnoseologica diviene decisamente secondaria rispetto a questi due ultimi aspetti.
Abbiamo in tal modo ricostruito sinteticamente i caratteri dello sguardo che oggi l’intera filosofia post-moderna (unita alla stessa teologia di punta) getta sulla FR. Ed abbiamo mostrato che si può ben dire che si tratta appena del punto di vista di una generale FdR – sebbene focalizzata sulla dimensione sociale-culturale (e dunque ermeneutica e comunicativa) del pensiero umano.
Questo è il primo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo ed è evidente che per esso non esiste né può esistere alcuna vera FR, ma invece appena qualcosa che pretende illegittimamente di esserlo. Infatti la filosofia secolare non può assolutamente ospitare in sé contenuti autenticamente religiosi (come dottrine metafisiche, fede nel Sovrannaturale e nell’Invisibile etc.), dato che essi contraddicono frontalmente la razionalità. E nello stesso tempo la religione (inclusa la teologia) non può in alcun modo essere «filosofica» senza doversi intanto sottomettere alle norme logico-filosofiche che le rendono assolutamente impossibile essere un’autentica FR. E così essa non può essere altro che una FdR. Ma abbiamo visto che quest’ultima cessa perfino di essere una religione.
Tuttavia veniamo ora al secondo punto di vista che prendiamo in considerazione in questo paragrafo, ossia la complessiva presa di posizione di quella metafisica razionalista del XVII secolo che trovò uno dei suoi vertici in Malebranche. A prima vista questo punto di vista non ha assolutamente nulla a che fare con quello di Habermas e della complessiva FdR. Non fosse altro che perché essa è e vuole essere espressamente una metafisica, e precisamente una metafisica religiosa. Ma non si deve dimenticare che questa riflessione volle fondare una metafisica appunto «razionalistica», e quindi una scienza secondo la quale il supremo Trascendente e Sovrannaturale (Dio) non era altro che la Ragione umana una volta universalizzata ed assolutizzata. In essa Dio non è dunque altro che il luogo supremo dei “principi primi” razionali che regolano la conoscenza dell’essere [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit., I, 163-168, p. 47-53; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane, III, p. 44-67].
Per questo tale metafisica fu sostanzialmente una gnoseologia (dalla vaga veste religioso-cristiana), mentre non fu in alcun modo una sorta di onto-metafisica, ossia una metafisica dell’essere (com’era stata esemplarmente quella di Aristotele). In altre parole essa costituì una sorta di divinizzazione della mente umana razionale nel suo rinchiudersi in sé stessa ed osservare il mondo esteriore unicamente attraverso il filtro dei principi razionali essi stessi divinizzati. Lo scopo di questa osservazione «da dentro» fu poi principalmente quello di purificare razionalmente i selvaggi e caotici oggetti esteriori (gli oggetti della Natura) per trasformarli in perfetti intelligibili, cioè in idee di cose. Solo in questo modo si pensava infatti che il mondo potesse venire davvero compreso. Ed infatti l’attività conoscitiva che fu qui all’opera fu una sorta di scienza della Natura resa infallibile e perfetta (in particolare la Fisica matematica) dall’applicazione ad essa di una filosofia rigorosamente razionalistica. Il cui aspetto religioso è comunque assolutamente secondario.
In questo senso – per quanto ciò possa sembrare strano − tale visione filosofica ha anticipato piuttosto suggestivamente i caratteri che secondo Habermas competono oggi obbligatoriamente alla filosofia ed alla religione, e cioè modernità, secolarità e post-metafisica. Infatti la stessa dimensione secolare viene fortemente rappresentata in questo tipo di riflessione filosofica dal fatto che in essa la metafisica è fortemente vincolata agli oggetti reali, e più precisamente quelli estremamente puri e indubitabili che vengono concepiti dalla scienza fisico-matematica [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, IV, 393-395, p. 39-40, I, 263, p. 70, III, 420-421, 425-426, p. 99-102; [Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., 2, p. 22-43, 3 p. 44-67; Nicolas Malebranche, Trattato della Natura e della Grazia…cit., I, I, XIV p. 78-79]. Questa presa di posizione trova una fortissima affermazione in Malebranche (il quale fu in definitiva un filosofo della Natura) ma del resto anche in altri pensatori metafisici dell’epoca come Suarez [Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011], e naturalmente lo stesso Leibniz (sebbene nel contesto di una visione molto più complessa e completa dal punto di vista religioso). È evidente comunque che Malebranche concepisce unicamente una religione rigorosamente razionale. Ed essa quindi anticipa fortemente i caratteri che per Habermas dovrebbe avere la religione moderna e secolare. Non a caso in Malebranche sembra solo apparentemente che vi sia una metafisica, ma di essa non vi è invece alcuna traccia.
Ora, una volta detto tutto questo, è evidente che, anche partendo da questo punto di vista, non può in alcun modo sussistere una FR. Non può sussistere per diversi motivi: − 1) perché la metafisica religiosa concepisce Dio quasi allo stesso modo della Ragione umana universalizzata ed assolutizzata (ossia unicamente come un’istanza gnoseologica sebbene trascendente e divina); 2) perché la metafisica nel suo complesso è fortemente vincolata agli oggetti sensibili, sebbene trasformati in puri intelligibili (tra i quali quelli colti dalle scienze fisico-matematiche); 3) perché queste due prese di posizione escludono decisamente che tale metafisica prenda in considerazione in divino come ente sovrannaturale e come vero Spirito, cioè in sintonia con quanto è contenuto nella Rivelazione; 4) perché questo genere di metafisica non solo è essa stessa una scienza empirico-naturale ma sta anche in profonda sintonia con quest’ultima.
L’unico aspetto che manca qui è quello di una esplicita presa di posizione filosofico-teologica che ponga sé stessa come scienza imparziale della religione, ossia la FdR. La metafisica razionalista ebbe infatti per davvero l’ambizione di rappresentare (e anche difendere apologeticamente) la religione stessa, e precisamente quella cristiano-cattolica, e pertanto volle essere una vera e propria FR. Ed in effetti, se davvero bastassero le sue riflessioni e proposizioni per configurare una FR, in tale pensiero quest’ultima potrebbe e dovrebbe venire rintracciata. Ed invece le cose non stanno affatto così. Nel complesso infatti l’esistere di una FR viene decisamente escluso dalla rigorosa razionalità (peraltro immanentista e scientista) che questa visione filosofica pretende che la religione debba avere.
A questo punto dovremmo però dire più esplicitamente quali sono i caratteri specifici di un’autentica FR. Essi sono in parte già emersi (sebbene quasi solo in negativo) nel corso dell’analisi che avviamo fatto. Ma il nucleo di questi caratteri emerge in maniera chiarissima e forte (e peraltro in positivo) proprio nella riflessione di Bonaventura – un’autentica FR è in primo luogo quella che, nel suo filosofare, parte dai contenuti della Rivelazione, ossia le Scritture (supreme Verità oggettive), e ad essa poi ritorna nel trovare così compimento alla propria opera; ossia nel fare ciò che a cui ambisce ogni filosofia, ovvero trovare la verità. In assenza di questo primario carattere non sussiste alcuna FR – sebbene abbiamo visto che essa può sussistere in una maniera molto forte (pensatori tradizionalisti) oppure meno forte (Bonaventura).
Vedremo che questo comporta poi tutta una serie di ulteriori caratteri tipici di una FR. Ma, invece di metterci noi stessi ad argomentare su questo piano, lasceremo il campo per questo all’esposizione del pensiero di Bonaventura che è stata fatta da Gilson.

2- La definizione di FR emergente dal pensiero di Bonaventura.
La posizione estremisticamente religioso-filosofica assunta da Bonaventura (configurante una FR non solo autentica e piena ma anche esemplare) è piuttosto intuitiva per chi aspira a questo genere di disciplina.
Pertanto non solo è prevedibile nei suoi aspetti ma è anche necessariamente affatto unica. Abbiamo infatti in più sedi sostenuto che essa si ritrova in tutti i pensatori di quella che abbiamo definito come «linea platonica» dei pensatori cristiani (con vertice in Origene, Agostino, Dionigi l’Areopagita, Scoto Eriugena, Meister Eckhart e Cusano). E del resto anche Gilson identifica proprio questa linea nella sua storia del pensiero cristiano [Etiénne Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014, IV-V p. 265-363]. Lo fa però nel focalizzarsi specificamente sull’epoca decorrente tra XI e XII secolo, e menzionando soprattutto i pensatori della Scuola di Chartres (tra i quali in particolare Giovanni di Salisbury), oltre che una serie di pensatori fortemente speculativi (come Bernardo di Clairvaux, Guglielmo di San Teodorico, Ugo da San Vittore etc). Inoltre egli specifica che l’opera di questi pensatori fu quella di opporsi al riduzionismo logico dei dialettici (come Gerardo di Czanad e Pier Damiani). E dietro questi ultimi vi è senz’altro l’intero movimento aristotelico di pensiero (con al vertice Tommaso d’Aquino e Alberto Magno), che Gilson critica apertamente nel parlare di Bonaventura. Certamente la stagione di questi ultimi pensatori fu successiva (XIII secolo) a quella menzionata da Gilson, ma comunque raccolse molti frutti del pensiero dei secoli antecedenti.
Vedremo però che l’appartenenza di Bonaventura alla corrente platonica dei pensatori cristiani solleva non poche difficoltà dopo che si è compreso a fondo il suo pensiero, oltre la che la sua definizione di FR. Discuteremo queste difficoltà nelle conclusioni. Vedremo però soprattutto che senz’altro Bonaventura può venire considerato parte della linea di pensatori cristiani che abbiamo appena menzionato, sebbene quasi mai in linea con un davvero pieno ed integrale platonismo.
In ogni caso, una volta specificato questo, il paradigma estremamente generale di un’autentica FR appare essere quello da noi già menzionato – un filosofare che trova nella Rivelazione gli oggetti da indagare (le possibili verità) e sempre in essa poi li ritrova (una volta elaborati completamente) anche alla fine del suo percorso. In altre parole questa filosofia parte dalle supreme Verità religiose per poi pervenire infine a Dio stesso quale suprema e unitaria Verità.
In qualche modo fanno qualcosa di simile anche pensatori come Agostino (considerando la Trinità come il modello stesso della realtà e soprattutto della mente ed anima umana), Scoto Eriugena (riflessione sulle quattro divisioni dell’Essere a partire dal livello creante e increate ossia dal mondo divino), Dionigi l’Areopagita (nel considerare compiuta la conoscenza di Dio ben oltre il livello sensibile e simbolico, e quindi nel pieno di supreme Verità che non conoscono alcuna contraddizione logica), e Meister Eckhart (considerando il mondo delle Verità ultra-logiche, mondo della Grazia, come in continuità ininterrotta con il mondo sensibile, ossia il mondo della Natura). Tuttavia – stando almeno a quanto dice Gilson – una chiara ed esplicita formulazione della FR si ritrova in primo luogo in Bonaventura.
Cercheremo quindi di evidenziare gli aspetti principali di questa visione, ponendoli volta per volta in correlazione con la negazione della FR che abbiamo riscontrato in Habermas, nella FdR e in metafisici razionalistici come Malebranche.
Tuttavia la ricchezza estrema degli aspetti del pensiero bonaventuriano che vengono evidenziati da Gilson ci rende impossibile trattarli tutti. Per cui questo articolo non può certo sostituire la lettura del libro.
Il nostro scopo è appena quello di isolare e discutere alcune delle questioni che il pensiero di Bonaventura solleva.

2.1 La definizione di filosofia e di FR.
La definizione bonaventuriana della filosofia si colloca entro l’aspirazione della Chiesa cristiana (maturata appunto nel XIII dopo la definitiva ammissione dell’aristotelismo come modello unico di pensiero e l’esclusione di ogni platonismo) a costruire un’unica filosofia, strettamente unita alla teologia, con l’ambizione di raccogliere l’intera conoscenza delle cose (e quindi ontologica in senso enticista, cosmologico, naturalista ed immanentista) escludendo intanto la validità di qualunque altra filosofia (che essa fosse pagana o cristiana) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XXV]. ll paradigma di questa filosofia venne poco a poco considerato quello scolastico, con vertice in Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno.
E questa fu poi la presa di posizione ri-attualizzata dall’enciclica “Amore Patris”, di Leone XI, che diede successivamente vita al movimento neo-scolastico e neo-tomista verso la fine del XIX secolo. Ma con questa presa di posizione era ed è connessa anche la dogmatica e inflessibile separazione tra filosofia (Ragione) e teologia (Fede), la cui affermazione venne e viene attribuita unicamente a Tommaso, tanto che la visione di Bonaventura è stata considerata da alcuni una teologia e non una filosofia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., Introduzione, p. XLII]. Insomma è come dire che, qualora il pensiero abbia un contenuto intensamente religioso e soprattutto si rifaccia alla Rivelazione (quale oggetto della propria riflessione), esso non può affatto venire considerato una filosofia, ma invece appena una teologia. Diversamente invece – ossia se il pensiero impiegato dalla teologia si muova esattamente come l’usuale filosofia (e quindi in forza della Ragione naturale) – esso costituisce una teologia filosofica.
Ed a quest’ultima aspirò esattamente Tommaso. Non più che a questo. Ma non Bonaventura! Egli aspirava − e peraltro con coriacea convinzione ed estrema forza – ad una vera e propria filosofia che contenesse oggetti religiosi e partisse dalla Rivelazione per poi ritornare ad essa come Verità assoluta divina; ma intanto non per questo mancasse di costituire una vera e propria filosofia senza essere invece appena una semplice teologia.
E ciò per lui avviene semplicemente perché questa forma di pensiero non si serve affatto della Ragione naturale, la quale appena è capace di conoscere le cose sensibili esteriori ed anche le cose interiori [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135]. Essa si serve invece di quell’Intelletto umano (che ontologicamente è intelligibile tanto quanto quello divino, sebbene su scala decisamente minore), che ha come propri oggetti solo quelli sovrannaturali, ed in maniera massima, Dio stesso. Qui l’intelletto umano appare dotato di una capacità di penetrazione nella realtà divina che deve essere senz’altro profondamente intuitiva.
E questo è esattamente quanto sostenuto da pensatori tradizionalisti come Frithjof Schuon nel contesto di una descrizione della conoscenza di Dio che non è affatto solo cristiana ma anche pagana [Frithjof Schuon, Logica e trascendenza… cit., 2-3, p. 23-52, 4 p. 53-67, 5 p. 71-72]. Il che avviene poi a causa di una capacità funzionale tipica dell’Intelletto (ma non della Ragione) che è quella di constatare sempre ed immediatamente l’esistenza oggettiva di oggetti. In maniera abbastanza simile si è espresso George Vallin, sebbene sottolineando molto più di Schuon la necessità che la CIAD fosse puramente intellettuale (“via di gnosi”) e per nulla fideistica (“via d’amore”) [Georges Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012]. Il che significa che per lui l’atto dell’unione mistica a Dio (dominato com’è dalla fede e dall’amore) non rappresenta affatto una CIAD. Approfondiremo poi più avanti questo tema.
A prima vista insomma le due prese di posizione sembrano sovrapponibili. Soprattutto si è indotti a pensare che entrambe considerino l’Intelletto una facoltà che è capace di penetrare interamente la realtà divina.
Vedremo però poco a poco che non fu affatto così in Bonaventura. Né fu così per gli altri pensatori cristiani prima menzionati, con la sola eccezione (forse) di Dionigi, Eckhart e probabilmente anche Cusano.
Del resto non a caso Schuon parla dell’Intelletto come di una sorta di straordinaria forza di penetrazione nelle tenebre della realtà divina. Bonaventura ne parla invece appena come istanza di “promozione” dell’anima quale realtà intelligibile nella quale Dio da sempre soggiorna come idea. E questo poi lascia delineare (per contrasto) un altro notissimo aspetto della visione scolastica e tomista, ossia la distinzione tra l’ambito della teologia razionale e naturale (oltre che della filosofia) dall’ambito della teologia mistica. La prima infatti si limiterebbe a conoscere gli effetti della creazione divina, ossia le creature sensibili, mentre soltanto la seconda conoscerebbe Dio. Lo conosce però in maniera così oscura e confusa da non poter costituire su questo né una filosofia né una teologia razionale. Questo è infatti appena l’ambito della fede e soprattutto dell’esperienza mistica, ed esso venne considerato travalicate decisamente la sfera di azione della Ragione. Ma va intanto notato che Dionigi l’Areopagita è stato un pensatore cristiano che (specie nella sua riflessione sul Nome divino e nel contesto della sua “teologia mistica”) ha considerato possibile pienamente la conoscenza di Dio proprio in questo ambito tenebroso a causa del fatto che in esso non esiste logica e quindi non esiste alcuna definizione positiva di Dio per mezzo di attributi [Beate Beckmann, Einführung, in: Edith, Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, Herder, Freiburg Basel Wien 2003, 6 p. 15-19; Dionysius Areopagita, Von den göttlichen Namen (Übersetzt von Edith Stein), ibd. p. 85-157; Dionysius Areopagita. Mystische Theologie (Übersetzt von Edith Stein), ibd, p. 245-250; Dionigi L’Areopagita. Von dem Namen zum Unnenbaren. Johannes Freiburg 2002]. Insomma è il classico ambito, questo, della cosiddetta teologia negativa o apofatica. Che però non è l’ambito dell’indebolimento della conoscenza di Dio bensì semmai quello del suo straordinario rafforzamento. E recentemente questa è stata la presa di posizione anche dello studioso Bruno Bérard, il quale addirittura afferma che non vi è vera conoscenza di Dio senza penetrare nei misteri anti-logici che ne costituiscono la natura [Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021]. Possibilità che invece, come vedremo, Bonaventura nega recisamente, dato che per lui la conoscenza di Dio è chiara e non oscura. Ed in questo egli resta in linea con la maggior parte della riflessione teologico-metafisica cristiana, che davvero poche volte (con pensatori come Dionigi e Bérard) ha osato concepire una conoscenza di Dio oltre i limiti della teologia razionale. Con l’eccezione dei mistici, i quali però hanno sempre rinunciato per definizione a qualunque forma di indagine filosofica, limitandosi invece a mettere per iscritto in maniera meditativa le loro esperienze di relazione con Dio (vedi Teresa d’Avila e Juan de la Cruz).
Ciò non toglie che comunque il concetto bonaventuriano di conoscenza di Dio sia almeno prossimo a questa complessiva sfera di pensiero. Essa non prevede certo una conoscenza di Dio che consista nel coglimento dei misteri che ne costituiscono la “natura”, ovvero l’essenza. Egli ha sottolineato invece semmai la certezza assoluta (in quanto indubitabile) della conoscenza di Dio come oggetto, e quindi la sua assoluta chiarezza. Il che implica la conoscenza certa di alcuni suoi aspetti specifici: − l’esistenza, l’idea di Dio presente nella mente umana (intuita in modo da tutti in modo immediato ed incondizionato), l’essere Causa prima degli enti causati, o creature [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 120-123]. Tutti questi aspetti rappresentano per il pensatore un’”evidenza” assoluta di Dio come oggetto, che (pur essendo Egli altissimamente intellettuale in quanto ente intelligibile) sfiora quasi la conoscenza sensibile (quanto a chiara e piana indubitabilità). Ed inoltre le dottrine coinvolte in questi aspetti della conoscenza di Dio costituiscono per lui quella che è anche l’unica “vera” metafisica che ci sia [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 139-140]. Non lo è invece per lui assolutamente quella che cerca di penetrare i misteri divini, i quali sono a suo avviso (in quanto “natura” di Dio) davvero non alla portata della nostra conoscenza. In questo, come abbiamo visto, egli cozza decisamente con pensatori come Dionigi, Schuon e Bérard. Ma intanto – dall’altro versante filosofico-religioso e metafisico – la sua visione si differenza ancora più nettamente dall’idea tomista della conoscenza di Dio, che viene intellettualisticamente costruita per inferenza (per mezzo degli strumenti logici della filosofia aristotelica) a partire dalle creature sensibili, e quindi sussiste solo in quanto “analogia”, e pertanto di fatto solo metaforicamente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 127-128]. Conseguentemente Tommaso deve considerare la conoscenza di Dio come qualcosa di irreale di fatto. Riprenderemo poi alcuni di questi aspetti più avanti.
Tutto ciò fa sì che (secondo Gilson) la filosofia tenda per Bonaventura invariabilmente verso una “contemplazione” che è sempre “ritorno a Dio” e quindi costituisce insieme un’esperienza di conoscenza ed anche di fede; senza alcuna contraddizione tra i due termini [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III p, 68-71]. Ma oltre a ciò essa procura anche la “pace” e precisamente quella indecifrabile pace che Gesù aveva sempre promesso, identificandola con sé stesso, senza però mai spiegare cosa esattamente fosse.
Essa è evidentemente la contemplazione di Dio stesso (e quindi del mondo perfetto) in ogni cosa ed in ogni evento mondano; con la conseguenza che nulla può più può turbare l’uomo.
Ebbene Bonaventura (secondo Gilson) comprese che tutto ciò costituiva l’”illuminazione divina”, e quindi un qualcosa che è comunque gnoseologico anche se resta unito intimamente all’esperienza di fede più intensa possibile. È, diremmo, non un oggetto di pensiero qualunque, ma invece Gesù stesso come Essere, Origine di ogni cosa (Parola o Logos) e Amore. Dunque è la contemplazione della vera Realtà dominata dalla Bellezza divina, ossia il mondo in quanto Bene divino. E questo è senz’altro ciò di cui si godrà nell’aldilà pienamente. Ma intanto (nell’aldiquà e nell’oggi) di questo mondo si può avere (grazie a Gesù) una potente intuizione, accompagnata ad un’almeno parziale esperienza di esso. Ma tutto questo rappresenta una contemplazione molto più che azione (opere etc.), ossia è filosofia e pensiero. Parliamo insomma qui di una filosofia che è anche mistica. Anche questo serve a definire cos’è la FR. Essa è anche profonda esperienza di fede, ossia profonda esperienza religiosa che riesce ad arrivare in prossimità dell’unione con Dio.
E questo pare (stando a Gison) che sia stato desunto da Bonaventura da quanto San Francesco aveva praticato ed anche insegnato, e cioè il tentativo di restare sempre in presenza di Dio. Ma, diversamente da Francesco (dedito all’estasi quasi continuamente). l’attività della quale qui si parla è di caratura decisamente inferiore, cioè è appena quella di quegli “speculativi”, uomini che non possono rinunciare a pensare nemmeno nella più intensa fede [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., I, III, p. 84]. E quindi distano sempre fatalmente dalla pienezza dell’estasi. Anzi la loro “ascesi” finisce per essere la “scienza” stessa.
Pertanto è anche in questo complessivo modo che ci può descrivere l’autentica FR – un’attività di pensiero che non è né quella della filosofia ordinaria (pura Ragione) né quella della piena ascesi mistica (pura Fede).
È insomma un’attività in cui il pensiero assomiglia moltissimo alla meditazione ed alla preghiera. E quindi quasi le vicaria.
Ma − ancora più semplicemente e sinteticamente – l’effetto di tutto ciò è che Dio diviene comunque “l’oggetto stesso di ogni vera filosofia” [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94]. Può dunque sembrare anche eccessivo, però, almeno da questo punto di vista, non solo la FR è pienamente giustificata, ma è anche l’unica vera forma di filosofia che esista e che possa venire praticata. Essa infatti tocca quasi ordinariamente l’oggetto intelligibile più alto che si possa mai concepire.
Ovviamente parliamo qui della filosofia così com’è stata concepita prima che venisse travolta dal moderno secolarismo post-metafisico al quale la inchiodano pensatori come Habermas. In questa forma, infatti, essa non tende ad alcun alto oggetto intelligibile, anzi fa esattamente il contrario.
Tutto ciò comporta per Gilson anche una serie di questioni che poi tratteremo più approfonditamente discutendo del tema della relazione tra Ragione e Fede. La filosofia di Bonaventura non manca infatti di concepire la differenza che deve venire ammessa tra le due. Tuttavia nello stesso tempo ci fa notare che la prima, quando è pura (ossia naturale ed unilaterale), comporta una “certezza” della verità che non solo riguarda appena la conoscenza delle cose ma inoltre non è affatto attaccata al proprio oggetto come accade quando si colgono le verità credute, ossia le verità di fede. Perché in questo caso alla conoscenza si aggiunge anche l’amore. E questo ha una serie di conseguenze che discuteremo poi più avanti.
Il che senz’altro riduce di molto la distanza tra Ragione e Fede, sebbene non l’annulli del tutto.
Ma il punto davvero decisivo è, secondo Gilson, che una “metafisica della mistica” sarebbe del tutto impossibile se Ragione e Fede differissero per davvero ed in un modo estremo (e dunque inconciliabile) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 105-112]. E questo è esattamente ciò che viene concepito dal tomismo nel differenziare rigorosamente una teologia razionale-naturale quale unico modo (ma solo riduttivo e indiretto) di conoscere Dio. È ciò che avviene per la via dell’ineccepibile dimostrazione logica.
La quale però, come ci mostra Bonaventura, non implica affatto che per mezzo di essa noi veniamo a conoscere per davvero Dio. Certamente non ne veniamo a conoscere la natura, ma soprattutto non ne veniamo a conoscere nemmeno per davvero l’esistenza – la quale invece già splende in noi come Idea, in tutta la propria indubitabilità senza bisogno di alcuna dimostrazione logica e senza nemmeno il bisogno di passare per il livello delle creature sensibili. Dunque – grazie all’apporto di Bonaventura – comprendiamo che è del tutto inutile l’opera della Ragione tenuta lontano dalla presunta contaminazione della Fede.
Resta infatti anche così l’impossibilità di conoscere la natura di Dio, e quindi i misteri che la caratterizzano (che abbiamo visto invece ammessa da altri autori). Di Dio invece noi conosciamo indubitabilmente l’esistenza per il semplice motivo che Egli stesso si è inseminato nella nostra mente come idea innata, ovvero la conosciamo solo interiormente. E più di questo di Lui non sappiamo né possiamo sapere. Il che ci mostra di nuovo – sebbene dall’altro versante rispetto a quello di Tommaso e del tomismo − la grande distanza che vi è tra la dottrina bonaventuriana della conoscenza di Dio e quella dei pensatori tradizionalisti. In altre parole Bonaventura ci dice che Dio può e non può venire conosciuto.
Tutto questo implica che, secondo lui, la filosofia non solo può coesistere con la fede ma addirittura deve. Infatti, se non ne accetta la “luce”, essa si perde nell’”orgoglio”, nell’”amore di sé” e nella “volontà di bastare a sé stessi”, ovvero in una vera e propria perdizione e follia. E cosa, se non questo, cioè la follia aberrante ed il protagonismo titanistico, caratterizza la filosofia moderna?
Oltre a ciò però emerge in tal modo un altro carattere fondamentale dell’autentica FR, ovvero il suo essere appena momento di un cammino che è destinato a procedere incessantemente oltre. E che quindi, se si arresta entro i limiti della filosofia in sé (o pura), finisce per condannare il pensatore ai peggiori errori possibili (appunto le aberrazioni del pensiero). La più autentica FR è dunque anche un filosofare che abbia saputo andare oltre i limiti della filosofia ordinaria. La FR è pertanto l’unica che sia capace di non funzionare “come a vuoto”, ossia di essere un pensare che non ha una vera presa sulla realtà − nonostante tutte le arie che si dà e l’importanza che attribuisce a sé stessa. Ecco che l’espressione qui usata da Gilson definisce in uno solo colpo ciò che è un’autentica FR – essa consiste nel “partire dalla fede per attraversare la luce della ragione e pervenire alla soavità della contemplazione”. Del resto questa espressione descrive perfettamente quello che abbiamo visto essere l’atto e carattere fondamentale della FR, e cioè il suo partire sempre dalla Rivelazione ed operare poi sui contenuti si quest’ultima.
Per questo essa è indubbiamente anche una teologia; ma affatto solo questo! Tuttavia questa così intima prossimità della filosofia alla teologia non ha affatto il senso di istituire una sorta di «teologia filosofica», la quale non è altro se non una teologia obbediente al rigore di pensiero della filosofia ordinaria. Questo è il senso e ruolo che è stato attribuito dalla scolastica alla cosiddetta teologia razionale, ma in fondo è anche quello che è stato attribuito da Habermas ad una riflessione filosofico-religiosa che costantemente rende omaggio alla scienza empirica e si sottomette totalmente ad essa. Il senso di essa deve invece essere tutt’altro. E precisamente, come sostiene Bonaventura, è quello di scegliere tra le questioni filosofiche che devono essere chiamate in causa affinché il teologo possa svolgere la sua attività di pensiero Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., p. 139]. Tuttavia la chiamata in causa di questioni filosofiche non implica affatto la necessità di occuparsi filosoficamente del reale di tipo sensibile, ossia occuparsi di quella conoscenza delle cose che giustamente la teologia ha teso a definire come “vana curiosità”. E Gilson fa benissimo a ricordarci che la filosofia cristiana è stata definita ufficialmente così proprio perché essa aveva ambito a questo risultato per mezzo della scolastica tomista, ossia ad una “sistematizzazione totale del sapere umano”.
La scelta di questioni filosofiche da parte della filosofia dovrebbe quindi, secondo Bonaventura, implicare unicamente questioni metafisiche, e precisamente solo tre tra le tante: − creazione, esemplarismo e ritorno a Dio.
Dell’esemplarismo parleremo a proposito della dottrina delle idee.
Altri argomenti per definire un’autentica FR emergeranno comunque più avanti anche nel trattare di altri aspetti del pensiero bonaventuriano.

2.2 Ragione e Fede.
Abbiamo appena toccato questo tema, ma esso trova (da parte di Gilson) una trattazione ben più approfondita. E quindi dobbiamo dedicare ad essa un paragrafo specifico.
Abbiamo visto che il tema sta in relazione a quello (di importanza filosofica straordinaria) della certezza di verità [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., II p. 87-94, II p. 101-114]. E qui emerge nuovamente l’aspetto assolutamente centrale della differenza esistente tra la conoscenza filosofica e quella teologica. La prima infatti è costantemente riferita all’esteriore, ossia ad entità mondane che devono letteralmente afferire allo spirito umano per poter venire conosciute. Laddove, invece, in assenza di tale azione esse resterebbero totalmente sconosciute. E l’intero campo di questa conoscenza corrisponde non solo all’estensione della scienza empirica ma anche a quello della filosofia stessa. In entrambi i casi è infatti all’opera la Ragione naturale; con la conseguenza (almeno in campo filosofico) dell’importanza fondamentale della dimostrazione logico-razionale, e quindi anche della riflessione. In altre parole anche qui (come nella teologia razionale) la certezza di verità viene appena costruita, e dunque è sempre un punto di arrivo.
Ben diversamente accade invece per la teologia (non razionale) concepita da Bonaventura. Essa infatti fa riferimento unicamente alla Scrittura e quindi alle cose credute in quanto verità per definizione; delle quali pertanto si è certi in partenza. In altre parole quindi la certezza di verità qui non viene affatto costruita ma sussiste invece in partenza, ossia viene trovata già pronta. Naturalmente qui dimostrazione e riflessione non giocano alcun ruolo.
Per quanto possa sembrare strano, però, a rigor di logica in questo ambito non vi è alcuna vera traccia della FR. Assistiamo invece appena alla differenza oggettiva esistente tra teologia e filosofia: − la teologia inizia dalla Verità (rivelata), ossia dove la filosofia finisce. Inoltre, mentre la filosofia parte unicamente dalla Ragione (quale potenziale facoltà produttivo-costruttiva) per arrivare a Dio, la teologia parte da Dio per arrivare agli effetti. Naturalmente però qui si intende senz’altro una filosofia che abbia quella valenza teologica che abbiamo descritto prima. E quindi, una volta accoppiate queste due azioni della conoscenza, non saremo più davanti alla semplice differenziazione tra filosofia e teologia, ma vedremo iniziare a delinearsi la FR. Almeno nell’intendimento di Bonaventura. Infatti il partire dalla verità già pronta non resta sterile e passivo (fondando così unicamente la Fede), ma invece diviene immediatamente attivo e produttivo – esso offre infatti al filosofare il materiale (l’oggetto) del quale esso ha bisogno per esplicarsi. E questo materiale non è altro che la Verità divina stessa.
È evidente comunque che la certezza filosofica (razionale) non ha nulla a che fare con la certezza di fede.
E qui Gilson ipotizza una sorta di “filosofia ideale” (quella ordinaria o anche pura) che in via di principio avrebbe il diritto di contenere solo il primo tipo di certezza, e che coincide pienamente con la Ragione naturale. Sta di fatto però che in tal modo si conoscono soltanto le cose naturali esteriori. E quindi, inevitabilmente, il campo della Ragione resta radicalmente separato da quello della Fede. Tuttavia Bonaventura sostiene che, se ciò avviene, è solo perché Dio ci ha dotato di una Ragione che è capace di conoscere le cose naturali.
Ebbene deve essere stato proprio questo ciò che è potuto anche bastare ad alcuni filosofi. Sia in generale sia anche nel concepire una FR. Ad esempio pensatori come Malebranche e Leibniz hanno potuto ritenere la filosofia ordinaria basata su questa Ragione naturale come una vera e propria FR – o meglio una filosofia il cui ambito di azione si estende dalle cose sensibili fino a Dio. Bonaventura ci fa notare però che, anche se questa Ragione ci è stata fornita da Dio, essa non manca comunque di essere fallace, e quindi di produrre fatalmente errori (ossia una fatale incertezza che non si confà per nulla alla conoscenza degli intelligibili).
E quindi essa non è per nulla adatta a conoscere Dio, nel caso del quale noi abbiamo una conoscenza indubitabile proprio perché essa non prevede né può prevedere alcun errore. Ecco allora che la Ragione naturale non basta in ogni caso ed ancor più nel caso della conoscenza di Dio. Dato che in questo caso essa ha bisogno dell’illuminazione divina e quindi di Cristo in persona. Da questa illuminazione scaturisce poi la fede. Ed ecco allora che quest’ultima è semmai una conoscenza più alta e non invece più bassa. Infatti solo con il suo apporto la Ragione raggiunge le verità più alte ed ambite dalla filosofia.
A nostro avviso tutto ciò significa che, per conoscere Dio, è necessaria una Ragione superiore e sovrannaturale. E questa crediamo che sia null’altro che l’Intelletto.
Ecco che allora, quando avevamo visto profilarsi la FR dalla congiunzione tra filosofia e teologia (con la nascita di una teologia filosofica), era accaduto che la Ragione, insufficiente da sola, si era unita alla Fede.
Ed è probabile che proprio questa unione dia luogo alla facoltà dell’Intelletto, che abbiamo visto capace di profonde e possenti constatazioni intuitive, assolutamente certe ed oggettive, di oggettualità avvertite come indubitabili, e senza intanto doversi affatto esporre ad un incerto cammino di riflessione (quello della Ragione) che è invece continuamente esposto al dubbio e da esso minato. Anzi l’Intelletto non compie alcun cammino, bensì invece è un raggio conoscitivo che viene scoccato dalla mente come una freccia, ed in men che non si dica raggiunge il proprio obiettivo. In altre parole esso possiede quella capacità di certezza assoluta e originaria che è soltanto della Fede e non della Ragione – infatti la Ragione al massimo «diviene» certa, mente la Fede «è» certa in partenza.
Bonaventura però almeno formalmente continua a ribadire che la Ragione resta distinta dalla Fede.
Nel senso, però, che con la Ragione non si può credere. Il che però – sulla base di tutto ciò che abbiamo visto finora − non significa affatto che essa possa raggiungere la verità indipendentemente dalla fede.
In questo senso, pertanto, la filosofia si rivela tutt’altro che autonoma, ossia “autosufficiente”. E quindi, ancora una volta, la FR non solo appare essere pienamente giustificata, ma appare anche essere la filosofia per eccellenza. Non vi è infatti una verità più salda e certa se non quella che viene colta grazie alla fede.
E questa, per Bonaventura, non è poi altro che Cristo stesso in quanto ultima Verità dell’Essere.
Il problema non appare essere quindi quello della separazione tra Ragione e Fede (che in via di principio può venire ammessa, ed in una certa misura lo deve anche, almeno formalmente), ma appare essere quello della possibilità reale di una filosofia completamente separata dalla teologia (e quindi priva di qualunque contenuto religioso) proprio in quanto basata su una Ragione che viene ritenuta potere tutto. In questo senso Gilson non esita a dire che Bonaventura “volge le spalle alla filosofia separata” e quindi a quella dei “tempi moderni”. E quindi il pensatore esautora quella che da molto tempo viene considerata in Occidente la definizione stessa di filosofia, e che abbiamo visto riaffermata in pieno da Habermas come assetto definitivo della disciplina. E questo è ciò che Gilson ci mostra essere nient’altro che la realizzazione dell’ideale, nato con in Rinascimento (da Bacone, a Cartesio, Leibniz ed infine Comte), di realizzare un sistema di conoscenze umane completamente unificato, il quale aveva quindi bisogno di essere privo di qualunque contraddizione interna (come quella tra Ragione e Fede) e pertanto aveva bisogno di essere rigorosamente «razionale» in quanto retto unicamente dalla Ragione. E questo era stato del resto lo stesso scopo della filosofia greca specie in quanto “filosofia prima” ossia filosofia scientifico-naturalistica ed insieme metafisica di Aristotele. In fondo, dice Gilson, la stessa teologia razionale (tomistico-scolastica) aveva ambito a questo stesso ideale. Ma intanto aveva compreso perfettamente che la “conoscenza razionale” non è affatto possibile solo dal punto di vista della Ragione. Ed allora non resta che dover supporre che la filosofia retta unicamente dalla Ragione (a sua volta separata rigorosamente dalla Fede) è appena sufficiente per la conoscenza delle cose, mentre invece la teologia (nella sua autenticità e pienezza) tende a cogliere il significato che ogni conoscenza ha nel rapporto che unisce a Dio cose e uomini.
Ed eccoci di nuovo di fronte alla definizione di FR.

2.3 La conoscenza di Dio e le prove della sua esistenza.
Come abbiamo già visto, Bonaventura sostiene che la conoscenza di Dio è perfettamente possibile semplicemente perché la sua esistenza è immediatamente evidente. E se tale conoscenza appare impossibile, ciò accade secondo lui solo perché gli intelletti “troppo carnali” dei filosofi tendono a fermarsi ai dati sensibili senza mai pervenire alla naturale e necessaria conclusione del ragionamento [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 117-129]. Vi è dunque anche per Bonaventura una possibilità reale di conoscenza intellettuale di Dio (CIAD).
Prudentemente egli distingue però tra la conoscenza della natura di Dio − che ci è preclusa perché essa implica la “comprensione” di qualcosa alla quale dovremmo necessariamente essere ontologicamente eguali (come accade per le cose sensibili) – ed “apprensione” di qualcosa nel senso che la sua verità ci diviene immediatamente manifesta. E questo è esattamente ciò che accade per l’esistenza di Dio.
Rispetto a questa possibilità (apparsa sempre inammissibile) sono state sempre sollevate molte obiezioni.
Ma esse sono per Bonaventura facilmente superabili.
Innanzitutto l’esistenza di Dio ci appare manifesta sebbene, in quanto oggetto, ecceda incommensurabilmente i limiti del nostro intelletto. Per di più in essa vi è addirittura un vantaggio rispetto alla conoscenza delle cose, dato che tra il conoscente ed esse vi è sempre una naturale distanza, mentre quest’ultima non c’è affatto tra Dio e l’anima umana, entrambi sostanze intelligibili e quindi profondamente comuni (sebbene su una scala diversa). Inoltre la conoscenza di Dio non è affatto impossibile perché in essa il finito si troverebbe di fronte all’infinito. E ciò perché quest’ultimo non è “di massa”, ossia concernente la grandezza, ma invece è ciò che è a causa della sua assoluta “semplicità” che lo rende “assoluto”. E proprio per questo Dio è presente ovunque (e precisamente “nella sua interezza”) nonostante noi sensibilmente non lo percepiamo. Esso insomma (sebbene Gilson qui non lo dica) non è altro che l’Essere nel quale noi siamo immersi avvertendone immediatamente la presenza ma senza poterlo percepire. Oppure, come dice Guardini [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana: Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89] noi non vediamo né tocchiamo Dio semplicemente perché siamo immersi dentro di Lui essendone così circondati da ogni parte.
È a causa di tutto questo, dice Gilson (cioè molto semplicemente), che il nostro intelletto è capace di conoscere Dio sebbene Egli “ecceda il pensiero da tutte le parti”.
Su questa base il pensatore distingue due forme di conoscenza di Dio: − innata e secondo il principio di causalità (ossia attraverso le creature). Gilson parla anche di una terza forma ma poi è difficile nel testo comprendere in cosa essa consiste.
La conoscenza innata consiste nel fatto che Dio è una verità innata per ogni anima razionale. Il che però non significa che per questa via sia possibile coglierne la natura. Gilson sembra stato perfettamente consapevole dell’argomento bio-evoluzionistico che oggi la FdR (specie quella retta dalla filosofia della mente o cognitivismo) ha fatto completamente suo, sostenendo che l’idea di Dio rientra naturalmente e fisiologicamente nel pensiero umano senza che questo corrisponda per davvero ad un essere divino.
Ma questo per Bonaventura non è affatto conoscenza dell’esistenza di Dio, bensì semmai inganno su di essa, e quindi “idolatria”. Comunque il nucleo di questa conoscenza è la profonda comunanza dell’anima e Dio in quanto entrambi enti intelligibili. Cosa per cui Dio non può che essere presente conoscitivamente nell’anima dato che è presente in essa mentre l’anima è intelligibile a sé stessa. E questo è un po’ il senso semplificato dell’argomento agostiniano. L’espressione «Dio è in noi» (oppure «Dio non ci abbandona mai») significa che noi lo ospitiamo dentro in fondo senza nemmeno saperlo. Anzi spesso dubitando fortemente che sia così. Eppure è sufficiente che prendiamo profondamente contatto con noi stessi in quanto anima per rendere Dio immediatamente presente per mezzo di noi stessi. La nostra stessa anima, insomma, è la presenza di Dio in noi.
E tutti questi sono (come sottolinea Gilson) elementi di una metafisica bonaventuriana profondamente ispirata appunto ad Agostino. Il che significa che secondo lui la conoscenza di Dio coincide sostanzialmente con l’auto-conoscenza. Laddove recentemente noi stessi abbiamo mostrato che quest’ultima è il nucleo di un’autentica Psicologia sacra, ossia una psicologia basata più sulla crescita spirituale che non sulla conoscenza naturalistica della mente [Vincenzo Nuzzo, La psicologia sacra, Victrix, Forlì 2023]. Ancora una volta comunque ciò elimina il problema della sproporzione in grandezza tra l’intelletto umano e Dio (in quanto oggetto), dato che ciò che è all’opera non è una conoscenza in senso ordinario (richiedente la similitudine all’oggetto conosciuto) bensì una conoscenza che è relazione tra due entità; anzi si tratta della relazione tra due persone. E ciò comporta esattamente la conoscenza di Dio per mezzo della Sua esistenza – esistenza ovviamente prevalentemente interiore e come tale certissima (idea innata di Dio).
La seconda via della conoscenza di Dio è per Bonaventura la costatazione del fatto che Dio è Causa di tutte le cose, e quindi questa via passa per le creature sensibili. Nessuna via è però più lontana dalla conoscenza di Dio come oggetto (natura di Dio) dato che Egli è immensamente più che una cosa, ossia è “pura spiritualità”. E quindi questa prova di esistenza è una delle più dimesse e insufficienti quanto a qualità, ed inoltre è non poco riduttiva. Essa è infatti estremamente umile, pochissimo ambiziosa e del tutto anti-intellettualistica. Specie a paragone con la pesante argomentazione logica che invece Tommaso pone proprio a questo punto, cioè nel partire dalle creature sensibili.
D’altro canto però proprio l’umiltà semplice di questa prova rappresenta la convinzione profondamente francescana di Bonaventura secondo la quale “la natura intera proclama l’esistenza di Dio come una verità indubitabile”, e quindi pone nel modo più forte ed esplicito possibile la “presenza di Dio nella natura” stessa. Dato però che né la percezione sensibile né l’argomentazione logica servono a fare questa costatazione, è più che mai evidente che essa stessa deriva in verità dalla presenza dell’idea innata di Dio nella nostra anima. Quindi la specie di evidenza sensibile che deriva dalle creature non è altro, secondo Gilson, che il ritrovamento di questa idea, ovvero di fatto la sua reminiscenza. In altri termini noi soltanto ci illudiamo di vedere Dio nelle cose, anche se è del tutto vero che Egli è presente dappertutto.
In accordo con Anselmo (argomento ontologico) Bonaventura è comunque consapevole di quella “necessità dell’essere divino” che si comunica immediatamente al pensiero. Insomma egli ammette che Dio può venire concepito come evidente in quanto essere del quale nulla è più grande. Ma intanto c’è una via molto più semplice a nostra disposizione ossia quella del semplice pensare Dio, ossia l’idea di Dio – essa lo rende immediatamente esistente allo stesso modo dell’argomentazione antecedente. Ma qui l’interiorità della conoscenza appare essere ancora una volta una risorsa straordinaria, dato che Dio è in primo luogo in un oggetto interiore. Ed in questo, come dice Gilson, letteralmente “l’intelligibile divino aiuta il nostro intelletto a conoscerlo”. Perché se Egli fosse un oggetto esteriore sarebbe così eccedente il nostro intelletto da essere assolutamente inconoscibile. Intanto comunque – è lecito arguire da questa complessiva dottrina – se Dio non fosse presente in modo innato ed effettivo come idea nella nostra mente, noi, in quanto esseri naturali, non potremmo nemmeno lontanamente immaginarcelo. Infatti, comunque si voglia intendere la genetica delle idee, è certo che in Natura non vi è alcun oggetto reale e sensibile che si possa trasformare in noi nell’idea di Dio (passando per i sensi). Non vi è insomma alcuna esperienza mondana che sia capace di contenere un oggetto così infinito e soprattutto incomprensibile ed ineffabile. E quindi da ciò si può dedurre che quella che a prima vista sembra essere una pura fantasia generata dalla nostra mente, invece è esattamente il contrario, e cioè è una reale presenza che si manifesta a noi come qualunque oggetto interiore, ossia come idea, e che, proprio come tale, noi non avremmo mai potuto fabbricare. Insomma Dio è un oggetto nel senso della radicale alterità, e cioè è a noi totalmente esteriore. E proprio come tale ci invade e ci sorprende inimmaginabilmente con la Sua presenza in noi stessi (sebbene non si possa dire in alcun modo «da dove» Egli ci provenga). Di conseguenza possiamo dire che Dio «è costantemente con noi» proprio perché ci è stata da Lui stesso concessa la possibilità di pensarlo – infatti ogni volta che Lo pensiamo, Egli si rende realmente presente a noi. Sebbene intanto nel mondo sensibile circostante non cambia assolutamente nulla. Anzi molto spesso le cose divengono addirittura molto peggiori di quanto erano prima.
Ma, partendo da tutto questo, Gilson deduce il sussistere di due teorie della conoscenza di Dio completamente diverse tra Tommaso e Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., III p. 135137].
Il primo vede infatti l’intelletto posto in relazione al sensibile (come un fascio di luce che illumini) – concependo così la relazione tra interiore ed esteriore che da sempre è stata usuale in filosofia −, mentre in secondo vede una fenomenologia tutta interiore che corrisponde alla produzione dell’anima (in quanto intelligibile simile a Dio) da parte dell’intelletto. E questo significa che non è nemmeno necessario (come fa Tommaso) porsi la questione del se l’esistenza di Dio sia o meno una “res nota”. Perché, se è tale, lo può essere solo attraverso un’inferenza dai sensi, che segue poi inevitabilmente la via (pochissimo autentica) di una “costruzione analogica” operata dal nostro intelletto. L’esistenza di Dio è evidente invece in un modo del tutto indipendente dall’azione del nostro intelletto a partire dal sensibile, ossia come idea che è già presente nella nostra mente, e quindi non è in alcun modo provenuta dal mondo oggettuale sensibile.
In tal modo Bonaventura contraddice frontalmente la genesi delle idee a partire dal mondo sensibile che venne concepita soprattutto da Locke [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022], sebbene poi vedremo che in parte la ammette. E qui diviene utile il confronto con la teoria delle idee di Malebranche, la cui visione almeno in questo è estremamente simile a quella del nostro pensatore [Niccolò Malebranche, Pensieri metafisici…cit, I, 2-9, p. 19-21, I, 11-16, p. 21-25, III, 373, p. 25, I, 73-81, p. 26-31, III, 116-117, p. 31-33, I, 20-23, p. 33-35, IV, 393-395, p. 39-40, I, 8-9, p. 40-41, III, 413-415, p. 58-60, (III, 420-421, 425-426, p. 99-102; Nicolas Malebranche, Conversazioni cristiane…cit., III, p. 44-67].
Per Bonaventura, insomma, Dio non si costruisce ma si semplicemente si trova. E si trova perché Egli stesso si lascia trovare essendo a noi infinitamente più vicino di quanto possiamo mai immaginare.
Insomma Dio non è un’idea che venga dalle cose (e nemmeno dall’azione della nostra stessa mente) ma si rende presente in maniera del tutto originaria nella nostra anima, ossia senza alcuna provenienza riconoscibile. Il che sottolinea poi la sua assoluta libertà e volontà nel compiere questo atto. Il quale è infatti un atto di puro amore.

2.4. La dottrina delle Idee applicata da Bonaventura al Cristianesimo (esemplarismo). Aristotele e Platone.
L’intera dottrina delle idee alla quale si riferisce Bonaventura si concentra nel suo nucleo metafisico-religioso, e cioè nel concetto di Dio come Causa prima di ogni cosa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 140-141]. Come tale esso è la “sostanza universale increata” che è il “il punto di partenza di tutte le cose”, ovvero (in termini causalistici) è la causa efficiente. Da un altro punto di vista Egli è il principio, il mezzo e il fine di tutte le cose. Questo significa però che Egli è causa in quanto modello e precisamente la “causa esemplare” di tutte le cose, ossia l’idea intesa quale modello. Dio insomma è l’Idea stessa (quale modello).
Il Prof. Reale, nell’analizzare la teoria delle idee di Platone, aveva visto proprio in questo una tra le particolari valenze attribuite all’idea dal pensatore ateniese [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. Che però ne ha anche altre. E rimandiamo per questo ad una serie di nostri scritti su Platone e sul platonismo [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018, p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, p. 41-68; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016]. Pertanto è evidente che almeno in questo il pensiero di Bonaventura intercetta uno dei momenti più alti e geniali del pensiero di Platone. E tuttavia Bonaventura non sta pensando alla dottrina delle idee di Platone, bensì in primo luogo a Dio come Causa di tutte le cose. La visione di Platone è dunque per lui appena un mezzo per esprimere idee sostanzialmente cristiana. Non è invece per lui una dottrina alla quale egli dichiari l’appartenenza.
In ogni caso è evidente che (esattamente secondo la visione di Platone) la valenza di modello delle cose fa dell’idea ciò in cui assenza la cosa non avrebbe mai avuto né forma né esistenza né individualità. Non solo, ma Gilson sottolinea qui anche la portata teoretico-conoscitiva del concetto di idea-modello – perché in forza di esso noi non conosciamo mai “cose” ma invece solo idee. E questo ci riporta di nuovo decisamente alla dottrina delle idee impiegata da Malebranche.
E quindi è chiaro che con ciò stiamo parlando di un Principio assolutamente primo. E questo Principio è assolutamente trascendente, affermando così, con il suo esistere ed agire, che il mondo immanente dipende strettamente da quello trascendente. E questa è ancora una volta un’affermazione non solo cristiana ma anche integralmente e fortemente platonica. Il pensatore ateniese riteneva infatti che soltanto il mondo delle cose ideali (trascendente), cioè il mondo delle idee, era davvero dotato di realtà. Cosa che possiamo dedurre direttamente dal Fedone [Platone, Fedone, Laterza, Roma-Bari 2000, I, XLIX p. 127] ed inoltre è stata constatata in modo chiarissimo da molti suoi antichi successori (Proclo) ed interpreti moderni (tra i qiali alcuni cristiani come Guardini) [Giovanni Reale, Il «Platone» di Friedländer: la sua importanza e la sua portata storico-ermeneutica, in: Paul Friedländer, Platone… cit., 2 p. XI-XII; Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano 2005, IV, 6-8, 22.10-27.5 p. 483-487; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 255-256: Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 5 p. 149-150; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 131-154; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236; Pieter D’Oine, “The metaphysic of ‘divided line’ in Proclus: a sample of pythagorean theology”, J. of the History of Philosophy, 56 (4) 2028, 575-599]. E questa realtà coincideva totalmente con la verità. Checché ne dicano i critici tale visione lega quindi molto fortemente Bonaventura al pensiero di Platone (e ciò perfino oltre le intenzioni del pensatore). Ovviamente però in quest’ultima mancava sia la concezione di un Dio personale sia la sua collocazione al di sopra del mondo delle idee. Tuttavia evidentemente – aldilà di queste differenze teologico-confessionali − non vi è poi molta differenza tra l’affermare che l’idea è modello perché è la vera Realtà ed è modello in quanto è Dio come Causa di ogni cosa. Non a caso entrambe queste idee ci riportano alla dottrina del Logos come origina remota di tutte le cose. Pertanto possiamo dire che Bonaventura è stato di fatto un platonico anche senza volerlo esplicitamente.
Tuttavia, sebbene tutto questo leghi decisamente Bonaventura a Platone – distanziandolo invece decisamente da Aristotele (cosa che qui Gilson sottolinea fortemente specie a proposito del ruolo e valore del mondo trascendente verso quello immanente) −, almeno per il commentatore non configura un «platonismo» (aperto ed esplicito) del pensatore, ma invece delinea molto più una delle forme della metafisica cristiana, e cioè il cosiddetto “esemplarismo”. Dottrina che pare Bonaventura considerasse non solo la più autentica e pregevole metafisica cristiana (in quanto più fedele alla Rivelazione specie per mezzo della Creazione) ma anche la più autentica e pregevole metafisica in assoluto. Oltre a ciò Gilson sottolinea la distanza che vi è tra Bonaventura e Platone a causa del fatto che il primo sostiene il concetto dell’idea come modello rifacendosi unicamente alla dottrina rivelazionale del Verbo incarnato (idea passibile di trasformazione in cosa), dottrina della quale Platone non avrebbe mai potuto sapere nulla dato che la sua visione filosofica si basava unicamente sulla Ragione naturale. Questo è però ciò che dice Gilson. Se invece si legge Friedländer si potrà constatare che le idee di Platone erano molto più profondissime e fulminanti visioni contemplative ed intuitive che non invece costrutti razionali-naturali. Un esempio per questo è la sua dottrina dell’”Arrheton”, ossia il profondissimo (centrale) ed altissimo (verticale) Indicibile che per lui fondava l’intera realtà [Paul Friedländer, Platone… cit., I, I, III p. 77-88, II, IA, 1 p. 419-429]. E del resto abbiamo appena visto che – sebbene in modo solo implicito – la dottrina delle idee-modello di Platone riconduce direttamente alla dottrina del Logos cristico.
Tra l’altro Gilson sottolinea anche che per Bonaventura la realtà di Dio come Causa-Idea era il culmine stesso della metafisica, oltre il quale si entrava nel campo della conoscenza della sua natura o essenza (Trinità), e quindi rappresentava un limite assoluto della conoscenza di Dio. Di nuovo quindi viene contraddetto da Bonaventura quanto sostiene Bérard della conoscenza dei misteri cristiani. Tuttavia è davvero difficile comprendere chi dei due abbia ragione.
Ma il concetto di Dio-Idea comporta anche quello della relazione esistente tra Dio e la molteplicità delle idee corrispondenti alle cose (altro aspetto fondamentale della dottrina platonica delle idee). E così procediamo oltre nella comprensione dell’impiego bonaventuriano di questa dottrina. Qui è infatti implicato il problema della conoscenza di sé stesso da parte di Dio, atto fulmineo e totalizzante nel contesto del quale egli viene a conoscere tutte le idee che si trovano in Lui [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 142-143]. Si tratta insomma di un’altra forma di descrizione di Dio come «Atto puro», ossia unità immediata di potenza ed atto. E di nuovo così siamo di fronte al fenomeno dell’auto-conoscenza o conoscenza interiore, entro la quale il soggetto equivale all’oggetto, e quindi in esso insorge necessariamente quella che Gilson chiama “somiglianza”. Laddove quest’ultimo concetto ci riporta di nuovo molto direttamente alla valenza di modello dell’idea.
Con tutto ciò si delinea quindi una conoscenza completamente diversa da quella esteriore. Nella quale l’oggetto esteriore è qualcosa che viene ad aggiungersi al campo conoscitivo eccedendo così la presenza del soggetto ed inoltre rappresentando necessariamente qualcosa di diverso (alieno) rispetto ad esso.
Nella conoscenza interiore non vi è invece nulla di tutto questo, dato che Dio è un oggetto interiore, e quindi in questa sede non vi è nulla di diverso tra soggetto ed oggetto. Ora, posto tutto questo e ritornando allo schema della produzione della cosa da parte dell’idea, ne risulta che, nel corso di quell’atto creativo divino che è anche atto auto-conoscitivo, si verifica un fenomeno di “espressione” del Dio-Idea (Verbo in quanto contenente la molteplicità delle cose ossia tutti i “possibili”) che costituisce necessariamente anche un fenomeno di “somiglianza”. E quest’ultimo fenomeno riproduce poi immediatamente la relazione esistente tra idea e cosa che sussiste nell’idea come modello. Ne risulta che, con la creazione, l’intera Natura si sforza di somigliare al suo Creatore che contiene a sua volta tutte le idee corrispondenti alle cose esistenti (che esse siano state già create o debbano ancora esserlo). Quindi esprime ciò che Dio è: − Verbo.
Con questa dottrina ci troviamo quindi al cospetto della più generale dottrina della «presenza di idee creative nella mente divina», modello che è stato costantemente presente nella metafisica cristiana ed è stato impiegato in modi diversi dai più diversi pensatori. E tra questi vi fu peraltro anche lo stesso Tommaso, che, almeno in questo, fu non anche platonico [Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, III, p. 103-107].
Vedremo però che Bonaventura solo adombrò questa dottrina ma si rifiutò di accettarla nella sua integralità. Però è certo che, se lo avesse fatto, sarebbe dovuto venire definito come effettivamente platonico.
Ebbene con tutto ciò perveniamo secondo Bonaventura ad un altro culmine della metafisica – la somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di idea-modello che caratterizza Dio) è l’espressione del Padre per mezzo del Figlio, il Verbo. Ma con ciò abbiamo anche un punto di appiglio molto forte all’ontologia di nuovo per mezzo del fenomeno dell’espressione – l’essere (il mondo) non è altro che l’auto-rappresentazione di sé stesso da parte di Dio in quanto infinita possibilità di cose. Sta qui dunque il vero principio dell’Essere – le cose “possono essere” (e saranno, cioè esisteranno) in forza delle possibilità (ideali) contenute nell’”essere infinito” che è Dio. Il quale non ha che da pensarsi in un sol colpo perché l’Essere sussista in un sol colpo.
Successivamente Gilson si addentra in un chiarimento dell’espressione del Verbo per mezzo del tema rivelazionale della “Parola”. Ma per questo rimandiamo il lettore al libro.
Ciò che è importante sottolineare è invece che Bonaventura fu perfettamente consapevole che non si può parlare di un’effettiva presenza di idee entro l’Essere di Dio (dato che Egli è assoluta e inscindibile unità), ossia nella Sua essenza, ma solo invece a livello immanente [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 148-151]. E questa precisazione fa di lui un pensatore che sfugge decisamente alla visione platonica più integrale; specie perché egli si rifiuta di ammettere l’identità ontica tra il «mondo delle idee» e la realtà di Dio.
La molteplicità delle idee dunque non significa altro che l’espressione divina (a partire dalle idee) si pone in relazione alle cose e non invece a Dio stesso (nella sua essenza). La molteplicità delle idee sussiste insomma unicamente in relazione alla pluralità delle cose. Ne consegue che la molteplicità delle idee può aumentare all’infinito in ragione della molteplicità del reale che essa deve esprimere. Pertanto l’espressione viene richiamata dal basso (nel mentre invece è convergente in direzione dell’alto e del vertice, cioè verso l’Unità divina). Cosa che avviene (come in Aristotele) lungo la linea di sviluppo di individui-specie-generi.
E questo significa che allora la dottrina della presenza di idee creative in Dio non è in fondo altro che una metafora per rendere comprensibile l’ineffabile.
Questo è vero però solo apparentemente. Infatti, dall’altro lato, è anche vero che per Bonaventura l’Unità divina costituisce la Verità delle cose. E quindi in questo senso per davvero esistono idee nella mente divina che l’atto divino di auto-conoscenza coglie in un sol colpo. Ecco allora che è del tutto secondaria la molteplicità di idee colta appena in rapporto alle cose, mentre invece è assolutamente primaria la molteplicità di idee (sebbene solo metaforica, in quanto esprimente le infinite possibilità del tutto ideali delle cose) primaria nella mente divina.
Gilson ricollega comunque questa problematica alla concezione della “scienza divina” in Bonaventura [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 152-156]. Laddove quest’ultimo (differenziandosi così decisamente da Malebranche) si rifiutò categoricamente di ritenere che questa scienza dipenda dalle cose esistenti. Invece le idee corrispondono integralmente all’Essere divino stesso. E quindi Dio, nel Suo conoscere, non fa altro che conoscere sé stesso. Ed ecco che di nuovo si delinea il fenomeno della somiglianza – perché la conoscenza di Dio da parte dell’uomo (e di sé stesso da parte di Dio) assomiglia alle cose non perché le imiti ma solo perché le esprime. Il che significa che la valenza di cose che le idee hanno è in verità unicamente trascendente e non immanente. Cosa che di nuovo si concilia perfettamente con la dottrina di Platone, secondo la quale le idee quali cose rappresentano quella vera Realtà che è solo trascendente.
Ne risulta che per Bonaventura non può esistere nulla di simile all’«analogia entis» tomistica (la quale, aristotelicamente, inverte la somiglianza tra idee e cose, facendola partire dall’immanente invece che dal trascendente). Inoltre a causa di tutto ciò la scienza divina condiziona l’essere delle cose in quanto radicalmente anteriore ad esse, e quindi può modificarle senza prendere in alcun modo parte al loro continuo cambiamento. È evidente anche che l’atto conoscitivo divino avviene totalmente nell’eternità e non invece nel tempo.
Da tutto ciò appare evidente che l’impiego della dottrina delle idee fa solo apparentemente di Bonaventura un platonico (sebbene abbiamo visto che ci sono anche momenti forti di tale prossimità di pensiero). Senz’altro essa lo distanzia infinitamente da Aristotele − del quale non a caso egli condannò decisamente la critica alla dottrina platonica delle idee (e proprio per questo vide nell’aristotelismo un luogo di “fitte tenebre” dottrinarie) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., IV p. 141] − ), ma intanto lo approssima unicamente alla portata platonica che ha la Rivelazione cristiana in alcuni suoi aspetti come la dottrina del Verbo. Quindi semmai possiamo dire che il pensatore rappresenta uno dei momenti più alti di un platonismo profondamente riveduto e corretto dal Cristianesimo – la cui metafisica non coincide affatto integralmente con quella del pensatore ateniese, sebbene abbia con essa molte tangibili affinità.
Ma del resto Bonaventura si distanza tanto da Aristotele che da Platone nella sua dottrina della creazione [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VI p. 175-190]. In essa infatti egli considera un vero e proprio sproposito metafisico concepire (come avviene in Platone) l’esistere di una materia senza forma eterna che poi prenda forma ad opera delle idee.
In ogni caso (come avviene anche in Malebranche) Bonaventura deve venire considerato platonico (che egli lo abbia voluto o no) dal punto di vista teoretico-conoscitivo – la conoscenza ha infatti come proprio oggetto le idee e non le cose, e conseguentemente le idee non provengono affatto dalle cose.
Vedremo però più avanti che questa dottrina bonaventuriana è abbastanza più diversificata di quanto possa sembrare in base a quanto abbiamo appena detto.

L’esposizione di questa intera dottrina va completata però con la discussione di una dottrina dell’analogia che potremmo considerare opposta a quella di Tommaso, e che forse rappresenta anche il contesto più ampio in cui vanno collocate la dottrina delle idee e quelle della somiglianza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 191-195]. Peraltro Gilson la definisce immaginifica e simbolica, e quindi una dottrina che sembra essere più poetica che non rigorosamente filosofica.
In generale si tratta del fatto che (in perfetta coerenza con la dottrina dell’idea-modello e con quella della somiglianza) il mondo creato viene considerato come qualcosa che mostra chiaramente impresse in sé le tracce della presenza e dell’azione divina. Dal punto di vista metafisico la questione si interseca con la discussione sull’Essere divino, a sua volta legata alla dottrina della creazione dal nulla – con al centro la questione del se l’Essere divino crei il nuovo, aggiungendo così ulteriore essere al proprio (e dimostrando così l’insufficienza di quest’ultimo), o se invece l’Essere divino produca la creatura a partire dal proprio stesso essere (esponendosi così alla divisione ed allo svuotamento). Ma tutte queste discussioni (sostanzialmente critiche) sfuggono, dice Gilson, alla riflessione medievale nella quale si pone pienamente quella di Bonaventura. Ed ancora una volta il paradigma platonico di pensiero appare qui decisivo, dato che, una volta posta la difettività ontologica del mondo delle cose (immanenza) rispetto a quello delle idee (trascendenza), allora appare evidente che le appena citate discussioni sull’Essere divino riguardano in verità solo quello mondano (il solo passibile di diminuzione ed aumento etc.). Ma proprio questo atto filosofico ci rivela che in verità noi guardiamo all’universo sulla base di un’analogia, a causa della quale ciò che è immanente assomiglia a ciò che è trascendente. L’analogia è quindi un movimento dall’alto al basso (secondo il fenomeno della somiglianza) e non dal basso all’alto (lungo la linea dell’inferenza pensante).
Per la precisione, però, non si tratta di un’analogia “equivoca” (entro la quale l’essere trascendente venga concepito sul modello dell’essere immanente o “universo dato”, come del resto in qualche modo avviene entro l’«analogia entis»), bensì si tratta di un’analogia “univoca”. E quest’ultima giunge fin quasi alla perfetta “identità” esistente tra l’essere immanente e quello trascendente, senza che però il secondo si riduca mai al primo. Proprio per questo l’identità è in verità impossibile a causa della radicale diversità dell’essenza mondana da quella divina, in forza della quale poi il mondo non deriva per davvero da Dio (come nel paradigma emanazionista) ma appena gli assomiglia. Questo è insomma il senso profondo della creazione. La creazione si compie quindi secondo il paradigma della somiglianza. Cosa che genera una profonda discontinuità tra l’Essere divino ed il mondo.
Ecco allora che il concetto di somiglianza (a sua volta dipendente dalla natura di modello dell’idea rispetto alla cosa) finisce per appaiarsi a quello di “analogia universale”.
Ma questo complessivo assetto genera comunque per Bonaventura una realtà dominata dai “rapporti” esistenti costantemente tra trascendente ed immanente. Il che ci riporta molto suggestivamente ad Eckhart, ossia alla continuità ineffabile che egli intravvede tra trascendente divino ed immanente umano-mondano e che si riassume poi nei concetti di “nascita divina”, di creazione continua e di profonda identità ontico-dinamica tra Dio e uomo [Meister Eckhart, in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, Predica 1 (S 87) p. 5.13, ibd. Predica 5 (Q 22), p. 63-79, ibd. Predica 13 (S 102), p. 186-203, ibd. Predica 14 (S 90), p. 207-215, ibd. Predica 55 (Q 80), p. 761-769; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München 2014, Einl, p. 17, I, 2 p. 41-43, I, 3 p. 50, III, 13-14 p. 123-131 IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174].
E proprio in forza di ciò si spiega per Bonaventura la natura e struttura della creatura, ossia del prodotto divino di ciò che è immanente e mondano [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., VII p. 198-206]. Ecco allora che egli (adombrando fortemente Proclo) distingue tre livelli creaturali a secondo della loro decrescente grado di lontananza dalla Causa divina: − “ombra”, “vestigio”, “immagine”. L’immagine è quella meno lontana dalla Causa divina e rappresenta per la precisione l’anima. In ogni caso egli distingue l’immagine in qualitativa e quantitativa, laddove questa seconda esprime molto meno l’essenza o idee, limitandosi a riprodurre (ma molto alla lontana) appena la struttura della realtà trascendente. Quindi l’immagine qualitativa si presta molto meglio ad esprimere l’idea trascendente divina che si manifesta nel mondo. L’anima è quindi la più alta e nobile espressione creativa di Dio. Non a caso Egli soggiorna in noi proprio in quanto ha infuso in noi (in via di principio enti unicamente naturali) la sostanza spirituale costituita dall’anima.
Anche questa complessiva dottrina dell’analogia ci mostra pertanto nel pensiero di Bonaventura qualcosa che è fortemente influenzato dal platonismo, ma non senza una serie di limiti e correttivi (spesso addirittura contraddicenti Platone) che derivano dal suo scrupoloso riferirsi alla sola Rivelazione cristiana.
E questo conferma sicuramente la natura di autentica FR che questo pensiero costituisce, dato che esso non lo sarebbe se si rifacesse invece semplicemente ad un pensatore mondano come Platone.

2.5 Assetto e ruolo della metafisica in Bonaventura.
Riguardo a ciò ci sono prima di tutto da ricordare alcuni aspetti dei quali abbiamo già trattato.
Innanzitutto appare chiaro che per Bonaventura non vi è FR senza una profonda riflessione metafisica.
Ed in essa vengono decisamente superati i limiti della Ragione naturale ai quali invece si attiene scrupolosamente la filosofia non religiosa. Questo superamento dei limiti della Ragione naturale non implica però per lui la possibilità di una conoscenza di Dio che si addentri nei misteri della sua natura.
Infatti la sua metafisica impone a sé stessa dei precisi limiti in questo senso. Da tutto ciò risulta che, quando la FR perseguita da Bonaventura si rifà alla Rivelazione (come suo punto di partenza e suo oggetto di riflessione), intende con questa anche una materia sublimemente metafisica, ma comunque non oltre certi limiti. Abbiamo già visto però che Bérard ci indica una prospettiva completamente diversa. Egli infatti intende la metafisica come quella forma di conoscenza che per definizione penetra profondamente nei misteri divini. E proprio per questo essa contraddice ogni principio logico (specie quello di contraddizione) dato che pensa delle realtà (come quella trinitaria) entro le quali la contraddizione logica è la regola.
Abbiamo anche visto che Bonaventura impiega nella sua metafisica un concetto di analogia universale che differenzia questa dottrina dal suo versante enticista di stampo scolastico-tomista, ricollegandosi quindi molto più al ruolo e valore assegnato da lui all’idea trascendente come autentica dimensione divina posta alla radice di qualunque cosa del mondo.
A ciò si aggiunge però infine il versante in gran parte teoretico-conoscitivo della sua metafisica, e cioè quello riguardante anima ed intelletto. E qui usciamo decisamente da una metafisica che concerna anche lontanamente i misteri divini per entrare in un campo in cui ciò che si compie è una conoscenza metafisica dei fenomeni e degli enti della Natura. Si tratta insomma di una conoscenza metafisica della fisiologia della Natura, e quindi si tratta in fondo una scienza empirica illuminata dalla metafisica (molto simile a quella di Suárz). Ci troviamo insomma nel campo in cui il pensiero bonaventuriano venne probabilmente influenzato di più dalla metafisica scientifico-naturalistica e pragmatica di Aristotele.
Non crediamo che valga la pena di soffermarsi molto sul concetto bonaventuriano di anima qui discusso da Gilson; che appare venire da lui mutuato in gran parte da Agostino, e quindi (per via piuttosto indiretta) anche da Platone. Non a caso la sua dottrina entra in conflitto in molti punti con quella tomista, mutuata invece da Aristotele.
Gilson conduce comunque un discorso metafisico piuttosto complesso su come Bonaventura intenda le facoltà o funzioni dell’anima, del quale però riteniamo utile riportare soltanto alcuni aspetti più rilevanti.
Proprio la distanza esistente dalla dottrina dell’anima tomista (enticista e naturalista sul modello di Aristotele) fa si che Bonaventura sottolinei l’insuperabile differenza ontica (differenza di essere) che vi è tra Dio e l’anima umana, nonostante Egli l’abbia creata e le abbia anche concesso il privilegio straordinario della conoscenza e dell’intelligenza [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII p. 293-300]. Dio in quanto Essere ha quindi per lui una relazione con l’anima solo in quanto è Causa esemplare (e non invece di continuità ontologica). Il che implica qui inevitabilmente la dottrina della creazione dal nulla – dato che, se Dio non trae l’anima dal proprio stesso Essere, deve necessariamente prenderla da fuori di sé, e dunque da quel Nulla che egli poco a poco trasforma in Essere. E naturalmente questo esclude la possibilità che in Bonaventura si possa trovare qualunque trattazione dell’anima (spesso emergente invece in Tommaso) come una sorta di sostanza universale immanente che impregni di sé tutti gli esseri viventi dato che manifesterebbe direttamente la presenza divina nella Natura – ossia come una sorta di animicità diffusa delle cose − cosa che poi giustifica la supposizione di una sorta di intelligenza intrinseca (“intelligent design”) presente immanentemente nella Natura (in quanto infusa in essa da Dio) e quindi operante in modo autonomo [Marie George “What Would Thomas Aquinas Say about Intelligent Design?”, Blackfriars, 94 (1054) 2013, 676-700].
In ogni caso anche lui vede nell’anima una sostanza vivificante e movente; solo che la Vita non si identifica in essa con la propria sostanza, e quindi l’anima non la possiede affatto ma essa invece le proviene da fuori cioè da Dio («ab alio»).
Per il resto egli concepisce l’anima in una maniera piuttosto usuale per la metafisica antica (sia cristiana che pagana), e cioè come una sostanza provvista di materia e forma; e, come tale, caratterizzata da un certo grado di stabilità a sua volta in relazione alla sua capacità di sussistere da sola («subsistenza») ed inoltre di subire solo a livello materiale la mutevolezza dell’essere. Questa è quella che in qualche modo costituisce la tendenziale spiritualità dell’anima e quest’ultima sta poi fortemente in relazione con la sua individualità (che non dipende invece affatto dalla materia, o corporeità, anche se la presuppone). Naturalmente questi caratteri stanno in relazione con il carattere tipico dell’immortalità dell’anima. E l’intero insieme, come giustamente sottolinea Gilson, fa di quella bonaventuriana una visione ben degna di comparire nel contesto del tipico personalismo cristiano.
Abbastanza significativa è comunque è la differenza tra Bonaventura e Tommaso nel concepire l’anima come «forma corporis». Questo perché per il primo essa è già insieme di forma e materia, mentre per il secondo è unicamente una forma che trova la propria materia (da formare) unicamente nel corpo. Ne consegue che, almeno secondo Gilson, l’anima è una sostanza (e dunque è qualcosa di onticamente superiore) solo per Bonaventura, ma non lo sarebbe per Tommaso. Questa però ci sembra una conclusione abbastanza discutibile, dato che (notoriamente) per Tommaso l’anima è comunque la sostanza che impregna di sé l’intera Natura, ossia è il fondamento insieme metafisico e vitale di quest’ultima.
Altro rilevante aspetto della metafisica bonaventuriana è per Gilson quello legato all’intelletto, nel contesto del quale si ritrovano poi (ancor più che a proposito dell’anima) tutti gli elementi della teoria della conoscenza: − sensi, immaginazione, ragione etc. Eccoci dunque chiaramente di fronte ad una trattazione metafisica della Natura dal punto di vista teoretico-conoscitivo. Gilson ritiene comunque la teoria dell’intelletto uno degli aspetti più tipici e rilevanti della metafisica cristiana (insieme all’esemplarismo) [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 317-318]. E tuttavia va detto che questa metafisica è stata sempre commista ad elementi che oggi rientrano nella fisiologia del sistemo nervoso e della mente, e che invece allora rientrava nello studio delle facoltà dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, I p. 318-326].
Il più elementare di questi elementi è quello dei sensi, a quel tempo posti a loro volta in rapporto con relative facoltà o funzioni dell’anima. Qui il discorso di Gilson si fa abbastanza complesso perché tocca la domanda circa l’identità o meno di tali facoltà con la sostanza animica. E a tale riguardo le opinioni furono troppe per poter venire ri-discusse in questa sede. Ciò che conta è però che Bonaventura ritenne (secondo la tradizione agostiniana) che le facoltà animiche fossero appena degli accidenti, che quindi andrebbero sempre ridotti alla vera sostanza ad essi sottostante, che è solo l’anima. Tali facoltà o funzioni sono principalmente memoria, intelligenza (o intelletto) e volontà. Si tratta insomma delle facoltà dell’anima razionale (legate propriamente al conoscere). Quelle invece dell’anima vegetativa e sensitiva (vegetare, muovere, sentire) sono di ordine decisamente secondario ed inferiore (in quanto legate alla funzione basica del sentire), e quindi per Bonaventura devono interessarci meno. Sono esse infatti quelle che restano legate strettamente ad un organo corporeo (quello che oggi conosciamo come organo di senso), mentre le funzioni superiori non lo sono affatto. In ogni caso questi due livelli funzionali (conoscere, legato al pensiero) e sentire (legato al corpo) sono entrambi in grado di cogliere le famose “specie sensibili” che esistono nella materia degli oggetti.
A causa di questo (ossia in relazione al livello ontologico delle specie sensibili che possono cogliere) i sensi vanno per Bonaventura ordinati gerarchicamente secondo un valore decrescente: − vista, tatto, gusto, udito, olfatto.
Ma per lui non raggiungiamo il livello più rilevante delle funzioni animiche se non ci soffermiamo sull’intelletto. Qui Gilson sviluppa una discussione sulla relazione tra intelletto agente ed intelletto possibile che ancora una volta vede opinioni molto diverse che non possono venire qui riportate [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II, p. 336-343]. E ricordiamo al proposito che Dietrich von Freiberg (ispiratore ed amico di Eckhart) fu uno dei protagonistici di questa dottrina [Dietrich von Freiberg, Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980]. Va detto quindi soltanto che Bonaventura prese in considerazione questi due aspetti dell’intelletto non tanto come diversi e gerarchicamente ordinati, quanto piuttosto come coordinati tra loro in modo tale che l’intelletto agente di fatto fornisce all’intelletto possibile il potere di agire e non solo invece di patire. Dal punto di vista metafisico il tema è comunque rilevante perché implica la determinazione del luogo in cui l’essere umano riceve l’”illuminazione intellettuale” da parte di Dio; in modo tale da poterlo poi conoscere ed inoltre anche conoscere le ordinarie verità. E comunque Bonaventura esclude qualunque illuminazione diretta dell’anima da parte di Dio, dato che essa porrebbe in continuità i due termini. Cosa per lui inammissibile. Il che ancora una volta ci permette di cogliere la grande distanza che lo divide della dottrina onto-intellettualista (pensatori tradizionalisti) della conoscenza di Dio – entro la quale tale conoscenza è pienamente possibile fino alle sue estreme conseguenze, dato che Dio ed uomo sono essenzialmente entrambi sostanze intellettuali. Oltre a ciò egli (mantenendosi nella scia della tradizione agostiniana) ritiene l’anima attiva quanto lo è lo stesso intelletto possibile una volta che abbia ricevuto potere dall’intelletto agente.
È su questo registro che continua la discussione da parte di Gilson delle varie prese di posizione dei filosofi del tempo (sulla quale però non ci soffermeremo). Interessante è comunque la dottrina di Bonaventura riguardo all’azione dell’intelletto rispetto agli oggetti. In tale contesto alcuni filosofi del tempo (risalendo quasi direttamente a Platone) ritengono la conoscenza “innata”, e non “acquisita”, perché essa ha come proprio oggetto le idee degli oggetti (a quel tempo menzionati come “principi primi” o anche “universali”) e invece non gli oggetti sensibili e reali in carne ed ossa [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, II p. 342-351].
E qui ci troviamo di nuovo direttamente al cospetto di Malebranche. Ma il Bonaventura pienamente aristotelico (e quindi pragmatico scienziato della Natura e studioso di fisiologia) non è affatto di questa opinione allorquando la conoscenza riguarda effettivamente il mondo esteriore. In questo caso infatti gli sembra assolutamente ridicola una conoscenza puramente ideale degli oggetti, e ritiene quindi strettamente necessario l’intervento dei sensi (sia pure rappresentanti l’intelletto possibile) che estraggono le specie sensibili dagli oggetti esistenti. Solo che questa è per lui una conoscenza solo confusa e generica del mondo di cose, e non certo invece la conoscenza della loro essenza – con la quale sconfiniamo invece decisamente nel mondo dell’’intelligibile. Egli ammette però che senz’altro innato è lo strumento necessario per questa complessiva conoscenza, ossia l’intelletto. Naturalmente, di converso, per lui non è assolutamente per la via sensibile che è possibile conoscere gli intelligibili, ossia i principi primi. Per essi egli invoca pertanto una conoscenza per nulla sensibile e tutta invece meditante e pensante (dunque esclusivamente interiore), ossia una conoscenza che si avvale per essa unicamente delle idee. E qui egli converge nuovamente con Malebranche ed in gran parte anche con Platone. Tale conoscenza è quindi per lui giocoforza innata. In altre parole noi possediamo già fin dalla nascita dentro di noi le idee delle cose, ed esse quindi non ci provengono (come pensarono pensatori come Tommaso e Locke) affatto dai sensi e quindi dagli oggetti. Tuttavia esse agiscono comunque nel contesto della conoscenza sensibile. Infatti, laddove si conosce sensibilmente un oggetto corporeo, esso (per mezzo dell’intervento della relativa idea innata) viene sollevato dall’opacità che affetta sempre la conoscenza sensibile ed acquista così la chiarezza luminosa dell’intelligibile. Il che avviene per mezzo di un’”immagine” dell’oggetto da noi costruita interiormente sulla base della sollecitazione sensibile. Questa immagine richiede però l’idea per poter insorgere. In tal modo veniamo a conoscere l’essenza della cosa, sia pure in modo mediato. Diversamente stanno le cose invece per gli enti incorporei che vengono colti da noi immediatamente come intelligibili (quindi in assenza di qualunque immagine).
E tra questi Bonaventura menziona soprattutto l’anima e Dio. È esattamente per questa via che riemerge quindi il tema cruciale della conoscenza di Dio in quanto idea presente nella nostra mente in maniera giocoforza innata (dato che non ci proviene dal mondo sensibile). E (come abbiamo già visto) in questa sede Bonaventura sviluppa la conoscenza di Dio lungo la falsariga della dottrina agostiniana, ossia in relazione alle facoltà conoscitivo-animiche (intellettuali) superiori di memoria, volontà ed amore. E naturalmente è implicata qui di nuovo l’autoconoscenza – l’uomo ama Dio al quale è simile (nella stessa struttura della propria mente, che è trinitaria), in quanto, ricordandosi di sé stesso e volendo naturalmente amarsi, finisce per amare anche il Dio che soggiorna in lui in quanto idea innata.
Il discorso di Gilson sulla dottrina teoretico-conoscitiva di Bonaventura continua poi nuovamente toccando aspetti fisiologici della funzione gnoseologica dell’anima [Etiénne Gilson, La filosofia di san Bonaventura… cit., XII, III p. 352-361]. Anche da questo discorso estrarremo solo ciò che più direttamente ci interessa. Qui si delinea infatti una “ragione superiore” che coglie sempre oggetti superiori anche quando è rivolta ad oggetti inferiori, e quindi di fatto in tutto riconosce Dio. La “ragione inferiore” resta invece legata si soli oggetti inferiori. Ed in relazione a questo tutte le facoltà dell’anima possono quindi venire distinte considerando una conoscenza degli oggetti indiretta ed imperfetta in quanto totalmente riflessa (“per speculum”) oppure diretta (“in speculum”) in quanto riconosce nello specchio gli oggetti così come sono nella loro integralità. Ecco di nuovo la conoscenza degli oggetti intelligibili. Su questa base poi Bonaventura finisce per differenziare due sovrapposti livelli intellettuali superiori al livello dei sensi: − lo spirito (“spiritus”) e la mente (“mens”).
Il primo (spirito) sarà ragione (“ratio”) se conosce “per speculum”, e invece intelletto (“intellectus”) se conosce “in speculum”. Il secondo (mente) sarà intelligenza (“intelligentia”) se conosce “per speculum”, e invece “apex mentis” o “synderesis” se conosce “in speculum”.
Ecco insomma qui descritta di fatto la differenza esistente tra la Ragione e l’Intelletto. Laddove entrambe le facoltà rientrano nello Spirito, ma l’Intelletto sicuramente ne rappresenta di più le straordinarie capacità conoscitive. Inoltre, nel contesto della mente (superiore di per sé allo spirito), si lascia riconoscere una sorta di apice conoscitivo che appare essere anche più potente dell’intelletto ed inoltre è anche il momento più alto della conoscenza. Esso certamente è il livello conoscitivo che si associa all’unione mistica. E si potrebbe pensare che esso rappresenta l’intelletto nella sua capacità di penetrare i misteri divini. Gilson però non commenta affatto questa realtà della mente.
Altro interessante spunto è rappresentato dallo studio della relazione tra “essenza” e “verità”; tema che è di tipo puramente teoretico-conoscitivo, e quindi per nulla religioso. Secondo Gilson, Bonaventura aveva postulato che la conoscenza di una verità presuppone sempre la verità di un essere. Ma intanto un essere che venga posto entro un puro atto di pensiero costituisce per davvero un’essenza (e quindi pone anche un’esistenza). Mentre ciò non avviene quando l’essere appena si presenta ad un pensiero già formatosi e sussistente.
In questo ultimo caso il pensiero, nel cogliere l’essenza dell’essere, si limita a cogliere solo la verità. E quindi l’atto di riconoscimento di un’essenza prelude al coglimento di una verità, la quale a sua volta non sussiste senza un relativo essere. Del resto però se noi concepiamo appena una pura essenza, non vi sarà alcun contenuto da conoscere, e quindi è come se non avessimo pensato alcunché. E questo caso estremo ci mostra come sia sempre necessaria un’”adequazione” dell’intelletto al proprio oggetto. Cosa che nel pensiero di allora veniva indicato come la verità stessa.
I due momenti gnoseologici sono quindi profondamente coordinati tra loro. La verità esige l’essere e la sua “concezione” in un pensiero davvero puro. Ovvero, altrimenti detto, essa esige l’immutabilità dell’oggetto conosciuto e l’infallibilità della conoscenza. Le eventuali deficienze di questi aspetti generano comunque le condizioni stesse per l’incertezza, che affliggono ordinariamente qualunque tipo di ragionamento, tanto filosofico che scientifico.
Ed ecco dunque che in Bonaventura la dimensione teoretico-conoscitiva viene integrata da quella conoscitivo-religiosa (ossia di fatto la FR). Infatti inizia a delinearsi l’assoluta necessità della conoscenza delle “ragioni eterne”, che nell’uomo può avvenire solo e soltanto con il soccorso di Dio. Con questo atto divino soltanto inizia a delinearsi presso l’uomo la possibilità della “certezza”, della quale in assenza di Dio non è nemmeno il caso di parlare. E tuttavia qui le cose si fanno abbastanza difficili. Perché, come dice Gilson, la principale certezza che l’uomo vorrebbe è quella di Dio – del quale però non ci è negata solo la visione, ma anche l’integrale conoscenza. E si badi bene che Dio è anche il “principio primo” e quindi il massimo della certezza conoscitiva ordinaria. Tuttavia le ragioni eterne divine intervengono unicamente nell’offrirci quella certezza della verità che altrimenti non potremmo mai avere. E questo genera quella “scienza perfetta” che, come dice Gilson, “si compirà solo in Dio”. Ed ecco anche descritto il fenomeno dell’illuminazione intellettuale dell’uomo da parte di Dio.
Ebbene tutto questo diviene in Bonaventura attuale e perfino ordinario in un’autentica e piena FR, e precisamente nel senso che “l’uomo non può conoscere alcuna verità senza Dio” anche se non potrà mai vederlo. La FR ha allora anche un versante pragmaticamente teoretico-conoscitivo – essa è infatti quella filosofia che, a causa nel suo mancato sottrarsi all’illuminazione divina (che le viene dalle Scritture, a loro volta sede di supreme verità, oltre a venirle anche ordinariamente per pura ed amorosa verità divina), si rende capace di una certezza della quale è perfino ridicolo parlare nella restante filosofia ed ancor più nella scienza. Questa può essere quindi considerata l’idea bonaventuriana della stessa filosofia pura. Come possiamo però facilmente constatare il fenomeno dell’illuminazione divina, sebbene colpisca esattamente l’intelletto, non conferisce all’uomo alcuna capacità conoscitiva straordinaria, e quindi non lo mette affatto nelle condizioni per conoscere Dio penetrandone completamente la natura. Questo fenomeno non genera quindi affatto quella CIAD che abbiamo visto presupposta dai moderni pensatori tradizionalisti. Esso invece riguarda appena l’ordinaria conoscenza delle verità filosofiche, e quindi ha una portata unicamente teoretico-conoscitiva. Se dunque l’illuminazione divina viene accettata solo dall’autentica FR (e non invece dall’ordinaria filosofia laica e secolare di cui ci parla Habermas), essa non pone però affatto le condizioni basilari per quest’ultima. Ma semmai rende quest’ultima appena capace di ammettere umilmente che la pura e ordinaria filosofia da sola, priva com’è del soccorso divino, non è in grado di conoscere nemmeno le più ordinarie verità.
E di tutto questo bisogna tenere strettamente conto. Perché la definizione bonaventuriana di FR che ne scaturisce è decisamente riduttiva.

Conclusioni.
In questo articolo abbiamo esaminato in particolare il pensiero di Bonaventura sulla base dell’esposizione e discussione che ne fa Gilson. Abbiamo invece parlato solo marginalmente di Habermas e di Malebranche.
Ed abbiamo visto emergere nel pensatore medievale non solo i tratti della più autentica FR ma anche altri aspetti del suo pensiero che sono o meno collegati con quest’ultima: − la relazione tra Ragione e Fede, la conoscenza di Dio e precisamente della sua esistenza, la dottrina delle idee da lui applicata alla conoscenza di Dio, la sua metafisica, ed infine (nel contesto di quest’ultima) la sua concezione di anima ed intelletto, oltre ad una serie di importanti correlati teoretico-conoscitivi connessi con questi ultimi due aspetti.
Ebbene cosa tutto questo può avere a che fare con Habermas e Malebranche – i quali di trovano su una lunghezza d’onda filosofica completamente differente?
Rispetto al primo la risposta è semplice ed è stata da noi anche già data – Bonaventura contraddice frontalmente l’idea che la filosofia, per essere tale, non possa e non debba essere religiosa. Anzi egli sostiene l’esatto contrario (perfino in base agli ultimi aspetti puramente teoretico-conoscitivi che abbiamo esaminato) – per lui di fatto non vi è alcuna filosofia in assenza della dimensione religiosa del pensiero, ossia senza chiamare in causa Dio (e la sua Rivelazione) addirittura nella conoscenza delle ordinarie verità filosofiche e scientifiche. Per il resto Habermas sostiene inoltre una dottrina della relazione di Ragione e Fede che non fa altro che pretendere di confondere tra di loro questi due atti, facendo così sparire tra di essi qualunque differenza. Bonaventura invece afferma che la Ragione al massimo grado è la Fede stessa, e quindi comporta la piena accettazione dell’esistenza di Dio e l’accoglimento della sua illuminazione. Quanto alla metafisica (specie se religiosa), per Habermas di essa non si dovrebbe più nemmeno parlare (così come di concetti come quello di anima).
Ma veniamo ora a Malebranche. Abbiamo visto più volte che il pensatore francese ambì a costruire anche lui una sorta di non poco ambiziosa FR. Essa infatti ambiva a spaziare senza alcun limite tra la conoscenza degli oggetti sensibili e quella dei massimi oggetti intelligibili, tra i quali ovviamente Dio. Tuttavia egli non si sognò nemmeno di considerare come supreme verità quelle contemplate nella Rivelazione, e quindi non ritenne assolutamente possibile considerare il filosofare come un atto di pensiero che parta da esse per poi ritornarvi in forma di verità ormai illuminate direttamente da Dio e così rese assolutamente certe.

Per lui, infatti, le verità della religione non erano altro che le stesse della filosofia pura, e quindi erano subordinate a quest’ultima senza avere alcuna relazione con la Rivelazione. Conseguentemente gli oggetti del suo filosofare volevano essere gli oggetti sensibili stessi, sebbene una volta elevati dal pensiero ad intelligibili. E la presenza ed azione di Dio in questo vennero da lui viste come l’intervento di null’altro che della stessa Ragione umana, ma elevata al suo massimo grado, cioè ricondotta alla sua natura divina. Laddove invece Malebranche si appaia almeno parzialmente al pensiero di Bonaventura è nel porre il valore primario di un intelligibile pieno come l’idea di Dio. Essa fu però per lui il più alto paradigma di una conoscenza che ignorava completamente le cose sensibili (e non ne riceveva assolutamente l’influsso) per conoscere unicamente attraverso le relative idee, ossia unicamente entro la dimensione interiore del pensiero. Abbiamo visto invece che Bonaventura ammette pienamente l’azione delle cose esteriori sull’anima conoscente (ossia sulla mente) − per mezzo dei sensi ed anche perfino il loro trasformarsi in idee. Soltanto che considera la conoscenza di queste ultime (ossia degli intelligibili) come quella di grado più alto – e come tale includente anche la conoscenza di Dio.
In altre parole il confronto con Bonaventura offre la possibilità di riconoscere nella metafisica razionalista del XVII secolo qualcosa che davvero con grande sforzo può venire definita come una FR. E peraltro non senza rischiare di sbagliare.
Ma infine cosa si può dire del complessivo modo in cui Bonaventura concepì quest’ultima, e soprattutto quale ne fu secondo lui la portata? E qui non troveremo alcun corrispettivo né in Habermas né in Malebranche, bensì semmai nei pensatori tradizionalisti che abbiamo più volte finora citato, definendoli come esponenti di un «onto-intellettualismo» che sta in relazione estremamente diretta con il pensiero di Platone e con il successivo platonismo e neoplatonismo.
Abbiamo visto che il nostro pensatore considerò pienamente possibile la conoscenza di Dio, sebbene unicamente come esistenza e non come essenza. Egli giunse anche a toccare l’idea di un intelletto che possiede la massima potenza conoscitiva. Quindi, anche in Bonaventura, si sarebbe potuto vedere in esso il protagonista assoluto e possente di questa conoscenza. Eppure egli non si occupa del ruolo dell’intelletto nella conoscenza di Dio, come hanno fatto invece pensatori come Schuon, Bérard e Vallin.
Infatti anche quando parla dell’illuminazione divina, egli la intende come qualcosa che l’uomo sempre riceve, e mai invece come qualcosa che esso costruisce e raggiunge per mezzo del proprio intelletto. Quest’ultimo anzi è per Bonaventura impotente almeno quanto lo è anche la Ragione stessa. Ne risulta dunque che la definizione bonaventuriana di FR non include l’uso dell’intelletto per un’integrale conoscenza di Dio, o anche conoscenza intellettuale di Dio (CIAD). Inoltre nelle ultime battute della sezione dedicata al suo pensiero abbiamo anche visto che egli ci fornisce una definizione decisamente riduttiva di FR – un’attività conoscitiva che accoglie l’illuminazione divina unicamente per l’ordinaria conoscenza filosofica.
Ma questo significa anche che la superiorità da lui riconosciuta all’Intelletto rispetto alla Ragione non lo induce nemmeno a ritenere il primo come il protagonista di una conoscenza capace di penetrare le profondità dell’essere come invece la Ragione non può né sa fare. E con ciò ci riferiamo alle recenti ricerche e riflessioni di un pensatore come Wolfgang Smith, che peraltro trovano un certo loro corrispettivo anche in Schuon (capacità infallibilmente constatativa dell’Intelletto).
Bonaventura non rientra quindi in questo complessivo universo di pensiero, che del resto risente di condizioni e problematiche sostanzialmente moderne – come soprattutto la necessità di profonda critica (in nome della filosofia metafisica e specificamente della FR) all’egemonia sulla conoscenza che negli ultimi secoli è stata conquistata dalla scienza e che viene esercitata senza ormai alcuna opposizione. Non per nulla il nostro pensatore si occupa dell’Intelletto nel contesto di una pura teoria della conoscenza (interessata principalmente alla fisiologia di quest’ultima ancorché localizzata nell’anima) che peraltro risente unicamente di temi medievali (come ad esempio quello della relazione tra intelletto agente ed intelletto passivo).
Ora, a fronte di tutto ciò, possiamo ancora dire che Bonaventura rappresenta l’esponente di una corrente platonica del pensiero cristiano? Abbiamo già fornito diversi argomenti per la soluzione di tale questione, ma è evidente, intanto, che la risposta a questa domanda dipende dalla maniera in cui viene definita questa corrente di pensiero, insieme ai suoi modi ed ai suoi contenuti. Laddove in questo modo si potrebbe anche individuare in via di principio una definizione tipica di FR.
Sicuramente Bonaventura platonico lo è stato (come dice lo stesso Gilson) nell’attribuire (anche se indirettamente) il più grande valore alla dottrina delle idee di Platone, ed entrando per questo anche in polemica con Aristotele e Tommaso. E lo è stato anche (come abbiamo visto) per lo spontaneo collimare di alcune sue convinzioni con aspetti davvero centrali della visione del pensatore ateniese. Ma lo è stato solo per questo, dato che egli per altri versi contraddisse vivacemente Platone in molti aspetti della sua metafisica che collidevano con la dottrina cristiana.
In ogni caso non si può dire che Bonaventura sia stato un esponente della corrente platonica del pensiero cristiano se si intende quest’ultima come coincidente con la presa di posizione che abbiamo definito come «onto-intellettualismo». E per la precisione (come abbiamo già visto) questa include un’estremistica concezione della conoscenza di Dio (CIAD) ed anche un ruolo conoscitivo straordinario da attribuire in generale all’intelletto. Ebbene anche da questo punto di vista questa corrente platonica è stata solo moderna e non antica. Sebbene essa si rifaccia moto direttamente a molti aspetti dell’antico platonismo e neoplatonismo
Abbiamo visto poco fa perché questo è accaduto. Ma comunque è evidente che l’aspirazione a fondare un’autentica e piena FR non è stata l’intento primario di questo movimento di idee. Mentre lo è stata senz’altro per Bonaventura. Presso i pensatori moderni da noi considerati, la FR compare infatti solo di riflesso in una serie di prese di posizione che hanno soprattutto sostenuto la necessità di riattualizare pienamente la metafisica (dopo la sua letterale cacciata dall’ambito della conoscenza dopo Kant) ed inoltre di controbattere un razionalismo che era divenuto dominante dall’Illuminismo in poi.
Cosa della quale abbiamo poi il preciso riscontro anche in Habermas.
Ebbene questa serie di aspirazioni si è mantenuta nei limiti di un pensiero unicamente interessato ad essere tradizionalista in opposizione a qualunque modernismo (e quindi secolarismo); affermando così che la conoscenza degli oggetti intelligibili (specie dalla valenza metafisico-religiosa) era da considerare di nuovo degno e legittimo, e proprio in tale contesto prendendo ad attribuire all’Intelletto un valore alternativo rispetto a quello della Ragione. Un altro versante di questa serie di prese di posizioni inoltre ha ambito non solo a riammettere la metafisica nell’ambito della conoscenza ma anche ad impiegarla per cercare un nuovo paradigma scientifico-conoscitivo da applicare alla nuova Fisica (specie quantistica) come avanguardia della conoscenza di oggetti incorporei. Questo è stato il lavoro di pensatori di come Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023], ma anche di fisici veri e propri, come Heisemberg, nelle riflessioni filosofiche condotte a margine della scienza.
Evidentemente tutto questo non ha molto a che fare con la ricerca di una FR autentica, che ha però senz’altro fatto sentire il suo effetto non solo in Bonaventura, ma anche nei pensatori antichi che abbiamo menzionato nell’Introduzione come esponenti della corrente platonica del pensiero cristiano. E con ciò crediamo di avere risposto alla questione che avevamo posto nell’Introduzione: − molto probabilmente, dopo la paradigmatica definizione bonaventuriana di FR, non ce ne sono state più altre; e probabilmente non ci sono più nemmeno le condizioni per farla rinascere ancora.
Ecco allora che – grazie all’attribuzione a Bonaventura di quello che gli appartiene e quello che non gli appartiene – abbiamo isolato un campo di riflessione e di ricerca esclusivamente moderno che si è sempre mosso ai margini di un’autentica FR (ormai però divenuta una pura possibilità e non più una realtà) piuttosto che farne parte integrante. Naturalmente bisogna qui fare un’eccezione per pensatori apertamente religiosi (e la cui riflessioni riprese peraltro molti dei temi medievali trattati da Bonaventura) che hanno operato nel corso del XX secolo – Maritain, Edith Stein ed in generali tutti quelli che rientrarono nel fenomeno del grande revival religioso insorto in filosofia nel XX secolo (con grande partecipazione di pensatori spiritualisti e personalisti) [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/; Vincenzo Nuzzo, Moderno Personalismo: voci e storia, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione)]. La loro FR non era però più affatto diretta autentica come quella di Bonaventura; e questo sia per essersi appiattita su temi neo-tomisti (Maritain) sia per non aver mai rinunciato al razionalismo filosofico moderno (Stein) sia infine per il suo obbedire a criteri filosofico-metafisici molto specifici.

Nel complesso quindi possiamo concludere che Bonaventura non è certo stato estremista nella sua definizione della FR. Ma intanto ha ben isolato il tema entro la tradizione cristiana ed anche entro la filosofia in generale. E quindi ci ha fornito di essa una definizione paradigmatica ed anche estremamente forte, che forse non trova un corrispettivo neanche presso i pensatori antichi che rientrano nella stessa corrente di pensiero alla quale egli appartenne. Di certo, una volta posta a confronto con definizioni di FR ben più estremistiche (segnatamente quelle che hanno concepito una CIAD davvero integrale), quella di Bonaventura finisce per sbiadire e perfino divenire riduttiva. Sta di fatto però che, nel contesto della storia della filosofia, essa continua anche così a presentarsi a noi come paradigmatica e quindi ad avere un grande valore ed una grande originalità. Va ammesso però che tale valore può venire riconosciuto solo da coloro che intendono il filosofare come un’attività che non è affatto disgiunta dall’esperienza religiosa e quindi dalla più intensa fede.

Ma dobbiamo anche dire che guardandoci intorno non vediamo molti pensatori che siano interessati a questo genere di filosofia. Quest’ultima appare del resto piuttosto svincolata dalla dimensione accademica (o comunque scolastica) entro la quale la disciplina viene ordinariamente praticata. Ed appare piuttosto svincolata anche dall’ordinaria attività editoriale di quest’ultima. Infatti professare l’intendimento di filosofia come esperienza religiosa (specie se cristiana) non tende ad attirare molto interesse né nel mondo filosofico accademico né nel mondo editoriale. E nemmeno presso gli usuali lettori di filosofia.
Per tutti questi motivi chi oggi intendesse la filosofia come religiosa al modo di Bonaventura tenderebbe senz’altro a restare oscuro e privo della gratificazione di qualunque interesse e riconoscimento.
Ne risulta che questo genere di filosofia sembra fatto molto più per una «vita filosofica» vera e propria, ossia collimante con un filosofare che sappia e voglia essere in primo luogo esperienza individuale di vita e di crescita spirituale. Del resto noi stessi ci siamo poco a poco adattati ad intenderla proprio in tal modo.
E quindi con questo articolo noi non abbiamo affatto l’intenzione di partecipare ad un dibattito filosofico che misconosce totalmente l’intendimento della disciplina che può venire fatto risalire anche fino a Bonaventura. E per questa presa di posizione le idee di Habermas rappresentano un preciso e puntuale punto di riferimento; oltre naturalmente a quella presa di posizione (da noi definita come ricerca «scientifico-religiosa» che riflette su tutti i possibili concetti religiosi tranne che su quelli che compaiono nella Rivelazione.
Intendiamo invece soltanto sostenere – con l’appoggio di uno dei più grandi pensatori antichi che vi siano mai stati – che la FR è una forma di filosofia perfettamente possibile, praticabile ed anche legittima.

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Introduzione
Abbiamo già sostenuto in un precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “Il complessivo ed ultimo pensiero di Edith Stein nell’orizzonte della Fenomenologia ultra-husserliana di Karl Jaspers”, Revista Portuguesa de Philosophia, 78 (1-2) 2022, 170-224] che la dottrina steiniana dell’empatia ha una valenza unicamente gnoseologica e solo apparentemente emozionale, dato che essa è sostanzialmente allineata con l”entropatia” e soprattutto con il concetto di “inter-soggettività” del suo venerato maestro Husserl. La tesi che abbiamo sostenuto in quell’articolo è stata quindi che la dottrina steiniana dell’empatia non riguarda affatto le emozioni (e più in generale l’affettività), ma invece unicamente la dottrina della conoscenza. La riflessione condotta allora (e le relative successive letture), ci hanno indotto però a porci ulteriori problemi critici, e cioè soprattutto se è esistita davvero (entro il entro il panorama filosofico in cui operò Stein) una dottrina più appropriata di quella dell’empatia. E questo non poteva che condurci al cospetto di “Essenza e forme della Simpatia” (EFDS) di Max Scheler [Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, FrancoAngeli, Milano 2010]. Per cui ci siamo dedicati alla lettura ed analisi di questo libro. Per cui questo articolo intende innanzitutto analizzare i contenuti di questo libro paragonandolo con alcuni dei contenuti di “L’Empatia” (LE) [Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.] di Edith Stein.
Questo libro costituì in effetti una delle ricerche più precoci condotte dalla pensatrice nell’ambito della scuola husserliana, e quindi deve senz’altro avere tutti i caratteri (sempre tendenzialmente ingenui) delle opere precoci. E tra questi caratteri vi è secondo noi la forte spinta a concepire una realtà emozionale come l’empatia sotto l’influsso schiacciante del concetto unicamente gnoseologico di “inter-soggettività” sviluppato da Husserl. In parole ben più povere si è trattato, da parte di Stein, di un primo atto di deferente omaggio dell’allieva al venerato maestro. Ma, in termini filosofici, il risultato di questa operazione non poteva che essere deteriore, ossia un vero e proprio guazzabuglio di concetti, le cui caratteristiche non possono che essere la confusione e soprattutto la forte tendenza a mancare l’obiettivo (sebbene in sé lodevolisssimo) di descrivere la dimensione emozionale della conoscenza e del pensiero. Su questo però ci esprimeremo èiù chiaramente nelle conclusioni.
Ebbene tutto questo ci viene mostrato immediatamente dalla davvero magistrale riflessione di Scheler sulla tematica, il cui obiettivo principale (come dice Laura Boella nell’introduzione al libro) [Laura Boella, Introduzione – rileggere Sympatiebuch, Max Scheler, Essenza…cit., p, 7-28] fu proprio quello di postulare ed anche descrivere (con grande precisione) il valore delle emozioni rispetto -alla “vita analitico-concettuale” (1 p. 8). Laddove poi per lui l’emozione è pienamente valida (al pari della conoscenza) perché ha in primo luogo un senso etico, ossia è sostanzialmente coglimento di valori. Ebbene, a fronte di questo, è assolutamente chiaro che il pensiero di Scheler aveva in partenza possibilità molto maggiori (rispetto a quello di Stein) di cogliere l’obiettivo di mostrare la rilevanza della vita emozionale entro la complessiva vita psichica. Del resto Boella registra questo in modo che non lascia assolutamente equivoci – di fronte all’inconsistenza della dottrina dell’empatia steiniana, Scheler finì per disinteressarsi di essa per confrontarsi unicamente con il concetto husserliano di “inter-soggettività” (1 p. 10-11). Che poi era in verità l’unico nucleo del concetto steiniano di empatia. Scheler insomma comprese perfettamente che quello che Stein diceva era negativamente condizionato dal fatto che ella era “giovane” ed “allieva di Husserl” (nota 10, 1 p. 10). Del resto Boella prende atto di quello che la stessa Stein molto onestamente aveva affermato: − “L’impostazione del problema e il metodo del mio lavoro sono nati unicamente dagli stimoli ricevuti dal prof. Husserl, tanto che è davvero problematico dire quali cose, all’interno della presente esposizione, io possa definire ‘mia proprietà spirituale’”. E questo è riscontrabile effettivamente nel libro di Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., Premessa, p. 52]. Insomma la pensatrice sapeva esattamente quello che stava facendo (ossia parlare e pensare unicamente a nome e per bocca di Husserl), e quindi doveva anche conoscere il valore effettivo ed oggettivo della sua dottrina. Il che (come abbiamo detto senza mezzi termini nel nostro già citato articolo) rende molto poco fondati i tentativi dell’attuale psicologia e psichiatria fenomenologica di porre il concetto steiniano-husserliano di empatia alla base di una davvero fedele analisi della vita emozionale. Semmai questo fondamento dovrebbe venire trovato sull’opera di Scheler, il quale peraltro include nella sua riflessione la valutazione critica di un gran numero di teorie dell’empatia, tra le quali soprattutto quella di Lipps).
Resta solo il problema della ben poco chiara delimitazione del concetto steiniano di “empatia” da quello di “simpatia”, ed anche il problema del valore e significato che Scheler attribuiva al concetto di simpatia. Dal libro del pensatore questo non è facile da desumere, anche se a volte sembra che per lui il concetto di simpatia ricomprenda in sè quello di empatia. Dal commento critico di Boella si comprende però che egli affermò “l’insostenibilità teorica delle etiche della simpatia”, ma intanto (cosa sez’altro più importante), nel trattare del concetto, sgombrò decisamente il terreno dall’influsso esercitato su di esso dal concetto husserliano di inter-soggettività (1 p. 9).
Quello che non è assolutamente possibile capire da libro è se (nel contesto di una complessiva e molto variegata teoria della simpatia) Scheler concepisca o meno qualcosa di simile ad un’”empatia” (Einfülung), ossia di fatto la piena compenetrazione emozionale tra due diverse vite psichiche, cioè l’immedesimazione profonda ed emozionale tra due diversi Io. Boella (1 p. 11) ci fa capire che la sua riflessione sul tema è di fatto un “sentiero interrotto”; cosa dalla quale si può presumere che lui stesso non abbia voluto risolvere il problema, o non ci sia riuscito. Quello che è certo è che il significato dell’empatia viene da lui fortemente “circoscritto e discusso”. E vedremo che molte volte ciò corrisponde ad un suo vero e proprio esautoramento.
Qualcosa su questo ce lo dice però proprio Edith Stein [Edith Stein, L’empatia…cit. II, 3c p. 65-69] nel chiarire (facendo riferimento proprio a Scheler) che la simpatia è ben più dell’empatia, in quanto non solo è condividere ad esempio la gioia dell’altro ma è anche gioire per essa. E questo non è altro che il “con-gioire” del quale spesso Scheler stesso parla. Ma per lei è anche il vero e proprio “co-patire”, ossia un’esperienza di condivisione emozionale (esperienza vissuta) assolutamente non originaria, dato che la distanza tra i due individui viene pienamente mantenuta. E questo sottolinea un aspetto che poi vedremo essere assolutamente essenziale. Il che significa allora che ciò che contraddistingue l’empatia è l’essere invece un’esperienza vissuta originaria, ossia un’esperienza di condivisione nella quale la distanza viene a cadere completamente. Vedremo però che Scheler considera questo più un mito che non cosa realmente possibile. E tuttavia ciò trova compenso nel fatto che egli considera il co-patire come un fenomeno originario solo in senso metafisico, e quindi caratterizzante l’uomo nella sua essenza al di fuori di qualunque necessità di giustificazione tanto naturalistica quanto gnoseologica. Nel complesso potremmo quindi dire che forse l’empatia (ammesso anche che essa davvero esista) non è altro che un caso estremamente ristretto del co-sentire, e probabilmente corrisponde vagamente al “ri-sentire” e al “ri-vivere”.
In ogni caso constateremo che Scheler (quale pensatore che ebbe un senso della realtà pratica molto maggiore di Husserl e Stein, anche perché oltre che filosofo era medico), riesce più volte a presentarci la simpatia come un fenomeno tipico dello spirito umano, ma intanto assolutamente spontaneo (sebbene affatto riducibile naturalisticamente), e quindi molto più ampiamente condividibile di qualunque concetto di empatia.

  1. Il co-sentire, co-patire, ri-sentire e ri-vivere (ri-esperire), e il problema della partecipazione del vissuto dell’Io altrui.
    Quello che certamente è possibile capire dal libro di Scheler è che il co-sentire può essere considerato la forma più corretta e piena di empatia in quanto simpatia, cioè come partecipazione emozionale della vita psichica dell’altro
    Questo lo si può già capire già dalle premesse di Scheler al libro [Max Scheler, Premessa alla seconda edizione, in: Max Scheler, Essenza…cit., p. 34-38]. Infatti egli definisce il co-sentire come una funzione emozionale superiore (profondamente distinta dall’affettività, cioè dalle mere sensazioni affettive) che è di natura intenzionale e cognitivo-assiologica (corrispondente per la precisione alla “logica del cuore”) ed ha pertanto a che fare molto direttamente con i valori delle cose (non invece con le mere affezioni). Il co-sentire ha infatti la capacità di cogliere questi ultimi in una persona riconosciuta come valore in sé. E questo implica la percezione del vissuto di un altro in assenza di costrutti del genere della teoria dell’empatia (entro la quale si postula invece la nostra capacità di avvertire l’Io dell’altro per mezzo di vari tipi e modelli di prestazioni cognitive). Scheler sostituisce a tutto questo la ben più semplice capacità umana di cogliere l’altro come un valore in quanto persona e solo in quanto persona. Cosa che implica ovviamente un atto emozionale più che cognitivo. E più precisamente ciò comporta la percezione del vissuto di un altro Io. In questo senso il co-sentire (percezione e consapevolezza emozionale di un Io altrui e dei suoi vissuti) è una compartecipazione emozionale, e quindi è anche un co-patire. In termini più usuali è compassione.
    In ogni caso il co-sentire può venire considerato ciò che per Scheler rappresenta la forma più generale di compartecipazione della vita psichica altrui, ed anche il suo nucleo. Dunque è soltanto nel suo contesto che si sviluppa tutto ciò che può venire considerato come empatia e/o simpatia.
    Dunque il co-patire è in qualche modo il momento ulteriore del co-sentire nel senso dell’emozionalità [Max Scheler, Essenza…cit., A, I p. 41-43]. Ma il fatto fondamentale, per Scheler, è di tipo ontologico. Perché sia il co-sentire che il co-patire sono radicalmente originari, e quindi non sono riducibili a qualunque altra realtà (che essa sia concepita come elementarmente vitale o psicologico-funzionale). Quindi si tratta di caratteri onto-metafisici propri dell’uomo in quanto persona. In particolare si tratta della disposizione umana (metafisica) alla condivisione emozionale dei vissuti altrui, che viene prima di qualunque altra disposizione. In questo senso si tratta dell’amore. Ma più avanti chiariremo le caratteristiche specifiche di quest’ultima realtà.
    Vi sono però comunque per Scheler anche dei caratteri primitivi ed insufficienti del co-sentire, che lo rendono in qualche modo primario in quanto elementare. Infatti, in quanto disposizione, il co-sentire non ha nulla a che fare con l’etica, dato che quest’ultima è strettamente legata al comportamento, ossia alla manifestazione fattuale della disposizione. Sempre per questo esso è passivo e non attivo, dato che l’etica è attiva.
    In ogni caso il co-sentire è di natura specificamente emozionale. Vi è però qualcosa che comunque lo precede sul piano puramente cognitivo, e questo atto rientra nell’apprensione e comprensione, ossia costituisce il sapere dei vissuti altri [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 43-67]. E questo atto puramente cognitivo non ha assolutamente nulla di emozionale. Eppure esso è esattamente quanto (come precisa Scheler) viene definito come empatia, e precisamente “empatia proiettiva”. Ed ecco delinearsi quindi un altro sotto-aspetto (ma solo secondario) del co-sentire, e cioè il “ri-esperire”, o anche “ri-vivere” o “ri-sentire” il vissuto altrui. Si tratta insomma di un presupposto cognitivo della compassione (co-patire) che quindi, ovviamente, può presentarsi anche in totale assenza di quest’ultima. Siamo insomma nel puro campo del giudizio, mentre con il co-sentire ed il co-patire siamo invece nel piano della piena esperienza. Ebbene ci si può chiedere se non sia proprio questa l’empatia così come postulata e definita da Stein [Edith Stein, L’empatia…cit., II, 1 p. 57-63]. È difficile dirlo ma è comunque possibile. Perché la pensatrice considera il co-patire alla stregua del mio vissuto di qualcosa di totalmente esteriore a me stesso, ossia il vissuto altrui che si manifesta attraverso l’espressione corporea (specie attraverso il viso) – ossia qualcosa che avviene nel “corpo vivo” (Leib) dell’altro esattamente come avviene nel mio. Ed in questo senso la considera un’autentica esperienza. Mentre invece abbiamo visto con Scheler che non lo è, non essendo altro che un “ri-esperire”. Ed infatti Stein stessa colloca tale atto tra i fenomeni psichici della “ripresentazione”, e per la precisazione come la ripresentazione di qualcosa di originario; sebbene il vissuto sia originario solo nell’Io altrui.
    E si badi bene che ella considera originario “qualcosa che ci è dato nella sua completezza essenziale”, e cioè l’effettivo riempimento di un’intenzione mediante un oggetto del tutto attuale di conoscenza ed attenzione. Ed il segnacolo di questa sorta di piena originarietà (trasferita in qualche modo dall’altro a me) sarebbe per lei la dimensione del “qui ed ora” (unito a quella dell’“in carne ed ossa”) con la quale io colgo il vissuto dell’Io altrui. Stein è certamente consapevole del fatto che si tratta di un’originarietà solo secondaria e non primaria, in quanto è vissuto non originario di un qualcosa che è vissuto davvero originariamente solo nell’Io altrui. Ma intanto afferma che questo vissuto non originario diviene un oggetto al pari del nostro proprio vissuto, ossia uno oggetto di conoscenza. E dunque, nonostante si tratti appena di una “ripresentazione” di qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo (e peraltro nemmeno interna a noi, ma occorrente tra noi ed un altro), ella ne parla come di una nostra effettiva esperienza, e peraltro come di un’esperienza pienamente emozionale. Ecco insomma davanti a noi i termini dell’effettiva condivisione di emozioni altri secondo la dottrina steiniana dell’empatia.
    Ora abbiamo visto che per Scheler solo il co-patire è un’esperienza, anche se essa avviene unicamente tra due Io diversi, e quindi senza la benché minima fusione. Tutto il resto invece è appena un “ri-vivere” o “ri-esperire”, o anche “ri-sentire”. E qui non solo non vi è alcuna emozione, ma addirittura si tratta di atti cognitivi solo preliminari all’emozione. Non si tratta insomma di alcun vero co-patire né di un vero co-sentire.
    Ne consegue che l’empatia (così come concepita da Stein) equipara al co-patire ed al co-sentire (esperienza primaria di condivisione emozionale) qualcosa che invece non solo è solo secondario ma è anche molto riduttivo e pochissimo autentico. E quindi non può essere un vero co-patire. Ecco dunque chiaramente davanti a noi la dimensione puramente cognitiva dell’empatia così come concepita viene da Stein. È evidente quindi che essa non può raffigurare (come invece pretende di fare) alcuna intima compartecipazioni emozionale di vissuti. Per la precisione una compartecipazione così intima da lasciarci fantasticare su un nostro letterale trasferirci nel mondo interiore altrui. E diremmo che proprio questa extrapolazione (del tutto fantastica e mitica) è ciò che ha generato presso psicologi, psichiatri ed uomini comuni (specie di fede) l’immenso fascino esercitato dalla teoria steiniana dell’empatia. Fascino che però purtroppo non ha alcuna giustificazione. Fatto sta che però essa è stata intesa come il modello stesso della compartecipazione emozionale.
    Ora se proseguiamo ora nell’esame del testo di Scheler, vedremo che la sua riflessione conferma in pieno quanto abbiamo appena detto. Egli dice infatti che il fatto che mi venga dato l’Io dell’altro (il suo vissuto) non significa affatto che stia avvenendo un fenomeno empatico, ossia qualcosa che abbia davvero una valenza emozionale (il co-patire o co-sentire). E questo perché l’altro ha una “vita intima” per me assolutamente inaccessibile, a meno che essa non venga espressa esteriormente. Questo lo constata anche Stein, ma Scheler precisa qui che (secondo la teoria dell’empatia) da tale espressione io risalgo all’esistere della vita psichica altrui (cogliendo così i suoi vissuti) solo per mezzo di un’inferenza. E questa inferenza viene spiegata entro la dottrina dell’empatia con il fatto che io e l’altro condividiamo il nostro proprio “corpo vivo” in maniera del tutto sovrapponibile. Altrimenti io non avrei colto altro che l’espressione di un vissuto senza su questo costruire alcuna esperienza empatica. In tal modo dunque la pensatrice cancella in un sol colpo quella differenza tra le vite interiori di diverse persone che invece per Scheler è assolutamente insuperabile, e che quindi non permette alcuna immediata comune esperienza.
    Un’esperienza comune (ma affatto immediata) è possibile invece solo in forza della reciproca volontà di andare l’uno verso l’altro riuscendo solo in tal modo a superare la naturale differenza. Di tale immediata comune esperienza empatica Stein parla invece a chiare lettere (sebbene ponendole comunque dei limiti). Ed abbiamo anche già accennato alla decisività del riferire l’espressione ad un “corpo vivo”. Ma in un’altra parte [Edith Stein, L’empatia…cit., III, 4-5 p. 103-167] della teoria dell’empatia (in LE) Stein afferma esplicitamente: − ”Questa dipendenza dell’esperienza vissuta dagli influssi del corpo vivente è una caratteristica essenziale dello psichico. Tutto ciò che è psichico, è coscienza legata al corpo vivente”.
    E questa affermazione viene alla fine di tutto un discorso nel quale viene postulato che il “corpo vivente” (Leib) – a differenza del “corpo fisico” (Körper), vero oggetto esterno al mio psichismo, e quindi a me del tutto estraneo – mi è dato solo come “mio” e quindi come inscindibilmente legato ad il mio Io (III, 4a p. 105). Ne consegue che, nell’espressione, esso è di fatto il portatore immediato dei miei più intimi vissuti. Sentimento ed espressione sono quindi di fatto simultanei, dato che tra di essi vi è, come dice Stein, “una connessione di essenza e di senso” (III, 4d p. 120).
    Da questa profonda unità tra Io e corpo proprio si passa poi alla postulazione un grado di estensione di questa esperienza all’individuo altrui che è tale da generare vere e proprie intimissime condivisioni di esperienze (“con-vedere”, “con-toccare”, “con-cogliere”) (III, 5 p. 124-167). E questo genera una vera e propria immedesimazione empatica, ossia l’intima condivisione dei vissuti altrui per l’intermediazione del “corpo vivo” che in entrambi gli individui è immediatamente legato all’Io. In altre parole quella che era all’inizio un’empatia puramente “sensoriale” diviene alla fine un’empatia del tutto psichica.
    Ma per Scheler ciò è più che mai impossibile, dato che la mera condivisione del corpo (per quanto similmente “vivo”) non può permettere di superare una diversità tra me e l’altro che è assolutamente insuperabile in quanto rappresenta un fatto ontologico assolutamente fondamentale, ossia radicalmente originario. E questo sostanzialmente perché ogni individuo umano è una persona assolutamente isolata per definizione e fin dal suo primo venire al mondo.
    Ecco allora che – ancora una volta − quanto da Stein (ed altri) viene considerato empatia si rivela essere niente altro che quel “ri-vivere” “ri-vivere” e del “ri-sentire” che rappresentano appena le prime componenti del co-sentire, ossia ne rappresentano appena i presupposti cognitivi senza alcuna componente emozionale.
    Per Scheler, presi in sé, questi fenomeni sono dunque connessi a forme del tutto insufficienti di co-patire (condividere per puro caso con un altro la stessa sofferenza nel corso della stessa esperienza negativa, contagio emotivo, unipatia). Ma il pensatore dice che dal “ri-sentire” si può comunque passare al vero co-patire solo quando ad esso si aggiunge l’espressa intenzione di condividere emozionalmente un vissuto altrui. Ciò è esattamente quanto abbiamo descritto prima (a proposito del superamento della differenza). Ed in questo caso siamo di fronte ad una compassione del tutto volontaria, ma per questo anche non poco artificiosa. L’unipatia (cioè la postulazione di un’unica vita psichica ai livelli psichici più vitali e profondi) è però per lui particolarmente importante perché si tratta di un’intenzione di tipo puramente vitale-affettiva, che come tale è collocata tra la coscienza ed il corpo. Ma è proprio in essa a delinearsi elementarmente quella connessione senza la quale non vi sarebbero né empatia né simpatia. In altre parole nell’unipatia non vi è differenza tra individui proprio perché ci troviamo ad un livello decisamente inferiore alla coscienza ed a qualunque dimensione cognitiva (intenzione).
    L’assoluta necessità della distanza tra persone (a livello cosciente) è comunque qualcosa che impedisce a Scheler [Max Scheler, Essenza…cit. A, III p. 67-68] di rigettare tutte le teorie della “trasmissione”, ossia tra trasmissione immediata del vissuto emozionale dall’uno all’altro. E questo è quanto il pensatore definisce come “teorie genetiche” (a anche “associazionistiche”) del co-sentire. Per lui infatti la via di questa ipotetica trasmissione è per definizione interrotta ontologicamente. E quindi non vi è alcuna possibilità che essa venga superata. E bisogna dire che la teoria steiniana dell’empatia (sebbene con tutte le limitazioni che esse pone) rientra in qualche modo in questa tipologia riduzionistica di co-patire.
    E questo lo dice lo stesso Scheler (sebbene indirettamente) riportando a questa tipologia le teorie dell’empatia di Lipps e Störring. Il problema è infatti per lui che la postulazione della trasmissione copre lo stesso fenomeno dell’espressione, in forza del quale (proprio come abbiamo visto entro l’originaria teoria steiniana), l’empatia non è altro che ripresentazione, ossia di fatto mero ricordo. E qui interviene il fenomeno della riproduzione, in virtù del quale è impossibile pensare ad un’effettiva compenetrazione tra il mio vissuto e quello altrui (ossia l’intendimento più nucleare dell’empatia).
    Di particolare importanza è comunque la menzione scheleriana della piena giustificazione della teoria metafisica della simpatia (sebbene vadano anche in essa riconosciuti molti errori) [Max Scheler, Essenza…cit. A, IV p. 78-101].
    Essa si basa sulla postulazione preliminare di una “l’unità del fondamento del mondo”, che a sua volta giustifica “l’unità dell’essere che sta a fondamento della pluralità degli io”. E ciò non è altro che unipatia, ossia la postulazione dell’unità della Vita – se vogliamo la forma più primitiva ed elementare sia di simpatia che di empatia. La giustificazione primaria di queste teorie metafisiche sta per lui nel fatto che esse pongono in evidenza più che mai l’originarietà del co-patire, ossia il fatto che esso è presente nell’essenza stessa dell’uomo, e quindi non richiede alcuna giustificazione (specie naturalistica). Per tale motivo il co-patire viene tradito da qualunque sua deduzione da altri fenomeni. E non vi è dubbio che anche la teoria steiniana dell’empatia rientri in questo ambito.
    In tale ambito metafisico egli include comunque le più diverse dottrine – da quelle antiche (vedantiche e buddhistiche) a quelle più moderne (di tipo biologistico-vitalistico). Si tratta di dottrine tutte monistiche, e che quindi indicano o una sola realtà nascosta oppure una sola via per la quale tutti i viventi devono passare. Ma ciò che più importa è che di nuovo qui il “ri-sentire” si rivela essere presupposto del pieno ed autentico del co-patire. Infatti la metafisica mette in luce sempre un conoscere prima oscuro e poi chiaro, alludendo così ad un percorso che reca poco a poco al riconoscimento della piena realtà, e quindi al superamento dell’illusione. Laddove quest’ultima non sarebbe altro che l’egocentrismo o solipsismo dell’uomo naturale − ossia l’illusione di essere il centro stesso del mondo. Questo conoscere, infatti, reca all’intendimento del co-patire come “originariamente intenzionale” (il sentire di qualcosa), e quindi come una realtà conoscitiva pre-logica. Più precisamente si tratta del coglimento del valore degli oggetti, il quale a sua volta fonda la loro conoscenza. Ma ciò non ha un significato unicamente gnoseologico, bensì etico. Infatti per mezzo di esso, come abbiamo appena visto, viene per Scheler superato l’“egocentrismo timetico”, cioè l’equiparazione dei propri valori del mondo-ambiente a quelli di chiunque altro. E ciò rende possibile una “conoscenza oggettiva del valore di un essente metafisicamente reale”, cioè affatto inesistente, che è poi questo essente in quanto “essere-così”. Insomma, in termini più semplici, impedisce il riconoscimento dell’«altro» in quanto esistente assoluto con lo stesso identico diritto che attribuiamo a noi stessi. Nella sua pienezza questo co-sentire è insomma matura e completa consapevolezza dell’esistenza degli altri. Ecco dunque il superamento dell’illusione (rappresentata dall’egocentrismo e dal solipsismo) che la metafisica permette, in modo che la vera realtà dell’esistere possa venire colta.
    È evidente che, a fronte di tutto ciò, qualunque teoria dell’empatia diviene artificiosamente intellettualistica e quindi del tutto inutile, proprio perché essa è in definitiva non etica ma solo gnoseologica. La realtà della simpatia è invece puramente etica e perfino etico-religiosa (dunque metafisica), dato che essa punta al superamento dell’egocentrismo. Infatti per questa via diviene possibile il superamento della coscienza “naturale” della propria realtà e quella della realtà altrui.
    Il che è superamento di un’”illusione metafisica” nel senso di un vero e proprio “cambiamento del cuore”. E quindi implica il riconoscimento (in sé come nell’altro) dell’esistere come “essere-così”, ovvero come persona e quindi come assoluto ontico. Da questo momento in poi l’uomo avvertirà sempre la presenza dell’altro come essenza o idea. Insomma questa è conoscenza dell’eguaglianza di valore dell’uomo “in quanto uomo”. E tutto questo sottolinea la dimensione personalistico-antropologica della dottrina scheleriana della simpatia, della quale parleremo poi più diffusamente dopo. Non solo, ma ciò ci lascia anche comprendere cosa si intenda con l’“originarietà” del co-patire o co-sentire. Infatti per Scheler il puro co-sentire appartiene all’”essenza dello spirito umano” e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”. Per la precisione corrisponde a sua volta alla costatazione del “valore dell’altro in generale”. Esso quindi non si verifica affatto nell’esperienza che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma semmai gli offrono solo oggetti da sviluppare. In questo senso, dunque, questa teoria scheleriana sorpassa di gran lunga qualunque intendimento filosofico o psicologico dell’empatia.
    Quanto poi al secondo intendimento del co-patire apportato dalla metafisica (quella di unica vita e via per tutti gli esseri umani), Scheler deve necessariamente contestarla in nome dell’accento posto sulla diversità che caratterizza le persone, e quindi in nome del suo personalismo. Ma di questo parleremo dopo.
    Infine c’è solo da ribadire che per il nostro pensatore l’unipatia pone i fenomeni del co-sentire (almeno nella loro dimensione più elementarmente vitale) decisamente al di sotto della coscienza e quindi molto lontano dalla noetica. Quindi anche in questo la sua dottrina si pone molto lontano da quella steiniana dell’empatia. Non a caso (A, VIII p. 143-147) egli sottolinea che – nonostante la valenza elementare e vitale dell’unipatia – essa in fondo rientra nei fenomeni dello spirito.
    E precisamente rappresenta una funzione originaria ed ultima dello spirito, che non deriva quindi da assolutamente nulla. In questo senso dunque la simpatia – e non invece l’empatia, che non è altro se non un costrutto filosofico molto poco autentico in quanto sostanzialmente intellettualistico – rappresenta una disposizione innata addirittura di tutti gli “esseri senzienti”.
    E ovvio quindi che il co-sentire finisce per venire frainteso se viene ridotto a qualunque dimensione puramente empirica, com’è senz’altro la psicologia evolutiva. Non a caso nel contesto di quest’ultima esso diviene appunto una mera funzione cognitiva colta nel suo progressivo maturare – ed alla quale è stata data la denominazione di capacità di “assunzione di prospettica altrui” [Petermann, M. Kusch, K. Niebank, Entwicklungpsychopathologie, Beltz, München 1998, 5, 2, 3 p. 118-122, 5, 7 p. 145-149].
    La quale corrisponde poi anch’essa alla mera comprensione dei vissuti altrui (e non invece all’intima compenetrazione emozionale tra due vite psichiche). È evidente che una simile interpretazione del co-patire non ha nulla di originariamente tipico dello spirito umano. Si tratta invece appena di un fenomeno naturale riscontrabile nell’uomo, senza che esso abbia alcun particolare senso e nemmeno una particolare intensità etico-emozionale.
  2. Simpatia ed amore. Accenni al Personalismo.
    Ma è il co-patire equivalente all’amore? Scheler dice che è così. Eppure anche questo non è affatto facile da capire nel contesto dell’indagine scheleriana; nella quale peraltro egli fa equivalere ontologicamente i fenomeni dell’amore e dell’odio (l’uno il contrario dell’altro, ma in definitiva riducibili ad un unico fenomeno) [Max Scheler, Essenza…cit., B, I-VI p. 154-166]. Certo è che per lui co-sentire ed amore-odio sono entrambi fenomeni originari, e quindi (per quanto affermi che non sono esattamente la stessa cosa), entrambi non sono affatto riducibili a fenomeni elementari e naturalistici.
    Altrettanto certo è che essi non rientrano affatto nella dimensione dell’empatia in quanto non sono in alcun modo fenomeni cognitivi. E non sono nemmeno atti del tendere, dato che nell’amore non vi è assolutamente nulla da realizzare. Per la precisione essi sono perfino indipendenti dall’elementare affettività. Infatti quando io amo qualcuno, non sarà certo il dolore che egli mi causa a diminuire il mio amore per esso. È quindi in questo senso che amore e odio sono così tanto originari e immediati, da essere assolutamente sfuggenti cioè ingiustificabili. Essi sono insomma più misteri che fenomeni. Ed in questo Scheler si rifà alla dottrina di Brentano, entro la quale amore-odio vengono considerati fenomeni assolutamente elementari ma comunque intensamente metafisici.
    In effetti amore-odio non sono cognitivi solo nella misura in cui essi comportano un’intenzione intensamente etica. Perché nell’amore l’intenzione è rivolta sempre solo verso un oggetto di valore (l’oggetto o persona amati) e non invece verso un valore astratto ed impersonale. Conseguentemente essi non sono affatto degli atti ciechi, anzi comportano l’agire di quegli “occhi dello spirito” che sono capaci di vedere nell’altro “qualcosa di diverso” dal solito. È, dice Scheler, qualcosa di diverso dall’evidenza della ragione.
    In ogni caso essi sarebbero totalmente diversi dal co-sentire soprattutto in quanto “atti”. Infatti con essi non si tratta per nulla di un atto sociale e di relazione (com’è invece senz’altro il co-sentire).
    Insomma essi non hanno affatto come riferimento l’”io” e l’”altro”. Perché sono diretti solo verso i valori di cui gli altri (“come in trasparenza”) appaiono come portatori – e precisamente una sola persona in particolare. Insomma non sono affatto atti “altruistici”. Così, ad esempio, il “dirigersi verso la comunità” non è affatto amore per l’altro. Sono però al massimo grado atti di attribuzione di valore ad una persona.
    Da tutto ciò consegue che, secondo Scheler, in generale amore e odio non sono affatto definibili, ma invece appena “intuibili”. Proprio per questo essi non sono affatto né un tendere né uno scegliere né tanto meno una reazione (passiva) a stimoli affettivi. Semmai sono invece un preferire.
    Ma, posto questo, l’amore è per Scheler soprattutto un movimento intenzionale nel quale emerge il “valore superiore” a partire da un determinato oggetto di per sé indifferente. In quest’ultimo, quindi, infine “scintilla il valore più alto”. E tutto questo si accorda pienamente per Scheler la teoria dell’eros (come movimento) di Platone. Più precisamente, nell’amore, ad un “valore già dato” (la persona di valore) si aggiunge il movimento, e questo si dirige verso valori ancora più superiori rispetto a quelli che sono giù qui. E quindi “predelinea” l’”immagine ‘ideale’ di valore della persona data”. Insomma esso intravvede un “oggetto dotato di valore”.
    Ma oltre a ciò esso ha per Scheler una caratteristica ancora più straordinaria, e cioè quella di prescindere totalmente dalla datità ordinaria. Nel senso che esso punta verso il valore superiore in assenza di datità già date (l’ipotetico oggetto oggettivamente amabile), in quanto già esistente o non ancora esistente. Esso dunque crea letteralmente la datità amabile verso la quale si muove – quindi è edificazione (fattuale) del valore ideale delle persone, cioè consiste nell’incontrare in una di esse (per partito preso) un valore superiore. E questo movimento viene risvegliato dal valore inferiore per mezzo di una percezione affettiva del valore, che desta l’amore. Il che può avvenire anche in forza della preferenza. Ma comunque (ontologicamente) l’amore è soprattutto il movimento stesso, e quindi nulla accade se esso non inizia. Esso insomma è basato su un atto di attribuzione di valore che è puramente intuitivo e quindi prescinde dall’oggettività ossia dall’effettiva amabilità di un ente. Ecco la sua originarietà. Ancora una volta è per questo che l’amore non è né ricerca né tendere. Insomma la persona amata si incontra senza nemmeno averla cercata o voluta.
    Posto questo Scheler smantella tutte le teorie nelle quali l’amore viene considerato come un atto ed una forza che si muova verso qualcosa di amabile in quanto già dato (per mezzo del tendere volere), o addirittura (pedagogia) si muova nel procurare ad un ente qualunque la dotazione necessaria per poter venire amato. Ancora una volta per questo esso è un chiarissimo e profondissimo vedere della natura amabile di una persona, in quanto intuita (senza alcuna ragione obiettiva) come portatrice di valore. E pertanto ciò avviene, per definizione, perché esso accetta l’oggetto amato esattamente “così come esso ‘è’”, prescindendo così dal presupposto di qualunque virtù o azione lodevole (ossia dover essere). È dunque in questo senso che esso coglie infallibilmente l’essenza inesauribile della persona in quanto “individuum ineffabile”.
    Su questa base Scheler contesta decisamente il neutrale e gelido (e spesso perfino crudele) amore per il Bene (così frequentemente postulato nell’antica metafisica pagana, specie in quella platonica). E ciò in quanto esso è irrimediabilmente farisaico. Esso infatti non ama il «buono» ma invece solo chi si conforma del tutto formalmente ad un Bene del tutto impersonale. Anche da ciò risulta allora che l’amore sussiste esattamente per la persona come valore incondizionato, ovvero per il “valore della persona” in sé, cioè per “la persona in quanto persona” senza se e senza ma. Quindi non per le virtù delle quali la persona è portatore, ma invece per la persona stessa in quanto valore. E questo è un amore “assoluto”. Forse, diremmo, l’unico e più autentico amore, superando esso anche lo stesso amore per Dio, che in fondo non è affatto amore per una persona, almeno quando Dio viene identificato con il Bene stesso. Si delinea quindi il fatto che esso è un “elemento ultimo” che è assolutamente semplice e per nulla composto. E infatti nell’amore per la persona rimane “un’eccedenza ingiustificabile”, cioè una totale sfuggenza. Ma questo avviene per il fatto che l’amore rinvia alla realtà ontica della persona. Perché l’uomo in quanto persona per definizione non è un oggetto, ossia non è oggettivabile.
    Ma tutto questo rende l’amore (quale atto) di importanza etico-personalistica fondamentale. Perché la pienezza della persona ci viene data proprio nell’atto d’amore. La persona mi viene data solo quando “co-eseguo” i suoi atti. E quindi il suo valore etico ci è dato nella co-esecuzione del suo atto d’amore. Essenziale quindi è il “co-amare”
    È del tutto ovvio come, con tutto ciò, si opponga a tutto questo l’interpretazione naturalistica dell’amore come pulsione erotica (“libido”) dall’ampia valenza, sia sociale sia psico-patologica, come essa è stata formulata entro la dottrina psicanalitica di Freud (B, V-VI p. 176-204). Ma non entreremo nel merito di questa discussione (rinviando quindi il lettore al libro). Va solo sottolineato che in questo contesto Scheler non include solo la dottrina psicanalitica dell’amore, ma anche altre dottrine riduzionistiche tra le quali quella dell’empatia come illusione.
    A ciò si aggiunge poi una terza parte del libro dal titolo molto interessante per il nostro tema (“L’Io altrui”, C, I-III p. 205-247). Tuttavia la trattazione di questa parte è molto confusa, poco chiara e sistematica, lacunosa e soprattutto inconclusiva. Tuttavia, anche in questo modo Scheler ci permette di trarre delle conclusioni davvero definitive circa la qualità della teoria dell’empatia in quanto teoria della relazione sociale, ossia la relazione tra “io” e “tu”. Cosa che, come vedremo, chiama in causa molto direttamente il personalismo di Guardini.
    Innanzitutto egli sottolinea che il tema della relazione tra diversi Io è effettivamente anche gnoseologico, e quindi riguarda realmente la teoria della conoscenza. Infatti si tratta sostanzialmente della conoscenza della connessione tra l’Io e la psiche degli uomini. È evidente, egli dice, che si tratta di un problema eminentemente sociologico (come del resto sottolineato anche da Lipps), ma esso riguarda anche la teoria della conoscenza. Insomma si tratta per lui del “principio di solidarietà” quale nucleo e aspetto centrale sia della filosofia che dell’intera etica sociale. Laddove è dunque evidente che la gnoseologia (teoria della conoscenza) non può essere concepita in modo puro, ma solo in connessione con l’etica e con la dimensione sociale ed emozionale. Insomma il problema fondamentale è quello dell’”uomo in quanto uomo”, perché si tratta del fatto di cosa l’uomo possa essere per un altro uomo. Il che corrisponde all’evidenza della “concatenazione ultima ontologica” tra gli uomini. Per questo però è essenziale affermare la primarietà dell’approccio fenomenologico su tutti gli altri. Dato che invece l’empirismo naturalistico (specie psicologico) non è in alcun modo capace di cogliere queste realtà.
    Proprio su questa base fenomenologica − nel porsi il problema dell’origine della coscienza altrui (Io) e della comunità −, bisogna poi chiedersi quale sia davvero il momento più originario nel quali tali fenomeni subentrano e con quali atti conoscitivi. E questo non è secondo lui possibile né sulla base di un supposto fondamentale “sapere” concernente gli altri Io (come avviene nella classica teoria dell’empatia) né sulla base della mera psicologia evolutiva. Quindi porsi il problema dell’origine comporta il prescindere sia i possibili oggetti contingenti del sapere sia anche dalle mere fasi dello sviluppo. E questo è più o meno anche quanto abbiamo sostenuto nel nostro già citato saggio sulla Psicologia Sacra.
    Rispetto poi al tema dello sviluppo psichico dell’uomo egli sostiene che la noetica sa in effetti molto più della psicologia empirica. Perché solo essa può concepire una “percezione intra-psichica” ed un “senso interno”, dato che con ciò si tratta di oggetti non identificabili ma intanto pre-conosciuti, e cioè intuiti. Si tratta insomma dell’essenza dello psichico e non invece dello psichico funzionale. Per ultimo egli afferma che l’intera serie delle questioni qui in causa è necessariamente anche metafisica dato che essa illustra un miracolo di fatto.
    Ma comunque, riguardo al tema specifico della conoscenza dell’altro Io, egli menziona l’esperimento detto di “Robinson” (uomo che dalla nascita non era mai venuto a contatto con altri uomini ma intanto ne intuiva l’esistenza). Tale esperimento dimostra quindi che vi è davvero un’“originaria certezza del tu” (Volkelt) e che essa una “certezza intuitiva” caratterizzata dal cogliere immediatamente qualcosa di non dato nell’esperienza.
    Nel complesso, comunque – egli dice −, l’intera problematica (dell’empatia) è nata sulla base della convinzione filosofica che a ciascuno sia dato “innanzitutto” solo il proprio Io e i relativi vissuti, e che solo (secondariamente) una parte di questo riguardi i vissuti di altri individui. Il problema è come queste due parti si distinguano e come l’altra parte procuri la conoscenza dell’esistenza degli altri. Ma ciò corrisponde a nient’altro che alle ipotesi sviluppate entro la teoria dell’empatia.
    Di certo a tale proposito, egli aggiunge, sono state smantellate diverse teorie erronee – come quella dell’analogia, nel contesto della quale si sosteneva che l’empatia si giustifica sulla semplicistica base della similitudine dell’altro a noi. Ma per lui anche la teoria dell’empatia come “credenza” (Lipps) è di fatto slegata da qualunque possibile e credibile deduzione cognitiva. Essa è infatti solo “cieca”. Perché in essa noi empatizziamo soltanto con dei corpi animati, e ciò è solo casualmente connesso con il riconoscimento di un altro io. Qui infatti noi semplicemente presupponiamo un essere animato ma intanto la verità è che non entriamo affatto in relazione psichica con esso nemmeno attraverso l’espressione. Insomma con ciò noi non siamo affatto al cospetto di un fenomeno “originario” bensì solo derivato. Infatti, qualora “la teoria dell’empatia fosse vera” essa dovrebbe giustificare per davvero l’incontro dell’altro attraverso il proprio Io unito ad un corpo vivo (sentimento vitale), e non invece in base alla presenza di un altro essere animato quale fatto psichico. Ed abbiamo già visto che questa giustificazione non esiste affatto, in quanto non è in alcun modo credibile. Pertanto l’empatia al massimo può essere concepita come credenza ”che il mio io si dia ancora una volta”; ossia essa constata al massimo la ripetibilità del mio Io. Noi insomma in tal modo non cogliamo in alcun modo l’essenza dell’altro Io.
    Eppure originariamente (ossia fuori delle teorie menzionate e solo derivate) è proprio quest’ultimo fenomeno quello che di verifica. Perché noi sappiamo infallibilmente (sebbene misteriosamente cioè originariamente) che c’è un altro Io oltre il nostro. E sappiamo perfino che esso è un altro individuo, o “io individuale”, senza nemmeno alcun bisogno della condivisione del corpo.
    Ne consegue che l’empatia e appena una credenza circa l’altro Io ma non è affatto una conoscenza o costatazione esperienziale. Laddove invece ciò che è in causa è proprio questo. Ma il nome di questo fenomeno non può essere certamente quello di «empatia».
  3. Simpatia e Personalismo.
    Gli accenni ad una teoria personalistica attraversano l’intera trattazione di Scheler, e peraltro proprio la parte C del libro le sottolinea di più (oltre a quella dedicata all’amore-odio).
    Intanto però vale la pena di essere più espliciti su questo, dato che evidentemente la dottrina della simpatia e quella dell’empatia si distinguono in primo luogo proprio in base al davvero esplicito Personalismo della prima. Che invece nella seconda manca quasi del tutto. Nel trattare del tema dell’empatia Stein non era infatti ancora approdata ad una decisa visione personalista.
    Quindi in questa sezione non dovremo fare altro che riprendere cose che abbiamo già detto, facendo a questo pochissime aggiunte. Ma molto in generale l’elemento basico della visione scheleriana è quello dell’insuperabile differenza ontologica esistente tre le persone. In altre parole la persona è in sé un individuo irrecuperabilmente separato dagli altri ed in via di principio non vi è nulla che possa abolire questa separazione. Per cui anche lo stesso co-sentire è in via di principio impossibile (almeno sulla base dell’empatia). Ma ciò che Scheler ci fa comprendere è che nonostante tutto esso è comunque dato – le persone umane hanno l’innata tendenza a riconoscere un “tu” oltre il proprio “io” ed a sentirsi in relazione con esso. Dunque l’elemento chiave dell’intera faccenda (ed anche forse un elemento addirittura banale nella sua ovvietà) è quello della relazione, ossia della socialità (che poi implica anche la volontà). Solo per questa via infatti due entità irrimediabilmente separate possono entrare in contatto tra loro. Pertanto il co-sentire (una volta ridotto all’osso) non è altro che una stupefacente «relazione nella differenza»; e precisamente tra due entità caratterizzate dal fatto ontologico fondamentale di essere delle «persone» (con tutte le conseguenze che ciò comporta). È altrettanto ovvio, inoltre, che il momento più alto ed intenso di questa relazione è l’amore. In ogni caso co-sentire e amore non sono altro che la relazione (assolutamente fondamentale ed originaria) che esiste tra un “io” ed un “tu”. Ma siccome questo è anche il nucleo più centrale e profondo del Personalismo, la questione del co-sentire si risolve di fatto nei termini di quest’ultimo. E qui invito il lettore a prendere in considerazione tutto quanto è stato scritto su questo tema (incluso il mio saggio) ed in particolare le riflessioni personaliste (di stampo più teologico che filosofico) di Guardini [Vincenzo Nuzzo, Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo. La rilevanza di Guardini, Sophia Edizioni, Sant’Arpino (NA), 2023 (in via di pubblicazione); Romano Guardini, Die Person. Der Aufbau des personalen Seins. Person und Individualität. Person im eigentlichen Sinn, in: Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988, V p. 121; Romano Guardini, Die Person. Der personale Bezug. Das Ich-Du-Verhältniss, ibd., I-II p. 132-136]. Egli vedeva infatti l’essenza della persona nella relazionalità stessa. Insomma è evidente che parlare del co-sentire implica necessariamente il parlare della persona ed inoltre della sua connaturata tendenza alla relazione. Solo nel suo contesto infatti l’atto del co-sentire assume una certa plausibilità.
    Ma intanto ciò non implica in alcun modo il postulare qualcosa di simile all’empatia. Questa dottrina infatti comporta lo sforzo di superare la differenza ontologica esistente tra individui-persone senza nemmeno prendere in considerazione relazionalità e socialità. E questo è assolutamente impossibile. Il tentativo viene invece condotto sulla base di una ipotetica (e piuttosto fantasiosa) disposizione dell’Io isolato ad avvertire l’esistenza dell’altro, con l’ulteriore conseguenza della capacità di questo Io isolato di gettare uno sguardo nei vissuti dell’altro Io e perfino partecipare emozionalmente di essi. Ma con Scheler abbiamo visto che questa teoria fallisce in molti punti, e quindi non è in grado in alcun modo di spiegare la realtà del co-sentire.
    Tuttavia questo è del resto del tutto plausibile perché l’obiettivo primario di questa teoria era quello di allargare (in maniera piuttosto maldestra) all’ambito emozionale quella che era la comunicazione conoscitiva inter-soggettiva, ossia l’universalità della conoscenza e perfino (secondo Husserl) della coscienza stessa. Non a caso al proposito Scheler [Max Scheler, Essenza…cit., IV, 5 p. 99-100] dimostra che in fondo il concetto hussserliano di “coscienza trascendentale” (Io puro) rientra in definitiva addirittura nella concezione metafisico-unipatica dello Spirito universale in quanto Vita, e quindi tutto prevede tranne le persone e la reale relazione tra di esse. E questo è da considerare senz’altro un suo attacco alla versione husserliana della teoria dell’empatia, ossia quella dell’”entropatia” [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, 1 p. 61-63, I, II, II p. 89-94, I, II, II p. 111-114, I, II, III p. 135-138, I, IV, I p. 334-337, I, IV, II p. 375-377, II, II, Introd. p. 528-533, II, III, II p. 670-680], che poi ancora una volta non è altro che la teoria dell’inter-soggettività. Abbiamo appena visto che Husserl sviluppò il concetto anche in Idee, ma Laura Boella menziona in particolare il manoscritto inedito dal titolo Zur Phänomenologie der Intersubjektivitä. Texte aus dem Nachlaß [Laura Boella, Introduzione…cit., in: Max Scheler, Essenza…cit., 1 p. 9]. Ed ella dimostra (in questa parte della sua introduzione) anche la storicità di questa polemica tra i due pensatori.
    E come si può vedere Husserl era interessato in primo luogo esattamente alla sola inter-soggettività. Certo è che, una volta constatato tutto questo, appare evidente che l’intera teoria dell’empatia (nella sua parte steiniana ed ancor più nella sua parte husserliana) fu ed è del tutto superflua nello sforzo di comprendere il co-patire, ossia di fatto quella simpatia che coincide ampiamente con la relazione inter-umana.
    Ebbene abbiamo visto che il momento filosofico-metafisico centrale di tale dottrina è rappresentato dalla persona. Ma allora cos’è esattamente la persona per Scheler? Abbiamo già visto più volta cosa sia, ma ora vale la pena di arrivare al dunque.
    La persona umana è in primo luogo un assolutamente originario “centro di atti”, e precisamente lo è in quanto capace per natura di riconoscere nelle cose del mondo esteriore un valore. Del resto a questa conclusione giunse anche Stein quando (in Der Aufbau der menschlichen Person) [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4, p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127] pervenne finalmente ad una visione personalista, sebbene su basi fenomenologiche non poco diverse da quelle scheleriane. Insomma, dal punto di vista umano, l’oggetto mondano non è affatto l’eticamente indifferente “cosa della fisica” ma è invece in primo luogo un valore, ossia un’entità etica che ha un’importanza capitale nell’agire personale. Intanto però in Scheler questa capacità di riconoscere valori non ha importanza solo nel generico agire ma invece ancor più entro la relazione umana.
    Ma comunque, proprio in quanto centro di atti, le persone sono e restano sempre diverse tra loro (anche perfino prescindendo dai corpi diversi e dalle diverse sfere di coscienza) a causa del loro “esserci” in quanto centri di atti. Esse sono autonome per definizione e quindi non possono in alcun modo venire portate a coincidenza. Insomma le persone non possono venire individuate nello spazio-tempo, come lo sono i corpi. Abbiamo anche visto che esse si presentano entro la relazione (co-sentire) specie nel contesto dell’amore, come entità che hanno valore del tutto incondizionatamente (“persona in quanto persona”), e non invece per accidentali virtù che esse possano possedere. La loro diversità sta quindi nel loro ”puro esser così sé stesse”, cioè per la loro essenza personale. Esse sono insomma irrimediabilmente diverse in quanto “individui assoluti”. Quindi il co-sentire può essere solo “rapporto reciproco”, ossia la vita stessa della comunità alla quale esse sono “destinate” quali persone; cosa che consiste nell’“essere destinati l’uno per l’altro” che è proprio degli esseri umani [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 91-92]. Eccoci insomma di fronte alla relazione io/tu del classico Personalismo. Ancora più precisamente, per Scheler, la loro relazione consiste nell’“armonica integrazione di valore”, ossia nella capacità di condividere i vissuti dei valori.
    Intanto però, ancora più originariamente, la persona sta in relazione solo con sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., A, II p. 63-67]. Essa è un individuo che, per sé stesso, mai permetterà l’estensione della propria realtà a quella degli altri. Infatti la relazione con il proprio corpo vivo è unicamente solipsistica e non comporta alcuna possibilità di estensione di tale esperienza a quella dell’altro. Ne consegue che non è certo nella persona − come avviene entro la teoria dell’empatia – che vi è la radice di qualunque genere e grado ci co-sentire.
    È esattamente per questo che Scheler ritiene l’unipatia [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 83-93] la radice (elementare, profonda e vitale) di qualunque relazione esistente tre le persone. Per la precisione il nostro pensatore rigetta l’unipatia come spiegazione integrale del co-patire. Infatti il co-sentire o co-patire non possono venire pensati mai come identità di essenza, ma solo nella differenza. Tuttavia egli accorda all’unipatia una notevole importanza di fondo, dato che essa pone un’unità di fondo della Vita solo entro la quale questa differenza può venire superata. Ed in particolare pone in primo piano la valenza metafisico-religiosa di questo complesso di dottrine. Perché secondo lui l’essere destinate l’una all’altra delle persone è teleologica, e quindi esige una Ragione infinita, cioè Dio. Che ha causato l’esistenza delle persone finite mentre le ha pensate (come idee): − “essere così di volta in volta in sé individuato”. Il che comporta quindi una metafisica teistica o al massimo panenteistica ma non panteistica e monistica (spirito super-personale).
    In ogni caso questa concezione del fondamento unipatico del rapporto tra le persone non va in Scheler oltre certi limiti. Ed abbiamo anche già visto perché – l’unipatia riguarda infatti un’unità che sta decisamente al di sotto della coscienza (nel pieno dell’elementare dimensione istintuale-vitale) e quindi fonda la relazione tra le persone ma non ne attinge affatto la realtà ontica.
    E ciò riguarda ancora una volta l’amore. L’amore della persona è infatti per lui del tutto “acosmico” proprio perché esso si svolge nel rapporto assolutamente esclusivo tra individui personali, ciascuna delle quali sta intanto nella sua pienezza ontologica, ossia ha valore unicamente per sé stessa [Max Scheler, Essenza…cit., VI, p. 116-119]. Quindi non tocca né l’universalità né l’unità della Vita (in qualunque modo essa venga concepita). E ciò accade in quanto la persona è amabile solo in quanto radicalmente originario assoluto ontologico, e cioè senza alcuna possibile spiegazione. Ciononostante l’unipatia resta presente qui almeno nella dimensione dell’”umanità” che viene sempre coinvolta nella relazione tra persone. Infatti, nel darsi ad un’altra persona come uguale al proprio Io, la persona si fonda in definitiva sull’uomo come persona (e viceversa) cioè sull’umanità (come avviene nella sempre unipatica filantropia). Insomma qui l’uomo stesso inizia a presentarsi come persona. Il che è provato dal fatto che, entro l’autentica filantropia, non si fa alcuna differenza tra uomo e uomo (né di razza e cultura né tra amico e nemico). Inoltre vi è l’aspetto fondamentale rappresentato dalla necessità del dischiudersi spontaneo (o meno) della persona (cioè la sua libertà) perché si sviluppi l’amore. Il che è tipico del concetto umanistico-cristiano di uomo in quanto persona e non invece dell’umanismo basato sul valore assoluto dell’uomo.
    Tutto il resto riguardante la persona viene detto da Scheler nei temi che abbiamo trattato nelle sezioni precedenti, per cui a tale riguardo non ci resta da dire più nulla. Quello che è certo è comunque che la sua visione del co-patire, essendo incentrata sullo status ontologico della persona, rientra in primo luogo nella visione personalista. Invece la dottrina steiniana dell’empatia rientra unicamente nella teoria della cognizione che venne fondata da Husserl per giustificare la gnoseologia in quanto inter-soggettività, ovvero sapere universale.

Conclusioni.
Il grande sintesi si può dire che, nella vita emozionale della persona, sono per Scheler da considerare alcuni grandi e primari fenomeni: − co-patire (unito al co-sentire), amore-odio e simpatia. Il co-patire (o anche co-sentire) è un fenomeno ontologicamente originario dell’uomo ed ha senza alcun dubbio una valenza etica ed insieme relazionale-sociale. Esso fonda insomma la vita sociale nei suoi aspetti più intensamente etici specie nella forma di una tendenza spontanea alla condivisione con gli altri di qualunque esperienza (e più particolarmente nella condivisione di valori). L’amore-odio sono (emozionalmente) ancora più radicalmente originari del co-patire e per questo sfuggono anche alla stessa dimensione relazionale-sociale. La simpatia infine non è altro che una specie empatia che è però possibile solo nel volontario andare l’uno verso l’altro da parte di persone che altrimenti sarebbero tra loro insuperabilmente separate.
Oltre a ciò tenteremo ora di mettere in evidenza i punti più salienti di tutto quanto abbiamo mostrato finora. Ma innanzitutto, nel cercare di trarre delle conclusioni da tutto quanto abbiamo appena detto circa l’amore, dobbiamo dire che la dottrina scheleriana del co-patire non trova il suo riferimento solo nel Personalismo ma anche in un certo «spiritualismo» nella concezione della persona. E ciò concorda con una delle costatazioni che abbiamo fatto nel nostro già citato saggio sul Personalismo, collocando così Scheler nella corrente più spiritualista del Personalismo stesso. Infatti la radicale originarietà onto-metafisica della persona si giustifica in Scheler considerando quest’ultima appunto in primo luogo come uno spirito. Ed alcune sue specifiche affermazioni esprimono questo con particolare forza, ma ci permettono anche di capire di che natura sia (in termini filosofici) la sua dottrina.
Egli dice infatti che “il puro co-sentire appartiene all’essenza dello spirito umano”, e quindi “è un atto a priori dotato di una materia a priori”, corrispondente poi a sua volta al “valore dell’altro in generale” [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 87-88]. Quindi esso non si verifica affatto nell’ordinaria esperienza sensibile che facciamo degli uomini e dei loro stati d’animo (vissuto), ma intanto gli offrono solo oggetti da sviluppare.
A partire da ciò è chiaro che la compartecipazione empatica non è per nulla un atto mentale fondamentale, ma è semmai soltanto la comune costatazione di un valore (al quale segue poi un comportamento pratico), che a sua volta avviene solo una volta che l’uomo venga considerato come spirito. Pertanto alla base di ciò non vi è alcuna operazione di coscienza (nel senso del sentire i propri vissuti come quelli dell’altro). Quindi il vero co-sentire non si basa nemmeno sull’auto-coscienza. Si tratta invece solo dell’esistere, presso l’uomo, di una incoercibile ed essenziale realtà etico-spirituale.
Ecco allora che la quella scheleriana può venire considerata come una dottrina intuitivo-metafisica del co-sentire, e pertanto direttamente affermativa, assoluta e primaria. Essa è quindi del tutto giustificata rispetto alle altre che sono invece tutte deduttive e secondarie. In particolare la dottrina scheleriana del co-patire descrive un fenomeno che parla unicamente l’uomo nella sua essenza di spirito al di fuori di qualunque altra giustificazione (naturalistica, psicologica o filosofico-metafisica che sia).
Abbiamo inoltre visto che la sua dottrina non ci mostra il co-patire nella sua sola dimensione etica ma anche in quella etico-religiosa (in quanto superamento dell’egocentrismo, e quindi via di formazione della persona fino al suo massimo compimento). E indubbiamente ciò rende ancora più superflua quella teoria steiniana dell’empatia che è così artificiosa nel suo intellettualismo.
Ma naturalmente quanto abbiamo osservato rende superflue molte altre teorie del co-patire, e precisamente quelle psicologiche (e soprattutto psico-evolutive) più ancora che quelle filosofiche. Inoltre è assolutamente sorprendente che (nel cogliere il fondamento unipatico del co-patire) Scheler riesca a cogliere perfino lo strato del fenomeno che più si discosta dalla coscienza e quindi dalla noetica, ossia lo strato più vitale-istintuale del co-patire.
Insomma il co-patire appare essere un fenomeno che si spiega soltanto in base a quattro elementi tra loro intimamente congiunti: − 1) la dimensione inevitabilmente etica dell’essere ed agire umani; 2) lo status ontologico specifico che caratterizza la persona umana (differenziandolo da tutti gli altri enti); 3) la natura radicalmente spirituale di quest’ultima; 4) il rientrare pieno dell’intero fenomeno in un’antropologia non solo irrinunciabile ma anche estremamente radicale.
E ci sembra che questo avvicini molto la riflessione scheleriana a quella (altrettanto personalistica) di Berdjaev [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951; Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], il quale vede nell’uomo addirittura l’essere stesso nella sua pienezza, e precisamente un essere perfettamente identico allo Spirito. Con la conseguenza che anche le due concezioni personaliste si lasciano approssimare molto da vicino.
Ma a causa di questo riteniamo che, a fronte di tutto ciò, la pur vaga parvenza psicologica che ha la dottrina steiniana dell’empatia (nonostante la sua forte forma filosofico-gnoseologica) si dissolva completamente, dimostrando in tal modo di non essere riuscita assolutamente a cogliere l’essenza del fenomeno. Del resto abbiamo visto che Scheler respinge nettamente qualunque spiegazione psicologistica del co-sentire, dato che essa è ancora più lontana dalla capacità di cogliere la vera essenza del fenomeno. Non a caso una delle principali obiezioni di Scheler all’empatia è che la sua forma più autentica, cioè il co-sentire, è un fenomeno etico- e metafisico-religioso (cioè il superamento dell’egoismo nel riconoscimento dell’altro quale ulteriore idea-essenza; il che costituisce poi un vero e proprio “cambiamento del cuore”), e non invece un fenomeno di coscienza [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 2 p. 86]. Quindi esso non è affatto un fenomeno psico-fisiologico (anche se compreso in modo filosofico e peraltro fenomenologico) com’è l’empatia steiniana. Inoltre il pensatore rileva la totale inadeguatezza dell’atto di immedesimazione (in quanto mediazione) per la pienezza del co-sentire [Max Scheler, Essenza…cit., A, IV, 1 p. 78-82]. Ma questo è esattamente il presupposto nell’empatia.
Insomma a causa di tutto ciò la nostra personale impressione è che Stein, nel postulare l’empatia (pur nel lodevole tentativo di estendere alla dimensione emozionale il concetto husserliano di inter-soggettività), abbia preso un sostanziale abbaglio. E questo sembra essere accaduto perché, invece di riflettere come Scheler sulla vera empatia, ella l’ha invece assimilata proprio all’inter-soggettività stessa, pretendendo però intanto che essa fosse un fenomeno emozionale ed affettivo. In altre parole la teoria steiniana dell’empatia sembra essere il puro effetto passivo delle elucubrazioni intellettualistico-gnoseologiche (inutilmente complesse) di Husserl, dalle quale Stein si è fatta contagiare giungendo così al travisamento di una materia che invece Scheler spiega perfettamente, chiaramente ed in maniera molto più convincente.
Ecco allora che il co-patire (che intanto può venire denominato in molti modi, tra i quali quello di simpatia e perfino di empatia) appare essere in primo luogo un fenomeno onto-metafisico ed etico riguardante l’uomo in quanto persona ed in quanto spirito. In esso quindi non abbiamo alcun di diritto di cercare l’equivalenza con mere funzioni psicologiche come l’”assunzione di prospettiva altrui”. Né abbiamo alcun diritto di cercare la supposta quanto mitica capacità dell’uomo di entrare misteriosamente in sintonia con i vissuti altrui (fino a trasporsi addirittura nell’intimità dell’altro). Infatti non si tratta di nulla di tutto questo. Si tratta invece di qualcosa di molto più semplice. Si tratta cioè soltanto del fatto che gli uomini sono destinati per natura ad entrare in relazione l’uno con l’altro, e lo sono in quanto persone (ossia enti radicalmente spirituali). Laddove questa disposizione trova la sua massima ed estremistica espressione nell’amore. Ecco allora che in definitiva la concezione scheleriana del co-patire riesce davvero a portare a chiarezza filosofica una concezione che da sempre ha trovato la sua espressione nella Rivelazione e nella dottrina cristiane, ossia nell’insegnamento di Gesù Cristo.
Su questa complessiva base – nonostante siamo appassionati studiosi del pensiero steiniano ed inoltre ne ammiriamo immensamente la figura di donna, pensatrice e religiosa − ci sentiamo di dire che, se davvero vogliamo comprendere cosa si debba intendere per «empatia», dobbiamo rivolgerci al pensiero di Scheler e non a quello di Stein. Del resto il suo libro dedicato all’empatia si inscrive in maniera molto passiva nel pensiero husserliano, e quindi rappresenta un momento della sua riflessione nel quale ancora non si era per nulla manifestata la grande potenza, originalità e profondità di essa. E proprio per questo motivo riteniamo che l’attuale (sedicente) «psichiatria fenomenologica» dovrebbe smettere di prender a modello LE (ed inoltre lo stesso concetto di «empatia») e dovrebbe invece dedicarsi allo studio delle opere di Scheler, e quindi alla sua definizione del co-patire e del co-sentire.

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Introduzione.
Vorremmo partire in questa nostra trattazione chiedendoci come mai Edith Stein, nella sua trattazione dell’uomo come spirito (in ”Potenza ed atto”) (PA) Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, 26, i-j p. 380-386], abbia scelto i “Metaphysische Gespräche” (MG) di Hedwig Conrad-Martius [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018] e non invece il testo di Max Scheler che parla di fatto dello stesso argomento, e cioè “La posizione dell’uomo nel cosmo” (PSUC) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 2006]. Ma in verità la risposta a questa domanda può essere immediata e quindi non richiede alcuna investigazione – Stein partiva dall’onto-metafisica tomistico-aristotelica esattamente come la Conrad-Martius (e faceva sue anche le possibili extrapolazioni critiche contro la dottrina evoluzionistica), e quindi non poteva fare altro che definire l’«uomo-quale-spirito» in una maniera simile a quella di Scheler ma anche estremamente diversa. In particolare l’«uomo-quale-spirito veniva da Stein definito come un ente che è specchio immanente della divinità (in maniera in qualche modo simile a Scheler) [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 119, p. 160-162, p. 186-191; Max Scheler, Sull’idea di uomo, ibd., 3 p. 72-79] – quindi come ente di fatto umano-divino − ma comunque sulla base di una somiglianza di natura teologica a Dio (filialità) che il pensatore rifiuta decisamente sia sulla base di una definizione molto diversa dello spirito sia anche sulla base di una concezione del tutto diversa della relazione tra uomo e Dio.
Non a caso il testo scheleriano rientra nella fase decisamente non teistica del suo pensiero (sebbene in essa un forte naturalismo si sposi con una forte religiosità ed anche con un non indifferente spiritualismo).
Inoltre Scheler concepì in modo molto diverso da Stein e da Conrad-Martius il rifiuto dell’idea evoluzionistica secondo la quale l’uomo discende dall’animale – sebbene concepisse una forte continuità biologica tra uomo ed animale sulla quale infine si eleva la spiritualità umana come un fenomeno del tutto imprevedibile e trascendente. In lui infatti non compare assolutamente la gerarchia verticale (concepita dalle due pensatrici) esistente tra i tre regni della Natura riguardanti gli esseri viventi (piante, animali e uomo), e che culmina nell’uomo come presunto scopo ultimo dell’intera evoluzione ed anche della creazione stessa (gerarchia di chiara derivazione tomistico-aristotelica). Va precisato che però Stein aveva già esposto tempo prima questa sua visione soprattutto in Der Aufbau der menschlichen Person (AMP).
Scheler non concepisce insomma affatto una linea evolutiva verticale che rechi all’uomo come ente più elevato, ma al contrario lo considera (in concordanza con Nietzsche) una sorta di finale e deviante ente “malato” e quindi difettivo, cioè qualcosa che si contrappone alla ben maggiore compiutezza e perfezione degli strati istintuali vitali (presenti nella pianta e nell’animale) che stanno sotto di esso [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., 2 p. 54-72]- In altre parole l’uomo è per lui da considerare uno spirito in un senso e per motivi molto diversi da quello della suprema elevatezza ontologica, e cioè in forza di una sorta di suo deragliamento dalla ben più plausibile condizione naturale. Sebbene poi alla fine i caratteri dell’«uomo-quale-spirito» da lui descritti siano in gran parte simili a quelli descritti da Stein.
Va precisato anche che la convergente critica all’evoluzionismo di Stein e Conrad-Martius emerge anche in un’altra opera di quest’ultima [Hedwig Conrad Martius, Ursprung und Aufbau des lebendigem Kosmos, Otto Müller, Salzburg-Leipzig 1938]. Di tutto questo abbiamo comunque parlato in una serie di nostri scritti [Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < http://cieloeterra-wordpress.com/2022/27/10/vincenzo-nuzzo-levoluzione-nel-pensiero-di- hedwig-conrad-martius-e-edith-stein>; Vincenzo Nuzzo, La fenomenologia evoluzionistica come dinamica dell’essere e formazione vitale. Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius a confronto, Amazon, Kindle (in via di pubblicazione)].
Tutto questo ha un riflesso molto diretto sul Personalismo nel quale si inscrivono tanto il pensiero steiniano quanto quello scheleriano. Perché per Stein «uomo-quale-spirito» è una persona per due motivi filosofici abbastanza diversi (che lei fece convergere nel tentativo di conciliare Tommaso ed Husserl): − 1) in quanto è una sostanza metafisica quale anima ed anche spirito (e ciò in linea ancora una volta con l’onto-metafisica tradizionale); 2) in quanto è un Io spirituale auto-determinatosi nel contesto dell’auto-coscienza così come previsto dalla Fenomenologia husserliana e cioè sulla falsariga dell’atto di riduzione fenomenologica (ossia di fatto in quanto Io esistente trasformatosi in Io puro grazie a quel distacco teoretico la cui valenza era primariamente gnoseologica). Per Scheler invece – in base ad una teoria filosofica molto meno complessa di quella di Husserl, e che peraltro rifiutava recisamente la dottrina della riduzione fenomenologica [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 153-159] – «uomo-quale-spirito» è persona in quanto costituisce un centro di atti posto totalmente fuori del mondo sensibile, e quindi è radicalmente trascendente verso di questo nel contesto di un distacco che è “ascesi” e non invece distanza teoretica dalla valenza gnoseologica. Lo è insomma per motivi ontologici profondamente etici.
Quella appena fatta è però appena una premessa chiarificatoria, e non invece l’obbiettivo e il contenuto primario della nostra ricerca. Comunque è obiettivo secondario della nostra ricerca anche l’analisi di alcuni aspetti delle relazioni filosofiche tra Scheler e Stein. Per cui nelle conclusioni faremo delle precisazioni su questo aspetto. In ogni caso l’obiettivo ed il contenuto primario della nostra ricerca consistono nei risvolti specificamente psicologici che compaiono nella ricerca di Scheler sull’«uomo-quale-spirito». La sua intera concezione di tale entità si basa infatti non sull’onto-metafisica ma invece sua una serie di dati che egli desume dalla ricerca scientifico-empirica sia di tipo evoluzionistico che di tipo psicologico, ed inoltre sulla base di una conoscenza diretta e approfondita dell’anatomia del sistema nervoso e delle sue funzioni. Scheler infatti prima che filosofo fu medico, ossia si laureò in Medicina. Di certo, a partire da questa base, egli perviene in PSUC a conclusioni squisitamente metafisiche (che definiscono in modo ultimo l’«uomo-quale-spirito»), ma la base delle sue argomentazioni non è certamente metafisica.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi a quali conclusioni (circa l’«uomo-quale-spirito») Stein sarebbe pervenuta se si fosse basata sull’opera di Scheler e non invece su quella di Conrad-Martius (ed anche di Husserl). Ma questa questione perde ogni senso dato che il campo di ricerca da lei scelto (dopo la Fenomenologia) fu chiaramente quello dell’onto-metafisica medievale e cristiana.
In ogni caso, dato che abbiamo recentemente scritto un saggio sulla “Psicologia Sacra” (PS) [Vincenzo Nuzzo, Psicologia Sacra, Victrix 2023 (in via di pubblicazione)] vorremmo cercare di comprendere quali contributi (positivi o negativi che siano) la psicologia filosofica di Scheler potrebbe (o meno) offrire ad essa. Ma a questo punto va notato che, siccome la definizione scheleriana di «uomo-quale-spirito» si riassume nella persona umana, i risultati di questa ricerca potrebbero avere una ricaduta anche su quella concezione steiniana della persona che senz’altro si lascia inquadrare, molto più di quella scheleriana, proprio in una PS.
Peraltro in questa opera avevamo parlato espressamente di una psicologia filosofica (ed avevamo anche citato Scheler per molti aspetti di quest’ultima), e tuttavia avevamo trascurato il testo PSUC visto che ancora non conoscevamo. Eppure si può dire che questo testo va considerato come uno dei maggior contributi del XX secolo alla psicologia filosofica.
Questa investigazione ha quindi anche lo scopo di colmare questa lacuna.

  1. Cosa sono la psiche e lo psichismo secondo Scheler?
    In questa sezione intendiamo esaminare con quali specifici contenuti (almeno in PSUC) Scheler si presenta come psicologo filosofico. Infatti non è possibile essere tale senza una definizione della psiche e dello psichismo. Vedremo però anche che tale definizione è piuttosto difficile da rintracciare in Scheler. E ciò ha poi conseguenze che in seguito esamineremo.
    A questa domanda risponde comunque quasi immediatamente un articolo nel quale si sostiene che per Scheler il soggetto umano, non essendo affatto un “Io”, è invece in verità luogo di “atti” e non di funzioni [Sergio Sánchez Migallón, El sujeto humano como objeto de la Psicología: las funciones psíquicas en Max Scheler y en Carl Stumpf, Revista de Filosofia, 30 (2), 215-228]. Pertanto è chiaro che la più autentica natura dell’«uomo-quale-spirito» non è affatto quella di psiche o psichismo. E di questo potremo trovare molti riscontri in PSUC.
    Ma questo significa che esso non è nemmeno la realtà egoico-coscienziale descritta da Stein sulla base di Husserl. Il che significa che la teoria husserliana dell’Io spirituale è di natura molto più psicologica di quanto vuole far credere. E questa cattiva interpretazione viene senz’altro corretta da Scheler.
    In generale si può dire che in PSUC Scheler considera la psiche quasi unicamente come fenomeno profondo, elementare e basico, che è strettamente connesso agli impulsi vitali ed istinti, ossia a quella che egli chiama “affettività” (dimensione con la quale, però, come vedremo, non va inteso né l’emozione né il sentimento). Essa si trova quindi senz’altro al di sotto dello strato ontico corrispondente nell’uomo allo spirito. Che però (come vedremo tra poco) rappresenta uno psichismo compiuto e superiore in quanto luogo di «vissuti».
    Almeno in questo testo non è possibile però comprendere che posto e livello Scheler assegni alla mente nella compagine umana, se la identifichi o meno con la psiche e/o con lo psichismo, e quindi se egli la consideri più superficiale ed esteriore rispetto a questi ultimi. Extrapolando il suo pensiero si potrebbe dire che egli la identifica con gli aspetti più spirituali dell’essere ed agire umani. Ma vedremo che poi questa interpretazione viene alla fine a cadere.
    E più o meno lo stesso si può dire per l’anima, che egli nomina raramente (a parte alcuni accenni, tra i quali diversi dispregiativi) ed alla cui esistenza egli non sembra attribuire né valore né compito nè senso nel contesto della sua identificazione del centro umano come lo spirito.
    Al massimo quindi si potrebbe parlare della sua postulazione di un’«anima spirituale» − così come quella concepita anche da Stein [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9-11 p. 360-396; Edith Stein, Übersetzungen III. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit I. Quaestio X, ESGA vol. 23, X, p. 259-262] −, ossia un’entità che ha un valore solo in quanto è totalmente riducibile allo spirito.
    Nel complesso, dunque – in relazione alle suddivisioni che abbiamo fatto in PS – si può dire che anche Scheler (come la maggior parte della psicologia ordinaria moderna) intende la psiche come profonda e la mente come solo superficiale. Tuttavia non solo questa divisione non ha in lui alcun correlato anatomico-fisiologico né metafisico (e quindi non indica affatto un’esteriorità); ma inoltre il termine «superficiale» andrebbe semmai sostituito da quello di «emergente», dato che lo spirito umano in qualche modo emerge dai fenomeni vitali ergendosi su di essi. Ma questa sua emergenza non equivale affatto né al superficiale né all’esteriore. In altre parole, insomma, la mente umana sarebbe qualcosa che si eleva sullo psichismo profondo, in qualche modo anche trascendendolo ma comunque restando con esso in intima connessione.
    Quello che è certo è che il suo punto di riferimento basico per una psicologia filosofica è stato soprattutto Bergson, del cui pensiero egli parla molto diffusamente, sebbene non risparmi anche critiche al pensatore francese [Max Scheler, Tentativi per una filosofia della vita, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 94-114].
    In questa trattazione egli si basa come sulle opere bergsoniane “Essai sur le donnée immédiates de la conscience” e “Matière e memoire”. In effetti (almeno per quanto dice Scheler) sulle prime è quasi impossibile dire cosa Bergson intenda per psiche e psichismo – dato che egli le condiziona ad un primario atto filosofico di relazione tra uomo e mondo. Egli insomma intende l’atto psichico in termini davvero primariamente filosofici, e quindi salta a piè pari qualunque anatomo-fisiologismo nella concezione della psiche (specie quello empiristico e proprio della psicologia ordinaria). In grande sintesi si tratta del fatto che per lui l’ordinaria percezione avviene soltanto nel contesto di un atto psichico che è sostanzialmente filosofico ed è costituito da un automatismo (assolutamente non pensante) esattamente equivalente all’intuizione delle cose come un “dato puro” che è poi antecedente a qualunque esperienza. Questo automatismo-intuizione precede quindi la percezione, la quale per Bergson rientra già nella sfera dell’analisi logica. Potremmo quindi considerare quello qui descritto come un atto psico-filosofico che senz’altro è pre-psicologico, nel senso che precede l’intera anatomo-fisiologia della percezione, e quindi anche la trascende.
    Per suo mezzo comunque sarebbe possibile, secondo il filosofo francese, per la via di una tensione spirituale che ricostruisce la totalità del mondo rompendo così tutti gli schemi divisori istituiti dalla psicologia nel fare appello alla mera fisiologia della percezione (e poi del giudizio). In altre parole, per mezzo di questo atto filosofico, il mondo non viene colto come frazionato in cose percepite (così come invece ha postulato l’empirismo del tutto di concerto con l’ordinaria psicologia). Ma in definitiva si tratta di ben più che del cogliere la totalità delle cose. Infatti, per mezzo di questo atto, Bergson pensa che la psiche è capace di cogliere la vita stessa (rescindendola dal mero fenomeno biologico) riuscendo in tal modo a cogliere addirittura l’essenza delle cose. La dimensione cognitiva comunque non manca. Essa infatti si presenta dopo con la memoria, entro la quale emerge la dimensione del tempo.
    Ebbene tutto questo corrisponde per Scheler ad uno dei principali postulati dell’intera Fenomenologia, ossia alla primarietà del coglimento della “datità dell’essere” come primaria rispetto a qualunque giudizio. Il che pone di nuovo in primo piano il coglimento dell’essenza delle cose, ossia l’intuizione eidetica. E questo pone in primo piano quello che è il dato fondamentale della vita psichica secondo Scheler ossia i vissuti, o meglio il «flusso dei vissuti». Ed è così che ci avviciniamo alla definizione di ciò che per lui è psiche e/o psichismo (almeno nella sua forma più elevata). Infatti in tal modo emerge quell’”uomo spirituale” – in quanto continuità indivisa e indivisibile (flusso dei vissuti) – che è dunque senza tempo in quanto consecuzione. In esso, cioè, nulla di attuale scaturisce dal passato (come avviene invece nella causalità meccanica alla quale la psicologia ordinaria si subordina mediante la fisiologia della percezione). E questo è in profonda contraddizione con le leggi della natura dato che tutto è solo creatività.
    Ed ecco dunque cos’è e cosa non è la psiche per Scheler. La psicologia ordinaria la considera infatti come “sostanza semplice” che starebbe sopra i propri vissuti, mentre invece essa «è» i suoi stessi vissuti, ossia è dinamismo instabile. E tutto questo ci riporta dunque (Bergson) all’intuizione come aspetto fondamentale (“compito fondamentale”) della vita psichica. Essa incarna infatti quell’unità dell’anima entro la quale i vissuti non sono affatto singoli, e quindi elementi oggettivi spaziali ricavabili per induzione, cioè “immagini e simboli spaziali applicati alla vita psichica”. Viene dunque esclusa qualunque costituzione della psiche dal basso. Ebbene questa creatività corrisponde alla coscienza individuale come luogo di vissuti dinamici, e come tale senza alcuna relazione con le leggi della natura – essa è qualcosa di sommamente autonomo rispetto a qualunque “immagine ontologica della psiche”. Tuttavia questa definizione della psiche collide fortemente con ciò che vedremo nella prossima sezione, e cioè il fenomeno della dipendenza di tutto questo da quegli strati profondi della psiche che contengono solo impulsi vitali ed istinti.
    Dunque, anche se questa è l’idea che Scheler ci da dello psichismo nella sua pienezza e compiutezza, esso corrisponde intanto interamente alla dimensione spirituale dell’uomo, e quindi è senz’altro qualcosa che va molto oltre qualunque concezione della psiche come anatomo-fisiologia e come energia, ossia come profondità. In qualche modo si potrebbe però dire che ciò corrisponde probabilmente a quanto il pensatore intende come mente. Ma anche quest’ultima viene intesa al di fuori degli schemi tanto della psicologia ordinaria che di quella filosofica. La dimensione dei vissuti appare infatti assolutamente primaria rispetto a tutti gli aspetti cognitivi che usualmente vengono collocati nella mente (giudizio etc).
    Tuttavia, come abbiamo appena detto, questa concezione compiuta della psiche viene considerata da Scheler in continuità con una dimensione molto più inferiore, che è caratterizzata dall’impulso vitale e dall’istinto. Quest’ultima però non può venire compresa se non entro il suo sforzo di definire cos’è lo spirito e dove esso di collochi entro la compagine umana. Per comprendere questa definizione dobbiamo quindi integrare l’intendimento scheleriano della psiche e/o dello psichismo con la sua concezione dello spirito.
    E questo va quindi trattato in una seconda sezione.
  2. Psiche e/o psichismo e spirito.
    Per questo scopo dobbiamo rivolgerci al nucleo della trattazione da lui fatta in PSUC e cioè alla parte del testo che da il titolo al libro [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 117-191]. Scheler dice subito che il problema principale è qui la “concezione essenziale dell’uomo”, ossia quell’idea di uomo che egli aveva trattato nella prima parte del suo libro nel tentativo di rifondare un’antropologia filosofica [Max Scheler, Sull’idea di uomo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 51-79]. E ciò corrisponde ancora una volta esattamente allo stesso sforzo che fece Stein in AMP. Proprio qui comunque egli (in maniera fortemente divergente rispetto a Stein) aveva affermato che innanzitutto l’uomo non è affatto il culmine né dell’evoluzione né della creazione né è in alcun modo l’immediato corrispettivo di Dio nel mondo. Infatti, nel pensare questo, egli sottolinea che si dimenticano gli intensissimi legami che l’uomo intrattiene con gli strati più bassi dell’essere mondano, ossia con la Vita. E questi ultimi costituiscono quindi quegli impulsi vitali e istintuali che sono intimamente legati allo psichismo umano, e quindi fanno parte integrante di esso. Ecco allora che semmai l’uomo dovrebbe venire considerato come una sorta di forma di passaggio (o confine) sul cammino che divide Dio dalla Vita. Esso, dunque, è sì un intermedio cosmico tra Dio e mondo-vita, ma lo è in senso solo difettivo. Intanto comunque, in quanto evidente prodotto della biologia animale, esso va considerato tutt’altro che un vertice perfetto ma invece semmai un pessimo “surrogato” di quella perfezione che la Vita possiede soprattutto in termini di forza e potenza. Ecco dunque la definizione dell’uomo come “animale malato”. Intanto proprio su questa base si è preteso invano secondo lui di fondare l’unità dell’”homo naturalis” sulla sua dimensione animica (a sua volta quale diretta emanazione di Dio).
    Ma invece a suo avviso (in termini strettamente biologici e quindi sobri ed autentici) l’uomo era, è e resta solo animale. E quindi tutte quelle sue caratteristiche superiori (che sembrano di valore in quanto elevate, come ad esempio l’intelletto) non sono altro che il frutto di un fenomeno biologicamente negativo, ossia il suo mancato adattamento all’ambiente.
    Tuttavia il frutto di questo fenomeno negativo è stato comunque qualcosa di positivo, ossia la dimensione storica dell’uomo, e quindi la cultura e civiltà. Ed è pertanto solo qui che si può ritrovare un’unità dell’uomo (non certo invece sul piano dell’uomo naturale, a sua volta connesso all’anima). Inoltre è solo qui che si può rintracciare l’autentica relazione che esiste tra l’uomo e Dio, e cioè sul piano della sua somiglianza a Dio come “Persona infinita e perfetta”. L’unità dell’uomo è concepibile quindi solo come personalistica ed umano-divina; affatto invece come naturalistica. L’unità dell’uomo è dunque unicamente un fatto religioso; e quindi di natura storico-culturale e non naturale. Ecco emergere anche uno dei tratti fondamentali del Personalismo di Scheler, affatto fondato sulla concezione metafisica della sostanza animica. Ma di questo non parleremo in questa indagine.
    E proprio qui che possiamo intendere meglio il fatto che Scheler intende lo psichismo come profondo anche in senso impersonale, e cioè come quel “fenomeno psichico” che la Vita è di per sé; specie in quanto assolutamente fondamentale capacità autonoma di movimento, ossia, diremmo, «se-movenza». E questo è lo psichismo infra-umano − e quindi anche infra-personale o infra-individuale, ossia di fatto collettivo – che sta alla base degli aspetti dello psichismo umano più coincidenti con lo spirito (e quindi forse anche con la mente). Anzi essi ne rappresentano la dimensione energetica, la forza, la potenza, ossia ciò senza cui lo spirito sarebbe condannato ad una fatale impotenza. Si tratta insomma di quella dimensione psico-energetica (coincidente in qualche modo con le famose «potenze animiche», o anche facoltà mentali) che la metafisica (inclusa quella steiniana) attribuiva all’anima. Non solo, ma rispetto a quest’ultima concezione, tale dimensione è anche mono-dimensionale, ossia è caratterizzata dalla pura e prepotente “affettività”, la quale a sua volta costituisce un unico psichismo che verticalmente unisce piante, animali e uomo.
    È proprio su questa base che Scheler ritiene di potersi dedicare alla descrizione di una gerarchia ascendente di forme della vita psichica, che in qualche modo corrisponde (almeno in parte) a quella descritta anche da Stein in AMP, e che quindi ascende da pianta ed animale fino all’uomo. Tuttavia la gerarchia scheleriana differisce molto da quella steiniana. Innanzitutto perché i suoi vari strati non corrispondono affatto a quelli dell’anima secondo la sua classica tripartizione platonica – anima vegetativa (pianta), anima appetitiva (animale), anima razionale (uomo) −, e quindi anche a quelli che sono sempre stati considerati anche gli strati sovrapposti dell’anima umana stessa (e cioè in qualche modo anche della mente considerata come anima, come avveniva nell’antichità). Inoltre l’uomo (ed il tipo di anima che gli corrisponde) non rappresenta per Scheler affatto il fine e livello più alto di questo movimento verticale secondo un giudizio di valore.
    Infine la gerarchia stessa non segue la linea verticale nemmeno secondo una gradazione ascendente di valore e pienezza dello psichismo, dato che (come abbiamo già accennato) per Scheler i livelli più apprezzabili ed autentici dello psichismo sono quelli inferiori e non quelli superiori. Abbiamo visto infatti che (almeno biologicamente) l’uomo di eleva su di essi soltanto come un’”animale malato”. Di conseguenza, rispetto a quanto abbiamo detto nella sezione precedente, possiamo dire che anche la mente si distacca per Scheler nello stesso modo negativo dallo psichismo profondo. Essa, dunque, anche ammesso che è esista, non è altro che una degenerazione dello psichismo profondo.
    Dato che la descrizione scheleriana di questa gerarchia è estremamente dettagliata (e ricca anche di dati sperimentali scientifico empirici ed inoltre di localizzazioni anatomico-fisiologiche dei vari elementi), non crediamo che sia questa la sede per riportarla integralmente. Per questo quindi rimandiamo il lettore al libro. Ci limiteremo quindi ad evidenziare solo alcuni aspetti più rilevanti di queste forme ascendenti di psichismo ed alla fine ci soffermeremo soprattutto sul livello umano in quanto del tutto equivalente alla dimensione spirituale.
    In particolare, mentre in tutti gli animali vi è un “vita delle tendenze” (ossia azione), nella pianta c’è appena un indifferenziato impulso di crescita e riproduzione, che a sua volta rientra nell’affettività pura ed elementare. Abbiamo visto però che questa affettività si ritrova a tutti i livelli crescenti della vita psichica, e quindi ne rappresenta il suo aspetto davvero più profondo ed anche più generale. Scheler precisa che si tratta dell’“unità metafisica della vita” – realtà indifferenziata dalla quale possono nascere tutte le forme.
    Ed a questo corrisponde poi tutta una serie di difettività anatomo-fisiologiche dello psichismo vegetale: − totale passività, generalizzazione a tutto l’organismo dello stimolo ambientale (con assenza di qualunque centralizzazione ed autonomia delle funzioni parziali, e quindi assenza di un sistema nervoso), incapacità totale di adattamento all’ambiente, assenza di individuazione in quanto circoscrizione del proprio essere.
    Nel compensare tutte queste difettività (con caratteristiche del tutto opposte) l’animale si caratterizza sostanzialmente per l’istinto, che è quindi attività ed adattamento per definizione. Ed è ovvio che qui cominciano a comparire sia la centralizzazione della risposta allo stimolo (con la comparsa di un sistema nervoso) sia anche una forma iniziale di individuazione (sebbene sempre riassorbita nell’azione tipica della specie). Il discorso di Scheler sull’istinto è comunque molto complesso (ed anche molto illuminante specie rispetto alla dimensione del comportamento), per cui non lo riporteremo. Va solo sottolineato che, nel suo rapporto con l’ambiente (ed in maniera completamente diversa dall’essere umano), l’animale sperimenta in esso unicamente dei “centri di resistenza” alle sue tendenze, e quindi mai dei veri e propri oggetti. Per questo esso è un “centro biologico” ma in alcun modo un centro gnoseologico, ossia un ente capace di conoscenza.
    Tuttavia, restando sempre pienamente nel mondo animale, la primitività dell’istinto viene superata in un colpo dallo psichismo caratterizzato dall’associazione (“principio associativo”), ossia la capacità dell’animale di associare lo stimolo ad una determinata situazione (traendo così da questo conseguenze cruciali per l’adattamento all’ambiente). Con esso compaiono infatti prestazioni psichiche ben superiori – come emozione, sentimenti ed affetti.
    Segue poi il livello dello psichismo che è caratterizzato dall’”intelligenza pratica” e che è in comune tra uomini ed animali. Con esso l’associazione fa un deciso salto di qualità per l’intervento decisivo della memoria, e si trasforma quindi in capacità di scelta, e cioè in un comportamento differenziato secondo situazioni sempre nuove. E così lo psichismo fa un vertiginoso salto di qualità, dato che comincia a delinearsi “la comprensione di uno stato di cose” – atto psichico nel quale l’esperienza collabora ormai già con la rappresentazione. Insomma questa è davvero una prima forma di intelligenza, ed è presente anche negli animali vertebrati di livello più alto.
    Siamo ormai insomma molto prossimi allo psichismo umano, il quale si delinea, secondo Scheler, con la capacità di “ideazione”. E qui veniamo davvero al dunque perché la dimensione spirituale (e quindi forse quella mentale) è stata in tal modo già raggiunta. Scheler precisa però che non si tratta affatto di un incremento qualitativo dello psichismo precedente. Si tratta invece di un vero e proprio salto, con il quale il decorso ascensivo dello psichismo conosce un’interruzione. Perché ciò che ne nasce è un “centro di atti” che è radicalmente diverso da tutti i “centri di vita” che lo psichismo aveva configurato fino a questo momento. Si tratta quindi di una forma di psichismo che trascende tutte quelle antecedenti, nel senso che esso si colloca “fuori” dallo stesso decorso verticale ascendente delle forme di psichismo, ponendosi quindi in quel “fondamento ultimo” dell’essere nel quale poi rientra la stessa evoluzione. Con ciò si è ormai delineato lo spirito stesso, che assume poi la forma ontica della persona umana. Ed in termini specificamente psichici ciò corrisponde alla ragione (secondo la tradizione greca). Possiamo quindi dire che in qualche modo per Scheler la mente coincide con la ragione.
    Solo che per Scheler si tratta di molto più che ragione. Si tratta insomma propriamente di un insieme di intuizioni e rappresentazioni elevate ad oggetto (e proprio questo è la capacità di “ideazione”). Il che si basa sul fatto che – essendosi ormai completamente emancipato dall’”organico” – l’essere umano non è più sottomesso all’ambiente ma ha invece ormai un “suo mondo”, e così è capace di trasformare in “oggetti” quelli che per l’animale erano invece appena centri di resistenza. Esso è dunque capace ormai di conoscenza ed ancor più di comprensione. L’ideazione gli permette infatti di cogliere l’essenza stessa delle cose, ossia le “strutture eidetiche del mondo”. E con ciò quello psichismo che nell’animale era appena “segnalazione” interiore dei suoi contenuti sensoriali, si trasforma nell’uomo in riflessione. Che è poi ripiegamento” e “centralizzazione” della propria esistenza. Il che significa che l’essere umano non solo è capace di oggettivare i centri di resistenza ambientali in cose, ma è anche capace di oggettivare sé stesso come esistente. Insomma è capace di auto-conoscenza. Ecco quindi l’insorgere di un’”ipseità” che è radicalmente superiore a tutte quelle antecedenti (quella dei corpi inorganici, delle piante ed animali).
    Su questa base Scheler descrive poi tutta una serie di concetti connessi a questo superiore assetto psichico. Non ci soffermeremo però su di essi, limitandoci a ricordare solo la capacità di concepire il concetto di “sostanza” (che è quindi affatto così regressivo e difettivo come l’empirismo aveva voluto far credere) e soprattutto (in relazione all’assolutamente primaria dimensione della realtà spazio-temporale) il concetto di spazio in quanto “mondo” ed in quanto mondo esteriore ad esso.
    E quindi caratteristica tipica dell’uomo è quella di concepirsi come esistente immerso in quest’ultimo, e quindi anche come parte dell’universo. Si tratta insomma di quel «mondo fuori di noi» che anche Stein era giunta a concepire come indubitabile contro le aspettative di qualunque idealismo (cosa che la condusse poi ad una visione realista a sua volta in linea con la tradizionale onto-metafisica). E qui ci ritroviamo sempre nel contesto di quell’”Excursus sull’idealismo trascendentale” (luogo di svolta del suo pensiero dall’idealismo husserliano al realismo), in prossimità del quale ella (basandosi sui MG di Conrad-Martius) aveva definito l’uomo come spirito.
    Qui però bisogna considerare la riflessione che Scheler fa sulla moderna presa di posizione filosofica corrispondente a queste fondamentali intuizioni umane. Presa di posizione che aveva preso le sue mosse con Cartesio ed era culminata nella Fenomenogia husserliana. Si tratta insomma di quel “no” opposto al mondo puramente sensibile (cioè organico) che poi consiste nell’applicazione della sua «messa tra parentesi», ossia quella «epoché» che Husserl aveva posto come metodo (di purificazione della conoscenza) rifacendosi a Cartesio nelle sue “Meditazioni cartesiane”. Per Scheler si tratta però di qualcosa di molto più radicalmente ontologico che non invece superficialmente gnoseologico. Il “no” opposto al mondo, infatti, non è per lui affatto il frutto di un “ragionamento”, e quindi non è affatto una “sospensione di giudizio”. È invece un’“impressione interiore di una resistenza” che viene sperimentata anche già dal grado elementare della vita psichica, ossia dall’«impulso affettivo», e quindi dal centro di tendenze che esiste perfino nel sonno ossia nell’incoscienza. Ecco allora che questa impressione del mondo come intollerabile resistenza precede comunque ogni coscienza, rappresentazione e percezione. Ne risulta dunque che dietro la percezione non c’è affatto la coscienza, ma c’è invece il nostro impulso vitale.
    Questa posizione era stata espressa da Scheler anche nel suo saggio sulla questione idealismo/realismo [Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962], con la quale egli aveva sottratto la presa di posizione fenomenologica a qualunque ipoteca idealistica nel sostenere soprattutto che l’oggetto autentico è e resta quello reale ed esteriore e non invece l’«oggetto di coscienza»; ottenuto per mezzo del “no” («epoché») come messa fuori gioco di qualunque immersione ingenua nel mondo sensibile. L’oggetto insomma non è affatto un “Gegenstand” che emerga soltanto in relazione alla coscienza sveglia. È invece qualcosa che esiste del tutto indipendentemente da quest’ultima.
    Ma in tal modo siamo anche di fronte ad un elemento cruciale della concezione scheleriana dello psichismo. Infatti perfino il così sofisticato atto di trascendenza del mondo nell’ideazione si rivela stare in continuità con un’affettività fondamentale (costantemente presente a tutti i livelli della gerarchia della vita psichica) che costituisce quindi lo psichismo più fondamentale, ossia quello realmente profondo. In altre parole di esso l’uomo non si libera mai, nemmeno ai livelli così alti del suo psichismo mentale-spirituale. Esso, insomma, è lo psichismo reale ed autentico che accompagna perfino lo stato psichico proprio dell’«uomo-in-quanto-spirito».
    Infatti, nel negare la veridicità di tutte tradizionali concezioni dello spirito – quella negativa e moderno-filosofica appena discussa e quella antica e greca che attribuiva allo spirito la massima potenza creativa −, Scheler afferma che lo spirito umano è in verità un “insieme di intenzioni, per sua natura impotente”. Esso è insomma la debolezza in persona. E quindi non avrebbe mai alcuna potenza e forza se esse non venissero conferite ad esso dal quello psichismo profondo che è poi comune a tutti gli esseri viventi, e meno che mai all’«uomo-in-quanto-spirito», ossia all’uomo come mente.
    E uno dei maggiori responsabili della mancata comprensione di questo è per lui proprio quel Cartesio al quale si era riferito Husserl in maniera decisiva nel concepire lo spirito umano come negazione di qualunque forma di mondanità ed anche di psichismo inferiore (quel mondo “hyletico” che egli aveva deplorato come decisamente non all’altezza dell’uomo) [Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, III, I, 85. p. 213-217]. Nel distinguere res cogitans e res extensa Cartesio aveva infatti istituito un dualismo nel contesto del quale era stato di fatto negato lo psichismo agli enti inferiori (piante ed animali). E quindi era stato negato lo psichismo stesso nella sua maggiore autenticità.
    E a tale proposito – riferendosi espressamente alle sue conoscenze mediche di anatomo-fisiologia del sistema nervoso – egli afferma che lo psichismo più autentico si ritrova ad un livello molto primitivo e profondo del cervello ossia nel tronco encefalico e nelle strutture della base cerebrale come il talamo (corrispondenti poi pienamente all’affettività). La coscienza, invece, corrispondente al livello corticale, rappresenta uno psichismo decisamente poco autentico e poco pieno, ossia del tutto marginale e secondario. Insomma non è affatto nella coscienza che consiste il vero psichismo.
    Ed ecco allora che possiamo supporre che perfino la mente rientri per lui in questo giudizio di inconsistenza ontica. Il che significa che probabilmente non è vero quanto avevamo supposto finora, e cioè che la dimensione spirituale corrisponde alla mente stessa. Essa è invece semmai qualcosa di radicalmente diverso dallo psichismo. L’autentico psichismo è per lui invece “fisiologico” e quindi corporeo. Per cui non esiste alcuna differenza tra mente e corpo.
    Su questa base egli si dedica poi alla finale descrizione di un’antropologia filosofica entro la quale compare come protagonista assoluto solo l’«uomo-in-quanto-spirito». Non crediamo necessario discutere questa riflessione se non per due aspetti fondamentali. In essa Scheler ci mostra infatti che l’«uomo-in-quanto-spirito» rappresenta una realtà postarsi decisamente fuori del mondo, e quindi è decisamente metafisica ed inoltre anche religiosa. Infatti qui egli esamina anche il rapporto che vi è tra uomo e Dio. Inoltre proprio per questo l’«uomo-in-quanto-spirito» coglie sé stesso come esistente ed affatto invece come “Io”.
    Questo significa quindi che la realtà dell’”Io” (così come quella di una coscienza che non è ancora auto-coscienza, come avviene solo nell’«uomo-in-quanto-spirito») rientra senz’altro nella dimensione psichica e si pone decisamente fuori di quella spirituale. Il che senz’altro esautora tutte le riflessioni di Husserl e Stein sulla natura egoico-cosciente del cosiddetto “Io spirituale” [Edmund Husserl, Idee…cit., I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541; Edith Stein, Potenza…cit., V-VI p. 147-386; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365].

Conclusioni.
Max Scheler dimostra senz’altro con questo libro di essere (insieme a Bergson) uno dei principali psicologi filosofici del nostro tempo. Ed a questo contribuisce senz’altro in modo decisivo l’abbondanza delle sue conoscenze nel campo della scienza empirico-sperimentale ed anche dell’anatomia e fisiologia della psiche. Il che è stato certamente decisivo per un approccio alla psiche che nelle sue basi non è assolutamente metafisico. Quindi per lui la psiche è tutto tranne che una sostanza metafisica. Ed abbiamo visto che essa non coincide nemmeno con l’anima, per cui diverge decisamente dall’approccio metafisico-tradizionale alla psiche stessa.
Non c’è dubbio, dunque, che questo genere di approccio psicologico-filosofico non potrebbe avere nulla a che fare con una PS.
Esso è però sicuramente invece metafisico ed anche religioso il suo approccio all’«uomo-in-quanto-spirito». E questo intendimento potrebbe coincidere con una PS. Ma intanto abbiamo visto che quest’ultimo si pone decisamente fuori di qualunque definizione della psiche.
Ora è intuitivo ritenere che questa realtà possa corrisponde alla mente, e per qualche suo tratto sembra anche esserlo. Ma l’ultimo capitolo del libro di Scheler [Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, in: Max Scheler, La posizione… cit., p. 186-191] – dedicato alla definizione ultimativa dell’antropologia filosofica e quindi dell’«uomo-in-quanto-spirito» − non lascia alcun dubbio in tal senso. Infatti sembra che per lui la dimensione spirituale umana sia molto più che mente, e ciò in quanto essa si pone decisamente fuori dell’essere. Essa però (paradossalmente) resta in continuità con i livelli più profondi ed autentici dello psichismo (ossia quelli più vitali, corporei e biologici, che poi a loro volta corrispondono pienamente alla Vita nella sua prorompenza. Più precisamente si tratta dell’affettività come incoercibile tendenza degli esseri viventi a mantenere una relazione vitale con l’ambiente che li circonda, ossia ad investirla con la propria presenza.
Dunque di nuovo, a causa di questo, la psicologia di Scheler appare porsi del tutto fuori di una PS.
Ebbene questa crediamo che possa essere la chiave di volta dell’intera questione della psicologia filosofica di Scheler. Perciò, sulla sua base, vorremmo ora tentare di delineare una struttura generale dello psichismo così come essa emerge dalla sua riflessione. Ed in questo nuovamente ci riferiamo alle suddivisioni strutturali che abbiamo fatto in PS.
Scheler concepisce lo psichismo sostanzialmente come profondo e peraltro anche universale. Per cui la sua dottrina potrebbe ben venire considerata una sorta di panpsichismo [Joanna Leidenhag, “Unity between God and mind? A study in the relationship between panpsychism and pantheism”, Sophia 58 (4) 2019: 543-561], sebbene limitato alla realtà terrena e non esteso invece a tutto l’universo. Il tratto fondamentale ed essenziale di questo psichismo profondo è l’affettività. Ed esso si mantiene immutato nel corso dello sviluppo verticale delle varie forme di psichismo dalla pianta all’uomo – nonostante i caratteri specifici che lo psichismo assume nel corso di questo sviluppo. Se dunque volessimo dire in cosa consiste la psiche profonda per Scheler, dovremmo dire che essa consiste sostanzialmente nell’affettività, e cioè in impulsi vitali ed istinti. Ed in termini evoluzionistici ciò significa che, almeno sul piano biologico, l’uomo è sostanzialmente un animale; e nemmeno l’animale razionale della tradizione aristotelica, ossia è un animale in piena regola. Il questo senso quindi la sua definizione della psiche assomiglia molto a quella freudiana. Solo che egli contesta il concetto freudiano di “rimozione”, dato che esso concepisce per lui lo psichismo in termini unicamente negativi.
Ebbene cosa resta allora della psiche oltre questo? Resta davvero poco o nulla, dato che abbiamo visto che in effetti per lui la dimensione mentale (nel suo coincidere tendenziale con quella spirituale) si pone decisamente fuori di qualunque sviluppo dello psichismo dai suoi strati inferiori a quelli superiori. Peraltro anche la dimensione dell’”Io” è per lui molto più una realtà filosofica che non autenticamente psichica. E la coscienza poi costituisce una realtà puramente marginale corrispondente ai luoghi vitalmente meno onticamente rilevanti dell’anatomo-fisiologia umana, ossia la corteccia cerebrale. Quanto poi all’auto-coscienza essa rientra pienamente nella dimensione spirituale dell’uomo e quindi non ha nulla di psichico.
E quindi siamo obbligati a concluderne che per Scheler la psiche è unicamente profonda in quanto in primo luogo “fisiologica” e corporale; motivo per cui essa non solo va attribuita anche a piante ed animali ma va anche considerata come una mente affatto divisa dal corpo. Tutto ciò che resta (e che si colloca unicamente al livello supremo della ideale linea verticale dello sviluppo dello psichismo, ossia alla realtà dell’uomo) è dunque solo «spirito». Per cui dobbiamo concludere che per lui vi è un’opposizione ontica davvero radicale tra psiche e spirito. Motivo per cui, in base alla sua psicologia filosofica, non può venire concepito alcunché che sussista a livelli più superficiali e/o esteriori rispetto allo psichismo profondo. Lo psichismo insomma sussiste da solo senza la compresenza di alcuna mente.

Un’ultimissima serie di riflessioni conclusive va dedicata infine alle divergenze che abbiamo constatato tra Scheler e Stein (unitamente a Conrad-Martius) rispetto alla concezione dell’«uomo-in-quanto-spirito» ed all’approccio filosofico per poterlo concepire. Ed abbiamo già detto che questo era lo scopo secondario della nostra investigazione. Abbiamo visto che entrambi i pensatori concepiscono questa realtà in quanto radicalmente metafisica. Quanto poi a Stein, ella non parla nemmeno né di psiche né di mente. Ella suppone infatti del tutto implicitamente (secondo l’antica tradizione onto-metafisica) che l’anima rappresenti perfettamente entrambe le realtà. Ed inoltre ella si era opposta decisamente alla psicologia empirica già all’inizio della sua ricerca filosofica, e quindi non poteva affatto concepire la mente in questo modo, anche solo per puri motivi filosofici [Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996]. Tuttavia la pensatrice restò legata ad una dottrina dell’”Io” e della coscienza (in obbedienza alla Fenomenologia husserliana), la quale, sebbene concepita in termini filosofici ed assolutamente non psicologistici, configura comunque una sorta di «mentalità» superiore. Quanto poi al sussistere di uno psichismo profondo essa non si pone alcuna domanda rispetto al suo sussistere (se non nel negarne il valore nell’opera appena citata, in quanto in conflitto con una vera antropologia) – a meno che con non lo si voglia considerare come equivalente con l’anima vegetativa ossia quella della pianta. Per cui nel complesso diremmo che la riflessione steiniana sfugge decisamente ai termini della concezione dello psichismo che derivano invece chiaramente dalla riflessione scheleriana. Pertanto ella non può sicuramente rientrare nel novero dei moderni psicologi filosofici.
Pertanto in definitiva (a parte la tendenziale, ma anche dubbia, valenza «mentale» dell’”Io” e della coscienza), nemmeno in lei possiamo ritrovare una definizione dello psichismo che distingua tra una dimensione profonda (psiche) ed una dimensione superficiale (mente). E quindi non possiamo ritrovare in lei alcuna definizione della struttura dello psichismo.
Tuttavia la sua (sia pure solo implicita) identificazione dell’anima tanto con la psiche che con la mente colloca decisamente la sua dottrina nel contesto della PS. Specialmente se si considera che in definitiva per lei l’anima era per lei in definitiva una sostanza spirituale.
E quindi riteniamo che proprio questo elemento possa differenziare le due visioni quanto a definizione dello psichismo (almeno secondo i nostri criteri): − quella di Stein riesce almeno ancora a rientrare nei termini della PS, mentre quella di Scheler non vi riesce affatto, o comunque solo molto limitatamente.

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ABSTRACT.
Ho appena ultimato un mio articolo dal titolo “La paralisi empirista della conoscenza, la metafisica di Suárez e la metafisica integrale”. L’articolo si basa sul confronto dei testi di tre pensatori, due empiristi (Locke e Hume) ed uno metafisico (Suárez) [John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022; David Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2016; Francisco Suárez, Disputaciones metafísicas, Tecnos, Madrid 2011].
E si badi bene che Suárez conta come forse il pensatore più grande della Scolastica dopo Tommaso d’Aquino.
Ora è ben noto che l’empirismo del XVIII secolo è stato caratterizzato anche da una buona dose di scetticismo, sebbene gli autori da noi trattati si rifiutino di venire considerati scettici. E quindi in qualche modo è ovvio che esso ha indebolito senz’altro la conoscenza. Ma intanto (paradossalmente) il loro intento filosofico era quello di fondare interamente la conoscenza sulla percezione proprio per renderla ragionevolmente certa ed affidabile. Con il loro pensiero si è affermato quindi un intendimento della conoscenza che la scienza empirica avrebbe fatto totalmente suo nel porre l’esperimento ripetibile (riprendendo così un pensiero galileiano) come atto indispensabile. E da allora in poi questa scienza ha concepito la conoscenza negli stessi termini sobriamente «fisiologistici» che abbiamo descritto nell’articolo a proposito di Locke ed Hume.
Il principio centrale di questo fisiologismo (proprio soprattutto di psicologi, medici e biologi) è che nessuna idea di cosa possa essere veridica se non è connessa ad una cosa realmente esistente per mezzo della percezione. Dunque la percezione viene considerata cruciale entro la conoscenza.
E questo argomento è divenuto poco a poco non solo un’ovvietà ma anche un dogma assolutamente indiscutibile. Tanto che qualunque fisiologo schernirebbe ferocemente chiunque osasse porlo in discussione. Eppure la metafisica da noi presentata, quella di Suárez, afferma l’esatto contrario di ciò, e cioè che la conoscenza è tanto più certa ed appropriata quanto più è lontana dai sensi. Per lui infatti la conoscenza veridica delle cose sensibili è possibile solo dopo che l’intelletto ha raggiunto il livello supremo sul quale giacciono i principi primi ed universali, e dunque le verità che sono certe in quanto indubitabilmente chiare ed evidenti. Essa dunque conosce le cose sensibile solo dopo un atto di deduzione.
Ebbene la paralisi empiristica della conoscenza si lascia riconoscere proprio entro il campo di tensione che si crea tra queste due opposte visioni. Entrambi i pensatori ritengono infatti che più la conoscenza si allontana dei sensi, penetrando così nelle profondità della mente, più essa viene minata dalla “immaginazione” e perfino dal “ragionamento” − nei quali le idee semplici (ancora immediatamente in relazione con la percezione) sono ormai divenute complesse −, e ciò fino al punto di generare molto probabilmente oggetti del tutto fantastici ed irreali. Oggetti, cioè, che non hanno alcun riscontro nel mondo reale, e che quindi non potranno mai venire percepiti per davvero. Ma tali oggetti sono per Locke ed Hume propriamente quelli che vengono concepiti dalla metafisica (ente, sostanza, identità, indivisibilità infinita dello spazio e tempo, etc.). Siamo insomma di fronte a quelli che Kant avrebbe dispregiativamente chiamato “chimere” e “paralogismi”, producendosi così una liquidazione della metafisica che è divenuta anch’essa un dogma indiscutibile per filosofi, scienziati e uomini comuni.
Ed eccoci allora di fronte all’elemento centrale della paralisi empirista della conoscenza, dato che Locke e Hume sono concordi nel ritenere che, a causa di queste distorsioni mentali, la conoscenza degli oggetti metafisici non debba in alcun modo venire perseguita.
Su questa base abbiamo condotto la nostra analisi testuale, confrontando così le idee espresse nei tre testi. Ma ci siamo immediatamente accorti che ciò che dovevamo esaminare non era l’efficienza della conoscenza (così come concepita e garantita dalle due visioni, quella empiristica e quella metafisica) bensì semmai il tipo di condizioni che ad essa vengono poste. Condizioni che sono diametralmente opposte tra le due visioni. Ebbene, una volta posto questo criterio di confronto, appare evidente che la metafisica di Suárez non proibisce (né ritiene fallimentare) la conoscenza di alcun campo dell’essere – da quello degli oggetti sensibili (che essa semmai auspica) fino a quello degli oggetti più astratti in quanto lontanissimi dalla realtà sensibile. Dunque ne abbiamo concluso che la metafisica del pensatore spagnolo non produce alcuna paralisi della conoscenza. E questo vale anche per la metafisica in generale. Nelle conclusioni però abbiamo sottolineato che quella di Suárez fu una metafisica molto moderata, dato che essa volle intendere sé stessa come una sorta di scienza naturale, sebbene “speculativa”. Per cui la sua inibizione della paralisi della conoscenza è ben più debole di quanto sarebbe dovuta essere. Ben più forte è stata invece tale inibizione nel contesto della metafisica sostenuta da autori tradizionalisti (come Guénon, Schuon, Bérard e Vallin) [René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975; René Guénon, Il Regno della Quantità ed i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano 2006; Frithjof Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediteranee, Roma 1998; Bruno Bérard, Introduzione ad una metafisica cristiana, Simmetria, Roma 2021; Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Roma 2007], laddove poi proprio Vallin ha dato a questa disciplina il nome di “metafisica integrale”. E con essa va intesa una metafisica esattamente equivalente a quella Scienza Sacra originaria e primordiale che è propriamente divina e che l’uomo è venuto a conoscere per mezzo delle varie Rivelazioni.
Al proposito va inoltre precisato che Suárez (nell’impostazione scientifico-naturale che egli aveva voluto dare alla sua metafisica) si era rifiutato in partenza di intenderla in questo modo, ossia come conoscenza delle entità sovrannaturali. Questo era infatti per lui un compito della sola teologia. Ma del resto l’intera metafisica occidentale (a partire già dalla Scolastica) si era rifiutata di (con maggiore o minore forza) di intendere sé stessa in questo modo. Tanto è vero che essa non aveva mai smesso di concepire il conflitto esistente tra Ragione (filosofia e metafisica) e Fede (teologia). Ebbene Proprio per questo motivo nelle conclusioni dell’indagine abbiamo preso in considerazione anche il pensiero di un attuale autore che è fisico nucleare ed anche filosofo, ossia Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Secondo la sua visione, infatti, la moderna scienza naturale (specie nella sua avanguardia rappresentata dalla fisica sub-particellare e quantistica) sta ormai preparando l’avvento di un nuovo paradigma, secondo il quale la scienza stessa si dichiara assolutamente bisognosa dell’apporto della metafisica.
Dunque la paralisi della conoscenza appare essere di certo un deplorevole fenomeno per il quale la cultura umana è dovuta passare (specie dal Rinascimento in poi, e con punte estreme nell’Illuminismo e nel Positivismo), ma non appare intanto affatto una necessità oggettiva alla quale la conoscenza stessa debba sottomettersi. Anzi sembra che le cose stiano in maniera del tutto opposta.

ATTENZIONE:
A chi volesse leggere il saggio nella sua interezza siamo pronti a fornire il file in pdf, con la preghiera però di considerarlo protetto dalle vigenti leggi del copyright, e quindi non passibile di venire riprodotto anche solo in parte senza menzionarne l’autore, ossia il sottoscritto.

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SINTESI.
In questo saggio ci siamo sforzati di comprendere se l’esperienza religiosa (ER) sia per davvero quella che siamo abituati a vivere correntemente come cristiani (specialmente come cattolici). Il che è diventato un problema specie negli ultimi tempi, nei quali moltissimi teologi, predicatori, confessori e direttori spirituali negano ormai apertamente che Dio sia per davvero una Persona ed intervenga nel mondo oltre che nell’esistenza umana. Oltre al generale dilagare dell’agnosticismo scettico ed ateo (tra gli uomini comuni e tra scienziati e filosofi), si sta insomma verificando un fenomeno mai avvenuto finora, e cioè quello di teologi e sacerdoti i quali ritengono che sia ormai impossibile difendere l’esistenza reale di un Dio-Persona contro lo strapotente attacco della scienza naturale a questa idea. E per questo, nelle Facoltà di Teologia ed inoltre tra singoli studiosi, si va diffondendo la tesi del cosiddetto “post-teismo”, secondo la quale noi non avremmo a che fare con un vero Dio ma invece appena con una “deità”, ossia un dio totalmente impersonale. E così si inizia a pensare a Dio come una sorta di Forza senza volto che può anche venire considerata la Causa originaria dell’Universo (ossia il Creatore del mondo), ma comunque se ne sta ben lontano dal mondo nel quale intanto dominano totalmente incontrastate le sole leggi della Natura. Collateralmente a ciò si va diffondendo anche la tesi secondo la quale l’Incarnazione di Dio sarebbe stata nel tempo completamente fraintesa, e quindi avrebbe autorizzato la falsa idea di una completa equivalenza tra Cristo e Gesù. Che invece oggi inizia a venire fortemente messa in dubbio. E così si sta arrivando a considerare Gesù come appena una figura storica che sarebbe stata sempre slegata dalla persona del Cristo.
La conseguenza di tutta questa revisione della tradizionale dottrina cristiana ha fatto sì che si iniziasse a negare la realtà effettiva dei miracoli e delle guarigioni compiuti da Gesù nel corso della sua esistenza (così come viene narrata e descritta nei Vangeli). E quindi si tende ormai a negare recisamente anche che possa esistere un’ER che sia caratterizzata da una preghiera entro la quale l’uomo chiede aiuto a Dio quando si trova in circostanze esistenziali difficili. Questa è quella che viene chiamata «preghiera di richiesta».
Ed oggi ormai moltissimi teologi e sacerdoti la ritengono assolutamente irrealistica ed illecita, dato che essa del tutto invano chiede un aiuto divino che non può venire dato che è impossibile che Dio intervenga nel mondo interferendo con le leggi della Natura. Inoltre la «preghiera di richiesta» andrebbe considerata anche spregevole dato che sarebbe bassamente egocentrica ed utilitaristica. Bisognerebbe invece pregare Dio solo per pura lode e venerazione.
In sintesi insomma questa visione sostiene che l’ER cristiana non comporterebbe in alcun modo la tangibile «presenza divina». E questo in primo luogo perché Dio non esaudisce in alcun modo tangibilmente le invocazioni e richieste dell’uomo. Ne consegue che, nonostante la preghiera, Dio non fa mai sentire la sua presenza nella vita dell’uomo. Per cui al fedele cristiano non resta altro che vivere ritualmente (e quindi solo metaforicamente) la sua presenza in quella vita ecclesiale che si basa soprattutto sui Sacramenti.
Oltre a ciò viene vista molto male la vita religiosa vissuta singolarmente e non invece in maniera collettiva e comunitaria. Quindi l’ER non può basarsi in alcun modo in un rapporto personale del fedele con Dio.
Di fronte a questa visione abbiamo posto in evidenza due principali elementi: − 1) la Rivelazione cristiana (nel Vecchio ma soprattutto nel Nuovo Testamento) prevede espressamente l’«aiuto» offerto da Dio all’uomo proprio per mezzo dei miracoli e guarigioni compiuti da Gesù; 2) esistono nell’esistenza situazioni particolarmente estreme nelle quale l’uomo (abbandonato da tutti ed incapace di risolvere i problemi con le sue proprie forze) non può fare altro che invocare l’aiuto divino. E dall’altro lato è impossibile pensare che un Dio d’Amore – il Dio che ha donato il suo Figlio agli uomini decaduti perché venissero salvati venendo così resi suoi figli – si rifiuti di ascoltare ed esaudire per principio queste invocazioni.
Naturalmente fin dal primo momento ci siamo resi conto della estrema difficoltà della nostra investigazione. Tanto che l’abbiamo definita immediatamente come una sfida impossibile da affrontare vittoriosamente. E questo perché, dato che Dio è comunque un Ente sovrannaturale, è assolutamente impossibile intercettarlo sul piano sensibile, ossia nello spazio e nel tempo, cioè nella dimensione in cui noi uomini viviamo. Quindi è estremamente difficile definire cosa sia davvero la tangibilità della «presenza divina» nell’esistenza umana e nel mondo. Costantemente però l’unica risposta che siamo riusciti a trovare a questa domanda è stata proprio quella del reale esaudimento divino dell’umana «preghiera di richiesta».
Dunque ci è sembrato che la più autentica ER sia proprio quella che preveda la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta».
Per dimostrare questo siamo passati per diverse fasi e ci siamo serviti delle riflessioni di diversi autori – come Maritain, Guardini, Berdjaev, de Benoist, Bloy, Solov’ëv, Dostoevskij (indirettamente), Don Dolindo Ruotolo etc.
Innanzitutto abbiamo esaminato l’attuale (riduzionistica, scettica ed agnostica) interpretazione dell’ER attraverso i fenomeni di quella crisi moderna nella quale la separazione tra l’uomo e Dio è ormai arrivata la suo culmine, e che ormai si manifesta attraverso una vera e propria “desacralizzazione” del mondo.
Inoltre abbiamo sostenuto è che l’autentica ER corrisponde basicamente all’esperienza dionisiaca di «presenza divina» in quanto possessione del fedele da parte del dio. Qui infatti non appare di certo il dio in persona, ma esso comunque si manifesta almeno attraverso il corpo del fedele, ossia per mezzo delle modificazioni che esso subisce rispetto allo stato ordinario. E ci è sembrato che non via alcun’altra ER nella quale la «presenza divina» si manifesti in modo così tangibile. E quindi questo genere di ER ci è sembrato quello più universale in quanto basico ed elementare, ossia quello che qualunque homo religiosus (cristiano o pagano che sia) si immagine e desidera spontaneamente. Insomma esso ci è sembrato essere un vero e proprio eterno ed universale paradigma dell’autentica ER.
Abbiamo poi esaminato la condizione dell’uomo che secondo noi più indulge alla «preghiera di richiesta», e cioè quel tipo di uomo che fin dalla nascita soffre il dolore, è perseguitato dalla sventura, e vive in generale l’assenza di fortuna e felicità oltre che l’oscurità. Nello stesso tempo esso ci è sembrato il prototipo del «giusto», ossia colui che per tutta la sua vita segue vie di giustizia, innocenza ed amore, ma proprio per questo (paradossalmente paga col costante dolore). Egli insomma si rifiuta costantemente di accettare come valide le spietate leggi del mondo e della Natura, e quindi è colui che maggiormente crede nel Sovrannaturale. Abbiamo inoltre dimostrato che l’uomo vivente l’esperienza esattamente contraria (felicità, benessere, buona ventura e successo) di fatto è fortemente complice (e senza il minimo scrupolo) con le più spietate leggi del mondo. E questa sembra peraltro essere la radice stessa della sua fortuna nel contesto spesso di un vero e proprio «patto col diavoli». Proprio per questo esso tende a divenire il persecutore del primo tipo di uomo.
Il paradigma del primo tipo di uomo è chiaramente il personaggio biblico Giobbe.
Successivamente abbiamo esaminato a campione la vastissima letteratura entro la quale oggi viene affermata la visione agnostica e scettica dell’ER, ed abbiamo visto che essa consiste in una sorta di ricerca scientifico-religiosa, dato che la sua fonte principale è ormai unicamente la scienza empirica, specialmente la scienza ed anche filosofia cognitivista.
Su questa base abbiamo esaminato come si presenta l’ordinaria ER entro la vita ecclesiale, entro le pratiche pietistiche ed entro la mistica. Ed abbiamo constatato che qui domina incontrastata l’avversione contro l’ER in quanto «preghiera di richiesta». Successivamente abbiamo cercato di dare un volto il più possibile oggettivo all’ER probabilmente più autentica per mezzo dei contenuti delle Sacre Scritture ed inoltre per mezzo dell’esame di un testo di Don Dolindo Ruotolo. Di quest’ultimo abbiamo scoperto che egli fu fortemente favorevole alla «preghiera di richiesta» come invocazione di un tangibile «aiuto» divino.
Ma nello stesso tempo il suo discorso al proposito fu fortemente ambiguo.
Infine abbiamo tentato di descrivere autonomamente (sulla base delle nostre stesse esperienze personali) quelli che sono i caratteri oggettivi della più autentica ER. E ne abbiamo tratto la conclusione che essa è sostanzialmente individuale e singolare, ossia consiste in un dialogo diretto con Dio; in particolare con Gesù. Subito dopo abbiamo confrontato questo con i contenuti di diversi scritti che sostengono la realisticità e legittimità della «preghiera di richiesta» in quanto invocazione del tangibile «aiuto» divino.
E proprio qui ci ha colpito l’abbondanza di questi scritti, e quindi la costatazione che (aldilà della prevalente visione agnostico-scettica tra teologi e sacerdoti) vi sono ancora molti uomini di fede e religiosi (sia cattolici che non) che credono fermamente nella «preghiera di richiesta» così come noi la intendiamo. E tra costoro spicca il pastore evangelico tedesco George Müller (operante per tutta la sua via a Bristol), il quale è estremamente categorico nel sostenere proprio questo. Egli sostiene infatti che l’esaudimento divino della «preghiera di richiesta» è assolutamente certo. In ogni caso è emerso che coloro che oggi più sostengono questa visione (un tempo integralmente cattolica) sono proprio gli evangelici. Si oppone invece a tutto ciò la descrizione della preghiera da parte di Guardini, il quale (sebbene ammetta molto vagamente e debolmente la «preghiera di richiesta») ritiene che sostanzialmente la preghiera sia una presa di contatto con il puro “essere” divino. Entro di essa, quindi, non è ammissibile alcuna richiesta, ma invece è ammissibile solo la pura venerazione, oltre che la lode incondizionata.
Da tutto questo abbiamo tratto quindi la conclusione che – nonostante sia impossibile dimostrare che l’ER è caratterizzata da una tangibile «presenza divina» sul piano sensibile − la così diffusa convinzione che la «preghiera di richiesta» sia realistica e legittima (in quanto ci procura realmente l’esaudimento della nostra invocazione) rappresenta di fatto una prova indiretta della nostra tesi.
In ogni caso nel corso della nostra intera investigazione ci siamo costantemente scontrati con un secondo grande nemico dell’ER come «preghiera di richiesta», e cioè la tradizionale retorica (questa sì profondamente cattolica) che sostiene alternative del genere del cosiddetto «abbandono alla Volontà divina», della partecipazione alla croce ed alla Passione di Cristo, e della valorizzazione della prova esistenziale (ossia il dolore) come via verso il Cielo. Da questo punto di vista la «preghiera di richiesta» appare essere fortemente ingiustificata perché essa si oppone alla sofferenza che ci verrebbe inviata da Dio stesso allo scopo di diventare più forti e adulti nella fede. Ebbene questa retorica appare essere ormai datata entro la Chiesa, dato che è stata sostituita quasi completamente dalla visione agnostico-scettica dell’ER. Essa però si ritrova ancora in molti scritti (anche in quelli di Don Dolindo Ruotolo) ed assume comunque toni estremamente esasperati (se non francamente sadici) in coloro che parlano dal punto di vista della mistica monastica.

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In questo scritto vorremmo esaminare criticamente il valore oggettivo che ha l’attuale scienza della Religione (ed anche il ruolo che essa svolge) nella specifica forma che essa ha assunto negli ultimi decenni. Essa si è trasformata infatti in un intenso dibattito critico (svolto soprattutto per mezzo di articoli più che non di libri) che è del tutto simile a quello che da molti secoli ormai si svolge nel campo della scienza empirica, ossia la scienza della Natura. Anche in Religione è insorta quindi quella famosa «letteratura» (basata sul confronto critico tra autori per mezzo della produzione a ciclo continuo di articoli scientifici) dalla quale la Scienza si aspetta il continuo incremento delle conoscenze ed ancor più la verifica del loro valore per mezzo della costante verifica esercitata entro la cosiddetta «comunità scientifica».
Molto coerentemente, quindi, le questioni teologico-religiose vengono ormai dibattute unicamente su un piano scientifico-empirico e non più invece sul tradizionale piano filosofico e/o metafisico. In altre parole la Scienza ha assunto l’assoluto dominio in e sulla Teologia. Essa però si presenta in una forma ancora almeno apparentemente filosofica, e cioè quella della cosiddetta «filosofia analitica della religione», ossia una forma di Filosofia che intanto si è però ormai assimilata totalmente alla Scienza, tanto che anch’essa ne ha fatto totalmente propri i metodi. Infatti essa procede ormai per argomentazioni basate totalmente sulle evidenze scientifico-empiriche, che intanto vengono via via ottenute per via sperimentale. L’esperimento scientifico è dunque diventato di fatto la fonte stessa delle argomentazioni filosofiche, tanto che vengono considerate illegittime tutte le idee (e relative argomentazioni) che non hanno come base delle evidenze sperimentali. Non è difficile immaginarsi quale possa essere l’impatto devastante di tutto ciò sul piano della Teologia, dato che gli oggetti di conoscenza di quest’ultima sono per definizione privi di qualunque evidenza (non solo sperimentale, ma perfino sensibile). Eppure, ormai in preda ad un imbarazzo incoercibile di fronte alla potenza e dignità assunta dalla scienza empirica (simile a quello in quale da tempo è in preda anche la filosofia stessa), la Teologia ha accettato integralmente e senza remore questo approccio. E ciò avviene ormai appunto per mezzo di quella filosofia analitica della religione le cui evidenze provengono ormai quasi totalmente dalla scienza cognitiva, cioè la scienza sperimentale della mente (di fatto si tratta della neuro-fisiologia). Dunque la scienza cognitiva ha ormai preso totalmente il posto perfino di quella filosofia della mente (e relativa filosofia del linguaggio) che fino a non molto tempo fa era stata la base filosofico-scientifica della Teologia.
Ne consegue quindi che ormai la base critica della Teologia non sono più le argomentazioni filosofiche (ricadenti soprattutto nel campo della logica) ma invece sono appunto delle vere e proprie evidenze empirico-scientifiche. Sebbene bisogna dire che la logica occupi comunque ancora un posto in questo dibattito. Da tutto ciò è nata quella che indicheremo costantemente come «ricerca scientifico-religiosa».
E nella seconda sezione di questo scritto presenteremo diversi articoli che provengono dal suo ambito.
La questione che più ci interessa nel contesto del dibattito in corso in questa area non può che essere quella che è centrale nella Teologia e nella Religione stessa, e cioè la questione dell’esistenza di Dio.
Non a caso la filosofia analitica della religione è nata nel dopoguerra proprio sulla base delle sollecitazioni atee di un filosofo analitico, e cioè Bertrand Russell – il quale iniziò a negare molto violentemente l’esistenza di Dio ed anche la stessa idea di Dio. In tal modo si è sviluppata quindi una sorta di filosofia analitica religioso-cristiana che ha in qualche modo voluto combattere il moderno ateismo filosofico sul suo stesso piano. Alla fine però essa stessa è rimasta travolta da questo compito essendo costretta a rivedere totalmente (in senso scientifico e scientista) i suoi metodi di indagine conoscitiva. E non solo. Perché essa è rimasta travolta nel senso che è stata costretta ad accettare almeno in parte gli argomenti filosofo-scientifici contro l’esistenza di Dio, vedendosi così obbligata a rinunciare quasi completamente al proprio naturale teismo. Ecco che proprio sSu questa base sono insorte questioni che vertevano appunto intorno all’esistenza di Dio, ossia teismo, anti-teismo ed ateismo. Ed infine esse hanno trovato in ambito religioso-cristiano (ossia nel pieno della Teologia cristiana) una specie di sistematizzazione nel cosiddetto post-teismo. Il quale vuole essere una specie di risposta a questo complessivo dibattito nel senso dell’adattamento dell’idea di Dio (e delle affermazioni circa la Sua esistenza) al discorso scientifico. Non senza però un’estremamente significativa rinuncia ormai totale al teismo. Teismo che poi (lo diciamo qui solo come anticipazione) comporta il nucleo centrale della fede cristiana, ossia la fede nel Dio-Persona per eccellenza, ossia il Dio incarnato e Dio vivo, Gesù Cristo.
Naturalmente, comunque, il post-teimo è rimasto vincolato all’approccio conoscitivo prevalente nel dibattito che lo ha originato, ossia l’approccio scientifico-empirico. E quindi anche il post-teismo (che in fondo è la risposta religioso-cristiana alla messa in dubbio dell’esistenza di Dio per via scientifica, e quindi vorrebbe essere una specie di rimonta della Teologia su Filosofia e Scienza) si serve ormai di argomentazioni basate interamente sulle evidenze scientifico-empiriche, e quindi rientra pienamente nel campo della ricerca religioso-scientifica. Sebbene vedremo poi (specie con Gamberini) che essa conserva ancora una certa quota di molto sofisticate argomentazioni metafisiche ed in parte anche logico-filosofiche.
Diciamo quindi che in questo modo è insorta una sorta di estremamente nuova Teologia cristiana di tipo scientifico-empirico. Essa potrebbe in qualche modo venire considerata equivalente alle aspirazioni scientifico-naturalistiche che animarono la Scolastica medievale. Ma tale somiglianza è solo apparente dato che il post-teismo cristiano ha intanto accettato in pieno la distruzione totale della tradizionale metafisica cristiana, che già da molto tempo era iniziata in Filosofia, specie con pensatori come Nietzsche e Heidegger
Posto questo, ci è sembrato che la trattazione della questione relativa al valore e ruolo dell’attuale scienza della Religione potrebbe ben partire dalla critica di Berdjaev alla filosofia scientifica che poi a sua volta si associa anche ad una visione filosofico-religiosa molto intensa ed originale, che permette addirittura di rifondare l’esperienza religiosa. Abbiamo già parlato di questo in un nostro articolo [Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Insomma tanto la critica berdjaeviana alla filosofia scientifica quanto anche la sua idea specifica di Religione potrebbero essere utili ad un’analisi critica dell’attuale complessiva ricerca scientifico-religiosa. E questa analisi critica potrebbe in tal modo estendersi fino al post-teismo. Intanto ci sembra assolutamente fondamentale la critica berdjaeviana alla voluta scientificità della filosofia. Abbiamo infatti visto che quest’ultima è stata la radice stesa della trasformazione attuale della Teologia in una ricerca scientifico-religiosa. E quindi la critica alla scientificità della Filosofia deve necessariamente coinvolgere anche la stessa Teologia. Ed inoltre risiedono proprio in questo ambito le più profonde radici del post-teismo. E quindi la complessiva visione di Berdjaev si presta benissimo a fungere come base ad una critica a quest’ultimo.

Su queste basi il nostro scritto si muoverà attraverso una primaria esposizione delle tesi di Berdjaev (prima sezione), che sarà poi seguita dalla presentazione di diversi articoli provenienti dall’ambito della ricerca scientifico-religiosa (seconda sezione) – concernenti teismo, anti-teismo ed ateismo, e coinvolgenti anche il panenteismo − e culminerà infine nell’analisi del post-teismo (terza sezione) sostanzialmente per mezzo dell’analisi critica di un articolo di Paolo Gamberini. Naturalmente la riflessione di Berdjaev costituirà per noi il paradigma di un approccio filosofico-religioso che non intende cedere in alcun modo alla tentazione di trasfondersi in un approccio scientifico. Essa ci servirà quindi da fondamentale punto di riferimento e base per analizzare criticamente l’approccio scientifico alla Religione ed per pervenire infine a conclusioni definitive sulla complessiva tematica.

I- La filosofia religiosa anti-scientidica di Nikolaj Berdjaev
In questa sezione esamineremo le tesi esposte da Berdjaev in due dei suoi testi, e cioè in “Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO) ed “Il senso della creazione” (SC).
DIWO ci servirà come base per la trattazione svolta nella prima sotto-sezione (giustificazione della non-scientificità della Filosofia e sue conseguenze sul piano religioso), mentre SC ci servirà come base per la trattazione svolta nella seconda sotto-sezione (visione religiosa relativa ad una filosofia religiosa anti-scientifica)

I-1. La filosofia come scienza e il coglimento della realtà divina.
Berdjaev sostiene in particolare che la Filosofia è stata sempre intimamente unita alla Religione ed invece per nulla alla Scienza [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I p. 1-38]. E tuttavia sostiene questo nel contesto della costatazione della fondamentale solitudine del filosofo e quindi anche del conflitto esistente tra Filosofia e Religione da un lato e Filosofia e Scienza dall’altro lato. E quindi in sostanza egli sostiene che il filosofo dovrebbe essere indipendente sia dall’una che dall’altra disciplina per il semplice fatto che la Filosofia ha il pieno diritto di essere unicamente sé stessa; e quindi di essere totalmente autonoma non avendo alcun obbligo di sottomettersi ad istanze conoscitive diverse da quelle che le sono proprie.
Pertanto egli sottolinea fortemente che la Teologia ha sempre preteso che la Filosofia si sottomettesse ad essa in una maniera che appare molto simile all’attuale discorso svolto sul piano scientifico su questioni che una volta venivano trattate unicamente dalla metafisica. Il che è assolutamente paradossale perché il filosofo russo sottolinea che, se la collaborazione tra Filosofia e Teologia può comunque avere un ruolo e valore, ciò può avvenire proprio nel liberare la Teologia stessa da tutto quanto non riguarda la Rivelazione.
E questo è un compito che secondo lui spetta proprio alla Filosofia. In altre parole la collaborazione tra Filosofia e Teologia per lui ha di fatto il senso di liberare la Teologia dalla sua stessa aspirazione alla filosoficità. Attraverso il suo discorso si delinea quindi chiaramente quella che definiremo come «teologia filosofica», ossia un Teologia che di fatto rinuncia ad essere sé stessa per farsi unicamente Filosofia. E vedremo tra poco che Berdjaev non la ritiene affatto giustificata.
Egli precisa infatti che la Rivelazione non è affatto in sé pensante, ma diventa tale proprio per mezzo della Teologia. Intanto però la Teologia è unicamente conoscenza umana e quindi per definizione non dovrebbe avere alcuna relazione con quella Rivelazione che è in fondo soltanto puro pensiero divino (e proprio per questo non è affatto conoscenza, anche se lo sembra). Essa però, ciononostante, è Trascendenza che diviene immanente proprio nella Filosofia, e quindi ha un ruolo assolutamente naturale in essa. Cosa che invece per lui non dovrebbe affatto avvenire in Teologia; entro la quale bisognerebbe rinunciare in partenza ad una riflessione basata sulla Rivelazione che invece è compito della sola Filosofia (ma ovviamente solo di una filosofia religiosa). Ecco che la Teologia dovrebbe limitarsi ad esporre i contenuti della Rivelazione senza tentare in alcun modo di farlo in maniera pensante.
Il pensatore russo mette quindi molto acutamente in evidenza la tensione naturale ed inevitabile che vi è tra Filosofia e Teologia, e che implica anche una sorta di obbligata ed anche sana separazione tra di esse sia pure nella prossimità. Obbligo di separazione che viene violato tutte le volte che si configura una teologia filosofica – la quale è sempre e per definizione un’assimilazione totale tra le due discipline, laddove invece dovrebbe esserci solo una prossimità nella distanza. Questo è però ciò che è di fatto sempre accaduto nel Cristianesimo perfino allorquando la Religione si è prodotta nei suoi tipici (e non poco violenti) attacchi contro la Filosofia, la cui evidenza peraltro Berdjaev sottolinea con grande forza. Anzi il pensatore sottolinea che, per poter rispettare in pieno la Rivelazione, bisognerebbe eleminare dalla Religione proprio gli elementi filosofici che in essa si sono infiltrati per la via di una Teologia aspirante ad essere filosofica – come è avvenuto in tutta quella cosmologia, astronomica, geologica e biologica (evoluzione), che poi ha sempre teso ad organizzarsi in assurdi dogmi scientifici (oggi però divenuti oggettivamente insostenibili). Dall’altro lato egli deplora anche la forte tendenza di certa Filosofia a farsi integralmente Religione − com’è avvenuto nelle antiche teosofie (specie orientali), nel platonismo e nel neoplatonismo, e perfino più avanti nella filosofia moderna (Spinoza, Fichte, Hegel) ed infine nella Sofiologia russa (Solov’ëv). Ora, in tal modo la Filosofia invade decisamente il campo di una domanda che è in sé di fatto autenticamente religiosa, e quindi ricostituisce di fatto (dall’altro polo dello scenario) quella commistione (in principio illegittima) che sussiste nella teologia filosofica. Eppure in questo caso le cose stanno per lui in maniera molto meno grave ed innaturale, dato che in questo modo si delinea una filosofia religiosa che dal suo punto di vista è ben più giustificata di una filosofia a- o anti-religiosa. Ciò accade perché per davvero una parte della domanda religiosa (quella circa il senso dell’esistenza) riguarda così tanto la Filosofia da renderle impossibile essere ciò che essa è nel caso venga a mancare tutto questo. Infatti per Berdjaev la Filosofia non è tanto “amore della sapienza” ma è invece Sapienza stessa. Come del resto sostenne anche Schelling nel considerare luogo originario della Filosofia la stessa Sapienza custodita dai sacerdoti nei templi [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam Conn., Spring Publication, 2010, p. 7-10] e come ha sostenuto anche LMA Viola affermando che il vero pensatore non è affatto un “filo-sophos” ma invece un “sophos” − ossia uno che possiede già la Sapienza invece di cercarla incessantemente [LMA Viola, Religio aeterna, Victrix, Forlì 2004, p. 37-44]. Non solo, ma se la Filosofia rinuncia alla Sapienza, essa finisce per dover arrendersi totalmente alla Scienza; e ciò in quanto il proprio campo di conoscenza viene notevolmente distorto e ristretto.
Infatti il filosofo è chiamato a conoscere tutti gli aspetti dell’essenza umana e dell’esistere (e non solo alcuni di essi), ossia deve aspirare sempre alla Totalità dell’essere; inoltre deve tendere sempre verso l’oltre non accontentandosi mai del solo “aldiquà”. Ed infine il filosofo tende spontaneamente a toccare costantemente il “mistero dell’essere”. Soltanto in tal modo la Filosofia è davvero sé stessa, ed è chiaro che in questa forma essa è necessariamente metafisica. Quindi è essa è anche obbligatoriamente sempre anche filosofia religiosa. Sebbene ciò non può né deve implicare alcuna forma e grado di «teologia filosofica» − né sbilanciata verso una Teologia che pretenda di essere integralmente Filosofia né sbilanciata verso una Filosofia che pretende di essere integralmente Religione. Tuttavia, proprio una volta chiarito questo, risulta chiaro che in primo luogo la Filosofia non può essere in alcun modo scientifica; nemmeno alla lontana.
Essa infatti (ovviamente) né si occupa delle evidenze empiriche né costituisce una “filosofia sopra le essenze” − come ad esempio pretese di essere la Filosofia husserliana e steiniana in quanto ricerca sulle essenze mondane cosali [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, I, I, III, 10-11, p. 124-133 ; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, II, 1 p. 78-79, VII, I, 1 p. 93-96; Edith Stein, Potenza ed atto, Citta nuova, Roma 2003, II, 1-3 p. 72-90, III, 3-4 p. 123-132; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, IV, 2, 4-5 p. 123-126, ibd. IV, 3, 1-4 p. 139-157]. Essa invece è per Berdjaev semmai “una creativa autocoscienza (‘schöpferisches Sichbewußtsein’) dello Spirito sul senso della vista umana (‘des Geistes über den Sinn von menschlichen Lebens’)”. E questo suo status implica necessariamente una certa dose di religiosità della Filosofia. Ma comunque affatto nel senso di porsi come «teologia filosofica». In questo caso, infatti (come abbiamo detto), la riflessione sulla Rivelazione (che è legittima solo in Filosofia) si estende ad una disciplina (la Teologia) il cui compito è unicamente quello di esporre (e semmai anche chiarire nel loro significato profondo) i contenuti della Rivelazione. Compito che poi deve essere rivolto unicamente all’umile servizio svolto a favore dell’uomo comune in quanto credente. Per cui la Teologia tradisce sé stessa (ossia il suo compito naturale) tutte le volte in cui (per mezzo di sofisticate riflessioni metafisico-filosofiche) finisce per rendere la Rivelazione imperscrutabile per il credente. E questo accade esattamente laddove essa pretende di farsi Filosofia, o, peggio ancora, Scienza – come sta appunto accadendo nel campo dell’attuale ricerca scientifico-religiosa.
Dunque va preso atto del fatto che ciò che sta accadendo adesso non è in fondo affatto nuovo. Il problema resta infatti sempre quella tensione tra Filosofia e Rivelazione che da sempre tende a venire risolta nel trasformarsi della Filosofia in Teologia e della Teologia in Filosofia. Solo che quest’ultima tendenza è oggi divenuta davvero estrema. Oggi si verifica infatti un vero e proprio occultamento della Rivelazione (spesso per mezzo della sua radicale riforma e quindi della sua revisione) nel contesto di una Teologia ormai adeguatasi totalmente alla scienza analitico-cognitiva della Religione. Qui insomma la riflessione forgia letteralmente concetti religiosi totalmente nuovi, mettendoli esattamente nello stesso luogo nel quale prima si trovavano le argomentazioni puramente metafisiche che poi la Teologia usualmente dibatteva anche filosoficamente (ma sempre nel pieno rispetto dei contenuti oggettivi della Rivelazione). Argomentazioni metafisiche che ovviamente si basavano interamente sui materiali di riflessione (ossia le idee e relative entità) che intanto venivano messi a disposizione dalla Rivelazione; e quindi per definizione non erano alcun modo prodotti della Ragione umana. La conseguenza di ciò è che il campo delle argomentazioni analitico-cognitive si è totalmente sovrapposto a quello delle tradizionali argomentazioni metafisico-teologiche, anche se di fatto le questioni dibattute sono di fatto esattamente le stesse.
Ciò che è accaduto è insomma che ormai sembra proprio che vi sia un campo di riflessione del tutto nuovo (quello della scienza della Religione analitico-cognitiva) laddove invece in verità resta tuttora appena il vecchio. Ed è proprio per questa strada che nella stessa teologia cristiana si è ormai giunti alla fine addirittura a mettere in dubbio (o almeno a problematizzare e complicare insensatamente sul piano logico-filosofico) l’esistenza di fondamentali concetti ed anche entità religiose (come la stessa idea di Dio connessa alla Sua esistenza) sulla base del fatto che essi sarebbero sempre stati epistemicamente inappropriati.
In altre parole l’attuale scienza della Religione si è prodotta in un’opera davvero titanica di correzione in senso neo-logico dell’intera metafisica teologica, ed inoltre degli stessi contenuti scritturali oggettivi della Rivelazione. E quindi di fatto, secondo questa nuova scienza, la tradizionale metafisica teologica avrebbe sempre di fatto girato a vuoto muovendosi sul campo di concetti trattati senza alcun vero rigore logico.
Cosa che invece era assolutamente necessaria, dato che tale metafisica teologica rispettava pienamente la natura sovrannaturale (e quindi ultra-logica) delle entità delle quali essa trattava; e quindi non si sognava nemmeno lontanamente di sottometterle alla prova di realtà proveniente dalle evidenze scientifiche, e cioè meramente sensibili.
Non a caso la logica analitica moderna si è totalmente sostituita a quella antica come se fosse ormai l’unica legittima. Ma è significativo notare che in tal modo, in luogo dei misteri metafisico-religiosi esposti nelle Scritture, dominano orami le teorie di questo e di quell’autore (con il relativo protagonismo professorale di questi accademici), unitamente al delinearsi di una miriade di infinti di «-ismi» (che proliferano peraltro illimitatamente) i quali hanno preso totalmente il posto delle antiche dottrine metafisiche e metafisico-religiose. Impressionante è al proposito il fatto che ogni autore propone la sua personale “soluzione” (“my solution”) alle infinite questioni logico-critiche per mezzo delle quali l’intera metafisica tradizionale viene intanto sezionata (ed anche straziata e profanata) come un misero cadavere gettato sul tavolo anatomico.
Emblematici per questo sono i moderni articoli che vengono sfornati a ciclo continuo su questi argomenti. Prima ancora di entrare nella sezione dedicata ad essi, ne citeremo solo due da noi appena letti: − l’articolo di Robinson contro quel cosiddetto “Debunking argument”, secondo il quale l’idea di Dio non sarebbe altro che un indesiderato ed inappropriato effetto collaterale della normale funzione cognitiva [Thaddeus Robinson, “The prospect of Debunking non-theistic argument”, Sophia, 60 (1), 2021, 83-9] e l’articolo di Paolini Paoletti sulla Trinità riletta e rivista totalmente attraverso la moderna riflessione analitica sull’”ontologia delle relazioni” [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, 173-191]. Insomma è come se si affermasse che il porsi immediatamente di fronte alle verità metafisiche di fede (da parte del pensatore ed anche del credente) è ormai decisamente proibito, dato che solo la Ragione umana ha il diritto di riconoscere in esse qualcosa di davvero valido. In altre parole si è ormai affermato lo spirito erudito e protestante che da Erasmo in poi pretendeva che la “lettera” delle Scritture (in sé solo falsificante) deve venire totalmente presa in mano dalla Ragione umana perché essa assuma una forma degna dello “spirito”. Il che significa poi pretendere di sostituirsi totalmente al pensiero divino. Per la verità sull’analisi di articoli come questi bisognerebbe fare una ricerca a parte con la certezza di ritrovare in un sufficiente numero di essi esempi in abbondanza del distorto modo con il quale oggi si presenta quella ricerca filosofico-teologica di tipo sostanzialmente scientifico (analitico e cognitivista) che sta riformulando, umanizzando ed immanentizzando totalmente l’intero insieme delle verità rivelazionali. E proprio questo in effetti tenteremo di fare nella seconda sezione, ma limitandoci ad una indagine a campione e su scala estremamente ridotta, cioè senza alcuna pretesa di riportare l’estensione immensa di articoli (e relative questioni) che oggi vengono prodotti in questo campo.
Ma, intanto, va detto che, se Berdjaev trova in qualche modo accettabile la collaborazione tra Filosofia e Religione o Teologia (pur senza sacrificare l’autonomia della prima), egli non accetta assolutamente la collaborazione tra Filosofia e Scienza. Anzi egli ha disegnato in maniera davvero magistrale il percorso della collaborazione tra Filosofia e Scienza che è seguito alla ribellione della Filosofia alla Religione. La Scienza infatti ha inizialmente dato man forte alla Filosofia contro la Religione, per poi però non tardare a sottometterla ed asservirla completamente dopo averle concesso appena un brevissimo periodo di libertà. Ma la schiavitù che ne è seguita è stata ben peggiore di quella della Filosofia alla Teologia. Infatti essa è stata caratterizzata non più da una tensione dialettica (con tutte le sue fasi alterne ed anche le stesse contraddizioni) ma invece dall’annientamento totale della Filosofia stessa,; dovuto soprattutto al fatto che la Scienza ha iniziato ad avere essa stessa “pretese filosofiche”. Che sono andate avanti fino a fondare uno scientismo, in nome del quale addirittura il filosofo non ha più il diritto di parlare di filosofia ma invece è obbligato a parlare solo di scienza. E questo fatto – accettato ormai supinamente ed in pieno dalle Facoltà di Filosofia (soprattutto a causa del terrore folle di non contare più nulla in campo accademico) – è diventato ormai del tutto ordinario e perfino canonico. Tanto che nessun filosofo accademico oserebbe nemmeno lontanamente metterlo in discussione. Oltre a ciò è avvenuto che la Scienza con la pretesa di essere la Filosofia stessa ha iniziato a sfornare a ciclo continuo teorie globali addirittura sull’essere stesso.
E questo è assolutamente paradossale perché per definizione la scienza si occupa di fatti isolati e non invece di totalità.
In ogni caso va detto che Berdjaev deplora (sulla base soprattutto di Scheler) la totale inappropriatezza dell’attacco portato continuamente dalla Religione alla Filosofia; dato che invece questo ha proprio impedito che la Filosofia potesse dominare sulla Scienza.
Ma comunque la totale e naturale divergenza tra Filosofia e Scienza dipende per il pensatore russo dal fatto che la prima usa ormai disinvoltamente (e senza alcuna vergogna) il metodo scientifico. Eppure alla fine la divergenza è assolutamente necessaria perché Filosofia e Scienza hanno due oggetti totalmente diversi – la prima si occupa dell’essere (e precisamente del suo senso) e la seconda si occupa invece delle mere cose (e precisamente della loro struttura), ossia si occupa appena degli oggetti dell’esperienza sensibile. Tuttavia vi è anche un altro aspetto (messo in luce da Berdjaev, e di nuovo per mezzo di Scheler); cioè la questione dell’oggettività della conoscenza. La Scienza pretende infatti che la Filosofia non possa essere soggettiva proprio per poter conoscere in modo rigorosamente oggettivo. Infatti per essa tutto è “oggetto” perfino il soggetto stesso, incluso lo stesso soggetto filosofante. E quindi la Filosofia scientifica di fatto impedisce alla Filosofia di esistere in quanto sopprime l’esistenza del filosofante. Ecco insorgere quindi quell’”obiettivazione” che Berdjaev condanna dappertutto nel suo pensiero come ciò che distorce totalmente la conoscenza (specie per la sua pretesa di sottomissione totale a quell’universale che viene considerato come garanzia massima di oggettività) [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 2 p. 221-231]. Tuttavia, a causa di questo, avviene infine una restrizione dell’ambito di conoscenza in generale, che è così penalizzante da obbligare il conoscente a ad andare oltre i limiti della Scienza nel campo delle famose teorie scientifiche.
E qui, nonostante le pretese avanzate in tal senso, la Scienza cessa decisamente di esistere per lasciare il posto alla Filosofia. sebbene essa di guardi bene dall’ammetterlo. Ma intanto ciò non può avvenire realmente per davvero sia perché la Scienza omette il dovere di non superare questo limite, sia perché la Filosofia non rivendica affatto il diritto di occupare questo campo del tutto da sola.
Orbene, abbiamo visto finora una serie di problematicità, delle quali le principali sembrano essere la totale trasformazione della Teologia in Filosofia («teologia filosofica») e la totale trasformazione in Scienza da parte della Filosofia. Berdjaev ci mostra chiaramente che si tratta di due forme gravi di asservimento e coartazione della Filosofia.
Ma successivamente (I p. 28-38) viene da parte sua l’indicazione delle soluzioni a tutta questa abnorme situazione. Le soluzioni sono sostanzialmente tre: − il riconoscimento che la Filosofia si basa su quell’”intuizione” che include anche l’emozione oltre che la Ragione, la centralità dell’uomo nell’esercizio della Filosofia (in quanto sostanziale vissuto esistente), la natura unicamente interiore dell’essere indagato dalla Filosofia in obbedienza al fatto che essa coincide totalmente con l’uomo.
Essendo “intuizione” (e precisamente “originaria”) la Filosofia coglie infatti in maniera assolutamente unica l’”ampiezza dell’esperienza vissuta”, e così anche la sua “pienezza”. Cosa possibile solo se la Ragione poggia interamente su quell’”ontologia” (onticità) del filosofo che è poi il suo stesso intenso e diretto vissuto, e quindi include strettamente le sue emozioni (amore, odio, sensibilità per i valori). Su questa base, quindi, è evidente che il campo della conoscenza umana (Ragione umana) diverge radicalmente dal campo della conoscenza divina (o Ragione divina) che è poi il campo della Rivelazione. E ciò conferma senz’altro la distanza che vi deve essere tra la conoscenza filosofica e quella teologica. Ma intanto proprio per questo la Rivelazione si impone sull’uomo che non può assolutamente impersonarla né possederla, e quindi ne viene sempre scosso e trasformato interiormente. Ecco dunque il timido germogliare del seme di una Filosofia religiosa, che consiste nell’avere la Rivelazione come contenuto “mistico” del proprio pensare. Si tratta in altre parole di quell’assumere la Rivelazione come materiale fondamentale per la riflessione filosofica.
E ciò è peraltro esattamente quanto è sempre avvenuto nella filosofia cristiana più prossima al platonismo e quindi più incline ad essere una filosofia religiosa entro la quale la Filosofia non si fonde affatto alla Teologia in una «teologia filosofica» che è solo filosofare logico-razionale [Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73]. Qui insomma lo sfondo del filosofare resta sempre «contro-razionale» o «iper-razionale», con la conseguenza che l’umana logica razionale non assume mai il predominio divenendo così assolutamente dirimente. Eppure questa valenza dirimente dell’umana logica razionale (con la svalutazione brutale della natura «contro-razionale» ed «iper-razionale» delle Verità rivelazionali) è esattamente ciò che è stato affermato nell’estrema evoluzione della «teologia filosofica» nell’attuale scienza analitico-cognitivista della Religione.
Resta comunque per Berdjaev assolutamente indispensabile la dimensione umana della conoscenza, la quale comporta perfino anche un’”umanizzazione” della conoscenza di Dio. Ma nello stesso tempo si verifica per lui una stupefacente continua “commensurabilità” tra conoscere umano e conoscere divino sulla base della intima somiglianza tra uomo e Dio – ossia umanità di Dio e divinità dell’uomo. E per questo alla fine la così decisivamente umana Filosofia diviene perfino piena conoscenza di Dio, ossia autentica filosofia religiosa. In tale contesto l’umanizzazione è dunque qualcosa di estremamente felice. E come vedremo questo entra in frontale conflitto con il discredito gettato dal post-teismo sull’antroporfizzazione del Dio manifestato nella Rivelazione.
Anzi Berdjaev afferma che, entro la conoscenza in generale, ci sono addirittura tre gradi di “umanizzazione” della conoscenza – massima nella Religione, media nella Filosofia e minima (se non inesistente) nella Scienza. Non a caso quest’ultima si allontana anni luce dal vero scopo della conoscenza e dalla sua dimensione, dato che si sposta nel campo della profondità degli enti. Insomma l’umanizzazione è massima proprio nella Religione, ossia nel vissuto (pratico e conoscitivo) dei contenuti della Rivelazione.
In altre parole l’umanizzazione della conoscenza di Dio è una risorsa e non un impedimento; e ciò per il semplicissimo fatto che la stessa Rivelazione cristiana la esige, dato che il suo nucleo è quell’umano-divinità che consegue ineluttabilmente all’Incarnazione.
In ogni caso sono secondo Berdjaev da riconoscere tre livelli e gradi (ed anche principi e dimensioni) della conoscenza: − uomo (Cultura), Dio (Grazia) e Natura (Necessità). E quindi sulla base di questo sono riconoscibili anche due estremizzazioni che pongono illegittimamente fuori gioco l’uomo: − unilaterale conoscenza di Dio e unilaterale conoscenza della Natura. È evidente quindi che l’autentica filosofia religiosa (dato che la Filosofia si incentra unicamente sull’uomo) non può essere assolutamente estremistica. Essa insomma non può affatto pretendere di rappresentare una conoscenza di Dio che bypassa totalmente l’uomo. Cosa che di nuovo riabilita totalmente l’antropomorfismo di Dio. Il che è peraltro anche estremamente plausibile, perché in questo caso vi è solo il pensiero divino (Rivelazione) e per nulla invece la ricezione della Rivelazione da parte del filosofare umano. E questo del resto contraddice in modo evidente lo scopo stesso della Rivelazione, che altro non è se non il desiderio divino di comunicarsi all’uomo proprio sul piano della conoscenza.
In altre parole la filosofia religiosa non può in alcun modo essere estremistica in quanto essa deve sempre passare per la conoscenza propria dell’uomo. Il che significa anche che l’uomo può conoscere Dio e la Natura solo attraverso sé stesso.
E deve anche essere pronto a riconoscerlo ed ammetterlo. Al di fuori di questo non vi può quindi essere altro che una filosofia religiosa fatalmente illegittima (in quanto pretesa assurda della dissociazione tra divino ed umano). E forse essa è proprio quella che Berdjaev riconosceva nella tradizione teosofica, platonica e neoplatonica. Ma, al cospetto di ciò, si delinea una dimensione estremamente complessa che alla fine ci riposta alla rigorosa distinzione istituita da Scheler tra Religione e metafisica [Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018]. Infatti, dice il filosofo russo, a fronte (ad anche all’opposto) di una filosofia religiosa estremistica vi è la “naturalizzazione delle verità religiose”, e cioè di fatto quella cosmologia ingenua (oltre che in parte anche razionalistica) – che pretende poi dogmaticamente di essere fondata in una lettura letterale della Rivelazione – che secondo lui la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare integralmente. Ma non solo la Filosofia ha questo diritto. Forse invece lo ha ancora più la Religione. Dato che il Dio da essa venerato e pregato è il Dio Vivente (quello di Abramo, Isacco e Giacobbe), e non invece il puro Assoluto divino (che è solo puramente metafisico). Eppure esso pretende di essere tale proprio entro la cosmologia ingenua – la quale in definitiva, come sostenne Hessen, non è altro che un intellettualismo razionalistico assolutamente anti-realiste e quindi non descrivente affatto l’esistenza reale [Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, I, I, 1 p. 15-19, II, VII p. 224-234]. E proprio per questo la Filosofia deve rigettare il cosmologismo ingenuo – ma non solo in nome di sé stessa bensì forse ancor più in nome della Religione. In questo senso, per Berdjaev, la Filosofia ha il pieno diritto di rigettare la fede ingenua. Ebbene, del tutto paradossalmente, proprio entro la più rigorosamente filosofica scienza della Religione analitico-cognitivistica, noi ritroviamo affermazioni che di fatto si allineano perfettamente a questa così illegittima naturalizzazione delle verità religiose che porta infine a negare quel Dio Vivente che è tutt’altro che un puro Assoluto metafisico. Paolini Paoletti cita infatti moderne teorie della Trinità entro le quali viene negata espressamente proprio la realtà del Dio-Persona [Michele Paolini Paoletti, The holy Trinity and the ontology of relations”, Sophia 60 (1) 2021, p. 173]. E vedremo che lo stesso accade entro il post-teismo, dato che in esso il Dio-Persona viene negato (con il pretesto dell’antropomorfismo) proprio in nome invece di un Dio apofatico che null’altro è se non il puro Assoluto metafisico.
Il che è davvero paradossale, oltre che ridicolo. Ciò significa insomma che forse vi è un rischio ancora maggiore di quello dell’estremizzazione della filosofia religiosa (quella in generale platonica), e cioè quello rappresentato da una riflessione apparentemente rigorosissima (dal punto di vista logico-razionalistico) ma di fatto invece meramente naturalistica. In essa insomma si commette il fatale (ed anche banalissimo) errore di voler trattare di Dio alla stregua dell’esperienza naturale. Ma intanto proprio per questa via lo si trasforma nuovamente in un puro Assoluto metafisico, dato che intanto le evidenze naturali contraddicono il Dio antropomorfico che viene effettivamente presentato dalla Rivelazione. E così senz’altro non si va da nessuna parte.
Ma Berdjaev ci offre un contesto estremamente suggestivo ed illuminante di questo paradosso; che poi costituisce per lui un altro aspetto della solitudine tragica che tocca inevitabilmente al filosofo. Si tratta della dimensione in verità meramente sociale ed affatto autenticamente conoscitiva di questo genere di conoscenze. Il che avviene in Filosofia, in Religione ed anche in Scienza. Accade quindi che vengono affermati dottrine e metodi conoscitivi che hanno una mera valenza sociale pur pretendendo di presentarsi invece come oggettivi e cogenti dal puro punto di vista conoscitivo. E così, su questa base, viene violentemente attaccato il filosofo (ma anche il teologo o perfino il semplice credente) che osi contraddire le cogenze sociali così affermate. Accade pertanto che il filosofo religioso che si fa scrupolo di guardare in faccia a Dio (senza alcuna intermediazione canonico-sociale) resta non solo totalmente inascoltato e non riconosciuto nel proprio ruolo, ma viene anche violentemente aggredito. Ed ecco allora il fatale delinearsi di pensatori originali (davvero indipendenti e rinnovatori) così come anche di autentici santi e mistici che vengono sempre o trascurati o screditati e combattuti. Nel nostro Paese uno di questi è stato senz’altro quel Don Dolindo Ruotolo [Grazia Ruotolo, Luciano Regolo, Gesù, pensaci tu, Ares, Milano 2020] che ebbe il coraggio di affermare chiaramente che l’aiuto divino esiste realmente e che quindi Dio null’altro è se non Persona, ossia Gesù stesso ancora presente nel mondo come Spirito e peraltro concretamente agente.
Ed ecco che, come dice Berdjaev, nel campo della conoscenza l’uomo può prendere solo due posizioni radicalmente alternative tra loro (nel senso di un vero e proprio aut aut): − 1) o egli si pone incondizionatamente di fronte al mistero dell’essere, ed allora ne nasce la vera Filosofia, con la sua conseguente intuizione e partecipazione della Rivelazione; che rende l’uomo senz’altro indifeso ma anche lo arricchisce infinitamente; 2) oppure egli si pone di fronte agli altri, o società, con la sottomissione ad essa della conoscenza filosofica. E tutto questo significa per il filosofo russo che la Filosofia può essere solo intensamente personale e soggettiva in quanto richiedente la presenza vivente del filosofo [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Cosa che può benissimo venire estesa anche al semplice uomo comuno quale credente.
A causa di questo l’intera storia della filosofia è per lui storia delle visioni personali dei singoli pensatori, ed inoltre solo in esse (grazie ad un’intuizione che può essere solo soggettiva) si coglie per davvero la verità. Essa infatti viene colta solo interiormente e proprio come tale non è mai verità oggettiva ma invece solo trascendente; ossia luce proveniente dall’Origine della quale un riflesso viene colto dallo spirito individuale. Il che implica poi anche un limite ben preciso nel senso della ristrettezza – in tal modo infatti il filosofo non può cogliere mai l’intera verità ma appena alcuni dei suoi raggi che penetrano nel suo intimo. Il che comporta nuovamente l’importanza decisiva della dimensione umana in Filosofia, dato che essa conosce solo “nell’uomo e per mezzo dell’uomo”. Ne consegue che non vi può essere alcuna Filosofia in quanto disciplina autonoma nel senso dell’oggettività (specie se rigorosamente razionale e quindi scientifica).
Essa invece può essere solo vitale (oltre che pratica ed azionistica), ed affatto teoretica. Su questa base per Berdjaev non è giustificata né legittima alcuna Filosofia “accademica” e “di scuola” (“akademische Schulphilosophie”). Ne consegue inevitabilmente che per lui è una figura del tutto ridicola il metafisico ripiegato sui libri dietro la propria scrivania. Invece il mistero dell’essere può venire dischiuso solo nel corso di una vera e propria immersione del filosofo nel destino umano in quanto incondizionato esistere.
Ecco che c’è qui allora da chiedersi quanto dell’attuale riflessione scientifico-religiosa − così accademica, così professorale, così dipendente dagli unici dibattiti ammessi nelle Accademiche, così irrigidita nelle forme espressive che le Accademie ritengono valide, così marchiata dall’ossessione protagonistica (delle varie “la mia soluzione alla questione…”), così asetticamente sterilizzata da ogni forma di presunta “ingenuità” – possa davvero recare i tratti di questo pensare il cui protagonista è pienamente uomo e come tale è immerso nel pieno dell’esistenza e perfino nel proprio destino. E la domanda è ancora più legittima se si tiene conto del fatto che essa tratta verità di fede. Dunque dov’è qui l’esperienza di fede più viva? Dov’è qui l’esperienza religiosa più autentica, ossia quella che presume di stare ad immediato contatto con Dio?
Questo problema diviene però ancora più drammatico se teniamo conto della relazione tra soggetto e mondo che Berdjaev indaga susseguentemente [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 51-59]. Qui in generale il pensatore sostiene che lo spostamento avvenuto modernamente in Filosofia dall’oggetto all’oggetto aveva fatto sì che il soggetto stesso non si trovasse più realmente in relazione con l’essere ma invece si trovasse con esso in una relazione puramente conoscitiva. Tuttavia, allo scopo di garantire l’affidabilità di tale conoscenza (ossia il suo rigore) si tendeva intanto a trascendentalizzare il soggetto (Kant, Fichte, Hegel, Schelling) trasformandolo così in un Io assoluto che poi altro non voleva essere se non un Io divino di tipo impersonale. Cessava quindi così per sempre il personalismo della conoscenza in generale ed ancor più di quella filosofica. E così la conoscenza dell’oggetto non era più umana ma unicamente divina.
Nello stesso tempo si esigeva che l’oggetto conosciuto dovesse essere indipendente dal soggetto, con la conseguenza che cessava qualunque relazione tra i due termini. E quindi si affermava un concetto di “oggettività” che consisteva esattamente nella rigorosa separazione dell’oggetto dal soggetto, invece di essere “rivelazione” (“Enthüllung”), “visibilità” (“Sichtbarwerden”) e “corporizzarione” (“Verkörperung”) dell’oggetto stesso, e quindi dell’essere. Necessariamente iniziava così a manifestarsi un’“oggettivazione (Objektivierung) del senso”, negando così che invece il senso insorge solo “in me”, ossia in me come spirito umano, specie se filosofo. Ecco dunque – contro quest’ultima prospettiva − delinearsi il ruolo dirimente della coscienza (Husserl) ed ecco il delinearsi del concetto di “spirito oggettivo”.
Ora, a fronte di tutto ciò, è ancora più evidente evidente perché la Rivelazione ha iniziato da questo momento in poi ad essere un termine estremamente sospetto, ed è dunque chiaro perché si è iniziato ad operare contro di essa o almeno fuori di essa.
Ma se andiamo oltre nella riflessione di Bedjaev coglieremo altri aspetti di tale realtà. Perché la conseguenza di ciò che egli descrive è stato un intellettualismo − lo stesso intellettualismo criticato da Hessen ed in effetti presente già molto prima che nel moderno Idealismo − entro il quale il pensiero stesso veniva scambiato per l’essere.
Ed allora, se poniamo che (in termini tradizionalmente metafisico-religiosi l’Essere è Dio stesso) come possiamo meravigliarci dell’attuale tendenza scientifico-religiosa a sostituire la trattazione dell’essere divino (quello manifestato per misteri entro la Rivelazione) con il semplice dipanarsi di pensieri rigorosamente logici (nonché pure astrusi). In tale contesto insomma si ha davvero la sensazione di star trattando di Dio stesso (e perfino in modo infinitamente più pulito logicamente rispetto al passato).
Nel mentre invece ci si sta aggirando appena nel labirinto oscuro della propria mente, e più precisamente (oggi che la Scienza ha sostituito la Filosofia) in una quella specie di mente collettiva che è il mondo della comunità scientifica dibattente fino allo stremo questioni scientifiche (ancor più se in esso finisce per insorgere addirittura il tanto agognato «consenso»).
Il che poi è ancora più grave se si tiene conto del fatto che − entro la relazione soggetto-oggetto criticata da Berdjaev – i pensieri finiscono per essere appena riflesso dell’essere, e mai e poi mai invece coglimento diretto e pieno dell’essere. Che per Berdjaev è invece attivo per definizione e proprio per questo richiede un atto intellettuale di investimento dell’essere (che è sempre attivo ed assertivo per definizione), ossia quell’intuizione che è poi null’altro che visione. Era esattamente ciò che accadeva nell’antica metafisica (illuminata o meno dalla Rivelazione) – in essa l’intelletto umano si trasferiva letteralmente entro il proprio oggetto di riflessione, venendo così da esso impregnato ed illuminato da ogni parte. Ma questa attività del conoscere non è affatto l’attuale tendenza dei teologi- e filosofi-scienziati a forgiare letteralmente ex novo (per la via della pura argomentazione logica) teorie sull’essere divino che invece prima venivano invece ottenute unicamente per la via di una riflessione visionario-intuitiva. E questa era una riflessione sicuramente attiva, ma che intanto recepiva rispettosamente (e con venerazione) i contenuti della Rivelazione, invece di cercare di ricrearli ex novo.
E ciò del resto viene sottolineato da Berdjaev nel sottolineare che l’uomo conosce l’essere solo perché vi si trova immerso dentro. Il che significa poi intrattenere con l’essere (cioè con l’oggetto) una relazione che è strenuamente soggettiva, ossia è personale.
Ebbene questo atteggiamento distorto del soggetto conoscente verso l’essere configura ancora una volta un’”obiettivazione” Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-75]. L’oggettivazione causa insomma una presa di posizione verso l’oggetto (quella contrassegnata dallo stare «davanti» ad esso e non invece «in» esso) in forza della quale l’oggetto stesso cessa semplicemente di avere valenza di essere. Ed in tal modo mai e poi mai la conoscenza dischiuderà davanti a noi il “mistero dell’essere”.
Ecco di nuovo esattamente ciò che accade nella letteratura scientifico-religiosa – essa vede del Dio-Essere tutto il possibile (ed anche di più), tranne l’essenziale, e cioè il Suo mistero. E dunque essa è tale perché in definitiva non vuole essere più in alcun modo una filosofia dell’essere – ossia proprio quella che per Berdjaev è la più autentica e piena Filosofia. Essa invece semmai non è altro che la filosofia della conoscenza (quella dominata dalla sola «teoria della conoscenza») che intanto viene del tutto illegittimamente ed anche scompostamente applicata all’essere. Per di più in quanto essa pretende addirittura di essere non solo filosofia scientifica ma invece scienza vera e propria. Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un complessivo campo di conoscenza che manca completamente il proprio obiettivo, ossia il proprio oggetto, limitandosi così a girare del tutto a vuoto.
In ogni caso veniamo davvero al dunque (rispetto alla nostra questione) laddove Berdjaev stesso si occupa non più della Filosofia con pretese di scientificità ma della conoscenza scientifica stessa [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-117].
Qui egli afferma che non c’è nulla che possa separare di più il conoscente dal mistero dell’essere se non quella pretesa della validità conoscitiva (con tutto il suo pesante ed ingombrante corredo di leggi logiche in funzione rigidamente normante) che annienta letteralmente qualunque atto di intuizione ed inoltre anche la stessa dimensione soggettivo-personale della conoscenza, ossia la dimensione vitale ed immersiva del filosofare. E peraltro egli sottolinea anche che qui non ci troviamo più affatto per davvero sul piano della conoscenza, bensì invece sul piano di mere esigenze sociali (mascherate da conoscenza) – nelle quali non a caso domina una cogenza che pretende di sottomettere tutto e tutti (è insomma di nuovo il luogo del dominio dell’universale).
A questo seguono poi le considerazioni del pensatore sulla dimensione religiosa che insorge per via sociale di tipo comunionale allorquando l’Io supera la sua dimensione solipsistica per porsi in intima relazione con l’altro Io [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III p. 111-162]. Tali considerazioni non riguardano direttamente la nostra questione per cui non ne tratteremo. C’è da chiedersi però se l’attuale ricercatore scientifico-religioso non sia vittima proprio del solipsismo dell’Io che viene deplorato da Berdjaev, e quindi, proprio per questo, non abbia la benchè minima chance di porsi in connessione con un aspetto fondamentale della dimensione religiosa, ossia quella comunionale. Laddove poi il pensatore russo sottolinea che quest’ultima è davvero ecclesiale solo nella misura in cui è un’autentica “comunione spirituale” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. E quindi è estremamente lontana da quella dimensione ecclesiale meramente istituzionale entro la quale del tutto non a caso questi ricercatori si muovono perfettamente a loro agio e nel pieno consenso delle autorità, visto che in fondo sono dei teologi (e spesso anche sacerdoti e predicatori). Peraltro Berdjaev sottolinea che la tensione dell’Io verso l’altro tende del tutto naturalmente a Dio stesso. Anzi abbiamo un massimo tendere a Dio in quel “teoandrismo della conoscenza” che costituisce uno dei vertici della tensione dell’Io verso l’altro.
A ciò va solo aggiunto (sempre da DIWO) che per Berdjaev solo nella dimensione personale (dell’essere e necessariamente anche del conoscere, specie se filosofico) può esservi una relazione con Dio – che è esso stesso Persona ed inoltre proprio per questo è intimamente connesso all’uomo entro l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-43]. La dimensione personale è dunque sempre e per definizione partecipazione di Dio. Inoltre nella relazione con Dio si finisce per superare anche la stessa dimensione personale-immanente dell’uomo, dato che In ogni caso la personalità non sussisterebbe senza avere qualcosa di “sovrapersonale” (“Überpersönlich”) sopra di sé, e quindi qualcosa di alto che la determina [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., V, 1 p. 205-220]. Si tratta ancora una volta dell’umano-divinità come carattere simultaneo della dimensione personale umana e divina. E quindi proprio in questa determinazione sovra-personale della persona consiste il mistero stesso della persona umana. Anzi il pensatore russo sottolinea che la dimensione della persona emerge in verità solo nella Rivelazione ed affatto invece mai né entro l’esperienza naturale né entro il pensiero umano. Infatti la persona, non essendo (come invece lo è l’individuo) un “fenomeno” (“Erscheinung”) naturale, esso è solo immagine di una “similitudine” (“Gleichnis”) dell’uomo a Dio.
Figuriamoci quindi come e quanto elucubrazioni scientifico-religiose di tipo logico come quelle sull’”ontologia della relazione” (Paolini Paoletti) possano restituirci il mistero centrale stesso della Trinità e cioè la rivelazione dell’ontologia più alta possibile della persona (tanto umano quanto divina).

I-2. L’umano-divinità e la realtà personale dell’umano-divino in quanto Spirito.
Ma veniamo ora al testo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018], nel quale potremo cogliere un altro aspetto delle riflessioni su Dio, e cioè quello ancora più legato ad un aspetto essenziale della divinità stessa, ossia quell’umano-divinità che è nello stesso tempo nucleo della dimensione personale e nucleo della dimensione spirituale. Si vedano per questo anche le considerazioni che abbiamo fatto nel nostro saggio sul Personalismo e nel nostro articolo sulle relazioni tra il pensiero di Edith Stein e lo Spiritualismo [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e lo Spiritualismo” https://cieloeterra.wordpress.com/2022/12/06/edith-stein-e-lo-spiritualismo/].
Qui in generale Berdjaev sostiene l’assoluta equivalenza esistente tra persona umana, spirito ed essere.
E quindi per definizione istituisce un’intima relazione tra l’uomo e Dio proprio sul piano della realtà personale. Quindi nulla come queste riflessioni possono sconfessare le attuali riflessioni scientifico-religiose sul post-teismo. Infatti se Dio è persona non può essere in alcun modo una generica deità. E va qui anticipato che in genere per “post-teismo” si intende senza ormai alcun imbarazzo qualcosa di simile ad una «religione senza Dio». Vedremo però poi quale multiforme e bizzarro campionario di idee è incluso in questa complessiva teoria, date le su dirette premesse anti-teistiche ed atee.
Vediamo ora se in Berdjaev riusciremo a trovare argomenti convincenti contro questa dottrina anche senza chiamare in causa la predisposizione della Filosofia ad essere religiosa. Si tratterebbe quindi di argomenti preventivi che possono fungere da paradigma per esprimere alla fine un giudizio sul post-teismo.
Bisogna peraltro premettere che il pensatore russo non è affatto incline ad un teismo di tipo dogmatico, ingenuo e addirittura cosmologico-naturalistico (come quello che è stato affermato nel Cristianesimo a partire dalla Scolastica per poi prolungarsi di fatto, sebbene in maniera sempre meno esplicita ed affermativa) fino ai giorni nostri.
Qui va detto però che evidentemente questo non fu altro che l’aspetto essoterico (e non esoterico) dell’onto-metafisica cristiana. Quindi è assolutamente certo che esso è stato affermato ed anche molto propagandato come articolo di fede. Ma intanto il vero motivo di tutto ciò non riguardò affatto la dottrina in sé (la cui natura era unicamente esoterica, e quindi affatto letterale, come di certo ben sapevano i suoi sostenitori) bensì riguardò unicamente quella esigenza sociale che non a caso anche Berdjaev sottolinea, ossia l’esigenza di affermare un Ordine cosmico che alla fine aveva una valenza meramente politica. Ed è ovvio che tale Ordine andava mantenuto con il terrore, ossia per mezzo del dogma. Anzi al proposito il pensatore russo sostiene che il Cristianesimo originario fu profondamente stravolto in questo senso dal prevalere in esso di uno spirito barbarico in fondo pagano, tutto germanico e tutto politico-teocratico che era ossessionato dalla violenza delle passioni, alle quali esso cercava appunto rifugio nell’ordine più inflessibile possibile [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 2 p. 8-16].
Berdjaev definisce tale tendenza come prevalre del “principio angelico”, indicando con ciò la presunzione che l’esistenza di Dio (e soprattutto l’esistenza di Dio nel mondo specie grazie all’umano-divinità, cioè all’Incarnazione nella sua pienezza) potesse venire affermata unicamente sulla base di un mero simbolismo che sosteneva la divinità integrale del mondo nel mentre intanto (contraddicendosi totalmente) svalutava totalmente quest’ultimo [Nikolaj Berdjaev, Saggio introduttivo. Salvezza e creatività, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8, 3-4 p. 17-25]. Egli ritiene invece che la divinità del mondo debba venire affermata integralmente, ossia in modo realmente coerente, e ciò in forza del concetto di Incarnazione una volta affermato con estremo coraggio da parte della Chiesa cristiana. Cosa che per davvero non è mai accaduta, visto l’imbarazzo che essa ancora prova davanti a questo concetto (come peraltro evidente al massimo proprio nel post-teismo).
Eppure sta di fatto che (come egli constata) il dissolversi progressivo del principio angelico (sotto la spinta possente della sempre maggiore valorizzazione umanistica ed immanentista del mondo) ha portato al risultato per nulla desiderabile della separazione tra uomo-mondo e Dio. In altre parole possiamo dire che un teismo troppo estremistico (che poi è quello che vuole un mondo penetrato da Dio ma intanto solo nella Sua distanza incommensurabile dal mondo stesso) porta a risultati senz’altro controproducenti. E questo è senz’altro quel teismo trascendentista che poi (a causa delle sue oggettive colpe) può venire considerato il remoto punto di partenza dell’ultra-moderno post-teismo. Quest’ultimo affonda quindi senz’altro le sue radici nelle obiezioni che prima la Filosofia rinascimentale della Natura e poi l’Illuminismo (per culminare infine nel Positivismo) iniziarono a muovere proprio contro la credibilità (razionale ed esperienziale) di un Dio Trascendente; e ciò peraltro a fronte di un mondo che la scienza empirica iniziava a mostrare sempre più come un meccanismo perfetto. In altre parole fu proprio in questo modo che si iniziò a considerare l’esistenza di Dio come insostenibile alla luce dell’esperienza e della Ragione. Egli sottolinea peraltro che la teologia che si mosse in tal modo fu una teologia sostanzialmente apofatica (sebbene non sempre in modo letterale) che di fatto temeva fortemente un’antropomorfizzazione di Dio, e quindi una valorizzazione del mondo che si basasse proprio su quest’ultima. Sta di fatto comunque che, come vedremo in Gamberini, questo genere teologia (per moto tempo restata nascosta tra le pieghe della teologia razionale e naturale) si è alla fine manifestata pienamente proprio nel post-teismo. In esso infatti l’accusa all’antromorfismo è divenuta massima.
Non vi è quindi dubbio che questo genere di teismo non è affatto una via praticabile per opporsi al post-teismo. Anzi addirittura si può essere certi che ne rafforzi gli argomenti.
Contro questo approccio Berdjaev sostiene la necessità di una santificazione del mondo che abbia al suo centro un amore verso Dio che sia simultaneo all’amore verso il mondo. Proprio per questo egli propone la via di un’attività creativa umana (anch’essa assolutamente da santificare), che però gli sembra possibile solo se finalmente viene superato quel platonismo tendenzialmente gnostico che secondo lui è residuato nello stesso Cristianesimo nella forma di un dualismo (opponente radicalmente il Trascendente all’immanente) entro il quale si finisce per confondere fortemente Dio stesso con il Diavolo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43]. Infatti in tale contesto vi è da un lato un’identificazione strettissima del mondo con il male, ma anche una forte rassegnazione al mondo così com’è. Con la grave conseguenza che il male non viene combattuto. Laddove per lui la via per farlo è esattamente quella di una trasfigurazione creativa del mondo stesso, in modo che esso divenga ancora più divino di quanto non sia di per sé in forza della creazione. Egli postula infatti un’attiva collaborazione dell’uomo e del mondo alla creazione. E ciò implica il superamento di un pessimismo (senz’altro incentrato sull’ossessione cristiana per il Peccato) che di fatto equivale fortemente allo stesso “dubbio scettico”, ossia all’agnosticismo ateo. Esso insomma comporta la mancanza di una vera fede in Dio, e precisamente della fede in un Dio realmente presente nel mondo.
E invece secondo Lui Dio è presente indubitabilmente nel mondo, ma lo è per la precisione per mezzo dell’uomo stesso e della sua creatività; a sua volta (teologicamente) incentrata su quell’umano-divinità che poi ha le sue radici nell’Incarnazione accettata senza più alcuna riserva (né trascendentista né scettica).
Ed a questo scopo egli non esita a dichiara di chiedere in un “monismo quasi panteistico”. La cui natura deve però venire ben chiarita per non cadere in quella fatale “antinomia” dell’esperienza religiosa che non solo rende quest’ultima assimilabile ad una fede infantile, ma soprattutto la rende paralitica, e quindi incapace di opporsi davvero al male in forza di una (non dichiarata ma anche non del tutto consapevole) assuefazione ad un mondo che intanto si disprezza fortemente. Ebbene tale antinomia può secondo lui venire superata solo se si diviene consapevoli in primo luogo del fatto del fatto che Dio e mondo sono simultanei (Dio “è immanente al mondo e all’uomo”, così come però “il mondo è l’uomo sono immanenti a Dio”) ed in secondo luogo del fatto che il mondo deve venire considerato extra-divino solo nella misura in cui intanto è divino (“il mondo è totalmente extradivino” ma come tale è “totalmente divino”). A suo avviso un’esperienza religiosa può essere piena ed attiva (e dunque non antinomica) solo se si basa su questa fede estremamente forte. Forte soprattutto perché essa è capace di esporsi alle evidenze negative del mondo senza mai venire scossa.
Ed è evidente che il nucleo di questa fede è la ferma certezza che Dio è presente nel mondo. E nel nostro articolo sullo Spiritualismo abbiamo chiarito che ciò equivale a credere che Gesù Cristo è restato nel mondo come Spirito incessantemente trasfigurante (e quindi di realizzare l’impossibile qualora invocato) dopo essere nuovamente asceso al Padre.
Tutto ciò conserva comunque tutta la tensione cristiana verso il superamento del mondo, ma senza che mai essa si trasformi in paralisi dell’azione.
E qui egli finisce per sostenere che la relazione tra uomo e Dio deve essere assolutamente immediata e diretta in quanto essa si incentra proprio nel pieno impersonamento da parte dell’uomo della creatività che lo contraddistingue per dono divino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 75-82]. Il che implica la libertà da qualunque condizionamento, incluso quello della stessa teologia.
A questo punto le considerazioni del pensatore riprendono l’intera materia che abbiamo discusso nella sezione precedente rispetto alla dimensione religiosa della Filosofia. Il che significa che per lui la Filosofia stessa (una volta libera e ben intesa) è una risorsa posta a disposizione del vero credente. E ciò soprattutto perché essa ci pone in contatto con la Rivelazione esattamente così com’è, e quindi né riletta, né interpretata, né ridotta nella sua portata (ossia non distorta). Qui vi è già un fortissimo argomento anti-teistico proprio in quanto decisamente anti-teologico. Infatti cosa fanno gli ultra-moderni scientifico-religiosi (ossia i teologi stessi, specie se post-teisti) se non mettere fortemente in ridicolo la fede in Dio realmente presente nel mondo? È evidente quindi che, se si crede a quest’ultimo, non si può credere alle elucubrazioni post-teistiche nemmeno sulla base delle più rigorose e sofisticate argomentazioni logico-critiche. Infatti in questo caso il credente vivrà un’esperienza religiosa che è in primo luogo diretto contatto con Dio, e lo è in modo così intimo da costituire in tal modo uno spazio assolutamente inviolabile. Insomma nessun teologo, o predicatore, o apologeta, o chicchessia, avrà il minimo diritto di irrompere in questo spazio con quelle sue argomentazioni scettiche che oggi fin troppo stesso vengono considerate addirittura indiscutibile articolo di fede.
Tra l’altro a ciò si aggiungono anche fortissime considerazioni metafisico-filosofiche [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Infatti Berdjaev sostiene che l’uomo è di per sé consapevole di essere universo ed anche centro dell’universo, ossia autentico ”centro dell’essere”; ed inoltre proprio per questo esso è perfettamente in grado di conoscere l’universo, e dunque Dio, stesso, senza alcuna intermediazione (specie da parte di una teologia critica). Sostanzialmente perché esso sa di racchiudere in sé l’universo stesso. Ecco dunque che l’uomo è per definizione microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. E questa, dice il pensatore russo, costituisce la via complessiva per mezzo della quale sempre sono stati recepiti dall’uomo (per Rivelazione) gli stessi “misteri dell’universo”; come del resto la vera Filosofia ha sempre saputo.
Dunque perché mai questa via così breve, semplice e diretta a Dio dovrebbe venire resa immensamente lunga, tortuosa e complicata per mezzo di un’argomentazione scientifico-religiosa che nutre una profonda sfiducia proprio nella Rivelazione come fonte purissima ed incondizionata della verità circa Dio? Davvero non si riesce a comprendere la necessità di una simile inutile e pretenziosa complessità. L’unica sua spiegazione può quindi risiedere nell’irrefrenabile ansia di protagonismo intellettuale ed accademico di coloro che la rappresentano. Non a caso questo è il campo nel quale sono fiorite come funghi carriere e cattedre. E ciò proprio per mezzo di una rivivificazione teologica della Filosofia e di una rivivificazione filosofica della Teologia, che di fatto hanno rimesso in piedi delle discipline ormai morte sotto l’urto terribile di una scienza empirica che aveva occupato tutti i campi del sapere e anche tutti i luoghi accademici.
Peraltro proprio tutto questo sottolinea per Berdjaev che molto poco è stato detto finora dai teologi di tutti i tempi (specie nel contesto dell’antropologia della Patristica e dei Dottori della Chiesa) sulla vera natura della “cristologia”; la quale è realmente perfetta coincidenza di uomo e Dio nell’umano-divinità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., II p. 85-88]. Essa è stata semmai fortemente depotenziata per mezzo di una forte svalutazione dell’uomo nel suo contesto, che poi ha l’effetto paradossale di svalutare anche l’umano-divinità del Cristo. Con l’ulteriore conseguenza di sostenere una distanza infinita tra Dio e uomo.
Ecco dunque delinearsi nuovamente una remota via che già preannunciava il post-teismo. Vedremo infatti che quest’ultimo assegna all’uomo il ruolo di interprete unico della realtà divina proprio perché quest’ultima è in sé assolutamente ineffabile, e pertanto può essere solo ingenuo considerarla realmente presente nel mondo. E peraltro quanto Berdjaev qui deplora è avvenuto nuovamente per la svalutazione di quella natura personale di Dio che secondo lui va totalmente di pari passo con l’umano-divinità (divinità dell’uomo in quanto persona) e con la divino-umanità (umanità di Dio in quanto persona). Ed eccoci quindi di nuovo di fronte ad una del tutto inutile coartazione neo-teologica di quei misteri cristiani che non solo sono chiarissimi ma anche talmente profondi da permettere una riflessione interminabile su di essi senza alcun bisogno di modificare una sola virgola nel loro contenuto.
È vero che interferisce in questo quella dimensione del mistero che la logica dei teologi vede come il fumo negli occhi. Ma nemmeno questa è un ostacolo per chi decida, come Berdjaev, di guardare a queste cose rispettando in pieno la dimensione della Rivelazione, e proprio come filosofo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 127-133]. Egli afferma infatti che semplicemente “Dio attende dall’uomo la rivelazione antropologica della creatività avendogliene nascoste le vie…”. Ed è proprio su questa base che egli auspica ed anche profetizza una nuova “rivelazione antropologica” entro il Cristianesimo. Egli dice infatti che, una volta che noi abbiamo compreso questo senso specifico della Rivelazione, allora essa si presenterà a noi in forme storiche graduali che procedono inevitabilmente verso il futuro. Vi sono insomma epoche e gradi della Rivelazione cristiana: − dal più basso (Legge), che pone un limite al male insito nell’uomo nel metterlo a nudo; all’intermedio (Redenzione), che restaura la natura umana restituendole la sua libertà, in modo che avvenga una rinascita dell’uomo; fino all’ultimo (Creatività), che restaura davvero in pieno la natura umana.
Dunque per Berdjaev la creatività dell’uomo è qualcosa che riguarda integralmente l’uomo fatto a somiglianza, e quindi è la manifestazione più diretta dell’immagine del Creatore. Ma essa non è né nel Padre né nel Figlio bensì solo nello Spirito. Quindi non è legata al sacerdozio ma solo allo “spirito profetico”, che è poi libertà come quella dello Spirito che soffia dove vuole. Ne deriva che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano”.
E dunque l’uomo, essendo divino per definizione (e quindi in immediata relazione con Dio) ha addirittura in sé tutte le possibilità per rendere del tutto superflua quell’intera ricerca scientifico-religiosa che (almeno sulla carta) è stata messa su per porre rimedio alla distanza invalicabile che (in quanto esistente gettato nel mondo) gli renderebbe assolutamente impossibile toccare la realtà di Dio. Non a caso una delle più forti questioni insorte in questo ambito è stata ed è quella dell’incontestabile male del mondo al quale la teologia cristiana non sarebbe mai riuscita a trovare una soluzione davvero credibile. Ebbene la risposta a questa questione sta già qui in Berdjaev. Ed è la seguente: − l’uomo proprio in quanto ente divino è così prossimo a Dio, e precisamente al Dio-Persona (che non è in alcun modo un Dio Trascendente, ma è invece il Dio Vivo impregnante il mondo come Spirito) che esso ha per davvero la forza di combattere il male del mondo (specie attraverso la trasfigurazione dell’essere che è alla piena portata della propria natura) e quindi di fare come se non fosse mai esistito. Per questo è solo richiesto che l’uomo pronunci quel fatidico ”sì” grazie al quale il Dio Vivo (fino ad allora inattivo per scrupoloso rispetto della libertà umana) finalmente gli offrirà il Suo possente appoggio, manifestandogli così in modo davvero tangibile (sebbene comunque misterioso) la Sua presenza. Del resto proprio questo è il nucleo di una delle più profonde e provocatorie riflessioni sul male che Berdjaev deduce da Dostoevskij − «L’esistenza di Dio è certa proprio perché nel mondo esiste il male» [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, IV p. 67-81]. Il che significa che Dio ha da sempre tollerato il male nel mondo semplicemente perché aveva affidato già all’uomo (in quanto umano-divino e peraltro totalmente libero) il compito di eradicarlo. Pertanto, per risolvere una tale questione non vi era bisogno affatto di alcuna logica, ma invece bisognava solo guardare alla Rivelazione divina con il desiderio autentico di comprenderla.
Ma per questo, come dice Berdjaev, bisogna superare tutto quell’armamentario filosofico-gnoseologico (che egli vede culminare soprattutto nel neo-kantismo) grazie al quale, così come la conoscenza dell’essere è stata resa del tutto inaccessibile all’uomo (fino a considerarlo del tutto inesistente), così anche Dio è stato definitivamente dichiarato un Trascendente irraggiungibile ed anch’esso in forte odore di totale inesistenza [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 153-156]. E senz’altro va vista qui un’altra delle radici filosofiche dell’attuale ricerca scientifico-filosofica (così scettica, dubbiosa e puntigliosamente critica). La verità è invece un’altra ed è semplicissima – Dio è insieme trascendente ed immanente. E non caso per Berdjaev questa consapevolezza è stata del tutto alla portata della mistica e non della teologia.
Il che significa allora che, così come la filosofia ben intesa, anche la mistica rappresenta un potente antidoto all’ultra moderna ricerca scientifico-religiosa. Non a caso in nessun ambito come quello della mistica l’esperienza religiosa viene colta e vissuta nella sua autenticità e integralità, ossia come intima relazione personale con Dio. Eppure udremo Gamberini affermare il valore della mistica in senso diametralmente opposto a quello di un’esperienza religiosa intesa come intima relazione con Dio. Essa ha infatti per lui un valore proprio in quanto è radicale alternativa alla concezione antropomorfica di Dio, e quindi afferma un Dio non realmente presente ma solo ineffabile ed apofatico.
Quanto poi al decisivo concetto di creazione divina (cioè il più grande campo di battaglia entro la ricerca scientifico-religiosa), Berdjaev sottolinea che esso è stato sempre insufficiente proprio in quanto non è stato inteso come un’antropogonia ma invece come una cosmogonia, e quindi non ha mai previsto la creazione di un creatore [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-1775]. Questo significa che Dio invoca letteralmente la nascita divina nell’uomo prima ancora, forse, di pensare alla genesi dell’essere. Dunque tutta la problematicità della creazione di quest’ultimo svanisce di fatto a fronte di una prospettiva completamente diversa. E questa è stata poi la stessa rilettura eckhartiana della creazione come sostanziale nascita divina nell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Vedremo comunque nelle conclusioni come ciò introduca un elemento davvero dirimente entro la polemica post-teista contro l’antropomorfismo.
Ma tutte queste problematicità sono di non poco conto; visto che, come dice il pensatore russo esse sono strettamente connesse ad un razionalismo che è stato sempre connesso al concetto di creazione, lasciando così sospettare addirittura che gli eventi del Genesi compresi nella Rivelazione non siano poi così autentici come si può spontaneamente pensare. Naturalmente comunque il sospetto va rivolto non contro la Rivelazione davvero originaria, ossia quella esoterica, ma invece contro quella che era stata riletta dalla più antica metafisica razionalista (allo scopo di correggere le aporie delle remote teogonie), la quale evidentemente già era diventata unicamente essoterica. Queste problematiche sono infatti strettamente legate ad una creazione di tipo “creaturale” che a sua volta aveva sempre comportato (già entro la metafisica platonica e aristotelica) l’aporia di un essere «già stato», ossia preesistente, nel quale l’uomo fosse destinato a venire accolto. Ma, come si può vedere, entro la visione di Berdjaev la creazione dell’essere non sembra essere affatto necessariamente primaria. E questo genera una prospettiva entro la quale la Trascendenza divina perde molta della sua necessità, dato che di fatto sembra invece che Dio letteralmente accompagni personalmente l’uomo nel corso di tutti gli eventi creativi. Ecco allora che l’antropogonia finisce per manifestare l’Incarnazione già molto prima del Nuovo Testamento. E questo rende vane molte speculazioni critiche sulla creazione divina. Non solo quelle relative all’esistenza o meno di una Materia eterna antecedente o coeva alla creazione, ma anche quelle circa l’eventuale creazione del male da parte di Dio.
In ogni caso Berdjaev sottolinea che caratteristica tipica della creazione (a differenza dell’emanazione che è invece impersonale e involontaria) è l’attività volontaria che fa di essa qualcosa di tipicamente personale, specie nel senso della totale autonomia. E quest’ultima nega chiaramente un Dio Trascendente affermando invece un Dio personale che è necessariamente immanente, ossia presente nel mondo.
Qui però egli fa una precisamente decisamente anti-teistica, dato che per lui il Dio Trascendente ha le caratteristiche tipiche del classico Dio del teismo, cioè un Dio per definizione separato dal mondo. La sua soluzione a questo problema sta nel dinamismo creativo che è essenzialmente energia creativa incessantemente riversantesi nel mondo. Ma questo è per lui null’altro che la dottrina trinitaria (presa però così com’è senza alcuna correzione), ossia dinamismo della vita divina che è creazione nel mentre è amore tra le Persone divine. Ecco quindi che, almeno in via di principio, il concetto di Trinità non dovrebbe costituire alcuna problematicità logica. Anzi tutt’altro.
Tanto più che con ciò sta in relazione la creatività umana in quanto continuazione della creazione divina. Ma in tal modo si ripresenta nuovamente la sagoma davvero decisiva dell’umano-divinità, dato che quest’uomo condividente la creazione divina non può essere in alcun modo una creatura finita da Dio nel momento della sua messa al mondo. Esso invece è per definizione un ente creato come non finito, e, proprio come tale, è chiamato a completare il proprio essere attraverso la propria creatività. Esso allora è Signore dell’essere in quanto, a causa di tutto quanto finora illustrato, Dio stesso gli ha ceduto questo status per mezzo di una kenosis che è stata estremamente precoce. Ecco che si nuovo l’Incarnazione si presenta già nel bel mezzo del Genesi; dimostrando peraltro così che essa non è affatto “epistemicamente inappropriata” come sembra alla ricerca scientifico-religiosa. Anzi tale presenza dimostra proprio che gli eventi biblici vanno letti esotericamente e non essotericamente – e quindi in questo senso in modo non letterale.
Del resto Berdjaev afferma che in assenza della postulazione di tutto questo non vi è nemmeno un vero Cristianesimo. E questo nuovamente sgombera il campo da una grande serie di questioni sulle quali la ricerca scientifico-religiosa si appoggia nelle sue argomentazioni.
Ma in tutto ciò l’evidenza così forte della kenosis creativa (per di più in quanto unita intimamente all’Incarnazione) sottolinea l’importanza decisiva del Cristo in quanto Dio-Uomo ed anche Dio-Persona, ossia di quel Dio Vivo che non può in alcun modo venire posto in discussione da alcun anti-teismo o post-teismo. La Sua presenza comporta infatti la relazione con Dio, che a sua volta secondo Berdjaev è possibile solo da uomo a uomo, ossia solo se anche Dio è un uomo. in questo consiste l’esperienza religiosa nella sua pienezza. Essa, dice il pensatore russo, consiste nel fatto che “l’uomo inizia così una vita caratterizzata da un rapporto interiore, reciproco e profondo con Dio; inizia una sua partecipazione cosciente alla natura divina”. Ecco che per davvero, senza il Cristo, è impossibile relazionarsi con Dio, perché Egli altrimenti è lontano e spaventoso. E solo se fosse davvero così allora la discussione sul post-teismo avrebbe un senso. Ma non è così in quanto il Cristianesimo crede in Cristo e non nel Dio biblico.
Ecco allora che l’intera argomentazione scientifico-religioso si rivela del tutto superflua proprio perché essa esautora totalmente la pienezza dell’esperienza religiosa. È insomma una pur e vuota retorica che nemmeno sfiora la dimensione religiosa.
A tutto ciò si aggiungono ulteriori considerazioni di Berdjaev che illuminano una serie di aspetti di davvero fondamentale importanza e che certamente costituiscono altrettante problematicità nel contesto della ricerca scientifico-religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VI p. 190-196]. Si tratta del tema della libertà umana connessa con i fenomeni del Peccato e della Caduta. La tesi del pensatore russo è estremamente originale e proprio per questo estremamente illuminante. Egli sostiene infatti che la libertà di Adamo era negativa per definizione in quanto divisa tra obbedienza assoluta ed arbitrio assoluto. E proprio questo ha giustificato infine in pieno la Caduta. Infatti quest’ultima aveva un già predestinato significato positivo (quello destinato alla creatività) in quanto solo dopo di essa sarebbe potuta insorgere la libertà positiva e cioè quella autentica. Il che avvenne esattamente attraverso l’esperienza critica della conoscenza del bene e del male. La libertà positiva, però, divenne possibile solo in quanto essa andò di pari passo con la piena genesi dell’Uomo-Dio, e quindi il vero primo Uomo, ossia Uomo assoluto e Cristo. E questo fu dunque il vero progenitore dell’uomo in quanto umano-divino. Questo genere di libertà viene comunque definita da Berdjaev come “materiale” diversamente da quella antecedente che era invece meramente “formale” e quindi vuota. Ecco che allora la prima presuppone un punto di vista immanentista, mentre la seconda presuppone un punto di vista trascendentista.
In tal modo si ricostituisce quindi la dimensione teistica nella forma specifica di una libertà intesa in termini radicalmente negativi mentre invece essa non lo è affatto. E questo configura in Berdjaev di nuovo un certo argomento anti-teistico, ma nello stesso tempo lo svuota di significato mostrando nell’umano-divinità la dimensione della stessa creatività umana. In tale prospettiva non vi è infatti in alcun modo un Dio Trascendente lontano dall’uomo e dal mondo.

Ecco, questo è quanto possiamo desumere dalla trattazione della dimensione religiosa svolta da Berdjaev. E, come abbiamo potuto vedere, vi sono per davvero in essa dei significativi antidoti a tutto quello che vedremo esaminando l’attuale ricerca scientifico-religiosa. Quindi, grazie a Berdjaev, in qualche modo già disponiamo delle risposte alle questioni che ora vedremo poste dalla ricerca scientifici-religiosa. Tuttavia nelle conclusioni tireremo definitivamente le somme su questo confronto.

II- La ricerca scientifico-religiosa ed analitico-cognitiva: panenteismo, teismo, anti-teismo e ateismo.
Gli articoli che esamineremo qui sono estremamente eterogenei e comunque prenderemo in considerazione solo alcuni tra gli aspetti in essi trattati. Non nascondiamo comunque che essi contengono un genere di argomentazioni alle quali è davvero difficile attribuire un valore per chi condivide gli argomenti di Berdjaev, e quindi si sente autenticamente cristiano come lui stesso si sentiva. Tuttavia il loro esame è indispensabile per potere arrivare ad una conclusione cieca la questione che stiamo discutendo.
E la questione è, per la precisione se sia legittimo o meno spendere tanto tempo e versare tanti fiumi di inchiostro in una serie di argomentazioni che appaiono essere già superate in partenza nel loro valore e ruolo nonostante l’impressionante apparato logico messo in piedi per sostenerle.
Nel complesso di queste argomentazioni daremo comunque la preferenza alle tesi più prossime al post-teismo, dato che sarebbe impossibile trattare invece tutte le infinite questioni sfornate a ciclo continuo nella moderna letteratura scientifico-religiosa. E comunque tratteremo di tutte le posizioni implicate in questo contesto, incluse quelle francamente teiste. In generale comunque, anche di fronte alle tesi più ortodossamente teiste, si è portati a chiedersi a che serva tutto questo dibattito autoriale visto che tutto ciò che è contenuto in esso già esiste e viene perfettamente illustrato entro la Rivelazione ed in essa riceve anche estremamente convincenti risposte (sebbene solo contro-razionali e contemplative). E l’unica spiegazione è come al solito che la Modernità non sopporta l’anonimato intellettuale, e quindi desidera con tutte le sue forze porre dei protagonisti di pensiero laddove non ve ne sarebbe invece alcun bisogno.
Infatti constateremo con stupore il fenomeno davvero paradossale e ridicolo (oltre che inspiegabile) del proliferare di una vera sconfinata foresta di teorie con i relativi autori (ognuno con la sua personale “soluzione” ad annosi problemi religiosi) – inclusi perfino studiosi apertamente teisti – che sembra volersi sovrapporre (se non sostituire) bramosamente alle verità già presenti nella Rivelazione (ed in essa anche già perfettamente illustrate e risolte), ma che alla fine fa la misera figura di un’incrostazione parassitica che si accumula sul corpo della più pura e limpida verità. E mai come qui ricorre l’immagine platonica di Glauco marino [Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999, X, XI, 611d p. 685-687].

II-1. Panenteismo e panteismo.
Inizieremo però con il cosiddetto “panenteismo” [Benedikt Paul Göcke, Alles in Gott, Friedrich Pustet, Regensburg 2012; Patrick Hutchings, “Postlude: Panentheism”, Sophia, 49, 2010, 297-300; R.T. Mullins, “The Difficulty with Demarcating Panentheism”, Sophia, 55, 2016, 325-346; Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47], formula neo-teologica molto simile a quella del post-teismo e anzi spesso collegata a quest’ultima nelle argomentazioni e nei dibattiti. E faremo questo perché il concetto di panenteismo rappresenta il campo di un’ottima serie di esempi per comprendere le caratteristiche del dibattito scientifico-religioso.
Non a caso quello di panenteismo è un concetto che a prima vista seduce il metafisico di stampo tradizionale in quanto possibile soluzione alla condanna unilaterale e dogmatica del panteismo che sempre è stata pronunciata in ambito cristiano. Ma poi alla fine si rivela essere invece un’artificiosa argomentazione logica molto simile alle altre. Prima di entrare nel merito però bisogna dire che Göcke si riferisce ad un panenteismo già molto datato storico-filosoficamente, ossia quello di Karl Christian Friedrich Krause, che operò all’inizio del XIX secolo come filosofo post-kantiano. Ora anche in lui il panenteismo afferma di fatto il fatidico “tutto in Dio” (“Alles in Gott”), che a sua volta ha una quantità immensa di significati (risalendo addirittura fino al monismo plotiniano dell’Uno e al non-dualismo śankariano). Secondo una visione metafisica del tutto intuitiva (e quindi di per sé estremamente lineare, ossia semplice) esso implica comunque che Dio impregna tutte le cose presentandosi come essenza profonda e nucleare di esse, e pertanto rende il mondo integralmente divino. Si tratta in definitiva di quello Spiritualismo pneumatico (profondamente in comune tra metafisica occidentale ed orientale) del quale abbiamo parlato nel nostro già citato articolo (vedi “Edith Stein e lo Spiritualismo”). E bisogna dire che questo rende il panteismo una dottrina del tutto plausibile (ed affatto eretica) dal punto di vista metafisico-religioso; dato che (qualora esso sia bene inteso) non si tratta affatto né di immanentismo, né di politeismo né di una divinità impersonale identica alla Natura come quella di Spinoza. Si tratta invece semmai di quanto afferma anche Berdjaev, e cioè del fatto che Dio è trascendente ma anche immanente. E fin qui tutto bene. Dato anche che siamo del tutto fuori di sofisticate speculazioni logiche. Ma intanto si da il caso che Krause (commentato Göcke) non aveva affatto parlato di panenteismo in questo senso. Egli infatti (fedele alle idee dominanti dell’Idealismo tedesco in pieno corso) intendeva con ciò non l’omni-costituzione divina delle cose mondane, ma invece la loro omni-intelligibilità, ovvero la loro omni-esplicazione da parte di un Dio che era presente nel mondo non ontologicamente ma solo gnoseologicamente, ossia come il più sommo dei Principi di conoscenza.
Qualcosa di simile veniva affermato in quel periodo anche entro lo Spiritualismo di Maine de Biran [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, 17-19 p. 40-42, 61-67 p. 65-73, 83-90 p. 82-88].
Tuttavia neanche così ci troviamo entro il classico campo delle minuziose e contorte argomentazioni iper-logiche dell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Ci troviamo invece soltanto entro l’impiego sostanzialmente gnoseologico della metafisica che è stato sempre tipico della filosofia idealista o tendenzialmente idealista, e che non a caso ritroviamo anche in Cartesio e Leibniz. Si tratta insomma del famoso «razionalismo metafisico». Abbiamo già visto che esso è senz’altro una delle radici dell’attuale ricerca scientifico-religiosa, ma comunque non coincide affatto con essa.
Ma Göcke rincara la dose leggendo il pensiero di Krause nel contesto dei principi di una gnoseologia ancora più moderna, ossia quella che si sviluppò nel corso del XX secolo con la Fenomenologia di Husserl ed il neo-kantismo. Egli dice insomma che Dio è l’Assoluto capace di chiudere il regressum ad infinitum generato dalla postulazione di diversi livelli di Io trascendentale quale termine ultimo della conoscenza veridica, ed inoltre rappresenta anche il culmine del rapporto auto-conoscitivo che l’Io intrattiene con sé stesso sempre allo scopo di ritrovare in sé la verità. La differenza tra l’Io divino e i vari livelli più immanenti dell’Io stesso consiste intanto nel fatto che nel suo caso l’atto di relazione (auto-conoscitiva) dell’Io con sé stesso non comporta alcun conflitto tra totalità e singolarità dell’identità (che sempre si costituisce come termine dell’atto di relazione con sé stesso). E quindi in definitiva il “tutto in Dio” (“Alles in Gott”) ha un estremo significato gnoseologico, anzi più precisamente logico – esso significa che Dio null’altro è se non Dio (“außer Gott nichts ist”). Insomma Dio rappresenta la forma più incondizionata possibile dell’«è» predicativo, e quindi la massima espressione del principio logico di non-contraddizione applicato specificamente all’identità. Il che fa di Lui l’Io trascendentale per eccellenza, e quindi il vero principio ultimo della conoscenza.
In tal modo Egli è anche l’essenza dell’essenza (ossia la suprema categoria stessa di essenza). Ecco dunque definitivamente decifrato, secondo Göcke, l’insieme di proposizioni implicate dal panenteismo, e tutte sottolineanti il fatto che «Dio è in tutto» nel mentre intanto (senza alcuna contraddizione logica) «tutto è in Dio». Proposizioni che poi di fatto si riuniscono già di per sé nel «mondo in Dio» − «Dio-è-in-tutto», «tutto-è-in-Dio» e «tutto-è-Dio». Insomma Dio è tutto (e dunque allo stesso modo tutto è Dio) sostanzialmente perché Egli non ha bisogno di essere sottomesso ad alcuna forma immanente (ovvero non assoluta) di totalità (“tutto”) identitaria. E ciò a causa del fatto che è già di per sé “tutto”, e lo è così tanto da non ricadere in tal modo nemmeno in alcuna categoria di singolarità (che non sia assoluta, ma invece solo immanente). La conseguenza di ciò rientra per il pensatore nel pieno del classico tema dibattuto nell’Idealismo tedesco secondo l’aspirazione di rileggere gnoseologicamente la metafisica, ossia quel tema della relazione tra Ragione e Natura sul quale aveva riflettuto a fondo anche Schelling [Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ideen zur einer Philosophie der Natur, Holzinger, Berlin 2016]. Insomma per Göcke si tratta della fusione di quelli che per la Scienza sono due poli opposti tra loro (specie nei termini di quella Scienza della Natura della quale Schelling si occupò), ossia “Natura” e “Ragione” (“Vernunft”) – il primo polo (Natura) costituisce la “totalità” (“Ganzheit”) per eccellenza, mentre il secondo (Ragione) rappresenta invece la “seità” singolare (“Selbheit”) per eccellenza. Laddove questo secondo termine è in effetti l’Io conoscente in quanto soggetto e non oggetto. Ed è chiaro che qui sono rappresentati i due termini fondamentali della conoscenza. A Göcke non sfugge che in tal modo ricorrono anche i termini del non-dualismo śankariano, ma egli intanto non intende in alcun modo soffermarsi su questo significato intensamente metafisico-religioso del panenteismo. Per cui alla fine la sua intera argomentazione finisce per sostenere che il nucleo del panenteismo − cioè il concetto di «mondo in Dio» − ha l’unico significato di porre in Dio tutto quanto può essere conoscibile e conosciuto. E ciò secondo gli auspici più fervidi della Scienza. In altre parole nella realtà di Dio si realizza la forma più felice e piena di conciliazione conoscitiva tra Natura (oggetto) e Ragione (soggetto). E questo è tutto!
Ora va notato che Göcke è sostanzialmente un teologo e docente di storia delle religioni. E quindi ciò che egli argomenta sulla base di Krause sottolinea il significato sostanzialmente scientifico del panenteismo, ma intanto egli non sembra avere alcuna intenzione di dissociarlo dalla consistenza e veridicità dell’idea di Dio. Per cui la sua lettura del panenteismo resta entro i tradizionali limiti di quella visione idealistica che volle essere teologia nel mentre perseguiva l’obiettivo di riflettere sulle caratteristiche della scienza, affermandone anche fortemente il valore.
Con ciò non siamo quindi ancora affatto nel contesto della ricerca scientifico-religiosa. Anzi ci troviamo anche ancora nel pieno della Filosofia. Ma vediamo ora cosa accade provando a discutere le letture del panenteismo da parte di Hutchings e Mullins.
Hutching sembra a prima vista argomentare anche lui sostanzialmente come un filosofo, ma poi inserisce nel suo discorso anche elementi di tipo scientifico-religioso (simili a quello già commentato dello Spirito divino come energia cosmica) ed inoltre giunge alla fine a conclusioni critiche che sono decisamente anti-filosofiche. In ogni caso egli sembra avere due sostanziali intenzioni: − 1) quella di sottolineare le incongruenze logiche del panenteismo; 2) quella di correggerlo in senso ancora più riduzionistico di quanto accada entro la lettura di Göcke. E la sua critica si appunta in particolare su quella dimensione dell’”in” che domina l’intera argomentazione panenteistica – ossia quella relativa sia alla presenza di Dio nel mondo sia alla presenza del mondo in Dio.
Su questa base va notato che egli innanzitutto critica molto severamente il concetto di ubiquità affermato nel panenteismo (“God is Everywhere”) sottolineando che in esso il concetto del ”dove” (“where”) non viene affatto chiarito. Ed è evidente che in questo modo egli trascura totalmente una località concepita in termini integralmente metafisico-religiosi, e quindi al di fuori di qualunque spazialità mondano-sensibile. Oltre a ciò egli contesta che il panenteismo non fa affatto (come invece dovrebbe) una constatazione aggiuntiva rispetto a quella dell’ubiquitarietà di Dio, e precisamente nel senso del “ma” (“all is God, but we are all in God”). Esso insomma pretende di presentare come assimilazione (tra proposizioni) quella che invece, sul piano logico, resta appena una sostituzione – nel senso che o «tutto è in Dio», oppure invece «Dio è in tutto», e senza alcuna possibilità di risolvere tale contraddizione logica. Oltre a ciò il panenteismo pretende addirittura di rende le due proposizioni consequenziali (“’we are in God’ whatever this ‘in’ may mean”). In altre parole egli contesta radicalmente il concetto di «contenimento» intra-divino del mondo che il panenteismo vorrebbe rendere simultaneo al concetto di impregnazione divina del mondo stesso.
E quindi accusa in panentesimo di affermare e negare allo stesso tempo. Insomma lo demolisce logicamente nella forma in cui di fatto si presenta. E così – com’è tipico entro tali argomentazioni su concetti metafisici – inizia a pensare di doverlo correggere.
Per cui egli propone di eliminare il primo significato per lasciare in piedi solo il secondo. Ed in questo caso l’”in” andrebbe secondo lui inteso unicamente come la vitalità animica di tutte le cose in forza della presenza divina nel mondo. Ed ecco l’emergere del concetto di Spirito divino come energia cosmica vivificante affermata da Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571]. Ma soprattutto egli contesta al panenteismo degli errori logici che secondo lui sono tipicamente alla volontà di cercare nella Filosofia la soluzione a problemi che riguardano invece in definitiva la sola Natura (anche quando vengono intesi in senso religioso). Ed è evidente che dietro questa accusa alla Filosofia vi è l’accusa ai resti di metafisica che ancora nel XX secolo si facevano sentire in essa. Egli ne conclude quindi che, dato ormai il sussistere di una cosmologia scientifica assolutamente vincolante, bisognerebbe smettere una buona volta di cercare soluzioni alle questioni ontologiche ricorrendo a libri come il Genesi ed il Timeo.
E con ciò egli assume quindi alla fine la classica posizione scientifico-religiosa.
Ma vediamo cosa dice al proposito invece Mullins. Egli sostiene più o meno la stessa tesi critica di Hutching (vaghezza ed illogicità dottrinaria, infondatezza della sua differenziazione tra teismo e panteismo, assente giustificazione dell’aspirazione a mediare tra teismo e panteismo ecc.), ma comunque rincara la dose perché accusa direttamente la stessa teologia. Egli dice infatti che il panenteismo ricade in quelle artificiose soluzioni che oggi i teologi ricercano per offrire all’uomo moderno un’immagine di Dio ancora “più teologicamente adeguata”. E nel caso specifico sarebbe quella di una divinità intesa come “relazionale e dinamica”. Ed eccoci quindi all’interpretazione della Trinità secondo la moderna “ontologia relazionale” che ci viene proposta da Paolini Paoletti, così come anche alle linee guida del post-teismo che poi vedremo esposto da Gamberini. Possiamo insomma qui constatare quanto vero sia che il post-teismo si è presentato come uno sforzo di rispondere a tutte queste obiezioni senza però mai abbandonare il terreno dell’approccio scientifico.
Insomma, sebbene questa non sia affatto la sua intenzione, quella di Mullins è un critica molto pesante a quella ricerca scientifico-religiosa che vede come protagonisti proprio i moderni teologi (specie post-teisti), angosciati come sono dall’imbarazzo che essi provano verso l’immagine di Dio proposta nella Rivelazione in quanto in lampante conflitto con la moderna scienza (e specialmente l’ormai così sofisticata se non para-teologica fisica cosmologica). In ogni caso egli prende atto del fatto che vi è anche un panenteismo decisamente anti-teistico, e che quindi esso si pone decisamente fuori della moderna teologia scientifica.
In ogni caso Mullins legge il panteismo come la postulazione di una sostanza unica divino-mondana (e che quindi chiaramente parla di un Dio impersonale); e quindi lo ritiene una visione decisamente non teistica.
In ogni caso lo studioso si fa comunque sostenitore di una sorta di teismo post-teistico, dato che secondo lui gli oggettivi ed eterni attributi di Dio (concepiti entro la tradizione teologico-metafisica) devono ormai venire posti decisamente in discussione. In ogni caso egli attribuisce al panenteismo il valore e ruolo di ponte tra panteismo (secondo lui indubitabilmente anti-teistico) e il teismo. E questo potrebbe avere anche molto senso perché in fondo il panteismo nella sua versione panenteista rappresenta l’immanenza di Dio, mentre il teismo rappresenta la sua trascendenza. E sappiamo ormai bene che queste due dimensioni divine sono in verità simultanee. Ciò è però sostenibile unicamente sul piano autenticamente metafisico-religioso, e quindi contro-razionale e contemplativo. Non certo invece su un piano rigorosamente logico. Ma è esattamente quest’ultimo quello che interessa a Mullins (così come ad Hutchins). Per cui alla fine egli condanna senza appello il panenteismo affermando che la più lampante contraddizione di questa visione consiste nel fatto che essa pretende di porre sullo stesso piano (assimilandole e rendendole perfino conseguenti logicamente), due affermazioni che costituiscono invece degli inconciliabili opposti logici: –
Dio non è identico al mondo, e quindi è “più” del mondo / Dio non è distinto dal mondo, e quindi è esteso quanto il mondo. A ciò si aggiunge poi che ci si aspetta che il mondo sia “in” Dio anche se Dio è “più” (maggiore) del mondo. Ecco insomma che di nuovo l’”in” diviene l’autentico perno intorno al quale effettivamente gira l’intera visione panenteista. Proprio su questa base egli critica sistematicamente le idee di diversi pensatori panenteisti moderni (Oord, Clayton, Winters, Barua, Lataster, Peacocke ecc.).

A questo punto vale però la pena di prendere in considerazione anche il discorso condotto sul panenteismo da parte di un autore indù e cioè Purushottama Bilimoria. Questo articolo è di estrema importanza perché esso riporta la visione panenteista alle sue fortissime implicazioni metafisico-religiose, e cioè il non-dualismo śankariano ed il connesso idealismo di stampo vedantico-upanishadico. Ma più in particolare egli intende discutere il tentativo di Radhakrishnan di ricondurre le Upanishad all’idealismo occidentale.
Radhakrishnan sostenne infatti che l’Uno (non finito / non infinito) ha tutte le caratteristiche per partecipare del mondo (come le ha lo stesso Io assoluto hegeliano). E questo per lui sarebbe platonico (nel senso specifico dell’Uno-Molti) in quanto affermazione però del valore e non disvalore del cosmo. Sarebbe insomma l’affermazione che il mondo è pieno di senso. Ma ancora più in particolare egli finisce per sostenere che all’Assoluto divino spettano entrambi gli attributi dell’“essere” (“being”) e del “divenire” (“becoming”), e quindi quelli dell’”immanenza” e della “trascendenza”. Pertanto (in forza di questo legame all’essere) egli ritiene di avere evidenziato la “non impersonalità” dell’Assoluto divino delle Scritture indù. Cosa che poi implica per lui il “panenteismo”.
Il che ci conferma quindi che questa visione è tutt’altro che l’affermazione dell’impersonalità del Dio trascendente; cosa che non era però affatto emersa nella riflessione occidentale su di essa. Bilimoria precisa quindi che proprio su questa base si sviluppò il progetto di Radhakrishnan di “salvare le apparenze” compromesse da una lettura non filosofica dei testi sacri. E così egli finisce per avvalorare l’ipotesi che i “veggenti” (”seers”) delle Upanishad (ossia coloro che più hanno incarnato l’intuizione visionaria che permette di penetrare intellettualmente al metafisico le verità della Rivelazione) abbiano concepito un mondo e soprattutto un mondo “pieno di senso” (“meaningful”). In altre parole il Vedanta upanishadico non avrebbe affatto svalutato il mondo.
Su questa base Radhakrishnan sostiene infine che il Brahman è un Assoluto per varie vie compromesso con l’essere – come suprema origine di ogni cosa, come Bene-Verità della cose (al modo di Platone), come effettivo motore immobile del cosmo (per quanto trascendente). E tutto ciò si basa secondo lui sui supposti paralleli tra le Scritture indiane e Platone, così con l’intera cultura greca specie ateniese.

Ecco. Appare evidente che solo in questo modo noi ci approssimiamo al pieno significato e valore che può avere il panenteismo. Ciò può accadere insomma solo quando il relativo concetto non viene sottoposto alla devastante dissezione analitico-logica che la moderna ricerca scientifico-religiosa occidentale gli ha inflitto. E questo è esattamente ciò che non accade in Bilimoria, il quale non a caso si limita ad argomentare in maniera unicamente filosofico-metafisica e metafisico-religiosa, e senza fare uso di alcuna rigorosa logica né di alcun approccio sicentifico. Ecco che a questo punto il panenteismo può davvero soddisfare il pensatore tradizionalmente metafisico-religioso, dato che esso si lascia intendere come una moderna rilettura dello Spiritualismo pneumatico. Ma naturalmente, messe così le cose, il panenteismo cessa definitivamente di essere assimilabile al post-teismo.

II-2. Teismo, anti-teismo e ateismo.
Uno degli studiosi che oggi più si è impegnato a sostenere il post-teismo è senz’altro l’italiano Paolo Gamberini. Tuttavia, prima di giungere a discutere il suo articolo, prenderemo prima in considerazione altri temi ed autori, anche se essi a volte non si producono in affermazioni ed argomentazioni direttamente post-teiste (e cioè semplicemente anti-teiste) ma invece in affermazioni ed argomentazioni avverse al concetto tradizionale di Dio e per varie vie, come quella della negazione di un Dio-Persona [Drew Chastain, “Gifts without givers: secular spirituality and metaphorical cognition”, Sophia, 56 (4) 2017, 631-647; Justin J. Daeley, “The necessity of the best possible world, divine thankworthiness, and Grace”, Sophia, 58 (3) 2019, 423-435; N. N. Trakakis, “Philosophy and religious commitment”, Sophia 56 (4) 2017, 605-630; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 310-335; John W. M. Krummel, “Kenotic chorology as A/theology in Nishida and beyond”, Sophia, 58 (2) 2019, 255-282; Giancarlo Vianello, “Mistique du néant et śūnyāta selon la perspective de l’École de Kyōto”, Théologiques, 20 (1-2) 2012, 297-312; Robert Larmer, “Doubting thomists and Intelligent Design”, Sophia, 58 (3) 2019, 349-358; Johann Platzer, “Does a truly ultimate God need to exist?”, Sophia, 58 (3), 2019, 359-380; Joshua Cockayne, Jack Warmann, The will not to believe, Sophia, 58 (3) 2019, 511-523; Enzo Solari, “Heideggerius gnosticus? El sentido del recurso heideggeriano a la divinidad”, Teología y Vida, XLIX, 2018, 315-338]. Insomma vogliamo in tal modo premettere al post-teismo la trattazione di teismo, anti-teismo ed ateismo così come si presentano nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. E quindi in questo modo potremo vedere qual è il percorso di pensiero che ha portato al post-teismo come necessità di risposta ai così abbondanti argomenti anti-teisti che nel tempo sono stati apportati nella scienza della Religione.
Chastain menziona una buona fetta di letteratura anti-teista a proposito del tradizionale concetto della vita come dono divino. Concetto che recentemente è stato riaffermato da teista Solomon (The psychology of gratitude) nel sottolineare la necessità della gratitudine umana verso un Dio personale. L’esatto contrario accade invece nella fede areligiosa che viene qui sostenuta, entro la quale la gratitudine per la vita sussiste egualmente ma senza alcun riferimento ad un benefattore personale. Ma la critica al concetto integralmente religioso di gratitudine per il dono della vita è anche un’altra, e cioè è l’accusa di insostenibile astrattezza rivolta ad essa. Specie sulla base dello scritto “Philosophy of flesh” (Lakoff e Johnson, 1999), viene infatti sostenuto che non si può parlare in astratto di ciò che invece è intensamente concreto. Ed estremamente concreti sono sia il dono che la stessa gratitudine.
Quindi non si può attribuire a Dio un concetto letterale di dono, senza con ciò cadere in un grave errore logico, e quindi in una falsità. In particolare si impiega qui una metafora corporea a proposito di un atto divino. Ma non vi è solo questo, perché anche lo stesso concetto di «dono della vita» è del tutto improprio, dato che il dono è per definizione utile, e quindi deve produrre qualcosa di tangibile, ossia la felicità. Non può quindi essere un dono quello che pone l’uomo in una posizione esistenziale entro la quale nella maggioranza dei casi vi è l’esatto contrario della felicità.
Ecco insomma un anti-teismo che si presenta nella forma di denuncia della retorica mistificatoria impiegata tradizionalmente nel conferire a Dio attributi rientranti nell’idea umana della bontà. Da questa critica non può scaturire pertanto altro che a Dio questo carattere va negato nel contesto della necessaria negazione ad esso della stessa realtà personale. Dato che quest’ultima sarebbe in realtà solo umana e mondana, ossia integralmente materiale e carnale. Ne risulta quindi che l’anti-teismo qui in causa si oppone frontalmente ai contenuti della Rivelazione, ossia li nega letteralmente. E questo delinea una particolare area di ricerca della attuale scienza della Religione dato che Chastain è un’esponente di quel pensiero che definisce sé stesso come “spiritualità” non religiosa, quindi di fatto una sorta di religiosità atea. Eccoci insomma nel campo di un anti-teismo che è anche espressamente ateo. Non a caso lo studioso colloca le sue riflessioni nel concetto di “postsecular age” coniato da Habermas. Siamo insomma così nel pieno della paradossale religiosità atea post-moderna.
Una tesi relativa allo stesso tema è poi quella di Dealey, il quale si interroga sulla gratitudine verso Dio rispetto alla questione del migliore dei mondi possibili e quindi anche della Grazia. In quanto teista, la presa di posizione di Dealey è però diametralmente opposta a quella di Chastain in quanto essa ci mostra come l’impiego di corrette argomentazioni teologiche spazzi via come del tutto superfluo l’intero campo delle argomentazioni logico-teologiche; tra le quali le davvero assurde riflessioni moderne (in gran parte peraltro nemmeno religiose) sui molteplici mondi possibili. Peraltro egli si schiera anche decisamente da parte della presa di posizione dell’uomo comune, ossia il semplice credente e uomo di fede. Dealey parte dalla principale obiezione anti-teistica dei filosofi analitici sulla base dell’argomento dei “mondi possibili” − “Se Dio ha creato il migliore dei mondi possibili a partire da una necessità interna presa da sola, allora Dio non può essere considerato degno di gratitudine per il fatto di aver creato il migliore dei mondi possibili”. Insomma – sempre sulla base di un’inflessibile logica rigorosa – essi pongono in questione il fatto che ci sarebbe una mancanza di “consistenza” tra la gratitudine e l’idea che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Soprattutto a causa del fatto che questo atto divino era assolutamente necessario.
Ma egli ritiene che entro la Rivelazione vi siano sufficienti argomenti per rintuzzare questa obiezione specie sulla base di una Grazia che appartiene totalmente ed incondizionatamente all’azione divina in quanto puro “atto grazioso”. In particolare egli difende qui un “teismo dell’essere perfetto” sostanzialmente sulla base del primario argomento del rispetto divino della libertà umana (che abbiamo visto sostenuto anche da Berdjaev). Più precisamente si tratta del fatto che vi è una perfetta compatibilità tra la necessità dell’azione divina e la dimensione della libertà. E questo (secondo l’attuale piuttosto ridicola moda filosofica di generare “neo-ismi” a ciclo continuo) costituirebbe il cosiddetto “compatibilismo”. Questa teoria consiste semplicemente nel fatto che è perfettamente è compatibile compiere un atto necessario senza contraddire la libertà.
Una volta poste queste premesse più astrattamente teoriche, le argomentazioni successive di Dealey sono così condivisibili nella loro ovvietà (almeno per il credente anche solo poco edotto nel contenuto delle Scritture ed inoltre nella consuetudine diretta con Dio) che la loro discussione potrebbe anche venire omessa. Eppure siamo costretti a discuterle a causa di quel velenoso spirito critico (che vive e vegeta nell’approccio filosofico-analitico alla religione) che tende ad insinuare dubbi anche laddove essi non sono assolutamente giustificati.
In ogni caso l’autore chiarisce che l’invocazione del compatibilismo serve soprattutto ad evitare quell’”accusa” che sostiene l’impossibilità di conciliare la perfetta “bontà” (“goodness”) divina – a sua volta determinante necessariamente Dio a creare − con la sua libertà. Ed egli si rifà particolarmente in questo alle riflessioni di Wierenga [Wierenga E, “The freedom of God”, Faith and Philosophy, 19, 2002, 425-436; Wierenga E., “Perfect goodness and divine freedom”, Philosophical Books, 48, 2007, 207-216].
Insomma la cosa è estremamente semplice – dei buoni desideri (non inquinati dalla brama e dall’irresistibile spinta istintiva, come accade nel consumo di droghe o nella dipendenza patologica dal potere) non possono che generare un’azione buona, cioè invariabilmente rivolta al Bene. Ed a questo punto il fatto che essa sia necessaria (come avviene nell’azione creativa di Dio) non cambia assolutamente nulla nella bontà dell’atto. In altre parole, una volta sottomessa all’etica, la necessità dell’azione divina è per definizione compatibile con la libertà. Si tratta insomma in definitiva di dover compiere necessariamente delle azioni libere rivolte al bene. E ci sembra che ciò trovi del resto una perfetta rispondenza nella teologia di Dostoevskij commentata da Berdjaev – la libertà è un valore supremo ed inviolabile, eppure essa è all’altezza di questo suo valore assoluto solo se è rivolta al bene; altrimenti si trasforma addirittura nel suo opposto (la schiavitù) per mezzo dell’arbitrio che prende fatalmente il suo posto nell’azione rivolta al male
[Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57, III p. 62-66, IV p. 75-81].
In altre parole la logica dei filosofi analitici (nonostante tutta la sua supponenza) – secondo la quale Dio non può cercare altro che il migliore dei mondi possibili, e quindi non è affatto libero bè buono nel suo agire − non ha il benché minimo potere su questa complessiva questione. E peraltro non ha alcun potere su di essa in base a considerazioni che qualunque uomo della strada (ammesso solo che sia credente) potrebbe fare. Eppure lo stesso Dealey cita importanti studiosi che hanno puntato tutto su questa teoria critica ed anti-teista − Adams (ne suo commento dei Salmi), Laura Garcia, William Rowe.
Ma comunque (per restare comunque sul piano filosofico) lo studioso sostiene che l’inconsistenza non sussiste affatto se si punta l’attenzione sull’atto divino stesso, e cioè sulla sua natura di atto invariabilmente “grazioso”. Il che è poi la stessa identica cosa che sostenere che un desiderio buono può produrre solo un’azione rivolta al Bene. Per il resto (ed anche questo è assolutamente ovvio per l’uomo comune credente) la Grazia divina non ha alcuna relazione con il “merito” del recipiente dell’azione graziosa divina. Altrimenti non sarebbe ciò che è. La Grazia dipende solo quindi dalla qualità (amorosa) della disposizione divina all’azione e da assolutamente niente altro. E qui Dealey chiama in causa le riflessioni di Feinberg [Feinberg J., No one like Him: the doctrine of God, Cossway Books, Wheaton 2001].
Quindi l’invocazione dell’umana gratitudine finisce per essere quindi un mero pretesto (e non poco volgare) che la logica filosofica-analitica (screditando così non poco sé stessa) ha escogitato con il del tutto scoperto intento di infamare Dio. E questo getta sull’intera ricerca scientifico-filosofica un’ombra davvero infamante.
Per questo Dealey chiama in causa le Scritture stesse – Genesi, 6:8 8 (Noè che ha trovato grazia…), Salmo 145:8, Esodo 34:6, Pietro, 5:10 (la Grazia ci associa alla Gloria di Cristo).
Ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo, dato che il nucleo della questione è semplicemente la totale gratuità dell’amore divino, il quale per definizione non può in alcun modo essere utilitaristico e quindi non può aspettarsi alcun effetto. Meno che mai la gratitudine umana.
Una volta chiarito questo non c’è bisogno di dire di più delle argomentazioni di Dealey che si approfondiscono poi in ulteriori aspetti della faccenda ed anche su ulteriori prese di posizione di studiosi.
Qualcosa di ancora più estremo in senso critico si ritrova poi in Trakakis, il quale inizia contestando alla Religione il diritto di controllare totalmente la fede. E qui peraltro egli avvalora la dissociazione totale della Filosofia dalla Religione che è stata sostenuta da pensatori come Heidegger e Bertrand Russell. Insomma siamo in un campo di riflessione diametralmente opposto a quello delineato da Berdjaev.
Il tema qui, comunque, è ancora più scottante perché è quello del male. In tale contesto lo studioso non intende nemmeno prendere posizione nella sconfinata querelle che secondo lui si è scatenata nel tempo tra teisti ed anti-teisti. E così prende atto del proclama di Plantinga (1980) nel quale si chiedeva ai pensatori cristiani di argomentare unicamente in circoli cristiani evitando qualunque confronto con pensatori agnostici e atei. In altre parole per lui la filosofia religiosa (che sia credente o atea) è comunque inaccettabilmente ideologica, e quindi da essa non vi è da aspettarsi assolutamente nulla. Ed ovviamente, se questo è il giudizio sul pensiero cristiano, figuriamoci quale può essere quello sulla Rivelazione.
Un panorama un po’ più ampio ci viene offerto da Breul. Egli però appare rappresentare perfettamente l’attuale ricerca scientifico-religiosa propria dei teologi che si sforzano di affermare l’idea di Dio senza ricorrere al teismo. Ci troviamo così di fronte ad una posizione intermedia tra teismo ed anti-teismo (o ateismo), e cioè di fronte ad una sorta di non-teismo dell’idea di Dio. Una posizione questa assolutamente emblematica, dato che essa esprimere l’inspiegabile imbarazzo oggi provato dai teologi specie davanti ad un Dio personale. Ed ovviamente, a questo punto, la visione di Berdjaev si presenta al proposito come un’alternativa davvero tangibile. Questo non-teismo appare comunque essere già molto prossimo al post-teismo.
Breul presenta comunque un vasto scenario di autori in cui possiamo farci un’idea molto precisa delle diverse tendenze attualmente all’opera, ed anche, comunque, della vera e propria astrusità paradossale di alcune prese di posizione. C’è Schnädelbach che sostiene apertamente l’assenza di Dio senza che ciò abolisca per lui la necessità di una Religione – postulando così una religiosità del tutto naturale dell’uomo la quale non richiederebbe né il supporto di alcuna Istituzione né tanto meno una Persona divina nella quale credere. Inoltre proprio in tale contesto egli sostiene la necessità che la fede (“faith”) sia essenzialmente “fiducia” (“fides”), e non invece “credenza” (“belief”); e quindi sia spogliata di qualunque natura cognitiva. Ma intanto la fiducia presuppone molto esplicitamente il dubbio, per cui la fede convive naturalmente con quest’ultimo. La sua posizione definisce comunque sé stessa come “ateismo pio” e quindi assomiglia molto alla spiritualità non religiosa di Chastain. Davvero però non è possibile capire in cosa consista una religione che sussiste in assenza di Dio. In ogni caso (come abbiamo detto) nel caso di Schnädelbach ci sembra che così siamo già piuttosto prossimi al post-teismo.
C’è poi Dworkin, il quale addirittura sostiene l’inconciliabilità della Religione con Dio, ossia con l’idea di Dio; ma precisamente con l’idea più esplicitamente teistica di Dio, ossia quella di un Dio personale che poi impregna di sé perfino il mondo senza perdere la propria identità e trascendenza. Così egli (alla Spinoza) sostiene di fatto un mondo divino assolutamente impersonale, nel senso di buono, bello e pieno di senso anche in assenza di un Dio personale. È evidente qui l’opposizione nettissima alla Rivelazione nel pensare un mondo divino.
La posizione di Nagel (Thomas Nagel, “Geist und Kosmos”) è chiaramente teistica sebbene egli sostenga di fatto il classico “intelligent design” della tradizione tomista-aristotelica in assenza però di qualunque azione volontario-personale, e quindi come universo pieno di senso in quanto chiaramente diretto da un Piano verso un preciso scopo (che si manifesta pienamente nell’intelligenza della Natura). In questo egli si oppone peraltro molto nettamente al concetto scientifico di caso. A ciò anch’egli aggiunge che la fede comporta il dubbio perché essa non è affatto fede nella verità bensì in una persona. Non si vede però dove sia la persona nella sua complessiva visione di un mondo impregnato dal divino in maniera del tutto impersonale. Una traccia di comprensione di questa curiosa assenza si può però ritrovare laddove egli critica apertamente il teismo in quanto tentativo di presentarsi come spiegazione scientifica del mondo. Infatti la Religione teistica include per lui ineluttabilmente la metafisica dell’essere, e quest’ultima non è affatto una spiegazione del mondo. Infatti l’ordine mondano può essere presupposto anche in totale assenza dell’esistenza di Dio. E la scienza basta quindi pienamente per darne ragione. Ecco allora che per lui la questione di Dio è puramente e pienamente etica, così come anche il Piano intelligente e la fede in esso.
A questo punto possiamo quindi solo pensare che per Nagel la fede in una Persona divina si limiti ad un campo estremamente ristretto ed anche riduttivo della dimensione religiosa, e cioè quello appunto etico (che può ben costituire una sorta di ipo-religione). Ora, è ovvio che la fede nella Persona divina non può comportare anche una letterale cosmologia di stampo religioso (come quella dell’antica onto-metafisica), ma comunque deve poter andare oltre il piano dell’etica comportando almeno la presenza di un essere, e cioè la dimensione ontologica (ossia ciò che soggiace a qualunque cosmologia). E questo è esattamente ciò che avviene in Berdjaev, secondo il quale la Persona divina equivale esattamente all’essere nella sua più radicale concezione. Ma di questo non vi è alcuna traccia in Nagel, e quindi di nuovo ci troviamo di fronte ad un riduzionismo. Nella sua visione infatti sembrano venire addirittura affermate le ragioni di un certo teismo (sebbene fortemente razionalizzato), ma intanto anch’esso appare comunque fortemente dissociato ad un’ontologia autentica e forte della Persona divina. E quindi di fatto esso si pone come una specie di post-teismo, sebbene senz’altro non corrisponda ad una posizione non-teistica.
Krummel discute poi una neo-metafisica nichilistico-buddhistica oggi molto in voga, e cioè quella di Nishida, la quale ha peraltro addirittura l’intenzione di appaiare la teologia buddhistica con quella cristiana per mezzo del concetto di kenosis divina. E qui ci troviamo di fronte ad una presa di posizione tra le più astruse nella sua straordinaria tensione alla complessizzazione estrema di concetti teo-metafisici ed anche semplicemente onto-metafisici. E vedremo infatti che i suoi risultati vanno ben oltre tutti i termini che finora abbiamo preso in considerazione – teismo, anti-teismo (o ateismo), non-teismo, post-teismo.
In via di principio egli dichiara di credere in un Dio totalmente “nascosto” in quanto allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma comunque del tutto invisibile quando è immanente. In quest’ultima posizione esso corrisponde al mondo divino e precisamente a quello che lo shintoismo ritiene abitato dalle “deità” per eccellenza, ossia quegli spiriti divini che vengono definiti “kami”. E qui ci troviamo comunque di fronte ad un deciso post-teismo in quanto affermazione della deità in luogo della Persona divina. E Nishida infatti afferma che il teismo non è altro che una distorsione linguistica dell’idea di Dio in quanto illegittimamente del tutto dominata dalla dimensione abusiva dell’”is”, ossia dell’”è”. E qui egli chiama in causa direttamente Eckhart come protagonista di questa critica al teismo. Ma egli va anche oltre questo nel postulare come sostanza fondamentale un Nulla entro il quale l’essere si limita ad apparire e scomparire continuamente, in modo tale che il non-essere stesso vi ha pieno diritto di domicilio. E questo Nulla equivale quindi per lui anche a Dio stesso. Con ciò però viene comunque postulata una presenza. Motivo per cui anche in caso di negazione di Dio (anti-teismo) la sua presenza non può venire davvero negata. Ecco allora che Nishida ritiene non validi sia il teismo che l’anti-teismo. Per tale motivo, come dice Krummel, nel suo caso si delinea una “teologia atea” o meglio una “A/teologia” (secondo la definizione di Taylor) e quindi di fatto una teologia senza Dio. Qui insomma siamo messi molto peggio che con Schnädelbach e Dworkin, dato che la teologia stessa nega l’esistenza di Dio senza nemmeno dove essere anti-teistica o ateistica o infine anche post-teistica. In questo genere di teologia insomma Dio viene identificato con il Nulla stesso.
E quindi è evidente che esso è più che mai un’entità purissimamente metafisica, della quale non si può nemmeno pensare che mai possa divenire oggetto di fede da parte dell’uomo. Questo Dio insomma non è altro che l’essere nella sua più radicale formulazione. Ma non in quanto infinitamente creatore come quello di Berdjaev, bensì invece come il Nulla stesso. E qui davvero quindi ci troviamo in un campo in cui all’uomo non viene lasciata altra scelta che la totale disperazione. A molto poco serve quindi che Nishida si sforzi di postulare in questo contesto quella kenosis divina che poi in Bedjaev abbiamo visto molto prossima al Dio-Persona. Anche questa kenosis sarà infatti nichilistica e molto puramente metafisica. E quindi non potrà servire ad alcuna vera fede. Per cui non perderemo nemmeno tempo a descriverne i dettagli estremamente complessi.
A questo ateismo teologico di Nishida merita di venire appaiato anche quello di Ueda Shizuteru e precisamente la visione della Scuola di Kyoto (ateismo teologico definito qui come “mistica del nulla”) − che si incentra anch’esso nella ricerca di assonanze tra il Buddhismo e il presunto tendenziale post-teismo di Eckhart basato sul concetto di “deità” (“Gottheit”) −, che viene discusso da Vianello. Ma preferiamo rinunciare a questa discussione per non prolungare troppo la nostra esposizione. Anche perché l’articolo in questione sconfina in un campo in fondo lontano dalla disputa tra teismo ed anti-teismo.
Larmer (che è sostanzialmente un teista) addirittura riconosce l’anti-teismo nel pieno della dottrina neo-tomista più scettica che oggi esista. Ed egli fa nomi e cognomi: − Francis Beckwith, William Carroll, Edward Feser, Marie George, Ernan McMullin, Michael Tkacz. Il che è estremamente interessante perché ci mostra in questi studiosi i prototipi stessi dei moderni teologi che, nell’essere anti-teisti, si affidano totalmente non solo alla logica ma anche alla scienza empirica in tutta la sua attuale vigenza. Ed è significativo che essi vengano definiti come “scettici”. Questi neo-tomisti rigettano infatti il teismo in quanto negano in Tommaso una dottrina dell’”intelligent design” (ID) intrinseco alla Natura, dato che al loro avviso l’Aquinate presupponeva la totale dipendenze dall’esistenza primaria di Dio del potere in possesso degli esistenti.
Il che contraddice in modo lampante la dottrina dell’evoluzione, e quindi la spiegazione scientifica della creazione di essere. In luogo di quest’ultima infatti Tommaso avrebbe lasciato vigere unicamente la spiegazione “metafisica” della creazione e dell’essere. A ciò si aggiunge inoltre il solito impiego implacabile della logica da parte di questi così singolari anti-teisti, e cioè il rimprovero a Tommaso di avvalorare il “Dio dei vuoti” (“God of gaps”), ossia il Dio che avalla i vuoti nella spiegazione delle cose. Ma oltre ciò i neo-tomisti scettici sollevano forti obiezioni alla postulazione dello stesso intervento diretto di Dio nel mondo da parte di Tommaso. Con la conseguenza, secondo loro molto grave, della confusione tra Dio come Causa primaria e Dio come causa secondaria. Essi ammettono infatti Dio come Causa primaria, ma unicamente sul piano teologico. E quindi ritengono un errore epistemologico considerarlo tale anche fuori dell’ambito teologico. Perché così di fatto si passa dalla teologia alla cosmologia naturalista. E su questo non c’è molto fa obiettare. Ma intanto l’obiezione di Larmer va menzionata perché è molto acuta ed inoltre molto utile ai nostri scopi. Infatti egli dice che colui che in generale ha fede nell’intervento diretto di Dio nel mondo è anche molto più aperto alla dottrina dell’ID. E tuttavia essi sono aperti alla versione integrale di questa dottrina e non a quella unilateralmente scientista e scientifico-empirica, per cui vedono l’azione di Dio anche dietro all’intrinseca intelligenza della Natura. Di conseguenza essi sono convintamente teisti.
Ma cosa può significare questo per i nostri scopi? Può significare che, sebbene l’intervento di Dio nel mondo sia da intendere ovviamente in modo primariamente etico – come nel contesto di quella fede nell’«aiuto divino» che non si illude affatto circa la necessità di accettare la prova dolorosa anche nel contesto della più intensa prossimità divina −, ciò si presta molto bene a travalicare questo ambito (che potrebbe anche essere solo vuotamente retorico-teologico e pietistico) verso l’ambito della piena fede nella presenza reale della Persona divina.
E questo di nuovo ci riporta alla complessiva teoria filosofico-religiosa di Berdjaev. Dato che evidentemente il teismo può avere tutti i difetti logici che si vuole, ma perlomeno preserva quella fede nel Dio-Persona in assenza della quale davvero non sapremmo dire più cosa significa concretamente essere religiosi e soprattutto cristiani.
Una volta posto in evidenza questo, il resto delle argomentazioni pro-teiste di Larmer può essere anche trascurato, dato che esso non concerne direttamente i nostri scopi. Va solo ricordato che egli ci informa che il genere di anti-teismo da lui contestato (che afferma il non intervento di Dio nel mondo) affonda le propre radici addirittura nel XVIII secolo, e quindi nell’empirismo e nell’Illuminismo. Il che conferma quanto già abbiamo visto, e cioè che la complessiva teoria del post-teismo ha le sue radici abbastanza lontano nel tempo entro la storia della filosofia e della teologia.
Platzer va poi direttamente (e perfino brutalmente) al dunque chiedendosi se per davvero si può pensare che esista un Dio. E questo la dice del resto molto lunga sullo spirito che domina nell’attuale ricerca scientifico-religiosa. Essa infatti nutre dei dubbi davvero così radicali da obbligarci a chiederci se per davvero essa si collochi ancora nell’ambito religioso. Per la verità egli pone la questione molto più sul piano metafisico che non su quello teologico, ed inoltre si produce in un’argomentazione che è in realtà alla fine pro-teistica. Si chiede infatti se il presupporre un livello ontologico costituito da entità oggettuali altamente metafisiche non contraddica l’esistenza di Dio. E la sua risposta è decisamente sì. E per di più egli riconosce in questo una vera e propria grave “aporia” filosofica. Evidentemente perché l’astratto viene considerato più reale dell’esistente. Egli ripropone insomma l’antica querelle tra metafisica cristiana e pagano-platonica circa la possibilità di concepire somme entità onto-ideali che addirittura sarebbero ad un livello più alto di quello sul quale esiste Dio. Ma intanto si pone in particolare il problema della postulazione di somme entità metafisiche soprattutto in quanto supremamente “vere”. Ed è inoltre molto significativo che egli proponga come soluzione all’aporia la dottrina cartesiana ed ancor più quella neo-cartesiana. Il che significa che egli non ha la minima intenzione di argomentare su un piano autenticamente metafisico-religioso. E tuttavia restiamo non poco sorpresi nel constatare che egli intende però procedere comunque sul piano teologico. Egli infatti sostiene che la postulazione cartesiana di somme entità in quanto verità divine di fatto supporta un teismo puramente epistemologico (cioè gnoseologico) in quanto invece quello basato sull’esistenza di Dio (che fa di Dio un’oggettualità trascendente) comporta insuperabili aporie. In altre parole la dottrina teistica di Platzer rientra di fatto in quella gnoseologia filosofica che abbiamo avuto presente in tutto questo scritto (oltre che in altri), e che abbiamo visto severamente criticata da Berdjaev.
Ma le cose si aggravano ulteriormente quando lo studioso dichiara di volersi rifare al “neocartesianismo” e non invece a Cartesio in persona. A quest’ultimo infatti egli rimprovera severamente l’idea (secondo lui solo “bizzarra”) secondo la quale le verità divine presenti nella mente umana sarebbero state letteralmente “create” da Dio; laddove invece (secondo il neocartesianismo) esse sono appena il prodotto della volontà divina. E ciò comporta una visione relativa della necessità invece che assoluta, la quale pone di nuovo in evidenza l’epistemologia contro l’ontologia. In altre parole non è assolutamente vero che “ogni realtà è fondata in Dio” in termini ontologici (cioè secondo una “necessità metafisica” e quindi assoluta), ma è semmai vero invece che tutte le realtà vengono spiegate in Dio. E per sostenere questo egli menziona l’Eutifrone di Platone nel quale si dimostra che le cose non hanno valore in sé ma solo perché Dio le ama. Non ci sembra però necessario soffermarci su questo, se non per il fatto che questa presa di posizione platonica rafforza il teismo nel sottolineare la primarietà di Dio rispetto a qualunque cosa, include le cose di valore in quanto sommamente vere.
In ogni caso va detto che egli non si sogna nemmeno di negare che per Platone il “vero” sta al di sopra di tutto, e cioè al di sopra di Dio stesso. Esso rappresenta pertanto una necessità gnoseologica e non ontologica. Per cui, pur posta la primarietà di Dio (rispetto alle cose di valore in quanto da lui amate) quale esistenza, resta comunque la Sua sottomissione al “vero” in quanto autentica necessità assoluta. Il problema a questo punto è per lui solo quello di sottrarre alle somme entità (corrispondenti al “vero”) la natura di effettive oggettualità. Cosa per lui possibile considerandole così delle entità appena “modali”, ossia puramente ideali. E qui egli afferma il teismo nel difenderlo dalle aporie che insorgono quando si sostiene che Dio avrebbe creato le verità stesse invece si essere Egli stesso sottomesso ad esse. Si tratta insomma dell’affermazione della sottomissione di Dio alle supreme leggi della logica. E questo è ancora una volta un ben strano teismo, dato che limita fortemente la realtà di Dio e quindi anche la sua potenza, prestandosi così molto poco a fondare una fede entro la quale da Dio ci si aspetta tutto, anche ciò che è del tutto contrario alla logica stessa. E questo ancora una volta è quel Dio del «tutto è possibile» che si presenta soltanto nello Spiritualismo pneumatico (vedi articolo “Edith Stein e lo Spiritualismo”).
Detto questo non si sembra opportuno prolungarci ulteriormente nella discussione dell’articolo di Platzer se non per il fatto che egli assolve il teismo di Cartesio in quanto esso è in gran parte epistemologico (cioè gnoseologistico), mentre invece condanna quello di Leibniz che sarebbe invece intensivamente ontologico. Esso sostiene infatti che secondo il pensatore tedesco Dio è l’ente fondamentale nel quale è fondato tutto ciò che Lui non è, ossia le mere oggettualità mondane ed immanenti. Leibniz insomma afferma la necessità di Dio in termini ontologici e non gnoseologici. Tuttavia anche queste così sofisticate considerazioni metafisiche non si prestano affatto a fondare un’autentica fede.
Per cui, con Platzer, noi possiamo constatare l’esistenza di un teismo puramente metafisico che, a fronte delle necessità religiose del teismo stesso (equivalenti alla necessità si porre un Dio-Persona), appare in verità del tutto superfluo. In altre parole non mette affatto conto difendere questo genere di visione religiosa. Che peraltro intende obbedire più che mai alla logica ed inoltre alla più esigente e rigorosa epistemologia. Non a caso l’autore non nasconde che Cartesio gli sembra estremamente importante per contrastare ed anche correggere il teismo più “mainstream” ossia quello più letterale e forse (almeno dal suo punto di vista) anche ingenuo e volgare.
Di nuovo estremamente esplicita e diretta è la tesi di Cockayne, il quale intende addirittura difendere il pieno diritto all’ateismo, ossia all’anti-teismo (cioè l’inviolabile “diritto a non credere”). Non senza però difendere anche le ragioni del teismo ed inoltre non senza dichiarare del tutto inappropriato l’ateismo puramente epistemologico del quel finora abbiamo visto tanti esempi. La sua conclusione è che è giustificato in definitiva solo un ateismo morbido (cioè né dogmatico né aggressivo) il quale si basa semplicemente sulla constatazione che non vi sono elementi decisivi a favore o a sfavore della fede. Naturalmente questa presa di posizione svaluta la natura più autentica della fede che (sia per non teisti come Schnädelbach e Nagel) implica necessariamente il dubbio, e quindi è sempre rischio, e pertanto decisione. Ma questo per il momento non importa. Infine va sottolineato che Cockayne smantella letteralmente forti argomenti anti-teistici come quello del famosissimo Quine.
In definitiva comunque l’autore intende sostenere una tesi esattamente simile alla tesi dello psicologo della religione Henry James (“The will to believe”) secondo la quale la fede si giustifica unicamente su un piano volontario ed ancor più passionale, con il conseguente delinearsi di una vera e propria «volontà di fede». Cockayne (che durante la sua intera esposizione segue passo passo la falsariga delle tesi di James) sulla stessa identica base sostiene la piena legittimità di una volontà esattamente contraria. E ciò si basa peraltro sulla radicale discrepanza tra “fede“ e “credenza” che appunto James aveva sostenuto. Egli sostenne infatti che una credenza non ha affatto la forza di giustificare un’autentica “verità” (“truth”) oggettiva (“truth that p”). Dunque la fede manca naturalmente di “evidenza”, così come anche la stessa esistenza di Dio manca di evidenza. Ma intanto una vera credenza esige inflessibilmente proprio l’evidenza. La fede è pertanto semplicemente una fede priva di evidenza.
Su questa base Cockayne sostiene quindi che teismo ed ateismo hanno lo stesso identico diritto ad esistere. Motivo per cui può e soprattutto deve venire concepito [Rowe W. L., “The problem of evil and some varieties of atheism”, Am. Philosophical Quarterly, 16 (4) 1979, 335-341] un’”ateismo amichevole” (“friendly atheism”).
Posto questo sembra proprio che l’intera (densissima e complessissima) querelle tra teismo ed anti-teismo non abbia in verità alcuna giustificazione. Ma il suo sussistere appare allora unicamente il frutto dell’intervento velleitario e ideologico (quindi del tutto arbitrario) nel contesto della Religione da parte di un anti-teismo logicamente giustificato. Ma quest’ultimo non è altro che il puro prodotto di quella ricerca scientifico-religiosa la quale a sua volta in fondo non è altro che il figlio degenere (e anch’esso del tutto arbitrario) della filosofia analitica applicata alla Religione, ossia delle idee di Bertrand Russell. Idee che vengono presentate come oggettive necessità conoscitive ma invece sono solo pretese, e peraltro puramente ideologiche. In altre parole (nonostante la pompa con la quale lo si sostiene ed impone) l’anti-teismo non ha alcuna vera ragione di essere e quindi avrebbe anche potuto non esserci affatto. Dunque non è affatto vero che esso sarebbe inevitabile a causa del patrimonio di conoscenze apportate dalla Scienza all’umanità. Infatti la verità è semplicemente che si ha il pieno diritto di essere credenti o atei unicamente in forza di una volontà passionale che con l’epistemologia, con la gnoseologia e con la logica non ha assolutamente nulla a che fare. E tale volontà passionale si traduce in fede unicamente in relazione alla scelta arbitraria, e quindi alla coraggiosa decisione, di affrontare a viso aperto il rischio tremendo della fede.
Vale qui insomma, oggi come allora, ciò che aveva già perfettamente compreso Pascal, come vedremo alla fine. E del resto Pascal viene invocato anche dallo stesso James nel guardare alla fede esattamente in questo modo. Sta di fatto è che la razionalità (e quindi anche logica e gnoseologia) appare essere quanto fonda la fede nel modo più debole possibile, con la conseguenza che solo la volontà riesce invece a fondarla in modo forte. Ma quindi ciò vale anche per la decisione a non credere e quindi per l’ateismo. Anch’esso è una specie di fede e come tale è una scelta forte. Diversamente stanno le cose per l’agnosticismo che invece è un restare sospesi tra due decisioni. Per Bishop si tratta in questo caso di un di “ateismo pratico” [Bishop J., Believing by faith: an essay in epistemology and ethics of religious belief, Clarendon University Press, Oxford 2007]. Intanto la dimensione razionale della fede (e quindi la sua dimensione epistemologica e cognitiva) corrisponde per James ad un “prendere per vero”, mentre invece la dimensione volontaria della fede, la vera decisione, corrisponde ad un “accettare per vero”. Ed esattamente lo stesso vale anche per l’ateismo. In altre parole, come dice Bishop, si tratta del credere in qualcosa per fede – fatto che ci mostra un’altra volta la grande differenza esistente tra credenza e fede. La credenza è infatti per davvero un fatto cognitivo, e quindi relativo integralmente al vero, alla verità di qualcosa. Pertanto la fede non è mai diretta (immediata) relazione con la verità, ma semmai relazione appena mediata con essa. Proprio per questo essa può sussistere solo in relazione con una Persona, nel senso pieno dell’«io credo in te!».
E precisamente essa è mediata da una volontà che, per essere davvero forte, non può essere altro che amore. Ed è ovvio che l’amore può stare solo in relazione con una persona, ossia la Persona divina.
Dall’altro lato – ci fa osservare Cockayne – vi è un ateismo fondato nell’affermazione tutta cognitiva che l’inesistenza di Dio possa effettivamente essere vera – come sostenuto da Adams e Robson (2016).
E precisamente essa si basa sull’evidenza di un universo “inospitale”. La conseguenza affermazione è la seguente: − «Dio non esiste e basta!». Questa affermazione si ritiene basata su un’evidenza, e quindi pretende di fondare un ateismo è che “vero” esattamente quanto sarebbe “vera” l’inesistenza di Dio.
Sta di fatto però che quella invocata non affatto un’evidenza della non esistenza di Dio, in quanto è semplicemente un’evidenza indiretta. E quindi l’ateismo che ne risulta non può essere vero. Ecco insomma di nuovo un ateismo affatto fondato sulla volontà. Ma in verità – come riportato da Clifford (1999) − James ci fa osservare che la preoccupazione epistemologica (quella verità) è in verità appena il paravento di uno “scetticismo” sostanzialmente pavido, nel senso che esso si sottrae al rischio della fede e quindi non perviene mai ad una vera volontà di non credere.
Tutto questo riduce di molto l’importanza dell’accusa rivolta sia alla fede (o teismo) che all’ateismo in nome della verità, ossia in quanto “errori” logici. Ed infatti a tale proposito all’opinione appena citata di James si aggiunge quella di Nagel [Nagel T., The last world, Oxford University Press, Oxford 1997]. Egli ritiene infatti che la fede in Dio sia sostanzialmente e primariamente speranza. E ad essa non oppone assolutamente nulla, dato che per definizione la speranza può essere solo speranza nell’esistenza di Dio, e non invece speranza nella sua inesistenza oppure speranza nell’esistenza di un ente spirituale opposto a Dio, ossia il Demonio. Su questa base quindi l’ateismo cessa di essere giustificato anche se è volontà e decisione. Ecco che, come dice Nagel, l’ateismo è assurdo in sé, e non invece in quanto opposizione alla fede (teismo) in quanto presunto errore. Dall’altro lato quindi – in forza della sua natura di legittima speranza − lo stesso teismo non ha alcun bisogno di difendersi dall’ateismo o anti-teismo, sia in quanto espresse volontà sua in quanto presuntamente veri.
Posto questo noi aggiungeremmo che quindi, se la fede è speranza, essa deve necessariamente postulare l’intervento di Dio nelle circostanze esistenziali, cioè un concreto «aiuto divino». Altrimenti questa speranza si trasforma in mera menzogna retorica.
Ma vi è un’ulteriore osservazione di Nagel che completa la sua analisi dell’ateismo. Egli dice infatti che ne esiste uno che addirittura ammette l’esistenza di Dio (esercitando così la sua volontà in senso opposto a quello del classico ateismo) ma intanto ne desidererebbe la non esistenza in quanto lo accusa del male del mondo. Si tratta secondo lui di un ateismo su basi morali che senz’altro è molto più forte e giustificato di quello fondato epistemologicamente. Ma qui diremmo che ci troviamo nell’ambito di un ateismo decisamente di tipo gnostico.
Infine Cockayne menziona l’argomento ateistico di Quine. Laddove bisogna dire che questo filosofo (anche lui fortemente incline allo scientismo) è stato ed è un autentico protagonista del pensiero moderno di tipo analitico. Quindi la sua tesi ha senz’altro una grande rilevanza. Stranemente però si tratta appena di una sorta di poetizzazione della gnoseologia, dato che Quine parla dell’ateismo in nome di una “parsimonia” razionalistica che si oppone legittimanente alla passione, a sua volta caratterizzata dal desiderio di un universo non “deserto”. L’argomento del nostro pensatore sembra quindi basato (come del resto quelli di Russell) si una specie di sdegnosa compassione per coloro che, nel credere in Dio, rinunciano ad una Ragione che non ammette alcun sentimentalismo, ossia una Ragione del tutto gelida. E ci sembra che qui non sia necessario assolutamente alcun commento.
In conclusione Cockayne sottolinea che – a fronte della debolezza dell’ateismo epistemologicamente fondato e della forza oggettiva dell’ateismo eticamente fondato, e sullo sfondo generale poi della forza dello stesso ateismo volontario – bisogna ammettere che la presa di posizione più legittima è in fondo quella “riflessiva”, che è poi comune al teismo ed all’ateismo. Si tratta insomma dell’ammissione della grande difficoltà che c’è tanto nel mantenere la fede che nel rigettarla. Il che sottolinea poi l’assoluta necessità del dubbio entro una fede autentica e ben fondata. Necessità del dubbio nella fede che mette piuttosto facilmente fuori gioco l’ateismo più classico. Posto questo l’autore riconosce che è vero che l’ateismo basato sull’evidenza del male del mondo è tendenzialmente più forte del teismo. Sebbene sottolinea che non mancano oggi le teodicee che mettono fortemente in discussione questa evidenza – come in Rowe e Stump (2010). Queste moderne teodicee vengono quindi ad aggiungersi a quelle tradizionali (di grandissime proporzioni ed integralmente filosofiche oltre che metafisico-religiose) di Agostino e Leibniz.
Ciononostante per l’autore la disponibilità di evidenze concrete per l’ateismo è ben lungi dalla sua oggettiva giustificazione come vero.
In conclusione, quindi, l’ottima e chiarissima esposizione di Cockayne ci offre argomenti in abbondanza non solo per guardare criticamente all’ateismo (riconoscendo in esso le forme forti e le forme deboli, e quindi sottraendoci alla sua attuale presunzione di onnipotenza) ma anche per esautorare (in quanto ateismo non volontario e passionale) tutti i tentativi di annientare il teismo per via epistemologico-gnoseologica.
E questi tentativi rappresentano di fatto in blocco l’intera ricerca scientifico-religiosa. La quale quindi, alla luce delle estremamente lineari e ragionevoli argomentazioni di Cockayne, finisce per presentarsi come un immenso e pesantissimo apparato logico-argomentativo che però serve e vale davvero molto poco.
A causa della rilevanza del pensatore, un ultimo cenno va fatto soltanto al tendenziale ateismo di Heidegger, che viene presentato da Solari nel sostenere che il pensatore tedesco sarebbe stato in effetti uno gnostico. In effetti la problematica discussa dall’autore è di estrema importanza proprio perché essa in effetti concerne molto da vicino il post-teismo come possibile (ma solo presunta) risorsa dell’ultima teologia cristiana. Ed inoltre ci rivela anche che questa presunzione deve avere le sue radici (tra l’altro) proprio in Heidegger. Ebbene, dice Solari, Heidegger si limitò semplicemente a presentare appunto una mera “deità” (ossia un Dio assolutamente non personale) che assume poi il suo senso vero nel contesto della sua fortissima contestazione dell’intera tradizionale onto-teologia cristiana. E lo fece in particolare mostrandoci un dio (“ultimo dio”) presente nella “radura” del bosco dell’essere (“Lichtung”) in maniera in gran parte occulta (quindi totalmente diverso dal Dio di tutte le religioni) e comunque unicamente storico-temporale. Esso garantisce per Heidegger comunque una forma di salvezza (anche se non si capisce assolutamente quale) specie come potente fattore di opposizione alla tecnica. E questo Dio, evidentemente, non vuole essere altro che una semplice “deità”. Esso infatti è appena un “theos”.
Ebbene Solari contesta molto giustificatamente la possibilità che questo possa costituire il punto di partenza per una nuova teologia cristiana, ed inoltre per una rivivificazione del Cristianesimo stesso per mezzo di essa. Ed è evidente che con ciò si tratta di nient’altro se non della moderna teologia post-teistica. Ciò per l’autore è impossibile proprio perché intanto Heidegger − nell’espressa volontà di distruggere la metafisica e con essa l’intera onto-teologia cristiana [Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers. Meiner Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127 ; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194] – aveva voluto assumere una posizione evidentemente agnostica (massimamente evidente in “Lettera sull’umanesimo” e ”Tempo ed essere”) che alla fine ha una chiara valenza pagana (perfettamente espressa nella postulazione di una “deità”). Dunque nel complesso non ha alcun senso l’operazione (molto diffusa tra i teologi moderni) di trasformare Heidegger in pensatore cristiano, e peraltro uno tra i maggiori. La sua presa di posizione è invece decisamente anti-teistica ed anche in forte odore di post-teismo.
Resta a questo punto solo da accennare alla già citata riflessione da Robinson sul cosiddetto “Debunking argument” in quanto forte contestazione del teismo sulla diretta base della scienza cognitiva. Entro tale argomento si sostiene infatti che la fede in un “agente invisibile” (divino) non sarebbe altro che un indesiderato effetto collaterale del sistema cognitivo nel contesto della sua sana capacità di cogliere la causalità sulla base di solide evidenze naturali (ossia una specie di indesiderato deragliamento del funzionamento normale del sistema cognitivo). È evidente che l’applicazione di un tale argomento demolisce in un solo colpo l’intero teismo considerandolo non solo puramente fantasioso ma addirittura una forma di insania mentale (nel senso di un malfunzionamento del sistema cognitivo). A questo punto (per mezzo del suo “Reply argument”) Robinson risponde che invece è pienamente plausibile l’ipotesi pienamente naturalistico-razionale di un Dio che abbia predisposto l’evoluzione umana in modo da includere nel sistema cognitivo la possibilità di supporre legittimamente un agente invisibile. È evidente però che la stessa replica pro-teistica di Robinson intende muoversi esattamente sul piano della tipica ricerca scientifico-religiosa. E questo ci mostra bene quanto disperata sia oggi la situazione anche del settore di ricerca entro il quale si è intenzionati a difendere a spada tratta il teismo. I protagonisti di tale settore sembrano infatti essersi essi stessi sbarazzati totalmente di riflessioni altamente metafisico-religiose (anche se assolutamente moderne) come quelle di Berdjaev; le quali giustificano pienamente il teismo e peraltro senza assolutamente far ricorso ad alcuna ingenua metafisica naturalistica (come quella della tradizionale cosmologia dogmatica incentrata sulla presenza di Dio per mezzo della creazione).

Per completezza bisognerebbe discutere qui anche l’ormai piuttosto abbondante ricerca neuro-fisiologica che giustifica la fede in Dio almeno in quanto tendenza assolutamente naturale della mente umana (quindi in fondo del tutto indipendentemente dalla realtà effettiva dell’esistenza di Dio). Si tratta insomma di un argomento a favore del teismo, anche se solo molto vago, indiretto ed anche in qualche modo abbastanza pilatesco. Non c’è però lo spazio per trattare di questo, per cui ci limiteremo a citare la letteratura esistente su questo aspetto, incluso anche un nostro articolo [Franco Fabbro, “Il paradigma neuropsicologico nello studio della Bibbia”, RivB, 2015, 63 (1-2) 181-207; Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, Roma 2012; Vincenzo Nuzzo, “L’attuale neuroscienza e la filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Marzo 2018
< http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2349:neuroscienza-e-filosofia-scientifica-i-segni-di-un-rinnovamento-della-conoscenza&catid=82&Itemid=108 >].

III- Il post-teismo (Gamberini)
Ecco. Abbiamo finora illustrato uno scenario di ricerca che comprende diversi punti di vista sia teistici che anti-teistici e francamente ateistici. Tra questi ultimi si sono delineati alcuni tra i maggiori argomenti impiegati per combattere il teismo entro l’attuale ricerca scientifico-religiosa: − la contestazione della Bontà divina (specie per mezzo della messa in discussione dell’obbligata gratitudine umana verso il dono della vita), l’evidenza inoppugnabile del male nel mondo, la logico-razionale giustificazione della sola “deità” in luogo del Dio personale teistico (e ciò perfino attraverso l’affermazione di una valenza ateistica della kenosis divina), la contestazione del concetto di un intelligente Piano divino, l’affermazione di varie precisazioni rispetto alla vera natura di un ateismo perfettamente giustificato. Ed inoltre abbiamo anche accennato (ma parte dedicata al panenteismo) alla messa in discussione scientifico-religiosa (ed anti-teistica) di altri elementi metafisico-religiosi e teologici come ad esempio la realtà trinitaria (Paolini Paoletti).
Abbiamo quindi un quadro abbastanza completo del complessivo anti-teismo; anche se quella da noi presentata non è altro che una miscellanea di ricerche che non può avere assolutamente l’ambizione di rappresentare l’intero dibattito attualmente in corso. Cosa che peraltro sarebbe impossibile a causa dell’estensione davvero sconfinata di un dibattito che peraltro ogni giorno cresce sempre più davvero a dismisura. È evidente quindi che è possibile prenderlo in considerazione solo a campione.
Ma è dunque finalmente arrivato il momento di affrontare direttamente la tesi post-teistica, rappresentata qui da un articolo del gesuita Paolo Gamberini [Paolo Gamberini, “La fede cristiana in prospettiva post-teistica”, Rassegna di Teologia, 59 (2018) 393-417].
In effetti già nell’abstract dell’articolo Gamberini affronta tutte le tematiche che già abbiamo presentato e discusso in questo nostro scritto. Egli sostiene infatti che è divenuto ormai urgente, per la fede cristiana, confrontarsi con la modernità (e soprattutto con la scienza empirica) nell’obbligo di mettere in discussione il “teismo personale” specie nelle forme costituite dall’intervento diretto di Dio nel mondo e dalla sovrannaturalità della natura ed azione divina. Ed egli definisce tutto questo l’introduzione di un “nuovo paradigma” nella fede e dottrina cristiana (affermazione in cui si rifà alla ben nota teoria di Thomas Kuhn delle rivoluzioni scientifiche). L’effetto finale di questa operazione non dovrebbe però essere per lui una negazione del Dio-Persona bensì una sua postulazione non più ontica bensì invece “dinamica e relazionale”. Insomma, almeno a prima vista, non sembra che egli voglia giungere ad abolire del tutto il concetto di Dio-Persona. Infatti più avanti dirà anche che il “teismo classico” (da lui direttamente avversato) non si identifica affatto con il “teismo personale”, e quindi proprio in questo è difettivo. Certo è però che egli intende svuotare non poco il concetto di Dio-Persona e proprio per la via dell’anti-teismo. Non a caso afferma che il Dio-Persona non può venire accettato solo come posto del tutto al di fuori dell’”ordine del creato”. Ed inoltre (menzionando il vescovo episcopaliano John Schelby Spong) egli afferma l’impossibilità di accettare il Dio-Persona come “dotato di attributi sovrannaturali”. Insomma in definitiva egli nega il Dio-Persona anche se dice di accettarlo. E vedremo poi infatti alla fine con quale forza lo nega.
In altre parole lo studioso rimprovera al teismo tutti gli aspetti che invece con Berdjaev abbiamo visto essere rilevanti per la comprensione di Dio in quanto Persona, ossia la sua onticità addirittura carnale (umano-divinità), la sua azione concreta nel mondo (sia per mezzo dell’uomo sia come Spirito) e la sua ricongiunzione di naturale e Sovrannaturale, ossia la sua riunificazione di Terra e Cielo. E se si intende qui impiegare (anche solo alla lontana) Eckhart per gli scopi di un siffatto post-teismo, bisognerà obiettare a ciò che la principale intenzione del pensatore (proprio nel sostenere la dimensione relazionale della presenza di Dio nel mondo) fu quella di riunificare (fino alla totale fusione) la dimensione naturale (Natura) con quella sovrannaturale (Grazia) [Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., I, 1 p. 25-37].
Estremamente significativo ci sembra il fatto che – nel ricorrere a Kuhn per sostenere un obbligato e naturale cambio di paradigma anche nella metafisica e nella teologia oltre che nella scienza (che ovviamente adombra la messa in discussione delle verità intuibili da parte della metafisica entro la Rivelazione in modo del tutto immediato, e quindi indipendente dalla scienza empirica) – Gamberini da un lato si rifà al moderno idealismo filosofico (in quanto anti-realismo che pone in primo piano il soggetto cosciente-conoscente in quanto autentico luogo della verità), ma dall’altro lato si rifà addirittura anche ad una sorta di tradizione apofatica (anch’essa decisamente anti-realistica), in forza della quale la negazione dell’antropomorfismo divino sarebbe non solo del tutto legittima ma anche doverosa. In sua presenza, infatti, secondo lui perdiamo qualunque capacità di comprendere la vera natura di Dio e soprattutto la natura della Sua azione. Peraltro più avanti egli dirà anche quali sono i suoi diretti punti di riferimento filosofico-idealistici, cioè Hegel, Fichte e Schelling.
Ed ecco dunque il suo primo diretto attacco al concetto di Dio-Persona, in quanto realtà che sfugge all’onticità ordinaria esperienziale costituendo invece sostanzialmente sovrannaturale, e quindi del tutto inafferrabile. Per lui infatti l’antica tendenza della metafisica a trasformare Dio e la sua azione nell’essere mondano stesso, ossia l’universo (cosmologia dogmatica) corrisponde esattamente all’attribuzione a Dio (per la via di una visione antropomorfica) di caratteristiche personali che sono sostanzialmente straordinarie, ossia sono caratterizzate dalla perfezione. Conseguentemente proprio questa viene considerata la realtà di Dio di fronte alla quale l’uomo si trova. Ma in tal modo noi ci troviamo di fronte ad un concetto unicamente antropomorfico di Dio-Persona. Infatti la perfezione è un attributo che noi associamo a Dio in base all’esperienza di noi stessi. Ed a questo punto (pur accettando almeno in parte questa sua tesi) dobbiamo ricordare che Berdjaev afferma il concetto di Dio-Persona proprio sulla base di un suo intendimento intensamente antropologico. Egli afferma insomma che l’antropomorfizzazione di Dio non è affatto un ostacolo per la comprensione del Dio-Persona ma è semmai invece una risorsa in tal senso. Il che significa sostenere che l’umano-divinità non è altro che (sic et simpliciter) l’affermazione della perfetta identità (pienamente ontica) tra Dio e uomo. il che comporta poi l’accettazione finalmente incondizionata del concetto di Incarnazione divina. Laddove vedremo che invece Gamberini si adopera fattivamente per la profonda revisione critica di tale concetto.
In tutto questo consiste insomma l’attacco idealistico dello studioso al classico realismo filosofico che era stato sempre dominato dal concetto tomista di “adaequatio rei et intellectus”; che comporta a suo avviso una reificazione di Dio (trasformazione di Dio in “cosa”, “res”, e quindi anche mondo) con la conseguenza di rendere del tutto superflui la presenza e il giudizio del soggetto. Ebbene, ecco che la sua obiezione al teismo si presenta immediatamente nella forma dell’equiparazione di esso con una reificazione di Dio che metterebbe fuori gioco il credente (in quanto soggetto) trasformando in tal modo Dio in una cosa reale. Intanto comunque dobbiamo dire che Dio, anche se inteso come cosa reale, non può essere altro che un’entità che è presente ed agisce nel mondo pur non appartenendo ad esso in alcun modo in forza della Sua natura sovrannaturale. Si tratta insomma di quel Dio insieme trascendente ed immanente che abbiamo visto affermare a Berdjaev, e che poi costituisce la forma più autentica del Dio-Persona.
Gamberini però naturalmente non crede ad una sola parola di quest’ultima dottrina del Dio-Persona. Infatti egli la definisce come “comprensione mitica” di Dio. E nello stesso tempo equipara la dimensione mitica di Dio a quella antropomorfica. Con il deplorevole effetto (secondo lui) che il soggetto non ha più nulla da dire su Dio, dato che in suo luogo si pretende che invece già parli la sola Rivelazione (e precisamente con un linguaggio che non è affatto umano). Cosa per lui assolutamente inaccettabile. Invece per lui proprio il soggetto è fondamentale in un atto religioso che è fondamentale ed assolutamente propedeutico alla fede, ossia la “ricezione della Rivelazione”. Ora poco importa che a tale proposito Gamberini indichi nella mancata ricezione umano-soggettiva della Rivelazione il deplorevole effetto della sua letteralizzazione; con la conseguente credenza ingenua in espressioni come “Dio agisce” e “Dio parla”. Il problema principale della sua visione non è affatto questo (dato che la lettura letterale della Rivelazioone è di per sé più che condannabile). Il problema sta invece nel fatto che − nel trasferire al soggetto il diritto e dovere di parlare in nome della Rivelazione (e quindi letteralmente riscriverla e ri-dettarla) − egli sostiene letteralmente che l’unica accettabile verità è che “Dio si rivela con e attraverso le parole umane”. Ed ecco il già evidente totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, cioè ecco la fondazione della ricerca scientifico-religiosa da parte dello stesso post-teismo. Anche questo è dunque un atto tipico del post-teismo. Ebbene, con “le parole umane” sono da intendere le affermazioni ordinarie e mondane dell’uomo, ossia quelle che compaiono entro l’ordinaria conoscenza, ossia nella Scienza. In tal modo, dunque, la Rivelazione non ha più assolutamente nulla da rivelarci nell’illuminarci laddove invece la nostra Ragione (per sua natura) è e resta totalmente all’oscuro; e quindi non può in alcun modo sorprenderci con le sue trascendenti verità. Ma sta di fatto che ciò è esattamente quanto avviene allorquando nella Rivelazione parla lo stesso Spirito pneumatico, ossia la Sapienza divina. Secondo il post-teismo invece il linguaggio proprio della Rivelazione (ossia il linguaggio di Dio stesso) deve venire di fatto rigettato nella forma in cui si presenta, in quanto esso non è mediato dall’uomo.
In luogo di questo, invece, per Gamberini è l’uomo che fa tutto; e nel caso specifico è l’uomo in funzione di neo-teologo e moderno filosofo decostruzionista. E su questo secondo lui non c’è da discutere. Naturalmente egli si appella in questo a quell’“ermeneutica” che (dopo Heidegger) è ormai omnipresente dovunque oggi si intenda screditare la metafisica e soprattutto la metafisica religiosa. E sostiene infatti che proprio essa (ad opera dei nuovi teologi) ha ormai esautorato totalmente l’uso “letterale” del linguaggio biblico. Il che è poi è falso ed in mala fede, dato che (come poi vedremo) una lettura letterale della Rivelazione non è mai stata giustificata.
Ma possiamo toccare con mano per davvero la gravità devastante di tali convinzioni allorquando lo studioso avvalora totalmente l’ormai totale avversione dei teologi alla “preghiera di richiesta”, che a sua volta poi riposa poi su una deplorevole di nuovo letterale interpretazione dell’Incarnazione divina (in quanto evento presuntamente puntuale, e non invece continuo e quindi storico). E qui egli menziona come protagonisti di tale idea Queiruga e Hick [Andrés Torres Queiruga, Io credo in un Dio fatto così. Risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede, EDB, Bologna 2017; John Hick, The Metaphor of God Incarnate: Christology in a Pluralistic Age, Westminster, John Knox Press, Louisville 1993]. In particolare Hick avrebbe riletto l’Incarnazione divina come non più puntuale (questa sarebbe infatti appena una “metafora”), ma invece “graduale e differenziata rivelazione di Dio all’umanità”.
Insomma è evidente che qui non ci troviamo solo di fronte ad un post-teismo, ma invece anche ad un vero e proprio anti-teismo e perfino ateismo. E peraltro ci chiediamo cosa mai resti ancora di cristiano una volta eliminati del tutto questi atti e concetti, specie in quanto oggetti di fede vissuta; e peraltro anche fede molto coraggiosa nell’Invisibile (in quanto reale presenza divina) nel contesto della tremenda sfida rappresentata dall’esistenza.
Viste queste premesse (cioè soprattutto la totale negazione della dimensione sovrannaturale di Dio che persiste nella sua concreta ed attiva presenza del mondo come Spirito pneumatico), diventano del tutto poco credibili se non ridicole le petizioni di principio che Gamberini fa seguire a queste sue riflessioni preliminari. Egli sostiene infatti che l’assoluta urgenza di eliminare totalmente dalla teologia il Dio Trascendente della tradizionale metafisica religiosa cristiana (quello caratterizzato dall’”aseità”, ossia assoluta libertà nei confronti del creato con una conseguente Sua relazione unicamente “accidentale” con il creato stesso) avrà come conseguenza l’affermazione di una relazione di Dio con il mondo che ha il carattere specifico dell’Amore unito intimamente a sua volta alla Sua totale “libertà creatrice”. Costateremo però più avanti quanto riduttivamente ed astrattamente egli intenda questo primario Amore creativo divino. E tutto ciò corrisponderebbe poi ad un atto di “autodeterminazione” divina nel mondo, ossia di fatto ad una sorta kenosis che però addirittura nasconderebbe Dio nella ordinaria fattualità mondana – rendendolo così invisibile nel senso peggiore del termine e cioè come totalmente non tangibile. Non solo, ma ciò corrisponderebbe per lui addirittura ad una nuova “mistica” incentrata nell’idea che Dio è Spirito che impregna di sé totalmente il mondo.
Ma intanto la negazione da parte di Gamberini di atti religiosi come la preghiera di richiesta indica chiaramente che tale impregnazione non è invece altro che un letterale sprofondare e sparire di Dio nel mondo, ossia una Sua totale immanentizzazione che alla fine non può che sottometterlo alle Leggi della Natura. E dopo questo sprofondamento evidentemente non si ammette che di Dio resti alcuna vera traccia.
Il che tra l’altro cancella di un sol colpo la dimensione della Potenza proprio in quanto massima espressione dell’impregnazione divina del mondo. In tal modo, insomma, Dio non è più affatto lo Spirito pneumatico che è presente nel mondo nel «rendere nuove tutte le cose». Invece non è altro che una vaga ed anche dubbiosa presenza sulla quale l’azione umana eserciterebbe peraltro un controllo totale, fino al punto da poterla rappresentare pienamente. Ed è evidente che ciò accade a causa della soggettualità conoscente in quanto ispirata totalmente ad evidenze scientifico-empiriche.
Posto questo, Gamberini riafferma la necessità storica urgente di superare totalmente il teismo in quanto affermazione di un Dio come “necessario, onnipotente, sovrannaturale” e perfino anche “personale” (in quanto come tale situato fuori dell’”ordine del creato”). Ed egli giustifica questo sulla base della sua insostenibilità alla luce della scienza empirica più moderna ed inoltre anche a fronte delle possenti sfide del moderno ateismo. Il che ci mostra quindi che post-teismo e ricerca scientifico-religiosa sono in effetti una sola ed unica cosa. In altre parole il post-teismo non è altro che una vergognosa ritirata della teologia cristiana di fronte a forze storiche che in sé nulla hanno a che fare con la Religione né con il Cristianesimo.
Nel frattempo però egli si rifà nuovamente ai protagonisti dell’idealismo tedesco (già prima menzionati) considerandoli come gli apri-pista della (secondo lui) perfettamente legittima affermazione della “morte di Dio” (e peraltro per la via della significativa intermediazione di Böhme). Si tratterebbe in definitiva della doverosa dichiarazione della morte del Dio Trascendente, ma in obbedienza alla stessa scelta divina di negare sé stesso (entro la kenosis) come “infinito” nel “finito” rappresentato dal Dio umano, ossia Gesù.
E lo studioso menziona al proposito la totale accettazione di tutto questo da parte dei teologi in figure come Jürgen Moltmann e Eberhard Jüngel; specificamente nel contesto di un atto di decostruzione della stessa tradizionale teologia cristiana. Laddove va notato che costoro sono dei teologi protestanti e non cattolici.
Ma aldilà di tutto questo Gamberini viene davvero allo scoperto con la seguente (secondo noi assolutamente scandalosa) affermazione: − “Il teismo classico non è più in grado di dar ragione della presenza di Dio davanti alla scienza: non è più plausibile la fede nei miracoli e tale credenza è qualcosa di mitologico e superstizioso, così come non si è più in grado di conciliare la presenza del male con la fede nella bontà di Dio”. Personalmente ci chiediamo se la negazione dei miracoli non sia una vera e propria negazione del Vangelo stesso, dato che la presenza di Gesù nel mondo è stata costellata continuamente dai miracoli stessi. E sarebbe davvero troppo dover pensare che essi non siano stati atti reali ma invece solo metaforici. Sia qui insomma molto probabilmente di fronte ad una resa incondizionata di quella metafisica religiosa cristiana, che a sua volta un tempo era invece intimamente legata alla Rivelazione (per mezzo delle intuizioni visionarie dei suoi protagonisti) quale contesto per descrivere la natura di Dio ed affermarne l’azione nel mondo.
A questo punto Gamberini precisa che la premessa del post-teismo risiede nei pregevoli approcci “non teistici” o “ana-teistici” di teologi come il vescovo Spong [John Schelby Spong, Why Christianity Must Change or Die: A Bishop Speaks to Believers in Exile (1998); A New Christianity for a New World. Why Traditional Faith is Dying and a New Faith is Being Born (2000)] e Richard Kearney [Richard Kearney, Anatheism. Returning to God after God, Columbia University Press, New York 2010]. Laddove va notato che il primo è di nuovo un protestante ed il secondo è un filosofo della Religione totalmente agnostico.
Posto questo, allo scopo di una radicale riforma della teologia cristiana, egli ritiene indispensabile in primo luogo un colloquio con altre tradizioni religiose per comprendere se Dio sia “personale, impersonale o transpersonale”. E questo è a nostro avviso un altro vergognoso atto di rinuncia alla specifica identità cristiana (che andrebbe sempre mantenuta anche se nel ieno rispetto di altre tradizioni religiose), in quanto essa è incardinata nella natura personale di Dio. Ed è evidente che qui si allude alla presa in considerazione di argomenti di stampo buddhistico del genere di quelli che abbiamo discusso nella sezione precedente. Inoltre Gamberini ritiene indispensabile la rinuncia definitiva alla concezione di un Dio che non includa in sé il creato fin dall’inizio (invece di averlo fuori di sé). Inoltre ritiene indispensabile il superamento di una “visione interventistica e sopra-naturalistica della presenza attiva di Dio nell’universo e in particolare nella storia umana”. Ora, come abbiamo già detto, è del tutto evidente che interpretazioni letterali di Dio come queste non sono per definizione giustificate. Ma per questo non vi era affatto bisogno del post-teismo, che peraltro in definitiva nega la stessa onticità di Dio. La Rivelazione cristiana offre infatti elementi in abbondanza per non soggiacere a tali interpretazioni riduttive; a patto solo che essa non venga intesa in termini volgarmente letterali, ossia unicamente essoterici. E questo crediamo che nessun vero teologo cristiano lo abbia mai fatto. Eppure Gamberini attribuisce questa inaccettabile concezione “mitologica” di Dio non all’interpretazione errata del teologo (o del credente), bensì invece allo stesso linguaggio oggettivo presente nella Bibbia (ossia di fatto quel linguaggio divino che prima abbiamo constatato essere inaccettabile per il post-teismo). Il che comporta poi non una revisione della lettura della Rivelazione, ma invece un suo vero e proprio rigetto. Sta di fatto che proprio da questo rigetto egli si aspetta la definitiva “trasformazione post-teistica della teologia cristiana”.
Questi erano gli elementi decisivi per comprendere la natura ed in senso del post-teismo di Gamberini, ed anche (per la sua intermediazione) dell’intera teologia cristiana attuale. Tutto quello che viene dopo nel suo articolo sono estremamente complesse e sofisticate riflessioni metafisico-teologiche che non possiamo discutere certo in dettaglio perché ci allontanerebbero del nostro tema. Qualcosa su di esse va comunque detto.
Nel suo lungo paragrafo dedicato al Dio da intendere come puro amore (2 p. 398-405) Gamberini si sente obbligato a premettere a quello che è per lui il più autentico intendimento di Dio la messa in discussione dell’intera onto-metafisica tomista incentrata nell’”atto puro” (e nella quale egli include anche Bonaventura e perfino Eckhart). Infatti per lui l’intendimento di Dio come “atto puro” (e quindi come assoluta perfezione ed assoluta attualità non bisognevole di alcuna aggiunta di essere così come di nessuna relazione) istituisce una invalicabile distanza tra Lui stesso e l’uomo inteso come “creatura”, e quindi anche con il mondo stesso. In altre parole in tal modo viene affermato che l’essere dell’uomo e del mondo (in quanto creati) non ha alcuna realtà al di fuori della relazione con Dio in quanto unico atto di essere perfettamente compiuto (ossia davvero primario atto di esistere). E quindi uomo e mondo costituiscono in vero e proprio nulla ontico. È ovvio comunque che per lui si tratta con ciò del teismo fondato unicamente sul Dio Trascendente; che egli intende decisamente rigettare (nonostante con Berdjaev abbiamo visto che, entro un ben inteso Cristianesimo, il Dio trascendente sia assolutamente simultaneo a quello immanente).
Ebbene, secondo Gamberini, sulla base di questo genere di relazione, Dio non può stabilire con l’uomo e il mondo alcun vero rapporto, specie se lo si intende come autenticamente amoroso. Il che è provato, secondo lo studioso, dal fatto che per Tommaso la relazione esistente tra Dio e uomo-mondo non è affatto “reale”. Se infatti lo fosse, “Dio muterebbe nella sua sostanza” (invece di essere assolutamente immutabile, com’è l’”atto puro”), ed inoltre intanto “il mondo aggiungerebbe qualcosa di reale al suo essere”.
Pertanto entro la relazione tra Dio e uomo-mondo (secondo la tradizionale onto-metafisica tomista) non è mai davvero Dio a mutare, ma invece solo l’uomo. Il che di fatto rende inesistente la relazione tra i due termini – specie perché Dio è un essere stabile mentre invece solo l’uomo è un essere dinamico. Entro questo contesto è peraltro per lui spiegabile anche quella assai poco credibile “preghiera di richiesta” che secondo Tommaso non era affatto reale (proprio a causa dell’immutabilità divina), ma era appena un ricordarsi dell’uomo di avere assolutamente bisogno della relazione di Dio per non essere ciò che è, ossia un non-essere. Quindi per Gamberini già in Tommaso con questa preghiera l’uomo per definizione non riceveva un bel nulla da Dio, ossia non riceveva un reale «aiuto divino». Dunque per lui la negazione della preghiera di richiesta è giustificata non solo entro il post-teismo.
Comunque, secondo Gamberini, è urgentemente necessario superare questa complessiva visione per concepire la perfezione divina (ossia l’”atto puro”) come includente pienamente in sé (ed in partenza) una relazione con l’uomo ed il mondo che semplicemente consiste nella rinuncia pregiudiziale di Dio alla propria perfetta compiutezza e quindi all’assenza di qualunque bisogno di aggiunta di essere da parte Sua.
Il che significa che bisognerebbe intendere Dio come un essere unicamente relazionale e non invece staticamente ontico. Gamberini dimentica però di dire che quell’Eckhart che lui condanna (come affermatore di un Dio radicalmente trascendente) afferma proprio la natura sostanzialmente relazionale e dinamica di Dio [Meister Eckhart, Commento alla Genesi, in: Marco Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, Prol. 18 p. 75, I, 20 p. 125; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., Prol. 14-17 p. 71-74; Meister Eckhart, Commento alla Genesi, ibd., II, 142-149 p. 231-237; Dietmar Mieth, Meister Eckhart, I, 5 p. 63-73, IV, 16 p. 153-163]. In ogni caso, secondo lo studioso, bisogna pensare che Dio semplicemente si pone (per propria scelta) in relazione con ciò che in sé non è altro che nulla, ossia l’uomo ed il mondo (specie in quanto radicale alterità rispetto a Lui). Ma per fare questo bisogna pensare che Dio contenga nella sua essenza già in partenza il dinamismo della relazione con l’uomo ed il mondo creati. Insomma è come se questa relazione avvenisse già all’interno di Dio (e soprattutto entro la sua assoluta perfezione) e non invece fuori di Lui. Essa non richiederebbe insomma alcun riversarsi di Dio fuori di sé stesso. Ma, una volta posto questo, c’è da chiedersi cosa si intenda quando si concepisce la Trinità proprio come un flusso d’amore nel quale Dio si riversa fuori di sé stesso.
Ecco quindi delinearsi per Gamberini un “libero atto creativo” di Dio che è già parte del Suo stesso essere (e non invece mero accidente, e quindi per nulla necessario). È da intendersi dunque in questo modo, secondo lui, il fondamentale atto di “auto-determinazione” di Dio nel mondo. E qui egli menziona come punti di riferimento dottrinari i teologi Jüngel e Rahner. Insomma Dio non è propriamente l’Essere per eccellenza, ma invece semmai è Colui che determina il proprio essere nella relazione con ciò che è totalmente «altro» rispetto a Lui stesso. E così andrebbe intesa anche la creazione divina.
In questo consisterebbe dunque per Gamberini l’intendimento di Dio come Amore, e quindi non come Essere statico, ma invece come Essere dinamico e fondamentalmente relazionale. Insomma, egli ne conclude citando di nuovo Jüngel, “Dio è Creatore per amore e in questo senso creatore dal nulla. Questo atto creativo di Dio non è però altro che l’essere di Dio, che come tale è essere che crea”.
Orbene sinceramente ci sfugge totalmente perché, per poter sostenere questo, si debba concepire una teologia post-teista. Infatti, innanzitutto le due dimensioni divine, solo apparentemente in contradizione tra loro (quella statica e quella dinamica), sono entrambe contemplate in una Rivelazione che non venga intesa in maniera supinamente letterale (anche nel contesto di una riflessione propriamente metafisica); ed in secondo luogo, una volta concepito un Dio-Persona in tutta la sua piena onticità (e non invece come mera metafora), la dimensione amoroso-relazionale della creazione è già di per sé assolutamente evidente. Soprattutto se essa si associa ad un intendimento dell’Incarnazione come kenosis. Infatti la dimensione del Dio-Persona corrisponde esattamente a quella del Dio incarnata, e precisamente al Dio incarnato una volta per tutte. E questo Dio-Persona in quanto incarnato per definizione è in relazione con l’uomo e con il mondo. Del resto questo è il nucleo stesso del Cristianesimo (e quindi anche la sua specifica e preziosa identità). Quindi non vediamo assolutamente cosa mai ci sia da riformare in questo. Ma intanto il post-teismo condanna di fatto il concetto di Dio-Persona. E questo è un fatto.
Ed emblematica in tal senso è la riflessione di un grande teologo cattolico come Erich Przywara, il quale non a caso non sentì alcuna esigenza di dare vita ad un post-teismo [Erich Przywara, Analogia entis, Johannes-Verlag, Einsiedeln 1996]. Egli infatti sostenne che non vi è alcuna contraddizione tra “ontica” e “noetica” nella concezione di Dio. Per cui l’affermare che Dio è il paradigma ideale (noetico) e trascendente di ogni oggettualità (cioè l’Idea di cosa nella sua eterna staticità) non comporta alcuna contraddizione con il considerarlo come l’esistente per definizione, ossia il Dio incarnato. E lo stesso vale per la riflessione di Romano Guardini [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, II, 12 p. 166-174, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531, VI, 14 p. 579-585], il quale affermò che lo Spirito divino (entro gli eventi dell’Ascensione al Padre da parte di Gesù) andò di fatto a impregnare di sé il mondo stesso, riproducendo così l’Incarnazione dopo l’evento decisivo della Resurrezione.
Insomma la riflessione cristiana contiene da molto tempo in sé tutti gli elementi per rendere del tutto superflua la pretesa del post-teismo di essere il primo ad aver riconosciuto la natura creativo-relazionale di Dio. Come abbiamo detto questa consapevolezza risale fino ad Eckhart.
Ed allora, considerato tutto questo, non è vero forse che in fondo il post-teismo non consiste in altro che nell’invito (rivolto dal teologo al credente) a non leggere letteralmente la Rivelazione? Sarà insomma che non si tratti solo di questo? Ma se così fosse ciò renderebbe di nuovo del tutto inutile un apparato dottrinario pesantissimo ed ingombrantissimo che forse ha il solo scopo narcisistico di delineare sempre nuovi protagonisti del pensiero teologico. Inoltre non è forse vero che il più semplice credente vive concretamente tutto quello che Gamberini presenta come radicale novità teologica (e peraltro senza alcuna riflessione teologica e metafisica) nel credere fermamente nella propria intima relazione con un Dio assolutamente presente ed amante anche se del tutto invisibile?
E veniamo ora al secondo ed al terzo paragrafo di riflessione teo-metafisica di Gamberini (3-4 p. 406-413) che sono dedicati alla “presenza di Dio come creaturalità”. E qui (di nuovo entro una riflessione onto-metafisica estremamente sofisticata, dettagliata e complessa, che non può ovviamente venire riportata integralmente), lo studioso sostiene sostanzialmente che la presenza divina in quanto volontaria auto-determinazione nel mondo da parte di Dio va intesa come qualcosa che intanto è assolutamente reale (tanto che essa nega frontalmente la trascendenza divina). Eppure però è tale solo in quanto per definizione è costante e ordinaria (nel senso della totale inapparenza), dato che essa non è assolutamente coinvolta negli eventi, ossia nella dimensione spazio-temporale. Cioè nel concreto essa è totalmente invisibile ed intangibile. In particolare essa non si manifesta mai in quella maniera “puntuale” che la renderebbe presenza straordinaria invece che ordinaria. Ed è evidente che il tal modo si sta parlando dell’insostenibilità dell’irruzione del Sovrannaturale divino nel naturale. Infatti pensare questo significa per Gamberini ricadere in una visione “mitologica” (ossia deplorevolmente ingenua) della presenza divina. Infatti è proprio in tale contesto che secondo lui viene concepito quel “miracolo” nel quale il cristiano non ha alcun diritto di credere. Ed evidentemente questo avviene anche nell’«aiuto divino» che ci si aspetta nella preghiera di richiesta.
Possiamo quindi dire che, pur con tutta l’insistenza di Gamberini sulla presenza divina nel mondo come espressione più autentica della Sua stessa natura (e quindi decisa negazione della Sua remota trascendenza, per definizione infinitamente distante dal mondo), egli impiega tutta la cura possibile per evitare che essa venga intesa in modo reale e quindi tangibile.
A questo punto, a fronte dell’impossibilità di comprendere cosa sia nei fatti questa «reale» presenza divina (oltre che rappresentare appena il frutto di una sofisticata ed ambiziosa neo-riflessione teo-metafisica), non resta che pensare che essa non è altro che un’affermazione puramente retorica; che poi non solo è vuota ma è anche non poco cinica. Essa quindi deve venire intesa come una presenza da considerare puramente formale e rituale dal punto di vista religioso. Si tratterebbe insomma di una cosa che c’è e nello stesso tempo non c’è. Ed in pratica ciò significa che Dio (per quanto definito unicamente come amore creativo e perfino come totale immanenza nella realtà “creaturale” alla quale Egli non esita ad abbassarsi) di fatto non è per nulla presente nel mondo. Di certo infatti, una volta ammesso tutto questo, non lo sarà per il credente che, totalmente «gettato» in situazioni esistenziali estreme e senza alcuna via di uscita, non ha altra scelta che credere incondizionatamente nell’Amore divino come presenza sì, ma come presenza davvero tangibile. Non invece come presenza vuota e formale, in quanto vagamente ed incomprensibilmente metafisica.
Ebbene, se questo è il frutto più pregevole del post-teismo per la consapevolezza religiosa (cristiana e non), c’è da chiedersi veramente in cosa consista mai il prodigioso rinnovamento da esso apportato. Esso infatti sottrae al credente perfino il più minuscolo conforto ed appoggio che finora la teologia tradizionale (anche la più irrazionale e superstiziosa) gli aveva comunque procurato. Esso sottrae insomma al credente la fede nella presenza reale di Gesù nella propria vita e nella propria interiorità. E questo significa allora che il post-teismo può essere semmai vantaggioso per il sussiegoso e narcisista professore di teologia, ma non certo per il credente. Proprio per questo esso si rivela in definitiva essere null’altro che una sofisticata ed ambiziosa neo-metafisica (e di certo non meno controproducente di quella che intanto viene demolita senza il minimo scrupolo) che serve semmai appunto ai professori di teologia (e correlati filosofi innamorati del loro protagonismo) come campo per sviluppare a josa teorie sempre più astruse in quanto totalmente distanti dalla realtà (specie da quella di fede). E come tale esso non serve in alcun modo la fede vissuta.
Del resto di tutto questo possiamo comunque avere la prova tangibile nel quinto ed ultimo paragrafo dell’articolo di Gamberini (5 p. 413-417), nel quale il suo discorso viene al dunque sia rispetto alla presenza divina sia anche ai concetti correlati di “persona divina” e perfino di “spirito divino”. Emblematico è il titolo scelto per questo paragrafo: − “Dio come essere ineffabile e transpersonale”. Questa definizione dice infatti già tutto ciò che si deve sapere dell’intendimento post-teista della presenza divina, della persona divina ed anche dello spirito divino.
Del resto lo studioso è qui estremamente esplicito in primo luogo circa la presenza divina. Egli dice infatti che, pur nella sua auto-determinazione mondana, che poi anche “auto-comunicazione” amoroso-relazionale, Dio rimane comunque costantemente “incomprensibile ed ineffabile”. E ciò ha una ricaduta fatale su ciò che si intende come esperienza religiosa in termini appunto di presenza divina. Essa andrebbe infatti intesa unicamente come “esperienza originaria di Dio”, ossia un’esperienza tutt’altro che tangibile, e quindi per nulla una vera esperienza. Con il termine “originario” si intende qui infatti una dimensione del tutto estranea allo spazio-tempo, alla località, alla storia, alle circostanze concrete, all’esistenza; ossia ancora una volta qualcosa di puramente formale e quindi totalmente astratto (se non addirittura irreale).
Quindi essa è meno che mai un’esperienza del divino che possa venire realmente vissuta dall’uomo comune nel bel mezzo della propria esistenza. Il che significa allora che la presenza divina non può né deve venire intesa come “qualcosa che si aggiunge dall’esterno alla nostra creaturalità, come qualcosa di meraviglioso e straordinario”. Essa deve invece venire intesa appunto come “presenza di Dio” che è solo “ineffabile e indicibile”. E ciò ha una ricaduta poi anche sullo stesso concetto di persona divina. La quale per Gamberini andrebbe compresa unicamente come realtà trinitaria; e come tale nel senso di una dimensione “relazionale” di Dio che però si muove ad un livello altissimo e quindi del tutto inafferrabile. Il che significa che, quando noi riteniamo Dio una Persona, intanto “ogni forma di individualità e limitazione Gli deve essere negata”. Qui lo studioso cita dal testo fondamentale del teologo Schoonenberg [P. Schoonenberg, «Gott als Person und Gott als das unpersönlich Göttliche», in G. Oberhammer (ed.), Transzendenzerfahrung, Vollzugshorizont des Heils. Das Problem in indischer und christlicher Tradition, Indological Institute University of Vienna, Wien 1978, 207-234, p. 230-231] ed inoltre nuovamente anche a Rahner e Barth. Insomma (riferendosi addirittura alla dottrina del non-dualismo śankariano) Gamberini dice che si può parlare di persona divina solo nei termini di quella Sua “presenza alla creaturalità” che è amoroso-relazionale ma senza alcuna reale tangibilità. Il che significa quindi che il Dio-Persona è il “tu” al quale noi ci rivolgiamo (nel mentre Egli prende contatto con noi stessi come il proprio “tu”) solo nella misura in cui siamo consapevoli che esso intanto ci trascende totalmente. E ci trascende perché Dio non può assumere alcuna forma determinata, inclusa quella di una persona intesa in termini antropomorfici.
In parole povere Egli non sta affatto davvero in relazione con noi.
Insomma dov’è qui Gesù? In altre parole a nostro avviso vi sono qui i termini di quell’altra dottrina che si associa spesso al post-teismo, ossia quella che larvatamente postula la totale irrealtà dell’umano-divinità di Cristo appunto nella persona umana di Gesù. Il quale non sarebbe stato altro che una figura storica, rispetto alla quale (secondo questa teoria) ha competenza unicamente la ricerca storico-critica. Ma a questo punto, una volta preso atto di ciò che dice Gamberini rispetto alla persona divina (in quanto unicamente trinitaria), c’è da dubitare fortemente anche nella persistente presenza di Gesù nel mondo non più come essere storico ma come Spirito.
Non a caso proprio qui veniamo davvero al dunque nel definire anche come “Spirito” il Dio definito nei modi finora illustrati. Secondo Gamberini Egli infatti è tale proprio in quanto assolutamente non determinabile; e quindi anche come entità di natura unicamente amoroso-relazionale ma solo in termini molto astrattamente metafisici.
Secondo lo studioso ciò esprime esattamente il fatto che lo Spirito “non ha limiti e può diventare tutte le cose”. E qui è davvero lampante la differenza esistente tra questo intendimento dello Spirito e quello che abbiamo visto in Berdjaev; il quale identifica totalmente lo Spirito divino sia con la Persona divina che con la persona umana (senza alcuna differenza ontica tra di essi) ed inoltre attribuisce alla collaborazione tra di essi la totale e fattuale trasfigurazione del mondo. E naturalmente siamo qui distanti anni luce dall’intendimento di Spirito pneumatico che abbiamo illustrato nel nostro già citato articolo sullo Spiritualismo. Quest’ultimo infatti, pur nella sua assoluta inafferrabilità ontica, si rende così tanto presente nel mondo da entrare perfino nella storia stessa (oltre che nell’esistenza personale di ognuno di noi) come una Forza che tutto trasfigura per il fatto che ad essa «nulla è impossibile». E questo poi corrisponde esattamente all’intendimento guardiniano dello Spirito pneumatico come Forza che spinge addirittura verso l’attualizzazione storica del Regno dei Cieli.
In ogni caso (riferendosi al proposito ovviamente ad Agostino) Gamberini approfitta di questa occasione per riaffermare nuovamente l’insostenibilità della postulazione dell’intervento di Dio nel mondo e nell’essere. In particolare si tratta infatti per lui dello Spirito divino che sarebbe presente nella nostra interiorità in maniera unicamente trascendente (dunque di nuovo del tutto non percepibile), e che quindi in generale non è altro che “la presenza silenziosa del mistero di Dio”. Il che, tenuto conto di ciò che egli ha detto finora, significa che questo silenzioso Dio interiore è in verità più che mai assente. Quindi non si può nemmeno lontanamente pensare di entrare in dialogo con Lui.

Ecco dunque co’sè il post-teismo almeno così come ci viene illustrato da Gamberini.
Abbiamo visto che esso è diverse cose, e tutte purtroppo solo negative. È nei fatti un sostanziale anti-teismo e perfino ateismo. È immanentizzazione di Dio specie nel contesto di una vergognosa resa della teologia e della metafisica cristiane alla critica religioso-scientifica alla Religione ed al Cristianesimo stesso. Quindi è una consegna integrale di questi ultimi a quella ricerca scientifico-religiosa che è tendenzialmente in primo luogo agnostica se non atea. Ed è evidente qui il totale trasferimento dell’autorità in materia religiosa alla Scienza, con la conseguente fondazione della ricerca scientifico-religiosa proprio da parte del post-teismo. Il che significa poi che il post-teismo non è affatto (come pretende di essere) una difesa del teismo per la via della scienza della Religione. È invece semmai la consegna del teismo nelle mani rapaci, aggressive e blasfeme di una ricerca scientifico-religiosa che sostanzialmente è anti-teistica ed atea.
E questo l’abbiamo visto chiaramente nella precedente sezione.
Inoltre per la via dell’acritica assunzione di metafisiche religiose aliene (come quella impersonalistica e trans-personalistica) il post-teismo è di fatto rinuncia all’identità cristiana stessa.
È recisa negazione (nonostante le sue stesse affermazioni in tal senso) della relazione esistente tra Soprannaturale divino e naturale. Quindi è spocchiosa negazione scientista della realtà dell’intervento divino nell’esistenza personale e nella storia (con la totale messa in ridicolo di atti religiosi come la “preghiera di richiesta” e la fede nei miracoli).
È proibizione del riferimento alla Rivelazione come ambito in cui sussistano verità fondamentali ed oggettive alle quali il pensatore religioso e cristiano si riferisce nelle sue argomentazioni, conservando intanto il pieno ossequio nella loro oggettività e nel loro paradigmatico valore (e quindi sottomettendosi ad esse invece di farsene interprete privilegiato). Infatti in luogo di tutto ciò il post-teismo sostiene la perfetta liceità di un’interpretazione soggettiva della Rivelazione stessa che ha peraltro un fortissimo sapore protestante. È paradossale al proposito l’affermazione dell’immanenza divina, nel mentre però viene affermata la Sua Trascendenza nel modo più radicale possibile. In modo tale che la presenza divina viene svuotata di qualunque significato e di fatto viene negata anche la realtà personale di Dio. E ciò fino al punto di spazzare via elementi fondamentali della fede cristiana fino a giungere a svuotarla totalmente dei suoi tipici contenuti. Tra questi un intendimento autentico (in quanto fedele alla Rivelazione) dell’Incarnazione divina e perfino dell’impregnazione divina del mondo. Ed a questo punto salta peraltro all’occhio la costante citazione da parte di Gamberini di teologi protestanti (come Barth, Jüngel, Moltmann, Spong ed altri); cosa che poi è abbastanza diffusa nella neo-teologia cattolica animata dalla ricerca scientifico-religiosa.
È un’ulteriore ed estrema complessizzazione della metafisica posta alla base della teologia (proprio nel mentre si ambisce invece a smantellare totalmente la tradizionale metafisica cristiana), in maniera tale da essere anni luce lontana dall’esperienza religiosa vissuta e perfino contraddirla in molti suoi pregevoli aspetti (specie nella postulazione di una tangibile presenza divina). Come tale il post-teismo è di fatto la revisione totale e radicale della teologia e metafisica cristiana in modo che essa venga strappata al credente e venga data invece in pasto ai professori di teologia e di filosofia per la forgia continua ed illimitata di teorie personali il cui unico scopo è l’affermazione del loro protagonismo intellettuale.
Ed oltre a tutto ciò, per di più, una volta ridotto all’osso, il post-teismo si rivela consistere quasi unicamente nell’invito a non prendere alla lettera la Rivelazione. Cosa di cui ogni serio teologo e filosofo religioso era già perfettamente consapevole, senza alcun bisogno che il post-teismo venisse a ricordarglielo.
Posto tutto questo, chi si aspetta dal post-teismo davvero qualcosa di nuovo e ri-vitalizzante nel contesto della dottrina e fede cristiana, dovrebbe pensarci molto bene prima di persistere in questa convinzione.
Insomma, in estrema sintesi, il post-teismo altro non è se non un pesante, ingombrante e pleonastico apparato argomentativo, che, pur essendo del tutto inutile oltre che controproducente, viene ad aggiungersi alla già non poco ingombrante tradizionale metafisica cristiana senza apportare non solo alcun vantaggio ma inoltre anche nuocendo non poco all’esperienza religiosa vissuta.

IV- Pascal
Ed infine confrontiamo tutto quello che abbiamo finora visto con quanto aveva già detto Pascal nel XVII secolo. Ecco cosa egli ha detto nei suoi “Pensieri”: −
“Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all’altro […] Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra si apre in abissi” [Blaise Pascal, I pensieri, Paoline, Milano 1963, 72 p. 67] ”Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista” [ibd. 230 p. 242]; “Parliamo ora secondo i lumi naturali. Se c’è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non possedendo né parti né limiti, non ha nessuna proporzione con noi. Noi dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è, ma anche se è. Ciò posto, chi oserebbe accingersi a risolvere questo problema? […] Chi dunque biasimerà i cristiani di non poter dare ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? […] Esaminiamo allora questo punto e cominciamo col dire: «Dio esiste oppure non esiste». Da che parte ci decideremo? La ragione non può decidere nulla; c’è di mezzo un caos infinito: si giuoca una partita, all’estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su cosa puntate? […] Si ma bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine […] La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro […] Ma la vostra beatitudine?…” [ibd. 232 p. 245-247]; “Esistono tre mezzi per credere: la ragione, l’abitudine e l’ispirazione […] bisogna aprire il proprio intelletto alle prove, fortificarvisi con l’abitudine e soprattutto col sottomettersi umilmente alle ispirazioni” [ibd. 245 p. 257]; “L’esteriore deve essere congiunto all’interiore se si vuole ottenere qualcosa da Dio; vale a dire bisogna mettersi in ginocchio, pregare con le labbra ecc. […] Attendere da questo esteriore il soccorso significa essere superstizioso; non volerlo significa essere superbo” [ibd. 250 p. 259]; “Timore, non quello che viene dal credere in Dio, ma dal dubitar se esiste o no. Il buon timore viene dalla fede, − il falso timore viene dal dubbio. Il buon timore è unito alla speranza in Dio in cui crediamo; − il cattivo timore è unito alla disperazione, perché si teme il Dio nel quale non si crede. Gli uni temono di perderlo, − gli altri di trovarlo” [ibd. 262 p. 264]; “Sottomissione e uso della ragione: in questo consiste il vero Cristianesimo” [ibd. 269 p. 267]; “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. E questa è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione” [ibd. 278 p. 269]; “L’uomo senza la fede non può conoscere né il vero bene né la giustizia […] Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità, di cui adesso non gli resta che il segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle presenti , ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso?” [ibd. 425 p. 327-329]; “Se è un segno di debolezza dimostrare l’esistenza di Dio per mezzo della natura, non disprezzate la Scrittura; se è un segno di forza aver conosciuto questi contrasti apprezzate per questo la Scrittura” [ibd. 428 p- 330]; “Noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è impossibile ogni comunicazione con Dio […] Ma nel medesimo tempo noi conosciamo la nostra miseria, perché Dio non altro che il Riparatore della nostra miseria. Perciò non possiamo ben conoscere Dio senza conoscere le nostre iniquità. Perciò quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la loro miseria non lo hanno glorificato” [ibd. 547 p. 383-384]; “La religione cristiana consiste in due punti, che per gli uomini è tanto importante conoscere quanto è dannoso ignorare; e si deve alla misericordia di Dio l’avere concesso dei segni di quei due punti […] E su questo fondamento essi traggono motivo di bestemmiare la religione cristiana, perché la conoscono male. Immaginano che essa consista semplicemente nell’adorazione di un Dio considerato grande, potente ed eterno; e questo è propriamente il deismo, che è tanto lontano dalla religione cristiana quanto lo è l’ateismo che ne è tutto l’opposto […] Ma pur concludendo quello che vogliono contro il deismo, non ne concluderanno mai nulla contro la religione cristiana, a quale consiste nel mistero del Redentore, che unendo in sé le due nature, la umana e la divina, ha sottratto gli uomini alla corruzione del peccato per riconciliarli con Dio nella sua divina persona [ibd. 556 p. 39].
Insomma Pascal aveva già tematizzato davvero tutto – la necessità del teismo e la sua problematicità in quanto oggettivamente disdicevole (rispetto ad un Dio Trascendente del quale non possiamo sapere nulla); il rischio della fede come decisione e scelta specie a fronte della prospettiva della salvezza; la totale inutilità dell’impiego della Ragione nel decidere circa l’esistenza o inesistenza di Dio; l’importanza fondamentale della dimensione del “cuore” e quindi dell’amore, unita a sua volta alla primarietà di Dio come Cristo, ossia come Redentore.
Ebbene allora il fatto che oggi esista una così ingente ricerca scientifico-religiosa (includente la discussione su teismo, anti-teismo ed ateismo) ed il fatto che essa abbia reso necessario addirittura una del tutto nuova teologia post-teista, sono due fatti che dimostrano che o tutto ciò stato dimenticato (se non cancellato) oppure non è mai stato conosciuto. Infatti i “Pensieri” di Pascal rendono tutto ciò che abbiamo finora illustrato ancora più inutile di quanto sia in sè

Conclusioni.
Vediamo ora di integrare e riassumere tutto ciò che abbiamo visto e detto finora.
Partiamo da un’estrema sintesi di quanto sostiene Berdjaev. Bisogna innanzitutto osservare che egli non si esprime affatto nei termini del teismo classico che viene criticato così aspramente dall’anti-teismo e superato dal post-teismo. Egli infatti deplora (e proprio alla luce della scienza moderna) la naturalizzazione delle verità religiose (specie la cosmologia ingenua e dogmatica dell’antica metafisica); in relazione a questo condanna l’antico teismo medievale (in quanto “spirito angelico” avverso al mondo); ritiene inaccettabile una lettura davvero volgarmente ingenua della presenza di Dio nel mondo; infine auspica un’estrema valorizzazione del mondo (contro ogni Trascendentismo divino) considerandolo peraltro luogo della presenza divina. Tuttavia queste sue affinità con l’anti-teismo cessano non appena entriamo nei particolari. Infatti egli non accetta che il rifiuto della naturalizzazione delle verità religiose si traduca in una svalutazione della dimensione antropologica (come avviene nella condanna post-teista dell’antroporfismo).
E motiva questa sua presa di posizione affermando che il Dio presentato nella Rivelazione cristiana è per definizione antropomorfico proprio in virtù della sua primaria umano-divinità; ritiene inaccettabilmente apofatica una teologia che si opponga all’antroporfismo (e questo è esattamente quanto invece Gamberini auspica in nome del post-teismo); ritiene che la filosofia stessa (essendo primariamente umana) comporti un’”umanizzazione” di Dio stesso; pensa che il classico concetto di creazione divina sia stato insufficiente proprio perché cosmogonico (ossia intellettualista nella sua ingenuità) e non antropogonico (il che significa che la causa dell’ingenuità è l’intellettualismo e non l’antropomorfismo); a causa dell’intima relazione esistente per lui tra persona umano-divina, spirito ed essere, deve susistere necessariamente un Dio-Persona e peraltro in tutta la sua piena onticità; infine (nel contesto dell’umano-divinità) ritiene l’esperienza religiosa come intima relazione con Dio che è “uomo a uomo”.
In ogni caso proprio questa sua insistenza sulla dimensione umana lo porta anche ad affermare in modo forte e concreto la realtà del Dio-Persona. Infatti sostiene che la filosofia, essendo personale (e quindi anche personalista) può e deve stare in relazione solo con un Dio-Persona. E siccome esattamente questo è il Dio presentato nella Rivelazione, la filosofia (che a suo avviso è naturalmente religiosa, condividendo con la Religione la primaria “domanda metafisica”) per lui deve stare necessariamente in relazione con quest’ultima esattamente così com’è per vari motivi: − perchè essa (non essendo affatto pensiero) coglie l’essere stesso, perchè essa coglie per definizione il mistero dell’essere, perché essendo esso stesso universo (microcosmo), l’uomo sta in naturale relazione con il microcosmo.
Egli però nega totalmente alla teologia il compito e diritto di porsi in relazione con la Rivelazione allo stesso modo pensante della filosofia. Perché, così facendo, può solo deformarne i contenuti invece di limitarsi a presentarli. E questo è esattamente quanto accade nel post-teismo.
In ogni caso per lui la Rivelazione assumerà una pienezza storia nell’era dello Spirito (susseguita a quelle antecedenti del Padre e del Figlio) manifestando proprio in tal modo anche la pienezza dell’umano-divinità.
Particolarmente importante è l’accento posto da Berdjaev su una presenza davvero reale e concreta di Dio nel mondo. La fede in tale presenza è secondo lui un tratto tipico del Cristianesimo (così che in sua assenza resta solo l’agnosticismo). Essa di certo si manifesta attraverso la creatività umana, ma alla fine quest’ultima poggia sull’umano-divinità e quindi sull’Incarnazione. Quindi l’uomo impersona esplicitamente e consapevolmente Dio nella sua creatività. E questo non è affatto sostituzione ma è invece diretta manifestazione di Dio proprio perché uomo e Dio sono per lui la stessa identica cosa. Proprio per questo per lui Dio è insieme trascendente e immanente.
Infine c’è da dire che la da lui concepita perfetta identità esistente tra uomo e Dio annulla in partenza tutte le obiezioni (anti-teistiche ed ateistiche) sollevate contro l’esistenza di Dio a causa del male del mondo.
7Da questa base siamo partiti per poi arrivare a trattare della ricerca scientifico-religiosa. E nel contesto di quest’ultima sono emerse le teorie più varie, la maggior parte delle quali non poco astruse, include quelle teiste.
Intanto (nella sezione di questo paragrafo che abbiamo dedicato al panenteismo) abbiamo visto con Bilimoria che le idee e relative entità metafisiche possono restare esattamente come sono (senza alcuna necessità di venire rivedute e corrette) se vengono trattate sul piano della metafisica invece di venire ricondotte alla logica-filosofica ed all’approccio scientifico-empirico.
Tra le questioni emerse in questa sezione abbiamo visto comunque tutto il possibile.
Nel campo anti-teistico ed ateistico abbiamo visto: − la radicale messa in discussione della realtà metafisica della persona umana (Chastain, Schnädelbach, Dworkin, Nagel), con la conseguente negazione di una persona divina e quindi l’abolizione di una vera Religione; la trasformazione della Religione in uno spiritualismo del tutto a-religioso oppure in curiose religioni naturali senza Dio (Breul, Dealeay, Schnädelbach), con la conseguenza della netta negazione di ogni teismo; una teologia addirittura neo-tomista ma scettica che nega la presenza divina nel mondo attraverso il rigetto dell’”intelligent design”; un anti-teismo puramente gnoseologico e neo-cartesiano (Platzer) che ritiene Dio non esistenza ma solo verità, o meglio Principio di verità ma esso stesso sottomesso alla trascendenza del “vero” (e quindi della logica); un anti-teismo incentrato sull’idea buddhista di Dio come Nulla, e che quindi costituisce una davvero astrusa teologia, ossia l’”A/teologia”. Abbiamo anche visto che spesso gli argomenti logico-critici anti-teistici sono basati su meri velenosi pretesti per iniziare una del tutto infondatamente polemiche infamanti Dio.
La tesi più equilibrata in questo ambito è risultata comunque essere quella di Cockayne (a sua volta rifacentesi ad Henry James) secondo la quale sua teismo (fede) che ateismo si basano unicamente sulla volontà e sulla decisione e quindi non possono essere in alcun modo epistemologicamente fondati.
Sul piano pro-teistico abbiamo visto la convergenza con Berdjaev da parte di diversi autori (Dealey, Wierenga, Feinberg) sul tema del rispetto da parte di Dio della libertà umana.
In generale è emerso comunque in questa sezione l’importanza del dubbio per la fede – cosa sulla quale sono d’accordo sia teisti che anti-teisti (Schnädelbach, Nagel, Cockayne). Ed allora, se a questo punto teniamo conto di tutto ciò che Pascal aveva detto già nel XVII secolo, appare evidente che non ci sarebbe stato alcun bisogno di mettere su un apparato di pensiero così pesante come quello che difende teismo, anti-teismo ed ateismo ed alla fine addirittura si organizza in un nuovo paradigma religioso detto “post-teismo”. In Pascal era stata infatti detto tutto ciò che era necessario a tale proposito, e quindi il suo pensiero comprendeva già tutte le prese di posizione qui discusse.
Queste ultime costatazioni ci mostrano quindi che la querelle tra teismo e anti-teismo non è affatto oggettivamente giustificata ed è pertanto unicamente surrettizia, ossia puramente ideologica. Essa è stata dunque voluta e sicuramente per scopi che ci sfuggono. La cosa grave è che però la stessa teologia cristiana (insieme alla Chiesa che la nutre e la sostiene) si è fatta complice si questo progetto tanto scellerato quanto occulto. Deve trattarsi insomma dello spirito anti-cristico che Berdjaev riconosce in tutte le forze storiche che si oppongono alla fede cristiana [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., VI p. 101-116, VIII p. 147-160].

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I motivi per ricollegare Edith Stein allo Spiritualismo sono davvero molti. Innanzitutto esso stesso emerge in vari modi nel di lei pensiero. Infatti già dalla lettura delle sue prime opere la sua forte insistenza sulla natura spirituale dell’anima, ed anche dello stesso Io, ci suggerisce che la sua intera visione dell’interiorità umana sia stata sempre dominata dalla primarietà dell’elemento spirituale, e peraltro prima ancora che interferisse in questo in maniera significativa la fede cristiana [Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, IIA, 6 p. 169-170, IIB, 1-7 p. 171-196, III, 1 p. 197-206; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 3, 1-4 p. 72-92, II, 1, 2-3 p. 173-216; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23 p. 237-386; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9-11 p. 360-396]. Abbiamo sostenuto questo in alcune nostre passate ricerche, non senza sottolineare che questo tendenziale e già precoce spiritualismo riduce sensibilmente la portata della natura fenomenologico-husserliana del pensiero steiniano, presentandosi quindi come un suo tratto caratteriale ben più di quest’ultima [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein: vivere a partire dall’anima, in: Prospettiva Persona, 95-96 (Gennaio-Giugno), 2016 p. 92-95; Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170]. In questa sede avevamo supposto che questo suo spiritualismo fosse di natura platonica. Abbiamo poi sostenuto questo in maniera ancora più sistematica in un saggio (ancora non pubblicato, ma presentato nel nostro blog) che abbiamo dedicato alla natura neoplatonica del pensiero da lei sviluppato nell’ultima fase mistica della sua opera [Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/%5D ed inoltre anche nel nostro tentativo di accostare il suo pensiero a quello di Eckhart [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >]. Tuttavia, però, poco a poco abbiamo dovuto ammettere che questi nostri argomenti erano troppo estremistici per vari motivi.
Il primo motivo è che la stessa Fenomenologia di Husserl era più o meno impregnata di uno Spiritualismo che era sempre stato presente già da Cartesio in poi e si era notevolmente accentuato dopo l’Idealismo tedesco (contenendo peraltro anche alcune tracce di platonismo, sebbene però ridotto a sola teoria della conoscenza). E ciò in Husserl si tradusse in una chiara postulazione dell’Io puro quale “spirituale”, così come anche l’atto intellettuale stesso – di fatto venne da lui considerato spirituale l’Io rivolto (auto-conoscitivamente) verso sé stesso, ossi verso il flusso di vissuti che lo costituisce [Edmund Husserl, Idee per una Fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, II 37 p. 86-89, I, II, IV, 57 p. 143, I, III, II, 80-82 p. 200-206, I, III, III, 94 p. 239-242, II, Intr. 20 p. 528-529, II, I, 22-24 p. 534-541]. Il secondo motivo è che il platonismo steiniano esiste in maniera solo molto tendenziale, e cioè né esplicita né voluta. Per cui, se − com’è molto probabile [Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 1 p. 78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 p. 149-155, II, I, V, I p. 174-183; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014 I, III p. 77-87; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 170-171; J. Loewenberg, “Classic and romantic trend in Plato”, Harvard Theological Revue, X (8) 1917, 215-236 (p. 219-225; Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017] − a Platone è attribuibile uno Spiritualismo, non è affatto detto che sia stato proprio questo quello professato da Stein. Anzi (ed ecco il terzo motivo) lo Spiritualismo platonico ha sempre avuto i caratteri di un «onto-spiritualismo», ossia di una visione (trascendentista, dualista e molto prossima alla Gnosi) secondo la quale l’unica e vera realtà (quella radicalmente trascendente) è quella spirituale, e lo è in forte conflitto con tutto ciò che è immanente, ossia mondo, materia e corpo [Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255]. Inoltre, propria a causa di queste sue caratteristiche, lo Spiritualismo platonico è stato sempre fortemente imparentato con quello Spiritualismo delle metafisiche religiose orientali che in alcune nostre ricerche abbiamo indicato come «idealismo vedantico» [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164; Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78]. Va però anche detto che tale Spiritualismo si lascia fortemente appaiare anche a quello che poi indicheremo come Spiritualismo pneumatico. Infatti esso ha voluto vedere lo Spirito stesso soprattutto come essenza profonda ed occulta di tutte le cose mondane − “jīvātman” (nucleo essenziale della cosa), parola o “udgïta” (vibrazione acustica profonda e centrale), “prāna” (essenza della funzione sensoriale), “etere”, o “iod” o “ākāśa” (essenza dell’anima incarnata, o cuore, equivalente a sua volta all’evangelico “granello di senape”) [René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, 57 p. 300-304, 69-75 p. 355-396; Chāndogya Upaniṣad, in: Raphael (a cura di), Upaniṣad, Bompiani, Milano 2010, I, I, 1-10, p. 293-295; Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, ibd., IV, IV, 1-3, p. 191-192; Māṇdūkya Upaniṣad, ibd., III, 3, 1-48, p. 1059-1073]. Inoltre questo pensiero ha inteso lo Spirito divino trascendente esattamente come un Pneuma (“vāyu”, o “soffio” o ancora semplicemente “aria”), ossia come una sostanza aerea, mobile, onticamente inconsistente ed inafferrabile, ossia come un vento o meglio ancora come l’aria stessa [Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, in: Raphael, Upaniṣad…cit., III, VII, 1-23 p. 130-137; Chāndogya Upaniṣad, ibd., IV, III, 1-8 p. 418-421; René Guénon, Simboli…cit., 42 p 234-237; René Guénon, L’uomo ed il suo divenire secondo il Vêdanta, Adelphi, Milano 1982, 5 p. 49-52, 8-9 p. 63-72, 18 p. 117-121, 21 p. 135-145]. E peraltro viene anche riconosciuta la sua presenza non solo nel mondo ma perfino entro le funzioni del corpo e dell’anima umani. In Platone potremmo riconoscere qualcosa del genere nell’intendimento dello Spirito come “eros”, ossia come forza ascensiva che eleva materia e corpo verso il mondo trascendente dell’essenze ideali divine [Luciano Montoneri, Il problema… cit., I, IV, 4 p. 134-136; Paul Friedländer, Platone…cit., I, III p. 77, II, II, 20 p. 738-749].
Ecco quindi che emerge uno Spiritualismo antico (di tipo prevalentemente orientale, ma anche occidentale) che è caratterizzato da un versante «onto-spiritualista» e da un versante «penumatico». Ma questi due aspetti appaiono piuttosto contraddittori tra loro; dato che il primo pone lo Spirito come solida realtà ontica (sebbene trascendente ed immateriale, ossia ideale) ed il secondo invece lo pone appena come essenza estremamente sottile della realtà, e cioè di fatto come una non-realtà; ossia come una sorta di vuoto pregno di energia (molto prossimo al Nulla) che starebbe nelle profondità abissali di ogni cosa. E ciò corrisponde poi abbastanza bene al simbolismo universale del “cuore” quale autentico centro dell’uomo ed anche del cosmo – è insomma un centro in cui tutto converge, ossia una sorta di centro dei centri.
La contraddizione tra i due intendimenti di Spirito forse però cessa se consideriamo che il primo si interroga sul «dove» si trovi la realtà più autentica in quanto spirituale (se a livello trascendente-ideale oppure immanente-mondana e reale), mentre il secondo si interroga sul «come» è internamente ed ultimamente costituita la realtà spirituale.
Tuttavia sta di fatto che questo genere di Spiritualismo non è mai appartenuto alla tradizione del pensiero moderno (prevalentemente occidentale), il quale più che altro si limitava a identificare lo Spirito con la Ragione umana e anche divina, oltre che con l’Intelletto ed in generale, con l’interiorità e con la coscienza. Quest’ultimo è quindi semmai un «onto-intellettualismo» (secondo il quale il vero essere è quello interiore) ma ancor più precisamente si è sempre trattato di un idealismo fortemente gnoseologistico – entro il quale la questione prevalente era quella della conoscenza («teoria della conoscenza», o Erkenntnistheorie) e non certo invece l’essere o la realtà. Esso insomma non si preoccupava affatto né del luogo (ideale o reale) dove risiedeva la più autentica e piena realtà, né della possibile costituzione metafisica più intima, e cioè spirituale (ossia immateriale) della realtà stessa. Entro questa visione, quindi, lo Spirito viene invocato solo a fini conoscitivi.
Ebbene molto probabilmente proprio questo è stato lo Spiritualismo al quale si è costantemente rifatta Stein. Infatti mediamente è proprio questo che ritroviamo nel suo pensiero. Eppure però vi sono comunque piuttosto sorprendenti suggestioni che lasciano pensare ad una sua sottostante visione ben più ampia e profonda dello Spiritualismo. Se ne può avere il sentore sia esaminando le idee che ella ebbe in comune con Gerda Walther – la quale professò uno Spiritualismo davvero estremo che addirittura sconfinava nello spiritismo [Vincenzo Nuzzo, “La filosofia religiosa di Gerda Walther e di Edith Stein”, Prospettiva Persona, 103, 2018, 49-52]−, sia esaminando le idee che ella condivise con Hedwig Conrad-Martius – dalla quale attinse il materiale di quei “Metaphysische Gespräche” che furono di così decisiva importanza nella sua opera [Hedwig Conrad-Martius, Metaphysische Gespräche, Forgotten Books, London 2018; Vincenzo Nuzzo, “L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein” < Vincenzo Nuzzo, L’evoluzione nel pensiero di Hedwig Conrad Martius e Edith Stein. | cielo e terra (wordpress.com)>] –, sia infine tenendo conto anche delle possibili assonanze giudaico-esoteriche della sua complessiva visione metafisico-religiosa e soprattutto della concezione dell’anima spirituale [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95]. Ma l’argomento più convincente per sospettare in lei questo genere di Spiritualismo è certamente quello delle sue stesse argomentazioni, riflessioni e menzioni di elementi metafisici di tipo spiritualista.
Entro i suoi testi vi sono sostanzialmente due luoghi dottrinari che giustificano questo. Il primo luogo dottrinario compare nel testo “Der Aufbau der menschlichen Person” (AMP), e consiste nella sua decisa scelta del significato di “spiritus” per concepire ciò che è Spirito, in radicale alternativa con gli altri significati rappresentati da “mens”, “intellectus” e “ratio” [Edith Stein, Der Aufbau …cit., V, II, 1-3 p. 99-103, VII, III, 3-4 p. 114-129]. Laddove ella chiarisce che lo Spirito in quanto “spiritus“ non è altro che il “Pneuma“ divino della tradizione cristiana ed anche il “Ruah“ della tradizione ebraica (equivalente pienamente al “vāyu“ in quanto “soffio“ o “alito“); elementi che compaiono entrambi nel Genesi per indicare lo Spirito divino come quel sottilissimo e mobilissimo elemento aereo che ha il potere di andare «dove vuole». E come vediamo qui ella fuoriesce molto decisamente dal moderno Spiritualismo filosofico-gnoseologista ed «onto-intellettualista».
Il secondo luogo dottrinario compare verso la fine della seconda parte del suo “Endliches und ewiges Sein” (EES) e consiste nel concetto paolino di “Soma pneumatikon”, ossia di fatto la corporalità spirituale [Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9 p. 387-389]. Orbene rispetto a tutto ciò diviene di nuovo estremamente prossima la riflessione esoterico-religiosa giudaica, dato che Stein stessa non esitò a menzionare il termine ebraico per il Pneuma, e cioè “Ruah”. Termine e concetto che si ritrova poi sia nella riflessione ebraica più ortodossa, come in quella di Maimonide [Mosè Maimonide, Il libro dei perplessi, UTET, Torino 2009, II,XXX, 244,20-252,15 p. 431-443], sia in quella più eterodossa di natura cabbalistica [James David Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, 72-86 p. 99-100]. Ma oltre a ciò in particolare il concetto di “Soma pneumatikon” ci approssima in modo straordinario alle caratteristiche dello Spirito pneumatico che poi illustreremo più iin dettaglio grazie a Guardini.
Insomma al cospetto di tutti questi elementi si potrebbe ben pensare che Stein abbia professato una sorta di secondo Spiritualismo (incentrato soprattutto nelle realtà spirituali superiori, o “spiriti puri”, ed inoltre nello Spirito visto soprattutto come Vita divina, e peraltro nel suo significato chiaramente pneumatico).
Eppure questa visione spiritualista ha sempre giocato un ruolo soltanto di secondo piano nel suo complessivo pensiero. Il che è davvero sorprendente, come poi vedremo più approfonditamente nelle conclusioni.
In ogni caso (sia in generale sia rispetto al pensiero steiniano) le cose divengono piuttosto chiare solo quando ci si confronta con il moderno Spiritualismo che è strettamente intrecciato a quel Personalismo del quale Stein è stata senz’altro una dei principali esponenti. È insomma quello che abbiamo constatato nel riflettere sul materiale che ha dato vita al nostro recente saggio sullo Spiritualismo. Questo saggio non è stato pubblicato ma ne abbiamo presentato un’ampia sintesi nel nostro blog [Vincenzo Nuzzo, “Riassunto del saggio dell’autore dal titolo ‘Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo’”. In: Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”. | cielo e terra (wordpress.com)]. Qui ci si confronta infatti con uno Spiritualismo moderno che ha senz’altro molti volti, ma certamente non coincide né con l’«onto-spiritualismo» platonico-gnostico e vedantico né con quel generico Spiritualismo (che si approssima addirittura ad un certo spiritismo) per il fatto di concepire una serie di entità spirituali sovrannaturali delle quali gli “spiriti puri” angelici rappresentano certamente il livello più alto. Anche questo è una sorta di Spiritualismo, e peraltro Stein stessa se ne occupò sia nelle riflessioni che ebbe in comune con Conrad-Martius sia anche nelle sue ponderose traduzioni dei testi di Tommaso di Aquino [Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 1. Übersetzung III, ESGA 23, Herder, Freiburg Basel Wien 2008 II p. 43-98, IV p. 118-134, VIII p. 191-242, X p. 259-306; Edith Stein, Thomas von Aquin, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 2. Übersetzung III, ESGA 24, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, XXII p. 568-612]. Tuttavia questo Spiritualismo si pone molto poco la questione di cosa sia lo Spirito (in assoluto ed oggettivamente), e quindi appena si limita a prendere atto del fatto che nell’universo esistono delle entità spirituali. In ogni caso va detto che comunque Stein si servì non poco di questa dottrina nel sostenere che la persona umana è anch’esse spirito in maniera molto simile a queste entità (specie agli spiriti angelici) [Edith Stein, Excursus sull’idealismo trascendentale, in: Edith Stein, Potenza… cit., g, p. 367-369; Edith Stein, Potenza… cit., p. 387-389; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, VII, 9-11 p. 360-396]. Quello che è certo è che questo complessivo Spiritualismo fu dottrinariamente molto estremo come invece quello personalista non fu affatto (a parte forse in Guardini). Va tuttavia anche precisato che lo Spiritualismo legato intimamente al Personalismo non si negò ad un unico elemento dello Spiritualismo più estremo, e cioè all’identificazione (spesso strettissima) tra Dio e Spirito. E questo senz’altro accadde anche in Stein.

Ebbene nello scenario di questo Spiritualismo personalista domina senz’altro la visione di Nikolaj Berdjaev.
Secondo il quale al Dio in quanto Essere ed in quanto Spirito corrisponde perfettamente l’uomo in quanto persona ed anche quale entità sostanzialmente spirituale; dunque per lui il Dio-Spirito equivale all’Essere nella sua più radicale originarietà. Il suo è senz’altro (almeno in questo senso) lo Spiritualismo più estremista che ritroviamo in tale contesto di pensiero. Lo è però in quanto (almeno in una certa misura) è «onto-spiritualista», dato che identifica il Dio-Spirito con l’Essere stesso. Vi è però (come vedremo) anche un altro Spiritualismo estremista nel contesto del pensiero personalista, ed è quello di Romano Guardini.
Il quale sostiene invece che il Dio-Spirito è l’esatto contrario dell’Essere, cioè è il Pneuma.
Nell’universo personalista vi sono però anche spiritualismi ben più moderati.
Ebbene esamineremo in questo articolo in maniera sistematica tutte queste visioni spiritualiste per mezzo di un’analisi testuale che costantemente terrà presente lo Spiritualismo steiniano come primario termine di confronto. Per una trattazione completa dell’intero panorama di pensiero qui implicato rimandiamo ovviamente al nostro saggio, dato che comunque in questo articolo considereremo solo alcuni pensatori personalisti. In particolare prenderemo in considerazione Berdjaev, Guardini, Maine de Biran e Mounier. Siamo consapevoli che lo scenario dello Spiritualismo non può essere affatto esaurito nel trattare questi autori; e tuttavia, data l’importanza decisiva (già giustificata) che ha lo Spiritualismo personalista, ci sembra che per il momento sia sufficiente questo. Per esempio va fatto notare che in questa nostra indagine c’è un grande assente, e cioè Blondel, ossia il massimo teorico dell’intendimento azionistico dello Spirito. Ed un altro grande assente in questa trattazione sarà anche Bergson (senz’altro esponente di uno Spiritualismo estremamente moderno e quindi vitalistico-materialistico). Ebbene, il motivo di tale assenza è semplicemente il fatto che non abbiamo letto un numero sufficiente di testi di questi autori. Intanto, comunque, è nostra norma trattare solo degli autori dei quali abbiamo letto e meditato i testi in modo ampio e profondo. Comunque vedremo delinearsi la presenza di questi pensatori entro la discussione del pensiero di Mounier.
Nel corso della nostra trattazione accenneremo soltanto molto brevemente alla possibile portata spiritualistica della visione metafisico-religiosa di Eckhart (ma senza poterci in alcun modo approfondire nella sua discussione). Per la precisione va detto però che egli concepì soprattutto un fortissimo «onto-intellettualismo», secondo il quale il Dio-Spirito è in primo luogo una suprema sostanza intellettuale (e tuttavia una sostanza assolutamente non ontica, e quindi molto prossima al concetto di Spirito pneumatico). Non a caso il suo Dio-Intelletto è decisamente apofatico. Ovviamente, a causa di tutto ciò, questo «onto-intellettualismo» non può coincidere in alcun modo a quello che abbiamo riconosciuto nel convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico.
Aggiungeremo comunque (con Steinhart) anche una del tutto moderna riflessione sullo Spirito in modo da poter comprendere alla fine in che modo questa lunghissima tradizione di pensiero si sia tradotta oggi in una riflessione sostanzialmente riduzionistica e di vedute anche estremamente ristrette
In ogni caso va detto in partenza che lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più moderato, pragmatico e meno estremista. Ma comunque esso ha un’estrema importanza storica dato che il pensatore francese dedicò tutte le sue energie a quella rivista “Esprít” nella quale di fatto lo Spiritualismo moderno trovò la sede privilegiata della sua esposizione (dato che alla rivista presero parti attiva pensatori insieme personalisti e spiritualisti, come in particolare Lavelle e Le Senne).
E con ciò risulta chiaro che nel corso della nostra investigazione vedremo chiaramente che la concezione dello Spirito si allontana gradualmente dalla più radicale Trascendenza e contro-razionalità per divenire sempre più immanentistica e razionalista. Anzi forse possiamo considerare Berdjaev e Guardini come ricadenti in una sorta prima parte (o primo versante) della concezione dello Spirito, ed invece Maine de Biran e Mounier come ricadenti decisamente nella sua seconda parte (o secondo versante). Steinhart si pone poi decisamente fuori di entrambe le parti del moderno Spiritualismo.
In conclusione va da sé che qui stiamo trattando unicamente di uno Spiritualismo moderno assolutamente non convenzionale, dato che esso molto spesso si sovrappone (fino a cancellarla) a quella visione solo vagamente e tiepidamente spiritualista che intanto (senza assumere alcuna forma personalista) aveva vissuto e prosperato entro il pensiero moderno (da Cartesio in poi).
E veniamo quindi all’analisi testuale dei vari autori

I- Nikolaj Berdjaev
Lo Spiritualismo di questo autore si lascia riconoscere ed analizzare per mezzo di tre tra le sue opere: −
“Das Ich und die Welt der Objekte” (“L’Io e il mondo degli oggetti”) (DIWO), “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (SC)
In generale Berdjaev sostiene che l’Io è spirito nella misura in cui è persona. Il che significa che è trascendente non solo rispetto al mondo, ma in particolare rispetto a quell’irreale mondo che si costituisce per via filosofico-gnoseologica specie per mezzo di quel ricorso all’universale (come norma assoluta) che obiettiva qualunque realtà ideale (rendendola così solo apparente mondana e quindi esistente) al solo scopo di renderla rigorosamente conoscibile. In altre parole l’obiettivazione in nome dell’universale ricostituisce un mondo di soli oggetti conoscibili, e non invece il reale mondo degli esistenti.
Ma intanto per lui l’Io in quanto persona non può sottomettersi a questa dimensione oggettivo-oggettuale senza perdere la propria natura spirituale. Dato che, se ciò accade, esso risulterà separata invalicabilmente dagli oggetti (conosciuti e conoscibili, ossia intelligibili) con la conseguenza principale di perdere la sua possibilità di comunicazione con le entità spirituali che le sono affini, ossia gli altri Io in quanto persone. Oltre a ciò l’Io in quanto persona perderà in tal modo uno dei suoi caratteri ontici primari, e cioè quella sua trascendenza rispetto al mondo che fa di esso qualcosa di radicalmente diverso da una cosa. Trascendenza che poi risale addirittura all’equivalenza assoluta che esiste tra persona umana ed essere in quanto creativo, e quindi radicalmente originario.
Ecco allora che lo Spiritualismo di Berdjaev si lascia in tale complesso comprendere in primo luogo nei termini della trascendenza dell’Io personale-spirituale rispetto a qualunque oggettività-oggettualità mondana. Orbene (come abbiamo già detto) l’equivalenza da lui istituita tra persona, essere e spirito (in particolare divino) fa sì che qui si possa ritrovare una certa dose di «onto-spiritualismo» − specie nel senso che lo spirito personale equivale all’essere per eccellenza. Tuttavia Berdjaev non scade però mai da questa convinzione nel tipico dualismo trascendentista (di stampo platonico) che caratterizza il vero «onto-spiritualismo», secondo l’idea che l’unica realtà sarebbe quella trascendente ossia essenziale-ideale.
Anzi al contrario egli si esprime decisamente contro qualunque dualismo spirito-carne, ed in questo è decisamente anti-platonico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43].
Naturalmente comunque risulta evidente che egli è totalmente avverso ad uno Spiritualismo in qualunque modo e misura assimilabile all’intellettualismo gnoseologistico. Egli infatti non concede alcun potere né alcun diritto all’universale come istanza dirimente di obiettivazione delle entità astratto-ideali, anzi si oppone radicalmente a questa visione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 4 p. 103-109, III, 1 p. 113-122, III, 2 p. 143-147, III, 3 p. 148-162, V, 2-3 p. 221-249; Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI-XII p. 323-349]. In particolare egli rimprovera all’universalismo gnoseologistico l’impossibilità che da esso possa scaturire una vera e propria “comunione spirituale” tra persone a loro volta spirituali, ossia una società autentica ed intesa secondo il lemma primario dell’amore unitivo (e peraltro autenticamente cristiana). Insomma per lui la prospettiva unicamente gnoseologistica (che è introdotta dal ricorso all’universale) impedisce quella dimensione comunitario-spirituale della società che prevede per davvero una relazione tra “io” e “tu”, ed inoltre rende impossibile qualunque individualismo egocentrista.
E tutto questo quindi pone il suo Spiritualismo decisamente in conflitto con quello steiniano, entro il quale per varie vie la dimensione spirituale coincide invece esattamente con quella intellettualistico-gnoseologistica – essa si incentra soprattutto nell’atto sostanzialmente intellettuale (sebbene dalla valenza vagamente spirituale) per mezzo del quale l’Io rivolto a sé stesso (cioè ai propri vissuti) assume il pieno possesso di sé stesso [Edith Stein, Der Aufbau… cit., VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza… cit., V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches… cit., V, 5, 1 p. 239-241 ,VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2-4 p. 362-374]. E va detto che questo approccio finì per permanere anche laddove la sua riflessione investì dimensioni decisamente metafisico-religiose, teologiche (ed in parte ultra-filosofiche) come quelle relative all’«Io sono» biblico, al Logos cristico ed alla dinamica trinitarie. Si tratta insomma di quella seconda parte di EES entro la quale ella di fatto si stava apprestando a passare alla filosofia alla mistica. In altre parole il suo Spiritualismo non riuscì mai a liberarsi dell’ipoteca filosofico-gnoseologistica (il cui interesse primario era la teoria della conoscenza) che la Fenomenologia husserliana aveva gettato sul suo pensiero.
Ma vediamo se in Berdjaev a livello testuale esistono ulteriori elementi che siano a supporto di queste nostre affermazioni e permettano anche di allargarle.
Iniziamo da DIWO. Un aspetto particolare delle sue riflessioni al proposito è quello che riguarda la società in quanto “comunione spirituale” e quindi comunione di persone [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., III, 3 p. 153-156, V, 3 p. 232-249]. Qui egli chiarisce infatti che il tendere verso la comunione implica l’uscita da sé stesso dell’Io (apertura) per andare verso l’altro, per cui alla fine ciò comporta l’unione perfetta tra le persone spirituali. Ma ciò avviene puramente sul piano dell’esistenza e non invece della gnoseologia, quindi è totalmente indipendente dal rapporto tra universale e particolare. Peraltro in SC Berdjaev chiarisce che in una comunità di vere persone (com’è quella che dovrebbe insorgere in una società cristiana), ossia una vera comunione spirituale, tutto ciò che è universale è anche cosmico, e quindi non prevede alcuna separazione di oggettualità in forza dell’universale, ma invece solo una perfetta unione che corrisponde alla Totalità dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 323-326]. In ogni caso tutto ciò parte solo dall’interiore, non avendo invece nulla a che fare con la dimensione esteriore della società, cioè scaturisce solo da quel «dentro» umano dove c’è Dio. Quindi la comunione non insorge affatto senza la presenza simultanea di Dio.
Più precisamente essa si compie a partire dallo spirito, e precisamente dallo Spirito divino. E con ciò avviene una vera e propria unione degli opposti. E quest’ultima non è altro se non quella dimensione ontica (la “coincidentia oppositorum”) che Nicola Cusano aveva inteso come raggiungimento di un altissimo livello sia conoscitivo che ontologico, dato che esso sta ormai ben aldilà della logica così come anche ben aldilà di qualunque separazione naturale tra individualità cosali e personali; ossia si trova di fatto ben oltre il principio logico di contraddizione [Nicola Cusano, La dotta ignoranza, Fabbri, Milano 1996, I, X p. 73-75].
Quindi per Berdjaev la vera dimensione sociale è solo religiosa e per nulla invece conoscitiva (non è insomma affatto una comunità del sapere). E ciò sottolinea la perfetta equivalenza tra persona umana e spirito divino, ossia l’umano-divinità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ciò significa allora che il suo Spiritualismo è decisamente religioso in quanto si incentra su questo fondamentale elemento.
Su questa base appare evidente che egli identifica lo Spirito con il soggetto personale (umano o divino che sia). Il che lo porta poi a contestare qualunque idea di “spirito oggettivo” [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 2 p. 39-48]. Ma sta di fatto che Stein (insieme ad Husserl e senz’altro sulla scorta di Hegel) concepì fortemente lo spirito in questo modo [Edith Stein, Der Aufbau…cit., II, I, 1-4 p. 18-26, VII, III, 1-4 p. 103-127; Edith Stein, Psicologia…cit., II, I, 2 p. 182-184; Edith Stein, Potenza…cit., II, 1-3 p. 72-90]. In particolare però Berdjaev si astiene da qualunque affermazione dell’astrazione dello spirito soggettivo, ed infatti sottolinea qui la carnalità e concretezza dello spirito personale. Questo significa allora che il suo Spiritualismo non si nega affatto all’ammissione dello spirito oggettivo allo scopo di affermare la trascendenza dello Spirito in termini astratti. E quindi esso non è assolutamente trascendentista in questo senso. Anzi si pone come intendimento decisamente concreto dello Spirito; sebbene però nel contesto di un intendimento senz’altro interiore e non esteriore dello Spirito stesso.
Per contro egli deplora il soggettivismo sicuramente deteriore (corrispondente all’individualismo che sicuramente per lui deriva dall’Idealismo). Infatti precisa che esso insorge quando l’universale viene contrapposto al particolare-individuale nel contesto di quell’oggettivazione della quale abbiamo già parlato. Essa consiste in particolare nel trasformare in oggetto ciò che invece non lo è affatto, ossia quell’Io che è appunto spirito.
E questo sottolinea quindi che il suo Spiritualismo non solo è religioso, ma intanto non manca di affiancarsi esso stesso non poco al tradizionale Spiritualismo del pensiero moderno, secondo il quale l’interiore umano è spirituale. Tuttavia non lo fa fino al punto da considerare l’universale (di significato gnoseologistico) come la dimensione alla quale l’interiore umano debba sottomettersi per poter essere spirito. E questo previene decisamente il configurarsi di uno Spirito oggettivo in quanto esteriore, e cioè di fatto quell’edificio della Cultura umana che Husserl e Stein intesero come la forma più tangibile e concreta dello Spirito stesso. Laddove poi la Cultura umana corrisponde all’universale stesso una volta obiettivato in forma di conoscenza. Si tratta infatti in primo luogo della veridicità inter-soggettiva del conoscere, e quindi della sua affidabilità scientifica.
Dunque per Berdjaev in via di principio lo spirito resta sempre solo il soggetto stesso, e tuttavia lo è in modo radicalmente diverso da quanto previsto dalla gnoseologia. Perché lo Spirito per definizione è tutt’altro che un oggetto (a causa della propria trascendenza). Semmai invece l’oggettivo-oggettuale stesso riceve il suo senso unicamente nello Spirito, ossia entro la dimensione spirituale individuale e soggettiva e non invece universale-oggettiva. Ciò significa che l’Io è Spirito totalmente di per sé (in quanto interiore umano tout court) e non invece in forza della sua sottomissione ad un paradossale Io universale impersonale com’è l’Io puro di Husserl [Angela Ales Bello, L’universo nella coscienza, ETS Pisa 2003, 1, 2-4 p. 130-139] ed in parte anche di Stein. In altre parole l’Io è da considerare Spirito senza alcuna necessità che esso venga oggettivato in alcun modo e ed in alcuna misura. E quindi la sua conoscenza resta affidabile anche se essa resta puramente soggettiva, e quindi senza mai divenire oggettiva.
Fu esattamente questa convinzione che portò Berdjaev a considerare la filosofia un’opera unicamente soggettiva, e quindi basata pienamente sull’intuizione soggettuale senza sottomissione ad alcuna oggettualità [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1-2 p. 11-48]. La filosofia infatti per lui tutto può essere tranne che scientifica. Proprio per questo essa prevede non solo un filosofo che in primo luogo sia un esistente-vivente e poi prevede anche necessariamente una filosofia dell’esistenza che sia insieme anche filosofia dell’essere. Ecco allora che lo Spiritualismo moderno non convenzionale in qualche modo (almeno in Berdjaev) si oppone decisamente all’intendimento della Filosofia come scientifica, per avvalorare invece la filosofia dell’esistenza e dell’essere.
Ma passiamo ora a SC.
Qui innanzitutto Berdjaev chiarisce che l’onticità dello Spirito consiste esattamente nell’illimitata creatività libera che caratterizza l’essere, e che si manifesta in una incessante generazione del nuovo che è poi continuo incremento dell’essere stesso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 182-185]. Il che poi, dal lato dell’agire della persona umana, corrisponde ad una volontà illimitatamente libera che equivale a sua volta alla creatività stessa. Ebbene, proprio a causa di tutte queste caratteristiche, la persona è spirito: dato che lo Spirito è esattamente l’essere nella sua creatività illimitata. Ci troviamo insomma nuovamente di fronte da una certa dose di «onto-spiritualismo». Ma solo non nel senso che la vera realtà sia quella spirituale-trascendente (peraltro fortemente statica) bensì nel senso che lo Spirito non è altro che l’essere nella sua illimitata creatività e quindi nel suo illimitato dinamismo. Il che fonda uno Spiritualismo che prende certamente l’essere originario a suo paradigma, ma non nel senso della stasi bensì nel senso dell’illimitato dinamismo.
In questa sede innanzitutto Berdjaev deplora che lo Spiritualismo possa basarsi su un radicale dualismo spirito-carne; il quale deve invece venire ammesso senza alcuna aspirazione a risolverlo né senza alcuna aspirazione a vederlo come un’opposizione inconciliabile [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Rrefazione, p. VII-IX (Adriano Dell’Asta); Nikolaj Berdjaev, Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo. In memoria di Vladimir Solov’ëv, in: Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1 p. 3-8]. Questa presunzione (apparsa secondo lui nel Cristianesimo sulla scorta dell’antico dualismo spirito-materia della metafisica greca, e che peraltro è sempre stato fortemente platonico) rende impossibile concepire quella carnalità, mondanità e concretezza dello Spirito che si manifesta nella persona umana. E pertanto fa dello Spiritualismo una dottrina metafisico-religiosa totalmente astratta che non ha poi alcuna utilità nella vita mondana, e quindi perde per questo qualunque interesse. Infatti (come poi vedremo nelle conclusioni) se lo Spiritualismo ha una sua validità (ed in tutte le sue forme, sia antiche che moderne), ciò accade solo perché esso diviene una dottrina utile alla prassi umana nel mondo.

Più precisamente (specie nella sua forma più religiosa) essa ci serve per tener continuamente presenti quelle fonti inesauribili dell’essere la cui disponibilità ci permette di non lasciarci schiacciare dalla spietata esteriorità mondana, dominata com’è da quelle Leggi della Natura che non hanno nulla di spirituale.
È esattamente in questo senso che si può (e secondo noi anche si deve) professare una fede cristiana che non abbandoni mai la certezza che lo Spirito ci soccorre continuamente nel nostro esistere; e specialmente nei suoi momenti più duri e difficili. Bisogna dire che oggi però questa non è affatto la fede cristiana che viene usualmente insegnata e praticata. Essa è invece semmai di segno diametralmente opposto, e quindi è decisamente anti-spiritualista, materialista ed immanentista (fino ad essere perfino decisamente atea).

A completamento di queste riflessioni Berdjaev però condanna decisamente quel monismo assoluto che egli vede rappresentato tipicamente in Plotino [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 39-43], ma che certamente (diremmo) si era manifestato molto prima nel famoso non-dualismo di Śankara – nel presupporre la totale interiorità dell’essere mondano all’Uno divino trascendente [Georges Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì 2007, I, II, p. 138-162]. Infatti per il filosofo russo la persona, in quanto molteplicità (ed anche unità di per sé) è in decisa competizione con l’Uno assoluto neoplatonico (ed ovviamente anche śankariano). Egli condanna così il monismo platonico affermando la necessità assoluta del dualismo (spirito-carne) della persona. Ma afferma anche la necessità di un monismo che sia relativo in quanto compatibile con il dualismo nel contesto della postulazione della divinità del mondo (monismo divino).
Inoltre in questa sede Berdjaev distingue inoltre molto opportunamente lo Spiritualismo autenticamente filosofico-metafisico e metafisico-religioso da quello della moderna teosofia, che poi si appaia pure all’ancora più deteriore moderno spiritismo (ossia quello di dottrine arbitrarie, superstiziose ed anche pericolose come quella di Alain Kardec). Egli sottolinea infatti che lo Spirito è in primo luogo unità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-361]. Ma sta di fatto che la moderna teosofia (specie quella paradossalmente evoluzionistica di Rudolf Steiner) scompone l’unità dello spirito umano nella serie di gradi di una fantasiosa evoluzione planetaria, ed inoltre nega così l’esistere di un Uomo prototipico divino quale radice originaria della spiritualità umano-personale stessa, ossia quel Logos cristico (quale Umanità originaria) che è poi ciò che fonda la stessa umano-divinità. A ciò si associa poi lo spiritismo più volgare e superstizioso che abbiamo appena menzionato (quello, per intenderci, che ipotizza addirittura una Rivelazione cristiana che avvenga ad opera degli spiriti dei morti che si presentano ai medium) nel suo scomporre l’unità spirituale umana in una serie di realtà elementari, come ad esempio il corpo astrale.
A tutto ciò si aggiungono poi gli elementi desumibili dai suo commento alla visione di Dostoevskij (SC), il quale colse la natura dello Spirito in modo davvero originale ed estremamente intenso.
Lo scrittore russo vide infatti lo Spirito nella stessa profondità dell’uomo e precisamente nella forma di un abisso turbinoso ed infuocato (di natura decisamente dionisiaca) entro il quale tutto è davvero possibile nel contesto di una creatività libera davvero senza limiti [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., I, p. 8-25, I p. 32-35, I p. 40-47, III p. 49-57, IV p. 67-70, IV p. 75-81, V p. 85-93, VI p. 104-109, VIII p. 160-166]. Lo Spirito è dunque per davvero il luogo nel quale ha sede l’illimitata possibilità della trasfigurazione dell’essere. Il che significa che lo Spiritualismo più autentico deve tenere conto esattamente di questa dimensione come assolutamente fondamentale.
Fu su questa base che non a caso Dostoevskij intuì infallibilmente non solo la rivoluzione russa ma anche quella universale, che è poi rivoluzione dello spirito ed apocalittica, e quindi si verifica per definizione solo alla fine dei tempi, cioè nel momento in cui può avvenire la davvero totale trasfigurazione dell’essere.
Ciò significa allora che l’onto-spiritualità è fondamentalmente dinamismo creativo e nient’altro. E se esso non viene inteso in questo modo, allora è molto probabile che sia inautentico e spurio.
Tanto è vero che Dostoevskij intuì l’evento della Rivoluzione proprio nelle profondità non solo dello spirito umano ma anche dello spirito in assoluto. Non a caso (come abbiamo visto) Platone vide nello spirito esattamente la profondità nucleare e centrale dell’intero essere (vedi voce bibliografica: Friedländer), e quindi vide anche lui in esso quel nucleo dal quale procede qualunque totale trasfigurazione dell’essere.
Peraltro in SC Dostoevskij aveva chiarito che la vera rivoluzione (quella che davvero trasfigura l’essere) avviene solo nel profondo (ossia sul piano delle premesse dell’essere) e non sul piano dell’esteriorità superficiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339].
Ecco. Questo è quanto possiamo comprendere della concezione dello spirito secondo Berdjaev. Ne risulta chiaramente che dal suo punto di vista lo Spiritualismo va concepito senz’altro sul piano radicalmente ed oggettivamente ontico, ma anche in una perfetta coincidenza tra l’onticità spirituale umana e quella divina, che poi corrisponde all’essere stesso. Sicuramente si tratta con ciò di uno Spiritualismo molto estremo nel contesto del pensiero moderno, e peraltro in esso non si trova quasi alcuna traccia dei tratti del classico e connvenzionale Spiritualismo moderno (che peraltro si presenta anche nel Personalismo), e cioè soprattutto l’identificazione dello Spirito con la Ragione umana e divina e con l’interiorità egoica e mentale. È evidente che quindi che lo Spiritualismo di Berdjaev entra decisamente in conflitto con quello steiniano.

II- Romano Guardini
Qui ci riferiremo soprattutto al suo libro “Der Herr” (DH), mentre ulteriori sue riflessioni sullo Spirito si ritrovano anche in “Welt und Person” (WP) – dato che in questo testo egli tenta di giustificare la spiritualità che caratterizza la persona umana. Ma per questo rimandiamo al nostro saggio sul Personalismo.
L’idea guardiniana di Spirito può quindi venire soprattutto constatata laddove (in DH) egli ci parla dello Spirito divino, ossia del Logos cristico, ovvero Colui che egli ci mostra nella forma del Signore dell’Essere.
E questo rende ovviamente (almeno in via di principio e piuttosto superficialmente) il suo Spiritualismo abbastanza simile a quello di Stein. Vedremo però che nei fatti le cose non stanno affatto così.
Anche per lui, così come per Berdjaev, spirito umano e Spirito divino sono la stessa cosa in grazia del dono della somiglianza fatto da Dio all’uomo [Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009, I, 4-5 p. 24-33, II, 10 p. 81-89, III, 4 p. 104-107]. Emerge però intanto un’importante distinzione entro lo Spiritualismo propriamente cristiano. Perché qui si sottolinea che la somiglianza uomo-Dio sussiste rispetto al Logos, e non invece rispetto all’Atto puro della classica metafisica teologica scolastico-tomista. Infatti in maniera molto simile ad Eckhart – il quale affermò che Dio non è un “filo d’erba” [Meister Eckhart, Predica 4 (Q 77), in: Loris Sturlese, Meister Eckhart, Bompiani, Milano 2014, p. 49-59; Meister Eckhart, Predica 5 (Q 22), ibd., p. 63-79] −, Guardini rifiutò ogni enticismo naturalista nella concezione di Dio, e quindi qualunque sua considerazione come “Ens commune” (per quanto assolutamente perfetto e compiuto in quanto totale coincidenza di potenza ed atto). Dio insomma per definizione non è in alcun modo un «qualcosa», e proprio su questo si basa la Sua profonda somiglianza con lo spirito umano in quanto persona. Con paradigma massimo in Dio, dunque, lo Spirito è l’esatto contrario dell’essere. Semmai invece (come anche in Berdjaev) è il dinamismo puro. E bisogna dire che questo dinamismo nella concezione di Dio corrisponde molto bene a quel “prospettivismo” con il quale Eckhart intese l’esistenza di Dio e la sua relazione con l’uomo e il mondo [Dietmar Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck 2014, I, 5 p. 63-73]. E con questo termine va inteso un Assoluto divino che in primo luogo è incessante tensione amorosa verso l’uomo e il mondo, e che non a caso sfocia in un’assolutamente continua “nascita divina” nel cuore dell’uomo [Meister Eckhart, Predica 13 (S 102), in: Sturlese Loris, Meister Eckhart…cit.,, p. 186-203; Dietmar Mieth, Meister Eckhart…cit., Einl, p. 17, IV, 16 p. 160-163, IV, 19 p. 173-174]. Tutto questo significa allora che anche la complessiva visione di Eckhart andrebbe vista come parte integrante di uno Spiritualismo simile a quello di Guardini. Ma siccome non c’è qui assolutamente lo spazio per trattare del suo complessissimo pensiero, ci limiteremo a rinviare il lettore agli articoli che abbiamo dedicato ad esso ed al tema più generale dell’onto-dinamismo [Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016 < https://mondodomani.org/dialegesthai/vn02.htm >; Vincenzo Nuzzo, “Dinamismo e onto-dinamismo”, in: Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017 p. 163-227; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: I.v.a.n Project, Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XXIV, 2018, 41-68].
Quindi questo genere di visione (diversamente da quella di Berdjaev) non può essere in alcun modo un «onto-spiritualismo». Siamo però qui in ambito religioso ed anche cristiano, e quindi dobbiamo trovarci di fronte ad una concezione molto specifica dello Spirito. E quella che più sembra appropriata ad essa è ka concezione dello Spirito come Pneuma, vento, aria, soffio, spirito che va dove vuole. Come abbiamo visto, a tale concezione cristiana corrispondono perfettamente il concetto ebraico di “Ruah” e quello vedico di “vāyu”. Si parla insomma qui di una sostanza aerea, sottile ed immateriale (ma intanto esistente) che non cessa mai di muoversi e soprattutto nel suo muoversi genera continuamente essere. Esso è dunque se mai la premessa dell’essere ma non l’essere stesso. E qui possiamo cogliere nuovamente il concetto berdjaeviano di essere in quanto realtà radicalmente originaria che non cessa mai di muoversi in un incremento costante di sé stesso che è anche trasfigurazione di tutto quanto si trova davanti.
Bisogna però a questo punto ammettere (come abbiamo già detto) che questo concetto di Spirito somiglia almeno ad una parte di quello che anche Stein affermò in maniera secondaria in diverse sue opere.
E questo genera una delicatissima questione critica che affronteremo nelle conclusioni.
In ogni caso per Guardini questo Spirito divino è esattamente il Paraclito, ossia lo spirito consolatore e quindi lo Spirito Santo vero e proprio [Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, II, 9 p. 143-151]. Dunque è lo Spirito osservato da un punto di vista sostanzialmente teologico-religioso, ossia di fatto quello Spirito divino-amoroso che compare nell’esperienza religiosa cristiana (del quale parlavamo prima). Pertanto lo Spiritualismo pneumatico (fortemente impersonato intanto da Guardini) si caratterizza per essere appunto fortemente religioso-teologico. Le sue caratteristiche rientrano quindi necessariamente in una certa dogmatica, che a sua volta serve gli scopi di un determinato ritualismo e pietismo. Il che riduce senz’altro la portata metafisica dello Spirito stesso, irrigidendolo in determinati schemi, e peraltro schemi messi su per esigenze umano-terrene oltre che ecclesiali. Resta però sempre intorno ad esso un certo alone di indefinizione che permette di ricostruirne l’immagine completa di una realtà estremamente inafferrabile e misteriosa. E forse questa è l’immagine più appropriata dello Spirito che si possa trovare in metafisica.
Guardini stesso ci lascia intravvedere questo commentando il curioso «vai e vieni» di Gesù nei Vangeli, ossia il suo continuo apparire e sparire [Romano Guardini, Der Herr… cit., VI, 2 p. 497-504, VI, 4-6 p. 513-531]. Il che ci lascia intravvedere una delle caratteristiche principali dello Spirito pneumatico, ossia la sua assoluta a-località, oltre che a-temporalità. Cosa che poi ancora una volta sottolinea la sua realtà assolutamente non ontica, o almeno iper-ontica. Infatti Guardini sottolinea che il corpo (pur integralmente carneo-materiale) di Gesù non è mai stato sottomesso alla condizione mondano-terrena della spazio-temporalità.
Ma proprio qui emerge il punto cruciale di questa concezione dello Spirito. Perché pur possedendo le chiare caratteristiche dello Spirito penumatico, Gesù non solo fu corpo ma inoltre risorse esattamente come corpo. Ecco allora che il Corpo Risorto di Cristo rivela la natura corporale che è insita nello Spirito pneumatico (nonostante la sua non sottomissione alla spazio-temporalità), che appunto emerge in maniera piena dopo un evento (come la Resurrezione) che lo svincola decisamente e definitivamente dalla mondanità terrena, permettendo così ad esso di essere pienamente ciò che latentementeera sempre stato. E cosa sia questo ce lo dice chiaramente Guardini stesso – è corporalità spirituale (o anche, viceversa, spiritualità corporea), e come tale essa è radicalmente diversa da quella del “corpo animale” (“Tierkörper”). Ma proprio per questo si tratta della massima pienezza della spiritualità.
Ecco allora che lo Spirito pneumatico è quanto di meno ontico possa essere immaginato eppure è corporale al massimo grado; anzi esso porta perfino a compimento ultimo la corporalità stessa. Ed eccoci dunque di fronte a quel concetto paolino di “Soma pneumatikon” che anche Stein aveva pienamente riconosciuto.
E tuttavia dall’altro lato Guardini ci mostra che una certa forma di onticità qui comunque sussiste, e precisamente è quella ormai unicamente interiore e per nulla più esteriore. Anzi questa va considerata perfino una certa forma di “realtà” (“Wirklichkeit”). Ciò in particolare nel senso che l’ontologia di Gesù era sempre stata la stessa, senza alcuna frattura tra fase corporale e fase spirituale.
Tuttavia vi è anche un altro aspetto dell’«andare e venire» spirituale-penumatico di Gesù che viene posto in evidenza da Guardini, e cioè il fatto che nell’atto finale di questo suo modo di esistere (l’Ultima Cena ed infine Emmaus) fu la sua promessa di mandare giù nel mondo lo Spirito Santo nel mentre Lui tornava dal Padre per preparare un posto per i figli di Dio nella Sua Casa. Ebbene, quello Spirito che scende nel mondo non è altro che il Cristo stesso divenuto ormai definitivamente Corpo Spirituale; insomma quello stesso Cristo che si era trasfigurato in Corpo di Luce sia sul monte Tabor sia anche nel sepolcro. E nello stesso tempo Egli è il Logos nel quale «fin dal principio» esistono tutte le cose. Ecco allora che lo Spirito diviene il mondo stesso e lo diviene con le stesse sembianze del Cristo. Ed eccoci dunque a quella “ontologia cristo-centrica” che anche Stein aveva intuito [Edith Stein, Psicologia…cit., II, 2, 1-4 p. 217-309, “Osservazioni conclusive”, p. 312-327; Edith Stein, Ber Aufbau…cit., II, III, 2-3 p. 30-32, VII, II, 1-3 p. 78-92,VII, III, 2-4 p. 107-127; Edith Stein, Endliches…cit., VII, 8-9 p. 358-391, VIII, 3,1-3, p. 422-442; Donald L. Wallenfang, “Awaken, o Spirit : the vocation of becoming in the work of Edith Stein”, Logos, 15, 4 (2012), 57-74 ; Donald L. Wallenfang, “The hearth of the matter : the substance of the soul”, Logos, 17, 3 (2014), 118-142 ; Jane Duran, “Edith Stein, ontology and belief”, Hey.J., XLVIII (2007), 707–712 ; Ann W. Astell, “From ugly duckling to swan : education as spiritual transformation in the thought of Edith Stein”, Spiritus, 13, 1 (2013), 1-6 ; Sarah R. Borden, “Introduction to Edith Stein’s ‘The interiority of the soul’ : from finite and eternal Being”, Logos, 8, 2, (2005), 178-182; Sarah Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholica University Press, Washington 2010, 1 p. 16-25, 2 p. 44-48, 2 p. 54-58; Philibert Secretan, “Essence et personne”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 26, 1979, 481-504; Philibert Secretan, “L’homme spirituel et la Creation”, Carmel, 117 (10) 2005, 45-63; Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335], portando così a compimento addirittura quella ricerca filosofico-fenomenologica circa il riconoscimento di un mondo di pure essenze che aveva condiviso soprattutto con Hering [Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, di Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543]. E ciò implica allora che molto probabilmente quel suo stesso (così filosofico-razionalistico) concetto di “spirito oggettivo” aveva subito nel suo pensiero un’evoluzione che infine giunse alla sua forma più mistico-contemplativa, e che non a caso coincide fortemente con lo Spirito pneumatico in quanto mondo.
Dunque lo Spirito pneumatico non solo è corpo ma è anche perfino il mondo stesso. Per la precisione è il mondo nella sua infinita estensione ma ancora più come essenza divina che sta al centro di tutte le cose (esattamente come presupposto nel concetto vedico di “jīvātman”); insomma è il mondo divino stesso che anche Berdjaev auspicava nel contesto di un monismo relativo. Insomma è il mondo impregnato del divino. E del resto Guardini stesso afferma qualcosa di molto simile nel considerare il Regno dei Cieli come una realtà alla piena portata dell’azione umana e della storia [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585].
Del resto il pensatore italo-tedesco ci mostra anche come il mistero riguardante lo Spirito pneumatico era stato già rivelato con l’aprirsi dei Cieli nel momento del Battesimo di Gesù da parte di Giovanni [Romano Guardini, Der Herr… cit., , 4 p. 19-27, I, 5 p. 27-34]. Anzi lo Spirito stesso era disceso su Gesù trasformandone il corpo definitivamente in ciò che intanto era sempre stato latentemente, e doveva ritornare ad essere dopo l’Incarnazione. Non a caso, all’“irruzione dall’Altezza” (“Ausbruch aus der Höhe”) rispose esattamente in quel momento un’accentuazione estrema dell’atto di Incarnazione, ossia la pienezza della kenosis – dato che Gesù si abbassava alla necessità del Battesimo come l’ultimo degli uomini di carne e materia. Si tratta di un “abbassarsi alle profondità umane” (“Herabsteigen in die Menschentiefe”) da parte di Dio stesso per mezzo del Figlio. Ma questa risposta è di importanza decisiva, perché grazie alla simultaneità dei due eventi la discesa si trasforma in ascesa a causa del fatto che di colpo la distanza tra Cielo e Terra è stata annullata.
Insomma è come se un incommensurabile elastico, fino a quel momento teso spasmodicamente fino al limite della rottura, e quindi dilatatosi al massimo (a causa di quella Caduta che era stata estrema separazione tra Cielo e Terra), grazie alla kenosis cristica ora ritornasse alle sue infinitesimamente minuscole dimensioni iniziali (quelle della Prima Creazione), ossia alla totale coincidenza dei suoi estremi.
Ed ecco allora che, come dice Guardini, lo Spirito Santo “eleva l’uomo sopra sé stesso” nel senso della sua ri-assimilazione dell’uomo a Dio dopo gli eventi tragici della separazione avvenuta con il Peccato e la Caduta. Dunque nel farsi corpo e mondo, lo Spirito pneumatico ha anche il potere di ri-assimilare Cielo e Terra, ossia di risolvere proprio quel dualismo che Berdjaev ritenne assolutamente inappropriato alla realtà spirituale. Dunque la sua a-località va intesa anche come ubiquitarietà. Infatti lo Spirito «che va dove vuole» è anche questo – esso si trova già dove voleva arrivare, e quindi di fatto occupa dinamicamente tutto lo spazio dell’essere. Solo in questo senso, dunque, esso è Essere, ossia come Totalità dinamica dell’essere.
E questo fonda anche un’altra osservazione di Guardini, ossia che lo Spirito è Gesù stesso, in quanto è persona della Trinità (“in lui”). Eppure ciononostante sulle sponde del Giordano lo Spirito scende su di Lui (“sopra lui”) come se fosse l’ultima creatura di questo mondo. Siamo insomma davvero di fronte ad una realtà caratterizzata dall’assoluta inafferrabilità in quanto totale non prevedibilità della localizzazione.
Ma intanto lo Spirito pneumatico in quanto mondo è già di per sé intuitivamente lo stesso Regno dei Cieli in terra, ossia il mondo impregnato della presenza divina. Al proposito però Guardini ci invita a comprendere un’altra serie di aspetti riguardanti il potere di questa realtà agente che egli definisce addirittura “violenza divina” (“göttliche Gewalt”) [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 7-9 p. 40-57]. E si tratta esattamente di quell’irresistibile potere sul male che permise a Gesù di guarire ogni sorta di malati e posseduti. Ebbene la valenza di Regno dei Cieli del mondo impregnato dallo Spirito divino dipende strettamente da quel “sì” umano che pone lo Spirito nel pieno del suo potere, permettendo così che esso trasformi in possibile ciò che è assolutamente impossibile nelle circostanze mondano-terrene. Tra gli incalcolabili caratteri di questo Spirito pneumatico rientra dunque perfino l’azione rivolta ad una riforma del mondo che è addirittura concreta e storica, ossia di fatto politica. Si tratta insomma di quella rigenerazione dell’uomo, nel mondo, secondo lo Spirito, cioè secondo il Regno di Dio, che fa del mondo stesso qualcosa di non più naturale ma invece spirituale.
Gesù pensa insomma ad riforma del mondo prevalentemente nel senso del Ritorno in assenza dell’intermezzo della morte, e cioè nel senso di una reintegrazione dell’immanente nel trascendente (ossia la condizione ontica che fu della Prima creazione), e quindi nel senso di una riunificazione sul piano ontologico. Ma questa viene affidata all’opera dell’uomo, e quindi ad una prospettiva utopica ma per nulla ultra-storica. Dunque essa è lasciata in aperto nel contesto della prospettiva di un Regno dei Cieli del tutto immanente. È dunque in questo senso che il Regno è vicino − nel senso che io posso e devo cercare il Dio presente nel mondo (presenza divina) e nel senso che il Regno è effettivamente immanente.
È evidente che tutto ciò sta in immediata relazione con ciò che qualunque uomo può sperimentare entro l’esperienza religiosa nel caso che esso davvero si affidi al potere rigenerante dello Spirito con il massimo livello e grado di fede possibile. Senz’altro fu questo genere di fede (umana ma in verità sovrumana) ciò che attirò irresistibilmente Gesù verso la decisione a compiere quei miracoli che guarirono tutti i generi di malati e sventurati.
Da tutto ciò consegue che la dimensione dinamica dello Spirito immanente è anche eminentemente attivo-creativa. E ciò concorda non solo con Berdjaev, ma anche perfino con lo Spiritualismo personalista più laico, ossia (come vedremo) quello di Mounier, secondo il quale la spiritualità umana è eminentemente attiva.
E ciò ha peraltro un preciso significato etico ed anche in parte etico-politico. Infatti Guardini sottolinea che Gesù, nel venire nel mondo, ha preso certamente atto del fatto che l’uomo, di fronte alla preponderanza ineluttabilmente soverchiante delle Leggi del mondo e della Natura, può in verità solo scappare terrorizzato e pieno di sfiducia. Egli, insomma, deve essersi reso conto di questa schiacciante evidenza. E quindi deve certamente aver deciso di prendere davvero il toro per le corna, in modo tale che, solo grazie a Lui, all’uomo divenisse possibile l’impossibile, ossia il sovrumano. Ma intanto Gesù può fare fronte a tutto questo soltanto perché Egli è pienamente Spirito, oltre che carne. Infatti il male può venire combattuto solo dallo Spirito, e cioè da quanto si pone radicalmente fuori dalle leggi del mondo; le quali altrimenti prevarrebbero senza l’ombra del minimo dubbio.
Lo Spirito pneumatico nella sua propensione attiva, è dunque quella realtà che ha la capacità di rendere possibile l’impossibile in quanto essa ha lo straordinario potere di revocare le inflessibili Leggi della Natura.
Guardini pone l’accento su tutto ciò offrendoci una lettura del famoso Discorso della Montagna, entro il quale, secondo lui, viene sancita la messa a disposizione delle capacità sovrumane all’uomo da parte di Gesù secondo il principio del “a Dio nulla è impossibile” [Romano Guardini, Der Herr… cit., I, 11 p. 66-76]. La questione è al proposito molto complessa, e proprio perché noi uomini tendiamo ad intenderla letteralmente e cioè fuori da qualunque lettura integralmente spirituale. E Gesù è di nuovo estremamente consapevole di questo nostro tragico limite. Egli sa bene infatti che noi uomini siamo costretti ad avere a che fare ogni giorno con il serissimo problema del «pane quotidiano», e sa che esso istituisce un conflitto in sé inconciliabile tra Cielo e Terra. Per cui ci indica l’unica via praticabile, ossia quella di trattare con tale questione guardando intanto unicamente alle «cose del Cielo», e quindi con quella leggerezza (tutta spirituale) che invece le Leggi della Natura non ci consentirebbero mai e poi mai di professare. Si tratta ovviamente di una questione di pura e nuda fede. Ma intanto, prestando fede alle Sue promesse, noi possiamo essere certi che comprenderemo tutto questo una volta che saremo totalmente nello Spirito, ossia una volta che avremo anche noi conquistato davvero pienamente la dimensione ontica della corporalità spirituale. Ebbene, è chiaro che ciò avverrà dopo la nostra morte fisica. Ma intanto (in maniera assolutamente sorprendente) fu esattamente questo ciò che avvenne nel contesto della discesa dello Spirito Santo nel corso della Pentecoste. Infattiin tale evento divenne addirittura tangibile la verità della promessa da parte di Cristo secondo la quale lo Spirito insemina nell’uomo la sovrumanità ossia la divinità stessa. Ed eccoci dunque di fronte alla pienezza estremamente concreta della divino-umanità. Non a caso, dopo questo evento, i Discepoli divennero capaci di atti dei quali prima non sarebbero mai stati capaci.
Naturalmente tutto ciò esige dall’uomo una sorta di «decisione per lo Spirito, e Guardini allude a questo trattando della lotta contro “il Nemico” [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 7 p. 127-136; II, 9 p. 143-151]. Si tratta insomma del “sì” puramente fideistico nel senso di fiducia negli insegnamenti del Cristo. Il che implica un deciso schierarsi. Ed infatti il pensatore parla qui del “peccato contro lo Spirito” (quello che non sarà perdonato), che è evidentemente il rifiuto di Dio implicato nel falso schierarsi da parte dell’uomo. Si tratta insomma dello schierarsi sempre totalmente volontario (e quindi assolutamente libero) dell’uomo dalla parte del Nemico e non invece del Salvatore.
Lo Spirito pneumatico è dunque agente anche nel senso che esso esige da noi uomini una ben precisa decisione libera. In assenza della quale esso resta inattivo e quindi sembra come se non ci fosse affatto.
In questo senso, quindi, lo Spirito pneumatico (nonostante la sua assoluta inafferrabilità metafisica, che poi soprattutto non-onticità) assume portentosamente una decisa forma storica. E peraltro ciò esige una consapevolezza estremamente sofisticata che va senz’altro oltre l’umano naturale. Infatti, come dice Guardini, la vittoria deve avvenire non sul piano della “forza” evidente, ma invece sul piano della “liberazione” (“Erlösung”), ossia la liberazione da quelle Leggi del mondo che includono in primo luogo l’assolutamente ferrea legge del più forte (e quindi inevitabilmente anche l’ossequio assoluto all’istinto egoistico di sopravvivenza). È dunque proprio questo il nucleo della paolina kenosis, cioè questo è il senso del «è quando sono più debole, che io sono forte». Si tratta insomma di una vittoria che doveva assolutamente includere la “possibilità della sconfitta”. Il che sottolinea nuovamente l’importanza che ha la libera e coraggiosa decisione umana. Del resto nel nostro saggio sul Personalismo abbiamo visto, per mezzo di Jaspers, che il nucleo stesso della “coscienza tragica” consiste nella certezza di vincere proprio nel mentre si è nel pieno della sconfitta, ossia nel pieno di quella sconfitta che ormai coincide addirittura con la nostra morte (come esemplificato al massimo dalla vicenda di Amleto) [Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008, p. 34-38]. Il che significa allora che l’infinitamente amorosa Provvidenza divina aveva reso disponibile tale consapevolezza già nel pieno del Paganesimo.
E tutto ciò, per Guardini, investe inevitabilmente anche lo scottante tema della “remissione dei peccati”, ossia ciò che nel Vangelo si presenta nuovamente come guarigione miracolosa da mali fisici e psichici in virtù di quel pentimento che è anche una sorta di socratico atto di profonda auto-conoscenza da parte di noi stessi. Si tratta insomma del riconoscere del tutto umilmente (e soprattutto incondizionatamente) la nostra responsabilità personale nei mali che ci affliggono. E quest’ultima non è in fondo altro che l’ancora mancata decisione della quale prima parlavamo, ed in assenza della quale si delinea per Guardini il “peccato contro lo spirito”, ossia la sfiducia nelle possibilità che lo Spirito divino ci mette a disposizione.
Invece in caso contrario (ossia quando questa nostra decisione si è ormai verificata) si delinea quindi un nostro attivo fare in modo che tutto di nuovo sia “in ordine”. Ed ecco allora che la nostra guarigione non è altro che l’effetto della trasfigurazione del mondo alla quale noi stessi abbiamo aperto la strada con il nostro “si” incondizionato allo Spirito divino nella sua potenza trasfigurante.
Di nuovo siamo insomma di fronte alle illimitate capacità di trasfigurazione che caratterizzano lo Spirito pneumatico come premessa dell’essere. Eppure ciò non significa affatto che lo Spirito sia immanente in quanto ipostatizzato. Anzi significa l’esatto contrario. Guardini ci fa comprendere questo menzionando le difficoltà che Nicodemo incontra nel pensare che lui, vecchio e stanco, possa davvero rinascere per l’azione dello Spirito [Romano Guardini, Der Herr… cit., II, 12 p. 166-174]. Egli è insomma convinto del fatto che l’uomo è solo “mondo” (“Welt”) e tale “resta” sempre ed invariabilmente. Mentre invece l’uomo è spirito anche perché è spirito in quanto può essere allo stesso modo pienamente oggetto dell’azione dello Spirito. Intanto però ciò non può avvenire appena sul piano orizzontale dell’immanenza separata dalla Trascendenza. Perché lo Spirito pneumatico può agire solo “dall’alto” (“von oben her”), e quindi solo in tal modo può dare vita ad un nuovo inizio.
Questo quindi ci illustra un aspetto davvero fondamentale della natura ontologica dello Spirito pneumatico. Infatti lo Spirito (così come viene inteso da Gesù, ossia dalle Scritture) non è in alcun modo immanente (come è senz’altro invece lo spirito ontico, o se si vuole «onto-spirituale», opposto alla corporeità, o anche lo stesso spirito oggettivo filosofico che corrisponde poi appena alla Cultura umana), ma è invece integralmente divino e trascendente (pur essendo intimamente connesso alla corporeità e potendo quindi agire perfino storicamente). Esso è cioè il Padre della Trinità e quindi è il Pneuma stesso – è insomma quel Padre che entro la Trinità è allo stesso tempo Figlio e Spirito. L’uomo, invece, è intanto di per sé solo “mondo” e “carne”, e quindi lo Spirito lo trascende totalmente. E pertanto proprio per questo può fare di lui quello che vuole.
Guardini ci offre un’ulteriore possibilità di comprendere tutto questo illustrando l’episodio evangelico in cui Gesù appare ai Discepoli sul lago come un vero e proprio fantasma [Romano Guardini, Der Herr… cit., III, 8 p. 230-235]. Ebbene questo conferma in pieno l’a-località dello Spirito pneumatico proprio entro la dimensione della sua trascendenza verticale. È infatti estremamente probabile che Gesù non sia stato affatto presente fisicamente sul lago, ma invece sia stato presente solo appunto “in spirito“, e cioè nel contesto di una vera e propria bilocazione. Infatti molto probabilmente Egli era restato sulla montagna, dove si era separato dai Discepoli che erano andati in barca sul lago.
E questo ci riporta poi di nuovo all’episodio del Battesimo nelle acque del Giordano. Gesù Cristo è insomma Colui che è spirito per eccellenza. E quindi è lo spirito (“Pneuma”) che scende su di Lui non trova affatto un uomo medio, ossia un uomo naturale, e pertanto può manifestarsi pienamente in Lui con tutte le sue estreme caratteristiche ontiche. Il che significa poi che, proprio in virtù della sua natura di Spirito pneumatico, in Cristo l’umanità e la divinità non sarebbero mai potute restare separate nel contesto dell’Incarnazione. Insomma Egli fu ed è uomo-dio che poi diviene il risorto senza alcuna interruzione tra le due ontologie − Egli si è incarnato pur essendo Dio (il Logos stesso, ossia lo Spirito divino) e poi è tornato Spirito pur restando corpo. Ecco che allora Egli si rivela essere quel prototipo di uomo divino (ossia la pienezza dell’umano-divinità) che nessuna riflessione filosofico-metafisica (per quanto sofisticata) potrà mai giustificare e lasciarci comprendere. Infatti tale realtà è davvero spiegabile soltanto qualora l’Incarnazione si spieghi dal punto di vista della Resurrezione, e quindi in maniera assolutamente contro-razionale e pertanto per nulla logica. E questo decisamente pone fuori gioco quel lato dello Spiritualismo steiniano che non si soffermò sullo Spirito pneumatico ma invece solo su quello «onto-intellettuale», per quanto religiosamente inteso.
A conclusione di queste riflessioni di Guardini vale la pena di richiamare alcune riflessioni di Gregorio di Nissa che ci permettono di comprendere ancora meglio lo Spirito pneumatico nella sua natura di Corpo spirituale ed anche di estremo dinamismo [Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: Ramelli Ilaria (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 p. 375-381, V, 108-128 p. 457-481, VI, 129-160 p. 483-519; Ilaria Ramelli, Il Platonismo nella filosofia patristica, ibd., II, III, 1 p. 1014-1028]. Il discorso di Gregorio verte in particolare sulla la conoscenza di un oggetto immateriale come l’anima, cosa che per lui implica il coglimento dell’essenza − in forza del fatto che il vero essere è immateriale, ossia corrisponde a Dio, ed è appunto per questo intangibile ed invisibile. Ecco che allora l’intelletto (che è onticamente immateriale) non è affatto escluso dall’essere. Infatti l’uomo che è intelletto, e dunque è del tutto simile a Dio (uomo-dio e “imago dei”) − secondo il paradigma della similitudine al modello −, costituisce di fatto un intelletto immateriale ed incorporeo.
Esso corrisponde pertanto pienamente a Dio in quanto Intelletto. Ebbene quest’ultimo è del tutto “privo di massa” (ἀσωμάτῳ) così come di “estensione” (ἀδιαστάτῳ); proprio come lo è lo Spirito pneumatico. Dunque, al cospetto di ciò (e nel contesto della somiglianza) per Gregorio l’uomo è come un piccolo frammento di cristallo che riflette l’intero disco solare − “così nella piccolezza della nostra natura brillano le immagini di quelle misteriose proprietà della divinità” Sebbene questo non significhi affatto un’identità completa con quella che è una pura sostanza intelligibile.
A ciò si aggiungono poi le considerazioni del pensatore sull’a-località spirituale in quanto eternità (che a quanto pare assimilano il pensatore al neoplatonismo di Plotino) e che ci offrono ulteriori possibilità di comprendere la natura ed azione dello Spirito pneumatico. Si tratta in particolare dell’”atemporalità” espressa come “aidion” (ἀῒδιον) o “aion” (αἰών), dunque assenza di estensione, ossia assenza di “diastema” (διστηνα), cioè separazione nella successione spazio-temporale – “adiastatos” (ἀδιάστατος), ovvero “adimensionale” e quindi “ininterrotto”. Si tratta insomma di una dimensione di essere che, non conoscendo alcuna scansione né spaziale né temporale, costituisce la (fulminea e simultanea) Totalità del tempo e dello spazio come perfetta coincidenza di inizio e fine. Si tratta insomma dell’assenza di scansione tanto temporale che spaziale che sussiste in un attimo eterno che è anche sempre Totalità di Essere. Ebbene tutto ciò nelle “Enneadi” di Plotino [Plotino, Enneadi, Monadori, Milano 2002, III, 7, 3-4] viene espresso appunto come “eterno presente”; che è poi la massima pienezza di essere, laddove l’essere ha l’eternità essenzialmente (e non come attributo accidentale) – l’eternità (αἰών) equivale qui a “ciò che è sempre” (ἀεί ὢν). Dunque non tempo infinito ma invece semmai “mancanza di tempo”. Il che corrisponde poi al permanere dell’eterno nell’unità, o anche al permanere dell’essere nel proprio stato (stasi ad onta del dinamismo temporale) nel senso dell’unità inscindibile − “sempre essente” (ἀεί ὢν) in quanto “veramente essente” (ἀληθῶς ὢν).
E questo è poi ciò che non ha alcun bisogno del futuro, così come ciò che non ha bisogno di altro essere in quanto è “in pieno possesso di ciò che deve essere”. Al contrario la temporalità (come “diastasis” o “diastema”, estensione, successione ed intervallo, ossia scansione) è soggetta fatalmente al bisogno di un essere successivo ed ulteriore, ossia al bisogno spasmodico di possesso come promessa di stasi. Questo spasmodico bisogno di altro implica pertanto fatale perdita dell’assoluta unità che è propria dell’eterno, ossia la fatale “dissipazione” (la cui espressione immanente è poi l’inquietudine della perenne ricerca del possesso come stasi). Questo è insomma il tempo come mobilità dell’eternità (del quale, secondo la commentatrice, si ritrova il corrispettivo in Platone, Timeo 37D) e come Natura [Plotino, Enneadi…cit., II 7, 12].
Orbene è evidente qui la preoccupazione metafisica (che senz’altro fu presente primariamente in Plotino) che intende preservare il valore di una suprema Stasi. E quindi queste riflessioni non si prestano a concepire né lo Spirito né l’Essere stesso come sostanzialmente dinamici. Eppure comunque in tal modo possiamo meglio comprendere quella a-temporalità ed a-spazialità dello Spirito che poi si traducono in particolare in una stasi che è soprattutto Totalità di Essere raccolto in un solo momento anche nel suo perenne fluire dinamicamente. Ed anche questo è senz’altro un aspetto dello Spirito nel suo intendimento pneumatico. In altre parole lo Spirito pneumatico è a-spaziale ed a-temporale proprio in virtù di tali caratteristiche perfino statiche. E quindi esso «va dove vuole» semplicemente perché sta già nel luogo dove voleva arrivare, e quindi non conosce alcuna discrepanza tra causa ed effetto. La quale implica sempre una sorta di impotenza, nel senso di fatale e tragica soggezione alle condizioni che possono rendere impossibile raggiungere l’effetto che era voluto nell’intenzione. E non vi è dubbio che ciò è esattamente quanto può accadere a causa del vigere nel mondo di quelle inflessibili Leggi della Natura secondo le quali una causa implica necessariamente un effetto specie in senso difettivo – ossia una causa impedente rende impossibile raggiungere l’effetto voluto. Insomma siamo così di fronte a quella inflessibile concatenazione causale che entro la metafisica orientale del “karma” (specie buddhista) ha teorizzato che una determinata causa negativa produrrà necessariamente un effetto egualmente negativo.
Ecco allora che è esattamente questo il motivo per il quale lo Spirito pneumatico ha il potere incondizionato della trasfigurazione dell’essere. Esso infatti è esattamente quella creatività illimitata (presupposta anche da Berdjaev) in quanto assolutamente libera dal condizionamento di qualunque necessità naturale.
Dunque è su questa base che si spiega il perché del «tutto è possibile allo Spirito», ossia «tutto è possibile a Dio»

III- Maine de Biran
Lo Spiritualismo di Maine de Biran (MdB) rientra decisamente nella tradizione filosofico-idealistica moderna, ed inoltre (a causa del suo accento posto sulla coscienza) anticipa anche in maniera molto suggestiva alcuni elementi tipici dello Spiritualismo fenomenologico-husserliano, e quindi anche di quello di Stein.
MdB parte infatti chiaramente dalla concezione dello Spirito come coscienza umana [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione, Bibliotheca, Gaeta 1998, Introduzione, 2 p. 12-22], sebbene poi aggiungerà a questo l’affermazione che in essa è presente lo stesso Spirito divino. Peraltro egli postula un processo di auto-conoscenza da parte dell’Io che rientra in modo chiaro nello Spiritualismo che intende lo Spirito come Ragione umana ed Io coscienza [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 47-56 p. 55-64]. Non a caso per lui la coscienza è solo del soggetto in quanto è una realtà ontologica capace di disporre di uno spazio interiore caratterizzata dal “con sé”, e che poi null’altro è se non il «sapere di sé» [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 11-13 p. 35-36].
Tuttavia questo atto ha per lui anche una valenza chiaramente religiosa. In particolare egli dichiara di riferirsi ad Agostino nel teorizzare un auto-possesso dell’Io da parte di sé stesso che avviene sostanzialmente sulla base del riconoscere la sua somiglianza interiore a Dio (umano-divinità). Questa è per lui la dimensione del cuore in senso cristiano. Sul cuore si basa per lui la disposizione sociale della persona, che poi comporta l’amore in quanto compassione.
Rispetto a queste riflessioni egli va poi ancora più avanti nell’affermare che l’Io e Dio sono le due primarie unità dell’essere [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-67 p. 65-73]. E, nel sostenere questo, egli si oppone imoltre decisamente all’unità indifferenziata divino-immanente (decisamente impersonale) che fu teorizzata entro il panteismo di Spinoza. Ecco che quindi il suo concetto di Spirito non consiste solo nella coscienza, ma anche nell’Io stesso come fondamentale unità singolare. Lo Spirito insomma è una persona nel suo isolamento ontico di entità assolutamente e paradigmaticamente unitaria.
Egli tuttavia non manca di concepire lo Spirito divino come trascendente quello umano, ossia l’Io stesso [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-90 p. 82-88]. Lo fa sostenendo che Dio è causa delle esistenze, e come tale coincide anche con quello Spirito originario che contiene in sé ogni verità; in modo tale che esse di trovano prima dello spirito umano. Ecco insomma l’esatta natura dello spiritualismo di MdB, che appare essere una dottrina subordinante l’uomo ad una dimensione ideale trascendente che appare essere poi lo Spirito stesso nella sua integralità ontica. Esso è senz’altro lo Spirito divino, ma senza nessuna delle caratteristiche che abbiamo visto essere tipiche dello Spirito pneumatico.
Questa è molto in sintesi la dottrina dello Spirito di MdB e quindi questo è il suo Spiritualismo.
Comunque in termini specificamente religiosi egli non manca di intendere lo Spirito divino come Grazia [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 2 p. 12-22]. Non a caso egli concepisce una mistica attiva in quanto movimento verso l’Assoluto divino; ma che è anche passiva in quanto attende appunto la Grazia.
Dio in quanto Causa è comunque anche ciò che trasfonde nella stessa anima umana il potere di muovere il corpo, dando vita in tal modo anche a quell’unità spirito-animico-corporea che è tipica dell’uomo e quindi configura un’antropologia fondata in Dio [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 61-71 p. 65-76].
Ne risulta quindi che per MdB lo Spirito divino coincide anche con la causalità stessa nella sua forma più elevata. Così come è anche la stessa sede di ogni Verità razionale. Più precisamente Egli è “causa delle esistenze”, e proprio come tale è “oggetto della ragione” in quanto è appunto insieme di verità razionali [Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti…cit., 83-94 p. 82-94]. Le quali sono poi verità antecedenti allo spirito umano in quanto si trovano nello Spirito divino. Ecco allora che MdB, nell’essere spiritualista, assume una posizione decisamente idealista. Dunque il suo Spiritualismo si rivela essere una dottrina che subordina lo spirito umano ad una dimensione ideale-spirituale trascendente che è Dio stesso. Comunque l’oggettività delle verità che sono presenti in Lui lascia pensare che in qualche maniera MdB intendesse lo Spirito divino con le caratteristiche di una certa «onto-spiritualità» paradigmatica, e proprio come tale da intendere come Spirito per eccellenza. In ogni caso comunque l’intendimento più esplicito ed evidente del suo Spiritualismo è quello di una dottrina che intende porre in evidenza ciò che è e fa lo spirito umano (sia nella conoscenza che nell’azione etica). E su questo siamo chiaramente nel campo della visione spiritualista più tipica della moderna filosofia, ossia quella che (aldilà anche dei suoi aspetti religiosi) intendeva lo Spirito come equivalente alla Ragione umana.

IV- Emmanuel Mounier.
Lo Spiritualismo di Mounier è senz’altro quello più pragmatico ed immanentista; anzi a tratti appare addirittura materialista. In ogni caso vedremo poi che in esso appare decisiva la presenza della visione di Blondel. Tale Spiritualismo non è però affatto razionalista, dato che Mounier, nel fondare il proprio Personalismo, si distanzia decisamente dalla tradizione filosofica, moderna. Ed in particolare si distanzia dallo gnoseologismo filosofico, così come fa anche Berdjaev [Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti), p. 31-40, I, VI p. 103-120]. In particolare egli dissocia decisamente lo Spiritualismo dal «cogito» cartesiano ed anche dall’oggettivazione prodotta dal ricorso gnoseologistico all’universale da parte della moderna filosofia.
Appare perciò molto sorprendente che il pensatore, nell’affermare che il Personalismo ha dietro di sé una lunghissima e remotissima tradizione filosofico-metafisica, veda il nucleo di quest’ultima proprio in quel concetto tutto cristiano di “carne spirituale” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., p. 31-40] che abbiamo visto messo in luce da Guardini, ossia dallo spiritualista più radicale che finora abbiamo esaminato. Egli insomma prende debitamente atto del fatto che lo Spiritualismo si è a lungo (ed in larghissima parte) identificato con la postulazione di uno Spirito pneumatico. Ma questo con certezza assoluta gli serve a fondare la concretezza corporale e mondana della persona umana. Infatti nel definirla egli afferma che bisogna decisamente contraddire il tradizionale dualismo metafisico riconosciuto tra spirito e materia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-56]. A questo punto va anche detto però che ciò si sposa perfettamente con l’irrazionalismo della sua visione, dato che questa parte della tradizione spiritualista fu sempre (forse già da Platone in poi) in qualche modo razionalista. E ciò ci porta a pensare dunque che vi sono due forme di Spiritualismo tradizionale non «onto-spiritualista» − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista «onto-intellettualista»).
In ogni caso Mounier sembra disposto a seguire solo in parte questa strada, dato che lo Spirito è per lui sostanzialmente attivo e quindi è integralmente umano e mondano. Ed infatti egli sostiene la stessa necessità di superare il dualismo spirito-materia laddove afferma che l’azione stessa la esige [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., II p. 132-160]. Anzi qui il suo Spiritualismo assume una venatura decisamente filosofico-politica ponendosi addirittura come rivoluzionario ed anche marxista.
Proprio per questo appare chiaro che egli non sostiene affatto il concetto di corporalità spirituale come fa Guardini. Egli ci fa capire infatti che addirittura lo Spirito è condizionato a tal punto dall’esistenza del corpo che di fatto, in assenza di quest’ultimo, non vi è alcuna realtà spirito-corporea, e quindi di fatto lo spirito si dissolve nel nulla [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 43-45]. Ne risulta quindi una visione spiritualista che ha perfino tangibili venature materialiste. Non a caso egli giunge perfino a negare la natura spiritualista del Personalismo nel sostenere una visione che, secondo lui, non può dimenticarsi nemmeno un attimo del mondo [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, I p. 45-50]. Ciò significa insomma che egli stesso vede in fondo nello Spirito qualcosa si astratto ed anti-mondano.
Ciò concorda peraltro perfettamente con il fatto che egli dichiara l’interiore la regione più propria dello Spirito e la definisce anche come il contrario stesso dell’essere [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, III p. 74-76].
Ecco che trova eco in lui in modo chiaro lo Spiritualismo interiorista ed egoico di Maine Biran e dell’intero pensiero moderno. Esso non sarà quindi razionalista, ma ciò cambia davvero poco nella sua natura.
Di nuovo qui però diviene dirimente la natura azionista del suo Spiritualismo. Lo possiamo comprendere bene laddove egli parla dell’”attività produttrice” umano-personale come un “fabbricare” che è radicalmente diverso dal conoscere (e come tale di distanzia moltissimo dall’”intenzione” così come viene intesa dalla filosofia gnoseologistica, e quindi anche da Husserl) [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VI, p. 103-105]. Ebbene, egli dice, questa attività non è altro che la tipica attività dello Spirito. È evidente insomma che per lui lo Spirito è sostanzialmente attività in quanto movimento, e più precisamente movimento produttivo. Il che poi lascia intravvedere anche lo Spiritualismo di Bergson, secondo il quale l’Intelligenza cosmica (in quanto Spirito) è sostanzialmente attiva perfino nel conoscere, e quindi in tal modo “ritaglia” letteralmente le oggettualità nella compagine indifferenziata dell’essere [Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Fabbri, Milano 1966, II, p. 135-216].
Come tale, dunque, per Mouniier l’azione spirituale è squisitamente umana. Egli insomma non guarda affatto allo sfondo metafisico dello Spirito umano, ossia si disinteressa decisamente di esso. Pertanto il suo Spiritualismo è decisamente non-metafisico. È evidente allora che per lui il concetto di Spirito pneumatico non è altro che storia, e quindi può semmai servire a fondare concettualmente la corporalità spirituale ma solo nella sua totale concretezza addirittura materiale.
E di questo possiamo trovare riscontro laddove egli parla dello “spirito conoscente” come incarnato in un’esistenza legata profondamente ad un corpo e ad una storia [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit.,
I, VI, 3 p. 110-113]. Quindi per definizione esso è “impegnato”. Questo concetto di impegno sembra del resto dominare completamente la sua visione dello Spirito. Egli dice infatti che, nel contesto del problema della relazione tra azione e pensiero, la vita spirituale si rivela assolutamente identica all’azione; dunque, l’azione equivale proprio all’”esperienza spirituale nella sua integrità” [Emmanuel Mounier, il Personalismo…cit., I, VII p. 121]. Infatti, egli dice, “ciò che non agisce non è”. E dunque secondo lui del Logos cristico noi dovremmo avvalorare le dimensioni della via e della vita, molto più che quella della verità. Ed a questo punto dichiara di dovere queste idee a Blondel, proprio secondo il quale lo spirito è sostanzialmente azione.
Questo si può dunque dire dello Spiritualismo di Mounier che si riconferma essere immanentista, pragmatico e decisamente anti-metafisico. In esso si può dire quindi che si dissolve totalmente la sostanza ontica dello Spirito, dato che esso si presenta appena come una disposizione attiva e funzionale della persona umana, e quindi sostanzialmente nella forma di vita attiva umana fotografata nel pieno del suo esistere mondano.

V- Steinhart.
L’articolo di Steinhart [Eric Steinhart, “Spirit”, Sophia, 56 (4) 2017, 557-571] compare qui appena come esempio e campione di quella che deve senz’altro essere una riflessione oggi molto diffusa. E quindi ci serve soltanto a prendere atto di come e quanto si sia evoluto lo Spiritualismo fino ai giorni nostri. Tuttavia un’analisi delle sue forme attuali richiederebbe senz’altro un’altra investigazione, dato che sicuramente molti pensatori sono oggi impegnati in questa riflessione. In ogni caso questa presa d’atto potrà essere di grande aiuto nel cogliere quella che è senz’altro la forma più estremamente moderna dello Spiritualismo; e ciò allo scopo di poterla poi paragonare con quelle antecedenti.
Va comunque subito detto che qui viene sostenuta la tesi largamente riduzionistica (anche dal punto di vista religioso) che pretende di intendere lo Spirito quale equivalente all’energia cosmica (in quanto sostanza di tipo sottilmente fisico) ed in particolare alla forza evoluzionistica che spinge l’universo. In altre parole si pretende di dire cosa è Spirito in base a ciò che di esso scientificamente è più coerentemente pensabile.
Ci troviamo insomma di fronte ad uno Spiritualismo che non solo è fuoriuscito dall’ambito della metafisica (come quello di Mounier) ma è fuoriuscito addirittura anche dall’ambito della filosofia. Esso rappresenta pertanto una sorta di estremamente paradossale Spiritualismo scientifico o comunque scientista.
Estremamente significativo è il fatto che l’autore parta nella sua riflessione nel considerare il Pneuma esattamente una “energia”, e più precisamente ancora un “potere naturale” (“natural power”). Egli rivendica inoltre che questo debba essere l’intendimento più proprio di Spirito, dato che gli altri (potere vitale animante, e potere creativo onto-generante ed onto-organizzante) sono del tutto secondari in quanto assolutamente impropri dal punto di vista logico. Ancora più precisamente lo Spirito andrebbe inteso come quell’”energia sottile” (“subtle energy”) che è di per sé “energia spirituale”, anche se si presenta in maniera molto concreta nelle moderne scienze (come quella termodinamica ed informazionale). Ovviamente secondo l’autore ciò non ha nulla a che fare con alcun piano intelligente direttivo, e quindi con “forze trainanti” (“driving forces”). E questo perché lo Spirito non ha assolutamente nulla di personale. Nemmeno nel caso che lo si volesse intendere come entità divina. Insomma esso è energia proprio perché non si muove affatto secondo un’intenzione diretta a sua volta verso uno scopo determinato. Esso si limita ad essere invece quella dimensione dinamica per mezzo della quale le morte cose trovano la forza di spinta per muoversi. In altre parole esso non è altro che una specie di carburante universale, sebbene senz’altro invisibile ed intangibile.
È evidente che ci troviamo qui di fronte ad uno Spiritualismo che ormai si è totalmente dissociato dal Personalismo.
Posto questo come l’intendimento più proprio di Spirito, l’autore si dedica all’esame delle diverse teorie che esistono rispetto a questa energia.
La prima teoria dello Spirito come energia è quella che lo intende come “forza vitale”. Però da un punto di vista rigorosamente scientifico non può per lui esservi alcuna forza vitale (sebbene essa venga presupposta in biologia nella teoria evoluzionistica), dato che essa può essere solo un’entità unitaria inesistente a causa del fatto che sotto di essa vi sono ben più reali molteplici forse elementari. Come ad esempio quelle presupposte nella teoria termodinamica. In particolare si tratta dell’entropia presupposta dalla seconda legge della termodinamica (e questa è la seconda teoria dello Spirito come energia) in quanto dissipazione di energia disorganizzante (forza entropica) che tende intanto alla crescente complessità delle strutture (in particolare attraverso la dissipazione di energia superflua che rende impossibile la genesi di una struttura statica). Questa teoria viene però dichiarata “ingenua” perché essa presuppone una mente diretta verso uno scopo pur non essendo intanto affatto cosciente (per il fatto di essere un’energia profonda e quindi del tutto cieca). Ecco che allora si perviene per esclusione alla terza teoria dello Spirito in quanto energia, che prevede una forza extropica; la quale, per il solo fatto di opporsi alla forza entropica, riesce per davvero ad essere organizzante pur senza prevedere alcuna mente. Si tratterebbe insomma di null’altro che del Big Bang originario. E proprio questo sarebbe lo Spirito in quanto energia nella sua pienezza. Che poi filosoficamente viene equiparato alla volontà di potenza nietzschiana.
Insomma, dato che l’entropia tende all’incremento per deplezione di essere (con conseguente riduzione dell’ordine), essa non può assolutamente tendere alla sempre maggiore complessità, dato che quest’ultima richiede un sempre maggiore ordine. Per cui non resta che ipotizzare l’azione di una forza extropica, la quale quindi tende naturalmente all’incremento di essere per il fatto che essa riduce l’entropia. Infatti il momento del Big Bang è caratterizzato non a caso da un basso livello di entropia. La discussione dei dettagli di questa complessiva teoria è troppo complessa per venire riportata qui, ma comunque l’autore giunge alla conclusione che lo Spirito come energia corrisponde ad una forza extropica, che è poi chiaramente direttiva. Entro il suo esplicarsi essa sta comunque in costante relazione dialettica con la forza entropica.
E su questa base egli ipotizza addirittura l’esistere di un “universo spirituale” la cui struttura e dinamica interna sarebbe descrivibile attraverso il complesso gioco esistente tra forze entropiche ed extropiche.
Posto questo, l’autore passa poi ad occuparsi delle varie prese di posizione teologiche e para-teologiche che si possono delineare in tale contesto. Si tratta del teismo (che ricorre al ben noto “intelligent design” di ascendenza tomista), delll’ateismo (definito “multiverse”) e dello Spiritualismo naturalistico (il quale presuppone una sorta di evoluzionismo cosmico, simile a quello biologico, entro il quale si verifica la genesi di una progressiva complessità di universi). Quest’ultima teoria viene definita come “cosmological arrow”. E con essa si delineerebbe una sorta di “freccia cosmologica”. Ma extrapolando quest’ultima presa di posizione secondo l’autore si perverrebbe alla quarta teoria della natura ed azione dello Spirito. Essa consiste nel ritenere che la freccia cosmologica deve presupporre un potere “ontologico” direttivo, che sarebbe appunto lo Spirito stesso, ossia lo Spirito nel suo potere onto-generante. Infatti a suo avviso bisogna ritenere che solo lo Spirito può condurre l’essere (opponendosi al caos entropico) ad assumere la forma di un organismo. Si tratterebbe così insomma dell’animazione spirituale del mondo (“spirit animates universe”). In altre parole l’azione dello Spirito, come del tutto impersonale energia (ossia carburante dell’universo), sarebbe in primo luogo quella di produrre l’animazione di quelle cose cosmiche originarie che in sé sono per definizione morte, cioè inanimate.
Su questa base (e sulla base delle varie teorie filosofico-scientifiche che egli tiene presente) l’autore perviene ad una sorta di moderna versione evoluzionistico-scientifica della dottrina di Leibniz (definita come “leibnizian argument for spirit”); secondo la quale in primo luogo insorgerà senz’altro una struttura che non si imbatta in una “forma” che ne impedisca l’attualità. E il criterio dominante è qui assiologico-ontologico, nel senso che si tratta di un continuo tendere verso il meglio in quanto concreto finale e cioè ultimamente determinato. Più precisamente si tratterebbe della “theory of striving possibility” (possibilità tendente, anelante, sforzantesi). E secondo l’autore essa può spiegare perfettamente l’evolvere dell’universo verso strutture non solo di maggiore complessità ma anche più giustificate ad esistere.
E ciò fino al risultato finale, ossia a quanto Leibniz considerava come il finale e perfettamente giustificato “determinato” − secondo quel principio del «perché qualcosa e non nulla» che poi corrisponde anche al famoso principio di “ragione sufficiente” [Gottfried W. von Leibniz, Saggi di Teodicea, Fabbri, Milano 1996, 1-4, pag. 69-72; Gottfried Wilhelm von Leibniz, Monadologia. Bompiani Milano 2001, II, 7-15 p. 47-53].
Questo potere (formante in quanto determinante) sarebbe dunque per Steinhart lo Spirito stesso − il potere astratto (ragione) di massimizzazione dei valori e quindi di ottimizzazione. Insomma per l’autore proprio qui vi sarebbe la definizione migliore dello Spirito come energia creante − “Spirit is a natural optimizing power; it is the power of self-surpassing in all thing”). E diremmo che qui di nuovo viene presupposto il concetto di «superamento» di Nietzsche.
Insomma questa estremamente complessa ed articolata teoria (per la verità molto più scientifica che non filosofica) rappresenta almeno un esempio per quello che può essere un estremamente moderno Spiritualismo. Come si può vedere in tale contesto ci si forza molto di essere logicamente rigorosi nelle argomentazioni ed in fondo non si rigettano nemmeno in via di principio i contributi di religione e filosofia. Eppure il concetto di Spirito viene qui letteralmente forgiato dalla mente umana attraverso un minuzioso lavoro di analisi (che tende a scartare le ipotesi meno logiche) senza però tenere assolutamente conto né della tradizione di pensiero metafisico che si è sviluppata dai primordii della filosofia né delle possibili intuizioni della realtà dello Spirito così come si presentano spontaneamente nella nostra interiorità.
Non a caso il pensiero metafisico di Leibniz viene completamente riletto e adattato ad argomentazioni puramente scientifiche che con esso non hanno molto a che fare.
Ebbene il risultato di questo così minuzioso lavoro non può quindi essere altro che un concetto estremamente artificioso di Spirito, che può avere anche la sua validità all’interno dell’attuale dibattito filosofico-scientifico ma intanto non è detto affatto che sia né veridico né oggettivo. E qui vale decisamente l’opinione di Berdjaev, secondo la quale la filosofia tutto può essere tranne che rigorosamente scientifica.
In ogni caso comunque resta l’intendimento iniziale e di partenza (già in sé piuttosto restrittivo) secondo il quale lo Spirito equivarrebbe ad una realtà assolutamente empirico-scientifico-naturalistica come l’energia. E questo taglia ovviamente fuori dalla riflessione qualunque sua valenza trascendente ad ancor più autenticamente religiosa.
È vero che questo concetto ha una certa somiglianza con il concetto di Spirito pneumatico (che indubbiamente è una sorta di energia), ma è anche vero che non solo qui il Pneuma si presenta come una forza assolutamente impersonale (e quindi cieca, per cui impossibile da considerare divina) ma inoltre lo Spiritualismo che ne risulta non permette alcuna applicazione religiosa di tipo pratico. E questo lo discuteremo più a fondo nelle conclusioni.

Conclusioni.
Alla fine di questa indagine possiamo dire che si sono delineate piuttosto chiaramente diverse definizioni sia dello Spirito che dello Spiritualismo. Ed abbiamo visto che esse a volte finiscono per convergere con lo Spiritualismo steiniano mentre altre volte finiscono per divergere molto radicalmente da esso. Dato che la visione steiniana dello Spirito coincide in gran parte con quella dello Spiritualismo più convenzionale di tipo filosofico-gnoseologistico (ossia quella visione che meno si trova rappresentata entro lo Spiritualismo storico, e cioè quello di fatto più prossimo al Personalismo).
In ogni caso però abbiamo constatato che, laddove lo Spiritualismo è più estremo, la convergenza sussiste solo con quel secondo intendimento dello Spirito che Stein sostenne senz’altro, ma che sfortunatamente comparve nelle sue opere solo in maniera molto secondaria e molto poco assertiva. Si tratta dell’intendimento che coincide con il Pneuma, o anche Spirito pneumatico. Ancora più secondariamente si tratta poi di altre due forme di intendimento dello Spirito: − 1) quello proprio di una sorta di Spiritualismo dell’impregnazione divina del mondo corrispondente al concetto di “ontologia cristo-centrica” (simile a quello vedantico, nel quale si postula un’essenza divina situata nel profondo di tutte le cose); 2) quello proprio della visione che abbiamo definito come Spiritualismo «degli spiriti» (coincidente in gran parte con l’antica dottrina patristico-scolastica degli “spiriti puri”).
Posto questo abbiamo visto delinearsi con Berdjaev un intendimento dello Spirito che coincide interamente con l’Essere stesso colto nel suo dinamismo incessantemente creativo. E quest’ultimo è senz’altro uno Spiritualismo che intende convergere con una forte visione onto-dinamica dell’essere. Oltre a ciò abbiamo visto delinearsi nel suo pensiero ulteriori tendenze dello Spiritualismo moderno. Innanzitutto si è delineato uno Spiritualismo concreto assolutamente non trascendentista, entro il quale lo Spirito viene considerato unicamente interiore ed affatto esteriore, ossia tutt’altro che uno spirito oggettivo. Oltre a ciò abbiamo visto emergere uno Spiritualismo che diverge radicalmente da qualunque filosofia rigorosamente scientifica, avendo unicamente l’intenzione di porsi entro una filosofia dell’esistenza e dell’essere. Infine abbiamo visto emergere anche uno Spiritualismo da intendere come prassi umana nel mondo; e peraltro anche nel contesto di una prassi ispirata fortemente alla fede cristiana. Esso si presta quindi fortemente a fondare un’autentica esperienza religiosa, come del resto abbiamo sostenuto in alcuni nostri articoli [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (“Seiende”), Dialeghestai 24, 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >; Vincenzo Nuzzo, “L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort”
< Vincenzo Nuzzo,“L’esperienza religiosa viva, la mistica e l’«aiuto divino». Edith Stein a confronto con Nikolaj Berdjaev e Gertrud von Le Fort” | cielo e terra (wordpress.com) >].
Con Guardini abbiamo visto invece emergere in maniera chiara un intendimento dello Spirito che corrisponde esattamente a quello di Spirito pneumatico o Pneuma. Ed abbiamo visto che esso coincide sostanzialmente con lo Spirito nella sua più alta formulazione, ossia come Spirito divino o Logos. Ma oltre a ciò esso coincide con l’altissimo concetto metafisico-religioso di corporeità spirituale, e quindi non è in alcun modo rigorosamente trascendentista né dualista. Qui, in maniera assolutamente imperscrutabile, lo Spirito è quanto di meno ontico possa venire immaginato, eppure è corporale al massimo grado. In ogni caso si tratta di quell’onticità che, essendo totalmente interiore, permette allo Spirito di sottrarsi senza la minima difficoltà a tutte le necessità imposte dall’esteriorità (in particolare quella spazio-temporale).
E non vi è solo questo, dato che il dinamismo irrefrenabile di tale sostanza permette ad essa di occupare simultaneamente sconfinate distese di spazio (e connesso tempo) costituendo così sempre una simultanea Totalità di Essere. Ed è a causa di tutto questo che esso ha il potere di revocare qualunque Legge di Natura, ossia la necessità stessa. Questo Spiritualismo si è rivelato comunque anch’esso molto utile per fondare un’autentica esperienza religiosa – specie nel considerare lo Spirito divino (di fatto lo Spirito Santo) come la misteriosa forza che rende possibile l’impossibile; ed inoltre nel sottolineare l’assoluta necessità dell’umana «decisione per lo Spirito» come condizione indispensabile per innescare la forza rigenerante che è propria dello Spirito divino in quanto pneumatico.
Con Maine de Biran abbiamo poi visto emergere un concetto di Spirito che coincide sostanzialmente con tanto con l’Io razionale umano quanto con l’Io razionale divino. Ed esso quindi potrebbe venire ricondotto solo con molta difficoltà al concetto di Spirito pneumatico; specialmente perché assume forme tangibili perfino nel contesto di una riflessione sostanzialmente metafisica. Esso infatti, pur nella sua più alta formulazione, è sostanzialmente Ragione (sede della Verità) e Causa delle cause moventi l’essere (per mezzo della sostanza animica umana). Oltre a ciò in Maine de Biran lo Spirito si presenta come l’Io nella sua unità tendenzialmente isolata, e quindi come un’entità spirituale decisamente intellettuale, ossia come una sorta di Io puro. E questo rende attuale in lui una certa dose di «onto-intellettualismo», ma comunque assimilabile alla tipica presa di posizione filosofico-moderna, ossia in definitiva non poco idealista. Infine questo tipo di Io appare subordinato allo Spirito divino senza che esso abbia alcuna caratteristica pneumatica. Anzi esso è semmai la sede primaria della verità razionali, con la conseguenza di uno Spiritualismo ancora una volta decisamente filosofico-intellettualistico.
Con Mounier infine abbiamo visto affermato un concetto di Spirito che vuole essere espressamente corporale al solo scopo di presentarsi a livello unicamente immanente, pragmatico e mondano, e precisamente come azione umana. E qui dello Spirito divino ci sono davvero pochissime tracce se non nessuna. Per cui è assolutamente impossibile ricondurlo al concetto di Spirito pneumatico. Anzi sembrerebbe che di questo tipo di Spirito Mounier abbia avuto un’idea assolutamente deteriore in quanto astratto ed anti-mondano. In ogni caso, aldilà dell’intendimento azionista dello Spirito, si ritrova presso di lui anche un suo intendimento interiorista che lo approssima non poco allo Spiritualismo filosofico-convenzionale. Quello che è certo è che in Mounier si dissolve totalmente l’onticità dello Spirito, in modo tale che esso diviene appena una disposizione.
Naturalmente il classico Spiritualismo filosofico-gnoseologistico del moderno pensiero (secondo il quale lo Spirito coincide con la Ragione, la coscienza, l’interiorità e la mente, specie nella sua valenza prevalentemente conoscitiva) interseca tutte queste visioni – a volte solo per venire totalmente sconfessato (come in Berdjaev e Guardini), a volte invece per venire in parte confermato (come in Maine de Biran e Stein). L’unica eccezione al proposito è ancora una volta Mounier il quale Spiritualismo non sembra avere assolutamente nulla a che fare con questo intendimento. Diversamente stanno invece le cose per Stein, nel cui pensiero invece la presenza di questo moderno Spiritualismo di fondo è più che tangibile; con l’eccezione delle affermazioni divergenti da questo che (come abbiamo visto) comunque in esso si ritrovano.
Con Steinhart, in conclusione, si siamo trovati di fronte ad uno Spiritualismo totalmente equivalente alle Leggi della Natura. Ed inoltre abbiamo visto che l’assimilazione Spirito-Energia è qui di natura meramente analogica, e quindi non ha alcuna possibilità di cogliere l’autentica natura dello Spirito stesso.
Non a caso in esso il Pneuma (per quanto molto suggestivamente simile all’energia creante qui presupposta) perde qualunque caratteristica personalistico-religiosa, e quindi cessa definitivamente di equivalere per davvero a quello Spirito divino che è in primo luogo Persona. Ecco allora l’unico Spiritualismo da noi esaminato che non si intrecci con il Personalismo. Con ciò quindi lo Spiritualismo pneumatico perde ogni portata etica e religiosa, e pertanto non si presta più in alcun modo né a fondare un’esperienza religiosa né a fondare un’esperienza spirituale. In altre parole l’intero Spiritualismo perde in esso quella portata pratica che lo rende disponibile a fungere da guida e forza nel corso dell’esperienza umana.

In nessuno degli autori da noi esaminati abbiamo trovato invece traccia di un effettivo «onto-spiritualismo» (per intenderci quello di tradizione platonico-gnostica e vedantica) – tranne per alcune vaghe assonanze con esso in Berdjaev e Guardini. Al contrario l’ordinario Spiritualismo filosofico-gnoseologistico, che si rivela presente al fondo di tutte le visioni esaminate, può ben venire ricondotto ad un paradigma «onto-intellettualistico». Ciò significa allora che nel contesto del moderno Spiritualismo si può ben assumere che lo Spirito sia l’Intelletto stesso. Ma intanto non si può assolutamente assumere che esso sia invece la Realtà nella sua pienezza. Perfino nel così estremo Spiritualismo di Guardini lo Spirito, infatti, è altissimo (come vuole di fatto essere anche quello «onto-spiritualista») ma intanto configura una sostanza assolutamente sfuggente ed ineffabile che in alcun modo può corrispondere alla Realtà; nemmeno a quella più astratto-ideale.
L’intendimento dello Spirito come Realtà appartiene pertanto decisamente ad una tradizione estremamente antica nella quale sembra che si siano perse totalmente le tracce nella filosofia moderna. Tuttavia l’esame dell’articolo di Steinhart ci dimostra in qualche modo che quello che in filosofia era uscito dalla porta (a partire da Cartesio in poi) è successivamente rientrato dalla finestra per mezzo della scienza. Infatti l’attualissimo concetto di Spirito come energia cosmica creante è senz’altro riduzionistico e perfino materialistico, e tuttavia almeno adombra l’idea che lo Spirito sia la Realtà stessa non solo nella sua Totalità ma anche nella sua profondità. Ciononostante però (come abbiamo appena detto) questo concetto di Spirito è così distante da quello anche solo moderatamente religioso, che esso diviene assolutamente inservibile per lo scopo primario al quale dovrebbe attendere qualunque dottrina spiritualistica, e cioè quello di porre l’uomo in profonda (ed anche produttiva connessione) con quella Forza divina amorevole che tutto crea e tutto trasfigura.
Inoltre, sebbene molto di sfuggita, ha fatto sentire la sua presenza anche quell’estremamente originale Spiritualismo eckhartiano che poi è una forma intensissimamente metafisico-religiosa di «onto-intellettualismo». Con esso, ovviamente, il convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologico non ha assolutamente nulla a che fare.
Infine si è comunque delineato nel corso dell’indagine (sebbene solo sul suo sfondo) una sorta di Spiritualismo degli «spiriti», ossia delle entità spirituali più che dello Spirito. Ed abbiamo visto con Berdjaev quanto esso può essere deteriore in quanto non solo riduzionistico ma anche perfino superstizioso.
Tuttavia la riflessione su questo aspetto da parte di Stein, Conrad-Martius e Gerda Walther − che poi risale a sua volta alla riflessione di Tommaso d’Aquino, e per mezzo di lui anche ad un’antichissima tradizione che affonda le sue radici perfino nella metafisica religiosa pagana (specie in Giamblico e Porfirio), e che poi prese forma in ambito cristiano nei Padri greci Massimo il Confessore e Basilio – ci mostra che tale Spiritualismo non è affatto privo di fondamento in termini metafisico-religiosi. Sta di fatto però che esso è comparso però nella nostra indagine solo sullo sfondo, e quindi non si presta affatto a rappresentare il moderno Spiritualismo.

Il bilancio netto di questa indagine, dunque – dato che essa ha avuto fin dall’inizio davanti a sé lo Spiritualismo steiniano come principale oggetto −, è che quest’ultima visione si presenta a noi in una forma davvero curiosamente sdoppiata. Infatti da un lato essa equivale perfettamente (e peraltro per una larga parte del pensiero steiniano) al più ordinario e convenzionale (ed in fondo anche sterile, specie religiosamente) Spiritualismo, e cioè quello filosofico-gnoseologistico. Mentre dall’altro lato esso equivale almeno tendenzialmente allo Spiritualismo più estremo, ardito ed anche più religiosamente produttivo, ossia quello che presuppone uno Spirito pneumatico. E questo è senz’altro quello di Guardini, che pertanto svetta in questa indagine esattamente come il suo Personalismo ha finito per svettare nella nostra indagine su questa visione. Oltre a ciò abbiamo anche visto che lo stesso così rigorosamente filosofico concetto di “spirito oggettivo” (che a sua volta corrispondeva fortemente alla ricerca fenomenologica sulle essenze cosali mondane in quanto «fenomeni») ha subito in Stein un’evoluzione che alla fine è approdata a quella “ontologia cristo-centrica” che addirittura converge con diversi aspetti dello Spiritualismo pneumatico – specie con l’idea che il mondo sia impregnato del divino e rappresenta quindi lo stesso Corpo Mistico di Cristo in quanto Spirito disceso nel mondo stesso. Ed infine abbiamo visto anche che la pensatrice impiegò addirittura lo stesso Spiritualismo «degli spiriti» nel contesto delle sue più pregiate riflessioni filosofiche. Laddove abbiamo visto che quest’ultimo non gioca però alcun ruolo nel moderno Spiritualismo storico.
Ebbene questo complessivo fenomeno rappresenta un qualcosa che continua a stupirci fin da quando abbiamo iniziato a studiare il pensiero steiniano. Per esso infatti ancora non siamo riusciti a trovare una plausibile spiegazione. L’unica spiegazione che pertanto ci sovviene è che la pensatrice deve essersi sentita in qualche modo obbligata (prima dal rigorismo razionalista filosofico hussserliano e poi da quello onto-metafisico e teologico tomista) a mantenere in secondo piano (se non nascosto) questo suo secondo Spiritualismo. Esso infatti era troppo fortemente in odore di spregevole irrazionalismo.
Non a caso, infatti, esso cominciò ad emergere solo verso la fine della seconda parte di EES, ossia in un momento della riflessione steiniana nel quale ella si era liberata definitivamente sia di Husserl che di Tommaso abbracciando invece la metafisica filosofico-teologica di Agostino ed anche dello stesso Paolo.
E sempre non a caso questo momento della sua riflessione precedette di pochissimo quel suo passaggio definitivo alla mistica che segnò poi la sua fuoriuscita quasi completa dalla filosofia. Il che significa che molto probabilmente il suo secondo Spiritualismo avrebbe potuto emergere in questa fase nel caso ella si fosse di nuovo dedicata alla filosofia. Ma ciò non avvenne sia perché ella si dedicò completamente ad opere mistico-pietistiche (che furono poi in gran parte una rilettura dei due grandi mistici, Teresa d’Avila e Juan de la Cruz), sia perché la morte precoce spezzò la sua vita e la sua opera. Fa eccezione a questo forse solo la sua opera dedicata da Dionigi l’Areopagita, ossia “Wege der Gotteserkenntnis” (WGE). In essa infatti si potrebbero forse trovare degli elementi per una concezione spiritualistica diversa da quella antecedente. Ed in effetti nella nostra riflessione su questa opera (vedi nota 3) abbiamo anche trovato tracce di questo aspetto specie nei termini di una visione metafisico-religiosa mistico-contemplativa, apofatica e dai toni molto suggestivamente neoplatonici. Tuttavia il tema di questa opera (che incluse una traduzione del testo di Dionigi ed inoltre un commento ad esso) fu la conoscenza di Dio ed affatto invece il concetto di Spirito. È evidente tuttavia che ella dovette avere ben presente che l’oggetto di tale conoscenza era nient’altro che lo Spirito divino.
Ciò non la indusse però a tematizzare specificamente questo aspetto.

In estrema conclusione quindi possiamo dire che da questa indagine sono emersi due sostanziali elementi.
Il primo elemento è il presentarsi del moderno Spiritualismo in alcune sue forme prevalenti: − 1) quello solo molto vagamente «onto-spiritualista» di Berdjaev, che però si sofferma soprattutto sul dinamismo creativo dello Spirito in quanto Essere non invece sulla sua possibile valenza di autentica realtà trascendente; 2) quello decisamente pneumatico di Guardini nel quale svanisce ogni possibile forma di «onto-spiritualismo», dato che lo Spirito si presenta come una sostanza estremamente sottile ed integralmente divina; che poi si offre esplicitamente a noi come forza di spinta sia nell’esistenza in generale sia anche nell’esistenza illuminata dalla fede cristiana; 3) quello di Maine de Biran, che, nonostante le sue venature religiose ed etico-emozionali-sociali, corrisponde in grandi linee al convenzionale Spiritualismo filosofico-gnoseologistico; sebbene (in concordanza con Mounier) esso abbia una certa valenza etico-azionistica;
4) quello di Mounier, che si presenta decisamente come uno Spiritualismo immanentistico, mondanistico e perfino materialistico, entro il quale lo Spirito non è da intendere in altro modo se non come un vitalismo dell’azione umana; e naturalmente questo Spiritualismo è molto affine a quello di Blondel e Bergson.
Ebbene, sintetizzando ora ulteriormente queste varie forme dello Spiritualismo storico (sicuramente non «onto-spiritualista»), sembrano delinearsi due principali sue forme: − quella dello Spirito pneumatico colto nella sua pienezza (quindi sicuramente irrazionalista ed altissimamente metafisico-religioso) e quella dello Spirito colto sostanzialmente come Intelletto e Ragione (quindi sicuramente razionalista se non «onto-intellettualista»). Appare dunque evidente che lo Spiritualismo storico ebbe due anime molto diverse tra di loro. E la dirimente tra di esse sembra sia stata la decisione di rivolgersi o meno alla più tradizionale concezione metafisica e metafisico-religiosa dello Spirito.
Naturalmente sullo sfondo di tutti questi Spiritualismi ha rivelato la sua presenza quello più convenzionale filosofico-gnoseologistico, che però non sembra essere stato fatto totalmente proprio da nessuno dei pensatori da noi presi in considerazione. Fanno eccezione a questo solo Stein e forse in parte Maine de Biran. Sebbene, rispetto a Stein, tale costatazione venga notevolmente ridotta nella sua portata dall’evidenza nel suo pensiero di una sorta di inspiegabile secondo Spiritualismo di segno totalmente opposto. Quel che è certo è che, a fronte di uno Spiritualismo convenzionale di fatto dormiente nell’intera filosofia moderna (tanto che esso nemmeno questa denominazione porta), lo Spiritualismo autentico (ossia quello storico, volontario e consapevole di sé stesso) si rivela essere tutto non convenzionale.
Questo comunque può essere considerato lo scenario dello Spiritualismo moderno così come si è presentato in una serie di pensatori che hanno operato (in stretto parallelismo con il Personalismo) tra il XVIII ed il XX secolo, ma con sviluppi ulteriori che arrivano fino ai giorni nostri.
In ogni caso vorremmo sottolineare che, nell’osservare questo complessivo scenario, non dovremmo dimenticare che lo Spiritualismo non ha soltanto un’importanza puramente storico-filosofica o anche puramente metafisico-filosofica, ma ha invece anche un’importanza religiosa; sebbene nel senso più ampio del termine. Intendiamo con ciò un impiego del termine «religioso» che equivale quasi integralmente al termine «spirituale». Quindi (come abbiamo più volte sottolineato) tale visione dovrebbe venire presa in considerazione anche allo scopo di individuare in essa le forme che ci permettono di impiegare lo Spiritualismo nel corso della nostra esistenza, e specialmente nel caso che abbiamo intenzione di spenderla nel contesto di un’esperienza religioso-spirituale che sia il centro della nostra intera vita. Abbiamo visto infatti che la concezione più integrale dello Spirito, quella pneumatica (ossia quella più fede alla natura più propria dello Spirito stesso, in quanto sostanza onticamente inafferrabile e estremamente dinamica), ci offre la possibilità di attingere continuamente alle stesse fonti più profonde dell’essere nel mentre intanto ogni giorno siamo impegnati a confrontarci con l’essere concreto nella sua maggiore deteriorità, ossia la sua impenetrabile e dura solidità. Questo non è altro che quell’essere esteriore che noi cogliamo nella sua spietata indifferenza (e spesso perfino malvagità) in quanto dominato dalle ferree Leggi della Natura – le più spietate delle quali sono quelle della inflessibile concatenazione tra causa ed effetto (che punisce i nostri errori nel modo più duro possibile) e quella dell’istinto di sopravvivenza nel suo più pieno trionfo, ossia la legge del più forte. Ed è un’esperienza questa che molto spesso − in assenza del soccorso dello Spirito (cioè del Dio stesso che è invisibilmente presente nel mondo) − può molto facilmente piegarci, schiacciarci ed annientarci; ossia strapparci alla nostra stessa natura spirituale. Questo significa allora che lo Spirito nella sua più alta, piena e propria concezione è quello che più autenticamente è presente nel mondo. Ossia è quello che più realmente si offre noi, ci accoglie, ci sostiene e ci accompagna. E lo fa quindi con quella “leggerezza” che è solo della Grazia, della quale parla lo stesso Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339.].
Ebbene per tutto questo decisamente lo Spiritualismo di Guardini si offre a noi come quello che è più utile a questo scopo. Purtroppo però non possiamo dire lo stesso dello Spiritualismo di Stein, a meno che non scegliamo di prendere in considerazione solo quello che fu meno apparente nella sua opera. E probabilmente è proprio questo ciò che bisogna fare per rendere onore alla sua riflessione.

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Ho appena ultimato un saggio dedicato al Personalismo che si è andato sviluppando in Occidente tra il XVIII e il XX secolo. E nell’allestirlo sono partito in particolare dal pensiero personalista di Edith Stein e Nikolaj Berdjaev. Il saggio vuole essere però anche un’ampia panoramica del pensiero personalista che discute a fondo le visioni di alcuni tra i maggiori esponenti di questa visione – in particolare Jacques Maritain, Paul Ricoeur, Nikolaj Berdjaev, Gertrud von Le Fort, Karl Jaspers, Max Scheler, Emmanuel Mounier, Romano Guardini, León Bloy, Fëdor Dostoevskij e Giacomo Leopardi. Altri non meno importanti pensatori personalisti vengono discussi indirettamente, mentre altri ancora non vengono discussi dato che ho escluso pensatori dei quali non possedessi letture sufficienti.
Il saggio si sforza comunque di chiarire tutti i caratteri della persona ed inoltre di chiarire la struttura la dinamica interne dell’intero Personalismo.
Questo saggio è destinato a venire pubblicato. Ma poiché non mi è stato ancora possibile farlo ne ho comunque allestito un sunto dal titolo «Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”» [ Vincenzo Nuzzo, Riassunto del saggio dell’autore dal titolo “Edith Stein, Nikolaj Berdjaev e il generale Personalismo”. | cielo e terra (wordpress.com)] che è stato da me pubblicato in questo stesso blog. In questo sunto il lettore potrà trovare una larga sintesi dei contenuti del saggio.

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1- Introduzione
Questo scritto vuole essere il sunto del saggio sul Personalismo, che ho recentemente ultimato e che spero di riuscire a pubblicare quanto prima.
Intanto però vorrei offrire qui una sintesi dei risultati ai quali mi ha portato la riflessione condotta sulla base dell’analisi testuale delle opere dei vari pensatori personalisti che ho preso in considerazione.
In ogni caso, comunque, questo saggio ha avuto come centri orbitali dell’intera riflessione il pensiero di Edith Stein e quello di Nikolaj Berdjaev, ossia due tra i maggiori pensatori personalisti del XX secolo.
Al confronto tra i loro due pensieri ho dedicato recentemente alcune riflessioni [Vincenzo Nuzzo, “Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende”), Dialeghestai 2022 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
< https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/ >].
Ho però voluto tentare sia un confronto tra questi due personalismi sia anche un confronto al largo raggio tra di essi e l’universo personalista nella sua interezza; da quello più antico (Maine de Biran) a quello più recente (Ricoeur). Il mio criterio di scelta circa pensatori da includere è stato però quello di trattare soltanto di quelli dei quali possiedo sufficienti letture, escludendo quelli dei quali non le possiedo. E l’effetto di ciò è stata una notevole restrizione del raggio di quello che è il vero universo personalista. Il quale è ben più ampio dello spazio occupato dai pensatori che ho trattato e perfino più ampio anche di quello dei pensatori che tra poco elencherò, e che contano tra i maggiori esponenti del personalismo.
Elencherò dunque ora i nomi di coloro che contano come i maggiori pensatori personalisti nel contesto di un arco di tempo che va dal XIX al XX secolo (ed anche oltre), ma comunque si concentra in particolare nel XX secolo, e precisamente tra gli anni ’30 e ’50. Eccoli: − Edith Stein, Jacques Maritain, Paul Ricoeur, Nikolaj Berdjaev, Gertrud von Le Fort, Karl Jaspers, Max Scheler, Søren Kirkegaard, Charles Renouvier, Charles Peguy, Emmanuel Mounier, Charles Secrétan, Félix Ravaisson, René Le Senne, Louis Lavelle, Gabriel Marcel, Lucien Laberthonnière, Romano Guardini, León Bloy, Michele Federico Sciacca. A questi nomi primari aggiungerò comunque ora anche altri nomi di pensatori o intellettuali che o non rientrano nel periodo d’oro del Personalismo (e dalla sua specifica atmosfera culturale) oppure provengono da aree diverse dalla classica filosofia personalista (filosofia analitica, poesia, psicologia, sociologia): − Fëdor Dostoevskij, Giacomo Leopardi, Wolfgang Goethe, Victor Hugo, Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson (attuale filosofo analitico), Nikolai Hartmann (filosofo eclettico di origini neokantiane e con forti interessi metafisici), William Stern (psicologo). Probabilmente (almeno per alcune loro riflessioni) rientrano comunque nell’universo personalista anche Hans Jonas ed Hannah Arendt. Un cenno a parte va fatto per Dostoevskij e Leopardi, che consideriamo sostanzialmente dei filosofi-poeti ed ai quali ho dedicato un largo spazio come pensatori personalisti.
Quanto poi a Leopardi nel passato lo avevo letto come pensatore esistenzialista ed in questo lo avevo associato anche a Fernando Pessoa [Vincenzo Nuzzo, “Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi” < Leopardi come poeta-filosofo. Esistenzialismo e Gnosi. | cielo e terra (wordpress.com)>; Vincenzo Nuzzo, I dialoghi di giorni senza fine e l’universale Biblioteca ‒ il sogno di Heidegger < I dialoghi di giorni senza fine e la Biblioteca universale ‒ il sogno di Heidegger | cielo e terra (wordpress.com) >].
Va anche ricordato che, grazie a Mounier (insieme a Le Senne e Lavelle) la famosissima rivista francese “Esprit” fu di fatto il nucleo e l’anima di quel Personalismo nel quale peraltro la scuola francese è assolutamente preponderante. Il che ci mostra anche quanto fortemente intrecciati siano stati Personalismo e Spiritualismo. Infine c’è una certa discordanza circa il pensatore che va considerato il precursore del Personalismo. Alcuni lo vedono in Maine de Biran (il cui pensiero si sviluppo tra XVIII e XIX secolo, immediatamente a ridosso della Rivoluzione Francese e poi anche della Restaurazione) ed altri (tra i quali Mounier) lo vedono invece in Renouvier (filosofo neo-criticista che visse ed operò nel corso dell’intero secolo XIX).
Devo infine anche doverosamente precisare che i saggi sul Personalismo certamente non mancano e che quindi questa corrente di pensiero conta già degli studiosi molto importanti, tra i quali il Prof. Danese [Armando Rigobello, Introduzione ad una Logica del Personalismo, Liviana, Padova 1958; Attilio Danese, Il problema antropologico. Il personalismo di Emmanuel Mounier, Ladolfi, Borgomanero (NO) 2012].

Ora prima di entrare nel merito del sunto del contenuto del mio saggio, vorrei proporre al lettore una sorta di generica classificazione del Personalismo, sebbene Mounier e Ricoeur ne abbiano proposte anche altre.
Eccola: − 1) personalismo in gran parte metafisico-religioso (quasi interamente cristiano) incentrato sull’uomo come essenza o sostanza, e quindi ontologico (Maritain, Stein, Berdjaev, Le Fort, Sciacca, Guardini, Scheler, Maine de Biran, Guardini, Bloy, Le Fort); 2) personalismo specificamente spiritualistico (Stein, Berdjaev, Sciacca, Guardini, Maine de Biran); 3) personalismo totalmente o parzialmente laico e filosofico-politico incentrato sulla relazionalità, sulla socialità e sui valori (Mounier, Scheler); 4) personalismo esistenzialista (Kirkegaard, Marcel, Leopardi, Jaspers); 5) personalismo metafisico-filosofico ma interamente laico incentrato sul fondamentale psichismo umano (Jaspers); 6) personalismo naturalistico e psicologico, incentrato sulla persona come attitudine relazione ed azione, ma non come sostanza (Ricoeur, Mounier, Scheler). Come si può facilmente vedere, diversi pensatori si lasciano difficilmente inquadrare in una sola forma della complessiva visione e quindi devono venire presi in considerazioni contemporaneamente in diverse delle sue forme.
Infine vorrei fornire qui un elenco dei principali testi ai quali mi sono ispirato nel dare forma al Personalismo in generale, dato che nell’esposizione che seguirà non potrà fornire delle voci bibliografiche precise rispetto alle idee espresse dai diversi pensatori. Per questo devo rinviare il lettore al testo del saggio, che però, come ho detto, non è stato ancora pubblicato. In ogni caso ulteriori voci bibliografiche (più secondarie) verranno da me fornite nel corso dell’esposizione. Ecco dunque le opere, che contrassegnerò anche con le sigle per mezzo delle quali le richiamerò nel corso dell’esposizione: −

1) Arendt Hannah, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010 (RG)
2) Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951 (DIWO)
3) Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018 (SC)
4) Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002 (CD)
5) León Bloy, Esegesi dei luoghi comuni, Paoline Roma 1961 (ELC)
6) León Bloy, Il sangue del povero, Paoline, Milano 1962 (SP)
7) León Bloy, L’anima di Napoleone, Paoline, Milano 1962 (AN)
8) Rolando Damiani (a cura di), Leopardi. Poesie e Prose, Mondadori 1996
9) Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Maria Amata Neyer, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA
3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015.
10) Romano Guardini, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald &
Schöningh, Ostfildern Paderborn 1988 (WP)
11) Romano Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016 (DH)
12) Karl Jaspers, Del tragico, SE, Milano 2008 (DT)
13) Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971 (PE)
14) Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956 (PM).
15) Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Forgotten Books, London 2018 (PDW).
16) Hans Jonas, Il principio responsabilità. Einaudi Torino 1993 (PR)
17) Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014 (BTEE)
18) Marie-François-Pierre Maine de Biran, Frammenti sui fondamenti della morale e della religione,
Bibliotheca, Gaeta 1998
19) Emmanuel Mounier, il Personalismo, AVE, Roma 1964 (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti)
20) Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2015
21) Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London 2018
22) Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Elibron Classics 2007 (DFE)
23) Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988
24) Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001 (DAMP)
25) Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006 (EES)
26) Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch
einer Gegenüberstellung“, in: Husserl zum 70. Geburtstag, N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-
338
27) Edith Stein, Geistliche Texte I, ESGA 19, Herder, Freiburg Basel Wien 2009.
28) Edith Stein, Geistliche Texte II, ESGA 20, Herder, Freiburg Basel Wien 2007 Basel Wien 2007.
29) Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Citta Nuova, Roma 1998
30) Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009.
31) Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003 (PA)
32) Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996
33) Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934

Prima di procedere nella lettura vorrei avvertire che il testo che segue compare nel saggio come una sorta di bilancio finale di tutto il materiale raccolto. E quindi molte sue affermazioni vanno considerate necessarie in relazione a questo scopo.

2- Riassunto del saggio
Il saggio ha offerto al lettore uno scenario piuttosto ampio del personalismo, sebbene esso non può pretendere assolutamente di includere tutti i pensatori rientranti in questa visione (nel contesto di un vero e proprio Trattato sul Personalismo), specie quelli più attuali ed inoltre quelli più lontani da una visione personalista di tipo metafisico-religioso. Diciamo che, con ciò che ho esposto, il lettore può essersi fatta un’idea abbastanza ampia e profonda del concetto di persona così com’è stato concepito nel Personalismo in generale, ed inoltre può essersi fatto un’idea abbastanza ampia e profonda di quali sono state e sono le varie forme di personalismo che sono insorte già a partire dal secolo XVIII fino ad oggi. Oltre a ciò ho comunque chiarito a sufficienza che il Personalismo non può in alcun modo venire considerato un fenomeno unicamente moderno, dato che esso ha alle spalle una tradizione millenaria che affonda le sue radici addirittura nella filosofia sapienziale e religiosa dei templi egizi e caldei. E peraltro più avanti vedremo che (nonostante le idee contrarie rispetto a questo di Berdjaev, Ricoeur e Mounier) si ritrovano elementi personalistici perfino in Platone. Inoltre ho anche fornito più volte strumenti per l’orientamento entro questo così vasto scenario di concezioni, nel senso della sua classificazione in forme diverse, ognuna della quale raccoglie in sé un certo numero di specifiche visioni e relativi pensatori.
Tuttavia, nel dover discutere ed ancor più comparare la visione personalista di diversi pensatori, il mio discorso è dovuto essere necessariamente molto oscillante. E mi sembra quindi che ciò esiga una nuova sintesi chiarificatoria e disambiguante (sia dei caratteri della persona sia anche dei caratteri del personalismo) – che segue a quella preliminare, ma ormai sulla base di una vasta analisi testuale e dottrinaria.
Quello che però ora mi sembra necessario è rivedere questo intero materiale per due scopi: − 1) ottenere una sorta di sintesi della dottrina della persona (e della relativa visione personalista) nei suoi tratti principali; 2) ottenere una classificazione molto generale del Personalismo diversa (in quanto più generale ed essenziale) da quelle già proposte che ci permetta di vederne le sue più grandi e principali direttrici.
Devo però ribadire che questa mia trattazione del Personalismo resta comunque incentrata su Nikolaj Berdjaev ed inoltre sul confronto della sua visione con quella di Edith Stein. Questo insomma è restato costantemente il punto focale della mia indagine. Abbiamo visto più volte che la prima visione (quella di Berdjaev) è forse davvero la più profonda, completa e profondamente ispirata moderna dottrina della persona. Abbiamo però anche visto che essa è tutt’altro che perfetta, e quindi finisce per apparire insufficiente al cospetto di non poche dottrine della persona ed anche di specifici aspetti di essa.
Quanto a Stein abbiamo constatato l’esatto contrario. Al cospetto della dottrina personalista di Berdjaev quella steinana è apparsa costantemente insufficiente in primo luogo in quanto condizionata troppo fortemente tanto dallo gnoseologismo filosofico ed intellettualistico (che le proveniva di Husserl) quanto anche da quella dogmatica (metafisico-teologica) cristiana la quale (non avendo fino in fondo il coraggio di credere davvero nel mistero dell’Incarnazione) non era riuscita a concepire in maniera realmente integrale la pienezza e dignità della persona in quanto sostanziale umano-divinità. E specialmente, al cospetto di Guardini, abbiamo constatato quanto la causa di tale insufficienza sia consistita nel pesante condizionamento filosofico del pensiero steiniano, che sta oggettivamente in conflitto con le radici sostanzialmente teologiche del concetto di persona. Il che poi in particolare mette allo scoperto l’insufficienza dello spiritualismo steiniano (sostanzialmente a causa della natura sostanzialmente intellettualistica) in quanto del tutto impari rispetto a quello che sostiene il più autentico Personalismo.
Nello stesso tempo però abbiamo visto più volte che la visione personalistica steiniana riesce comunque a sottrarsi in diversi aspetti a quella insufficienza che emerge nel suo confronto con Berdjaev, riconfermandosi così come uno dei più grandi personalismi che mai siano apparsi nel mondo del pensiero.
Insomma qui posso finalmente riconfermare che è stato questo il centro orbitale intorno al quale si è mossa la mia intera trattazione del Personalismo.
Detto questo non posso in alcun modo negare (pur con tutte le relativizzazioni di questa tesi nella quale mi sono imbattuto) di ritenere che la più autentica e primaria visione personalista sia quella che considera la persona come un’entità ontologica e sostanziale, e quindi anche metafisico-religiosa. Il che implica poi che la persona umana è da considerare invariabilmente come la stessa «anima» in quanto sostanza onto-metafisica. A ciò vi è però da aggiungere che tale animicità dell’uomo personale deve necessariamente venire ricondotta alla sua (ben più profonda e fondamentale) onticità spirituale.

2-1 La dottrina della persona in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» della persona sulla base dell’esame del pensiero personalista.
Credo che sia utile qui distinguere i caratteri ontologico-basici della persona in due gradi e cioè quelli più fondamentali e quelli meno fondamentali.
I primi caratteri sono i seguenti: − non-cosalità o trascendenza, sostanzialità animico-spirituale (specialmente spirituale), umano-divinità, concretezza reale, umanità (relazione di possibile coincidenza ontologica tra persona ed uomo), relazionalità, connessione (o meno) con Io, individuo e finito, identità, unità ed unicità.
I secondi caratteri sono i seguenti: − dignità, creatività (unita tendenzialmente alla potenza), azione (specialmente di tipo morale), capacità di responsabilità e scelta, disposizione all’amore, libertà, tendenza alla comunionalità, tendenza ad un’azione trasfigurante e perfino rivoluzionaria.
Per questo motivo tratterò del tema della persona in due diverse sotto-sezioni.

2-1.1 I caratteri più fondamentali della persona.
La persona in primo luogo non è in alcun modo una cosa del mondo. E questo viene affermato praticamente da tutti i pensatori personalisti. Naturalmente ciò comporta uno dei caratteri ontologici più fondamentali della persona stessa, che è la trascendenza. E di questo carattere non mette conto qui nemmeno parlare, dato che, rispetto ad esso, nel mio saggio non sono emerse né problematicità né contraddizioni. Infatti appunto tutti i pensatori personalisti lo mettono in evidenza senza grandi differenze. In altre parole per tutti i pensatori personalisti (tranne forse per Ricoeur) la persona è in pieno possesso di una trascendenza che fa di essa un’entità decisamente metafisica (qualunque sia la letteralità, il grado e l’intensità che si voglia poi attribuire a questo concetto). L’unica discrepanza a tale riguardo potrebbe consistere nella radicale originarietà ontologica che Berdjaev attribuisce alla persona e quindi anche alla sua trascendenza. Ma di questo parleremo tra poco.
Tale trascendenza non impedisce affatto, però, che la persona sia estremamente concreta e perfino carnale, dunque almeno in una certa misura mondana. Essa insomma non è affatto né un’idea, né una vuota entità logico-astratta né un puro spirito (sebbene sul piano metafisico assomigli molto ai puri spiriti). E questo perché essa è presenza nel mondo ed anche azione in esso. In particolare è azione creativa nel senso della partecipazione alla creazione (nella forma soprattutto di sua continuazione) e specialmente della trasfigurazione in senso spirituale del mondo. Questo è da considerare il principale effetto della presenza di una piena persona nel mondo. A questo c’è però da aggiungere che (specie sulla base di Mounier) tale presenza è da considerare qualcosa che è senz’altro in via di principio attuale, ma lo è intanto solo condizionatamente alla decisione presa in tal senso dai singoli uomini ed anche dall’intera società e relativa cultura. In altre parole per il pensatore francese non basta affatto lo status previo ed originario di sostanza metafisica che caratterizza la persona. Essa invece deve ancora farsi come tale nell’azione, cioè deve diventare persona nell’agire (e per sua espressa decisione). Altrimenti resta una mera latenza.
Tuttavia questo non cambia nulla nell’ontologia fondamentale della persona. Infatti, come ho detto già in partenza nell’introduzione a questa sezione, la non-cosalità della persona implica necessariamente che essa è una sostanza onto-metafisica trascendente, e quindi è anima e spirito. Motivo per cui non vi è assolutamente nulla che possa dissolverla onticamente, e quindi nemmeno la morte stessa. Ecco perché la persona è immortale per definizione, ovvero è una sostanza che trascende decisamente il divenire temporale persistendo infinitamente. Il che implica poi necessariamente che essa trascende decisamente la Natura e tutto ciò che è naturale. Proprio per questo motivo, come poi vedremo più approfonditamente, essa non è affatto né individuo, né Io, né coscienza né psiche né uomo in carne ed ossa, né ente animale, né infine un mero ente finito. È invece sempre molto più di questo.
Altro aspetto primario e fondamentale della persona è la sua umano-divinità, ossia la sua somiglianza totale alla Persona divina in quanto Gesù Cristo, Figlio e Logos. E questo è senz’altro quel Dio incarnato il quale, nel suo immenso amore, ha voluto abbassarsi alla natura umana fino a porsi come l’Uomo Cosmico o anche Uomo Prototipico (supremo e nuovo Adamo, o nuovo Primo Uomo, “Adam Kadmon”, “Macroanhtropos” o “Pananthropos”), che è non solo il nucleo e modello divino-spirituale della persona umana ma è anche quel Corpo Mistico entro il quale viene a compimento una delle principali attitudini e disposizioni della persona. Si tratta dell’attitudine della persona ad essere tale in primo luogo nel divenirlo per mezzo dell’«altro» uomo, una volta riconosciuto anch’esso come persona (e non come mero oggetto).
E si tratta quindi della dimensione ontologica primariamente relazionale della persona – in quanto “Io” che non solo sta in relazione con il “Tu” ma che inoltre solo in questo modo giunge al proprio compimento di piena persona. Il che riproduce peraltro perfino la relazione che esiste tra Dio ed il mondo nel Suo creare quest’ultimo sostanzialmente come un mondo alieno («altro») del quale Egli rispetta l’esistenza fino al punto di retrocedere al suo cospetto rinunciando in tal modo alla propria soverchiante Potenza, Perfezione e Santità.
Nello stesso tempo ciò ci indica che questa è una delle principali vie per mezzo delle quali la persona diviene per davvero ciò che è in forza della sua scelta e della sua decisione. Questa è infatti senz’altro la via della dimensione relazionale della persona intesa in termini sostanzialmente metafisico-religiosi e teologici.
Ma (come ci dimostra il pensiero di Mounier) ciò ha un preciso corrispettivo entro la dimensione più pragmatica, mondana e sociale della relazionalità – anche in quest’ultima infatti la persona deve fare una precisa scelta in assenza della quale essa perde la possibilità di essere ciò che è ed in tal modo ricade in quella realtà individuale che è unicamente egocentrica.
In ogni caso tutto ciò sottolinea che gli elementi ontologico-basici più primari della persona (non-cosa e sostanza, umano-divinità) fanno di essa un qualcosa che può e deve venire concepito in primo luogo in termini non solo onto-metafisici ma anche metafisico-religiosi. E questo rende naturalmente assolutamente primario il personalismo cristiano.
Da tutto ciò discende inevitabilmente che la persona non è altro che l’uomo colto nella pienezza della sua inalienabile dignità. Ma di questo aspetto parleremo solo dopo aver chiarito alcuni altri estremamente fondamentali aspetti ontologici della persona.
Innanzitutto il fatto che la persona sia concreta e reale (e quindi né un’Idea, né una vuota entità logico-astratta né tanto meno un puro spirito) implica che essa sia umana e quindi coincida necessariamente con la realtà ontologica dell’«uomo». Ebbene questo Berdjaev lo dice in una maniera così diretta, radicale ed esplicita che davvero non si può trovare un altro pensatore personalista che faccia lo stesso. Egli fu insomma personalista quasi totalmente sulla base di un fortissimo accento posto sul recupero di un’esplicita e centrale antropologia. Anzi per lui il Personalismo è la stessa filosofia colta nella sua irrevocabile vocazione antropologica, ossia come scienza dell’uomo. Cosa che indubbiamente era venuta a mancare in filosofia da quando la preoccupazione critico-gnoseologica (certamente da Kant) in poi aveva spiazzato perfino quell’antropologia che senz’altro si ritrova ancora perfino in Cartesio nonostante la sua forte relativizzazione dell’ontologia (che a sua volta sostiene il concetto di persona come sostanza onto-metafisica e metafisico-religiosamente concepita).
Non vi è dubbio intanto che Stein (sebbene con toni molto meno accesi) segue a ruota Berdjaev in questa sua identificazione strettissima tra «persona» ed «uomo», e quindi nella sua affermazione della necessità di ricostruire un’esplicita antropologia. Inoltre vi sono motivi sufficienti per ritenere che (sebbene in misura minore) ciò valga anche per altri pensatori da noi direttamente discussi – Maritain, Guardini, Jaspers, Scheler, Bloy, Le Fort, Dostoevskij, Leopardi e Maine de Biran. Per Mounier ci permettiamo di nutrire però dei dubbi dato che la sua concezione della persona è largamente relativa all’azione ed alla dimensione sociale. Tuttavia non vi è dubbio che nel suo pensiero si ritrovino certamente elementi antropologici.
Il problema è però se per davvero la persona equivalga onticamente così direttamente all’uomo (come sostiene Berdjaev), dato che tale stretta equivalenza riposa sulla pari equivalenza della persona e dell’uomo all’essere stesso. Ed a tale riguardo sono emersi nella mia trattazione degli elementi di forte dubbio.
Va detto comunque che questo tema è inscindibilmente connesso con quello dell’attribuzione alla persona del carattere dell’umano-divinità ed inoltre quello dell’onticità spirituale (equivalenza tra uomo e spirito). Essa è inoltre connessa anche con il tema dell’attribuzione all’uomo della stessa originarietà che compete all’essere.
Orbene un po’ dappertutto nella mia trattazione (non solo commentando Berdjaev) è emerso che la persona deve necessariamente coincidere con l’uomo a causa dell’unità (a sua volta intimamente connessa all’unicità) che nella sua vera integralità è solo di quest’ultimo. E la persona è appunto quanto di massimamente unitario possa mai venire concepito. Tanto è vero che essa esprime in pieno l’unicità che caratterizza ogni singolo uomo. Ma ultimamente sono insorte diverse concezioni riduzionistiche (alcune delle quali perfino teosofiche e vagamente spiritualiste, e tra le quali anche l’induismo e soprattutto il buddhismo nelle loro versioni occidentali) le quali, nel negare l’unità dell’uomo, negano necessariamente anche la sua equivalenza alla persona. La quale quindi in una certa misura deve invece venire accettata quasi come un dogma. Lo stesso Berdjaev menziona criticamente una serie di moderne visioni teosofiche che di fatto annientano la persona proprio nello scomporre l’uomo in una realtà naturale-elementare affatto unitaria (ed include in queste visioni anche diverse dottrine orientali decisamente anti-personaliste). Nel contesto del mio discorso è emerso con chiarezza (specie sulla base di Guardini) che lo stesso riduzionismo va attribuito alla moderna teoria della “Gestalt” – che da tempo spadroneggia in biologia, psicologia, sociologia e filosofia. In essa infatti si tende a sostenere che potrebbe essere una realtà personale anche un semplice Tutto perfettamente integrato nelle sue parti – laddove invece questo è vero anche per enti unitari del tutto inanimati come ad esempio i cristalli. Stein intanto ha riaffermato la necessità di un’antropologia proprio nel difendere l’unità dell’uomo contro varie dottrine moderne (la dottrina evoluzionistica di Darwin, la psicanalisi freudiana e perfino l’esistenzialismo nichilista di Heidegger).
Esistono comunque anche gli argomenti contro l’affermazione di questa così stretta equivalenza tra persona ed uomo. Uno di questo riguarda proprio l’attribuzione all’uomo della natura personale in quanto spirito per eccellenza. Abbiamo udito infatti Guardini sottolineare che vi è un’onticità para-spirituale del tutto indifferenziata ed elementare che non è affatto umana, dato che essa non ha nulla a che fare con l’azione libera e quindi con la scelta responsabile. E questa corrisponde esattamente alla “Gestalt” in quanto mera sagoma individuale (perfettamente circoscritta) che racchiude una totalità perfettamente integrata nelle sue parti, ma intanto non vitale, non cosciente e non libera. La scelta responsabile, infatti, è solo dello “spirito individuale” che poi è esattamente l’uomo in quanto persona. E solo questo è il vero spirito in quanto uomo e persona. Pertanto su questa base bisogna dire che (diversamente da quanto sostiene Berdjaev) l’equivalenza tra persona ed uomo non è affatto originaria, in quanto essa emerge per davvero soltanto nel contesto dell’azione umano-personale, e quindi è del tutto relativa a quest’ultima (e forse anche totalmente storica). Ben altra cosa invece è dire che la persona è uomo in maniera radicalmente originale e quindi assoluta, dato che uomo ed essere sarebbero esattamente la stessa cosa. Abbiamo peraltro visto in questo contesto che la stessa Stein, nel sostenere come Berdjaev (ma non con lo stesso radicalismo) l’equivalenza tra persona e uomo, non ha nemmeno lei posto mai l’accento su questo concetto di “individualità spirituale” (almeno non con la stessa forza di Guardini).
Ma forse l’argomento più forte contro Berdjaev si ritrova in Mounier, nel contesto del cui pensiero addirittura vi è un momento in cui persona e uomo appaiono ontologicamente del tutto slegati tra loro.
E questo peraltro ci rinvia all’accento posto da Maritain e Guardini sulla persona umana in quanto sostanziale “lui” o anche “chi?” (invece che mero “cosa?”) – e cioè un oggetto che in verità è sempre in primo luogo un soggetto, ed in particolare grazie all’essere oggetto dell’eterna conoscenza amorosa di Dio (è la persona umana come quel “colui” del quale solo Dio conosce il vero “nome”). Mounier dice infatti che persona non è affatto l’uomo. Semmai invece essa è l’uomo che osserva sé stesso scoprendo così di non essere un mero oggetto, ossia un mero e del tutto casuale “un”, ma è invece un “lui”.
Ebbene una simile affermazione si ritrova di fatto in tutti i pensatori personalisti, incluso anche Berdjaev. Tuttavia (come abbiamo prima constatato in Guardini) essa (nella forma specifica in cui è formulata) ci mostra che l’equivalenza tra persona e uomo è semmai un atto e non invece uno stato ontologico – e precisamente è un atto volontario per mezzo del quale l’uomo sceglie di porre sé stesso come persona e come tale considerarsi. E come tale non può essere né originario né assoluto. Il che esclude molto decisamente l’equivalenza trinomiale affermata dal pensatore russo – essere-uomo-persona. Sicuramente, quindi, questo salva Stein da molte delle costatazioni di insufficienza che, nel corso della mia trattazione mi sono visto costretto ad attribuirle. Anche lei infatti ha visto nell’uomo questo atto di auto-consapevolezza che fa di esso una persona. Ma intanto si è guardata bene dal giungere per questa via all’affermazione dell’equivalenza assoluta ed originaria tra uomo ed essere. La sua antropologia metafisica è stata infatti sempre dominata dalla discrepanza da riconoscere tra finito umano ed Infinito divino. Però nel corso della mia trattazione è risultato chiaro che nemmeno questo giustifica in maniera sufficiente la vera natura metafisica della persona – la quale onticamente non è né individuo, né Io, né coscienza, né finito.
Dunque nel complesso questa affermazione berdjaeviana della radicale equivalenza uomo-essere appare essere estremamente debole sul piano onto-metafisico, e quindi risulta alla fine un elemento estremistico che può anche venire tralasciato nel concepire un Personalismo davvero equilibrato. Semmai tale equivalenza può venire considerata relativamente valida unicamente nella sua specifica concezione dell’essere. Ma a questo punto quest’ultima appare anch’essa tutto sommato secondaria e superflua nel contesto di una visione personalista. In altre parole insomma si può dire che un pieno Personalismo può sussistere anche in assenza di una concezione così radicale dell’essere come quella berdjaeviana.
Diversamente stanno le cose però riguardo all’equivalenza stabilita dal pensatore russo tra persona e spirito – e peraltro sempre sulla base della supposizione dell’assolutamente originaria equivalenza tra essere e spirito. Abbiamo già visto infatti che, almeno nei fatti, la persona non è affatto un puro spirito (sebbene lo sia comunque per costituzione ontica originaria), bensì è una realtà estremamente concreta. Questo lo afferma con forza lo stesso Berdjaev, ed abbiamo visto che ciò si basa secondo lui sulla necessità di abolire qualunque dualismo spirito-carne.
Quindi è intuitivo che anche in questa equivalenza deve essere nascosta qualche problematicità filosofico-metafisica ed anche metafisico-religiosa. E tuttavia è anche vero che quasi tutti i pensatori personalisti (a partire da Maine de Biran) hanno colto la persona umana come spirito. Tanto è vero che personalismo e spiritualismo sono oggettivamente strettamente intrecciati. E quindi nemmeno si può dire che tale equivalenza non possa né debba venire considerata valida. In ogni caso la questione dell’equivalenza persona-spirito può e deve venire trattata insieme a quella della valenza spiritualista o meno del Personalismo. Bisogna partire dal fatto, sottolineato da Scheler, che la stessa dimensione relazionale della persona (la sua “intenzione di società”) riguarda unicamente l’uomo spirituale, e non invece né l’uomo razionale né l’uomo naturale. E con ciò viene affermata con forza l’identità ontologica tra persona e spirito.
Tuttavia (in DFE) egli afferma anche che, non essendo né soggetto mentale-naturale né Io, la persona non è da considerare nemmeno spirito. Va però tenuto in considerazione che Berdjaev considera la perfetta equivalenza tra persona e spirito sulla base del fatto che essa è attiva per definizione, e quindi non si può parlare nel suo caso di alcun libero arbitrio, visto che esso è invece solo passivo e reattivo. Ma ritorna di nuovo qui il concetto guardiniano di “individuo spirituale”, dato che egli afferma che la persona umana non è né spirito indifferenziato né tanto meno pura coscienza.
E questo sottolinea l’equivalenza persona-spirito, ma ancora una volta su un piano relativo (incentrato proprio sull’esercizio del libero arbitrio) e non invece originario-ontologico. A ciò si aggiunge peraltro il fatto che Guardini sottolinea (su base unicamente teologica ed affatto filosofica-metafisica) che lo Spirito di Dio in quanto Amore è incarnazione della persona (nel contesto della dinamica trinitaria). Il che ci porta ancora di più a pensare che esattamente in questo modo (affatto letterale) vada correttamente intesa l’equivalenza persona-spirito in quanto originaria, che invece Berdjaev afferma su un piano unicamente onto-metafisico con una certa affrettata foga ideologica di tipo umanistico.
Di nuovo poi a questo riguardo viene Mounier a dirimere l’intera materia nell’affermare che, sebbene la il valore ed anche la stessa ontologia della persona vadano riconosciuti risiedere entrambi nella sua interiorità più intima (che è poi quanto fa di essa uno spirito), è anche vero che in definitiva essa non è affatto un “essere” ma semmai è molto più una “presenza”. E questo scardina decisamente la persona dall’onticità spirituale in radicale conflitto con ciò che pensava Berdjaev.
Orbene tutto questo offre argomenti sia pro che contro l’equivalenza totale persona-spirito. Però bisogna anche considerare che (come abbiamo visto nel corso della trattazione) lo spiritualismo di Mounier non è affatto rappresentativo né dell’intero Personalismo né di quello più profondo (che è senz’altro quello sostanzialista e metafisico-religioso). Peraltro abbiamo visto che Guardini non nega affatto in assoluto l’equivalenza esistente tra persona e spirito. Ed infine a questo punto va considerato paradigmatico per davvero il personalismo di Stein (unitamente anche a quello di Maritain), dato che esso (nonostante il suo così condizionante intellettualismo gnoseologico-filosofico) sostiene con ragioni formidabili (ed anche estremamente sublimi) tale equivalenza.
Pertanto – pur nel dover porre di nuovo in discussione la così radicale equivalenza originaria persona-uomo-spirito-essere affermata da Berdjaev – possiamo qui senz’altro assumere che persona e spirito sono una sola cosa.
C’è poi da considerare la questione se la persona sia da considerare o meno un’entità effettivamente ontologica, e quindi anche da concepire in termini metafisici. Ma riguardo a questo, nel corso della mia trattazione, abbiamo visto che i vari pensieri personalistici si incrociano e mescolano tra di loro, per cui questa affermazione si ritrova anche tra coloro (come Guardini, Maine de Biran) che in primo luogo vedono nella persona un’entità relazionale.
Vi sono poi una serie di caratteri ontologico-basici della persona che possono ben venire trattati insieme sulla base dei riscontri che abbiamo ottenuto al riguardo nel corso dell’indagine – individuo, Io, condizione di finito. La questione rispetto a ciò è se la persona possa venire considerata ontologicamente ad uno o anche a tutti questi elementi insieme. E qui (come ho già detto) la risposta può essere in partenza negativa, dato che (nonostante l’andamento alternante delle costatazioni che ho fatto al riguardo nel corso della trattazione) comunque sono prevalsi gli argomenti contro una tale equivalenza. In particolare per quanto attiene la possibile equivalenza tra Io e persona.
Ma vediamo di riassumere quali sono i punti più rilevanti della questione.
Lo stesso Berdjaev (nel suo DIWO) sentì l’esigenza di fare preliminarmente chiarezza su questo punto sulla base di Nikolai Hartmann. E, sulla base di questo pensatore, ci ha dunque mostrato che né l’individuo né l’Io possono venire considerati persona, in quanto il primo è un’entità umano-singolare puramente naturale mentre il secondo è un’entità umano-interiore totalmente indifferenziata, nel mentre invece la persona è differenziata per definizione. Il che implica poi la dimensione dell’unicità personale che manca sia all’individuo che all’Io per il semplice fatto che entrambi sono ontologicamente riduttivi. L’individuo lo è in quanto meramente quantitativo (e quindi per nulla qualitativo); perché esso è singolare alla stregua di qualunque entità naturale (animali, piante ed anche morte cose). L’Io lo è in quanto è puramente astratto e ontologicamente potenziale, e quindi affatto realizzato com’è invece la persona. Il che comporta anche nel suo caso l’impossibilità che esso possieda davvero l’unicità, dato che quest’ultima si manifesta soltanto in ciò che è «proprio questo uomo» (ossia un uomo come non ce n’è nessun altro). Ed è chiaro che ciò è possibile solo nel caso di un’entità ultimamente concreta, ossia appunto un Io definitivamente realizzato in quanto totalmente esplicato. Del resto questo fu quanto affermò anche Stein un po’ in tutte le sue riflessioni (AMP, PA, EES) – nello sforzarsi di chiarire che la persona è senz’altro originariamente uno spirito, e quindi un’Idea (-Essenza), ma nei fatti lo è solo in quanto idea incarnata, ossia come Essente unico-personale terreno che a sua volta è perfettamente speculare rispetto all’Essente unico-personale divino, ossia il Logos (che è poi anche il paradigma ideale-essenziale di ogni cosa mondana).
Diciamo quindi che la persona è un Io solamente in quanto potenzialità ed affatto invece in quanto attualità. Berdjaev sottolinea comunque anche che, proprio in quanto l’individuo è così riduttivo, lo stesso vale anche quando lo si considera come il finito in quanto esistente. Anche quest’ultimo infatti non è altro che una base ontico-naturale (e per la precisione tragico-esistenziale) che non può essere in alcun modo comparata con la radicale trascendenza, creatività e libertà che caratterizzano la persona.
Oltre a ciò il pensatore russo afferma che la persona per definizione si pone in relazione ad un Tutto, mentre invece l’Io considera sé stesso come un Tutto oltre il quale non vi è assolutamente nulla. E proprio per questo esso tende a porsi come un’identità che non è essa stessa per nulla equivalente alla dimensione identitaria della persona – dato che la prima è escludente, mentre la seconda è includente. Inoltre Berdjaev si richiama a Kirkegaard nel richiamare l’idea di quest’ultimo secondo la quale la verità sta soltanto nel soggetto in quanto “coscienza” nel senso etico (“Gewissen”). Ma questo però non è affatto possibile se il soggetto viene identificato con l’Io, il quale è unicamente egocentrico. E quindi anche questo rende impossibile che l’Io sia persona. E bisogna dire a questo punto che anche Stein cadde in fondo nel tranello di considerare la persona di fatto come equivalente all’Io.
Lo stesso tipo di constatazioni può essere fatta laddove Guardini vede nell’individuo appena il livello secondo (subito dopo quello della “Gestalt”), e quindi più basico ed elementare, della realtà umano-personale, che corrisponde a sua volta ad una mera auto-delimitazione spaziale dell’organismo vivente. Quanto poi all’Io esso potrebbe venire considerato nella sua riflessione equivalente a quel terzo (ed ancora insufficiente) livello della realtà personale che corrisponde alla coscienza nella sua valenza unicamente conoscitiva ed affatto invece etico-attiva che si muove realmente nel mondo. A tale livello mancano infatti ancora totalmente quegli atti della volontà libera, e quindi della scelta responsabile, che poi configurano quell’”individuo spirituale” in quanto persona, del quale ho parlato prima. Inoltre il pensatore tedesco afferma anche che, sebbene in via di principio egli tende a considerare l’Io più originario della persona, tuttavia (come dice anche Berdjaev sulla base di Hartmann) lo considera tale solo in quanto forma ancora incompleta. Quello che è certo è che egli considera la possibilità dell’individuo in quanto persona solo dopo che esso abbia davvero raggiunto lo status ontologico di “Lui”.
Il che ovviamente da suo punto di vista comporta un atto onto-costitutivo che è primariamente divino.
Maine de Biran sostiene poi che, dato che la persona insorge sostanzialmente nell’atto di rivolgersi verso di sé (riconoscendosi come tale interiormente), ciò necessariamente lascia che si delinei un vero e proprio Assoluto che non può in alcun modo essere un individuo. Inoltre egli ritiene che la persona per definizione si muova sul piano religioso verso quell’unione tra le due nature (naturale e divino-spirituale) che può comportare soltanto un percorso che procede da sensibile ad intelligibile e da relativo ad assoluto. Laddove il percorso contrario è esattamente quello che invece reca all’individuo.
Ma, uscendo poi perfino dal piano dell’onto-metafisica, per spostarsi sul piano pragmaticamente sociale e relazionale, Mounier sostiene che la realtà personale è per definizione una pluralità integrata. Il che di nuovo esclude nettamente la possibile identificazione tra la persona e quell’individuo che (essendo poi in primo luogo naturale ed affatto sociale) può costituire solo un’entità disintegrata da tale pluralità. In altre parole, anche sul piano relazionale, la persona tutto può essere tranne che un individuo. Quanto poi all’Io, egli sostiene che il «cogito» di Cartesio (incentrato appunto sull’Io in quanto coscienza) ha potuto al massimo considerare un individuo solipsistico ed affatto invece una persona. E questa va peraltro considerata un’insufficienza personalistica dell’intero idealismo, che abbiamo del resto riscontrato costantemente nell’intera trattazione. L’idealismo non è apparso infatti capace di concepire alcuna vera realtà personale. E questo coinvolge senz’altro anche Stein, dato che ella non riuscì di fatto mai a liberarsi dall’idealismo (nonostante la fase realistica che visse restando in sintonia con Tommaso ed Aristotele) – prima come idealismo trascendentale husserliano e poi come idealismo platonico agostiniano.
Sempre in questo ambito estremamente pragmatico (ed affatto ontologista e metafisico-religioso) vi è da considerare che Ricoeur considera la persona sostanzialmente come un “se” ed affatto invece un “io”. Quest’ultimo infatti è unicamente una “prima persona” che non può per definizione stare in relazione con alcuna “seconda persona”, ossia l’”altro”, se non come mero oggetto da esso invalicabilmente separato (come avviene appunto nella conoscenza). Pertanto la relazione tra Io ed altro, che fa della persona ciò che essa è, si configura solo quando essa si pone come “terza persona”, ossia appunto come “se”.
Posto tutto questo, dobbiamo concluderne (e sulla base di tutte le osservazioni che ho fatto a tale proposito nel corso della trattazione) che il Personalismo di Stein si distacca per davvero da questa serie di prese di posizione nel senso di una certa sua insufficienza. La pensatrice, infatti, ha senz’altro concepito l’Io come un esistente proprio in quanto voleva intenderlo come una persona reale e concreta. Eppure, nel concepire la persona, ella ha avuto sempre davanti al proprio sguardo unicamente l’Io cosciente; specie nel contesto dell’atto tutto intellettualistico di auto-riconoscimento e possesso di sé stesso che costituisce la persona. In altre parole, nel pensare a quella totale fondazione in sé stessa che fa della persona ciò che essa è ontologicamente, Stein non ha affatto trasceso e superato l’Io, ma invece lo ha considerato un elemento indispensabile per questo atto di auto-fondazione. Il che significa che in qualche modo ha ontologicamente equiparato la persona all’Io. Ed a ciò si aggiunge inoltre l’importanza che ella ha dato al processo di individuazione nella genesi di quell’Essente unicissimo che è la persona umana; e che secondo lei non è altro che l’essenza ideale progressivamente concretizzatasi ed incarnatasi lungo la falsariga del processo (logico-ontologico di tipo metafisico) che reca alla determinazione individuale. Certamente nel fare questo ella si è distaccata dal processo di individuazione tomista, secondo il quale l’individuo è una persona unica su base unicamente quantitativa e materialistica (ossia appunto in quanto ente determinato naturalmente separato da altri enti determinati, e quindi tutti «individuati»). Ella ha invece sottolineato che il vero individuo personale non è affatto il semplice «questo uomo qualsiasi» (l’ente determinato), ma è invece semmai soltanto il «proprio questo uomo qui» ossia il «proprio questo tale» − insomma affatto appena il «questo uomo qui», ma invece (secondo l’esempio la lei stessa usato) Socrate in persona.
E ciò sottolineava senz’altro gli aspetti qualitativi (e non quantitativi) dell’unicità personale.
Tuttavia però in tal modo ella ha considerato non solo l’Io ma anche l’individuo stesso un termine ontologico essenziale per concepire la persona. In qualche modo, dunque, Io e individuo sono stati per lei ontologicamente parte integrante della realtà personale. Mentre invece tutti gli altri pensatori personalisti hanno creduto che Io ed individuo siano ontologicamente il contrario esatto della persona.
Pertanto purtroppo, almeno a questo riguardo, non posso assolutamente smentire in questa sede tutte le costatazioni che nel corso della mia indagine ho fatto dell’insufficienza del personalismo steiniano.
Dobbiamo ora completare queste considerazioni (circa la relazione tra persona ed individuo ed Io) con quelle sulla relazione ontologica esistente tra persona e finito. Tema che poi comporta inevitabilmente quello della relazione metafisica e metafisico-religiosa esistente tra finito ed Infinito.
Nel corso della mia trattazione abbiamo visto più volte quanto sia problematica la fondazione della realtà personale sulla relazione ontologica tra finito ed Infinito. E proprio su questa base ho dovuto prendere atto della tendenziale insufficienza del pensiero steiniano.
E qui bisogna dire che non solo Stein considera la persona come finito (“Dasein”), ma lo fa anche Scheler.
E peraltro (diversamente da Berdjaev, Stein e Guardini) egli nega che l’umano-divinità sia carattere ontologico-basico della persona come finito. Per cui egli pone nel modo più intenso e tragico possibile la relazione di totale insufficienza ontologica ed anche impotenza che caratterizza il finito al cospetto dell’Infinito. Ed a questo punto cambia per lui davvero pochissimo se consideriamo il finito umano come persona. La conseguenza di ciò è che Scheler (in maniera molto simile ad Heidegger ed anche a Jaspers e Sartre) pone la gettatezza nel mondo della persona, che invece negano sia Berdjaev che la stessa Stein.
Peraltro, nel discutere sul piano puramente metafisico della persona come finito, il pensatore tedesco sottolinea che solo l’Assoluto divino è un “essente positivo”, il che significa che il finito umano (che sia o non sia persona) non è in fondo altro che un nulla di essere. Almeno sul piano metafisico ad esso, insomma, non è ascrivibile alcuna «positività» ontica. Quest’ultima emerge pertanto solo sul piano autenticamente religioso della Rivelazione – entro il quale l’essente umano non sarà più affatto un finito per il fatto di essere stato creato da Dio. Dunque solo a questo punto emerge la persona in quanto non finito per definizione; sebbene però la sua più autentica base ontologica resti quella di mero finito.
E qui bisogna dire che le sue considerazioni coincidono fortemente con quelle di Guardini, il quale rinuncia in partenza alla filosofia ed alla metafisica filosofica per poter comprendere cos’è la persona. Egli si affida infatti in questo unicamente alla Rivelazione, e cioè alla teologia.
In qualche modo la persona è un finito anche in quel così particolare personalismo della de-personalizzazione che abbiamo visto in Bloy (SP, ELC, AN). Tale infatti è senz’altro il povero, nonostante la dignità di persona che gli compete in maniera estrema in quanto non solo figlio di Dio ma di fatto anche incarnazione diretta del Dio-Persona nella pienezza della «kenosis» (la volontaria spoliazione della propria divinità da parte di Dio). Abbiamo visto però che nel contesto della riflessione del pensatore francese questo status ontologico negativo si rovescia senz’altro a causa della fortissima affermazione (addirittura paradigmatica) dell’umano-divinità del povero. Peraltro egli ci mostra anche come l’elevazione a persona dell’uomo avviene in definitiva grazie all’atto di infinito amore nel quale Dio stesso si abbassa alla condizione di finito. È quindi Dio è di fatto il primo a sottomettersi alla potenziale (e non poco umiliante) equivalenza tra persona e finito. A ciò fanno eco (come abbiamo visto nel corso della trattazione) le riflessioni di Le Fort per mezzo delle quali possiamo renderci conto del fatto che in definitiva la persona non è un finito affatto per dotazione ontologica originaria, ma invece unicamente per dono divino. Ma intanto di tratta di un dono divino che segue a ruota alla decisione pienamente umana di darsi totalmente a Dio per mezzo di un incondizionato e radicale “sì” (il “fiat mihi”) – e del quale è protagonista la Vergine Maria come prototipo di Donna. E ciò quindi Bloy riabilita fortemente quel personalismo steiniano che è così fortemente basato sulla relazione tra finito ed Infinito, e che quindi di fatto assimila la persona al finito stesso. Il che ci mostra poi che la concezione steiniana è molto meno una pura speculazione metafisica e molto più invece un atto pienamente religioso e mistico di venerazione a Dio per mezzo della propria volontaria umiliazione. Tanto è vero che le sue riflessioni sulla relazione tra finito ed Infinito (in EES) sfociarono subito dopo nella pienezza della sua prassi e riflessione ormai pienamente mistiche.
Peraltro è davvero stupefacente che (specie in DIWO) Berdjaev sostenga la sostanziale ed inevitabile solitudine della persona nel mentre afferma la sua potenza e nega recisamente la sua gettatezza nel mondo in quanto finito. Eppure Stein, sebbene abbia fondato la persona sulla realtà del finito, aveva recisamente negato la sua gettatezza né mai ne aveva postulato la solitudine. Ed a questo punto allora (almeno rispetto a questo) l’ago della bilancia del Personalismo si sposta decisamente a suo favore.
Guardini poi – per mezzo di riflessioni simili a quelle di Scheler, ma poste in maniera rovesciata rispetto a quest’ultimo – sostiene che certamente l’uomo sarebbe appena un finito se il suo rapporto con l’Assoluto divino venisse concepito in maniera puramente metafisica. E quindi la persona umana (pur ammesso che in queste condizioni fosse concepibile) sarebbe da considerare equivalente al finito. Ma questa serie di costatazioni ontologiche viene decisamente annullata e spazzata via dall’intervento della Rivelazione, e quindi dall’intervenire della prospettiva teologica in luogo di quella metafisica. Infatti in tale prospettiva l’Amore divino restituisce integralmente all’uomo lo stato di persona, dissociandola così decisamente dalla condizione di finito. Del resto abbiamo visto (specie in DH) che Guardini è disposto ad ammettere che l’uomo sia un finito solo in quanto essere totalmente ed irrimediabilmente decaduto. Ma in questo modo esso non è certamente una persona. Ecco che allora il Personalismo di Guardini si presenta come decisamente divergente dalla fondazione della persona sulla relazione tra finito ed Infinito.
Cose molto simili afferma anche Maritain nel considerare come finito quell’uomo meramente immanente e naturale (ossia di fatto non considerato come creato da Dio) che sicuramente non può venire considerato una persona. Quest’ultima per lui viene infatti costituita unicamente da un atto divino di infinito amore donativo che fa dell’uomo (in quanto “suppositum”) l’esatto opposto di un ente finito.
Quanto poi a Berdjaev va detto che in definitiva egli dissocia la persona dalla condizione di finito soltanto in quanto gli attribuisce non solo la potenza ma anche una serie di caratteri ontologici radicalmente originari che lo assimilano allo stesso essere nella sua pienezza. Ed abbiamo visto che queste due prese di posizione sono estremamente problematiche. Ne consegue quindi che, almeno da questo punto di vista, il suo pensiero è senz’altro più insufficiente di quello della stessa Stein. Infatti, paradossalmente, una volta fatto crollare tutto questo così poco credibile apparato onto-metafisico, sulla base del pensiero berdjaeviano si sarebbe alla fine costretti ad ammettere l’equivalenza ontologica tra persona e finito. Tanto è vero che egli finisce per affermare che, una volta negata la persona, per davvero non resta altro che un individuo finito.
E questo senz’altro è il frutto di una certa arbitrarietà tutta filosofico-metafisica del suo Personalismo, il quale non trova alcun controbilanciamento (come in Guardini) in un’autentica concezione teologica della persona.
Nel complesso quindi possiamo dire che, diversamente da ciò che ci aspettavamo, la fondazione della persona sulla relazione ontologica esistente tra finito ed Infinito appare essere molto meno problematica di quanto appaia a prima vista. Abbiamo visto infatti che vi sono rilevanti momenti del pensiero personalista (come quello di Stein, Scheler, Bloy e Le Fort) nei quali tale fondazione appare essere addirittura vantaggiosa. Ciò è evidente soprattutto laddove essa serve ad evitare certi pleonasmi troppo euforici della dottrina personalista come quelli di Berdjaev. In ogni caso abbiamo anche constatato che la più autentica negazione di tale fondazione può venire ritrovata in campo teologico e non invece filosofico-metafisico – quindi molto più in Guardini e Maritain che non invece in Stein.
Ma veniamo ora a ciò che nell’indagine è emerso circa l’identità della persona; carattere che è legato davvero a doppio filo con la sua unicità.
Berdjaev sottolinea che l’identità fa parte integrante dell’ontologia della persona in quanto è esattamente quella che la rende persistente fino all’eternità, ossia la rende capace di trascendere totalmente il tempo in modo da essere di fatto immortale. Pertanto qualunque negazione di questo carattere nella sua integralità è di fatto negazione radicale della persona. Egli aggiunge che peraltro la persona vuole con tutte le forze essere sé stessa, sebbene ciò non comporti mai quell’egocentrismo che certamente distruggerebbe la persona stessa in quanto ontologia. Non a caso, proprio nell’essere assolutamente unica (a causa della sua forte identità) la persona soltanto è capace di riconoscere nell’altro un qualcuno che non assomiglia a nessun’altro, ossia una persona assolutamente unica e irripetibile. E proprio su questa base la persona umana è capace di amare l’altro.
Guardini poi definisce l’identità (e la connessa unicità) come totale auto-possesso, dicendo che la persona sa di «stare sempre per sè» e quindi è consapevole di essere insostituibile. Si tratta di un essere dato davvero una sola volta che corrisponde all’aversi totalmente ed unicamente ”nelle proprie mani”. Il che configura poi una vera e propria inafferrabilità ontologica della realtà personale, che poi corrisponde esattamente al carattere ontico dell’identità. Come abbiamo visto nella trattazione, tali riflessioni coincidono abbastanza bene con quelle di Stein. Ma intanto Guardini sottolinea l’assoluta fattualità reale e concreta di tale identità personale, che pertanto spiazza qualunque dimensione formale in quanto fondante. Egli dice infatti che semmai l’identità del cristallo (un essere inanimato) può essere concepita formalmente, ma non certo invece quella della persona. E questo quindi nuovamente mette fuori gioco la concezione steiniana della persona – per lei infatti la persona è per definizione una forma vuota (idea-essenza) un volta riempita.
Oltre a ciò vi è da considerare la differenza (sebbene abbastanza sottile) che esiste nella concezione dell’identità personale tra Stein e Maritain. Quest’ultimo, infatti, nel considerare la persona umana come “suppositum” (e quindi come il “lui” o “chi?” amato e creato da Dio in quanto solo Lui lo conosce fin dall’eternità), sottolinea che quest’ultimo (in quanto soggetto ed anche oggetto del pensiero di Dio) è un ente intelligibile in partenza, per definizione e soprattutto in sé stesso (e non dall’esterno). Il che significa che la persona è per lui un’essenza incarnata senza essere in alcun modo sottomesso all’universale, e quindi senza prevedere alcuna previa forma vuota astratta da riempire (come invece avviene in Stein).
Di conseguenza essa non risulta affatto conoscibile dall’uomo, dato che invece solo Dio lo conosce. E lo conosce appunto come identità. Ed è esattamente soltanto per questo che l’identità personale umana è inafferrabile per definizione. A ciò peraltro Guardini aggiunge che l’atto auto-riflessivo con il quale di fatto l’uomo si costituisce in identità è effettivamente (come dice anche Stein) una presa di possesso del proprio Io. Ma intanto non casualmente si manifesta nella forma dell’esperienza dell’”Io sono”. Esperienza che per il soggetto è talmente intuitivamente ovvia da sfociare decisamente nell’ineffabilità e nell’inesplicabilità.
E ciò (nonostante l’assoluta ordinarietà di tale esperienza) pone l’identità personale come un vero e proprio insondabile mistero. Nel suo contesto, insomma, sono del tutto insufficienti speculazioni onto-metafisiche di tipo intellettualistico-spiritualistico come quelle condotte da Stein. Insomma anche l’atto di auto-possesso intellettuale (sebbene anche spirituale) che l’Io pone in opera nel possedere sé stesso, finisce per arrestarsi davanti ad un Abisso (di ineffabilità), soltanto oltre il quale vi è quella pienezza dell’”Io sono” che spiega ultimamente l’unità ed unicità della persona. E quindi in questo falliscono di concerto Stein, Husserl ed anche Agostino. Dunque forse soltanto Meister Eckhart riesce a darci davvero ragione di questo processo, dato che egli ne rispetta pienamente il mistero ineffabile.
Abbiamo inoltre constatato che ovviamente vi sono tra i personalisti visioni più ontologiche e meno ontologiche dell’identità. In Ricoeur, per esempio, essa viene vista in termini puramente funzionali.
Tuttavia comunque tutti i pensatori personalisti sono d’accordo sul fatto che il mantenimento dell’identità personale è sostanzialmente un processo attivo. Vi è solo da rilevare che Ricoeur ed anche Berdjaev sostengono che l’identità comporta un amore per l’altro che è perfettamente equivalente all’amor proprio.
Sebbene il secondo sottolinei che quando quest’ultimo scade in egocentrismo di fatto la stessa identità personale si dissolve. E questa serie di concetti non si ritrova di certo in altri pensatori personalisti (come Guardini, Bloy, Le Fort e Maine de Biran), secondo i quali la disposizione relazionale amorosa propria della persona implica anche una certa quota di disposizione sacrificale. Per essi quindi il mantenimento ostinato dell’identità personale non può giungere fino al rifiuto dell’atto sacrificale che a volte ci viene richiesto proprio affinché l’altro possa continuare ad essere una piena persona.
Quindi nel complesso anche rispetto al carattere dell’identità personale dobbiamo registrare l’insufficienza della dottrina steiniana che abbiamo constatato lungo tutta l’investigazione.
Non parlerò qui del fondamentale carattere ontico della persona che è costituito dall’unicità. E non lo farò sia perché tale carattere è strettamente intrecciato al tema dell’identità sia anche perché nella mia investigazione ho dovuto constatare che tutti i pensatori personalisti pongono in evidenza tale carattere e peraltro in un modo che non evidenza alcuna rilevante problematicità.

2-1.2 I caratteri meno fondamentali della persona.
Il carattere di trascendenza della persona (cioè il fatto di non essere assolutamente una cosa) fonda molto direttamente la sua dignità. Ed anche il carattere della sua umano-divinità. E dunque, proprio a causa di tale dignità l’uomo stesso non può venire concepito in alcun modo come mezzo e/o strumento per il raggiungimento di qualunque obiettivo (politico, sociale o religioso che sia), né può venire in alcun modo venire sacrificato per qualunque fine. Nel contesto del pensiero di Dostoevskij (riportato da Berdjaev in CD) abbiamo visto che tale intangibilità della persona giunge fino al punto che la sua libertà non può venire messa in discussione nemmeno allo scopo di impedirle di commettere il male. Lo scrittore russo sottolineava però che l’altro versante di tale inviolabile dignità è anche quello che prevede la sua piena e volontaria ammissione di responsabilità per le colpe commesse, inclusa la sua libera sottomissione alla pena o punizione che c’è da scontare per questo (senza tentare di sfuggirla in alcun modo ed in base a qualunque argomento). E a tale proposito noi ritroviamo quello che potrebbe essere un vero e proprio rinvio al Personalismo di Platone stesso entro quella vicenda giudiziaria (descritta in vari di dialoghi platonici) nella quale Socrate, pur di non ledere in alcun modo la santità delle leggi della Città, rinuncia volontariamente a difendersi dalle ingiuste accuse rivoltesi e quindi si lascia condannare anche se è totalmente innocente [Ezio Savino (a cura di), Platone. Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 2004; Platone, Eutifrone, Bompiani, Milano 2011]. E con ciò Socrate si propone a noi addirittura come la persona nella radicale forma depersonalizzata di quell’«inerme» il quale, essendo sventurato per definizione, si pone (nell’esperienza del dolore necessario agli eletti) come caprio espiatorio dei peccati del mondo anche come colpevole-innocente non solo per definizione ma perfino per propria radicale scelta etico-religiosa. Il che ovviamente assimila Socrate alla figura del Cristo, com’è stato del resto sostenuto da non pochi pensatori, tra i quali peraltro anche Guardini [Pierre Hadot, La fine del paganesimo, in: Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2011, p. 119-150; Romano Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, p. 157-161].
Tutto ciò comporta naturalmente la costatazione che i caratteri ontico-azionistici tipici della persona sono la scelta come decisione e la responsabilità etica. I quali a loro volta sono da riportare al carattere ontologico-basico ancora più fondamentale della libertà. Questo ultimo carattere è stato fortemente posto in evidenza da Berdjaev e Mounier ed abbiamo visto anche che esso si pone in forte conflitto con la classica dottrina cristiana del libero arbitrio; nella quale sono riscontrabili non pochi elementi riduttivi ed anche contraddittori nel senso di una libertà di fatto condizionata alla necessità (e quindi di fatto inaccettabilmente passiva), peraltro schiacciata sulla dimensione estremamente semplificata dell’unilaterale scelta del bene ed infine . Abbiamo visto inoltre che Stein compare qui decisamente come imputata avendo abbracciato incondizionatamente la dottrina del libero arbitrio. Da ciò è apparso evidente che di fatto la dottrina del libero arbitrio contraddice la libertà specie in quanto illimitata creatività. Non solo, ma essa è apparsa come una mera potenzialità della volontà, e non invece come la volontà nella sua pienezza. A difesa però della dottrina steiniana del libero arbitrio abbiamo constatato che la persona non è poi così radicalmente originaria (come ci viene presentata da Berdjaev), ma in verità (come abbiamo appena visto specie sulla base di Mounier) è invece essa stessa chiamata ad essere ciò che è proprio in base all’esercizio della propria volontà. Per cui essa è libera per natura solo se intanto sceglie attivamente di essere persona invece che uomo meramente naturale. In altre parole essa sarà per davvero persona libera solo se lo sceglie e lo vuole. Ne risulta allora che (almeno nei fatti) la persona è libera solo se lo vuole, e pertanto non lo è affatto in maniera radicalmente originaria e quindi ontologica, bensì invece in maniera funzionale.
Questa menzione della libertà inscindibilmente connessa alla volontà ci rinvia necessariamente alla creatività come altro carattere ontologico fondamentale della persona. E qui senz’altro il pensiero di Berdjaev è paradigmatico, dato che nessuno come lui ha posto questo carattere con la stessa forza.
Bisogna dire che però abbiamo dovuto constare che anche Mounier pone in evidenza almeno elementi dell’azione della persona che si lasciano ricondurre a questa dottrina berdjaeviana così estrema.
In particolare abbiamo visto che presso il pensatore russo la creatività umana assume aspetti che sono decisamente sia metafisici che religiosi. I caratteri metafisici sono quelli in cui la creatività umana viene assimilata alla stessa realtà costituita dall’essere colto nella sua massima integralità ed abissalità.
Per Berdjaev infatti l’essere è ciò che è sostanzialmente perché produce incessantemente il «nuovo» e quindi incrementa sé stesso illimitatamente in una crescita infinita, la cui cessazione comporterebbe la scomparsa dell’essere stesso. Questo essere creativo è dunque dinamico per definizione. E naturalmente per lui è così anche la persona stessa in quanto sostanza che perpetua sé stessa all’infinito. In termini religiosi questo comporta comunque una dimensione davvero estremisticamente azionistica, dato che la persona umana viene ritenuta coinvolta necessariamente in un’azione di incessante trasfigurazione dell’essere (che assume un aspetto anche politico in quanto tendenzialmente rivoluzionaria) che per Berdjaev è poi un’autentica continuazione della creazione. È presumibile dunque che l’incessante incremento di essere che segue all’insorgere creativo di quest’ultimo sia da attribuire proprio all’azione della persona umana.
Abbiamo però anche dovuto constatare che l’accento posto dal pensatore russo sulla radicale (e quindi totalmente libera) creatività umana comporta da parte sua la postulazione di un’assolutamente necessaria presenza della persona nel mondo che, in quanto “affermazione”, è talmente assertiva da configurare una vera e propria potenza. Proprio in forza di questo Berdjaev nega recisamente (entrando così in conflitto con la classica morale cristiana) che alla persona appartengano virtù non assertive e remissive del genere dell’umiltà. E questo finisce per configurare entro il suo pensiero un’attitudine personale che spesso assomiglia non poco alla volontà di potenza nietzschiana. Essa è sicuramente tale in quanto continua creazione di essere per la via di un incessante incremento che assomiglia molto alla forgia titanica dell’essere da parte dell’uomo. E peraltro, riguardo a tali aspetti, il pensatore russo non esita a considerare Nietzsche un modello di pensiero – per quanto però lo critichi decisamente per il suo nichilismo. Peraltro egli parla della “forza” come di un’attitudine tipicamente personale che perfino esclude qualunque “grido di dolore” dell’uomo in quanto finito schiacciato dall’Infinito. La persona concepita come finito costituisce infatti per lui quell’ente che è caratterizzato dall’irrimediabile impotenza proprio a causa di quell’inaccettabile Cristianesimo tradizionale che ha saputo concepire unicamente un’antropologia tarata sulla fatale soggezione al peccato ed alla colpa. In ogni caso va registrato che certamente i più radicali pensatori dell’esistenzialismo tragico, nel concepire il finito, lo hanno considerato affetto irrimediabilmente da quella radicale impotenza che sicuramente (di concerto con Berdjaev) non può venire accettata come carattere tipico della persona. Ed abbiamo visto che ciò accade in particolare entro alcune delle riflessioni più anti-personaliste di Leopardi.
Orbene, l’accento posto da Berdjaev sulla potenza come carattere ontologico-basico indispensabile della persona umana (ed anche come tratto dottrinario di un vero Personalismo) mi ha indotto più volte a dover ammettere che (in un certo quale modo) una visione personalista è insufficiente se non prevede questo carattere. E ciò vale senz’altro anche per Stein, oltre che per quasi tutti gli altri pensatori personalisti da me discussi (Ricoeur, Scheler, Maritain, Guardini, Bloy, Le Fort, Maine de Biran, Leopardi, e molto probabilmente anche lo stesso Mounier. Peraltro abbiamo visto che vi sono davvero buone ragioni per considerare più tipica della persona quella sorta di «anti-potenza» che emerge nei pensatori personalisti della de-personalizzazione ed alla difettività di essere (come Bloy e Le Fort ). In tal modo emerge infatti una sorta di potenza da leggere in maniera meno letterale e più metaforica, ossia totalmente in trasparenza sullo sfondo di Cristo come prototipo di Persona, e che quindi corrisponderebbe anche alla più autentica umano-divinità. Proprio Bloy sottolinea infatti che, mentre la potenza letterale è deplorevolmente immanente mondana (corrispondendo alla non-persona per definizione ossia al ricco), invece la potenza metaforica è totalmente trascendente, ultra-mondana e sovrannaturale (corrispondente a quella potenza di Dio che in Cristo non a caso si nasconde). Quest’ultima corrisponde per lui infatti alla vera potenza dello Spirito. Pertanto almeno in via di principio proprio quest’ultima Berdjaev avrebbe dovuto intendere.
Poste le cose in questi termini, allora la potenza umana della quale egli parla non sarebbe in verità altro che un mero riflesso di quella divina. Non a caso vedremo poi che proprio Bloy ci mostra che la disposizione all’amore rappresenta ontologicamente la persona molto più che non la potenza. E questo senz’altro vale anche per pensatori personalisti come Stein, Maritain, Mounier, Le Fort, e soprattutto Guardini).
Inoltre Le Fort parla della “dedizione” tipicamente femminile (riassunta nel mariano “si” o “fiat mihi”) come di una “pazienza” che in verità è la più alta forma di potenza. Guardini poi ci ha mostrato nel fatto che – nel fatto che la persona sente come «mio» tutto ciò che vi è nel mondo – una sorta di potenza che è un vero e proprio possesso dell’essere senza però in alcun modo rischiare di configurare una volontà di potenza. Infine molte delle considerazioni più personal-relazionaliste che uniscono Maine de Biran e Mounier, oltre che ovviamente Guardini (soprattutto il sussistere e crescere ontico della persona nell’«altro» e la sua rinuncia pregiudiziale ad impiegare qualunque suo diritto a danno dell’altra persona), negano decisamente alla realtà personale qualunque forma di potenza che (anche minimanente) possa sconfinare nella volontà di potenza. Non a caso abbiamo visto che Mounier impegnò molte energie a tener nettamente distinto il proprio azionismo da qualunque dottrina di stampo nietzschiano che lo intendesse come volontà di potenza. A tale riguardo egli sottolinea in particolare che – essendo la persona un’entità che senz’altro intuisce è stessa dal di dentro, ma intanto sussiste solo e soltanto nell’atto del farsi persona, ossia nell’agire come persona – il suo considerarsi invece qualcosa di dato in partenza (“fatto”) la indurrà molto probabilmente a travolgere tutto e tutti nel suo agire, esattamente come avviene entro la volontà di potenza.
Intanto abbiamo visto che l’umiltà viene (del tutto diversamente da Berdjaev) espressamente considerata un tipico carattere personale) da pensatori come Bloy, Le Fort e Guardini, oltre che da una pensatrice che ho preso in considerazione solo marginalmente, come Simone Weil.
Ciononostante abbiamo constatato che la presa in considerazione di pensatori del Personalismo tragico come Jaspers ci permette di assolvere Berdjaev da tutte queste colpe, dato che il primo ci ha mostrato come proprio la tragica impotenza umana configuri in definitiva forse la forma più alta e intangibile di potenza (essa è infatti capace di sfidare a viso aperto perfino la morte, nel considerarla come la maggiore realizzazione della persona). E questo peraltro avviene per il pensatore tedesco proprio in quell’eroismo che lo stesso pensatore russo considera assolutamente tipico della persona. Peraltro l’eroismo in Jaspers finisce per far venire alla luce quell’uomo straordinario che lo stesso Berdjaev ritiene essere persona nella sua pienezza.
Ma abbiamo visto che vi sono anche alcune riflessioni profondamente cristiane di Mounier (specie quelle che si soffermano sul “cuore” come centro personale dal quale si diparte una spinta prepotente verso la conquista della perfezione) che supportano il concetto berdjaeviano di potenza specie nel senso di trasfigurazione spirituale del mondo. E lo stesso vale anche per la riflessione mouneriana sulla preservazione della propria identità personale in quanto presupposto indispensabile per avere una presa sulle cose – infatti per lui ciò comporta non solo la capacità di agire nel sentirsi insostituibile (e quindi unico) ma anche la del tutto legittima aspirazione ad avere il possesso di beni.
Insomma, da tutto ciò che abbiamo appena visto, si può ben dire che il carattere della potenza (in quanto forma affermativa della sua presenza nel mondo) può venire attribuito alla persona solo in maniera molto problematica e contraddittoria. E quindi è possibile che, almeno da questo punto di vista, il pensatore russo non abbia visto giusto. E ciò forse proprio perché (almeno in parte venne influenzato da Nietzsche). Si può supporre però che la potenza potrebbe venire considerata una sorta di aspetto secondario e relativo dell’inclinazione all’azione che sicuramente deve venire riconosciuto come carattere tipico della persona.
Naturalmente tale intera materia sta in stretta relazione con il carattere ontologico-basico della persona che corrisponde alla libertà.
Ho già parlato dell’inadeguatezza (almeno per alcuni versi) del suo intendimento come libero arbitrio. E quest’ultimo realmente differenzia non poco i pensatori personalisti tra loro. Ma comunque non ve n’è nessuno tra loro che neghi alla persona il carattere della libertà, tranne forse i pensatori più sbilanciati verso un esistenzialismo tragico (come Jaspers e Leopardi). In questo caso però siamo praticamente ai margini del più autentico Personalismo, e quindi non possiamo su questa base mettere in dubbio che la libertà sia un carattere ineliminabile della persona. Pertanto non mi sembra che valga la pena di discutere qui riassuntivamente tale aspetto. Inoltre va anche sottolineato che vi sono alcuni pensatori personalisti che tutto sommato sembrano disinteressarsi totalmente della libertà della persona proprio nel ritenerlo un carattere del tutto secondario rispetto ad uno status ontologico che sembra avere il proprio centro soprattutto nel fatto di essere fondati in sé stessi, e quindi essere senz’altro molto più autonomi (fino alla tragedia) che non invece liberi. Tra costoro vi sono senz’altro (oltre che gli esponenti dell’esistenzialismo tragico) i pensatori della de-personalizzazione (come Bloy, Le Fort e Leopardi) ma anche i pensatori della morale e dei valori (come Scheler) e dai pensatori della “Weltanschauung” soggettuale (come Jaspers). Presso costoro infatti si delineano soprattutto elementi (nel considerare primario un atteggiamento obbligato o anche una naturale tendenza della persona) che considerano la libertà superflua o perfino la scavalcano.
Forse va solo fatto notare che nel corso della mia esposizione sono emersi tre generi di libertà connessa con la persona: −
1) quello più prossimo alla classica dottrina etico-religiosa cristiana del libero arbitrio (entro il quale la libertà costituisce per la persona più che altro un obbligo morale nei termini dell’auspicabile scelta del bene in luogo del male). E questo intendimento si ritrova soprattutto tra i personalisti davvero integralmente religioso-cristiani come Stein, Maritain ed anche Maine de Biran. Guardini invece pone troppo l’accento sulla relazionalità della persona per interessarsi della libertà come suo carattere tipico. Insomma in lui sembra la possibile esitazione ad agire (alla quale la libertà sempre rinvia) venga decisamente scavalcata dalla prepotente spinta alla relazione che tende ad unire la persona all’altra persona
2) quello più prossimo alla creatività personale come potenza, che quindi considera la libertà nella sua pienezza soprattutto metafisica, trascendente ed ontologica (specie in quanto equivalente al movimento stesso dell’essere), e cioè come in via di principio illimitata ed incondizionata. E qui domina decisamente il personalismo di Berdjaev.
3) quello più prossimo alla dimensione sociale-relazionale della persona, che considerano la libertà in modo sostanzialmente pragmatico (e forse anche ontologicamente secondaria), e quindi come funzione della socialità specie nei suoi aspetti politici. E qui dominano i personalismi di Ricoeur e Mounier (unitamente, almeno in parte, anche a quello di Maine de Biran).
Vedremo poi tra poco come la dottrina della libertà di Dostoevskij si presenti comunque come quella forse più estrema tra tutte.
Ovviamente strettamente connesso al tema della libertà è quello della responsabilità personale che è appunto decisione e scelta per definizione libere. Ho già in parte trattato questo tema in questa sezione, e comunque, anche rispetto ad esso, non mi è sembrato (nel corso della trattazione) che siano emerse differenze significative almeno tra i pensatori più personalisti che abbiamo appena preso in considerazione a proposito della libertà. Peraltro il tema della responsabilità implica strettamente quello del ruolo svolto dalla persona nel contesto della morale. Ed anche qui (a parte l’accento posto su questo aspetto da Scheler ed anche in parte da Ricoeur e Mounier) nella mia trattazione non sono emerse differenze significative. Abbiamo visto comunque che la dottrina dostoevskiana della responsabilità è particolarmente estremistica in quanto essa esige dalla persona il preciso obbligo di addossarsi volontariamente colpa ed anche punizione. Dunque senz’altro il Personalismo in generale (almeno nella sua forma media) non sembra avere dubbi sul fatto che la responsabilità sia un carattere tipico della persona.
Alcune larvate differenze ed alcuni aspetti specifici vanno comunque evidenziati in quanto abbastanza significativi, per quanto essi non inficino affatto la compattezza della presa di posizione personalista al riguardo.
Sebbene con accenti a volte molto diversi (da quello più onto-metafisico a quello più pragmatico), l’attribuzione alla persona della responsabilità comporta in tutti i pensatori personalisti una dimensione azionistica della persona stessa. E qui, come vedremo tra poco, spicca decisamente Berdjaev.
Inoltre (come abbiamo osservato per la libertà) anche nel caso della responsabilità le concezioni personalistiche divergono tra quelle che contemplano una sorta di scelta obbligata del bene (nel contesto di una visione senz’altro deterministica) e quelle che invece lasciano davanti alla persona un campo di scelta del tutto aperto. La differenza tra i due diversi tipi di pensatori personalisti è al proposito la stessa che ho indicato a proposito della libertà. Ma nuovamente si delinea in modo netto la dottrina della responsabilità di Guardini, che sfugge decisamente al determinismo posto da Stein e Maritain – per lui infatti la responsabilità più che un obbligo morale è un’attitudine inevitabilmente coinvolta nell’indispensabile movimento della persona verso l’altra persona. Proprio per questo per lui la responsabilità corrisponde per lui all’azione come irresistibile slancio, e quindi non conosce assolutamente quella sospensione esitante dell’azione che è implicata nella scelta connessa con il libero arbitrio
Ma di nuovo qui spicca la dottrina di Dostoevskij in quanto teorico di una libertà che conserva intatto il suo valore assoluto sia nel caso della scelta del bene sia nel caso della scelta del male. Ed a questa dottrina fa eco quella di Berdjaev secondo il quale la responsabilità (così come la libertà) equivale di fatto all’incondizionata creatività umana, e quindi sfugge decisamente a qualunque determinismo. In particolare egli si rifiuta di considerare la responsabilità come passiva (in quanto mera reazione al peccato) invece che integralmente attiva. Peraltro (a differenza dei personalisti più legati ad un determinismo della libertà e della responsabilità, come Stein e Maritain) il pensatore russo fonda la sua dottrina su una critica molto radicale alla morale tradizionale (ritenendola di fatto per nulla capace di affermare il valore della responsabilità a vantaggio invece di un mero conformismo ipocrita). E nel complesso (pur con tutti i rischi connessi al possibile scivolamento nel titanismo della volontà di potenza) nel corso nella mia investigazione mi è sembrato che il concetto berdjaeviano di responsabilità (in quanto radicalmente libero) possa venire considerato ben più autentico di quello dei deterministi (come Stein e Maritain) in quanto affatto moderato. Ed abbiamo visto che (specie nel contesto della morale cristiana) questo atteggiamento moderato rischia non poco di scivolare nella tiepidità e magari perfino nell’irresponsabilità. Abbiamo visto anche che ciò sta in stretta relazione con il razionalismo tanto della morale che della persona stessa.
E, nell’esaminare il pensiero di Dostoevskij, abbiamo costatato che questo razionalismo rischia perfino di attenuare quell’umano-divinità della persona che è poi l’elemento sul quale lo scrittore russo fonda maggiormente la propria così estremistica dottrina.
Inoltre appare estremamente originale la dottrina personalistica della responsabilità di Le Fort, dato che essa è apertamente sacrificale, essendo incentrata totalmente nella virtù dell’incondizionata “dedizione”.
Eppure abbiamo trovato un riflesso di tale dottrina perfino in Mounier il quale non esita a considerare la responsabilità della persona verso l’altra persona come vero e proprio “dono di sé”.
Infine vanno qui richiamate le prese di posizione in parte personaliste di Jonas (PR) e Arendt (RG), entro le quali la responsabilità si pone soprattutto come obbligo volontario verso un giudizio etico molto intensamente personale, che (esattamente come in Scheler) sfugge decisamente all’impersonale sottomissione passiva a principi morali astratto-formali di tipo kantiano.
Forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire che, dopo tutto ciò che abbiamo constatato, i due caratteri personali congiunti di libertà e responsabilità, appaiono essere entrambi strettamente connessi, entro il pensiero personalista, al carattere personale dell’amore. A tale riguardo vi è da registrare comunque una certa discrepanza tra i pensatori personalisti, dato che ve ne sono alcuni (come Scheler, Ricoeur, Jaspers e Leopardi) che si disinteressano quasi completamente di tale aspetto. Senz’altro i pensatori personalisti che più sottolineano tale carattere tipico della persona sono comunque Berdjaev, Bloy, Le Fort, Guardini ed anche lo stesso Mounier. Anche in questo poi Dostoevskij è molto estremista nella sua davvero intensa concezione dell’amore. Quello che però ci è sembrato strano è che questo aspetto non trova accenti espliciti né in Stein né in Maritain. Quanto a Stein ho chiarito che però dobbiamo prescindere da ciò che lei scrisse dal momento esatto del trapasso dalla filosofia metafisica alla mistica (che iniziò già nella seconda metà di EES). Da questo momento in poi, infatti, l’amore iniziò a divenire il vero e proprio centro orbitante del suo pensiero ed anche della sua prassi. Ma comunque prima di questa fase mi è sembrata condizionante in senso negativo una concezione della persona che è restata sempre stata troppo condizionata dal razionalismo filosofico ed anche gnoseologista; e la cui conseguenza è sempre stata un’etica anch’essa fortemente razionalista. Su queste basi non poteva esservi troppo spazio per la teorizzazione dell’amore in termini personalisti. Non a caso il suo Essente unico-personale è lo specchio umano della divinità ma non appare come un soggetto amante. Ho inoltre anche chiarito che è improprio estendere il suo originario concetto di “empatia” ad una teorizzazione dell’amore.
Quanto poi a Maritain qui ha giocato senz’altro un ruolo importante un trascendentismo religioso-cristiano che senz’altro lo induceva a porre l’accento molto più sull’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio, che non invece sull’amore interumano. Che però con certezza egli non ha mai negato.
Dunque potremmo dire che il Personalismo non è stato affatto compatto nell’attribuire alla persona il carattere dell’amore.
Esattamente lo stesso può venire detto anche per l’attribuzione alla persona di una disposizione alla “comunione”. Sotto questo aspetto il pensiero di Berdjaev è stato davvero paradigmatico nel porre questo carattere personale come addirittura primario. E su questo mi sono molto dilungato nella mia trattazione. Inoltre non vi è dubbio che, sebbene indirettamente (ossia non con la stessa esplicitezza anche terminologico-concettuale) tale carattere è stato attribuito alla persona anche da Guardini (specie nel considerare il Regno dei Cieli come alla portata storica dell’uomo), da Mounier (nel considerare la relazionalità della persona come un’azione tendente ad una società con aspetti sicuramente comunionali), da Maine de Biran (in maniera molto simile a Mounier), da Stein (però nei termini estremamente razionalistici che concepivano lo “spirito oggettivo” come l’edificio stesso della Cultura umana), da Maritain (nei termini della secondo lui auspicabile ricostruzione di una civiltà cristiana), da Scheler (nel senso della ricostruzione di una “comunità spirituale” senz’altro ad impronta cristiana ma comunque soprattutto politico-civile e popolare), ed infine da Dostoevskij (nella maniera solitamente estremistica ed anche sostanzialmente escatologico-apocalittica ed utopistica). In maniera ancora più indiretta tale carattere viene poi attribuito alla persona anche da Bloy e Le Fort. Infine è interessante notare che esso viene attribuito alla persona da Leopardi in maniera chiaramente negativa, ossia nel contesto di un’aspirazione nobilissima che però secondo lui a suo avviso è in partenza destinata al fallimento.
Quanto poi a Jaspers si può dire che egli abbia inteso questo concetto estremamente alla lontana nel contesto di una piuttosto gelida ed intellettualistica teoria (filosofico-psicologica) dell’umanità come Totalità delle “Weltanschauungen”.
Potremmo dire quindi che, con poche eccezioni (tra le quali significativamente Ricoeur), quasi tutti i pensatori personalisti (sebbene con molto diversi accenti) hanno intravisto nella persona questa disposizione alla dimensione comunionale. E questo è anche piuttosto sorprendente dato che un numero decisamente inferiore di pensatori personalisti hanno attribuito alla persona il carattere dell’amore.
La disposizione della persona alla rivoluzione vede protagonisti tre soli pensatori, e cioè Berdjaev, Mounier e Dostoevskij. Il modo in cui essi hanno inteso questo carattere è stato molto diverso. Ma comunque di questo ho parlato a sufficienza nella mia trattazione. In ogni caso questo può essere considerato un carattere decisamente trascurabile della persona, dato che esso non tocca certamente i suoi caratteri ontici sia primari che secondari

2-2 La visione personalista in sintesi ed in grandi linee. Il «cos’è?» del Personalismo sulla base dell’esame della dottrina personalista.
Finora abbiamo visto come hanno visto la persona i pensatori personalisti che ho esaminato nell’ investigazione, ossia in che modo l’hanno pensata e quindi come ed in quanti modio essi hanno determinato il suo «cos’è?». Ora dovremmo cercare di comprendere come noi stessi possiamo vedere il modo in cui il pensiero personalista ha pensato la persona, e soprattutto comprendere i vari modi in cui ciò avvenuto. Si tratta insomma di ri-comprendere, ri-determinare ed anche ri-classificare l’intera struttura del pensiero personalista ed anche la sua dinamica interna.
E la prima cosa che emerge in questa rivalutazione sono i quattro grandi assi polari secondo il quale il pensiero personalista si è presentato al mondo, si è strutturato e si è organizzato al suo interno: −
1) Personalismo metafisico-religioso oppure laico; 2) Personalismo della potenza (in primo luogo creativa) oppure della de-personalizzazione; 3) Personalismo contemplativo oppure pragmatico (filosofico-politico); 4) Personalismo unilateralmente moderno oppure integrale (ossia di fatto in linea con un ipotetico Personalismo tradizionale ed eterno).
Una volta riconosciuti questi assi, emergono poi immediatamente una serie di dimensioni di pensiero che intersecano l’intero Personalismo, presentandosi a volte in maniera più forte ed esplicita ed a volte invece in maniera più larvata; ed inoltre presentandosi anche in modi a volte molto diversi. Si tratta delle seguenti dimensioni: − 1) spiritualismo; 2) religiosità cristiana o meno; 3) impostazione etica (includente anche un versante azionistico); 4) esistenzialismo (con il connesso nichilismo); 5) impostazione socio-politica e filosofico-politica, decisamente azionistica; 6) impostazione ottimistica (prevalente «positività» dello status persona) oppure pessimistica (prevalente «negatività» dello status ontologico di persona).
Questi due grandi raggruppamenti di elementi nei quali può venire diviso il Personalismo si presentano in maniera intuitivamente molto intersecata tra di loro. In modo tale che così (in maniera simile a quanto è emerso riguardo alla dottrina della persona) si delinea qualcosa di simile ad una serie di possibili caratteri dei vari Personalismi. E non ho bisogno di elencarli dato che essi sono risultati già impliciti nei due grandi raggruppamenti che ho appena indicato.
Tuttavia tra questi caratteri ve ne sono alcuni che vanno discussi in particolare dato che essi si presentano nel Personalismo in maniera non solo costante ma anche ingente e soprattutto pervasiva. Essi sono presenti infatti più o meno a macchia di leopardo un po’ in tutti i tipi di Personalismo. E diremmo che sono i seguenti: − 1) spiritualismo; 2) ontologia come filosofia dell’essere 3) eventuale filosoficità religiosa; 4) grado di connessione con la filosofia contemporanea (specie come idealismo, realismo, gnoseologismo, materialismo, naturalismo, positivismo e grandi ideologie fondate in termini filosofico-politici); 5) valenza teologica e religioso-esperienziale; 6) esistenzialismo eventualmente nichilista; 6) azionismo; 7) vitalismo; 8) relazione con la scienza empirica
A veder bene si tratta dei caratteri che sono chiaramente riconoscibili a colpo d’occhio entro quello che sicuramente è il sistema filosofico personalista più completo, e cioè quello di Berdjaev. E non a essi ritornano anche nelle due grandi classificazioni del personalismo che ci presentano Ricoeur e Mounier.
Naturalmente però se volessi rattare in dettaglio tutti questi aspetti dovremmo scrivere un secondo testo sul Personalismo. Per cui mi limiterò a trattare soltanto di alcuni di questi aspetti in maniera specifica, includendo in essi anche ulteriori aspetti ed altri invece tralasciandoli nel rinviare il lettore a quanto ho già esposto nel corso della nostra trattazione.

Dello spiritualismo personalista bisogna assolutamente trattare (in maniera specifica ed anche piuttosto dettagliata) per il semplice fatto che esso rappresenta la presa di posizione filosofica che ha contraddistinto forse uno dei maggiori precursori del personalismo, ossia Maine de Biran.
Abbiamo constatato che sono stati spiritualisti i due centri orbitali intorno ai quali si muove la nostra intera indagine sul personalismo, e cioè Berdjaev e Stein. Anzi il primo lo è stato in maniera ben più intensa, integrale, radicale e completa della seconda. E questo sostanzialmente perché egli ha equiparato spirito ed essere in maniera totale. Tendendo così quasi a ricostituire l’ambito di quella visione antichissima che in diversi miei scritti ho indicato come «onto-spiritualismo» − termine con il quale va intesa l’affermazione che la realtà è integralmente spirituale (e quindi trascendente) ad affatto invece materiale. Ciò significa insomma che l’essere sarebbe primariamente spirito e basta; e quindi sarebbe una realtà in verità del tutto aerea ed evanescente, secondo il paradigma di ciò che anche lo stesso Cristianesimo paolino ha riconosciuto come «Pneuma». Ed in diversi miei scritti ho mostrato che tale spiritualismo si ritrova in diversi pensatori occidentali appartenenti al platonismo per trovare comunque la sua massima espressione nel pensiero orientale (con estremo vertice nel pensatore vedantico Śankara) [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Voll XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XIV, 2018, p. 21-73; Vincenzo Nuzzo, “Platonismo e Gnosi”, in: I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 p. 228-255; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164]. Il che comporta poi che la realtà materiale non sarebbe altro che una vana illusione, ossia la famosa māyā del Vedanta e del Buddhismo. Ed in questa visione a mio avviso rientra senza ombra di dubbio anche Platone stesso; come peraltro sostenuto non solo da me, ma anche da diversi studiosi [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008; Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010; Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 2008].
Ebbene non è stato affatto questo lo spiritualismo che (a partire da Maine de Biran) è rimastro costantemente intrecciato al Personalismo e poi ha trovato molto interpreti anche nella rivista “Esprit”. Esso era in fondo partito in fondo a quella tradizione idealistica occidentale (iniziata da Cartesio e poi continuata in pensatori come Malebranche e Leibniz) presentandosi prima come un razionalismo metafisico e poi come una vera dottrina della Ragione (specie in quanto Spirito universale). Ma intanto, nel passare attraverso l’Idealismo tedesco, si era arricchito di ulteriori e nuovi elementi che poi ritroviamo in pieno anche nel Personalismo. In particolare esso si era trasformato in una dottrina dell’Io assoluto, poi dell’Io cosciente ed infine anche dello stesso Io umano e della stessa interiorità.
Intanto comunque lo spiritualismo steiniano è stato troppo influenzato da un razionalismo filosofico-gnoseologista ed intellettualista (tra le altre cose fortemente condizionato dalla ragionevolezza del cosiddetto «principio di realtà», e quindi dall’idea che sia reale solo ciò che è presente nella coscienza umana in relazione con gli effettivi oggetti dell’esperienza) per poter essere assimilato a qualunque genere di onto-spiritualismo. Ed inoltre (nonostante la sua equiparazione totale di spirito ed essere) anche lo spiritualismo di Berdjaev non è stato affatto «onto-spiritualista». Il pensatore russo afferma infatti che il dualismo spirito-carne deve venire decisamente superato. Ed inoltre intende la persona quale spirito come un’entità decisamente concreta e carnale.
Ed il suo deve essere considerato senz’altro lo spiritualismo più estremista del personalismo. Ma comunque lo spiritualismo di pensatori come Maine de Biran e Mounier è di segno totalmente diverso dal suo, essendo tutto sommato riconducibile ancor più alla grande tradizione idealistica occidentale, secondo la quale lo Spirito equivale sia all’uomo in quanto ente razionale (e quindi anche come coscienza) sia anche all’Io assoluto (che è stato concepito da Hegel e poi anche da Husserl) – insomma molto genericamente alla Ragione. Ed è in questo senso che anche presso questi pensatori lo Spirito viene considerato equivalente all’uomo. Certo però non con la tendenziale valenza «onto-spiritualistica» che possiamo riscontrare in Berdjaev. In ogni caso questo spiritualismo era idealista anche nel prevedere esplicitamente il dominio dello spirito sul corpo, al quale invece il pensatore russo non attribuiva alcun valore. Anzi, nel prendere a modello Dostoevskij, egli considerò semmai lo Spirito come quella insondabile profondità che suscita le passioni invece di dominarle. In ogni caso egli intendeva lo spiritualismo in senso religioso, in modo tale che la spiritualità umana veniva da lui considerata perfettamente equivalente a quella divina nel contesto dell’umano-divinità.
Posti questi principali punti di riferimento, lo spiritualismo si rese presente praticamente in tutti i pensatori che afferirono alla rivista “Esprit”, e che fu, per mezzo di Mounier la culla stessa del Personalismo. Quanto poi a Ricoeur il suo spiritualismo fu decisamente riduzionista, visto che il pensatore lo ritenne appena un’”ismo” tra i tanti. In ogni caso lo spiritualismo di Mounier sta bene attento a non scivolare nel sostanzialismo, dato che si incentra sul valore attribuito all’interiorità della persona. Per lui infatti il valore di quest’ultima consiste infatti proprio nella sua centratura nella dimensione interiore. Quindi per Mounier è esattamente l’interiorità ciò che fa della persona uno spirito. Inoltre per lui ciò che conta è l’azione personale (in quanto “libertà spirituale”) nella sua capacità di produrre realtà spirituali, ossia sostanzialmente prodotti etico-relazionali. Quindi questo lo spiritualismo di Mounier è sostanzialmente azionista.
Certo è che, per l’accento posto da Berdjaev sulla creatività dell’uomo personale in quanto spirito, appare piuttosto evidente che lo spiritualismo cessa di esistere entro il Personalismo se esso non è azionista.
E questo è ciò che avviene per il pensatore russo proprio in quel Cristianesimo che esaltò i valori della passività e dell’adattamento al mondo. Pertanto appare evidente che lo spiritualismo personalista va inteso sostanzialmente come trasfigurazione del mondo. E questo suo intendimento sicuramente fu comune all’intero Personalismo azionista. In particolare Berdjaev afferma al proposito che il classico spiritualismo cristiano ha considerato sempre lo spirito molto più come una potenzialità creativa che non invece come una realtà. E lui invece mirava propriamente alla trasfigurazione spirituale del mondo. In ogni caso il suo spiritualismo fu intimamente connesso con la creatività che secondo lui caratterizza la persona.
Veniamo però ora alla natura religioso-cristiana del personalismo. E vedremo che tale questione − implicando strettamente anche tutta un’altra serie di grandi questioni del Personalismo, tra quelle che ho elencato prima – ci permetterà di dire una parola definitiva anche si queste ultime.
Nel corso dell’investigazione abbiamo constatato che la vena senz’altro più ingente del Personalismo è stata tra il XIX e XX secolo quella metafisico-religiosa e contemporaneamente ontologica e sostanzialista. Nel suo contesto si tendeva a vedere la persona come anima e soprattutto come spirito, e la si identificava con lo spirito divino attribuendole l’umano-divinità. E siccome parliamo di un pensiero unicamente occidentale è ovvio che il riferimento religioso di questa visione è stato il Cristianesimo. Inoltre, siccome nel Personalismo ha dominato decisamente la scuola di lingua francese, si è trattato quasi esclusivamente del Cristianesimo cattolico (con voci come Maine de Biran, Maritain, Renouvier, Peguy, Mounier, Secrétan, Ravaisson, Le Senne, Lavelle, Marcel, Laberthonnière, Bloy, Hugo) . Lo stesso è comunque avvenuto però anche in Germania con Stein, Guardini, Le Fort, Scheler e Goethe. Vi è stato però anche un personalismo di religione cristiana greco-ortodossa in pensatori come Berdjaev e Dostoevskij. Invece il personalismo cristiano di tipo protestante viene rappresentato bene da Kirkegaard.
Non sono informato su altre forme religiose attuali o passate del Personalismo. In particolare le religioni orientali (induismo ed ancor più buddhismo) tendono a negare il concetto di persona e quindi non possono per definizione rientrare nel Personalismo. Inoltre, a causa della scarsa rilevanza in essa del concetto di persona, l’antica religione pagana greco-romana deve venire decisamente esclusa dal personalismo.
Sebbene abbiamo visto che si possono trovare degli spunti personalisti in Platone.
In ogni caso (come abbiamo visto più volte) entro il Personalismo cristiano bisogna tenere presente una lunghissima tradizione che praticamente investe tutti i pensatori che ne hanno fatto parte. Ma direi che due momenti di punta di tale tradizione sono stati senz’altro Agostino e Tommaso d’Aquino.
Abbiamo però constatato che vi è stato anche un Personalismo né religioso né cristiano. È stato quello di tutti i pensatori che abbiamo discusso nella nostra trattazione ma non ho nominato qui (Ricoeur, Jaspers, Leopardi). E come vediamo si tratta di un Personalismo decisamente di minoranza.
Ora, indipendentemente dalla critica al Cristianesimo tradizionale che ha animato personalisti di spicco come Berdjaev e lo stesso Mounier (inducendoli, e con solide ragioni, a pensare che il Personalismo potesse essere davvero cristiano solo dopo una profonda riforma del Cristianesimo), direi che questa costatazione porta in primo piano un elemento che è emerso molto spesso nel corso della mia trattazione.
Si tratta cioè della presumibile «superiorità» del Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. E la principale ragione di tale superiorità sta nel fatto che questo Personalismo è quello che afferma la realtà inconfutabile, il valore ed il ruolo della persona in un modo che è così assoluto e indiscutibile da divenire di fatto dogmatico. E sta di fatto che questo è l’unico modo per affermare davvero con forza la dignità inviolabile ed assoluta della persona umana.
In altre parole questo è l’unico Personalismo in forza del quale si possa dire che l’uomo è realmente persona − e lo è sostanzialmente perché è persona divina −, per cui ad essa spettano una dignità ed un valore così incommensurabili da renderla assolutamente inalienabile, ossia intoccabile. E questo ha ovviamente una serie di infinite conseguenze su tutti i piani possibili (morale, sociale, politico, economico, culturale, scientifico etc.). Il che significa quindi che in questo modo la dignità ed il valore della persona finiscono per costituire un criterio di orientamento teorico-pratico non solo imprescindibile ma anche centrale.
Sta di fatto però che quest’ultimo Personalismo è però già molto datato e quindi di fatto storicamente non esiste più; sebbene permanga in ogni caso come un punto di riferimento dottrinario ineliminabile. Infatti già con Ricoeur (e con i diversi pensatori personalisti da lui citati: Eric Weil, Paul-Louis Landsberg, Paul Strawson) il Personalismo non si presenta più né come ontologico-sostanzialista, né come metafisico né come religioso. E proprio per questo è ormai molto esposto al relativismo.
Ho esposto nella mia trattazione le principali ragioni per le quali secondo me il Personalismo ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso (specie se cristiano) va considerato superiore agli altri. Ma intanto come leggere il fenomeno della sua totale scomparsa dall’orizzonte storico attuale?
A mio avviso (aldilà di tutte le possibili riflessioni autorizzate da questo fenomeno) l’unico modo per leggerlo è quello di constatare che esso si pone nel contesto della moderna de-sacralizzazione dell’uomo e della società, e quindi nel contesto dell’ormai deciso allontanamento dell’uomo a Dio. Insomma ormai uomo e società sono divenuti decisamente laici. Ma, visto che abbiamo constatato che solo sul piano metafisico-religioso la dignità ed il valore della persona vengono affermati in maniera indiscutibile, tutto ciò può solo significare che i moderni personalismi sono tutti sostanzialmente «deboli», e quindi affermano la dignità ed il valore della persona soltanto in maniera timida, dubbiosa, scettica, moderata, problematica; insomma, in una sola parola, in maniera unicamente relativa. E allora si può ben dire che (come afferma Ricoeur) il personalismo è ormai morto. Non è morto però affatto per i motivi da lui menzionati. È morto invece semplicemente perché si è cessato di attribuire alla persona dignità e valore; anzi addirittura si è cessato di credere in essa come realtà. Non a caso la moderna filosofia (de-costruzionista, nichilista e perfino buddhista) è apertamente anti-personalista. E comunque (anche aldilà di questo) come si potrebbe mai sperare che il personalismo rinasca (come invece Ricoeur auspica con molta convinzione) nel contesto di una cultura ormai così invariabilmente laica e scettica? Insomma quale Personalismo può mai rinascere nell’attuale temperie filosofica; visto anche che in essa è svanita ogni traccia sia di metafisica che di autentica religiosità?
Il che poi avvalora pienamente l’idea berdjaeviana secondo la quale la necessità di una nuova vera e propria “rivelazione antropologica” (secondo lui essenziale per il sussistere di un Personalismo) si pone totalmente entro i fenomeni di una vasta “crisi” tipicamente moderna e che investe in primo luogo la morale ma anche tutti i fenomeni della conoscenza, della società, della civiltà e della prassi (conoscenza in generale, filosofia, scienza, arte, religione etc.) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-68, II p. 101-106, IV p. 151-153, IV p. 159-161 VI p. 196-198, VII p. 214-223, X p. 295-299 XI p. 318-323, XII p. 342-346, XII p. 350-351, XIII p. 370-374]. In altre parole Berdjaev ci ha mostrato chiaramente che la presa in considerazione del Personalismo implica strettamente la consapevolezza di una crisi tutta moderna che non può non coinvolgere anche questa stessa visione.
Del resto la più recente storia stessa (a partire almeno dagli anni ’30 del XX secolo e inoltre dalla II Guerra Mondiale) ci offre le prove di un disprezzo della persona umana che sicuramente non vi è stato nemmeno nell’antico Paganesimo. Lo scenario insomma è divenuto ancora peggiore di quello menzionato da Scheler nel riferirsi ai terrificanti campi di morte della I Guerra Mondiale. Nel corso della più recente storia sono insorti infatti fenomeni di inimmaginabile degradazione della persona umana che si spingevano addirittura fino alla volontà inflessibile del suo annientamento psicologico e fisico (ecco i Lager non solo nazisti e staliniani ma anche quelli ispirati alle più diverse ideologie). La scienza poi (con l’invenzione di nuove armi immensamente distruttive, con l’ingegneria genetica e con la cibernetica applicata non solo alla nascita della robotica ma anche alla radicale trasformazione bionica dell’uomo) è giunta a livelli inconcepibili di ignoranza e disprezzo della dignità e del valore della persona umana. Infine l’economia di tipo neo-liberale e turbo-capitalista è giunta a considerare addirittura un dogma indiscutibile la mortificazione della persona umana per mezzo del suo impoverimento e della cancellazione di ogni suo diritto.
Da tutto ciò consegue che (molto diversamente da quanto auspicava Ricoeur) noi siamo oggi semmai di fronte ad un evidente anti-personalismo.
Ma in fondo anche gli auspici formulati da Mounier (e che puntavano in direzione di una radicale riforma della società in senso personalisti) sembrano essere stati tutti non solo dimenticati ma anche confutati e cancellati. Ed intanto resta però in piedi un Personalismo estremamente debole (e presente unicamente in ordine sparso), che poi fa anche la figura del paria di fronte all’ormai vastissimo fronte di un pensiero totalmente anti-personalista.
E quindi a chi tra di noi sente di potere e volere attribuire ancora valore al Personalismo, non resta che rivolgere lo sguardo al passato, ossia a quel Personalismo che magari è anche senz’altro storicamente morto, ma intanto (sebbene solo dalla tomba) ha ancora tutto da insegnarci. E questo è senz’altro unicamente il Personalismo ontologico-sostanzialista, metafisico-religioso e soprattutto cristiano.
Come ho accennato prima, la questione dell’ontologicità e religiosità del Personalismo implica anche tutta una serie di altre questioni riguardanti questa visione − e che prima abbiamo visto costituire i grandi assi lungo i quali il Personalismo tesso si è strutturato e si è sviluppato – e riguardanti anche le grandi correnti ideali che l’hanno costantemente attraversato. Quindi in tale contesto abbiamo la possibilità di dire una parola definitiva su tali questioni.
Il criterio che dovremmo seguire è in particolare quello della scelta delle caratteristiche dottrinarie che dovrebbe avere il Personalismo al quale noi intanto guardiamo con lo sguardo rivolto al passato in particolare tenendolo fisso su quello ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso cristiano. Da questo momento in poi riassumerò comunque questo Personalismo con l’acronimo POSMRC.
Innanzitutto appare evidente che esso deve implicare una filosofia religiosa e quindi deve privilegiare fortemente anche l’approccio di pensiero teologico. Non a caso abbiamo visto che il momento forse più forte del POSMRC è stato quel pensiero di Guardini che aveva esattamente queste caratteristiche. Quanto poi agli altri pensatori personalisti religioso-cristiani, queste due presenze si ritrovano (sebbene con accenti meno forti, chiari ed espliciti) senz’altro anche in Stein, Maritain, Berdjaev, Le Fort, Bloy e Maine de Biran. Quanto poi a Scheler egli ha un approccio senz’altro cristiano ma sempre intermediato da un interesse prevalente per la pura filosofia. Per cui è difficile riscontrare in lui un’aperta filosofia religiosa oltre che l’invito alla prassi dell’esperienza religiosa. Non a caso egli tiene strettamente separate religione e metafisica.
In connessione con ciò sta inevitabilmente il fatto che il Personalismo deve essere anche strettamente legato alla prassi dell’esperienza religiosa, ossia la prassi nella quale la persona umana coltiva e sviluppa la propria umano-divinità. In alcuni tra i momenti più forti ed autentici del POSMRC (Stein, Maritain, Guardini, Le Fort, Bloy, Maine de Biran, Dostoevskij) abbiamo visto infatti che quest’ultima è da considerare sostanzialmente un dono divino. E quindi non si può assolutamente illudere di poter conservare questo carattere così fondamentale della persona sulla base della sole nostre forze.
Per questo è invece evidentemente necessario un continuo intervento sovrannaturale e divino; e con ciò va inteso senz’altro il nostro volontario mantenimento costante del contatto con la presenza di Gesù soprattutto per mezzo della preghiera, oltre che per mezzo della pratica della giustizia e dell’amore.
Gesù infatti non cessa mai di bussare alla porta del nostro cuore, ma intanto non osa mai aprirla se non lo facciamo prima noi.
In ogni caso dobbiamo ribadire qui che la visione personalista di Berdjaev resta a tale proposito abbastanza problematica. Egli infatti non solo pone il Personalismo come filosofia religiosa ed anche come necessaria prassi dell’esperienza religiosa. Anzi (come ho mostrato nel mio articolo già citato) offre molti spunti per liberare quest’ultima da una retorica religioso-formalista e pietista (i cui protagonisti sono predicatori, apologeti ed anche non pochi moderni teologi fortemente scettici se non atei) che sbarra la strada severamente all’intimità della relazione personale con Dio. Berdjaev cioè ci aiuta moltissimo a rendere l’esperienza religiosa creativa come essa deve effettivamente essere per poter avere la speranza di toccare davvero la Presenza divina. E tuttavia egli non considera affatto l’umano-divinità come un generoso dono divino, ma invece la ritiene connaturata in partenza a quella persona umana che secondo lui è tanto originaria quanto lo è l’Essere divino stesso. E su questa base è molto facile per il credente scivolare su un piano sul quale egli finirà per adorare molto più il proprio Ego che non invece Dio. E così rischierà di entrare in contatto appena con il Gesù che egli stesso crede di essere. Del resto oggi questo atteggiamento è estremamente diffuso nel contesto di gruppi religiosi che fondono sincretisticamente la fede cristiana con una congerie infinita di altre fedi eretico-cristiane e non cristiane (induismo, buddhismo, gnosi, teosofie varie etc.). E tutto questo semplicemente apre la strada a quel titanismo (spesso di stampo fortemente nietzschiano) del quale ho già parlato e del quale parlerò ancora. Non a caso il lemma di questo titanismo neo-religioso è l’ossessione per la meditazione come via dell’auto-consapevolezza e l’illuminazione; via per la quale si persegue chiaramente la deificazione dell’uomo. Berdjaev stesso ci ha però mostrato (specie per mezzo di Dostoevskij) che la deificazione dell’uomo comporta invariabilmente la sua separazione da Dio, ed è quindi l’anticamera della fede nell’Anticristo.
Ma una volta affermata la necessità della presenza tangibile di una filosofia religiosa nel Personalismo, bisogna inevitabilmente accettare che esso si concilii molto poco con una filosofia ossessionata dal razionalismo e soprattutto dallo gnoseologismo. E quindi la presenza di quest’ultima nel Personalismo andrebbe decisamente scartata. Abbiamo constatato che questo è l’aspetto più scottante della costatazione di una certa insufficienza del personalismo steiniano. Nessuno come lei è stata infatti condizionato da questo genere di filosofia nel porre un Personalismo intanto però molto decisamente ontologico-sostanzialista e metafisico-religioso. Tuttavia è un fatto che proprio questo le ha impedito di attingere la pienezza di un Personalismo come quello di Guardini ed anche di Berdjaev. Quindi mi sembra che questa mia indagine abbia mostrato in modo chiaro l’inopportunità del coinvolgimento nel Personalismo di una filosofia di tipo razionalista e gnoseologista. Tuttavia va intanto constatato che anche quest’ultima è ormai storicamente datata. Il che è un altro segno importante entro la prospettiva di una nuova presa in considerazione del Personalismo. Questa filosofia infatti (specie in Husserl e Stein) era ancora pienamente compatibile con un’antropologia, ed in parte anche perfino onto-sostanzialista, dato che essa non negava affatto l’esistenza di una realtà umana che fosse spirito-animico-corporea. Ma ormai l’attuale filosofia non vuole nemmeno sentire parlare di queste dimensioni. E quindi in effetti il problema è già risolto in partenza – un eventuale nuovo Personalismo rinato (magari non nella storia ma solo nei cuori) non potrà mai più includere quel genere di filosofia. Il che però significa che – entro questo progetto di riesumazione del Personalismo − dobbiamo anche iniziare a guardare con un certo distacco al Personalismo steiniano.
E con ciò è risolta in partenza anche la questione dell’intersecarsi del personalismo con una filosofia dell’essere; tema che poi riprenderemo nel discutere la componente esistenzialista del Personalismo.
E qui è presto detto! L’intero POSMRC implica necessariamente una filosofia dell’essere. Ma quest’ultima si ritrova anche fuori di esso in pensatori come Jaspers. Così come anche in pensatori che non ho trattato (Secrétan, Lavelle, Marcel, Sciacca). Quindi dobbiamo concluderne che il Personalismo è senza alcuna difficoltà compatibile con una filosofia dell’essere; che essa sia religioso-cristiana o meno.
La stessa identica cosa può essere detta la filosofia politica. La quale, come ci dimostra Mounier, ha il pieno diritto di essere (insieme alla filosofia religiosa) l’altro grande nucleo di un almeno ideale nuovo Personalismo. Intanto va preso atto del fatto che, come affermato con forza da Ricoeur, essa non può porsi assolutamente come un “ismo” senza con ciò inficiare il Personalismo. Invece la filosofia politica deve essere ben altro. Ed effettivamente essa è tale in Mounier. Egli perfino fa appello all’adesione ad un certo socialismo marxista, ma comunque non cessa mai intanto di mettere in guardia dagli estremismi (tra i quali l’anarchismo rivoluzionario), sebbene resti estremamente e tenacemente critico verso il liberalismo borghese. E questo lo accomuna fortemente a Berdjaev, che quindi non a caso egli menziona esplicitamente come punto di riferimento fondamentale del Personalismo. Detto questo il principale contributo della filosofia politica deve essere considerato il suo appello all’azionismo. Orbene, nel corso dell’investigazione, abbiamo potuto constatare che praticamene (in maniera diretta o indiretta) tutti i pensatori personalisti da noi esaminati sono stati azionisti. Lo è stata perfino Stein, per mezzo della sua dottrina (pur fortemente filosofico-gnoseologista ed intellettualista) della formazione del mondo da parte dello spirito umano. Lo è stato Maritain nell’auspicio della riedificazione di una nuova Civiltà cristiana. Lo è stato Scheler entro un Personalismo che si incentrava unicamente sui valori come guida dell’azione. Lo sono stati perfino Bloy e Le Fort nel rivendicare (almeno indirettamente) la riforma della consapevolezza umana secondo la direttrice indicata dai valori di una de-personalizzazione che (sebbene paradossalmente) promette (per la via di un Cristianesimo decisamente sacrificale) il raggiungimento di una del tutto sublime pienezza della persona. Lo è stato perfino Jaspers (nonostante la sua indifferenza totale alla religione) almeno nell’indicare la via tragica come eroico viatico per una non meno sublime pienezza della persona.
Lo sono stati massimamente Berdjaev e Dostoevskij nel sostenere che carattere ontico addirittura fondamentale della persona sarebbe la tendenza alla trasfigurazione rivoluzionaria del mondo in senso soprattutto spirituale. Lo è stato perfino un nichilista e pessimista come Leopardi nell’indicare (almeno in trasparenza) le possibili direttrici di una profonda riforma utopistica del mondo che si basi sul radicale giudizio di condanna emesso su di esso. E questo senz’altro coinvolge anche Kirkegaard (sebbene del suo pensiero non ho trattato). Infine lo sono stati in maniera senz’altro aperta ed esplicita Mounier e Ricoeur, sebbene quest’ultimo abbia voluto perdersi in una dottrina leziosamente filosofica del Personalismo come ermeneutica.
Dunque non vi è dubbio che l’ideale nuovo Personalismo che noi desiderosamente contempliamo unicamente nel passato (ma con l’intenzione di fare di esso il nostro viatico filosofico-attivo) debba essere azionista.
Insomma, una volta concepito un POSMRC, non si ha alcun diritto a fermarsi in base ad esso ad una mera affermazione della dignità e del valore inalienabili della persona. Questo credo deve invece venire anche posto in pratica. E le due vie per farlo sono senz’altro l’esperienza religiosa e la prassi etico-politica.
E qui naturalmente ritorna essenziale l’appello di Jonas e Arendt ad un giudizio integralmente personale sul mondo, sugli eventi e sul mondo. Cosa che poi trova un preciso riscontro in Berdjaev laddove egli non nega in alcun modo la necessità di superare il mondo, sebbene vada intanto pienamente riaffermata la presenza concreta ed attiva della persona in esso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Introduzione, p. 35-43, I, p. 48-75, I p. 88-101, I p. 88-101, II p. 113-117, III p. 135-136, V p. 175-177, V p. 182-185, VII p. 203-209, X p. 279-284, XI p. 307-313, XI p. 326-329, XII p. 331-334].
Non c’è dubbio che, nel contesto del Personalismo, ciò implichi un vitalismo, che del resto Berdjaev teorizza in maniera molto esplicita (rifacendosi peraltro a Bergson). E lo stesso vale anche per Mounier, specie nella sua idea che la condizione personale vada attivamente conquistata nel vivere pieno, e non invece solo presupposta. Tracce di vitalismo si ritrovano perfino in Leopardi. Quanto a Stein, anche se non ne ho parlato nella mia investigazione, la sua stessa radicale critica all’evoluzionismo (e proprio a difesa dell’antropologia personalista) è incentrata sul valore divino attribuito alla forza vitale. Intanto però negli altri pensatori che ho preso in considerazione questo aspetto non appare affatto evidente, e tuttavia nulla toglie che esso sia più o meno direttamente sottinteso.
Ora possiamo anche rispondere alla questione relativa alla giustificazione di un Personalismo ottimista o invece ottimista. Nella trattazione ho offerto vari spunti per risolvere la questione. Tuttavia, alla luce di questa ultime considerazioni riassuntive − nel constatare, intanto, che entrambe le anime sono presenti nel Personalismo −, va intanto detto che certamente è molto meglio che il Personalismo ideale sia pessimista che non invece ottimista. In assenza del pessimismo, intatti, viene a mancare molto probabilmente quella spinta verso la pienezza della persona che molto giustamente Mounier considera di importanza fondamentale. E bisogna dire al proposito che il POSMRC comporta un grosso rischio di considerare invece la persona come una realtà presente nel mondo (e più in generale nell’essere) in maniera del tutto incondizionata; con la conseguenza dell’illusione che essa si manifesti poi altrettanto incondizionatamente.
Il che comporta un tendenziale ottimismo che è piuttosto pericoloso. Ed infatti proprio la storia più recente ci dimostra che le cose non stanno affatto così.
E ciò chiama peraltro direttamente anche in causa quell’«ottimismo cristiano» che troppo spesso si è posto come ostacolo all’azione mondano allo scopo di appoggiare l’affermazione della persona. Nell’investigazione abbiamo infatti visto spesso che il pensiero di Berdjaev collide di sovente con questa presa di posizione. Ed a tale riguardo, invece, il Personalismo di Stein (nel disinteressarsi totalmente della questione, oppure nell’abbracciare acriticamente il piuttosto dogmatico ottimismo cristiano) si pone nuovamente in maniera largamente insufficiente. Del resto proprio Berdjaev, a causa della sua menzione di Dostoevskij, ci ha mostrato nel modo più chiaro e drammatico possibile quanto sia pericoloso abbandonarsi all’ottimismo cristiano. Esso rischia infatti seriamente di sconfinare in quella presa di posizione del Grande Inquisitore, il quale non ha alcuna esitazione a sacrificare la libertà al bene.
Per converso ciò ci mostra come il Cristianesimo (con base nella polemica di Agostino contro i Manichei) ha finito di fatto per abbandonarsi ad un ottimismo puramente retorico – che, specialmente oggi giorno, molto irresponsabilmente nega l’oggettiva presenza del male nel mondo (e nell’uomo stesso) nel mentre intanto (del tutto disinvoltamente) nega anche la possibilità di un concreto aiuto divino all’uomo nella lotta al male. E questa è decisamente l’opera francamente diabolica dei moderni teologi scettici e razionalisti in senso soprattutto de-costruzionista ed anti-metafisico (con punte, come ho detto, perfino di sconcertante ateismo).
In ogni caso abbiamo visto che essenziale – nel porre la stringente necessità del pessimismo – è stato il pensiero di Jaspers riguardo al tragico. Proprio per mezzo del pessimismo egli ha offerto infatti un formidabile supporto all’azionismo come aperta e assertiva resilienza eroica. Il che dimostra che tale
atteggiamento non è affatto per definizione una rassegnata passività all’ineluttabilità del Fato. E questo perfino senza l’apporto del Cristianesimo. Il che poi dimostra di nuovo chiarissimamente quanto vuotamente retorico rischi di essere l’ottimismo cristiano. E questo peraltro offre un forte sostegno all’idea berdjaeviana di una connaturata potenza creativa della persona. Sebbene anche qui bisogna guardarsi da un certo ingiustificato ottimismo disforico molto incline al titanismo, e quindi ad una perniciosa illusione.
Infine mi sembra al riguardo assolutamente esemplare la presa di posizione estremamente sobria e pragmatica di Mounier. Il quale afferma a chiare lettere che la lotta della persona per i valori è esposta sempre fatalmente al fallimento proprio perché il male esiste più che oggettivamente. Non solo, ma egli afferma anche che il male ha il potere reale di disgregare la persona stessa. Questo però induce Mounier a sostenere che l’unico ottimismo possibile è quello di fede. Tuttavia certamente non nel contesto dell’ottimismo cristiano di tipo retorico.
A causa di tutti questi motivi risulta evidente che, se proprio si vuole abbracciare un Personalismo cristiano (cosa, come ho detto, altamente auspicabile), bisogna stare molto attenti ad abbracciare anche il suo incondizionato e dogmatico ottimismo.
Vi è poi un’altra vi è un’ulteriore corrente ideale che attraverso l’intero Personalismo, e cioè la sua dimensione morale.
Qui il protagonista è decisamente Scheler; il quale vincola decisamente il suo Personalismo all’azione del tutto autonoma della persona in forza dei valori. E nell’investigazione abbiamo peraltro visto che questa presa di posizione trova un preciso riscontro nel pragmatismo della morale di Mounier ed anche di Ricoeur. Il che sottolinea poi che, per poter essere davvero personalistica, la morale deve essere davvero “materiale” e non invece astratto-formale. E questo inoltre sottolinea in un solo colpo la dimensione intensamente volontaristica, interiore e non-naturalistica di una morale per davvero personale.
Nello stesso tempo ciò sottolinea ancora una volta che è molto rischioso fondare la morale su una concezione ontologico-sostanziale della persona, la quale di per sé rischia fortemente (come abbiamo visto) di non essere azionistica.
Per contro vi è la posizione di Berdjaev (ed in parte anche dello stesso Dostoevskij) il quale vincola la dimensione morale della persona (da lui tutt’altro che negata) alla riforma dell’intera morale ed in particolare di quella cristiana (la quale per lui si era appiattita di fatto sui peggiori valori individualistici e conformistici borghesi). Proprio su questa base egli aveva auspicato una nuova morale creativa che riteneva l’unica in grado di costruire quella “comunione” spirituale che invece il Cristianesimo di fatto non avevamai davvero costruito, e che è poi l’unico modo per essere una religione dell’amore. Insomma per lui la pienezza della persona può venire affermata solo sulla base di questo presupposto. Non a caso a suo avviso la persona è davvero unica solo quando si fa carico dell’azione morale in maniera totalmente autonoma – ossia come un compito che la riguarda molto direttamente. Il che significa che secondo lui la morale è ineluttabilmente personalistica ed inoltre lo stesso Personalismo non è tale se non pone in primo piano la morale. E bisogna dire che anche Guardini (sebbene indirettamente) allude a questa assolutamente necessaria riforma della morale per poter dare vita da un vero personalismo cristiano. A ciò fa eco poi la fondazione unicamente interiore della morale secondo Maritain. Il che fa poi della morale stessa un ambito del tutto irrazionale, che quindi sfocia molto direttamente in quelle profondità insondabili della “vita divina” nelle quali la distinzione razionale tra bene e male decade totalmente. Proprio per questo secondo lui la persona quale “suppositum” si presenta come un sostanziale protagonista unicamente soggettuale della morale che rende relativa ed insignificante qualunque morale oggettiva.
E qui va nuovamente registrato che il Personalismo steiniano – proprio in quanto cristiano − appare di nuovo insufficiente (per quanto sia stato sensibile alla dottrina dei valori), dato che esso ha abbracciato del tutto acriticamente la classica morale cristiana. E ciò perfino ad onta del fortissimo accento da lei posto sulla piena responsabilità personale nella scelta e decisione morale. In questo però la sua dottrina morale, oltre ad abbracciare incondizionatamente la morale cristiana, finisce per abbracciare anche la unicamente razionalistica ed astratta morale universalistica kantiana che è poi del tutto laica. E che invece Scheler rigettò con estrema decisione.
La costatazione di questa insufficienza (unitamente al contributo fondamentale di Scheler alla morale personalistica) svaluta sicuramente il personalismo ontologico-sostanzialista. E tuttavia nel corso dell’investigazione abbiamo dovuto constatare anche che, nel contesto della lettura berdjaeviana di Dostoevskij, la negazione della sostanzialità della persona quale anima spirituale rischia fortemente di aprire la strada ad un falso umanesimo entro il quale la morale può venire pervertita fino al punto di autorizzare i peggiori crimini. Ecco che allora Dostoevskij ri-avvalora nuovamente la classica morale cristiana (sebbene senz’altro senza alcuna indulgenza verso il suo adattamento supino alla morale borghese). Nell’investigazione abbiamo anche visto che la morale di Maine de Biran si attiene anch’essa a questo fondamentale punto di riferimento etico-religioso. Peraltro anche lui (come Scheler) sottolineò l’importanza decisiva di una morale interiore e non invece esteriore. Ed inoltre la svincolò anche decisamente dalla dimensione razionale per legarla al solo sentimento. Tuttavia comunque il vincolo da lui stabilito tra la morale personale e quella relazionale-sociale aprì la strada a quella morale pragmatica di Mounier entro la quale l’aspetto fondamentale era l’azione. E ciò porta di nuovo in primo piano un Personalismo morale molto più funzionale che non ontologico-sostanziale.
Ecco allora che il muoversi della direttrice morale entro il Personalismo ci mostra due aspetti che sono tra di loro piuttosto contraddittori e che si presentano entrambi con vantaggi e svantaggi.
Da un lato vi è un Personalismo morale di tipo ontologico-sostanzialista (e metafisico-religioso), che di fatto è estraneo alla dottrina dei valori, specie nella sua forza azionistica. Esso comporta il vantaggio di considerare la persona umana come anima spirituale divina, evitando così un umanesimo laico che può facilmente scivolare verso l’amoralismo o almeno verso un relativismo morale. Ma comporta intanto lo svantaggio implicato dal considerare la persona umana come un’entità scontatamente morale al di fuori di qualunque sviluppo e di qualsiasi azione. Ed in questo caso vi è anche una disconnessione con i valori reali e storici di una determinata e società, con la conseguenza del ritorno di fatto di una morale universalistica astratto-formale basata su valori anch’essi a-locali ed a-storici; e l’effetto in questo caso può essere un amoralismo di fatto aggravato dal sussistere di una morale puramente di facciata. Proprio questo è il rischio che è stato corso dal Personalismo basato sulla morale cristiana non riformata, e che viene severamente criticato da Berdjaev e da Mounier (ed in parte anche da Bloy), ma non da Stein e nemmeno da Maritain.
Dall’altro lato vi è poi un Personalismo morale di tipo sostanzialmente funzionalista ed azionista (entro il quale può venire anche negata la sostanzialità onto-metafisica della persona e a volte perfino la sua animico-spiritualità nel contesto di una dottrina laica). Ed esso si presenta non causalmente spesso in stretta connessione con una dottrina dei valori. Ecco comporta il vantaggio di considerare la persona umana come un’entità chiamata a conquistare il proprio status attraverso un’azione incessante e mai ultimata, con la conseguenza che anche la sua moralità potrà essere solo attiva e strettamente condizionata ad i suoi effettivi risultati. Lo svantaggio di questa dottrina è però quello che ho considerato il vantaggio del Personalismo sostanzialista, e cioè l’assenza di uno stabile punto di riferimento metafisico-religioso che eviti il suo scadere in una morale basata sì su valori, ma che possono essere anche falsi e distorti in ragione di costumi e necessità locali e/o storiche, o anche di determinate esigenze ideologiche.
E veniamo ora all’ultima corrente ideale che abbiamo visto attraversare l’intero spazio della visione personalista, ossia l’esistenzialismo. Il quale (come abbiamo constatato più volte) è problematico per definizione dato che spesso di presenta come nichilista.
In via di principio l’esistenzialismo dovrebbe essere personalista per definizione in forza del primo e maggiore dei caratteri ontologico-basici della persona, ossia il fatto di non essere una cosa ma invece un esistente che è consapevole di sè. Infatti anche l’esistente è ciò che è perché non è affatto un ente, ma è invece un essere che è dotato di diversi caratteri che sono anch’essi propri della persona – in particolare quel totale possesso di sé stesso che fa di esso un ente fondato unicamente su sé stesso, e quindi per definizione è responsabile pienamente di ogni sua scelta.
E questo è il famoso “Dasein”, ossia quell’ente che è caratterizzato dall’«esser-ci» − che poi in qualche modo è un essere per sé stesso. Peraltro conta qui molto l’opinione di Maine de Biran, secondo la quale il razionalismo filosofico nega di fatto un esistenzialismo che è invece base indispensabile per il Personalismo, dato che esso sostiene la negazione di “tutto ciò che dona valore all’esistenza”, che poi corrisponde perfettamente al “negare che noi siamo delle persone”.
Tuttavia sta di fatto che la filosofia esistenzialista non è nata affatto con intenzioni personaliste. Il che trova un preciso riscontro in Ricoeur quando egli include anche lo stesso esistenzialismo tra le forze storico-filosofiche avverse che hanno schiacciato il Personalismo. E del resto esattamente lo stesso ha detto Stein (AMP) nel considerare l’esistenzialismo heideggeriano come l’opposto stesso del Personalismo.
Per cui la filosofia esistenzialista ha messo in evidenza gli aspetti appena commentati, ma intanto unicamente sulla base della concezione dell’esistente umano come un ente finito, e quindi per definizione così tanto gettato nel mondo da non essere in alcun modo padrone del proprio destino. E ciò soprattutto per il fatto di essere inesorabilmente votato alla soggezione totale al divenire temporale che poi si conclude impietosamente con la morte. Pertanto in questo modo il “Dasein” umano può anche non essere in sé una cosa, ma finisce per diventarlo comunque non essendo in alcun modo padrone del proprio destino – specie se si considera quest’ultimo non limitato affatto agli eventi storici e naturali (temporalità) ma invece lo si vede procedere in prospettiva verso l’eternità. Dunque per definizione il finito esistenzialmente concepito per definizione non ha alcun senso. Laddove invece (specie in Stein, Maritain, Guardini, Scheler, Berdjaev e Maine de Biran; ma anche il Mounier e perfino nel laico Ricoeur) è stato sostenuto che la persona è ontologicamente il “senso” per eccellenza, ossia è un esistente che sta al mondo in forza di una necessità invariabilmente positiva (che essa sia o meno concepita religiosamente) e che non si dissolve nemmeno con la sua morte. Anzi Guardini sostiene perfino che la persona incarna di per sé così tanto il senso che finisce per trascendere anche qualunque senso che non risieda in essa.
Non a caso abbiamo visto in questa sezione che la persona non può venire concepita in alcun modo come un mero finito. E questo fa sì che forse il maggiore pensatore moderno del “Dasein”, Heidegger, non può venire considerato in alcun modo un personalista. Non a caso il suo Personalismo (se pure esiste) è francamente nichilista. E lo stesso può venire detto anche per Nietzsche, il quale in qualche modo anticipò il “Dasein” heideggeriano nel considerare ontologicamente l’uomo come sostanziale volontà di potenza.
Sta di fatto però che non pochi pensatori personalisti hanno assunto una posizione esistenzialista.
Lo ha fatto senz’altro (ed in modo decisamente paradigmatico) Berdjaev. E peraltro lo ha fatto nel contesto di una davvero fortissima filosofia dell’essere. Cosa che (come ho posto in evidenza nei mei articoli già citati) differenzia decisamente il suo Personalismo da quello steiniano. Ed inoltre lo mette anche non poco in ombra. Tra l’altro il pensatore russo si presenta come un esistenzialista decisamente tragico nel ricollegarsi alla visione di Dostoevskij. E tuttavia abbiamo visto che il così forte accento posto da quest’ultimo sull’umano-divinità riscatta per definizione il suo esistenzialismo tragico sia dal pregiudiziale pessimismo sia anche dal tendenziale nichilismo. Infine va considerato che l’importanza da lui data all’irrazionalità dell’essere fa sì che la sua concezione personalistica della libertà sia totalmente libera dai vincoli delle concezioni filosofico-razionalistiche come quelle steiniana, che proprio per questo motivo (nel supporre un ordine dell’essere che in verità è solo ineffabile ed invisibile) non riesce ad essere esistenzialista.
Inoltre è decisamente esistenzialista anche Maritain, sebbene opponendosi con forza all’esistenzialismo di Sartre e Heidegger. Ed abbiamo visto che il suo è un esistenzialismo fortemente etico-cristiano in quanto riconnette la persona in quanto esistente alla volontà del bene.
È senz’altro esistenzialista anche Leopardi, sebbene entro un esistenzialismo tragico che accomuna filosofi e poeti sia religiosi che non (Pessoa, Hölderlin, Bloy, Jaspers, Kirkegaard, Marcel, Sciacca, e forse perfino Le Fort). In particolare abbiamo visto che in Jaspers diviene addirittura del tutto plausibile un possibile esistenzialismo tragico personalista nel suo concepire (grazie proprio alla visione tragica) il tipo umano più estremo del Personalismo della de-personalizzazione (che include poi anche Bloy e Le Fort), e cioè il «non-nato». Non vi è dubbio comunque che questo tipo particolare di personalismo (e cioè quello della depersonalizzazione) coincide di per sé fortemente con un esistenzialismo tragico.
Quanto poi a Leopardi abbiamo constatato che nel suo pensiero si configura una sorta di «secondo esistenzialismo» (sicuramente da sempre inapparente e nascosto) che ha la potenzialità di essere compatibile con il Personalismo. Tuttavia in lui l’esistenzialismo tragico diventa decisamente anti-personalista quando assume toni davvero radicalmente pessimistici e nichilistici. Infatti in questo caso la de-personalizzazione scade decisamente nella concezione dell’uomo inteso come un vero nulla ontologico.
Ed infatti va detto che diversi pensatori personalisti (esistenzialisti o meno) − tra i quali soprattutto Berdjaev, Stein, Maritain e Guardini – hanno messo in guardia dall’abbracciare l’esistenzialismo tragico in quanto lo hanno ritenuto invariabilmente nichilistico. E del resto Guardini auspica esplicitamente (come Maritain) un esistenzialismo unicamente cristiano. In particolare egli ha sostenuto (in conflitto con la visione scientifica del mondo) che il “Dasein” avverte il mondo non come qualcosa che è circondato dal vuoto proprio per il fatto che esso sente di essere un Tutto indubitabilmente consistente. Ed esattamente questo lo pone in naturale relazione con Dio in quanto Assoluto che intanto circonda amorevolmente il mondo. Inoltre − nell’affermare in particolare che il “Dasein” umano è insieme concreto ed astratto ed anche immanente e trascendente – egli sostiene un esistenzialismo cristiano che non deve assolutamente nulla a nessuno. Infine (ed in maniera questa volta molto simile a Stein) egli sbaraglia letteralmente Heidegger nel confutare frontalmente il concetto di gettatezza dell’esistente, dato che per lui il “Dasein” umano-divino rappresenta l’eternità per eccellenza. E Guardini può sostenere questo perché sposta la gettatezza dall’interiore all’esteriore, relegandola in tal modo totalmente nell’ambito della temporalità fisica. Il che implica poi nuovamente che la persona umana è tutt’altro che un finito, dato che la gettatezza non la riguarda affatto; e ciò per il fatto di costituire un ente divino-umano per definizione destinato all’eternità.
Infine va considerato che lo stesso Mounier assume una posizione molto originalmente esistenzialista nel sostenere che la “categoria di persona” è in sostanza come “esistenza incorporata” e non come “essenza” ma invece unicamente come relazione.
Da tutto questo possiamo concludere quindi che l’esistenzialismo (anche se tragico) ha il pieno diritto di intersecare totalmente il Personalismo. A patto solo che esso non sia nichilista. Perché in questo caso il rischio dell’annientamento della persona diviene estremamente alto – indipendentemente dal fatto che essa venga concepita in maniera onto-sostanzialista (e quindi tendenzialmente religiosa) o anche in maniera funzionale relazionalista (e quindi tendenzialmente laica).
In ogni caso si può dire che l’esistenzialismo tendenzialmente nichilista (di pensatori come Leopardi, Pessoa e Nietzsche) rappresenta una sorta di lato ombra anti-personalista del Personalismo che in qualche modo (sebbene con la dovuta prudenza) potrebbe venire considerato anche parte di esso.

Ecco dunque concluso questa sorta di sunto del saggio sul Personalismo che ho appena scritto e che mi auguro di poter presto consegnare alle stampe. Naturalmente in questo scritto il lettore non potrà trovare la ricchezza delle argomentazioni critiche presenti nel saggio (e quindi sarà fatalmente costretto ad accettare alcune affermazioni nella loro forma non giustificata), ma intanto potrà avere almeno un’idea generale del Personalismo che poi potrebbe anche approfondire con la lettura delle opere che ho menzionato ed elencato.

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(ATTENZIONE: questo articolo è stato accettato per la prossima pubblicazione su una rivista di filosofia; per cui (in linea con le vigenti leggi sul copyright) si diffida dalla sua riproduzione integrale e dalla sua citazione senza menzionarne l’autore)

Introduzione
Nikolaj Berdjaev, in tutti i suoi libri, ci suggerisce una prospettiva religiosa del tutto nuova (e di certo in parte rivoluzionaria), nel contesto della quale finiscono per sembrare estremamente inadeguate diverse idee e prassi esemplari che usualmente fanno da guida ai fedeli cristiani nell’affrontare l’esperienza religiosa in tutti i suoi aspetti (individuali ed ecclesiali), ma soprattutto nel contesto della personale esperienza della Presenza divina. Ci riferiamo comunque in particolare alla preghiera, ed ancora più particolare alla cosiddetta preghiera «di richiesta», ossia quella preghiera che invoca il concreto aiuto divino in situazioni esistenziali così difficili da essere ai limiti dell’impossibile ed esigere prestazioni quasi sovrumane (specialmente in quelle così difficili da non autorizzare, almeno sul piano naturale, alcuna forma di speranza). Preghiera che intanto oggi viene guardata con estremo sospetto da predicatori, apologeti e teologi cristiani. E peraltro senza alcuna eccezione.
Va detto comunque che il pensatore si riferisce qui unicamente alla religione cristiana. E quindi su questa linea rimarremo anche noi nel corso nella nostra indagine.
Entreremo più avanti nel merito delle parti del suo pensiero che fanno direttamente riferimento all’esperienza religiosa, oppure dalle quali sono deducibili elementi relativi a quest’ultima. Ma comunque, volendo fare una larga sintesi preliminare della presa di posizione berdjaeviana, si può dire che essa si rifiuta di concedere qualunque valore ai tradizionali valori dell’obbedienza, della contrizione e della mortificazione personale, in quanto a loro volta secondo lui basati su una concezione dell’esperienza religiosa che guarda unicamente al Peccato e alla Caduta (e quindi non è affatto attiva, dato che essa si limita a reagire passivamente a tali elementi). Ma proprio in tal modo l’esperienza religiosa viene vincolata alla realtà negativa di un mondo e di un uomo che vengono considerati decaduti e irrimediabilmente corrotti (in quanto peccaminosi), e che pertanto, così come sono, non hanno ovviamente la benché minima chance né di entrare in contatto con Dio né di chiedergli alcunché.
Egli prende intanto atto del fatto che, nella prospettiva della Redenzione, a tutto questo viene previsto il potente rimedio della Grazia o Misericordia divina. Ma intanto registra anche il fatto che tale atteggiamento corrisponde più fondamentalmente e realisticamente ad un’insana ossessione per la sola salvezza. La quale poi, nonostante il suo porsi entro la logica della Redenzione umano-mondana (ad opera di Cristo), tende a tradursi di fatto in un mero egocentrismo, che è inoltre malinconico, sfiduciato e perfino terrorizzato (e che poi ha sempre trovato il suo culmine nell’ascetismo monastico); entro il quale l’uomo persegue meno che mai l’attiva e produttiva presa di contatto con la Presenza divina. Qui infatti la preoccupazione e passione che domina nell’uomo non è affatto quella di entrare in relazione con Dio, ma invece unicamente di salvare sé stesso dalle terrificanti conseguenze del Peccato. Si tratta quindi di un complessivo atteggiamento negativo e tutto remissivo (specie in quanto passivo), che si presenta a sua volta come attitudine al pessimismo, alla disperazione preoccupata, al devastante senso di colpa e di indegnità (il quale in principio rende impossibile che si venga ascoltati da Dio), all’incapacità di coltivare alcuna forma speranza, ed insomma alla totale oscurità dello spirito. Più in generale egli definisce una simile presa di posizione come una passiva e sterile “adequazione alla necessità” che è propria del mondo naturale [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018I p. 48-82, IV p. 153-156, IV p. 161-164, VII p. 206-209] – adequazione che coinvolge a sua volta con la religione, anche le stesse filosofia e scienza –, la quale comporta poi necessariamente l’accettazione passiva delle cose come sono nella loro forma più negativa ed irreversibile.
Qui stiamo insomma parlando di quel mondo naturale con le sue ferree e spietate leggi entro le quali domina totalmente l’indifferente Caso (se non addirittura una sorta di impietoso karma punitivo), ed in assenza totale, quindi, di etica, di giustizia e soprattutto di amore. Ma inoltre, per di più, nel mondo così retto domina anche totalmente la legge del più forte, ossia la legge della salvezza raggiungibile unicamente per la via della sopraffazione dell’altro (secondo la spietata logica del «mors tua, vita mea!»). È dunque del tutto ovvio che, su queste basi, Berdjaev affermi che il Cristianesimo ha fallito miseramente nell’essere una “religione dell’amore” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 307-310].
Ebbene, sulla base di tutto ciò ci sembra che non si possa concepire in alcun modo un’esperienza religiosa cristiana entro la quale si possano supporre alcuni pregevoli aspetti in particolare – che essa ponga una diretta relazione con quella che è la «positività» dell’essere per eccellenza, e cioè Dio ed in particolare il Dio vivo immanente (Gesù Cristo e/o lo Spirito divino); che essa procuri gioia o almeno una profonda e rasserenante consolazione; e che infine essa procuri soprattutto una reale speranza. Speranza che, per noi esseri storici e di carne, non può non coinvolgere anche aspetti estremamente concreti (sia pure nella complessiva esperienza di fede che pone l’obiettivo finale e più alto in quella vita ultraterrena che è senz’altro integralmente spirituale). Ma sta di fatto che proprio per la speranza non può esservi assolutamente alcun posto in un’esperienza religiosa che sia concepita negativamente al modo che abbiamo visto. Specie una speranza nei suoi aspetti più concreti. Il che rende necessariamente del tutto retorica (se non menzognera e perfino truffaldina) quella che usualmente viene concepita come «gioia cristiana».
Ebbene Berdjaev sostiene che tale complessiva obbedienza passiva all’irremovibile e gelida necessità del mondo proibisca assolutamente qualunque forma e grado di atteggiamento creativo. Ed a questo punto possiamo allora assumere che, nel contesto dell’esperienza religiosa (specie nelle forme in cui essa viene qui da noi esaminata), la creatività possa venire vista proprio come l’esatto contrario dell’atteggiamento che abbiamo appena descritto. Pariamo cioè di un atteggiamento religioso positivo (soprattutto in quanto attivo ed assertivo) che comporti l’attitudine all’ottimismo, alla serenità d’animo, alla fiducia, alla riconciliazione con sé stessi unita al senso del proprio valore (che faccia sentire degni di venire ascoltati da Dio), alla capacità di forgiare letteralmente potenti speranze, ed insomma alla totale luminosità dello spirito. Tutte attitudini queste che in questo caso si sposano con la «gioia cristiana» in una maniera sì autentica e realistica: in quanto essa è del tutto al riparo dalle ombre inquietanti gettate su di essa da qualunque mera e vuota retorica. In questo modo infatti la fede cristiana diviene realmente una vera e propria entusiastica fede nella Vita. Ed in tal modo la presenza immanente e storica nel mondo da parte di Cristo come Spirito Santo diviene qualcosa in cui si può credere senza alcuna difficoltà; ed alla quale quindi ci si può affidare con la massima serenità.
Per esprimere tutto in una formula sintetica (nel proporre la quale noi ci ispiriamo agli insegnamenti del nostro compianto Padre spirituale Prof. e Sac. Vincenzo Romano) diremmo che ciò comporta l’assoluta impossibilità di rivolgersi a Dio dicendo: − «Padre abbi pietà di me». Infatti è impossibile e perfino ridicolo che ad un padre amoroso si chieda pietà. Si può di certo chiedere a Lui perdono per i propri errori, peccati e nefandezze varie. Ma intanto a tale richiesta un padre amoroso non risponderà mai con la pietà; laddove la pietà si prova solo verso colui che è oggettivamente disprezzabile. Risponderà invece semmai con la gioia entusiasta e pienamente soddisfatta, con la simpatia e perfino con l’orgoglio (e con il travolgente ed attivo affetto collegato a tali emozioni) di colui che vede il figlio tornare sulla retta via e così tornare essere quello che era sempre stato. Questo padre infatti era sempre stato certissimo in cuor suo dell’incontrovertibile dignità e valore del proprio figlio, e ciò perfino ad onta di qualunque cosa negativa gli fosse accaduta o lui avesse fatta. E di tutto questo troviamo un’eco perfettamente corrispondente nella Parabola del Figliuol prodigo – entro la quale (ancora una volta in contraddizione con la dominante retorica dell’esperienza religiosa) l’aspetto primario non è affatto il pentimento, ma invece l’amore incondizionato che il Padre aveva sempre provato per lui, che è esattamente l’atteggiamento con il quale lo riaccoglie in casa.
Dunque un’esperienza religiosa che in qualunque modo si conformi a questa così insana e disperata richiesta di pietà (e tale è certamente quella dominata totalmente dalla consapevolezza del peccato e dall’ossessione per la salvezza, con l’aggravante dell’inevitabile umiliante obbedienza cieca alla ferrea necessità del mondo, ossia alle sue spietate leggi naturali) non può essere né autentica né credibile né realistica. E ciò appunto per il semplice fatto che essa non si rivolge affatto ad un Padre. Si rivolge invece semmai a qualcun altro, divinità o meno che sia.
Ma allora, se le cose stanno davvero in questo modo, tutto può essere proibito entro l’esperienza religiosa, tranne il fatto di chiedere al Padre ciò che nessun padre negherebbe mai al proprio figlio, ossia il suo aiuto. Ed un aiuto che non può essere tale se non è concreto, cioè tangibile. Infatti entro l’esperienza religiosa negativamente connotata (che abbiamo descritto prima) tutto si può fare tranne che chiedere aiuto. Il che trova nuovamente riscontro nel passo evangelico nel quale viene affermato che mai il Padre darebbe ai propri figli pietre, e non pane; oltre che nell’affermazione evangelica che invita espressamente al “chiedete e vi sarà dato”. Che peraltro proprio Edith Stein menziona espressamente [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988I p. 59-66]. E anticipiamo qui che tale affermazione rientra in quelle sorprendenti oscillazioni del discorso steiniano delle quali parleremo poi analizzando i suoi testi.
Dobbiamo comunque precisare che da ora in poi parleremo a tale proposito dell’aiuto in quanto «aiuto divino». Ma, ancora una volta, di quale genere e grado di aiuto divino si tratta entro la usuale retorica omiletico-teologica? E con questa domanda veniamo al nucleo più intimo dell’intera problematica che stiamo discutendo. Si tratta forse di un aiuto concreto e tangibile, ossia un aiuto nel quale Dio – per dirlo proprio con le parole di Edith Stein nè “ll Mistero del Natale” (testo che poi riprenderemo in esame) – provvede alle nostre necessità esistenziali concrete (ma ovviamente solo a quelle davvero urgenti, gravi e senza possibilità reale di soluzione) per mezzo di vere e proprie soluzioni pratiche? Ebbene no! Purtroppo no! Infatti la più tradizionale e canonica definizione dell’esperienza religiosa (smascherando così sé stessa come una mera e vuota retorica) afferma invece che sì l’aiuto divino deve venire considerato più che certo (tanto che bisogna restare incrollabilmente certi che «Dio non ci abbandona mai!»), ma intanto deve venire considerato nel modo riduttivo e pochissimo credibile che segue: − 1) aiuto in effetti del tutto invisibile e soprattutto intangibile (addirittura fino al punto che esso potrebbe non manifestarsi mai, ossia solo dopo che noi abbiamo già disincarnato, e quindi di fatto dopo aver passato l’intera nostra vita a soffrire senza mai aver ricevuto il benché minimo soccorso divino); 2) aiuto inteso come un agire di Dio «sempre-e-solo-per-il-nostro-bene-qualunque-cosa-accada-e-qualunque-forma-assuma» (corrispondente poi all’esortazione di Teresa d’Avila ad accettare qualunque evento come «proveniente dalla Mano di Dio», e con per di più la terribile minaccia che, se non lo facciamo, “Dio ci abbandonerà ad ogni passo”; 3) aiuto nella forma dello Spirito Santo stesso, che agisce però in tempi immensamente lunghi, e quindi produrrà dei frutti solo dopo una sofferenza che intanto ci porterà certamente allo sfinimento o alla distruzione della nostra sostanza umana (e probabilmente anche animico-spirituale). Ma le spietate finali conclusioni di questa serie negazioni le tira proprio Edith Stein dice senza peli sulla lingua che ha decisamente “fatto male i suoi conti” chi crede (ossia si illude) che Dio ci aiuti provvedendo ai nostri bisogni concreti. Insomma una negazione più frontale ed esplicita dell’auto divino concreto non ci sarebbe potuta essere.
E si tenga conto anche del fatto che l’inquietante affermazione di Teresa è stata tratta dal suo “Il castello interiore”, testo che Edith Stein tradusse, amò e considerò inoltre punto di riferimento fondamentale della sua prassi mistica [Edith Stein, Die Seelenburg, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, Anhang p. 501-525]
Più avanti esporremo comunque le nostre obiezioni a tale retorica. Ma intanto va preso atto del fatto che essa, nel negare esplicitamente (sebbene per mezzo di sottili argomenti retorici) l’aiuto divino concreto, di fatto in definitiva lo nega in assoluto ed alla radice. Non a caso tutto ciò rientra poi nell’idea (per la quale viene preso spessissimo ad esempio emblematico Giobbe) secondo la quale sventura, dolore e problemi senza via di uscita né soluzione, non sarebbero altro che l’esame al quale Dio ci sottopone per mettere alla prova la nostra fede in una sua Presenza inderogabilmente invisibile. Il che configura poi letteralmente un Dio che ci usa letteralmente violenza, sebbene (come si sostiene) «solo-a-fin-di-bene». Il che di fatto ci invita ad aver fede in un Dio della cui esistenza non potremo mai e poi mai essere minimamente certi.
E questo è certamente l’inquietante “Deus absconditus” del quale la più raffinata mistica cristiana ha sempre parlato (vedi Agostino e Cusano). Ma, almeno a partire dal nostro ristretto e debole punto di vista umano (per quanto possiamo essere convinti uomini di fede o almeno per quanto ci sforziamo di esserlo in tutti i modi possibili), questo rischia fortemente di equivalere all’idea che Dio non esista affatto. Del resto, se non fosse così, Gesù non avrebbe operato quella serie infinita di miracoli che evidentemente servivano lo scopo di sostenere la fede nell’esistenza di Dio da parte di uomini di carne che sono costantemente esposti alle ferocissime evidenze imposte dal mondo naturale. Naturalmente anche questo discorso viene sempre rovesciato in termini sostanzialmente retorici. Per cui si sostiene che il miracolo non supporta la fede, ma invece, al contrario, esso proviene dalla fede. E ciò può essere anche vero. Ma intanto, nel caso che non sia nemmeno pensabile un aiuto divino concreto (quello che però, entro la prassi evangelica, guariva letteralmente paralitici, lebbrosi, muti, sordi, pazzi etc.), anche la fede più fervida e cieca non avrà la benché minima speranza di produrre alcun frutto tangibile.
Del resto l’evidente contraddittorietà e scarsa autenticità di tutta questa retorica − esposta peraltro ultimamente del tutto indifesa all’attacco possente di quell’agguerritissima «scienza cognitiva» (in sé in principio atea), che ormai spadroneggia nelle dispute teologiche, esigendo inflessibilmente di venire tenuta in debito conto – ha finito per imporsi con forza ai moderni teologi, spingendoli in tal modo ad elaborare dottrine praticamente atee ed agnostiche dell’esperienza religiosa (entro le quali si sono ormai sviluppate le famose dottrine che sostengono il cosiddetto “post-teismo” ed inoltre la totale storicità della figura di Gesù, ossia la sua non umano-divinità). E così, senza volere entrare nel merito questo immenso campo di discussione – del quale ho molto parzialmente discusso in un mio precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >] −, i teologi oggi semplicemente considerano insostenibile ed anche ridicola l’idea di un aiuto divino concreto. E ciò soprattutto sulla base dell’idea secondo la quale, molto in generale, sarebbe razionalmente impensabile (anche nel contesto di dottrine religiose) l’intervento del Sovrannaturale (Trascendente) nel naturale (immanente). In altre parole secondo questi teologi non può essere attribuibile all’insegnamento di Cristo alcuna intenzione di trasfigurare il mondo (storico, naturale ed immanente) così com’è. Si assume pertanto che Cristo avrebbe avuto fin dall’inizio l’intenzione di lasciare il mondo così com’è dopo la Sua venuta, in modo tale che l’esperienza religiosa cristiana sarebbe destinata a muoversi su un piano totalmente diverso da quello storico e naturale. Laddove a questo punto diviene assolutamente incomprensibile su quale piano l’esperienza religiosa cristiana effettivamente si muova. Ed ecco che a questo punto il campo resta aperto alle più strampalate ipotesi e teorie dei moderni teologi, ormai trafitti a morte e sconfitti in partenza dall’implacabile logica analitica delle scienze cognitive (si veda per questo il nostro già citato articolo sul moderno realismo filosofico). Di conseguenza, se pure fosse possibile concepire una sorta di trasfigurazione del mondo, essa dovrebbe venire intesa in maniera assolutamente metaforica ed affatto letterale, ossia nei termini di quella pura e non pragmatica etica religiosa che la Chiesa rappresenta in primo luogo nell’osservanza del primario comandamento dell’amore dovuto al prossimo (ossia la carità).
Il che implica quindi una dimensione unicamente collettiva, comunitaria e sociale dell’esperienza religiosa, escludendo così da essa qualunque dimensione singolare. E non a caso l’ormai dominante dottrina della Chiesa si muove esattamente su questo registro – affermando in tal modo (sebbene scaltramente negandolo) che la Chiesa di Cristo in fondo altro non è se non un’immanente istituzione sociale.
Eppure va già qui fatto notare che Berdjaev invece vede come centrale nel profondo rinnovamento del Cristianesimo (da lui auspicato) proprio la decisione alla trasfigurazione reale del mondo. Ed inoltre precisa in più sedi che la “comunione” spirituale (che dovrebbe essere il frutto di tale trasfigurazione) è tutt’altro che mera socialità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-75, V p. 172-175, XI p. 318-326, XII p. 331-346]. Ma entreremo più avanti nel merito di questo importante aspetto. Inoltre parlano contro questo le predicazioni di alcuni veri e propri espliciti sostenitori dell’aiuto divino concreto, come ad esempio il napoletano Don Dolindo Ruotolo (al cui fondamentale aiuto ricorreremo alla fine).
Ed ecco quindi che, nel contesto dell’omiletica cristiana ed ancor più della relativa prassi di guida spirituale all’esistenza, si apre una frattura che appare essere davvero molto grave. Soprattutto perché essa disorienta totalmente il credente. In particolare si delineano a fronte dell’esperienza religiosa sostanzialmente due prese di posizioni canoniche: − 1) quella della retorica religiosa prima descritta, che continua ad affermare l’aiuto divino nel mentre di fatto lo nega e peraltro con molta forza (e tale presa di posizione include predicatori ed apologeti, con l’aggiunta anche delle prese di posizione, dirette o indirette, di monaci e santi di ieri e di oggi); 2) quelle della teologia, che spazza via totalmente tale intera retorica per mezzo di argomentazioni razionalistiche spesso sconfinanti nell’ateismo agnostico e nel totale immanentismo anti-spiritualista. Ma − lo ripeto − a queste due prese di posizione canoniche si contrappongono poi le affermazioni di predicatori (tra i quali anche santi o religiosi in odore di santità), i quali senza alcuna inibizione parlano esplicitamente di un aiuto divino concreto. E tra costoro spicca senz’altro Don Dolindo Ruotolo.
Detto questo, la posizione assunta da Edith Stein in “Il mistero del Natale” appare essere schierata decisamente dal lato della prima posizione canonica, ossia quella che è sostanzialmente retorica e nega con forza l’aiuto divino concreto.
Questo è il quadro generale nel quale si muove la nostra indagine. Ora passeremo ad un’analisi testuale che ci permetterà di allargare queste considerazioni e magari anche tentare di ottenere forse perfino qualche certezza e risposta.
Dobbiamo comunque ancora precisare che, aldilà dei testi di Berdjaev (che sono emblematici per le riflessioni fondamentali che contengono), la scelta degli altri due testi (di Edith Stein e di Getrud von Le Fort) va considerata in qualche modo arbitraria. Dato che esse rappresentano un’apologetica cristiana la cui estensione è sconfinata, e che quindi non è in alcun modo possibile prendere in considerazione integralmente in questa sede. Infine dobbiamo aggiungere che di fatto di Berdjaev analizzeremo qui “Il senso della creazione” (SC) ed alcuni brevi passi di “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], dato che invece “Das Ich und die Welt der Objekte” (DIWO) si occupa dell’esperienza religiosa solo nei termini di una possibile nuova filosofia religiosa. E questo richiederebbe un’altra trattazione a parte, anche se abbiamo già affrontato il tema abbastanza ampiamente nel secondo dei due articoli che abbiamo dedicato alle relazioni tra il pensiero di Berdjaev e quello di Edith Stein [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/%5D.

I- L’aiuto divino sullo sfondo dell’esperienza religiosa in generale secondo Berdjaev.
Berdjaev – entro una parte di suo “Il senso della creazione” (SC) che è un saggio dal titolo molto significativo ed inoltre è dedicato alla memoria di Solov’ëv (grande sostenitore della riforma religiosa in senso anti-immanentista), cioè “Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo” − afferma esplicitamente che la prospettiva unilaterale della salvezza si oppone inconciliabilmente a quella della creatività.
E ciò ha come conseguenza che la prima è in realtà tutta mondana e quindi rende puramente metaforica l’esperienza religiosa proprio in quanto rende non attuale la presenza divina e quindi anche l’aiuto divino, ossia esclude radicalmente l’incidere del Sovrannaturale nel mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1-5 p. 3-30]. In particolare, nel porre appena la possibilità di “opere” mondane per definizione non santificate, in tal modo viene affermato un insuperabile dualismo tra spirito e mondo; specie nel senso che la prospettiva della salvezza apparterrebbe solo al primo ed affatto al secondo. In altre parole (come abbiamo già detto) la dimensione divino-spirituale si presenterebbe come qualcosa che con il mondo non ha assolutamente nulla a che fare. Intanto, comunque, va per lui preso atto del fatto che la mistica cristiana (unitamente ai santi stessi) ha invece sempre postulato esplicitamente l’unione a Dio nell’amore, ossia di fatto la piena possibilità dell’esperienza personale di Dio. E questo significa per il pensatore russo che il tradizionale discorso sulla salvezza è in realtà appena una mistificazione del vero cammino religioso (mistificazione tutta incentrata sulla punizione e non invece sull’amore divino) ed anche una sua profonda corruzione. A tale proposito egli precisa che la prospettiva tradizionalmente cristiana della salvezza non è altro che un “giuridismo” dell’esperienza religiosa (a sua volta erede pieno della religione ebraica in quanto Legge). E tale giuridismo trova peraltro espressione nell’intendimento dell’esperienza religiosa appena come formale vita ecclesiale incentrata nel vissuto dei Sacramenti, con l’esclusione pertanto di qualunque vissuto personale della Presenza divina. E con ciò possiamo certamente intendere l’intervento del Sovrannaturale divino nella vita personale, che a sua volta può poi venire considerato coincidente con il concreto aiuto divino.
In ogni caso tutto ciò comporta anche una serie di altri aspetti che sono secondari rispetto al nostro tema, ma intanto possono contribuire non poco a chiarirlo.
Per Berdjaev infatti la prospettiva della salvezza esprime la totale non-gratuità dell’amore verso Dio, che comporta a sua volta una rinuncia che si aspetta un tornaconto. Al contrario una rinuncia senza aspettativa di tornaconto sembra consistere proprio in quella creatività che trasfigura il mondo. Il che intanto, però, può avvenire solo al prezzo del proprio dolore come espiazione. In altre parole la nuova concezione dell’esperienza religiosa (una volta sottratta all’unilaterale ossessione egocentrica per la salvezza) non esclude affatto l’ammissione della necessità del dolore entro di essa. Anzi addirittura la esige. Ma intanto ciò non esclude affatto la dimensione della relazione personale con Dio da parte del credente. E qui può essere intravista la postulazione di un aiuto divino che si manifesta in particolare nell’affidamento all’uomo singolo di un mandato che consiste nella trasfigurazione del mondo. Non a caso Berdjaev parla continuamente della creatività umana come continuazione della creazione divina [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 135-136, V p. 175-179, V p. 182-185 X p. 303-305].
Quindi il mondo così trasfigurato non sarà più assolutamente quello al quale l’usuale retorica della salvezza (e dell’inautentico aiuto divino) esige che noi ci adeguiamo senza pretendere da esso alcunché di buono, giusto ed amorevole. Questo significa pertanto che l’ammissione dell’aiuto divino non esclude affatto l’accettazione virile e coraggiosa del dolore connesso all’esistere nel mondo in quanto cristiani. Ed il nucleo di tale attitudine sembra essere un amore dell’uomo verso Dio che non esige alcun tornaconto. Pertanto, se l’aiuto divino concreto viene richiesto con la più piena convinzione, ciò significa che nel farlo si mette in contro la necessità di dover intanto soffrire affinché il mondo venga trasfigurato. Il che corrisponde poi ancora una volta al concetto tipicamente berdjaeviano della creatività umana come collaborazione attiva alla creazione, ossia alla sua continuazione. Ma proprio a questo punto possiamo comprendere cos’è esattamente la creatività per Berdjaev. Essa è sostanzialmente amore, soprattutto totalmente disinteressato (e proprio per questo capace di giungere ad essere eroico e sacrificale). Infatti è amore tutto ciò che genera essere (“affermazione dell’essere”), come nell’arte e nella conoscenza. Ma soprattutto è amore l’accettazione dell’altro in quanto essere. Il che avviene però soprattutto su base sovrannaturale e non naturale − io nell’altro riconosco sostanzialmente l’umano-divinità. Si tratta quindi di amore per l’uomo. Questo però comporta un concetto di salvezza molto allargato e riformato in modo da includere tutto ciò che è «altro» (uomo e mondo) − nel senso che io mi salvo solo insieme a te e a tutto il mondo.
E Berdjaev vede il contrario di tutto questo in quell’ascetismo monastico che è invece fatalmente egocentrico. A suo avviso, quindi, sulla base di tutto ciò, il Cristianesimo non è più tale se non aspira alla trasfigurazione del mondo insieme a quella dell’uomo; il che implica poi una crescita spirituale personale che va molto oltre la mera e formale partecipazione alla vita ecclesiale. Ancora una volta ciò corrisponde ad una collaborazione della creatura alla creazione del mondo che però deve implicare qualcosa di letterale, concreto ed attivo, cioè la trasfigurazione spirituale del mondo in forza dell’Incarnazione di Cristo che è lo Spirito stesso. Eccoci quindi di nuovo di fronte all’ammissione del concreto aiuto divino.
In particolare Berdjaev spiega il distacco della Chiesa dal mondo con il suo rifiuto di ammettere l’esistenza reale (ontologica) di una società oltre le anime individuali (singolarità). In particolare la prima viene considerata qualcosa di ontologicamente secondario, ossia una mera creazione umana. E qui va precisato che il pensatore vede nella società il campo di esplicazione della creatività umana per eccellenza.
Ecco che invece, una volta che venga ri-connessa al concetto di salvezza, la piena ammissione della società (ossia della creatività umana) implica per Berdjaev la “cattolicità” (“sobornost’”) della salvezza stessa (nel senso che non ci si salva da soli, ma invece solo entro l’ordinaria esperienza creativa collettiva). Il che poi esige l’ecclesialità ma in una maniera che però non sacrifica affatto la dimensione singolare dell’esperienza di Dio. Infatti la creatività operante nella società privilegia per lui proprio la singolarità in quanto dimensione personale in tutto il suo valore.
Il pensatore denuncia qui l’aderenza della dottrina cristiana ad un piatto e utilitaristico quetismo piccolo-borghese che addirittura finisce per sconfinare in qualcosa di buddhista. E proprio a tale proposito afferma che è ormai indispensabile una consacrazione religiosa del “principio umano” e quindi anche “nuovo monachesimo dentro il mondo”. È insomma il chiaro avallo offerto alla piena legittimità di una prassi dell’esperienza religiosa che sfugga agli angusti limiti della formale esperienza ecclesiale. Non solo, ma questo implica anche la postulazione di un tangibile intervento del Sovrannaturale nel mondo immanente. Dato che Berdjaev ritiene che, affinché tutto ciò sia possibile, bisogna ammettere che “le energie divine” agiscono ovunque nel mondo e che quindi il Cristo è presente (specie “nel suo popolo spirituale”) anche se la sua azione resta invisibile. Ne consegue allora che la dimensione ecclesiale-sociale significa qui tutt’altro che una formalizzazione dell’esperienza religiosa. Essa semmai implica invece espressamente la presenza tangibile del Sovrannaturale nel mondo. E questo non ci sembra affatto lontano dall’ammissione dell’aiuto divino.
Il pensatore precisa a tale proposito che la necessità dello spazio ecclesiale non può venire negata nel contesto religioso (dato che esso circoscrive la creatività umana da quella meramente profana ed atea, che a sua volta è solo distruttiva). Ma accanto a questa presenza è assolutamente necessario postulare anche l’esistere di una creatività deve venire considerata “teofanica”, e precisamente in accordo perfetto con l’umano-divinità quale centro della dottrina cristiana. Tuttavia sta di fatto che l’umano-divinità significa inevitabilmente mondanità e sacralità del mondo, quindi impegno in esso; e specialmente nello sforzo di salvarlo. Scopo che spetta alla Chiesa ma anche ai singoli indipendentemente da essa. E soprattutto non bisogna assolutamente rassegnarsi all’idea che ciò sia impossibile.
Berdjaev sottolinea in tale contesto che anche qui resta senz’altro un elemento di opposizione al mondo, ma non invece al mondo come “cosmo creato”. Con il quale egli intende il mondo trasfigurato dall’azione umana.
Successivamente poi, nell’Introduzione al suo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., p. 39-43] sottolinea ancora una volta l’esperienza religiosa non può venire scissa dalla prova del dolore. Si tratta in particolare di una lotta al male, entro la quale il vissuto di quest’ultimo non può venire né negato né relativizzato. Ma perché questo sia possibile è intanto necessario ammettere che l’esperienza di Dio è necessariamente immanente.
Cosa che impone poi una coraggiosa e rivoluzionaria conciliazione di immanente e trascendente. Quindi l’esperienza del dolore come prova viene calata in questo modo in una certezza di fede che pone il monismo e non invece il dualismo. Ma sta di fatto che è fatalmente dualista proprio quella retorica dell’esperienza religiosa che nega l’aiuto divino nel mentre formalmente lo afferma. E per monismo Berdjaev intende in particolare l’assenza di dualismo tra spirito e carne; il quale va assolutamente negato pur fatto salvo il tradizionale (ma molto astratto) dualismo metafisico spirito-materia. In altre parole insomma il Cristianesimo deve ammettere che la dimensione spirituale può e deve venire vissuta nella carne. E, sebbene il nostro pensatore non arrivi ad affermare questo, è evidente che per questo motivo la carnalità umana va tenuta in debito conto nel concepire l’esperienza religiosa stessa. Il che significa che non è assolutamente possibile intendere la necessità del dolore come prova nei termini di un’ipotetica necessaria ed inoltre integrale partecipazione dell’uomo alla Croce di Cristo; soprattutto se la si intende addirittura come la prova più tangibile che ci sia della presenza e dell’amore di Dio. Ma sta di fatto che proprio questo sostiene la retorica prima menzionata – e lo vedremo in particolare commentando “Il mistero del Natale” di Edith Stein.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che Berdjaev chiarisce che in verità qualunque Trascendentismo rinuncia per definizione alla lotta al male, e pertanto (aldilà di qualunque retorica, per quanto raffinata possa essere in termini omiletici e/o teologici) di fatto si rassegna ad esso. Il che significa allora che il non credere in alcun modo nell’intervento del Sovrannaturale nel mondo implica l’affermazione (però sempre accuratamente occultata) che il male del mondo deve venire semplicemente accettato e sopportato.
Cosa che naturalmente impedisce poi di affermare che Dio starebbe sempre con noi e ci manifesterebbe quindi il suo amore proprio associandoci al suo dolore in quanto Cristo. Tutto questo può invece venire legittimamente affermato solo se si postula che Dio è realmente immanente. E questo Berdjaev lo afferma precisando che Dio è con noi in quanto è presente nella nostra interiorità. Proprio come tale Egli ci concede le forze per superare qualunque esperienza. Nello stesso tempo però questo primato assoluto dell’interiore significa che un Dio esteriore non può venire in alcun modo concepito, pena la necessità di dover ammettere la sua impotenza.
Ciò implica allora che l’aiuto divino potrebbe (sulla base di Berdjaev) venire concepito come quella spiritualizzazione del mondo che consiste esattamente in ciò che l’uomo fa con l’aiuto di Dio – lasciar passare lo Spirito attraverso di sé affinché il mondo venga trasfigurato. Orbene questo comporta senz’altro una lotta eroica (che poi è esattamente la lotta al male). Per cui su questa base si può anche dire che Dio permette la prova affinché noi diveniamo consapevoli di essere capaci di questa sovrumana opera; per mezzo della quale peraltro la nostra esistenza assume un senso, invece di restare insensata per inerzia.
Questo però comporta dei frutti tangibili, ossia mette capo ad una pienezza, e non avviene invece appena in un confuso vuoto retorico pieno di omissioni e contraddizioni. Il dolore come prova, insomma, modifica qualcosa nel mondo invece di lasciare il mondo esattamente com’è. Ma questo è invece esattamente ciò che abbiamo visto accadere entro la retorica prima commentata. Ecco che il dolore come prova, qualora inteso come partecipazione dell’uomo alla Croce (a sua volta supposta prova incontrovertibile di amore divino), implica una totale non produttività dell’esperienza religiosa (in quanto fede nella prossimità divina e nell’aiuto da parte di Dio) che può venire accettata solo se ci si rassegna alla retorica. Il che non può significare altro che lo si dice (ripetendo pappagallescamente una mera e vuota formula retorica) ma in verità non ci si crede affatto.
A tutto ciò va aggiunto anche che Berdjaev sottolinea che la vita spirituale si rivela dinamica per definizione in quanto è invariabile messa in relazione di immanente e Trascendente. Il che implica che la fede è sempre e giocoforza “nascita di Dio nell’uomo” − “Infatti non è solo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma è anche Dio ad avere bisogno dell’uomo”. Ed è evidente che ciò comporta una prossimità tra Dio e uomo che tutto può essere tranne che vuotamente retorica. Infatti, se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo, Egli non può non essere intanto consapevole che l’uomo è un essere di carne. E quindi non può esigere in alcun modo da lui una condizione sovrumana esattamente coincidente con la propria. Il che ancora una volta rende inevitabile che Dio soccorra fattivamente l’uomo (laddove ciò sia davvero necessario) proprio nel contesto del bisogno che Egli ha dell’uomo stesso.
L’ulteriore sviluppo di questo concetto di Berdjaev postula il generarsi di un vero e proprio vuoto entro la realtà creatrice divina originaria, che a sua volta è per lui da considerare come una “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e perfino di bisogno [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. Egli afferma peraltro che proprio il rifiuto delle Scritture cristiane di ammettere una così imbarazzante realtà ha fatto sì che esse configurassero semmai una cosmogonia, ma mai invece una vera antropogonia. Esse insomma non avrebbero mai dato all’uomo il valore che esso meritava proprio in forza della Volontà divina. In ogni caso proprio su questa base noi possiamo postulare la più intima e tangibile possibile prossimità tra Dio e uomo entro l’esperienza religiosa. Infatti quel Dio che ha un disperato bisogno dell’uomo, e quindi ne evoca espressamente la nascita, non può essere altro che quel Gesù che ogni giorno (e nel mondo!) cerca spasmodicamente l’uomo chiamandolo incessantemente da dentro.
Non a caso tutto questo Berdjaev lo sostiene nel contesto di un suo atto di vincolamento dell’esperienza religiosa all’intima relazione tra uomo e Dio nel contesto specifico dell’umano-divinità che il secondo dona al primo nel renderlo a Lui totalmente somigliante. Ed anche in tale contesto vanno ricercati elementi di supporto alla necessità dell’aiuto divino concreto.
Il pensatore russo afferma infatti che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III, p. 127-145]. È evidente quindi che con ciò l’esperienza religiosa si mantiene entro l’ambito del rapporto personale tra l’uomo e Gesù in quanto condivisione dell’umano-divinità nell’amore.
Ma sta di fatto che per Berdjaev la postulazione dell’umano-divinità resta del tutto monca senza l’affermazione davvero piena dell’Incarnazione divina. Ed egli con molte ragioni osserva che quest’ultima è stata sempre molto timida (se non assente) nella dottrina cristiana. Il motivo di ciò è secondo lui che quest’ultima di fatto si è fermata all’affermazione della Redenzione soprattutto in rapporto alla Passione.
Il che poi rende del tutto plausibile e coerente tutta quella retorica pessimistica dell’esperienza religiosa della quale abbiamo parlato. Infatti il pensatore sottolinea che La prospettiva della Redenzione ha evidenziato un solo “aspetto” del Dio incarnato, e cioè appunto quello della Passione. Laddove però ce n’è un altro ben più importante e decisivo, ossia quello della Gloria e della Potenza – è precisamente quello del Dio “che viene e che si manifesterà nella sua gloria”. E si tratta peraltro dello stesso ed unico Cristo, come Uomo assoluto che rivela all’uomo il suo mistero, cioè appunto la divino-umanità quale centro assoluto e primario del credo cristiano ed anche della relativa esperienza religiosa.
Ora, è evidente che questo ci suggerisce un’esperienza religiosa del tutto diversa da quella supposta entro l’usuale retorica omiletico-teologica. Ma a questo punto la prospettiva introdotta da Berdjaev può venire anche ulteriormente riveduta e corretta. È possibile infatti che nell’esperienza religiosa siano inscindibilmente fusi due aspetti, e cioè quella della Redenzione in negativo (Passione) e quella della Redenzione in positivo (Gloria-Potenza). Personalmente siamo infatti convinti del fatto che il Dio incarnato (Gesù Cristo) può mostrarsi pienamente succube della Passione (Croce) solo in quanto sa già di essere l’unico al mondo (in assoluto e senza eccezioni) a poterla sopportare e soprattutto superare (dato che è consapevole di essere integralmente vero uomo e vero Dio). Ed è a nostro avviso proprio quest’ultimo aspetto quello che noi sperimentiamo nella relazione intima con Gesù nella quale l’esperienza religiosa appare essere ciò che davvero deve essere. Quindi non deve essere affatto vero che quando noi soffriamo Gesù se ne sta crocifisso insieme a noi limitandosi in tal modo a sperimentare la nostra stessa impotenza, e assumendo così quell’atteggiamento kenotico che così tanta teologia mistica valorizza al massimo. Evidentemente, invece, nel mentre Egli molto amorosamente non ci umilia nemmeno nel venire in nostro soccorso – e quindi fa mostra di essere paralizzato nella crocifissione esattamente come lo siamo noi uomini di carne −, e nel mentre in tal modo non viola in alcun modo la nostra libertà di accettare o non accettare il nostro aiuto, però scatena silenziosamente ed invisibilmente la Sua Potenza (e quindi Gloria).
E così dispone i mezzi attraverso i quali la nostra eventuale preghiera «di richiesta» venga esaudita – sempre che naturalmente le nostri intenzioni siano pure e la nostra richiesta sia sufficientemente appassionata. È ovvio a questo punto che in via di principio può venire esaudita solo un’invocazione sostenuta da una fede intensa e pura (cosa che ovviamente esclude qualunque strumentalizzazione utilitaristica della Potenza divina); ed è inoltre ovvio che anche questo è rispetto da parte di Dio della nostra libertà. Però ce ne corre molto dal supporre questo al supporre invece che, pur con la fede più intensa e pura possibile, l’esaudimento divino della nostra richiesta sarebbe indiscernibile per definizione (e quindi di fatto non percepibile sensibilmente, laddove nulla vieta poi che esso non ci sia affatto); e questo magari perché lo Spirito divino agirebbe in un tempo incalcolabile ed inoltre prevederebbe perfino un nostro mancato esaudimento nel caso (senza che noi ce ne avvediamo) esso non corrisponderebbe al «nostro vero bene». Ribadiamo ancora una volta che l’uomo è un ente di carne, e quindi non ci si può aspettare che prescinda così facilmente dalla tangibilità dei frutti del suo fedele e fervido affidamento a Dio. E Dio nella sua infinita Sapienza e nel suo infinito Amore non può non essere consapevole di questo. Cosa per cui il Dio del quale si parla nella retorica agente in questi casi non può essere in alcun modo il vero Dio. Esso è semmai ancora una volta un Dio antropomorfizzato, e precisamente un Dio nei cui pensiero viene messa dall’uomo la propria stessa retorica.
Infine noi riteniamo che non si abbia alcun diritto di prendere poco sul serio il dolore umano nella sua massima intensità (se non prendersi addirittura letteralmente gioco di esso). Noi infatti non stiamo parlando qui della preghiera «di richiesta» come qualcosa a cui l’uomo ricorra per puro capriccio, per desiderio di beni terreni, per idolatria, per superstizione o per cose simili. Si tratta invece di un atto che viene spontaneo all’uomo allorquando esso si trova in situazioni terrificanti e senza alcuna via di uscita; situazioni nelle quali con le sue sole forze non potrebbe raggiungere alcun risultato dato che si trova invischiato in circoli viziosi davvero diabolici nel contesto dei quali qualunque azione umana finisce per apportare più male che bene, o almeno non ha alcuna possibilità di incidere positivamente sugli eventi.
Il che è tanto più vero allorquando l’uomo che è vittima di queste situazioni di vero e proprio martirio è un «giusto» proprio in quanto è deciso fermamente ad evitare quegli atti che offrirebbero una facile soluzione al prezzo del dolore delle persone con le quali si trova a che fare. Pertanto queste sono tipicamente quelle situazioni nelle quali l’essere umano in questione ha scelto previamente quella strada dell’etica, della giustizia, dell’amore, della non violenza e della totale dedizione di sé, le quali, escludendo qualunque senz’altro facilissima soluzione egoistica, configurano esattamente i termini di quella radicale scelta libera del bene che sicuramente comporta inevitabilmente il dolore.
E del resto tutto questo Berdjaev lo sottolinea peraltro più volte nel suo commento alla visione di Dostoevskij, ossia il testo CD [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Infatti dallo scrittore russo il nostro desume che la prova della necessità del dolore (entro la vita religiosa e la crescita spirituale) sta proprio nella libertà. Essa infatti determina il destino dell’uomo, e quindi il suo (per definizione) “doloroso errare”. Ecco dunque il (per definizione) tragico ”destino dell’uomo lasciato in libertà”. Questo è il “pathos” della libertà di Dostoevskij. In ogni caso quest’ultimo ritiene anche che esattamente questa è la strada verso Cristo che ci rende liberi. È insomma esattamente ciò che avvertiamo come Presenza divina nell’esperienza religiosa più intensa. E questa è una via incerta e piena di rischi, quindi pienamente esposta all’insuccesso e al dolore (come abisso, tragedia, tenebre). Essa infatti implica il male stesso. In tal modo colui che la percorre, prima di arrivare all’intimità con Dio, “deve provare disillusioni amare e insuccessi nell’amore per gli oggetti corruttibili e indegni”. Questo è allora il motivo per il quale sono necessariamente “cari a Dio” proprio coloro che sono chiamati a percorrere questa terribile strada.
Insomma, almeno in questo senso, bisogna ammettere che in una certa misura entro la più autentica esperienza religiosa si viene chiamati da Dio anche al vissuto certamente severo di una certa astinenza dal suo concreto aiuto. E tuttavia anche per questo è evidente che le situazioni estreme delle quali stiamo parlando, unite alle relative scelte, fanno correre seriamente il rischio di giungere al totale sfinimento, con la conseguenza realistica del definitivo crollo psicologico e spirituale, e forse anche della malattia e morte fisica. A questo essere umano rimangono quindi solo tre vie: − credere disperatamente (e contro ogni evidenza, perfino teologica ed omiletica) nel concreto aiuto divino, oppore rifugiarsi in un egoismo senz’altro sano dal punto di vista terreno-naturale (che con certezza assoluta lo salverà dal deperire e dal perire), oppure infine gettare via la fede in Dio come un orpello non solo inutile ma anche dannoso (specie come un inutile e tormentoso dispendio di preziose energie).
È evidente che qui ci troviamo al cospetto della vicenda di Giobbe, e sappiamo bene quali sono gli eventi ed insegnamenti finali di tale vicenda. Ma, visto come stanno le cose su un piano davvero sobrio e realistico (per quanto comunque animato dalla scelta incrollabile della fede), non è possibile che anche in Giobbe l’agiografo abbia (di suo) aggiunto una certa dose di retorica umana alla più autentica lectio divina (che a questo punto sarebbe ancora tutta da scoprire)? Ebbene forse tutto ciò non è affatto improbabile se prendiamo in considerazione episodi del Vecchio e Nuovo Testamento nei quali invece le cose sono andate ben diversamente, e cioè l’aiuto divino più concreto possibile è arrivato come non accade affatto entro la vicenda di Giobbe. Si pensi dunque alla vicenda dei tre fanciulli nella fornace ardente o addirittura all’episodio ben più storico della liberazione di Pietro dal Carcere Mamertino. Si pensi al grandioso scenario dell’attraversamento del Mar Rosso. Si pensi al concepimento di donne attempate e sterili come Elisabetta moglie di Zaccaria, Sara moglie di Abramo, Rachele moglie di Giacobbe, Rebecca moglie di Isacco, l’innominata moglie di Manoa, Ana moglie di Elcana. Sei donne sterili, dico sei. E che dire dell’assolutamente portentoso concepimento di Maria? E che dire infine dell’infinita serie di malati irreversibili che i miracoli di Gesù guarirono per sempre?
Vogliamo dire che tutto questo è solo agiografia, cioè leggenda, ossia invenzione e bugia? Ma, anche se fosse così, perché mai di punto in bianco la negazione omiletico-teologica dell’aiuto divino dovrebbe essere giustificata ad onta del fatto che le Scritture pongono così tanto l’accento su di essa?
In ogni caso, a proposito di tutto ciò, Berdjaev sta a testimoniare che il fermarsi alla sola Redenzione (con la inscindibilmente connessa unilaterale Passione è del tutto insufficiente proprio perché impedisce di sperimentare la Gloria e la Potenza divine. È vero anche che egli precisa che tuttavia per fare questo occorre comunque l’azione libera dell’uomo, la quale per decreto divino (in omaggio alla creatività umana in quanto sua dignità ed inviolabile libertà) deve essere per definizione rischiosa e cioè aperta a tutti gli esiti. Dunque è vero senz’altro che questa possibilità deve venire attivamente scoperta da ciascuno di noi in sé stesso. Ma dove altro ciò può accadere se non in quelle tremende situazioni senza uscita che abbiamo appena descritto? E dove mai l’uomo potrebbe mai arrivare da solo in queste situazioni se agisse sì in maniera liberamente creativa ma comunque in assenza dell’intervento tangibile della Potenza divina, ossia in assenza del concreto aiuto divino? È evidente insomma che la stessa libera creatività umana (alla quale Berdjaev giustamente attribuisce un valore capitale) è efficace solo nella misura in cui ad essa viene incontro quello che è il più rilevante effetto dell’Incarnazione (una volta presa sul serio davvero fino in fondo), e cioè il fatto che − nel nascere, vivere, farsi martirizzare, morire e poi immancabilmente risorgere – Gesù Cristo ci ha offerto sé stesso non per farci soffrire come Lui (associazione alla Croce) oppure per rendere credibile un mero atto rituale (l’Eucaristia), ma invece solo e soltanto per donarci la Sua Potenza, ossia appunto il più concreto possibile aiuto divino. Dunque, se è vero (in un certo senso) che noi veniamo messi alla prova da Dio in parte in maniera davvero crudele, ciò significa che Egli vuole portarci a riconoscere proprio questo. Tuttavia, perché ciò sia possibile noi dobbiamo divenire sovrumani non nel riuscire a saper soffrire esattamente come Lui, ma invece nel percorrere un cammino di conoscenza ed esperienza che all’uomo di carne è assolutamente impossibile. Dobbiamo cioè superare non solo lo scetticismo del mondo (che include senz’altro le Tenebre che si rifiutarono di accoglierLo, ossia gli uomini che servono Satana), non solo lo scetticismo degli scienziati e dei filosofi, ma perfino anche lo scetticismo dei religiosi. E non i religiosi come seguaci della Legge, ma invece i religiosi come seguaci della Redenzione, ossia quelli cristiani.
Ecco allora che la grande prova alla quale Dio permette che noi soggiaciamo nel dolore e nella sventura mira proprio al fatto che noi giungiamo a credere fino in fondo alla «follia della Croce», ossia alla costatazione secondo la quale «a Dio tutto è possibile». Il che equivale al credere nella possibilità del più concreto possibile aiuto divino.
Getrud von Le Fort ci lascia intravvedere questo laddove parla dell’azione divina come di un “plus” che viene ad aggiungersi all’azione creativa umana; come sarebbe avvenuto tipicamente nell’edificazione della grandi cattedrali gotiche [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934, p. 55-95]
In altre parole possiamo da tutto ciò dedurre che il fermarsi della dottrina cristiana tradizionale alla sola realtà della Redenzione (con l’inevitabile esclusione di quella della Gloria e Potenza) è altrettanto monca (e forse addirittura omissiva, mendace ed ipocrita) quanto lo è quella retorica che nega di fatto la possibilità di un concreto aiuto divino.
Ebbene cosa esattamente Berdjaev contrappone a tutto questo nel suo sforzo di indicare un nuovo genere di esperienza religiosa?
Senz’altro una delle vie è per lui quella di ricorrere alla tradizionale mistica in luogo della teologia, e, aggiungeremmo, della tradizionale omiletica. Egli sostiene infatti che non a caso i vari tipi planetari di esperienza religiosa sono tra loro uguali (pur nella diversità) perché pongono in evidenza la mistica come elemento primario e fondamentale dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 203-209]. Tuttavia egli sostiene che anche la tradizionale mistica deve arricchirsi della creatività. Cosa che pure in questo caso tende a non accadere affatto, dato che la creatività viene dal Cristianesimo considerata attività sacrilega in quanto mondana e legata alle passioni. E quale atto umano può essere considerato più passionale di quello che invoca Dio affinché Egli trasfiguri concretamente la propria esistenza, conducendolo fuori da situazioni senza la minima vita di uscita? Cosa insomma può venire considerato più passionale di questa speranza che non solo il mondo, non solo gli atei, ma perfino anche predicatori e teologi considerano idolatra e blasfemo? E quindi assolutamente indegno di un vero cristiano.
Bisogna insomma far entrare la creatività a pieno diritto nell’esperienza religiosa. Il che è possibile se si ammette l’assoluta originarietà appunto religiosa di essa. Insomma l’esperienza creativa va considerata “spirituale” nel senso pienamente religioso del termine. In effetti solo l’attività porta ad un “radicale mutamento” dell’uomo, senza il quale l’esperienza religiosa è vuota e non ha effetto. Ciò che secondo lui va auspicato è dunque un’”estasi creativa”. Ma a questo punto possiamo ritrovare proprio qui la giustificazione della preghiera come invocazione dell’aiuto divino che trasfigura il mondo per mezzo dello Spirito. Tuttavia, come abbiamo già visto, ciò deve avvenire in modo tangibile, e cioè mondano, carnale ed immanente.
Ancora una volta Berdjaev ci mostra però che, pur nell’ammettere tutto questo, noi non possiamo negare in alcun modo che l’esperienza del dolore sia necessaria nel contesto di una vera e propria prova alla quale veniamo sottomessi da Dio. Infatti la creatività implica un superamento attivo del mondo che come tale tende prepotentemente ad un vero e proprio “altro mondo”, nel mentre intanto si contrappone al quel solo falso superamento passivo che è unicamente deplorevole adequazione al mondo del peccato e della necessità. Con la creatività si configura quindi un effettivo “non amare il mondo” che però è decisamente positivo ed affermativo, ossia è fortemente assertivo. In altre parole esso non è affatto così lontano dal concetto nietzschiano di volontà di potenza. Ma intanto è innegabile che, per com’è il mondo oggettivamente, non può non trattarsi di un dare senso al dolore del mondo. E eccoci dunque nuovamente di fronte a quelle tremende situazioni senza uscita, nelle quali la vittima si sente come un uccello rinchiuso una gabbia di vetro che quindi continua a non far altro che a fracassarsi il cranio nel tentativo inutile di sfondarne le pareti. L’altra metafora valida in questo caso è inoltre quella che vede la vittima di queste situazioni affannarsi per scardinare la serratura di una delle porte chiuse all’unico scopo di poi ritrovarsi nuovamente di nuovo di fronte ad un’altra porta ermeticamente sbarrata. E tutto questo significa allora che l’inesorabilità del karma (di stampo induista-buddhista) è senz’altro reale. Ma non nel contesto di un’esperienza religiosa autenticamente cristiana; il che è però vero solo perché in essa può e deve venire considerato possibile il concreto aiuto divino. E vedremo subito meglio il perché di questo.
Infatti quanto dice Berdjaev ci dice che l’unica soluzione possibile sta nel rifiutarsi semplicemente di restare nel disperante edificio minotaurico del quale si è prigionieri. Cosa a sua volta possibile solo se lo si fa saltare in aria con un unico e possente impeto creativo, il quale di colpo non vuole altro che qualcosa di radicalmente diverso; e lo vuole con volontà inflessibile. Ma intanto la distruzione dell’edificio non può essere meramente fisica. Perché altrimenti essa sarebbe solo una hybris (ingiusta per definizione agli occhi di Dio) e quindi un solo vano annullamento provvisorio del relativo karma, che quindi senz’altro porterebbe alla crescita intorno a sè di un altro labirinto minotaurico. Essa deve invece essere spirituale, e quindi deve consistere nel riconoscere l’illusorietà delle impenetrabili pareti che ci circondano e delle porte sbarrate che si disegnano in esse.
Ed eccoci dunque di fronte a ciò che Berdjaev definisce come la “purificazione per fuoco”. Essa è per la precisione quell’atto che alla fine lascia emergere un’altra natura, o altro mondo, il quale come tale è il contrario esatto dell’adequazione a ciò che c’è già (e che non è affatto “superamento creativo”). Quindi è evidente che tutto questo per definizione richiede un coraggio che consiste esattamente nell’accettazione della purificazione, oltre che naturalmente nella fede incrollabile nel risultato positivo.
Ma ancora una volta a che porterebbe tutto questo in sé così remissivo sforzo eroico-ascetico se intanto ad esso non venisse incontro la Potenza divina in forma di aiuto concreto? Sarebbe appunto anch’esso solo attitudine remissiva, ossia adequazione, e quindi tutto il suo eroismo ascetico non otterrebbe altro scopo che lasciarci nella stessa identica situazione di prima. Accresciuta quindi soltanto della mera illusione di aver superato ciò che invece nei fatti non abbiamo affatto superato. E ciò non è altro che quella banale rassegnazione al dolore che la retorica prima menzionata traveste delle forme totalmente inautentiche che poi rinviano tutte al supposto amore divino che ci manterrebbe apposta entro la prova dolorosa (e senza alcuna prospettiva di soluzione). Ecco allora che anche il dolore come prova in quanto “purificazione” non può venire concepito senza che sia intanto possibile una sua produttività tangibile. Cosa che può avvenire solo per mezzo dell’aiuto divino per il semplicissimo fatto che un essere umano si trova racchiuso in situazioni senza uscita esattamente perché è solo un essere umano, ossia è appena un essere di carne che da solo non potrà mai (in alcun modo) venire fuori da quella situazione. Nemmeno per mezzo della purificazione per fuoco.
Questo discorso di Berdjaev diviene comunque ancora più radicale laddove egli avanza l’ipotesi della genialità del santo e, viceversa, della santità del genio. Cosa che però apre anch’essa una prospettiva del tutto nuova dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 223-227]. Egli ritiene infatti che il genio sia l’uomo creativo per definizione e che inoltre lo sia ancora di più nell’essere santo. Ma intanto registra che
lo spirito vetero-cristiano si è sempre opposto ed ancora si oppone veementemente a questo.
Ebbene per lui in questo genere di santità va riconosciuto il nuovo monachesimo per eccellenza.
E a questo punto diremmo che questa condizione si attaglia perfettamente a quegli uomini che oggi tendono a vivere molto intensamente la relazione con Dio, in uno stato però di totale oscurità ed isolamento, ossia di fatto al di fuori dell’esperienza ecclesiale (anche se essi non la rigettano affatto e non mancano nemmeno di partecipare ad essa nei limiti del possibile). Tanto è vero che quando essi presentano la loro esperienza religiosa agli ecclesiastici tendono a venire snobbati e presi per pazzi, con l’aggravante di dover subire umilianti quanto inutili sermoni. Ma intanto costoro possono vivere questo genere di estrema esperienza religiosa solo se essa produce i suoi frutti per mezzo del concreto aiuto divino.
Altrimenti, a fronte della sterilità della loro esperienza, essi sarebbe fatalmente costretti a ripiegare nuovamente sull’esperienza religiosa più formale, ossia su quella liturgico-precettuale della più esteriore
realtà ecclesiale. Oppure, come abbiamo detto, sarebbero costretti a gettare la fede nel cestino.
Ed infatti non a caso Berdjaev si esprime molto criticamente contro l’esperienza religiosa che resta entro i limiti della più esteriore realtà ecclesiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Egli denuncia infatti che tale realtà è inficiata dal fatto che in essa non vi è stata mai per davvero una piena Rivelazione, dato che ha invece sempre dominato la tensione verso la “città terrena”. Ecco allora che il rinnovamento religioso-cristiano implica ciò che nella storia nemmeno ha mai iniziato ad esistere. Ma intanto, nella sua ardente aspirazione al potere terreno, la Chiesa si è sempre opposta allo spirito creativo difendendo così molto ipocritamente “il pathos della pace eterna”; espressione a sua volta di mera obbedienza che degenera sempre in schiavitù. Bisogna quindi considerare colpevole e superata la stessa dimensione ecclesiale, che nei fatti ha costituito il principale ostacolo all’unione libera dell’uomo con Dio o umano-divinità.
Ed ecco dunque di nuovo giustificata pienamente quell’esperienza religiosa quale relazione diretta con Gesù entro la quale abbiamo poi constato che è indispensabile concepire l’aiuto divino concreto.
Berdjaev denuncia però il fatto che la creatività è venuta a mancare ed ancora manca anche nelle forme non ortodosse di esperienza religiosa, come in quella mistica spuria e popolare che ora è divenuta molto di moda specie nella forma di nuove forme di teosofia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-370]. In particolare, egli dice, ad essa manca del tutto la purificazione. Per questo essa è panteistica e come tale non conosce affatto l’umano-divinità – e così concepisce solo un’unione d Dio in cui la persona umana (in quanto peccatrice) viene annullata (insomma per fare manifestare Dio essa deve svanire totalmente). Qui si assume insomma più che mai che l’uomo possa unirsi a Dio solo scomparendo ossia uscendo di scena. Ebbene certamente anche questo elimina l’esperienza religiosa come contatto con Gesù. Soprattutto perché qui c’è uno svuotamento e sterilizzazione dell’esperienza religiosa, nel senso che ad essa vengono tolti tutti gli aspetti esaltanti dell’incontro con Dio. E tra questi ultimi non può non mancare lo sperimentare il concreto aiuto divino.
Ma sta di fatto che, secondo Berdjaev, le cose non cambiano nemmeno nelle mistiche più tradizionali e ortodosse (che esse siano cristiane o pagane, occidentali o orientali). In particolare egli denuncia il fatto che la mistica occidentale cattolica è assolutamente gelida, non prevedendo in alcun modo la Presenza divina (e teorizzando quindi di fatto l’incolmabile distanza di Dio dall’uomo). La mistica orientale ortodossa, per contro, adombra una tangibile presenza divina ma in una maniera tutto sommato solo timida e tiepida in quanto scontata e formale nel contesto di una pura ritualità. Ecco allora che anche qui noi non troviamo per nulla la pienezza dell’esperienza religiosa. Dunque per lui si può e si deve immaginare una nuova mistica alternativa con non propriamente ecclesiale (almeno sul piano esteriore), e quindi una mistica della davvero diretta relazione con Dio.

II- L’esperienza religiosa vista attraverso la mistica dell’incondizionata “dedizione” (“Hingabe) di Edith Stein e Gertrud von Le Fort. Possibili riflessi sulla possibilità dell’aiuto divino.
È giunto ora il momento di esaminare il testo già citato dal titolo “Das Weihnachsgeheimnis” (DWG), o “Il mistero del Natale”, di Edith Stein, ed inoltre il testo anch’esso già citato dal titolo “Die ewige Frau” (DEF), o “La Donna eterna”, di Gertrud von Le Fort. Pur essendo tematicamente molto diversi, i due libri sono profondamente accomunati da un elemento, e cioè dall’atto di incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che secondo entrambe le pensatrici connota di sé l’esperienza religiosa in maniera quasi essenziale. E più precisamente Le Fort ritiene che questo atto, in quanto tipico dell’essenza spirituale femminile, renda la donna l’essere più religioso che esista. Questa posizione del resto venne in gran parte condivisa anche da Stein nel discorso da lei sviluppato in una serie di conferenze sulla donna che poi è diventato un suo libro postumo dal titolo “Die Frau” (DF), o “La Donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Tuttavia in DWG Stein non tocca questo tema.
Ora si tratta comunque di vedere in che modo il discorso sviluppato in DWG si raccorda con la retorica omiletico-teologica dell’esperienza religiosa che abbiamo descritto introduttivamente. E certamente troveremo specialmente in questo testo degli elementi probanti per questo. Per cui l’analisi di DEF, di Le Fort, sarà sicuramente secondaria.
Conviene partire in questo dall’Introduzione al testo che è stata curata dalla Prof. Hanna-Barbara Gerl.
Qui infatti già ritroviamo in partenza un elemento molto negativo che caratterizza essenzialmente l’esperienza religiosa così come intesa da Stein [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., Einführung, p. 10-40]. Ella dice cioè che uno dei nuclei del discorso steiniano sul mistero del Natale è la “rinuncia alla volontà” (“Willensübergang”), ossia esattamente quanto, entro la classica retorica omiletico-teologica, si presenta come valorizzazione del «fare la volontà del Padre», ossia di Dio. Ebbene ciò avrebbe per Gerl un aspetto chiaro (la deposizione di ogni preoccupazione) ed un aspetto oscuro (la totale perdita di orientamento). In altre parole, se in via di principio la cessione della propria volontà è un cammino chiaro (e quindi configura un aspetto positivo dell’esperienza religiosa), nello stesso tempo però essa fa perdere l’orientamento e quindi precipita nelle tenebre di un Dio totalmente invisibile. Ed in tal modo sfocia fatalmente in un’esperienza religiosa totalmente negativa. Ma sta di fatto che proprio questo costituirebbe per Stein la più piena e tipica partecipazione alla Croce di Gesù, il quale del resto allo stesso identico modo sperimentò un Dio assente.
Comunque, nonostante questa agghiacciante negatività, tutto ciò implica per Stein una
pienezza di senso che viene colta proprio nell’abbandono – e precisamente sia nella piacevolezza che nella spiacevolezza. Ci troviamo insomma qui immediatamente al cospetto di affermazioni che allo stesso tempo negano ed affermano la positività dell’esperienza religiosa, ossia l’effettivo incontro con Dio.
E tutto ciò è ancora più tangibile se si prende atto di un altro fatto messo in luce da Gerl, e cioè che, siccome l’Incarnazione dell’Uno nei molti è totalmente corporale e carnale, e quindi quotidiana, essa implica un restare esposti persistentemente alla Presenza divina (a partire dalla nascita divina in poi).
Ma in che modo? Per mezzo della “luce impietosa” (“unerbittliches Licht”), cioè spietata, che è poi la Presenza divina stessa. Essa è infatti tale perché non accetta in alcun modo che noi restiamo come siamo. Ed eccoci allora di fronte alla tremenda serietà che per Stein è costituita dalla Passione sempre inscindibilmente unita all’Incarnazione.
Dunque impietosità e serietà dell’esperienza religiosa al cospetto della Presenza divina.
E si tenga contro che l’espressione “unerbittliches Licht” fu scelta da Gerl (nel suo relativo saggio) come il lemma che secondo lei descrive sinteticamente in maniera perfetta l’intera vita ed opera di Edith Stein [Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald Mainz 1998]. Questo fu dunque il tono della spiritualità mistica della pensatrice. E questo deve essere stato anche il tono della spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito in maniera totalmente incondizionata. Ebbene dov’è qui la libertà (concessa in dono da Dio all’uomo) che invece Berdjaev ritiene così tanto importante nel contesto dell’esperienza religiosa da rendere necessario affermare (sulla scorta di Dostoevskij) che un bene senza libertà equivale al male? Ed allora queste impietosità e serietà dell’esperienza religiosa devono indurci a pensare che Dio intende essere volontariamente malefico nei nostri confronti – tanto che la Sua Presenza accanto a noi si risolve di fatto nel suo forzarci ogni giorno ad andare oltre i limiti che noi abbiamo per natura (e che non possiamo superare nemmeno volendolo con tutte le nostre forze)? Pur tenendo conto della supposta bontà dello scopo (la perfezione sovrumana dell’umano-divino) ci riesce davvero difficile pensare questo. Tanto che infatti Berdjaev considera la libertà un dono assolutamente incondizionato di Dio all’uomo, e peraltro fatto in modo che Dio tutto può fare tranne che violare la libertà umana (perfino a fin di bene). Non a caso il pensatore russo – come del resto anche Simone Weil [Simone Weil, L’ombra e la grazia, p. 61-63, Bompiani, Milano 2022; Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016] – ritiene che Dio lascia che nel mondo esista il male pur di non violare la libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Dunque le uniche spiegazioni che riusciamo a trovare a queste terrificanti affermazioni sono da un lato la già commentata retorica omiletico-teologica, e dall’altro lato l’antropomorfizzazione di Dio, ossia l’attribuzione a Dio di atti, pensieri, emozioni e scopi che sono unicamente umani (e peraltro nel contesto di un discorso lampantemente lacunoso a causa di una logica sgangherata e piena di contraddizioni).
Ma la cosa diviene ancora più inquietante al cospetto dell’emergere in Stein (qui sempre attraverso il commento di Gerl) di affermazioni di segno totalmente opposto, e precisamente nel senso di una formulazione decisamente positiva dell’esperienza religiosa. E dobbiamo dire, dagli annosi studiosi steiniani da noi condotti, che questa è un’esperienza costante nella lettura dei suoi testi, specie quando essi toccano temi religiosi di grande intensità, profondità ed altezza – all’improvviso, dopo pagine e pagine di affermazioni rigidamente ortodosse, si delineano all’improvviso affermazioni che aprono al nostro sguardo scenari dottrinari assolutamente non convenzionali e perfino molto arditi. Ciò avviene qui (p. 35 della Introduzione) laddove la commentatrice si sofferma sull’espressione “non confessionale” che Stein attribuisce alla Chiesa invisibile, che secondo sarebbe lei insorta già con i primi progenitori umani (Adamo ed Eva) e prolungatasi poi nei primi uomini ed infine nei Patriarchi, culminando infine nei pastori che circondano il Presepe e nei Re Magi. È chiaro comunque che Stein non considera questa Chiesa invisibile come qualcosa a sé, e soprattutto qualcosa che possa sostituire la Chiesa visibile (anzi essa è appena una forma di passaggio verso quest’ultima). Ma poi ella registra un interessante aspetto specifico dell’esperienza religiosa così come si compie nel contesto della Chiesa invisibile – in essa vi è una profonda relazione tra l’anima e Dio (che addirittura nel crescere fa crescere la Chiesa stessa) ed essa esclude specificamente la “struttura visibile” (“sichtbare Struktur”) della Chiesa, da lei definita come mera “amministrazione del religioso” (“Verwaltung des Religiösen”). Ciò che dunque resta è solo e soltanto la presenza di Dio nel singolo. Ma, precisa la pensatrice, quest’ultima comporta l’”istruzione” (“Einweisung”) costante dell’anima che sta in intima relazione con Dio, ossia un vero e proprio aperto «parlare» di Dio all’uomo, e precisamente all’uomo singolo. Non alla Chiesa. Peraltro ella aggiunge che in tale contesto “in gran parte” (“zum grossen Teil”) il “flusso formante” (“gestaltender Strom”) della mistica resta totalmente “invisibile” (“unsichtbar”). E questo tra l’altro ci dà precise informazioni su quella che fu la mistica di Stein stessa, ossia una mistica dimessa, oscura, silenziosa, discreta, non eclatante e quindi molto sottile.
Ma che significa tutto questo? Significa forse che vi è quindi un’appartenenza alla Chiesa (perfino volontaria ed esteriore) che però non rientra formalmente nell’esperienza ecclesiale più istituzionale (confessionale) e quindi esteriore? Ed essa è forse la Chiesa occulta di coloro che hanno un’intima relazione con Dio, ossia quelli che ci sentiremmo di definire come dei veri e propri «santi occulti» e del tutto laici? Realtà che corrisponde poi bene al nuovo monachesimo auspicato da Berdjaev. Ma costoro sono coloro che sono ciò che sono molto spesso proprio perché sono stati sospinti in questa condizione da un acuto e dilaniante bisogno, e quindi si trovano esattamente in quelle situazioni senza uscita che abbiamo costantemente descritto. La loro santità scaturisce intanto dalla scelta rigorosamente etica che essi hanno fatto rispetto al dolore da vivere e rispetto alle altre persone coinvolte in tali situazioni. Cosa che fa di essi chiaramente dei veri e propri martiri. Non ci sarebbe alcun bisogno di dire che proprio costoro dipendono vitalmente dall’aiuto divino per trovare una via di uscita (in sé impossibile) alla situazione in cui si trovano.
Ma, aldilà di questo aspetto, tutto questo significa anche che in verità la Chiesa più autentica sussiste solo e soltanto nella profondità del rapporto personale con Dio. Per cui in verità non è affatto il cristiano a porsi nella Chiesa, ma è invece semmai la Chiesa a porsi nel cristiano. Ecco che la Chiesa esteriore appare essere assolutamente secondaria (in quanto mera struttura, per quanto terrenamente necessaria, ma solo relativamente) rispetto a all’intensità dell’esperienza religiosa che si manifesta nella singolarità. Per cui il Cristianesimo è molto probabilmente primariamente relazione personale con Dio. Cosa del resto provata dalla mistica in larga parte invisibile della quale qui Stein prende debitamente atto. A fronte di ciò osiamo quindi avanzare l’ipotesi che si debba ritornare a questa forma originaria di Cristianesimo ogni volta che storicamente la Chiesa visibile entra in crisi minacciando addirittura di disfarsi totalmente per svuotamento dall’interno. Ed ecco quindi spiegata la sofferenza dei martiri e santi occulti, i quali nella prova del dolore (la purificazione per fuoco della quale parla Berdjaev, ma in questo caso espiazione di peccati non propri) partoriscono una nuova Chiesa.
In sintesi, insomma, potremmo dire che il discorso steiniano apre qui alla possibilità di un’esperienza religiosa incentrata sull’aiuto divino concreto. Ma ciò avviene comunque molto ma molto alla lontana. Come testimoniato dal fatto che le riflessioni da noi fatte al proposito sono in realtà appena delle extrapolazioni ed ipotesi. Restano comunque le ulteriori parti del suo discorso che sono di segno totalmente opposto.
E tali affermazioni vengono immediatamente (sempre nel commento di Gerl) a proposito del prototipo di esperienza religiosa che secondo Stein si ritrova nei Re Magi. In via di principio essi vivono l’esperienza religiosa nella sua massima intensità ed intimità, in quanto chiamati ad uno scambio davvero carnale tra i loro doni (deponendo i quali ai piedi del Bambino, essi si spogliano della loro intera umanità) e la Presenza viva di Dio (che offre sé stesso in cambio di tale atto di rinuncia). Tuttavia, dice Stein (qui ancora per bocca di Gerl) che si esige ancora un successivo ritorno al quotidiano, con l’inevitabile perdita di tutto quanto appena si era conquistato, ossia la prossimità della Presenza divina stessa. Il che dovrebbe significare che l’esperienza religiosa è connotata dal fatto che tale Presenza non è mai durevole, anzi per lunghi periodi di tempo resta totalmente inaccessibile. E su questo non c’è nulla da dire. Chiunque vive l’esperienza religiosa nel modo più intenso possibile (ossia personalmente e non al riparo della tranquillizzante ritualità formale ecclesiale) sa che Dio svanisce per lunghissimi periodi di tempo lasciandolo così totalmente solo.
Perché mai questo? Se lo chiede perfino Stein e ne conclude sbrigativamente che si tratta di un mistero insolubile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 57). E questo dunque può e deve venire accettato. Ma la retorica no! Ed è solo retorica quella che Gerl ci propone qui facendo da portavoce a Stein. Per lei infatti l’evidenza dell’occultamento divino esige da noi la sempre rinnovata fiducia e disponibilità. E questo implica un continuo “errare” (“Wanderung”) nella perenne ed inesausta ricerca di Dio. Intanto, comunque, quello che non ci si può assolutamente aspettare è la “consapevolezza dell’efficacia” (“Bewußtsein des Wirkens”), per cui bisogna semplicemente essere capaci di lasciare tutto nelle mani di chi intanto agisce. E ne conclude addirittura che non è affatto detto che noi dobbiamo sperimentare l’epifania nella nostra vita. Sebbene “la strada maestra” (la prossimità immediata della Presenza divina) è sia e resti lì nonostante del tutto invisibile.
Di fronte a tali affermazioni viene sempre la voglia irresistibile di dire: − «Molto bello! Ma facilissimo a dirsi però difficilissimo a farsi!». E ci riferiamo di nuovo in particolare alle esperienze senza uscita dell’esistenza. Non invece alle frustrazioni ordinarie, per le quali sarebbe follia e blasfemia invocare l’aiuto divino. Ma, aldilà di questo, la domanda pressante è semmai un’altra − «Quello del quale si parla qui è il Dio vero, oppure è appena quello inventato dalla nostra retorica antropomorfizzante?». Insomma, come si può pensare che Dio, nel suo inspiegabile occultarsi, esiga intanto da noi esseri di carne l’incondizionata “fiducia e disponibilità”, esattamente come verrebbe chiesto di fare ai soldati nella caserma in cui si addestrano alla guerra? Come si può pensare che questo Dio esiga da noi addirittura un continuo “errare” senza la benché minima certezza non solo di sperimentare di nuovo un giorno la sua Presenza ma perfino nel totale digiuno di ogni frutto del nostro affidamento a Lui entro le tempeste della nostra esistenza (mancata consapevolezza dell’efficacia)? E come, in tale contesto, si può chiedere a noi esseri mortali addirittura la somma virtù dell’affidamento cieco e totalmente privo di risultati, nel “lasciare tutto nelle mani” di Colui del quale dobbiamo essere fermamente certi che continua intanto invisibilmente ad agire? Siamo insomma di nuovo al teresiano «accettare tutto dalle mani di Dio», pena il dover accettare che altrimenti Egli «ci abbandonerà ad ogni passo». Ma il sommo della provocazione di tali affermazioni sta nella richiesta rivolta a noi (poveri esseri di carne) di essere pronti ad accettare che mai e poi mai vi sarà un’”epifania” divina nella nostra esistenza.
Orbene, è davvero un Padre il Dio che pensa ed agisce così? Costui è davvero Colui che ha detto che un Padre mai e poi mai darebbe ai propri figli pietre in luogo del pane? Sinceramente ci viene spontaneo rispondere di no. E quindi non possiamo concluderne altro che nuovamente qui è all’opera quella insidiosa, arrogante e prepotente retorica (la retorica di predicatori, apologeti e teologi, che pretende a noi comuni mortali di dare saccenti lezioni sulla natura di Dio e sul suo agire), la quale pretende di riconoscere in Dio aspetti che invece sono unicamente umani.
Ed è evidente allora che qui è all’opera un sadismo molto ben mascherato (e peraltro anche questo con sadismo), il quale a sua volta pretende che il masochismo divenga in noi altissima virtù religiosa. Insomma molto meglio sarebbe che costoro semplicemente affermassero che non sanno assolutamente nulla di Dio – come del resto richiesto espressamente da Gesù stesso nell’esortazione severissima a non “scandalizzare” i piccoli. E sinceramente ci dispiace dover coinvolgere in questa accusa anche la nostra carissima Edith Stein. Rispetto alla quale dobbiamo riconfermare quello che abbiamo detto anche per Dio – è davvero possibile che una persona così profonda, sensibile, colta, umile, visionaria, ferventemente religiosa abbia aderito ad una retorica così violenta, becera e falsificante? Come si spiega tutto questo?
Lo vedremo più avanti.
Ma veniamo ora ai suoi testi originali, nei quali è possibile che possiamo anche trovare risposta a queste angosciose domande.
Ed iniziamo dal primo dei testi contenuti in DWG, e cioè “Menschenwerdun und Menscheit”.
Qui Stein sottolinea il fatto che Cristo è da considerate il Capo del Corpo Mistico del quale noi siamo membra [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 50-59]. E come tale esso si comunica a noi come vita divina esattamente come il Bambino fa con le sue mani protese verso chi lo circonda nel Presepe. Attenzione però, ella precisa − questo è solo l’inizio della “vita eterna”, ma non è affatto la “visione di Dio nella Luce della Gloria” (“Gottschauen im Glorienlicht”). Non possiamo dedurne altro che questo – la pur intimissima (addirittura carnale) esperienza religiosa che viene illustrata esattamente nel Presepe non è mai e poi mai piena relazione con Dio. Del resto Stein stessa sottolinea al proposito che nel Presepe il Deus absconditus diviene per la prima volta immediatamente tangibile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 31-40]. A ciò Stein stessa aggiunge però che si tratta con tutto ciò di un’evidente “oscurità della fede” (“Dunkel des Glaubens”), anche se già non è più uno stare in questo mondo, bensì invece nel “regno di Dio” (“Gottesreich”). E precisa che esso è in effetti iniziato immediatamente già con il “fiat” di Maria [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17, p. 33-95, p. 97-157]. Insomma la pur immediata prossimità a noi di Dio nel Bambino, e quindi ormai tangibile Presenza divina, non andrebbe affatto considerata unione a Dio. Ma intanto dovremmo consolarci con il fatto che essa è comunque fede (per quanto oscura) ed inoltre è anche perfino uno stare nel Regno di Dio.
Ma come? Proprio laddove la volontà divina ha voluto rendere possibile l’impossibile, ossia rendere tangibile la sua Presenza, proprio lì non si può nemmeno parlare di intimità immediata con Lui entro l’esperienza religiosa? Ed inoltre dovremmo soddisfare questa fame insoddisfatta accontentandoci di una meramente formale fede (peraltro totalmente oscura) entro la quale dovremmo per di più credere di stare già di fatto nel Regno di Dio? In altre parole in tal modo veniamo rilanciati di nuovo impietosamente entro l’esperienza straziante dell’Invisibile proprio nel mentre ci trovavamo già nel pieno dell’esperienza del Dio visibile. È pensabile un tale sadismo della retorica omiletico-teologica? Ed è pensabile esso che sia frutto dell’amorosa Volontà divina? Ma, oltre a ciò, è possibile affermare tutto questo con totale disinvoltura?
Ed inoltre è possibile affermarlo proprio nella forma deteriore che è stata scelta, ossia nel contesto di una logica che (sebbene applicata ad ineffabili realtà religiose) in effetti fa acqua davvero da tutte le parti?
E si badi bene che qui parla Edith Stein, ossia una che per tutta la vita si era preoccupata dell’inflessibile rigore del pensiero. Come si spiega dunque questo suo improvviso inclinare ad una logica così tanto sgangherata?
Ma le cose divengono ancora più gravi più avanti, laddove Stein perviene al centrale discorso sul «fare la volontà divina» (p. 55-59). In particolare ella considera tale atto il “terzo segno” della filialità divina, laddove i primi due segni sono la filialità stessa in sé (essere “uno con Dio”), la fraternità o carità (essere “uno in Dio”). Questi sono insomma gli aspetti più fondamentali della fede cristiana.
Ebbene, per lei l’essere integralmente figlio di Dio significa andare con Lui mano nella mano, e quindi “fare il volere divino e non il proprio”. Ciò significa in particolare deporre ogni preoccupazione e speranza nelle mani di Dio non preoccupandosi così mai più assolutamente né di sé e del proprio futuro. E questo sarebbe per lei libertà e felicità. Ella riconosce però che queste due attitudini le posseggono davvero pochi, escludendo così perfino coloro che hanno una forte disposizione al sacrificio, ossia coloro che sono pienamente disposti ad offrire sé stessi come olocausto vivente. Anche costoro, insomma, rientrano nell’assoluta maggioranza di coloro che per tutta la vita non fanno altro che camminare curvi sotto i loro pesi. E chiaramente sono coloro che non mostrano la famosa «gioia cristiana».
Sì abbiamo sentito bene – non sono da considerare pienamente cristiani anche coloro che di fatto offrono la propria vita nel contesto di situazioni esistenziali impossibili (senza uscita) affrontando ogni giorno un vero e proprio martirio e peraltro non pensando nemmeno lontanamente a sottrarsi egoisticamente a tali situazioni. E perché? Perché essi non dimostrano l’altra virtù cristiana inscindibilmente legata al «fare la volontà», cioè la gioia nel fare la volontà. Tale virtù conferma infatti pienamente quell’eroismo che a sua volta configura anche in Berdjaev l’elezione aristocratica che contrassegna il vero cristiano [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-326, XII p. 346-349, XIII p. 355-358]. Ma intanto (cristiano o non cristiano) essa mostra i tratti tipici di un vero e proprio ebetismo; peraltro anche nauseante e sdolcinato. E si badi bene che non stiamo affatto affermando questo sulla base del mero senso comune o anche buon senso (la famosa ragionevolezza), bensì sulla base di una fede cristiana che sente il dovere di rigettare con sdegno ogni retorica che osi mettere in scherzo la serietà del dolore che le persone provano nel corso della loro esistenza. Ma quali libertà e felicità nel consegnare la propria volontà a quella divina? Come si può pensare infatti che l’essere cristiano obblighi a sorridere sempre anche se ci si trova costantemente in situazioni che rischiano continuamente di portarci sull’orlo della follia, della malattia, e perfino della morte?
Ebbene, cos’è questo se non sadismo? E come questo sadismo può venire spiegato se non come una mera retorica che necessariamente può avere pochissimo a che fare con il Cristianesimo come religione dell’amore, e quindi con gli stessi insegnamenti di Cristo?
Del resto la Stein appare perfettamente consapevole di questo. E così, nell’invitarci ad essere come “gigli del campo” (secondo l’esortazione di Gesù), prende atto del fatto che per l’usuale buon senso del mondo questa appare come una “follia”, di fronte alla quale si scuote la testa. Eppure la pensatrice conferma pienamente l’ammissibilità di tale follia, dato che proprio qui ella afferma che “deve aver sbagliato i suoi calcoli” (“könnte sich schwer verrechnet haben”), ossia si sbaglia di grosso, colui che ha osato pensare che Dio che provveda davvero ad ogni sua necessità. Vi è forse una smentita più violenta e frontale della possibilità del concreto aiuto divino? E dunque, secondo Stein, predicatori e santi come Don Dolindo Ruotolo (che invece parlava apertamente di tale aiuto e peraltro invitava tutti noi a crederci ciecamente) si sbagliavano anche loro di grosso?
C’è da restare davvero sconcertati di fronte alla così profonda frattura che in tal modo emerge nel cuore dell’intera omiletica e teologia cristiana. E pertanto si è portati a chiedersi da che lato si trovi la verità.
Insomma siamo così di fronte al punto e momento più cruciale (il suo fulcro stesso) della definizione cristiana dell’esperienza religiosa. Ed è evidente che esso consiste nell’ammissione o meno del concreto aiuto divino.
Intanto qui (proprio come fece Teresa d’Avila) Stein ci esorta ad essere pronti a prendere dalla mano di Dio qualunque cosa venga. E questo perché solo Lui “sa cosa è bene per noi”, incluso bisogno, spoliazione e insuccesso. Eccoci insomma di fronte alla più aperta e chiara forma della retorica che abbiamo descritto e deplorato all’inizio. Ma di nuovo si è spinti a chiedersi se davvero si può pensare e dire una cosa simile in nome di Gesù. Appare invece molto più probabile che Gesù non c’entri nulla con questo, e che quindi si tratti appena di una retorica umana mimetizzata da ispirato discorso religioso.
Tanto più per il fatto che qui Stein impietosamente continua a rincarare la dose. Ella dice infatti che in
questo senso il “sia fatta la Tua volontà” deve venire considerata una regola generale, ubiquitaria e persistente di comportamento per il cristiano: − essa deve regolare la sua intera vita. Dunque questa deve essere l’”…unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre se le prende il Signore su di sé. Ma intanto questa unica resta a noi per la vita intera”. Il che significa che, anche come cristiani, noi non siamo affatto “assicurati per sempre”. E quindi ognuno di noi cammina sempre sul “filo di rasoio (“Messers Schneide”) tra il “nulla” (“Nichts”) e la “pienezza” (“Fülle”) della vita divina.
Ciò significa insomma che l’esperienza religiosa andrebbe intesa proprio come vissuto contemporaneo e misto di nulla e pienezza.
È di nuovo insomma una frontale smentita del concreto aiuto divino; unita peraltro al solito insopportabile (logicamente sgangherato e pochissimo autentico e credibile) dire e non dire, affermare e negare. Ma intanto, posto che abbiamo già chiarito che è ammissibile invocare l’aiuto divino solo in situazioni estreme e quindi serissime, dove sarà allora la “pienezza” della quale qui Stein blatera? Evidentemente da nessuna parte per il santo martire che si trova in quelle condizioni. E quindi – pur con tutto questo florilegio omiletico-retorico – a questo poveraccio non resterà altro che rassegnarsi al solo “nulla”. Dato che qui della pienezza non vi è alcuna traccia. Ecco di nuovo che la montagna partorisce il topolino, e così l’intera retorica finisce per risolversi nell’esortazione a rassegnarsi al dolore senza via di uscita, senza poter più nemmeno lamentarsi di questo.
Eppure Stein precisa che sta esattamente qui il punto di passaggio tra la fede infantile a quella adulta. Infatti per lei solo nella prima ni sperimentiamo almeno per un po’ una mano sicura e forte. Ma poi, come lei dice, “non sarà sempre così”. E dire che proprio lei aveva visto in Dio quel Fondamento di essere che funge da forte “braccio” che immancabilmente salva noi enti finiti dalla minaccia costante di sprofondare nel nulla [Edith Stein, Endliches…cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113]. Ma qui ella sostiene che, nel contesto di una fede adulta, noi dobbiamo invece rinunciare a questo Braccio forte in quanto mano che guida, e quindi dobbiamo accettare che la nostra fede implica inevitabilmente l’associazione all’esperienza della Croce.
E qui ci troviamo di fronte ad un altro tipico elemento della retorica introduttivamente commentata – quello secondo il quale l’esperienza religiosa cristiana implichi necessariamente la nostra associazione all’integrale esperienza della Croce. Laddove in questa idea si trascura la lapalissiana constatazione che Dio non avrebbe mai scelto volontariamente di sottomettersi allo strazio infinito dell’essere «uomo» se avesse saputo che l’uomo sarebbe stato capace per definizione di sopportare la stessa incommensurabile dose di dolore che egli ha sopportato come Cristo, ossia come pieno Dio-Uomo. È evidente inoltre che Dio in quanto Gesù Cristo è stato capace di sopportare questo insopportabile ed immane strazio solo perché in fondo a sé stesso sapeva di essere un dio, e che quindi tutta quella che Lui ha vissuto sullo sfondo non era che una pantomima, sebbene con tutti i caratteri della realtà (nessun escluso). Ma Egli intanto sapeva esattamente che a questa pantomima (che poi è l’illusoria commedia della morte che viene messa costantemente in atto da Satana) invariabilmente sarebbe seguita la Sua Resurrezione dai morti e il Suo ritorno alla Gloria della condizione divino-celeste.
Pertanto, nel contesto di una logica di tipo religioso, è assolutamente ridicolo pensare che l’uomo possa davvero condividere integralmente la realtà della Croce – per quanto santo possa essere! E pertanto è evidente che chi lo pensa (inclusa purtroppo la nostra carissima Stein) non è altro che uno psicotico (oltre che un indegno antropomorfizzatore).
Ebbene noi riteniamo che stiano proprio qui le risposte alle domande che spontaneamente sorgono di fronte alle affermazioni di tutta questa retorica della necessaria associazione dell’uomo all’esperienza della Croce − è davvero possibile pensare che il partecipare alla vita divina coincida con il vivere solo soffrendo?
È davvero possibile e sano sostenere questo? E queste domande senz’altro ci riconducono all’insidioso rischio insito nella condizione mistica, ossia quello di scambiare i propri deliri per sublimi pensieri religiosi.
Cosa che, a quanto pare, non ha escluso nemmeno Stein ed inoltre l’intera spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito, e che mostra le sue forme proprio in queste affermazioni.
A quanto prima detto la pensatrice aggiunge comunque qui la costatazione che il dolore non è nulla di fronte all’esperienza terrificante della notte oscura. Ma, ella precisa, sta di fatto che la notte oscura è un altro (ed ancora più fondamentale) momento della nostra partecipazione alla vita divina; in particolare della divinità come liberazione, cosa che avviene solo attraverso il dolore. E questo perché la partecipazione alla vita divina è (dopo l’Incarnazione) anche partecipazione alla vita umana di Dio, nella quale Egli ebbe la possibilità di “soffrire e morire”.
Eccoci insomma di fronte ad un’altra affermazione inaccettabile per l’uomo che si trova pienamente immerso nell’esperienza del dolore come prova (in quanto situazione seria, straordinaria e senza uscita).
Ed ancora una volta Stein sembra pienamente consapevole di questo. Ella afferma infatti che naturalmente per la “ragione naturale” questa è chiaramente “perversione”. Ma aggiunge che invece non è così nella “luce della Liberazione”, nella quale tutto questo si rivela come la “più alta ragione” (“höchste Vernunft”).
Ebbene questo ci dimostra che, nel corso della fase mistico-monastica e contemplativa della sua opera,
ella non seguiva già più la ragione naturale ma invece solo una ragione superiore, ossia un discorso chiaramente iper-razionale. E di questo va preso atto nel corso della comprensione del suo pensiero in fase mistica.
Ma intanto la più alta Ragione divina sarebbe quella che avrebbe spinto Dio ad incarnarsi e soffrire solo a condizione che anche noi soffrissimo insieme a Lui? Inoltre ciò sembra voler implicare anche il dovere di resistere perfino nella sensazione di essere stati totalmente abbandonati da Dio. E questa sarebbe liberazione? Ed inoltre addirittura liberazione dall’assolutamente irresistibile pressione del bisogno e da quello dell’istinto di sopravvivenza? Tutti elementi che Dio sa perfettamente essere così profondamente insiti nella natura umana da non poter venire in alcun modo ignorati o eliminati. E forse la “preveggenza divina” (della quale qui Stein parla espressamente) aveva previsto il proprio martirio nel mentre intanto sapeva che questo sarebbe stato liberante soltanto con tutta la zavorra di questi così gravi limiti?
No! È davvero impossibile pensare tutto questo. Perché questo contraddice davvero frontalmente la logica unilateralmente amorosa ed unicamente auto-sacrificale dell’Incarnazione. Pertanto non si può concluderne altro che, entro questo ragionamento, vi devono essere delle gravi lacune logiche che (volutamente o non volutamente) ci si rifiuta di riempire. E questo a sua volta non può essere spiegato da altro che dal fatto di aver abbracciato acriticamente una retorica preformata e rigidamente canonica.
Cosa che per Stein è così sorprendente da lasciare il suo studioso davvero di stucco.
Ma passiamo ora al secondo testo steiniano presente in DWG, ossia “Verborgenes Leben und Epiphanie” (“Vita nascosta ed epifania”) [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., II p. 67-77].
E qui emergono nuovamente in Stein (in maniera di nuovo sorprendente, visti anche i passi appena commentati) dei possibili elementi positivi nella concezione dell’esperienza religiosa – specie come intima relazione personale con Dio.
La pensatrice constata infatti che tutte le persone coinvolte (direttamente o indirettamente) nello scenario del Presepe (Maria, Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, i Re Magi) avevano vite separate, e precisamente nel contesto di una relazione assolutamente solitaria con Dio. Solo che non sapevano di rientrare anche così in una realtà comune, che poi corrisponde al piano divino; elemento che è stato del resto sempre presente nel pensiero steiniano. Per questo, ella dice, al cospetto del Presepe noi ci troviamo davanti ad uno scenario davvero grandioso: − caratterizzato soprattutto dai Pagani (Re Magi) per i quali da Giuda doveva venire la salvezza. Ed essi rappresentano così “i cercatori” di Dio che sono ovunque nel mondo, aldilà di tutte le specifiche religioni e relative Chiese istituzionali.
Ma ciò significa che costoro sono il prototipo di coloro che sperimentano una del tutto pura ed incondizionata “aspirazione” (“Verlangen”) alla verità. La quale evidentemente non conosce confini né limiti di sorta. E questo accade perché “Dio è la Verità e vuole farsi trovare da coloro che la cercano con tutto il cuore”. Questo è insomma, entro la simbologia del Presepe, ciò che accade per mezzo della Stella che mostra la strada.
Ebbene di nuovo ci ritroviamo in tal modo al cospetto di una concezione dell’esperienza religiosa che è caratterizzata dalla singolarità (dell’esperienza di Dio) e che inoltre è di altissimo livello non solo religioso ma anche filosofico, dato che ne va dell’incontro con la Verità per eccellenza. Ma esattamente in tale contesto emerge la constatazione che Dio vuole a tutti i costi venire trovato; il che richiama l’idea berdjaeviana secondo la quale Dio ha un bisogno spasmodico dell’uomo. Ora, una volta posto questo, si può ancora per davvero sostenere che Dio esiga dall’uomo una fede che consiste unicamente nell’esperienza dell’Invisibile, e quindi escluda rigorosamente qualunque frutto tangibile dell’esperienza religiosa, ossia ancora una volta il concreto aiuto divino?
Ma con ciò abbiamo ultimato l’analisi di DWG.

Giunti a questo punto il testo di Le Fort (DEF) ci offrirà solo pochi contributi, dato che, come abbiamo detto, esso si occupa solo marginalmente dell’esperienza religiosa. Cosa che peraltro può venire ridotta entro i termini di quella incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che è tipicamente femminile, ma nello stesso tempo fa da paradigma per la corretta relazione con Dio per qualunque essere umano.
Infatti Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17] afferma che Maria è da considerate il «religioso» stesso per eccellenza, specie in quanto primaria manifestazione del religioso, attraverso il quale Dio viene venerato.
Il che si giustifica con il fatto che solo il femminile (in quanto capace di illimitata ricezione) può esprimere in pieno la dimensione religiosa in quanto esperienza umana del divino.
A ciò Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 95] aggiunge che i moderni deplorevoli fenomeni del distacco del femminile dalla propria simbologia intensamente religiosa (ossia dalla propria vera natura) vanno di pari passo con il fenomeno della separazione tra uomo e Dio che è avvenuto nella società (in gran parte per il prevalere di unilaterali valori maschili sulla invece necessaria stretta collaborazione tra uomo e donna). E la tragica conseguenza di ciò è stato secondo lei lo spostamento della relazione tra uomo e Dio (ossia la stessa esperienza religiosa) in direzione della Fine dei Tempi. Il che equivale poi all’intendimento dell’esperienza religiosa unicamente nel contesto di una prospettiva apocalittica. Infatti quest’ultima si è di fatto sostituita a quella pienezza dei tempi che invece è sempre solo attuale ossia storica. In definitiva, dunque, la relazione con Dio è stata spostata alla fine, e quindi non viene più vissuta attualmente, come invece si potrebbe e si dovrebbe. Ciò significa allora che – come del resto ha sostenuto Guardini [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585] – se nella storia non vi è traccia del Regno dei Cielo questo è solo frutto della nostra responsabilità, ed inoltre significa anche che tutto ciò non sarebbe avvenuto se la Donna non solo avesse continuato ad essere fedele alla sua vera natura, ma inoltre, proprio su questa base, avesse continuato a costituire il paradigma massimo dell’esperienza religiosa per mezzo della figura della Vergine Maria.
A ciò va comunque aggiunto che Le Fort considera il “si” (o “fiat”) tipicamente femminile-mariano come una forma di collaborazione dell’uomo alla creazione che ci ricorda quanto abbiamo già visto in Berdjaev [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 18-29, p. 33-95, p. 97-157].
Tutto questo non ha certo relazione con il nostro specifico tema dell’aiuto divino. Ma comunque l’attualità storica del Regno dei Cieli contraddice anch’essa un’esperienza religiosa che (nel contesto della retorica introduttivamente commentata) si incentra unicamente su un vissuto totalmente negativo del divino, sia pur mascherato sotto confuse, contraddittorie ed inautentiche (se non menzognere) formule omiletico-teologiche che vorrebbero convincerci della sua positività.

Conclusioni.
Giunti a questo punto è ormai necessario trarre delle conclusioni dall’intero discorso.
Abbiamo davanti a noi due parti di un unico discorso, ossia il discorso che (direttamente o indirettamente) concerne l’esperienza religiosa in quanto relazione tra uomo e Dio. Abbiamo visto che essa può venire intesa in diversi modi, ed abbiamo però anche visto che, nel contesto della tradizionale dottrina cristiana, si rilutta fortemente (e per vari motivi) in primo luogo a considerarla un’esperienza anche strettamente personale e quindi intima (oltre che collettiva ed ecclesiale) ed in secondo luogo a considerarla un’esperienza produttiva, ossia capace di mettere capo ad un concreto aiuto divino.
Intanto il pensiero di Berdjaev ci ha fornito molti elementi per considerare l’esperienza religiosa in una maniera che renda plausibili entrambi questi due intendimenti. Ma abbiamo anche visto che ciò a suo avviso non può avvenire se prima non vi è un profondo rinnovamento della dottrina e prassi cristiana, che egli sintetizza come “nuova Rivelazione” e che consiste in definitiva in una sorta di finora mai avvenuta “rivelazione antropologica” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Quest’ultima consiste a sua volta nella dichiarazione dell’inalienabile dignità dell’uomo in quanto ente pienamente umano-divino, e quindi necessariamente in intima relazione con Dio. Ed è evidente che tale scenario non solo è tutto di là da venire, ma inoltre non si può assolutamente essere certi che esso un giorno davvero si delineerà davanti al nostro sguardo. Questo significa allora che attualmente abbiamo solo alcune possibilità a disposizione, e tutte peraltro estremamente negative, rispetto alla concezione cristiana dell’esperienza religiosa: − rassegnarci tristemente al dominio della retorica omiletico-teologica che prima abbiamo descritto e deplorato, abbracciare l’immanentismo scettico e tendenzialmente ateo dei nuovi teologi cristiani, oppure addirittura dire addio alla fede cristiana più canonica nella costatazione che essa non intende in alcun modo permetterci un’autentica esperienza di Dio. E a questo punto ci resteranno solo altre due alternative: − professare una fede cristiana tutta nostra, oppure abbandonarla del tutto.
Ma, per l’uomo che ci trova in quelle tremende soluzioni senza uscita delle quali abbiamo parlato, questa ultima possibilità equivale ad abbandonare ogni speranza di uscirne nella giustizia e nell’amore, essendo così costretto ad uscirne solo nell’egoismo e nella violenza, oppure essendo costretto a gettare la spugna ed abbandonarsi del tutto alle soverchianti forze negative che gli si oppongono, offrendo così il capo alla loro affilata scure.
Tuttavia tale scenario diviene ancora più oscuro se teniamo conto del fatto che una pensatrice intensamente religiosa e mistica come Edith Stein sembra aver accettato senza troppe difficoltà la prima tra le soluzioni negative che abbiamo poc’anzi indicato, ossia la via della mera retorica. Ed in essa abbiamo constatato in particolare il sussistere di un discorso che non regge assolutamente nel contesto di una logica del tutto sgangherata (lacunosa, piena di contraddizioni e fortemente sospetta di omissioni, reticenza e mendacia) sia pure molto attenta alle caratteristiche specifiche della fenomenologia religiosa. Proprio a causa di quest’ultima noi veniamo costretti ad accettare un’esperienza religiosa che può venire considerata positiva solo con un immenso sforzo di immaginazione, e peraltro non senza una cieca obbedienza. Il che poi, una volta trasportato sul piano di quelle tremende situazioni senza uscita (delle quali abbiamo più volte parlato), ci obbliga di fatto a rinunciare a qualunque possibilità di un concreto aiuto divino in quanto mera illusione. Cosa che poi (come abbiamo detto poc’anzi) ci precipita nel profondo di un’esperienza religiosa nel contesto della quale, nel mentre siamo totalmente abbandonati alla solitudine ed all’impotenza, o abbracciamo anche noi la retorica omiletico-teologica per pura disperazione (e quindi senza la benché minima speranza) oppure ci rassegniamo all’ineluttabilità dell’esperienza che stiamo vivendo in tutta la sua crudezza. Cosa che ovviamente ci renderà molto difficile, se non impossibile, conservare la fede.
Ebbene, di fronte ad uno scenario così oscuro e desolante ci possono venire in soccorso solo due elementi – la speranza che gli auspici di Berdjaev davvero un giorno trovino realizzazione, e la costatazione che forse una pensatrice come Stein (nello scrivere un’opera come DWG) non ci abbia detto tutto quello che pensava, sentiva e sapeva. Ed abbiamo visto che nel contesto del suo discorso non mancano (per quanto siano molto flebili e timidi) dei segnali che suggeriscono tale ipotesi.
Dunque cosa può essere mai accaduto nel pieno della retorica omiletico-teologica così com’è stata vissuta e pensata da una pensatrice e mistica come Stein – sulla cui onestà, purezza, profondità spirituale e potenza intellettuale è davvero difficile nutrire dei dubbi?
Può essere solo accaduto che, così come ella si era sottomessa di fatto ad una necessaria rinuncia sacrificale pressoché completa all’atteggiamento attivo-assertivo che la filosofia avrebbe potuto consentirle, allo stesso modo ella si sia sottomessa ad un altro atto di rinuncia, che probabilmente è consistito nella scelta (profondamente motivata) di abbracciare in maniera davvero radicalmente incondizionato la spiritualità carmelitana alla quale ella dovette aderire nel varcare per sempre la soglia del Carmelo di Köln; ed ancor più la soglia di quel Carmelo di Echt che poi la condusse al pieno compimento della sua decisione di offrirsi come vittima per l’espiazione dei peccati del mondo. È solo pensando questo che le sue affermazioni riconducibili alla natura dell’esperienza religiosa cessano di essere scandalose ed inaccettabili, e cessano quindi di indurre in noi un moto di profonda indignazione. Ciò significa dunque che probabilmente noi non dobbiamo guardare tanto ai contenuti del suo discorso, ma dobbiamo invece guardare al loro sfondo profondo e nascosto. Che corrisponde esattamente poi a quelle sue radicali scelte che furono insieme religiose ed esistenziali.
Ma quali possono essere state le motivazioni profonde di una scelta di rinuncia così dura?
Ebbene possiamo comprenderlo nel mentre ricolleghiamo la sua scelta monastica al quella che fu la natura più autentica della sua mistica. Esaminando infatti DWG abbiamo constatato che in esso la mistica steiniana si presenta in un aspetto molto dimesso, discreto, poco ambizioso che quindi fa di essa una mistica per nulla rigogliosa (come lo fu invece quella di Teresa d’Avila e Juan de la Cruz, i quali pure furono per lei punti di riferimento esemplari). E questo potrebbe significare allora che, così come la sua stessa scelta monastica, anche perfino la prassi mistica restò per lei sempre sottomessa (e quindi del tutto secondaria) al ben più primario aspetto della sua previa e primaria scelta di offrire sé stessa in olocausto. Il che spiegherebbe per un’altra via anche il perché della sua sottomissione incondizionata alla spiritualità carmelitana con tutto il suo inflessibile rigore quasi militare. A mo’ di esempio ricordo al proposito al lettore un fatto del quale veniamo a sapere mediante le sue lettere, e cioè che al tempo in cui ella entrò in convento la Regola carmelitana proibiva severamente qualunque forma di riscaldamento degli spazi, motivo per cui tutte le monache andavano soggette a malattie respiratorie anche gravi [Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015, lettere 299, 300, 334, 572, 654, 684, 692). Questa assurda prescrizione fu poi abolita, ma pare che intanto Stein ne abbia sofferto moltissimo, essendo costretta nella sua cella a correre ai ripari coprendosi e riscaldandosi con mezzi di fortuna.
Dunque tutto ciò getta una luce non indifferente sulla retorica alla quale ella si rifà nel descrivere i tratti fondamentali dell’esperienza religiosa. Sembra quasi, insomma, che ella si sia volontariamente sottomessa al compito di affermare cose (ed anche di farle) nelle quali però molto probabilmente nemmeno credeva fino in fondo – e tuttavia con fini che abbiamo visto essere non solo nobili ma perfino sublimi. Sta di fatto che però tali fini erano, dal suo specifico punto di vista, inconfessabili per pudore e discrezione, dato che ella aveva fatto le sue così radicali scelte unicamente nel segreto del proprio intimo ed in privata relazione con Dio. Ciò può venire dimostrato dalla frase, citata da Gerl, che ella pronunciò quando le fu chiesto come si sentisse mentre veniva trasportata verso Borken e poi verso Auschwitz: − “Mein Geheimniss gehört mir”, o “Il mio segreto appartiene solo a me” [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 7-19]. E questo spiegherebbe bene anche le oscillazioni del suo discorso, tra l’affermazione della rigorosità tutta negativa dell’esperienza religiosa ed invece l’apertura ad i suoi aspetti positivi. In sintesi il rigore negativo dell’esperienza religiosa descritta e raccomandata da Stein appare essere molto più relativo che non assoluto – e più precisamente relativo alla sua tutta personale via al divino, via che lei stessa aveva autonomamente scelto e che evidentemente le era stata concessa da Dio. Senza però alcuna intenzione (da parte di entrambi!) di farne un modello obbligatorio e valido per tutti. E questo senz’altro vale anche per la così rigorosa e spietata spiritualità carmelitana di tipo senz’auto-mortificante se non (da un certo punto di vista) sado-masochista.
Essa può essere effettivamente così in termini oggettivi. Ma evidentemente esistono anime che non possono arrivare a Dio se non per questa via. Il che però non significa affatto che tale via a Dio debba venire descritta come l’unica possibile.
Ma comunque tutto ciò significa allora che le così possenti ed autorevoli esortazioni steiniane ad un’esperienza religiosa integralmente sacrificale (fino al punto di renderla totalmente negativa, una volta che essa venga spogliata di ogni retorica) vanno prese appena come rinvio alla decisione auto-sacrificale che ella intanto aveva preso. Il che però significa che esse sono valide solo relativamente a questo, e non invece in assoluto.
In definitiva insomma sembra che noi non siamo affatto chiamati a prendere come insegnamenti vincolanti le indicazioni che Stein ci da circa ciò che dovrebbe essere un’autentica esperienza religiosa. Il che poi esautora totalmente, ma per una via alternativa, la tradizionale retorica omiletico-teologica.
E dunque, su questa base – sebbene restando comunque orfani di una guida autorevole che ci possa confortare nel nostro intendimento dell’esperienza religiosa (dato che le inattuali considerazioni di Berdjaev restano comunque insufficienti in quanto assolutamente non attuali) – noi potremmo ora ritornare a percorrere da soli il cammino che speriamo possa portare alla concezione di un’esperienza religiosa entro la quale sia pienamente lecito aspettarsi il concreto aiuto divino.
A questo punto, dunque, non ci resta che rivolgere la nostra attenzione agli scritti di Don Dolindo Ruotolo, che abbiamo in questa indagine solo vagamente menzionato senza però poterne trattare per il semplice fatto che conosciamo solo alcune sue isolate affermazioni, ma non invece tutto ciò che ha scritto. Ma sta di fatto che questi libri ci sono, e quindi possiamo citarne anche i titoli: − “Gesù pensaci tu”; “Don Dolindo Ruotolo e gli spiriti celesti” (a cura di Marcello Stanzione e Carmine Alvino); “Atto di abbandono. Mio Dio confido in te!”; “L’Immacolata nella vita di Don Dolindo Ruotolo”; “Don Dolindo sull’altura delle beatitudini” (a cura di Pasquale Rea); “Don Dolindo Ruotolo nei piani di Dio” (a cura di Pasquale Rea).
E quindi l’esame di questi scritti potrebbe essere l’oggetto di una nostra prossima indagine.
Restano comunque intanto lo sconcerto e l’amarezza del credente al cospetto di uno scenario religioso-cristiano nel quale sembra che si tenda a fare (e peraltro con ostinazione e forse perfino con protervia) l’esatto contrario del supportare l’uomo comune nella sua fede vissuta. In altre parole, nell’esortarlo alla fede in Dio, intanto si fa di tutto per togliergli il pane, ossia la speranza in un concreto aiuto divino entro le più gravi avversità. Ed abbiamo visto quanto forte possa essere il contributo di questa prassi all’abbandono della fede da parte di un numero sempre più grande di persone. Infatti, per come siamo fatti noi uomini, l’esperienza di Dio o è tangibile, concreta, realistica, credibile e trasparente (sebbene nel rispetto della sua natura spirituale e non materiale), oppure finisce per diventare una favola se non addirittura una barzelletta. E ci sembra che questo sia esattamente quanto è accaduto nelle nuove generazioni. Le quali ormai, smaliziate come sono, guardano alla fede solo con un atteggiamento di divertita commiserazione piena di scherno.
Che sia anche questo un altro segno dell’odierno potente operare dell’Anticristo non solo nel mondo ma anche nella Chiesa stessa?

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[ATTENZIONE: questo articolo è stato già accettato per la prossima pubblicazione sulla rivista Dialeghestai, per cui diffida dalla riproduzione non autorizzata del testo, in accordo con le leggi vigenti sui diritti d’autore]

Introduzione.
Abbiamo già trattato di questo tema in un precedente articolo, ma esso era fondato su una base testuale molto più ristretta [Vincenzo Nuzzo, Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende), Dialeghestai 2022 (in corso di pubblicazione)]. Comunque lì come anche qui, nell’affrontare il tema, è stato necessario innanzitutto chiedersi il perché di questo sforzo di approssimazione. Tra i due pensatori non c’è infatti null’altro se non delle molto vaghe relazioni e comunque mai dirette. Alcune lettere della Stein mostrano che Berdjaev fu oggetto di lettura e riflessione da parte di alcuni suoi conoscenti (per questo si veda comunque il primo articolo appena citato). Ed inoltre il libro di Gertrud von Le Fort (sua corrispondente e carissima amica) menziona non poche volte il pensatore russo come un proprio importante punto di riferimento [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Sta di fatto che, per quanto si sappia, Stein e Berdjaev non si conobbero mai né mai ebbero alcuno scambio di idee. È vero comunque che Berdjaev si soffermò molto su Husserl nel corso delle sue riflessioni, e quindi non è escluso che vi siano stati dei contatti tra la lui e quella scuola di pensiero. Anche perché da espatriato Berdjaev soggiornò a Berlino, città nella quale però la scuola husserliana non fu affatto rappresentata. A causa di tutto ciò non ci sentiremmo di escludere che la Stein abbia perfino letto i testi del pensatore, sebbene nei di lei testi non ne viene mai fatta alcuna menzione. In ogni caso è evidente anche già a prima vista che il suo pensiero diverge radicalmente da quello di Berdajev, sebbene i due condivisero una serie di significative prese di posizione filosofiche: – la necessità di un’impostazione intensamente religiosa della filosofia, la necessità di ritornare ad una forte antropologia filosofico-religiosa, l’etica incentrata nella libertà, nella responsabilità, nella scelta, il personalismo e lo spiritualismo.
Quindi, come è già avvenuto in molte altre nostre ricerche, il senso di questo nostro sforzo di accostamento consisterà in primo luogo nell’esplorazione dell’ambiente filosofico che vi fu intorno al mondo steiniano nel tempo in cui ella visse ed operò. Cosa che poi giustifica le possibili affinità in una maniera anche abbastanza ovvia. In ogni caso bisogna dire che il tempo in cui visse ed operò Stein coincide quasi totalmente con quello in cui visse ed operò Berdjaev, con l’unica eccezione nel fatto che egli ebbe la fortuna di superare incolume la tragedia della II Guerra Mondiale per morire solo nel 1948. Pertanto una certa (per quanto vaga) relazione tra i due pensieri deve esistere anche solo perché essi sono stati di fatto immersi nella stessa atmosfera storico-culturale, ideale ed anche fattuale. È evidente però già in partenza che può trattarsi solo di una relazione nella differenza. E del resto questo è quanto avevamo messo in luce anche nel nostro primo articolo.
Oltre a ciò colpisce comunque il fatto che Berdjaev è stato uno di quei pensatori che (in maniera abbastanza simile a Heidegger e Jaspers) si è spinto abbastanza oltre i limiti sia del concetto di essere della tradizionale ontologia sia del concetto di essere estremamente riduttivo al quale Husserl permise di esistere nel contesto del suo idealismo trascendentale. E qui le cose divengono estremamente interessanti dato che Stein compì di fatto il percorso che riportava dal secondo al primo concetto di essere.
Berdjaev, invece – anche se si dedicò con molta energia al recupero di questo concetto – non percorse affatto questo cammino. E questa evidenza si presta quindi molto bene ad una relativizzazione del progetto filosofico-metafisico perseguito da Stein nel costruire la sua ontologia; il che poi ci permette anche di comprenderlo molto meglio di quanto sia possibile quando esso viene considerato scontato e così anche assolutizzato. In tal modo scopriamo insomma che al tempo di Stein il recupero del concetto di essere conobbe varie possibilità, delle quale ella seguì appena una. E di questo abbiamo parlato anche nel nostro primo articolo, sebbene a partire da un punto di vista piuttosto ristretto.
Questo non significa però dover necessariamente stabilire una gradazione di valore tra l’una e l’altra filosofia dell’essere. Significa invece molto più tentare di allargare la gamma delle forme storiche con le quali essa si presentò a quel tempo. Ma, rispetto a Stein, implica anche un’altra cosa. Infatti ella condivise fortemente con Berdjaev i valori della libertà, della responsabilità, della scelta, e soprattutto della persona umana. E tali valori risultano strettamente connessi a quella filosofia dell’essere che presso di lui si manifesta con i tratti primari di un’antropologia ancora più forte di quella steiniana (in altre parole in lui il concetto di «essere» e quello di «uomo» coincidono quasi totalmente). Eppure la sua filosofia dell’essere differì molto sensibilmente da quella steiniana a causa di un concetto di essere molto diverso.
E tutto questo, quindi, ci permette di analizzare più approfonditamente come ed in che misura, presso Stein, la filosofia dell’essere si sia strutturata in relazione con elementi filosofici tipici del personalismo.
In altre parole questa indagine ci permetterà anche di gettare uno sguardo sulla relazione tra il personalismo steiniano e quello di Berdjaev. Sebbene a questo così complesso argomento sarà necessario dedicare un’ulteriore indagine.
Naturalmente comunque ci riferiremo qui quasi esclusivamente ai testi di Berdjaev e solo di rimando a quelli di Stein, e quindi tutto sommato dando per scontata la visione di quest’ultima. Se così non fosse l’ampiezza del materiale non ci permetterebbe di restare nello spazio di un articolo. Ma intanto il lettore che non è addentro negli studi steiniani potrebbe orientarsi rapidamente in esso per mezzo della sintesi che noi ne abbiamo fatto [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D, oppure anche per mezzo delle diverse opere riassuntive che sono state scritte su di esso.
Intanto devo ricordare che il nostro primo articolo sul tema si riferì integralmente al testo “Das Ich und die Welt der Obiekte” (DIWO) [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951], che fu un’opera solo tardiva (del 1938). Anche su questa ristretta e secondaria base avevamo discusso la differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. DIWO però aveva obiettivi ben più ristretti di quelli perseguiti in altre opere, e cioè aspirava ad affrontare in primo luogo il problema del filosofare in rapporto ad uno dei suoi aspetti tradizionali più fondamentali, ossia la relazione tra Io ed oggetti. L’opera è quindi di respiro molto meno ampio rispetto a quelle che esamineremo in questo articolo, e cioè “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaka Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], che sono state poi anche opere più precoci e basilari del pensatore − rispettivamente del 1916 e del 1923.
Bisogna inoltre dire che in SC il concetto di essere si presenta in maniera ben più diretta e compiuta. Per cui ci è sembrato necessario basarci soprattutto su questo testo per completare le nostre considerazioni sulla differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. Pertanto il presente articolo si baserà soprattutto su SC e CD, sebbene conterrà anche alcune considerazioni tratte da DIWO.
Infine ecco un’ultima considerazione introduttiva. Tutto quello che diremo della filosofia dell’essere steiniana riguarda di fatto in gran parte quel suo pensiero che venne prima della fase mistico-monastica della sua vita ed opera. Quindi quella certa svalutazione di tale filosofia che inevitabilmente ne scaturisce non investe affatto l’interezza e pienezza del pensiero steiniano. Dato che a nostro avviso essi si ritrovano solo nella sua ultimissima fase mistico-monastica, come del resto evidente nella lettura delle sue ultime lettere [Vincenzo Nuzzo, Le caratteristiche del pensiero nella fase mistica dell’opera di Edith Stein alla luce delle lettere 1933-1942, Dialeghestai, 23, 2021]. D’altro canto proprio in questa fase il centro del pensiero steiniano non era già più affatto la filosofia dell’essere.

I- Essere e conoscenza dell’essere. Il problema della “gnoseologia critica”.
Stando a ciò che Berdjaev scrive in SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., II p. 85-88] è davvero difficile distinguere cos’è per lui il mistero dell’essere e cos’è invece il mistero dell’uomo. Di fatto sono per lui la stessa identica cosa. E lo sono soprattutto in quanto entrambi sono degli a priori assoluti tanto dell’ontologia quanto della stessa gnoseologia. Per cui si tratta di fatto di un complessivo a priori non gnoseologico. Ed ecco che già in tal modo l’essere si presenta in maniera assolutamente incondizionata; come senz’altro non si presenta affatto nel contesto della Fenomenologia husserliana. Non a caso Berdjaev sostiene che l’uomo è essere in una maniera così ampia prima di tutto in quanto è microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. Il che significa che, anche ammesso che noi volessimo seguire la linea della riduzione trascendentale dell’essere secondo Husserl, dovremmo comunque andare a ritroso ben oltre lo stesso Io puro (il quale già non è affatto l’Io empirico della psicologia) per poter raggiungere davvero il termine ultimo della riduzione.
Il quale appare qui anche del tutto rovesciato rispetto a ciò che avviene nella visione di Husserl – perché è l’essere antecedente pensiero e conoscenza, e non viceversa.
Ecco allora che, per Berdjaev, l’essere va inteso (insieme all’uomo) come quanto di più originario possa venire mai concepito. Ora è senz’altro vero che, a partire dalla sua fase realistica (coincidente con l’ontologia tomistico-aristotelica), Stein iniziò a concepire l’essere come in qualche modo primario rispetto alla conoscenza ed al pensiero (coscienza). Proprio in questo senso ella lo intese come il Fondamento, e proprio in questo senso ella cominciò a concepire l’Io come in primo luogo esistente. Tuttavia ciò significava che l’essere non veniva più considerato così tanto condizionato dal pensiero-conoscenza da venire di fatto «dopo» di essi nell’ordine della realtà. Ella non giunse però mai a pensare che l’essere venisse non solo «prima» del pensiero-conoscenza ma perfino prima di ogni possibile cosa. Mai insomma ella giunse a pensare che l’essere fosse un radicale originario. Semmai ella lo considerò contemporaneo al pensiero-conoscenza nell’ordine dell’essere. Dunque l’assoluta originarietà dell’essere rappresenta il tratto che più radicalmente distingue la filosofia dell’essere di Berdjaev, rendendola così assolutamente unica.
Oltre a ciò vi è però anche un’altra questione. Stein sicuramente ha trasceso lo gnoseologismo (pensiero-conoscenza) fondante l’essere (che un po’ dappertutto Berdjaev definisce e deplora come “gnoseologismo critico”). Ma è con ciò arrivata per davvero ad una concezione così estrema dell’essere come quella del pensatore russo? Non diremmo che sia stato così perché ella prima approdò ad un’ontologia realista (sullo stampo di quella tomistico-aristotelica e con al centro il concetto di sostanza) e poi addirittura ritornò ad un’ontologia idealistica sebbene ormai intensamente religiosa (sullo stampo di quella agostiniano-platonica e con al centro il concetto di Logos o essenza trascendente). Dunque ella non giunse mai a considerare l’essere addirittura un a priori pre-gnoseologico. Laddove con ciò l’essere viene concepito in maniera molto diversa dall’ontologia realista – nella quale esso è invece appena l’esteriore «mondo fuori di noi» (oggettualità) che trascende il soggetto. Per Berdjaev invece l’essere è in primo luogo un assoluto ed inafferrabile mistero proprio in quanto radicalmente originario. E bisogna ammettere che tale fu l’essere anche per Jaspers [Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956; Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971]. Vedremo però più avanti in che modo il pensatore russo distingue la sua filosofia dell’essere da quella di quest’ultimo.
Di ciò troviamo del resto un preciso riscontro in un altro luogo di SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., I p. 68-75], e cioè laddove scopriamo che, entro la concezione di Berdjaev, tanto la realtà quanto la coscienza stessa si trovano in fondo entro un piccolo mondo (il nostro); soltanto oltre il quale si trova il vero essere in quanto “rigoglio” (pieno ed originario), e quindi come qualcosa che per definizione eccede tutto quanto noi sperimentiamo nel vivere. E qui ciò che noi sperimentiamo e viviamo sono proprio la gnoseologia (coscienza, o pensiero-conoscenza) e l’ontologia esteriore (realtà o mondo), che appunto restano entro i limiti del nostro piccolo mondo.
Da ciò risulta quindi che per Berdjaev l’essere non può venire affatto ridotto a ciò che è appena esteriore alla coscienza. Anzi, commentando alcuni punti di DIWO, vedremo che quest’ultimo è per lui appena il pensiero obiettivato, e quindi è un essere assolutamente inautentico oltre che estremamente riduttivo. Risulta chiaro, quindi, che la sua filosofia dell’essere si trova totalmente al di fuori sia dell’idealismo che del realismo, e si trova pertanto anche totalmente al di fuori del conflitto esistito da sempre tra queste due posizioni. Tanto è vero che, entro il suo tentativo di definire la filosofia (che discuteremo più avanti) – e nel sostenere che la filosofia è totalmente riducibile al filosofare dell’uomo in quanto essere –, emerge un antropologismo assolutamente primario che è quindi carattere tanto della coscienza quanto dell’essere (senza alcuna precedenza dell’uno verso l’altro e senza alcun primato) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, I p. 75-82]. In altre parole la coscienza non è altro che essere per il fatto che l’essere equivale interamente all’uomo (mentre non equivale affatto alla coscienza, come invece l’intera filosofia idealistica aveva tendenzialmente pensato). Ancora una volta, quindi, l’«essere-in-quanto-uomo» (unitamente all’«uomo-in-quanto-essere») precede la coscienza in modo totale e radicale, in tal modo fondandola e pertanto rendendola anche del tutto secondaria. Ne risulta allora che la coscienza non fonda un bel nulla (diversamente da ciò che Husserl pensò, del resto accompagnato da Stein per molto tempo). È però vero anche che lo stesso mero «essere-esteriore-alla-coscienza» non è assolutamente fondante. Ed ecco allora l’esclusione tanto dell’idealismo che del realismo. Su questa base Berdjaev fornì poi la sua definizione della filosofia: “La filosofia è appunto l’autocoscienza che l’uomo ha del proprio ruolo sovrano e creatore del cosmo”. Ecco insomma un’autocoscienza quale puro atto umano che trascende la coscienza in quanto entità oggettiva.

Ed è proprio in tale contesto che emerge in lui l’elemento ontologico fondamentale che è costituito dalla relazione tra microcosmo e macrocosmo, laddove il microcosmo è poi l’uomo stesso. L’uomo, insomma, è esso stesso un universo nel mentre l’universo è esso stesso uomo. Il che significa che il macrocosmo (grande universo) sta in lui e non fuori di lui. Macrocosmo e microcosmo sono quindi in verità simultanei. Pertanto proprio come microcosmo in relazione con il macrocosmo l’uomo partecipa del Logos universale. E precisamente partecipa di esso impersonandolo nella propria essenza, com’è stato sempre illustrato nelle varie postulazioni metafisiche e teosofiche di un Uomo prototipico o “Macroanthropos” (ossia Adamo e Cristo insieme) [Nikolaj Berdjaev, Il senso… cit., I p. 75-82, II p. 85-113, VI p. 190-196, XIII p. 370-374]. E bisogna dire che anche la stessa Stein non mancò di postulare più volt tale entità nel suo libro dedicato alla costruzione della persona umana [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001].

Ora, la filosofia dell’essere steiniana non solo non si pose mai fuori dell’ambito filosofico idealismo-realismo, ma, oltre a ciò, oscillò di fatto continuamente tra le due prese di posizione. Essa infatti può (a seconda delle fasi e dei punti di vista) venire considerata in parte realista ed in parte idealista. E proprio per questo, entro la nostra tesi di dottorato [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018] parlammo a tale proposito di un «idealismo realista».
In ogni caso – sulla base delle riflessioni di Berdjaev −, se proprio noi vogliamo parlare dell’essere in quanto «mondo fuori di noi» (essere esteriore alla coscienza), dobbiamo allora ammettere che la sua estensione è molto maggiore di quella che possiamo pensare basandoci sulle mere apparenze (incluse quelle metafisiche). Esso insomma va ben oltre i limiti dello stesso mondo esistente, percepibile e pensato. Ossia è un integrale ed inafferrabile mistero più che invece un’evidenza metafisica. E di nuovo ricorre qui la concezione dell’essere di Jaspers. È certo che (almeno su un piano filosofico-metafisico formale) Stein non pensò affatto l’essere in questo modo – sebbene abbia comunque intuito questo suo carattere definendolo (in polemica con Heidegger) come “magis ignotum quam notum” [Edith Stein, Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 495-499]. Ma aldilà di tutto ciò Berdjaev sta in tal modo pensando anche ad un essere che l’uomo riporta alla sua ampiezza e pienezza trascendente nell’incrementarlo grazie al suo continuo atto creativo (potremo comunque comprendere meglio questo più avanti quando definiremo più precisamente il suo concetto di essere). Ed inoltre egli sta pensando a quella che definisce come “filosofia del futuro”. La quale per lui non è altro che quella in cui sia stata per sempre abolita quella distanza tra conoscenza ed essere che era stata istituita dal razionalismo, ossia di fatto dall’idealismo (nel quale rientra poi senz’altro anche la Fenomenologia husserliana). Ed ecco che allora la conoscenza si presenta come in realtà immanente all’essere, a sua volta concepito nel modo più ampio possibile. E questo è un altro modo per dire che l’essere è un assoluto a priori pre-gnoseologico. Orbene, per quanto Stein si sia non poco allontanata dall’idealismo trascendentale husserliano, appare chiaro che ella non arrivò mai a concepire l’essere in questo modo così estremo.
Berdjaev va però ancora oltre nel dichiarare l’atto creativo umano (dal quale scaturisce proprio l’incremento di essere del quale abbiamo appena parlato) come intoccabile da parte della gnoseologia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 151-153]. Pertanto, data l’equivalenza assoluta tra creazione ed essere, è allora evidente che anche l’essere dovrà essere del tutto intoccabile da parte della gnoseologia. Per la precisione ciò avviene secondo lui a causa della natura della coscienza che noi scopriamo una volta che abbiamo scoperto l’assoluta identità tra essere e uomo. Infatti su queste basi (come peraltro abbiamo in parte già visto) la coscienza si presenta come l’atto di “auto-rivelazione dell’essere”, ossia la rivelazione dell’essere all’uomo da parte dell’uomo e senza alcun’altra premessa. Insomma non vi è alcuna dottrina che possa darci conto della coscienza (come invece avviene entro la Fenomenologia husserliana, e senza che Stein l’abbia mai smentita). Infatti abbiamo già visto che la coscienza non è nulla di oggettivo.
Ed ecco del resto anche perché l’essere e l’uomo sono la stessa cosa – essi sono immediatamente simultanei (dove c’è l’uno c’è anche l’altro). Quindi l’atto creativo umano è qualcosa che giustifica senza venire mai giustificato, e pertanto non conosce alcun “fondamento” ad esso esteriore.
Ecco allora che la stessa autocoscienza umana è assolutamente “originaria e non derivata”. Ossia, essa nasce nell’uomo e presuppone solo l’uomo, e ne è quindi atto assolutamente originario così come l’uomo è assolutamente originario. Per tali motivi l’atto creativo si trova sempre già di per sé sul piano dell’essere, e pertanto o è di per sé già gnoseologia (senza però affatto identificarsi onticamente con essa) oppure non presuppone alcuna gnoseologia. Ecco che l’auto-coscienza è l’uomo stesso, e pertanto è premessa di tutto almeno quanto lo è l’uomo stesso. Ancora una volta diviene così chiaro che la coscienza (ossia il pensiero-conoscenza) non precede, non giustifica, non fonda e non costituisce un bel nulla. E ciò per il semplice fatto che, se lo facesse, essa già cesserebbe di essere «coscienza» e sarebbe invece solo «essere».
Ebbene da tutto ciò deriva che la coscienza (in quando riducibile interamente all’atto creativo) non richiede alcuna dottrina che la giustifichi – essa è cioè ontologia (ossia è l’essere stesso) in quanto è pre-scientifica e pre-gnoseologica. Ma sta di fatto che Berdjaev si riferisce qui alla dottrina gnoseologica in quanto volutamente scientifica, ossia come “gnoseologia critica”, e quindi come ciò in cui la filosofia moderna si è voluta trasformare per poter essere scientifica. Quindi essa sembra filosofia ma in verità tradisce la filosofia. E da ciò deriva allora che le aspettative della riduzione trascendentale fenomenologica (quelle che auspicano la conoscenza come giustificante l’essere) in verità non sono affatto filosofico-scientifiche ma sono invece unicamente scientifiche. Infatti, come dice il nostro pensatore, soltanto in ambito scientifico è necessaria una giustificazione gnoseologica dell’essere. Mentre invece in ambito filosofico l’essere è oggetto di un’intuizione assolutamente immediata ed incondizionata. E bisogna allora ammettere che anche Stein è caduta in questa trappola (in cui è caduta di fatto l’intera filosofia moderna); almeno finché non si è svincolata quasi completamente dalla stessa filosofia moderna per muoversi quasi interamente sul piano della mistica.
Berdjaev chiarisce comunque ulteriormente questa sua posizione nel mentre definisce la gnoseologia critica come una vera e propria “malattia” della cultura moderna. Egli chiama qui in causa Kant e i neo-kantiani nel rimproverare loro il fatto di aver voluto a tutti i costi strappare l’area della creatività conoscitiva dal piano dell’essere, identificandola totalmente con quel giudizio che per definizione esula dall’esperienza immediata. Ed ecco che qualunque trasfigurazione pensante dell’essere (che è sempre un suo arricchimento visionario) è stata in tal modo proibita; come nel caso del religioso, dell’in sé e dell’invisibile. Ma per Berdjaev la creatività conoscitiva coincide anche con il pensiero stesso nella sua pienezza. Per cui, grazie a Kant, è accaduto che di fatto non si potesse più pensare senza prima chiederne il permesso.
Un ulteriore spunto per una nuova filosofia dell’essere può poi venire trovato in SC anche sul piano esplicitamente religioso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 159-164]. Berdjaev auspica infatti anche qui una creatività che superi i limiti dell’esperienza religiosa tradizionale per mezzo di un atto che è in primo luogo conoscitivo e che prevede la fusione tra soggetto ed oggetto, ossia il superamento della distanza tra conoscenza ed essere che poi sempre ha caratterizzato ogni religione. In esse infatti Dio è stato sempre un oggetto di conoscenza molto difficile da definire oppure affatto non definito. Ma proprio questo conoscere Dio è ciò che Berdjaev definisce come il tendere verso il Trascendente. Più precisamente egli auspica in campo religioso un’autentica creazione dell’essere (un suo incremento), per mezzo dello svelamento della divinità laddove essa era prima invisibile. E definisce questo un atto che decisamente va oltre la cultura.
Ma in termini più generali si tratta di una “trasfigurazione dell’essere” che consiste sostanzialmente in una “donazione di senso”.
Ancora una volta egli vede però nella gnoseologia critica ciò che pretende di rendere infondato razionalmente questo atto nell’esigere di giudicare criticamente ogni creatività. Ed in questo essa fa prevalere il concetto di adequazione alla necessità (o più precisamente alla “datità”) in una maniera così forte da far di fatto svanire l’essere stesso. Tuttavia Berdjaev ritiene questa disciplina del tutto incompetente a dirimere sia nei confronti della ricerca di senso sia nei confronti della creatività, dato che il suo obiettivo dovrebbe essere unicamente quello di giudicare circa la scientificità della conoscenza. Ma intanto quest’ultimo non è assolutamente il campo sul quale si possa conoscere il senso dell’essere né l’essere stesso. E quindi per lui la gnoseologia critica risulta del tutto destituita di fondamento nella sua ambizione a porre le condizioni per una filosofia dell’essere. Dunque ancora una volta l’essere appare in Berdjaev qualcosa di pre-gnoseologico ed anche pre-ontologico. Esso insomma esso sfugge per definizione ad ogni «logicizzazione».
Su questa base possiamo allora comprendere in maniera più profonda quale può venire considerata la forma di una possibile nuova conoscenza dell’essere in Berdjaev. Essa appare dipendere strettamente da una nuova definizione della conoscenza, e precisamente una definizione che abolisca qualunque contrapposizione tra conoscenza ed essere: − “La conoscenza non è né esterna all’essere né contrapposta all’essere, essa si situa anzi nel cuore stesso dell’essere ed è un’azione dell’essere. La conoscenza è quella luce solare dalla quale l’essere trae alimento. La conoscenza è lo sviluppo creativo, la crescita solare della vita”. La filosofia dell’essere di Berdjaev appare quindi condizionata alla totale inesistenza di un’impotenza della conoscenza (come quella che è stata considerata un dogma dalla gnoseologia critica entro la cosiddetta «teoria della conoscenza»); il che è poi possibile solo in una conoscenza che sfugga a qualunque giudizio gnoseologico (che per definizione deve concernere unicamente qualcosa di settoriale, e quindi tipicamente scientifico). Ed ecco quindi che la filosofia dell’essere è del tutto incompatibile con qualunque scientificità della conoscenza. Ebbene, appare con ciò evidente che una simile filosofia dell’essere non sarebbe mai potuta insorgere in Stein. Dato che, se vi fu un aspetto nel quale ella non prese mai le distanze dalla Fenomenologia di Husserl, questo fu proprio l’accettazione della teoria della conoscenza. Ma quest’ultima appare costituire per Berdjaev un ostacolo insormontabile alla conoscenza dell’essere e perfino al riconoscimento dell’esistenza dell’essere. E quindi non potrebbe mai e poi mai fondare una filosofia dell’essere.

II- Il concetto di essere.
Possiamo però approssimarci ancora di più alla filosofia dell’essere di Berdjaev se la intendiamo più chiaramente come una primaria ontologia. Il che è possibile cercando di capire cos’è per lui ultimanente l’essere, ossia qual è il suo concetto di essere. Ne possiamo avere un’idea dove egli in SC cerca di definire ultimamente la creatività stessa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. E qui risulta chiaro che, dato che egli considera l’uomo un ente essenzialmente creativo, deve anche considerare l’essere identico alla creatività; almeno nella stessa misura in cui esso stesso è da considerare identico all’uomo.
Bisogna in primo luogo osservare che le sue giustificazioni al proposito sono metafisico-religiose, ma come tali così estreme da rasentare perfino l’eresia teologica; almeno nel contesto della classica ontologia dogmatica cristiana. In questo egli parte infatti da una davvero estrema somiglianza tra uomo e Dio che riguarda non solo l’attitudine ma anche la stessa potenza creativa. Il che significa che di fatto l’uomo genera letteralmente l’essere esattamente come fa Dio. E qui è piuttosto evidente che la sua dottrina si approssima non poco a quella dell’onto-generazione che Nietzsche attribuisce all’uomo specie nel contesto di “volontà di potenza” [Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi Milano 2006, II, p. 31-51; Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Roma 2005, 54-88 p. 50-63 89-98 p. 63- 66]. In particolare Berdjaev sostiene che necessariamente il “creato” deve essere creatore, così come lo è Colui che lo ha creato. Il che riguarda pertanto non solo l’uomo ma anche il mondo creato stesso.
E proprio qui veniamo al punto decisivo, perché questo non è per lui affatto un dogma infondato, bensì è invece qualcosa che scaturisce direttamente dalla natura stessa dell’essere. Infatti è tale solo ciò che è possibile in quanto deve costituire per definizione e necessariamente “qualcosa di nuovo e di mai visto prima”; e non invece “precedentemente dato”. Il che poi non vale affatto solo per l’origine dell’essere ma forse ancor più per il suo persistere nel tempo, ovvero il suo continuare ad esistere. Ne consegue che l’essere può esistere e sussistere solo in forza di un continuo suo incremento e crescita, ossia il dinamismo – infatti se invece fosse stabile esso perirebbe senz’altro per esaurimento. Ed ecco allora che il concetto di essere esclude radicalmente non solo qualunque staticità ma anche (e soprattutto) qualunque genere di “redistribuzione” di ciò che già «è». Cosa che spazza via tanto la visione tradizionalmente scientifica dell’essere (come quella della fisica naturalistica e materialistica ed anche dello stesso evoluzionismo, nonostante il dinamismo al quale esso si appella) quanto anche la metafisica nella sua versione emanatista. Infatti l’emanazione, per Berdjaev, implica necessariamente una materia eterna alla quale attinge il flusso che intanto (del tutto involontariamente) promana dal Divino (ossia si limita a traboccare da esso), e che ha poi il grave difetto di esporsi all’inevitabile esaurimento. È evidente che ciò implica sul piano metafisico una del tutto necessaria “creazione dal nulla”, mentre contraddice necessariamente il concetto di «materia eterna» che era stato in comune tra Platone e Aristotele. Ed ecco allora ultimamente giustificata la creatività – essa deve essere carattere necessario del mondo e quindi (in via di principio) anche dell’uomo. Tuttavia per lui la vera e piena creatività (per somiglianza a Dio) esiste solo per l’uomo, dato che esso è l’unico ente la cui anima sussista da prima della creazione. E qui viene indirettamente chiamato in causa il Logos stesso.
È inoltre su questa base che per lui l’uomo è da considerare creativo per definizione, e come tale libero nella stessa misura in cui lo è Dio. Ed abbiamo visto prima in che modo l’uomo esplica questa sua creatività simile a quella divina – cioè attraverso una trasfigurazione dell’essere che è sostanziale incremento, ed inoltre consiste più in particolare nel lasciare emergere (specialmente sul piano conoscitivo ma intuitivo e visionario) aspetti dell’essere che prima erano nascosti. Proprio per questo Berdjaev ritiene che l’uomo è chiamato da Dio ad un’opera di vera e propria continuazione della creazione, che più precisamente consiste nel porre rimedio alla originaria incompletezza di essa (ma da Dio espressamente voluta). E più meno la stessa cosa egli afferma quando rivendica la necessità che l’uomo moderno porti alla luce gli aspetti della Rivelazione cristiana che finora non erano ancora emersi [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Proprio in questo consiste per lui l’assolutamente necessaria “nuova Rivelazione”.
Possiamo comunque guardare tutto questo anche dal punto di vista di Dostoevskij [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., I, p. 5-15]. Berdjaev infatti osservò lo spirito (visionario) di Dostoevskij e non invece la sua opera come letteratura e psicologia. E tale spirito visionario consisté per lui nell’intuizione di “idee” che (molto diversamente da quelle astratte, calme e statiche di Platone) configurano un dinamismo turbinoso e infuocato, e cioè in particolare i destini umani. Come tali esse sono sempre anticipazione di “nuovi mondi”, e quindi in questo senso sono sempre travolgente creazione di essere. Insomma pare che Dostoevskij si sia soffermato dovunque nel mondo vedesse l’insorgere questo turbine, cosa che poi avviene primariamente nel profondo interiore dell’uomo. Più precisamente si tratta di una dimensione in cui mancano forma, misura e freno. Quindi si tratta sempre dell’abisso infuocato rappresentato dallo spirito umano (diversamente dall’anima), che proprio come tale è crogiolo per eccellenza di un nuovo essere futuro.
Ma sta di fatto che l’ontologia tradizionale non a caso ha sempre considerato di fatto inesistenti gli aspetti nascosti dell’essere (il perenne «nuovo») dei quali abbiamo poc’anzi parlato; dato che essa ha sempre preso le mosse dall’essere così come a noi appare attualmente, anche se su un piano metafisico (ossia oltre le mere apparenze sensibili prese in considerazione dalla fisica e perfino oltre lo spazio ed il tempo) e al di fuori dell’immediato attimo anche se considerato intemporale.

In altre parole Berdjaev non sta parlando affatto di una sorta di astruso essere fisico iper-spaziale ed iper-temporale, come oggi è usuale pensare ricorrendo (in filosofia ed in teosofia) ai concetti della moderna fisica quantistica. Né sta parlando del non meno astruso e sofistico essere come Nulla e come Possibilità che fu postulato da Heidegger [Martin Heidegger, Cos’è Metafisica? Adelphi, Milano 2008, p. 44-51; Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010, p. 109-167] nel tentativo di forgiare una neo-ontologia inaudita, ardita ed orgogliosissima che recasse il suo solo nome. Berdjaev, invece, si sta mettendo umilmente davanti al solo mistero dell’essere cercando di evitare qualunque mediazione nel coglierlo. E ciò all’unico scopo di inginocchiarsi davanti alla sua maestà.

Tuttavia per uscire da questi limiti è necessario pre-vedere ciò che ancora non si vede, ossia è necessaria quell’intuizione che è sempre visionaria. Ed infatti Berdjaev considera l’intuizione un atto di importanza cruciale nella conoscenza dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 48-82]. In ogni caso a questo punto (sfiorando così l’eresia teologica) egli considera del tutto insufficiente l’immagine dell’essere che ci viene proposta nel Genesi del Vecchio Testamento, e quindi dalla dottrina cristiana. Essa infatti per lui ignora (o almeno finge di ignorare) il vuoto antecedente l’essere che deve venire presupposto per lasciar emergere la natura di «novità» che spetta di diritto all’essere stesso; e quindi tace circa il vero e proprio Nulla (“abisso pieno di mistero”) dal quale scaturisce l’essere ma che è anche in fondo l’essere stesso nella sua natura ultima. Insomma la natura dell’essere è per definizione abissale e misteriosa, e quindi la sua integralità è per definizione nascosta al nostro sguardo, almeno finché essa non venga portata alla luce. In luogo di tutto ciò per Berdjaev il Genesi si è limitato a porre in evidenza appena il momento del venire alla luce dell’essere grazie al volontario atto creativo divino. In altre parole egli sospetta la teologia cristiana di un atto di occultamento della natura dell’essere. Per questo motivo il nostro pensatore ritiene che la dottrina teologica del Genesi abbia in verità configurato semmai una cosmogonia, ma mai per davvero un’antropogonia. E precisa che invece ciò è avvenuto in teosofie come quella di Böhme [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170], entro la quale compariva proprio il vuoto originario (“Ungrund”). Va registrato però che egli dimentica qui di menzionare la creazione così come si presenta nella Cabbala specie luriana; dato che essa ci mostra in Dio proprio un tragico Vuoto originario, consistente nell’Ein-Sof nascosto dietro il Volto divino (rivolto verso il mondo) e dinamicamente espresso nello “zimzum” ossia un vero e proprio svuotamento interno che scatena la creazione attraverso un’innimmaginabile ed immane concentrazione [James David Dunn, Window of the Soul…cit., p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111].
A tutto ciò egli aggiunge una considerazione etico-religiosa non meno tendenzialmente eretica. Sostiene infatti che sarebbe da ammettere un’originaria “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e bisogno, che sarebbe poi quanto per davvero (nel contesto dell’atto creativo) spingerebbe Dio amorosamente verso l’uomo. E questa è evidentemente per lui la più profonda giustificazione della creazione a somiglianza.
Ora vi sono qui diversi elementi che allontanano di molto la visione steiniana dell’essere da quella di Berdjaev. Fa forse eccezione solo il concetto di “Urgrund” che da lei viene discusso in alcune parti della sua opera [Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p 303-394]; e che a questo punto lascia piuttosto sconcertato lo studioso, indicando forse che anche lei stessa aveva concepito l’atto creativo in maniera molto più estrema di quanto il resto della sua più formale ontologia lasci pensare. Stein comunque sicuramente si attenne nel complesso all’ontologia tomistico-aristotelica nel considerare l’essere come quell’entità metafisica della quale a noi non è nascosto alcun aspetto – si tratta in particolare dell’”essere come tale” del quale Aristotele parlò nella metafisica. Ed è evidente che ciò esclude senz’altro l’intendimento dell’essere come sostanziale «novità» e quindi come sostanziale dinamismo. Le cose cambiano sensibilmente laddove ella successivamente trattò dell’essere facendo ricorso al paradigma trinitario – qui domina infatti quel paradigma dinamico che ella vide nel fenomeno dell’“aus sich herausgehen” (“procedere a partire da sé stesso”) e che quindi contraddice in modo lampante la staticità dell’essere [Edith Stein, Der Aufbau … cit., VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches… cit., VII, 2 p. 307-310, VII, 6 p. 352-356, VII, 9, 6 p. 377-385]. Ma diremmo che questo non modificò di molto la concezione basilare e media dell’essere che ella aveva concepito. Infatti il suo intendimento dell’essere come sostanziale “Fondamento”, e perfino forte “braccio” sostenente ogni cosa [Edith Stein, Endliches… cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113], si rifece senz’altro costantemente all’essere come qualcosa che «è-sempre-già-stato», che non sprofonda da alcun lato nell’Abisso e che infine è senz’altro statico. Oltre a ciò ella non giunse mai a identificare l’essere stesso con la stessa creatività umana (e quindi con la sua libertà), dato che indagò queste ultime sì entro il concetto di creazione a somiglianza ma comunque come “donazione” di essere fatta dal Dio all’uomo, senza che l’uomo stesso abbia posseduto questo carattere fin dall’inizio. Ella insomma intese la creatività umana in maniera ben più moderata di Bedjaev, e quindi senza contraddire in nulla né la classica ontologia dogmatica cristiana né la dottrina teologica esposta nel Genesi. In altre parole Stein non mise mai in dubbio che tale dottrina sia stata anche un’antropogonia oltre che una mera cosmogonia.

III- L’essere e l’uomo. Il nuovo spiritualismo e personalismo, la nuova esperienza religiosa e la morale.
Dell’identità tra essere e uomo abbiamo già trattato, ma conviene richiamare il testo di SC nel quale di essa si tratta molto più direttamente [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 179-182].
Qui Berdjaev dice in particolare che alla nuova concezione dell’essere bisogna far seguire una nuova concezione dell’uomo, e quindi un’antropologia che fino a quel momento di fatto non era mai esistita se non in forme non solo molto riduttive ma anche menzognere (come entro la classica antropologia cristiana o anche nel contesto dell’Umanesimo). L’uomo insomma deve venire inteso come essenzialmente creativo e quindi anche letteralmente creante. Proprio per questo esso va considerato radicalmente originario, e quindi equivalente all’essere stesso nella sua pienezza.
Per questo però è (ancora una volta) secondo lui necessario un nuovo intendimento della conoscenza che allo stesso modo trascenda e superi tutti quelli antecedenti. La conoscenza deve infatti venire intesa come assolutamente attiva e pertanto assolutamente non passiva. Essa pertanto deve divergere da qualunque forma di reazione alla realtà, e dunque anche di adequazione conoscitiva alla datità ed alla necessità che sono proprie del mondo naturale. In altre parole una siffatta conoscenza deve rifiutarsi di accettare il mondo così com’è, puntando invece incessantemente ad una sua trasfigurazione (che poi corrisponde alla messa a nudo di aspetti sconosciuti dell’essere, della quale prima abbiamo parlato). La direzione in cui quest’ultima deve muoversi è per la precisione quella della spiritualizzazione delle cose. E quindi la nuova conoscenza di cui parla deve equivalere ad un vero e proprio spiritualismo, ossia ad una concezione dell’essere che intende le cose come essenzialmente spirituali. Sono spirituali infatti le cose nella loro invisibilità, e restano tali anche quando alla fine vengono alla luce.
Ovviamente però non si può trattare assolutamente del vecchio spiritualismo. E con quest’ultimo egli intende esplicitamente quella concezione cristiana dell’uomo quale persona in possesso del libero arbitrio e capace di agire in maniera eticamente responsabile. Questa concezione infatti aveva per lui sempre mortificato la creatività libera dell’uomo in quanto intanto sottometteva l’essere ed agire umani alla dimensione del peccato. Pertanto era una concezione passiva mascherata sotto le apparenze di una concezione attiva. Essa insomma non concepiva affatto per davvero l’uomo come libero. È evidente che in tal modo ci ritroviamo al cospetto di quel classico personalismo cristiano che a sua volta era stato costruito sempre su un’antropologia tarata sulla Rivelazione cristiana, e incentrata a sua volta sulla Redenzione in quanto prodotto del peccato e della Caduta. Ma Berdjaev denuncia più volte (in tutti i suoi libri) questa dottrina come mero adattamento al mondo della necessità, ossia al mondo decaduto. E la ritiene quindi del tutto inadatta a descrivere e promuovere la creatività libera dell’uomo. In essa infatti l’accento posto sull’azione responsabile è mera reazione alla dimensione del peccato, e quindi è condizionata invece che condizionante. Non a caso, egli dice, essa ha sempre conosciuto solo il concetto di “potenza” (in sé involontaria e determinata) ma mai per davvero quello di creatività (in sé volontaria e indeterminata).
Del resto egli sottolinea che nel Vangelo non vi è di fatto alcuna traccia del concetto di creatività [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Prefazione, p. XL-LV].
Va infine sottolineato che Berdjaev vede lo spazio per questa nuova conoscenza in una “filosofia creativa” che è tale in quanto è incentrata nella dinamicità dell’essere sulla base del relativo concetto che prima abbiamo esposto.
Orbene non c’è dubbio che il personalismo e l’antropologia steiniani (che non a caso pongono fortemente l’accento proprio sulla libera responsabilità dell’azione dell’uomo in quanto persona) ricadano senz’altro entro i limiti di una dottrina che Berdjaev ritiene insufficiente, sterile ed anche poco autentica. E questo ancora una volta fu il frutto dell’atto dell’accettazione incondizionata della dottrina dogmatica cristiana da parte della pensatrice. Dobbiamo quindi pensare che il suo personalismo, a sua volta senz’altro unito ad un forte spiritualismo, rientri esso stesso nei limiti di una visione che il nostro pensatore ritiene superata e del tutto incapace di portare l’uomo fuori dalla tremenda crisi nella quale è caduto a causa proprio del prevalere di dottrine anti-cristiane (come il materialismo, il positivismo, l’Umanesimo, l’evoluzionismo etc.).
Anche rispetto a personalismo e spiritualismo, le cose sono troppo complesse per risolvere entro questi termini la relazione tra il pensiero berdjaeviano e quello steiniano. E quindi anche questo richiederà un’indagine a parte.
Comunque c’è qui da prendere atto del fatto che Stein non riuscì a concepire la creatività come carattere essenziale dell’uomo; sebbene, proprio come Berdjaev, abbia posto fortemente in luce la sua umano-divinità in quanto persona. Questo significa quindi che la sua filosofia (personalista-spiritualista) può e deve ricevere tutto l’apprezzamento che merita, ma non può propriamente venire considerata come creativa.
In ogni caso in SC Berdjaev definisce ulteriormente questa sua visione sul piano sia religioso che estetico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., X p. 297-305]. Egli auspica infatti per il Cristianesimo una “rivoluzione della creatività” che segua all’antecedente e tradizionale “rivoluzione della redenzione”, e quindi lasci apparire un “nuovo essere” specie in forma di “profezia”. Secondo lui infatti l’esperienza religiosa deve cessare di basarsi sul sacerdozio per iniziare a basarsi invece sulla profezia. E qui ritroviamo quindi sul piano religioso quell’incremento di essere che prima avevamo osservato sul piano conoscitivo. Sulle prime non è per la verità ben chiaro cosa Berdjaev intenda esattamente sul piano della prassi religiosa, però più avanti forse ciò diverrà meglio comprensibile. Sul piano artistico però le cose risultano da subito ben più chiare, dato che egli auspica un’arte che si muova verso il “possesso reale della bellezza nel suo essere” (superando così anche l’estremo confine del simbolismo). Ed appare quindi evidente che questa prassi (consistente in una vera e propria celebrazione dell’essere) può e deve venire considerata coincidente una nuova filosofia dell’essere, e cioè quella che coglie l’essere come abissale mistero a sua volta intimamente unito alla creatività. Anche questo ha però una valenza religiosa, perché secondo lui si tratta in realtà di un vero e proprio nuovo essere (“nuovo cosmo”) e quindi del regno dei Cieli. In altre parole la ricerca dell’essere deve venire per lui spostata dal piano (metaforico) dell’arte a quello fattuale della creazione effettiva di essere, ossia al campo dell’azione.
E ciò sposta decisamente l’attenzione dall’arte e dalla religione ad una vera e propria teurgia. Laddove la creazione di nuovo essere deve venire intesa come collaborazione alla creazione ed alla sua continuazione.
Ecco dunque cosa forse egli intendeva per creazione di nuovo essere sul piano religioso – deve trattarsi della collaborazione alla creazione da parte di un uomo riconosciuto ormai come creativo anche dalla religione stessa. Ma qui emerge ancora un nuovo significato della possibile nuova filosofia dell’essere Perché per Berdjaev nella teurgia si rivela “il significato religioso dell’essere”. Precisamente si tratta di “una natura nuova e trasfigurata”, e quindi nuovamente del Regno dei Cieli.
Infine in SC Berdjaev si produce in una nuova definizione dell’essere in relazione alla sua precisazione di ciò che deve venire inteso come personalismo, a sua volta poi in intima relazione con la morale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-329]. Qui in particolare egli auspica una vera e propria nuova rivelazione della persona, e precisamente nei termini di una fortemente rinnovata visione cristiana. Egli intende in SC questo rinnovamento soprattutto come superamento dell’eccessiva morale dell’umiltà, e quindi anche come superamento di un ascetismo che secondo lui è stato sempre fin troppo ossessionato dalla sola salvezza (costituendo in tal modo un’attitudine sostanzialmente egoistica e individualistica)
Il suo discorso parte comunque dalla costatazione che la moderna crisi della morale va considerata in intima relazione proprio con l’insufficienza del concetto di essere, che a sua volta va attribuito tanto all’antica e tradizionale ontologia quanto anche alla progressiva azione corrosiva della gnoseologia critica. Ciò che ne è risultato non è però solo astrattamente conoscitivo bensì anche molto pratico, e cioè è la cronica inesistenza di fatto di una vera “comunione” tra gli uomini. E quest’ultima è stata dovuta poi allo spostarsi sul piano sociale e morale di quella cogente aspirazione all’universalità che intanto aveva sempre dominato nella conoscenza. Ma sta di fatto che il sussistere della comunione non è pensabile senza la creatività (specie morale), e cioè senza l’impegno verso un rinnovamento continuo delle forme, che a sua volta impone tutti i rischi dell’assenza di qualunque stabilità e sicurezza. E qui egli avvalora di nuovo fortemente la critica alla morale di Nietzsche, auspicando che poco a poco l’imperativo morale scaturisca da dentro invece di provenire da fuori (con le cogenze della legge). Ma ciò implica anche la pienezza del valore attribuito all’individualità e quindi alla qualità in luogo della quantità. Il che trova poi il suo riscontro sul piano cristiano con l’affermazione della piena ed incondizionata umano-divinità della persona. Tuttavia per lui quest’ultima resterà sempre inibita e paralizzata finché dominerà l’idea di peccato, a sua volta in intima relazione con l’ossessione per la salvezza e con un sostanziale giuridismo della religione. Ebbene questo sommo valore attribuito alla persona ed alla sua qualitatività corrisponde per Berdjaev ad un intendimento aristocratico e gerarchico del Cristianesimo. E con ciò si tratta in definitiva del nucleo del personalismo, ossia dell’affermazione del “valore assoluto di ogni essere umano”.
Ecco dunque le vastissime e profonde conseguenze che può avere una revisione del concetto di essere in senso creativo anche sul piano religioso.
Infine, sempre in SC, tutto ciò trova la sua espressione nell’indicazione di una nuova prassi rivoluzionaria [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Berdjaev sostiene infatti che essa non deve essere esteriore, e quindi statica in quanto in tal modo rivolta al Passato. Essa è infatti così unicamente una reazione in negativo, e quindi è in sostanza reazionaria. E come tale resta fatalmente sotto il segno del peccato, della Legge ed anche della stessa Redenzione, che secondo lui dev’essere anch’essa superata sul piano della religione cristiana. La rivoluzione deve invece (in quanto creativa) tendere ad una rinascita e quindi alla dimensione cosmica in quanto armonia (quindi ancora una volta alla “comunione”). Deve insomma essere “rivoluzione dello spirito”. E pertanto essa deve cambiare per davvero lo stato delle cose, cosa che può avvenire solo se essa avviene nel profondo (interiore). Se essa invece è superficiale (esteriore), lo stato di cose resterà necessariamente e fatalmente così com’è. Nel senso che non saranno state modificate le premesse profonde dello stato di cose. La rivoluzione deve allora rinnovare le stesse fonti e condizioni dell’essere. Come tale essa deve essere una rivoluzione “mistica”. Deve insomma essere trasfigurazione dell’essere – specie in quanto “nuovo cosmo” incentrato nella “comunione”. Di nuovo siamo in tal modo al cospetto della reale possibilità di un avvento del Regno dei Cieli.
E qui devo ricordare solo per inciso che questa fu anche la posizione espressa da Romano Guardini e peraltro nella stessa epoca in cui operò Berdjaev [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Guardini ritenne infatti del tutto possibile un avvento storico del Regno dei cieli sulla base di un’azione umana altrettanto storica. Anche questo richiederà però un’indagine specifica. Ma bisogna qui ricordare anche che il filosofo italo-tedesco va considerato uno dei più grandi rappresentanti del personalismo.
Queste extrapolazioni dal concetto di essere alla morale si prestano bene a venire integrate da alcune considerazioni tratte anche da CD, opera nella quale appare evidente che molte delle prese di posizione etico-filosofiche ed etico-religiose di Berdajev derivarono molto direttamente dal pensiero che egli attribuiva a Dostoevskij. Innanzitutto si tratta dell’intima relazione che per il nostro pensatore esiste tra essere e libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., Prefazione, 2 p. VIII-XIV]. Infatti La libertà è per Dostoevskij un’entità radicale proprio perché essa ha a che fare con l’essere e non invece con le passioni della psicologia (e quindi con gli elementi meramente funzionali della mente). Essa può dunque costituire a pieno diritto il nucleo di una filosofia dell’essere. A tale proposito va però precisato che la morale di Dostoevskij è soggettiva e non oggettiva. Essa dipende infatti dall’azione dell’uomo come soggetto di libertà, e non invece da astratti principi universalmente oggettivi. E quindi, se la libertà ha un’intima relazione con l’essere, ciò è da intendere come effetto della scelta dell’uomo, a sua volta libero per essenza e quindi originariamente.
Laddove l’uomo libero lascia insorgere l’essere oppure lo annichila a seconda che scelga rispettivamente il bene o il male. Per Dostoevskij il male corrisponde infatti integralmente al non-essere, per cui la scelta di esso configura necessariamente un nichilismo (a sua volta basato sullo scadere della libertà in arbitrio). Berdajev precisa però che tutto questo ha risvolti etico-religiosi davvero estremi, dato che per Dostoevskij il bene senza libertà equivale infine al male stesso. E quindi l’intima relazione esistente tra libertà ed essere comporta il grande scenario religioso di un Cristianesimo (profondamente riveduto e corretto dal pensatore pietrogurghese) nel quale la libertà venga considerato qualcosa di assoluto ed irrinunciabile. Infatti dal sussistere integrale di esso (o meno) dipende il predominio nel mondo dell’essere o del non-essere.
Ecco che una filosofia dell’essere come quella possibile sulla base di Berdajev deve tenere conto di questo come di un elemento assolutamente originario. Per il pensatore infatti (ed ancor più sulla base di Dostoevskij) la libertà è qualcosa di talmente originario da essere ontologicamente abissale, e quindi assolutamente inafferrabile e misterioso. Qualcosa che insomma scaturisce da fonti profondissime.
Orbene, questo non sembra essere affatto vero entro la visione di Stein, secondo la quale semplicemente la libertà è il frutto di quella costituzione animico-spirituale dell’uomo che a sua volta trova una spiegazione del tutto razionale sia entro l’antropologia husserliana sia entro quella cristiana (e quindi in qualche modo è secondaria agli aspetti funzionali della mente, sebbene intesa come anima e precisamente come anima spirituale). Ecco che quindi anche da questo punto di vista la filosofia dell’essere steiniana è molto meno profonda e radicale di quella di Bedjaev.

IV- Filosofia, Io ed essere.
Nel tentare di disegnare in Berdajev una filosofia dell’essere ci si imbatte anche nella relazione di intimità che esiste tra filosofia ed essere (oltre che tra uomo ed essere, tra creatività ed essere e tra libertà ed essere).
Ritroviamo questa relazione in DIWO (che, come abbiamo detto, è stato oggetto del nostro primo articolo ponente a confronto la filosofia dell’essere di Stein e Berdajev), nel quali tutti gli aspetti trattati finora riappaiono nel contesto di un tema che è stato da secoli al centro del pensiero moderno. Ed ecco che la relazione tra filosofia ed essere si presenta laddove il pensatore afferma che (come fa anche in SC) la filosofia è intuizione e precisamente intuizione originaria e primaria che non è deducibile da alcunché se non da sé stessi [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ed è evidente che questa non è affatto la filosofia come viene intesa ormai già da molti secoli. Per Berdjaev è dunque solo mediante una siffatta filosofia che si coglie l’esistenza nella sua ampiezza, pienezza e tragicità, e quindi come destino umano. Ne consegue che il proprio vissuto emotivo è di importanza cruciale. Ed ecco allora che il momento fondamentale del filosofare risulta l’”essere filosofo” più che non la filosofia stessa nella sua oggettività. Ed ecco anche che la filosofia non può costituire appena un indifferente atto tecnico, ma può costituire invece essa stessa solo un essere. Il che implica poi che la filosofia dell’essere non è per nulla l’atto conoscitivo (distaccato per definizione) per mezzo del quale il soggetto filosofante indaga l’essere (in quanto esteriore alla coscienza), ma invece non è altro che il cogliere immediato dell’essere (rivelazione dell’essere nella sua incondizionata pienezza) non appena ci si dispone a filosofare nel mentre intanto si esiste.
Ma tutto ciò sta in relazione con ciò che abbiamo già posto in evidenza, e cioè con l’importanza dell’uomo in quanto persona colto nel pieno della sua creatività. Berdjaev rivendica infatti che colui che filosofa è in primo luogo un uomo-persona, e non invece un impersonale soggetto sottomesso a sua volta alle intimazioni della coscienza trascendentale – come esso era apparso in Kant e nell’idealismo tedesco [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 54-59] E difatti in tal modo l’oggetto resta irrimediabilmente separato dal soggetto in modo tale da non poter in alcun modo costituire una rivelazione di un vero qualcosa (ossia dell’essere).
Il problema è stato quindi per lui sempre l’avvaloramento della conoscenza dell’essere e non dell’uomo. Perché invece, una volta rivalutato l’uomo, ci si accorge che (come abbiamo visto) esso è del tutto identico all’essere – e lo è in forza dell’onticità del suo Io o mondo interiore, ossia in forza del “contenuto ontico” (“seinmäßiges Inhalt”) del proprio Io. Posto questo, allora non sarà più la conoscenza a precedere l’essere, ma sarà invece soltanto l’essere (in quanto uomo) a precedere la conoscenza. Per tali motivi, dunque, l’uomo (l’Io) non potrà mai venire contrapposto all’essere. Ecco quindi una rivalutazione filosofica dell’uomo in quanto né parte della Natura né spirito obiettivato. Come tale esso può infatti essere solo gettatezza (anche se nel contesto di una filosofia come gnoseologia). Ma non può esserlo in alcun modo una volta riconosciuto nella sua piena e incondizionata onticità. Tutto questo significa comunque molto in sintesi che l’Io filosofante (in quanto uomo-persona) va considerato primariamente un esistente.
Tuttavia il considerarlo un esistente non implica affatto considerarlo un ente immanente in quanto gettato nel mondo esistente; ma semmai il Signore stesso perfino dell’esistenza.
Ad evitare qui un mero soggettivismo dobbiamo però fare al proposito delle importanti precisazioni [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-71]. Sappiamo già che Berdjaev considera l’essere come qualcosa che eccede da ogni parte il nostro mondo, soggettivo o oggettivo che sia. Egli parte quindi dal fatto che l’essere non sta né nel soggetto né nell’oggetto. E quindi è del tutto vano tentare di costruire una filosofia dell’essere superando l’idealismo (soggettivismo) in direzione di un realismo (oggettivismo). Va intanto però ammesso che, allorquando si assume la posizione idealistica, compare al massimo una conoscenza dell’essere, ma invece mai l’essere stesso; dato che non si fa altro che produrre un’oggettivazione dell’essere. Questi atti conoscitivi non ci restituiscono dunque mai un’autentica filosofia dell’essere. Berdajev accusa molto direttamente Kant di aver fatto in modo che si scambiasse il pensiero per essere (ma riducendo il secondo al primo), con la conseguenza di un’oggettivazione del pensiero che poi viene scambiato per piena realtà, ossia il famoso «mondo fuori di noi». Ma in definitiva questa era stata ed è restata anche la stessa posizione di quel realismo intellettualistico che aveva trovato la sua espressione nella Scolastica. Anche in questo caso la realtà non era altro che pensiero oggettivato.
E quindi anche il realismo non è altro che conoscenza dell’essere. Ne consegue pertanto che idealismo e realismo convergono perfettamente nel fallito tentativo di costruire una filosofia dell’essere. Ed è stato esattamente così che per Berdjaev è insorta quella “tragedia della conoscenza” la quale consiste di fatto nella conoscenza dell’essere in quanto mera oggettivazione del pensiero.
Da questo egli giunge allora alla conclusione che un’autentica filosofia dell’essere sussiste solo in una vera e proprio “filosofia dell’esistenza” (“Existenz-Philosophie” o ”existenzielle Philosophie”). Solo in essa la tragedia della conoscenza viene infatti superata, e ciò accade perché in essa l’essere dilaga nel trascendere ed inglobare qualunque elemento che fino a quel momento aveva preteso di governarlo e dare ad esso un volto. E nel suo contesto quindi ogni elemento possibile diviene fatalmente un «esistente».
Ma per lui a questa costatazione manca ancora un fondamentale elemento, e cioè un carattere tipico ed estremo dell’essere. Infatti, in base a quanto abbiamo appena detto, l’essere compare ancora in maniera fin troppo chiara ed esplicita (categorizzato), nonostante sia stata ormai tematizzata l’immersione totale e senza scampo dell’Io (o soggetto) nell’esistenza (come per lui è avvenuto al massimo in Kirkegaard). Manca cioè ancora la costatazione che, con tale immersione, l’Io o soggetto finisce per costituire esso stesso l’essere e precisamente come “mistero”, ossia come qualcosa di assolutamente non categorizzabile e quindi inafferrabile. In altre parole, anche quando abbiamo la netta sensazione di aver davanti a noi chiaramente l’essere e addirittura ci sentiamo totalmente immersi in essi (fino al punto di non poter in alcun modo trascenderlo con la nostra conoscenza), noi di esso non possiamo dire assolutamente nulla. Sta di fatto però che solo in questo modo l’essere si configura come un vero “qualcosa” e non invece appena come il discorso “sopra qualcosa”. Ed è esattamente questo ciò che fa della filosofia dell’esistenza una davvero autentica e piena filosofia dell’essere.
Orbene ci ritroviamo qui laddove ci eravamo ritrovati anche già prima, e cioè nel momento in cui noi osserviamo Stein obiettivare chiaramente l’essere prima nell’obiettivarlo come pensiero (seguendo la Fenomenologia husserliana) e poi, come Aristotele e Tommaso, nel concepirne le categorie ed anche nel definirlo come “essere come tale”. Ed è allora evidente che, almeno dal punto di vista di Berdajev, ella non ha affatto costruito una piena filosofia dell’essere. In quest’ultima infatti (nella sua formulazione steiniana) l’essere si presenta in maniera fortemente condizionata, sia che venga concepito in maniera idealistica sia che venga concepito in maniera realistica.
Detto questo, Berdjaev pone a confronto le grandi filosofie dell’esistenza, e cioè quelle di Heidegger, di Jaspers e di Kirkegaard, e deplora peraltro il pessimismo tragico delle prime due. In ogni caso queste ultime sembrano a lui del tutto insufficienti − in quanto quella di Heidegger vede l’esistente unicamente con le caratteristiche molto specifiche del “Dasein”, e quella di Jaspers lo vede unicamente come soggetto sfuggito all’universale nel mentre è dedito all’atto di trascendere le apparenze sensibili verso l’oltre.
Ma il punto sta per lui altrove ed esso viene colto solo da Kirkegaard. Il quale definì davvero in modo pieno l’”esistere” come oggetto primario dell’”esistente”. Ed in tal modo l’esistente viene collocato nel tempo più che non nello spazio. Ma è solo in tal modo che l’obiettivazione dell’essere (statica per definizione e quindi non temporale) viene spazzata via definitivamente; in maniera che l’essere comincia ad emergere davvero nella sua pienezza. In particolare, con l’obiettivazione scompare tutto che è esteriore in quanto oggettuale (per definizione statico), mentre resta invece tutto ciò che è interiore in quanto vero immanente. Ed ecco allora che il soggetto conoscente, una volta posto solo come esistente nel tempo (ossia colto come l’“esistere” stesso), finisce per scomparire dal novero delle oggettualità. È in tal modo che Berdajev sostiene insomma nuovamente che uomo ed essere sono la stessa cosa (il che rende del tutto superfluo postulare un Io o soggetto posto di fronte all’essere).
Tuttavia la filosofia dell’essere emerge qui anche per un altro motivo, sempre sostenuto da Kirkegaard. Infatti, dato che il filosofo è in primo luogo un esistente, anche la filosofia lo sarà – ossia la filosofia in primo luogo esiste. E solo in tal modo essa non sarà più una filosofia «sull’esistenza», ma sarà invece una filosofia «dell’esistenza». Ecco dunque la vera filosofia dell’essere.

Conclusioni.
Ebbene, rispetto a quanto era emerso nel nostro primo articolo, ci sembra che qui sia divenuto ben più chiaro come si possa e debba intendere la filosofia dell’essere in Berdjaev, e quindi quanto essa sia diversa da quella di Stein. Nel precedente articolo (e sulla base di DIWO) l’aspetto che stava in primo piano era soprattutto quello dell’Io in quanto esistente (nel contesto dell’identificazione dell’essere con la dimensione interiore); che a sua volta aveva indotto Berdjaev a considerare la filosofia dell’esistenza come la più autentica filosofia dell’essere. E ciò convergeva del resto con alcuni aspetti di quell’Essente che Stein aveva posto al centro della sua filosofia metafisica.
Tuttavia la lettura di SC e di CD ci ha mostrato che il concetto di essere di Berdjaev è ben più complesso e profondo di questo, e quindi va ben oltre la definizione di ciò che è davvero l’«Io» e del rapporto di quest’ultimo con l’essere in generale e con l’essere oggettuale (il mondo degli oggetti che è esteriore alla coscienza). In particolare abbiamo visto che in SC il pensatore russo definisce in maniera davvero ultima l’essere ed inoltre lo equipara all’uomo, alla creatività ed alla libertà. E ciò dà vita non solo ad una visione filosofica che per molti aspetti è davvero oceanica (tanto che contiene spunti per molte altre ricerche), ma inoltre configura una filosofia dell’essere dai tratti estremamente ampi, profondi, complessi e soprattutto misteriosi. In altre parole non si tratta affatto solo dell’identità riconosciuta tra filosofia dell’essere e filosofia dell’esistenza. Si tratta invece di una filosofia dell’essere entro la quale il concetto di essere si presenta come radicalmente abissale ed originario, così come lo sono anche i concetti di uomo, di creatività e di libertà. Il concetto di essere insomma finisce per essere esattamente equivalente alla stessa fenomenologia creativa (e creazionale) colta in tutta la sua così prodigiosa ed ineffabile produttività. E ciò avviene inoltre nella quasi perfetta equivalenza riconosciuta tra la creatività divina e quella di un uomo il quale (per amoroso dono divino) è in primo luogo libero.
Ebbene, questo così ricco, complesso e significativo assetto della filosofia dell’essere berdjaeviana non poteva non indurci a prendere di nuovo in esame la sua possibile relazione con quella steiniana. Ed ancora una volta (così come nel primo articolo) nell’indagine è emerso che quest’ultima è di ampiezza, profondità e radicalità molto inferiori alla prima. In particolare in essa il concetto di essere non è affatto così estremo e profondo come quello di Berdjaev, e quindi si presenta molto meno come un autentico ineffabile mistero. Mistero che però trova di fatto la sua piena manifestazione nell’uomo. Come abbiamo visto nel primo articolo, però, una volta che noi concentriamo la nostra attenzione sul concetto steiniano di Essente, l’immensa di distanza che separa le due filosofie dell’essere risulta almeno un poco accorciata (per questo però invitiamo il lettore a consultare quell’articolo). Ed inoltre anche in questa nuova indagine abbiamo dovuto constatare che, qualora noi concentriamo la nostra attenzione sull’ultimissima fase mistico-monastica della vita ed opera steiniane, allora l’insufficienza della sua filosofia dell’essere cessa di costituire un criterio di giudizio del suo pensiero − giudizio tendenzialmente negativo, ma solo molto relativamente e metaforicamente.
Detto questo, allora, possiamo concluderne che senz’altro l’analisi del pensiero berdjaeviano ci permette di constatare che la via steiniana alla filosofia dell’essere non fu affatto (nel tempo in cui operarono i due pensatori) né l’unica praticabile né quella più piena, produttiva ed avvincente. Anzi la filosofia dell’essere di Berdjaev sembra aver colto molto di più l’obiettivo di indagare l’essere in maniera da coglierlo nella sua pienezza. Quello che è comunque certo è che la filosofia dell’essere steiniana non ebbe alcuna aspirazione ad essere nuova, ma semmai volle espressamente restare entro limiti molto tradizionali.
Ed allora, a fronte di tutto questo, siamo costretti ad ammettere che l’essere non sembra avere affatto quei caratteri tutto sommato razionali e tangibili che esso ha nell’onto-metafisica steiniana.
In particolare esso non appare costituire affatto quel saldo, stabile ed eterno Fondamento che tutto regge e sostiene, e che salva gli esistenti tanto dalla distruzione comportata dal tempo quanto dallo sprofondamento nel Nulla; non appare costituire affatto un’estensione, tanto che (per quanto invisibile e infinita) finisce per coincidere con l’intero mondo creato, o anche universo, e cioè l’elemento in cui ci sentiamo quasi sensibilmente immersi nel nostro esistere; non appare costituire affatto qualcosa che per definizione resta sempre uguale a sé stesso, giustificando e consolidando in tal modo quell’ente che invece continuamente muta, e così trascendendolo nel rappresentare ciò a cui l’ente deve obbligatoriamente rinviare entro la metafisica (ossia il concetto metafisico di essere in senso aristotelico in quanto “essere come tale”). Insomma, a fronte di questa serie di davvero eclatanti negazioni, la stessa espressione «essere» appare in definitiva non solo insufficiente ed inautentica ma perfino falsificante; dato che essa si presenta fin troppo appena come l’opposto del «nulla», e così finisce per lasciar coincidere l’essere con il mero «è»; quindi in definitiva non appare costituire affatto ciò che per definizione continua ad esistere immancabilmente (per sempre) sullo sfondo di ciò che invece continuamente cessa di esistere. In altre parole l’Essere non appare affatto trascendere davvero il Nulla, ma semmai sembra dipendere logicamente da esso (come sua mera negazione).
Dopo aver preso atto delle riflessioni di Berdjaev, infatti, noi ci ritroviamo di fronte ad un qualcosa che non costituisce affatto una salda, stabile e lineare estensione quasi delimitata (sia pure in maniera indefinibile) e provvista dei caratteri di ciò che brilla al sole come un «definito» che è ormai per sempre emerso ed è così sfuggito per sempre alla notte dell’indefinizione e pertanto all’abissale profondità. Ci troviamo invece di fronte all’esatto contrario di tutto ciò, e cioè di fronte a qualcosa che è quello che è unicamente perché sgorga proprio così com’è da un profondo ed abisso oscuro; emergendo così alla luce come ciò che, nel suo persistere infinitamente (vincendo così effettivamente il divenire in quanto morte), non fa altro che divenire incessantemente in quanto perennemente rinnovato «nuovo». E proprio con queste caratteristiche finisce, secondo Berdjaev, per coincidere con la creatività per eccellenza (e quindi anche con la creazione), ed inoltre con l’uomo stesso in quanto ineluttabilmente creativo. È evidente che in tal modo l’essere è qualcosa di abissale, profondo, inafferrabile e misterioso perfino quando viene alla luce. E tale resta anche nel corso di tutto il suo infinito persistere.
Ebbene cos’è questo in termini filosofico-metafisici ed anche filosofico-religiosi? Abbiamo visto già che non è assolutamente l’essere così come concepito da Aristotele (e probabilmente, in qualche modo, anche da Platone), cioè quella “ousía” che in fondo può venire intesa tanto come sostanza quanto come essenza (senza che poi cambi davvero molto nella sua natura). Ma è forse invece l’infinito divenire di Eraclito? O è forse l’eterno «è» che per Parmenide si dissocia perennemente dal non-essere, facendo sì che quest’ultimo equivalga ad un «nulla» che a sua volta cessa immediatamente di avere qualunque senso?
No! Non sembra proprio che sia così.
Ed allora non ci resta che pensare che Berdjaev abbia goduto di una vera e propria rivelazione assolutamente originale e senz’altro visionaria dell’essere, che non trova pari nemmeno in quel grande rinnovatore dell’ontologia che al suo tempo era stato Heidegger. Tanto che, con la riflessione del pensatore russo, l’essere si presenta a noi in una natura assolutamente finora inaudita, e che quindi è immensamente sorprendente.
Ma quali possono essere le basi di tale rivelazione visionaria? Al di là del pensiero di Nietzsche, che viene da lui non a caso spesso menzionato, ed al di là anche del pensiero di Dostoevskij (al quale Berdjaev attribuisce l’intuizione per eccellenza di un essere spirituale profondo che è abissale, dinamico e magmatico per definizione), riteniamo che si tratta molto più dell’essere così come si presenta nella teosofia, e soprattutto in Böhme (anche lui spesso citato dal pensatore) ed inoltre nella Cabbala lurianica (invece da lui non citata). E come tale si tratta di un essere in sé totalmente ed irrimediabilmente misterioso, inafferrabile ed ineffabile, che (pur presentandosi come il perennemente «nuovo») resta in fondo ciò che è anche dopo essere venuto alla luce.
E così è qualcosa che non cessa né cesserà mai di sorprenderci. E perciò finisce senz’altro per esorbitare perfino dall’ambito di quella filosofia e di quella metafisica che inclinano di più a categorizzare (formalmente e rigidamente) ciò che osservano.
Ebbene, possiamo cogliere le grandi conseguenze di tale conclusione nel constatare che, una volta posto questo, possiamo allora solo dire che l’essere non può rapresentare altro che lo stesso Dio creatore una volta colto al di fuori degli infiniti schemi che le più formali filosofia, teologia ed onto-metafisica hanno fatto calare su di Lui per comprenderlo. Ma a questo punto dobbiamo a questo punto ricordare al lettore che lo scopo della ricerca ontologica alla quale Stein si era sentita chiamata molto prepotentemente era stato proprio quello di definire il Dio-Essere, ossia «Dio-in-quanto-essere». Ora è certo (in base a tutto ciò che abbiamo visto in questo articolo) che la pensatrice – abbagliata come fu da Tommaso ed Aristotele e continuamente intralciata come fu anche dai residui di idealismo trascendentale fenomenologico husserliano che erano rimasti nella sua mente – non è riuscita a dare al Dio-Essere il volto che invece Gli è stato dato da Berdjaev. E tuttavia, come abbiamo fatto notare, vi sono nel suo pensiero indizi del fatto che ella deve averlo comunque intuito – come nel concetto di “Urgrund” e nella riflessione sulla Trinità quale incessante flusso di essere impregnato d’amore.
Ed allora non ci resta che spostare totalmente la nostra attenzione sulla valenza integralmente religiosa di questo Dio-Essere nel contesto di quell’esperienza religiosa alla quale Berdjaev stesso perviene continuamente nel corso delle sue riflessioni come loro esito finale ed anche suggello. E tutto questo significa allora che dovremo dedicare proprio a questo tema la nostra prossima indagine su quel materiale di pensiero berdjaeviano che appare essere quasi inesauribile. Infatti l’esperienza religiosa promette di costituire esattamente quell’ambito entro il quale il Dio-Essere si offre a noi con caratteri più prossimi a quelli davvero inusuali e stupefacenti che Berdjaev attribuisce all’essere.
Ma tutto ciò significa forse anche che, nel leggere Berdjaev e nel connetterlo con una grande pensatrice dell’essere come Stein, non si tratta tanto di verificare se la filosofia dell’essere di quest’ultima sia stata o meno insufficiente. Si tratta invece probabilmente molto più di contemplare lo straordinario fenomeno di una stagione della filosofia (corrispondente grosso modo al XX secolo) nel corso della quale, grazie all’apporto di diversi fertilissimi pensatori (e sebbene nel contesto di una grande sterilità e sostanziale insignificanza dei più poderosi ed apprezzati pensatori e sistemi filosofici che intanto li circondarono), Dio stesso ha voluto far progredire in una maniera prima inimmaginabile la conoscenza che noi uomini possiamo avere di Lui.
Il che significa allora anche che in tale contesto è di fatto rinata una filosofia che vuole essere religiosa nel definire il proprio più primario oggetto al di fuori di qualunque riduzionismo razionalista e/o scientista.
Ed infatti proprio Berdjaev definisce spesso la filosofia come religiosa per sua profonda vocazione, aspirazione ed ispirazione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 11-28]. Ciò a causa del fatto che essa da sempre si è occupata di temi misterici (come la reincarnazione e la liberazione). Ma inoltre, anche al di fuori di questo ambito, per lui essa non è mai stata separata dalla religione; nemmeno nelle sue fasi più razionaliste e scettiche (come da Cartesio in poi). Il che per lui si spiega soprattutto a causa della relazione del filosofare umano con l’essere − sulla base del fatto che il filosofo non può mai scindersi dal proprio vivere immerso nell’esistenza che intanto però gli rivela l’essere come mai altrimenti sarebbe stato possibile. A ciò si aggiunge inoltre che secondo Berdjaev la filosofia è necessariamente religiosa perché (a differenza della scienza) tende incessantemente a liberare l’uomo dal mondo; e per questo essa è atto di intuizione (ed anche atto di auto-rivelazione) e non invece mera reazione alla datità del mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 48-68, I p. 75-82]. Il che poi indica che la filosofia è in primo luogo un “atto creativo”, anzi è l’atto creativo per eccellenza; e come tale è la forma stessa di auto-emancipazione dell’atto creativo dello spirito umano.
Il quale in tal modo (ossia nel filosofare) “reagisce al mondo con la conoscenza e con essa si oppone al mondo”. La conoscenza filosofica, infatti, crea “idee sostanziali” che si oppongono alla datità del mondo introducendo così in essa l’”essenza ultra-mondana”. Dunque la filosofia non riflette affatto il mondo così com’è, ma invece semmai lo purifica e trasfigura in forza della propria intuizione del Sovrannaturale.
Per Berdjaev, comunque, tutto ciò implica anche che, per poter essere pienamente religiosa, la filosofia non può in alcun modo sottomettersi a quei criteri che la rendono scientifica, e così la distaccano dal suo vero metodo e dal suo vero oggetto (laddove in particolare l’atto fondamentale dell’intuizione viene sottomesso al giudizio inevitabilmente distruttivo della gnoseologia critica). Ecco che allora, per poter divenire pienamente religiosa (e così costituire anche una davvero piena filosofia dell’essere, obbedendo in tal modo alla sua più profonda vocazione), l’attuale filosofia deve per sempre scrollarsi di dosso l’ossessione che più l’ha tenuta lontana da questo scopo (specie negli ultimi quattro secoli), ossia l’aspirazione ad essere “scientifica”. Per Berdjaev inoltre la religiosità della filosofia ha anche una valenza radicalmente cristiana, dato che la sua aspirazione religiosa trova piena realizzazione di quell’affermazione di Cristo (“Io sono la Verità”) che poi lo qualifica esattamente come l’Uomo assoluto colto nell’atto più pieno del filosofare (quello in cui la verità viene incarnata). Dovremo comunque esaminare tutto ciò più approfonditamente laddove indagheremo l’intendimento di esperienza religiosa che è deducibile dal pensiero di Berdjaev.
Tutto ciò significa allora che l’apparente dissociazione della filosofia dalla religione (iniziata in parte già in Platone stesso) non è da vedere in altro modo che come insufficienza della sua relazione con l’essere, e quindi deficitaria filosofia dell’essere. Ma abbiamo appena visto che l’essere altro non è se non Dio, e peraltro nella sua forma più estrema e sorprendente. Inoltre appare anche evidente che, per poter essere davvero religiosa, la filosofia deve ripensare totalmente sé stessa, giungendo così a darsi un’identità che finora non aveva forse mai aveva avuto il coraggio di avere. Tranne forse nella fase in cui, come dice Schelling, essa era stata sostanzialmente sacerdotale [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10].
E con questa ipotesi direi che questa indagine possa essere ritenuta aver raggiunto quello che era stato fin dall’inizio il suo scopo principale. In altre parole, insomma, dietro le due filosofie dell’essere a confronto (quella di Berdjaev e quella di Stein), noi dobbiamo soprattutto guardare al grandioso fenomeno del rinascere di una fervorosissima e profondissima filosofia religiosa in un mondo nel quale intanto la separazione tra uomo e Dio sembrava invece averla seppellita e liquidata per sempre.
Dunque, poste così le cose, la differenza tra la filosofia di Berdjaev e quella di Stein appare essere molto ma molto minore.

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I- Introduzione
Gertrud von Le Fort ha vissuto una lunga vita a cavallo tra il XIX e il XX secolo – nata nel 1876, è deceduta addirittura solo nel 1971. Il che significa che ha vissuto tutti i momenti cruciali, in gran parte tragici, della storia tedesca e della storia europea. Ed evidentemente ha vissuto anche alcuni tra i più decisivi momenti di cambiamento che hanno caratterizzato la vita della Chiesa Cattolica. Anche per questo i suoi libri (ed ancor più il libro del qual esporrò il testo in questo scritto) meritano una grande attenzione non solo da parte dei credenti cristiano-cattolici ma anche da parte di chi non crede.
Dopo aver studiato teologia, storia e filosofia, Le Fort si diede sostanzialmente alla scrittura, pubblicando molti saggi, romanzi e poesie, tutti incentrati nella fede cristiano-cattolica. E così si guadagnò il titolo di migliore scrittrice cattolica tedesca. Intanto fu sempre molto vicina alla spiritualità carmelitana, tanto che il suo più famoso romanzo fu “Die letzte am Schafott” (“L’ultima al patibolo”), dedicato al triste episodio dell’esecuzione di alcune monache carmelitane durante la Rivoluzione Francese. Anche per questo (oltre che per il comune interesse per la questione femminile vista dal punto di vista cattolico) conobbe molto da vicino Edith Stein; anzi le lettere steiniane testimoniano il sussistere tra loro di un rapporto di amicizia molto profondo ed intenso [Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Erster Teil 1916-1933, ESGA 2, Herder, Freiburg Basel Wien 2010; Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015]. Tanto che Le Fort (lettera 368) si assunse addirittura il compito di visitare i parenti e la madre di Edith Stein a Breslau nel tentativo difficilissimo (ma poi fallito) di spiegare loro la scelta religiosa cattolica dell’amica.
Pare intanto che l’idea lefortiana della mistica fu molto prossima proprio a quella di Stein, ossia fu incentrata nel tema del dolore come strumento fondamentale per la crescita spirituale; specie a causa del fatto che esso spinge verso l’amore allontanando dall’orgoglio (ossia il dominio dell’Io) e quindi tempra l’anima specialmente nel senso del costruire la difficilissima virtù dell’umiltà. Il dolore dunque è mezzo per raggiungere quell’amorosa e sacrificale capacità di “dedizione” (“Hingabe”) che secondo lei caratterizza essenzialmente la natura femminile. Infatti il concetto di dedizione è centrale nell’opera da lei dedicata alla Donna, opera che ora andrò ad esporre e commentare [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Ma anche Edith Stein si dedicò ad una molto approfondita e prolungata riflessione sulla Donna, che trovò spazio in un ciclo di conferenze da lei tenuta presso circoli cattolici nel corso degli anni 30. Il relativo materiale divenne infine un suo libro postumo dal titolo “Die Frau”, “La donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Anzi pare che abbia conosciuto Le Fort proprio in occasione di una di queste conferenze tenuta a Monaco nei locali di una lega di donne cattoliche (lettera 191). Intanto però, nel corso della lunga amicizia che la legò alla Le Fort, Stein aveva fatto la scelta definitiva della vita monastica, e quindi la mistica era divenuta di fatto il suo pane quotidiano. Ebbene, anche la sua mistica fu concentrata sul tema del dolore come decisivo fattore di crescita spirituale ed inoltre sul tema dell’attitudine alla dedizione. Anzi la “dedizione” (“Hingabe”) restò costantemente al centro dei suoi pensieri per poi finire per diventare il viatico che l’accompagnò verso la morte nell’offerta volontaria di sé stessa per la purificazione del mondo dai suoi peccati.
Quindi non ci si potrebbe affatto meravigliare se la sua riflessione sulla Donna presentasse gli stessi tratti della mistica che ritroviamo in Le Fort. Il che è poi giustificato dal fatto che entrambe le pensatrici furono contemporaneamente molto attive nel campo del movimento femminile cattolico. Per verificare questo sarebbe però necessario uno studio comparativo sulle due opere al quale non so se riuscirò a dedicarmi. Intanto comunque le due raccolte di lettere di Edith Stein offrono materiale a sufficienza per venire a conoscenza degli intensissimi scambi di idee che vi furono tra le due donne. E quindi a questo materiale bisognerebbe fare riferimento per comprendere meglio se e quanto Edith Stein si sia riferita anche a “Die Ewige Frau” di Le Fort nel concepire le sue riflessioni sulla Donna. Tuttavia purtroppo non c’è spazio per questo nel contesto di uno scritto che vuole essere solo un’esposizione sintetica dell’opera di Le Fort. Ciononostante, però, colui che conosce anche solo superficialmente la vita ed opera di Edith Stein troverà nell’esposizione di Le Fort non pochi rinvii intuitivi all’esperienza (e relativa riflessione) che la pensatrice visse nell’abbracciare con straordinario entusiasmo la condizione di una donna che è in primo luogo vergine (in principio fallita nella sua attesa di una vita amorosa e familiare) ed insieme sposa di Cristo.
In ogni caso dalle lettere veniamo a sapere che Stein lesse “La donna Eterna” di Le Fort nel 1935 (lettera 365) e ne consigliò anche la lettura ad Hedwig Conrad-Martius (lettera 430). Anzi il libro le fu regalato per Natale dall’autrice stessa. Ed in questa occasione Stein lodò Le Fort per aver ricondotto la realtà della Donna alle sue radici, rendendo in tal modo “superfluo” tutto ciò che era stato scritto fino allora su questo tema. Non è chiaro però dal testo della lettera se ella si riferì con questo alla letteratura cattolica sulla donna, oppure a quella laica e femminista. Comunque Stein apprezzò molto anche gli “Inni alla Chiesa” di Le Fort ed inoltre anche “Die letzte am Schafott” (lettere 371 e 374).
Intanto devo aggiungere a tutto questo il fatto che io stesso negli ultimi tempi ho dedicato un’approfondita riflessione alla Donna paradigmatica (la Donna Eterna, o anche Donna Divina, cioè la Sophia o Sapienza divina, ossia il Femminile metafisicamente paradigmatico) [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Anche in questo libro la tesi centrale consisteva nel fatto che la figura di Maria Vergine va considerata il modello più alto e compiuto di Donna che possa esserci – specie sulla base dei libri di Luigi Grignion de Monfort dedicato appunto al culto mariano ed inoltre al simbolismo della Vergine Maria [Luigi Monfort M. Grignion, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, San Paolo, Milano 2015; San Luigi Maria Monfort, L’amore dell’eterna Sapienza, Edizioni Monfortane, Roma 2002]. E questa è del resto anche la tesi centrale del libro “Die Frau” di Edith Stein. Tuttavia il mio libro restava ancora fortemente influenzato da concetti ed elementi metafisico-religiosi relativi al Femminile che avevo poco a poco assorbito studiando il pensiero «tradizionale», ossia quella riflessione che si riferisce sostanzialmente a contenuti sviluppati nella metafisica filosofica pagana (specie platonica e neoplatonica), nella letteratura gnostica, in diversi testi propri della sapienza esoterico-ermetica ed infine nella sofiologia greco-ortodossa specialmente russa (rappresentata in gran parte da Solov’ëv). Va precisato però che quest’ultima forma di riflessione fu profondamente cristiana specie in quanto rientrava nella fede ortodossa, a sua volta basata sulla Patristica greca (Gregorio di Nissa etc.). L’elemento principale delle mie riflessioni (in gran parte critiche) consisté allora nell’osservazione che l’identificazione di Maria Vergine con la Sophia (o Donna Divina) corrisponde in effetti a null’altro al concetto metafisico-religioso pagano di “Anima mundi”. Laddove quest’ultima era stata sempre considerata come un elemento di raccordo piuttosto statico ed impersonale tra lo Spirito divino-celeste (in gran parte corrispondente all’Intelletto nella sua pienezza o Nous) e la dimensione mondano-corporale-materiale costituita a sua volta in particolare dall’uomo. Ma sta di fatto che nel Paganesimo non vi era alcuna traccia del concetto di Grazia né vi era molto interesse per la Persona.
E quindi la femminile Sapienza divina era un’entità del tutto impersonale e non faceva alcun passo verso l’uomo. Pertanto essa non esercitava di fatto alcuna “misericordia” a favore dell’uomo e del mondo. In altre parole essa non era affatto dinamica in senso discensivo, e quindi si limitava a costituire appena il gradino più basso di un’ascesa al Divino che intanto veniva affidata interamente all’azione umana. Non a caso (specie nel contesto della Gnosi pagana) si pensava che per mezzo di tale ascesa attiva l’uomo potesse deificare sé stesso in maniera assolutamente autonoma e quindi senza ricevere in questo alcun genere di aiuto dall’alto. È evidente che tale visione confligge radicalmente con quella che vede invece la persona di Maria Vergine come un elemento decisivo dell’ascesa umana alla divinità. Essa è infatti la mediatrice per eccellenza tra l’umano e il Divino. Ma in quel libro io mi ero limitato semplicemente a cercare le ragioni pro e contro queste due visioni, e quindi non avevo posto alcun forte accento sul concetto di Misericordia ad opera di Maria Vergine. Tuttavia il libro di Le Fort (addirittura ancor più di quello di Edith Stein) mi ha mostrato che, almeno per chi si sente cristiano, le ragioni stanno tutte dalla parte della visione che concepisce Maria Vergine come un elemento personale e dinamico che è decisivo nell’ascesa umana alla divinità, e ciò proprio in forza del suo movimento discensivo verso l’umano. È esattamente per questo che Le Fort (nel considerarla come il modello e paradigma della Donna) considera Maria Vergine primariamente come una sostanziale “Madre di Misericordia”. E indubbiamente proprio così ella venne considerata anche da Edith Stein. Nelle cui lettere peraltro si ritrovano molti riferimenti al culto di Maria Vergine come “Regina della Pace”, che veniva fervorosamente osservato nel Carmelo di Colonia, dove lei visse la maggior parte della sua vita monacale. Ebbene, a causa di questi miei trascorsi riflessivi sulla Donna, nel descrivere i contenuti del libro di Le Fort dovrò a volte fare riferimento anche ad essa. Ma lo farò sostanzialmente nel correggere le mie convinzioni di allora.
Vi è infine un altro decisivo punto di riferimento del quale dovrò tener conto, e cioè la riflessione sulla donna che poco a poco (negli ultimi due secoli e mezzo) si è andata sviluppando nel contesto del movimento femminista. Orbene non vi è dubbio che sia Le Fort che Stein si sentirono in qualche modo parte dei questo movimento. Anzi pare che, prima di convertirsi al Cattolicesimo, Stein abbia abbracciato le idee femministe in maniera piuttosto intensa. Ma oltre a ciò non vi è dubbio nemmeno circa il fatto che entrambe le pensatrici, a causa della fede cristiano-cattolica che professavano, finirono per non abbracciare mai interamente la visione femminista della donna. Visione che era incentrata su alcuni decisivi e molto specifici elementi −: 1) il reciso rifiuto ad ammettere l’esistere di qualunque «natura» femminile (tanto naturalistico-biologica quanto animico-spirituale), ossia di fatto qualunque forma di “anima femminile” ossia sostanza femminile assoluta; e questo perché la dimensione della donna era invece da concepire in termini unicamente relativi, ossia sociologici e psicologici, allo scopo di poter poi erigere su questo una critica di tipo politico alla sua tradizionale «condizione»; insomma ciò che doveva importare era appunto la «condizione» della donna (storica e relativa, ossia unicamente temporale) e non la sua «sostanza» (a-storica ed assoluta, ossia intemporale) ; 2) la costruzione su questa base di una definizione della donna che si incentrava nella sua differenziazione polemica dalla dimensione maschile; differenziazione che però a sua volta veniva giustificata unicamente in negativo, ossia sulla base della distorsione indotta dalle tradizionali strutture sociali (in gran parte patriarcali), e che infine sfociava nella teorizzazione di una vera e propria necessaria e rivoluzionaria lotta tra i sessi; in altre parole l’approccio femminista (almeno nella sua formulazione media) puntava allo scopo di un sovvertimento totale della relazione sociale e psicologica esistente tra donna ed uomo, e quindi ad una sua vera e propria sua inversione rivoluzionaria con la costruzione di un vero e proprio matriarcato (almeno di resistenza) entro la continua e tenace rivendicazione bellicistica di una finale parità totale tra uomo e donna; 3) l’accento posto sul concetto di «parità tra i sessi» (quale obiettivo finale della lotta politica tra i sessi stessi) veniva infine a chiudere il cerchio dell’intera visione nell’affermazione che non vi è né vi può essere tra uomini e donne alcuna sostanziale differenza se non quella banale, elementare ed etico-politicamente indifferente, che è solo di tipo anatomico-fisiologico; ma tale scontata e banale differenza non deve avere il diritto di costituire la base per alcun genere di differenziazione (sociale, psicologica, etica, politica ed economica) tra uomini e donne, e quindi non ha il diritto di fondare alcuna struttura della relazione tra uomo e donna ed anche della condizione femminile (ovviamente soprattutto sulla base della teorizzazione della naturale superiorità del maschio).
In sintesi dunque il Femminismo affermava che non sussiste di fatto alcuna «natura» femminile, e quindi non è un alcun modo possibile definirne i caratteri, specie in termini negativi, in relazione alla «natura» maschile.
Ora dunque, tanto il libro di Le Fort quanto quello di Stein, nel loro sforzo di definire la natura femminile, dovevano entrare necessariamente in conflitto in modo frontale con questa complessiva e media visione femminista. E per questo nel libro di Le Fort si ritrovano non solo spunti di riflessione anti-femministi ma anche molto esplicite affermazioni in tal senso. Quindi anche di questo tema collaterale dovrò parlare nell’esposizione del testo di Le Fort e nel commento ad esso. Il che però non significa affatto che entrambe abbiano in alcun modo teorizzato l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Cosa che è evidentemente non può venire sostenuta sulla base di qualunque argomento, così come non può venire sostenuta alcuna superiorità dell’uomo rispetto alla donna o viceversa. Quindi, almeno in questo senso, le loro riflessioni restano nell’orbita del movimento femminista; o, per meglio dire, restano nell’ambito degli elementi più giusti e sensati che il pensiero femminile ha messo allo scoperto e rappresentato.
Detto questo sarà risultato chiaro che ciò che mi propongo in questo scritto è in primo luogo di esporre sinteticamente il testo lefortiano in modo da portarlo a conoscenza (nei suoi elementi essenziali) soprattutto a chi condivide l’approccio cristiano-cattolico, specie nell’idea che Maria Vergine sia di fatto il primario modello per l’essere ed agire della Donna secondo criteri in linea con l’ordine divino. In secondo luogo mi propongo però anche di riflettere su questo testo. Cosa che farò con dei commenti ed extrapolazioni che lo connettano da un lato al tema antichissimo della Donna paradigmatica (il cosiddetto «eterno femminino») e dall’altro lato alla moderna discussione sulla donna (nella quale indubbiamente è stato protagonista il movimento femminista) che da tempo è in atto nella società moderna e che ha anche occupato larghissimi spazi della nostra cultura.
Di altri temi interessanti collaterali non potrò però parlare. Mi riferisco in particolare ad una sorta di indagine comparativa tra la visione lefortiana e quella steiniana della Donna. Questa indagine richiede infatti un’analisi testuale molto estesa che ovviamente non può trovare posto in questo breve scritto. Ma probabilmente nel futuro riuscirò a fare anche questo.
Vorrei inoltre anche precisare che (con poche eccezioni) menzionerò la donna sempre indicandola con la lettera maiuscola (Donna), dato che l’intera opera di Le Fort intende parlare del femminile nella sua dimensione paradigmatica.

II- Esposizione del testo e suo commento.
Per chiarezza di esposizione vorrei qui precisare che riporterò di seguito l’intero testo di Le Fort non mancando però di indicare con chiarezza i luoghi testuali (sezioni) ai quali man mano andrò riferendomi, e prendendo comunque come base l’originale testo in tedesco. Devo però avvertire il lettore interessato che il libro è stato anche tradotto in italiano [Gertrud von Le Fort, La donna eterna, Estrela de Oriente, Caldonazzo (TN) 2015], e quindi chi vuole può decidere di verificare quanto ho scritto anche andandosi a leggere direttamente il relativo testo. Tuttavia la mia sintesi potrà comunque servire a chi non intenda dedicarsi alla lettura del testo originale né in tedesco né in italiano.

II-1 Prefazione
L’autrice si è preoccupata di fare precedere al testo una prefazione, e quindi da questa inizierò nella mia esposizione dei suoi contenuti (Prefazione, p. 5-7). In essa viene dichiarato che scopo del libro è quello di esporre il “significato” della Donna dal punto di vista unicamente simbolico (non invece psicologico, biologico, storico e sociale). Inoltre l’autrice precisa che il simbolo (in quanto linguaggio) si riferisce sempre unicamente al metafisico ed all’invisibile. Quindi suo scopo è illustrare il significato sovrannaturale del Femminile, e non invece quello empirico, ossia meramente naturalistico, biologico ed elementare. Dunque, in buona sostanza, il suo scopo è quello di mostrare specificamente nella Donna la portatrice del Divino. Ecco dunque definita la valenza essenzialmente ed intensissimamente religiosa del Femminile. Ed ecco allora che proprio questa può essere considerata (in estrema sintesi) la «natura» della Donna, una volta indagata in termini primariamente metafisico-religiosi. La Donna non è altro che la portatrice del Divino entro il mondano e l’umano. E ciò ci riporta immediatamente alla figura di Maria Vergine − sia come prototipo della fede incondizionata ed incrollabile in Dio (nell’Annunciazione il “si” o “fiat mihi”) che poi fa nascere Dio nell’uomo (conducendo così il credente all’umano-divinità), sia come colei che riporta la Donna Prototipica del Genesi (Eva) alla sua originaria dignità e funzione entro il disegno divino. Vedremo poi più avanti che in verità tale dignità e funzione della Donna non è mai stata offuscata nemmeno dalla Caduta. Anzi è stata semmai da essa esaltata e rafforzata. Per tale motivo, quindi, non vi è alcun motivo per fondare nella Caduta una sorta di obbligatorio e costituzionale disprezzo religioso per la Donna. Questo però è stato purtroppo oggettivamente un errore nel quale è caduta per molto tempo la dottrina più superficiale della Chiesa Cristiana.
Da tutto ciò risulta comunque che, almeno in questi ultimi termini, la «natura» femminile è qualcosa di cui si ha pienamente il diritto di parlare. Ma affatto con l’intenzione tanto di considerarla superiore quanto di considerarla inferiore. In altre parole, grazie all’apporto della metafisica religiosa (specie cristiano-cattolica) il concetto di «natura» femminile può e deve venire svincolato da qualunque significato ideologico-polemico (positivo o negativo che sia). Si tratta invece molto più di descrivere come stanno le cose su un piano oggettivo, che poi in qualche modo è quello per così dire «naturale». Entreremo comunque più avanti di nuovo nel merito di questo decisivo aspetto.
L’autrice precisa inoltre che, nel caso della Donna, si tratta di analogia religiosa e non invece di religiosità vera e propria. Si tratta insomma della descrizione di un’attitudine il cui campo di azione è ben più ampio anche di quello strettamente religioso – non si tratta dunque unicamente della fede in Dio ma anche (ed ancor più) delle ricadute che la fede in Dio ha sull’agire umano. Il che poi fa sì che il carattere femminile si dilati simbolicamente (specie nel senso della protezione dei deboli) potendo venire esteso anche a persone di sesso maschile, oppure presentandosi in emblematiche persone di sesso femminile (es. Caterina da Siena) che hanno occupato nel tempo perfino dei ruoli maschili ed inoltre hanno addirittura presentato anche caratteri maschili. Si tratta insomma in definitiva della descrizione di un’attitudine «di tipo femminile» che si confà naturalmente all’homo religiosus tanto di sesso femminile quanto di sesso maschile. E come vedremo più avanti esso trova il suo culmine senz’altro in quell’attitudine «materna» che a sua volta concorda quasi perfettamente con la virtù della carità, ossia l’amore agapico.
Più precisamente si tratta insomma in sintesi della descrizione della natura simbolica della Donna Eterna.
La quale, in quanto trascendente, deve necessariamente abbracciare in sé esseri e caratteri sia maschili che femminili. Ed in questo senso essa è molto più che una donna naturale. È appunto più che altro un simbolo del Femminile e cioè di quanto va inteso come «femminilità» nel senso più ampio possibile.
Eccoci quindi già di fronte alle riflessioni che io avevo svolto nel mio saggio dedicato alla Sophia in quanto Donna Divina. Infatti è evidente qui che, nel definire quest’ultima, non si tratta affatto dell’identificare Dio stesso con il sesso femminile. Si tratta invece semmai dell’indicazione di quelli che sono i caratteri simbolici dell’eterno Femminino (massimamente espressi in Dio e minimamente espressi nell’uomo), il quale appunto abbraccia in sé maschi e femmine trascendendo così totalmente il sesso empirico. In parole povere si tratta soprattutto della seguente domanda rivolta a noi stessi: − se perfino l’uomo (ente in fondo carnale, naturale e mondano) è fatto in modo tale da riuscire ad amare l’altro come una donna (specie come una madre), allora quanto immensamente ne sarà capace Dio?
Ma a tale proposito ci ritroviamo anche di fronte ad un tema che a volte si può ritrovare in quella riflessione femminista che si sforza di sconfinare perfino nel campo metafisico-religioso. È stato infatti sostenuto da alcuni studiosi che, contrariamente alla tradizionale iconografia, Dio sarebbe in verità una femmina più che un maschio. E ciò sarebbe perfettamente coerente con la sua attitudine insieme amorosa e creativa. Dunque non vi sarebbe in verità alcun Dio-Padre, ma invece semmai un Dio-Madre, ossia un Dio-Donna.
Rimando comunque il lettore al mio saggio per ritrovare alcuni elementi della tradizionale metafisica religiosa pagana, della teosofia e della mitologia che supportano effettivamente questa tesi. Ma intanto sta di fatto che concetti come questi sono stati impiegati dal Femminismo allo scopo di combattere l’idea che il patriarcato avrebbe una fondazione divina. E quindi è chiaro che l’interesse primario è qui di parte e meramente ideologico, ossia non è affatto interessato a scoprire come stanno effettivamente ed oggettivamente le cose sul piano metafisico-religioso. Pertanto le precisazioni di Le Fort ci aiutano non poco a rintuzzare questo tentativo sostanzialmente ideologico, che quindi necessariamente deve corrispondere molto poco alla verità. Quello che si può dire è che Dio, almeno così come appare dal nostro limitato punto di vista umano (condannato a vivere la dualità degli opposti, cioè la polarità), ha aspetti sia maschili che femminili. Ma questo non contraddice intanto affatto il concetto di Dio-Padre, il quale ha giustificazioni metafisico-religiose estremamente profonde e sofisticate (giustificazioni che ho esposto nel mio saggio). In ogni caso, comunque, tale concetto non ha affatto lo scopo di giustificare il patriarcato (almeno non nei suoi aspetti più ideologici, e quindi arbitrari e violenti). E ciò semplicemente perché il patriarcato è qualcosa di meramente relativo al mondano, allo storico ed all’immanente, quindi non ha in sé alcuna valenza religiosa ed assoluta. Questo però è un argomento molto complesso, per il quale devo rinviare il lettore necessariamente al mio saggio.
In ogni caso parla chiaramente contro il discorso strumentale femminista la straordinaria raffigurazione che Michelangelo fece della creazione di Adamo da parte di Dio nella volta della Cappella Sistina. Qui infatti un evidente Dio-Padre protende il suo braccio destro (quello della Potenza) verso l’indice dell’uomo, nel mentre con il braccio sinistro abbraccia proprio la Sophia in quanto Donna Divina. E nel mio saggio ho mostrato che con quest’ultima è da intendere molto probabilmente proprio quel Logos divino nel cui seno giacciono latentemente fin dall’eternità tutti gli enti (in quanto Idee astratte degli enti) che sono destinati a venire creati dal Dio-Padre. E a ciò va aggiunto anche che in una vastissima letteratura (che va dalla teosofia esoterica pagana e cristiana fino alla Patristica specie greca) il Logos in quanto Figlio (nel contesto della Trinità), ossia il Cristo, ha in effetti i caratteri di un Androgino, ossia possiede caratteri maschili e femminili in una perfetta armonia.

II-2 La Donna Eterna, ossia il Femminile trascendente ed assoluto.
Successivamente Le Fort inizia poi a trattare della prima delle tre sezioni del suo libro, e cioè quella dedicata specificamente alla “Donna Eterna”, o “Ewige Frau” (“Die Ewige Frau”, p. 9-29).
In questa prima sezione si parla del Femminile molto in generale, trascendente, eterno ed atemporale, mentre nelle altre due sezioni si parlerà del Femminile concreto ed immanente − prima come temporale (vergine e sposa) e poi come atemporale (madre).
E proprio sulla base di quanto precisato nella Prefazione è evidente che il discorso sulla natura della Donna riguarda primariamente l’eterno (atemporale e trascendente) e non invece il creaturale (temporale ed immanente). Cosa per cui, per l’autrice, la creatura cessa di essere assoluta (ossia un assoluto ed imprescindibile oggetto di conoscenza) e diviene invece relativa. Quindi essa è appena specchio in cui si riflette l’eterno, ovvero “similitudine” dell’eterno stesso. Come tale essa è “vaso” (Gefäß) contenente il Divino. Già questo pone il carattere radicalmente fondamentale della dedizione e precisamente religiosa, ossia subordinazione ontica della Donna alla dimensione religiosa. E questo deve venire necessariamente visto come un carattere fondamentale (assoluto e trascendente) della natura della Donna – la Donna, insomma, sta per sua natura in intimissima relazione con il Divino. In altre parole non vi è dubbio che Eva stessa abbia avuto questo carattere. E quindi, così come nel DNA di Adamo sono sintetizzati i caratteri di tutti gli uomini (maschi) che da lui discendono, allo stesso modo nel DNA di Eva sono sintetizzati i caratteri di tutte le donne (femmine) che da lei discendono. Tra i quali spicca decisamente l’attitudine alla dedizione che poi è anche attitudine religiosa per eccellenza.
Ma qui vi è forse addirittura un timido e larvato indizio per una sua possibile superiorità sull’uomo in quanto maschio, sebbene in totale assenza di qualunque intenzione tanto di dispregio quanto di dominio.
Si tratta insomma di qualcosa di metafisicamente oggettivo di cui bisogna assolutamente tenere conto quando si vuole comprendere la relazione che esiste tra essere umano e Dio. Il che, come poi vedremo, trova puntuale e preciso riscontro in Maria come modello assoluto non solo per la Donna ma anche per la corretta relazione tra uomo e Dio.
E di nuovo ritroviamo qui un elemento di differenziazione rispetto alla concezione pagano-tradizionale del Femminile. Infatti evidentemente la Donna Eterna (diversamente dalla tradizionale concezione della Sophia o Donna Divina) è molto meno qualcosa di metafisicamente ontologico e molto più invece qualcosa di etico in senso specificamente religioso. Essa è insomma molto più una disposizione del Femminile e molto meno invece un’oggettiva entità femminile di tipo metafisico. E tale era (nel mio saggio) sia l’Anima mundi, sia la Sapienza divina (o Logos) associata a quel Dio-Padre che nel pensiero pagano è sostanzialmente l’Uno che trascende vertiginosamente ogni ente. Essa è insomma più che altro una metafora etico-religiosa da applicare al Femminile.
Ma intanto, se seguiamo il discorso di Le Fort, vediamo che proprio applicando questa griglia metaforica al femminile empirico finiscono per emergere i suoi caratteri metafisici, cosmici, misteriosi e religiosi. Ed essi, peraltro, fanno parte di un modello coincidente con Dio stesso, che si presenta tanto all’origine quanto alla fine dell’essere. Quindi tali caratteri mettono a nudo una sagoma del Femminile che occupa di fatto tutto lo spazio dell’essere (sia entro l’eternità sia fuori di essa). Tuttavia bisogna dire che qui finisce per delinearsi davvero qualcosa di effettivamente oggettivo sul piano metafisico-religioso (ossia un’effettiva entità). Infatti l’autrice sottolinea che l’approccio puramente soggettivo al femminile esautora ed annulla totalmente il discorso su di esso, a causa del fatto che lo rende pericolosamente arbitrario. E questo discorso soggettivo sul femminile si ritrova proprio quando si parla di esso come meramente temporale ed empirico. In questo caso, insomma, non emerge alcuna sagoma del Femminile. Quindi qui ci ritroviamo pienamente nel contesto di quella visione femminista che nega il sussistere di qualunque «natura» femminile.
Intanto per Le Fort va però ammesso che la dimensione soggettiva ha una sua legittima giustificazione in quel campo dell’arte sacra. La quale si sforza di dare un volto tangibile alla dogmatica − è insomma uno sforzo soggettivo di rappresentare quella dimensione metafisica che è però in sé solo oggettiva. In altre parole siamo qui costretti ad ammettere una certa licenza poetica, in assenza della quale l’artista avrebbe insuperabili difficoltà nel raffigurare plasticamente realtà evanescentemente divine. E tutto ciò ha per l’autrice un senso e valore particolare in relazione al dogma mariano in quanto manifestazione dell’umano-divinità. Quest’ultima emerge infatti sotto il segno di un’attitudine tipicamente e concretamente femminile (la ricezione passiva, che è poi anche della materia metafisicamente intesa), e cioè l’attitudine al “si” incondizionato (“fiat mihi”). In altre parole, dunque, quella che è un’attitudine meramente naturale e biologica (evidente nel concepimento per mezzo della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo), si dilata e si trasforma sul piano religioso nella «concezione». Ed è allora del tutto coerente (oltre che chiarissimo) che, trattandosi di una realtà puramente spirituale, deve necessariamente trattarsi di un’«immacolata concezione» (atto e fenomeno puramente spirituale). Altrimenti l’attitudine alla ricezione passiva in termini religiosi cesserebbe del tutto di essere una realtà spirituale. E questo spazza via in un sol colpo tutte le vergognose e ridicole perplessità (scettiche e scientiste) alle quale i moderni teologi (tutti privi non solo di fede ma soprattutto di coraggio) hanno aperto la porta nel prendere in considerazione specialmente i dogmi dell’Incarnazione e di Maria.
Rispetto alla metafisica pagana, però, tale attitudine è altamente positiva invece che negativa per eccellenza. Cioè non è un carattere metafisico della materia in quanto sostanza cieca, caotica ed inattiva che somiglia così tanto al non-essere. Essa esprime infatti qualcosa di in verità attivo (e non passivo), ossia la collaborazione della creatura alla Creazione divina. Non solo, ma esprime anche la capacità di rivelare Dio (e la dimensione religiosa) senza frapporre ad esso alcun ostacolo. Ecco il perché della natura religiosa del Femminile.
Tuttavia Le Fort precisa che ciò avviene in maniera tutt’altro che palese, e quindi getta necessariamente su Maria quel velo che poi è quanto caratterizza indelebilmente il femminile in quanto religioso. E del resto abbiamo appena visto che questa intera realtà non può in alcun modo venire compresa in termini meramente materialistici e razionalistici. Si tratta infatti evidentemente di un «mistero» agli occhi di noi uomini fatalmente immersi nella carne. Potremmo dire allora che l’atto femminile di rivelare di Dio avviene sempre solo molto ma molto discretamente. Proprio come avviene per quelle cose che, essendo sacre, sono estremamente delicate e quindi vengono sempre violate dallo sguardo umano. La rivelazione femminile del Divino avviene pertanto solo e soltanto nel luogo più segreto del Tempio, ossia oltre il velo, nel Sancta Sanctorum. Del resto dalla storia di Maria (vedi Maria Valtorta) sappiamo che fin da piccola – e cioè molto prima dell’Annunciazione − ella amava intrattenersi nel Tempio servendo Dio. Ella insomma sapeva già di appartenere totalmente a Dio. Anzi ella si era sentita da sempre una sacerdotessa di Dio.
Ed è attribuibile a questo la sua ostinata decisione alla castità, ossia alla verginità. Cosa che rende ancora più stupefacente il suo atto eroico di accettazione incondizionata della concezione del Divino; con il quale ella di fatto rinnegava sé stessa totalmente fin alle radici del proprio essere. Ma sta di fatto che questa, e solo questa, è la Fede!
In questo senso, dunque, dice Le Fort, la Donna è fatta per illustrare il mistero, e quindi la sua dedizione religiosa è dedizione al mistero metafisico stesso. Il che, come lei precisa, è avvenuto anche molto prima del Cristianesimo con figure come la Sibilla. E di nuovo ci viene qui in aiuto il Michelangelo della Cappella Sistina, dato che egli annoverò tra i profeti anche la Sibilla e la Pizia delfica quale Oracolo del dio Apollo.
In ogni caso per l’autrice la Donna è dedita in termini metafisico-religiosi in tutte le sue forme, le quali vanno tutte oltre il naturale, animale e biologico. Lo è come vergine, sposa e madre. In particolare secondo la maternità. La quale corrisponde secondo lei al momento più forte della missione che è sempre toccata ad alcune tra le più grandi donne della storia, come Caterina da Siena e Giovanna d’Arco. La maternità è infatti in primo luogo protezione e cura, e lo è specialmente verso ciò che non è appariscente, ossia è nascosto. Ecco di nuovo il motivo del velo, a sua volta sempre intimamente unito a quello della dedizione. Vedremo comunque come questo discorso lefortiano diventi ancora più chiaro e forte nella terza parte della sua opera, che è dedicata appunto solo alla madre.
Tuttavia non si tratta solo dell’ascosità dei protetti da parte del Femminile, bensì si tratta anche dell’ascosità che è essenzialmente propria del Femminile stesso. Infatti proprio questo atto protettivo nasconde il Femminile, imponendo un suo ritiro rispetto alla vita pubblica (dato che si tratta di un compito del tutto privato ed in sé tutt’altro che eclatante, ossia un compito considerato di second’ordine). E ciò è tanto vero che la filosofa Hannah Arendt (prendendo a modello la società greca) si è sentita di identificare realmente lo spazio femminile nella società con quello che non ha né può avere alcuna relazione con quel livello eccelso che è occupato invece dalla politica ed è inoltre l’unico che sia davvero caratterizzato dall’esercizio della libertà [Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani Milano, 2008, II, 9-10 p. 49-57, III, 11 p. 58-66]. Per lei infatti lo spazio della donna riguarda gli elementari e brutali fenomeni della vita e della morte, e ciò implica pertanto perfino una certa sua deteriorità. L’ascosità femminile è infatti per lei un fenomeno sostanzialmente deteriore. Mentre per Le Fort esso manifesta in pieno quella grandezza femminile che trova il suo compimento nell’umiltà di una posizione che è di secondo piano soltanto sul piano sociale ma intanto è assolutamente di primo piano sul piano etico e religioso. Proprio per questo tale ascosità non viene affatto subita dalla Donna, ma viene invece voluta e scelta nell’’intuizione (senz’altro sublime) che non sono affatto le apparenze quelle che davvero contano.
La prova di tutto questo sta in fondo proprio il fatto che il contrario di tale attitudine si ritrova nella dimensione negativa che può caratterizzare il Femminile, ossia quella in cui la Donna non fa altro che volere sé stessa, e quindi rinuncia per definizione a qualunque cura dell’altro. Il che ci riporta nuovamente nel campo di quella che secondo il Femminismo sarebbe l’unica prospettiva lungo la quale il Femminile dovrebbe svilupparsi per conquistare la propria dignità.
Per Le Fort invece le cose stanno in maniera del tutto opposta, dato che proprio l’ascosità del Femminile (unita a sua volta all’attitudine alla cura dei più nascosti della realtà sociale) mostra l’enorme peso che esso ha avuto ed ha nella società e nel mondo, oltre che più in generale nell’essere. In altre parole (diversamente da ciò che pensa Hannah Arendt) proprio l’occupazione dello spazio più elementare e basico della società e del mondo fa della Donna il Fondamento stesso dell’essere, ossia una realtà della quale non si potrebbe in alcun modo fare a meno. Ed è evidente che, stando così le cose, lo spazio occupato dall’uomo (maschile) finisce per apparirci come molto più accessorio e secondario, fino a presentarsi addirittura come superfluo e vuotamente retorico. In parole molto semplici potremmo dire che mentre la Donna «fa», l’uomo si limita invece a parlare, se non a blaterare vuotamente ed inconsistentemente.
Non a caso, per l’autrice, tale così preponderante presenza è di nuovo quella che è tipica della Donna Eterna. Infatti questo enorme peso e ruolo della Donna nell’essere (con culmine nel “si” di Maria, la Donna Eterna per antonomasia) trova il suo riscontro negativo nella Caduta che vede proprio Eva come protagonista. Secondo Le Fort qui non si tratta però affatto della mera negatività di un atto che sia stato femminile solo casualmente e quindi incidentalmente. Si tratta invece dell’inaccettabilità di tale atto a fronte di quella naturale grandezza e forza femminile che consiste proprio nella sua religiosità, ossia nel suo esprimere al massimo la relazione tra uomo e Dio. Con l’atto di Eva (prendere il frutto) decade quindi la Creazione nella sua dimensione femminile, ossia dove meno ciò sarebbe potuto e dovuto accadere. In altre parole cade quel muro maestro che era poi quello che mai e poi mai avrebbero dovuto cadere. In particolare si tratta dello svanire della dedizione a vantaggio della signoria su sé stessi, ossia dedizione alla propria volontà. È evidente, dunque, che la Caduta di Eva non mette affatto a nudo una sostanziale deteriorità del Femminile (che avrebbe addirittura profondi fondamenti onto-metafisici ed etici) ma invece rappresenta una tragica de-femminilizzazione del Femminile. Con esso, insomma, la Donna non rivela affatto cosa essa sia veramente, ma invece cessa di essere ciò che essa è veramente. In altre parole essa si svergogna non per essere Donna ma invece per non esserlo più.
Tutto ciò sottolinea l’importanza capitale che ha la Donna nell’essere. Ma inoltre sottolinea anche l’importanza che ha perfino il Femminile negativo. Questo è per la precisione il Femminile che tradisce il proprio ruolo nella mera dedizione ai propri istinti animali. Ci troviamo insomma di nuovo di fronte alla donna che appena vuole sé stessa. E purtroppo proprio questo è quel Femminile che per il Femminismo è un valore invece che un disvalore.
Non a caso per Le Fort tale deviazione implica la caduta del Femminile addirittura nel demoniaco. Come viene illustrato da tutte le figure femminili negative presenti nella letteratura specie tragica – Medusa, le Erinni, le streghe, la Pentesilea di Kleist etc.
Per di più, ella dice, è proprio a causa dell’immensa portata della grandezza della Donna, che la Caduta dell’uomo avviene solo nel contesto della Caduta della donna. È questo ciò che si intende quando, nel Genesi, sembra che Eva abbia sedotto un innocente Adamo trascinandolo nel Peccato, e quindi macchiandosi della maggiore delle colpe. La verità è invece semmai che Eva contava molto più di Adamo.
E quindi proprio per questo la Caduta causata da Eva è molto più rovinosa di quella che sarebbe potuta venire causata da Adamo. Ciò in quanto essa riguarda l’intero essere. Quindi essa apre una prospettiva apocalittica in cui la Caduta finale porterà a termine quella originaria nell’ormai totale infertilità della terra (simboleggiata nell’Apocalisse di Giovanni dall’emersione della Bestia dall’Abisso). Il che rappresenta l’esatto contrario del “si” in quanto incapacità della Donna (Terra) di accogliere e di raccogliere le benedizioni che piovono su di essa.
Le Fort precisa che questa Apocalisse finale è preceduta però da diverse più ristrette e concrete apocalissi, rappresentate dalla degenerazione delle culture. Esse sono insomma storiche e temporali, invece che ultra-storiche ed atemporali. E non a caso proprio in esse svaniscono del tutto i segni positivi del Femminile. Com’e sicuramente il velo. Ed ecco il del tutto non casuale affermarsi della nudità e della vanità femminili (segni della dedizione della donna al piacere ed ai sensi) proprio entro tali contesti degenerativi. Per l’autrice si tratta di segni di “indurimento” (“Enthartung”) della donna, dedita ormai solo alla cura del proprio corpo. Ed eccoci di nuovo di fronte ad un fenomeno che il Femminismo di certo non ha voluto ma al quale ha senz’altro aperto la strada. Vedremo poi più concretamente nelle conclusioni cosa ciò comporti e significhi nella società contemporanea.
Ma tutto queto rappresenta per l’autrice l’esatto contrario della somiglianza uomo-dio (umano-divinità) e della collaborazione della creatura alla creazione, che sono invece i frutti religiosi più tipici della presenza ed azione di un Femminile che resti davvero in linea con la sua profonda essenza o anche «natura».
Ecco allora perché oggi (in un contesto storico ormai sempre più generativo) Maria viene invocata come aiuto (aiuto divino). Ciò avviene proprio perché ella vicaria il decadere della donna storica dal proprio ruolo. In particolare essa è liberatrice perché ripristina quella creatività che dalla creatura può venire solo accolta.
Il che avviene proprio nel contesto della dedizione e della collaborazione. Tutte virtù in cui Maria eccelle in quanto è “ancilla Domini” (ancella del Signore) per definizione.
In questo senso, dunque, la Donna è per davvero capace di benedire il mondo. Il che corrisponde poi soprattutto all’essere madre nell’atto di staccarsi da sé stessa. E qui in particolare la sua maternità è preparazione del mondo per l’eternità.

II-3 La Donna temporale (vergine e sposa).

Nella seconda sezione Le Fort parla molto più concretamente della Donna, cioè della Donna colta nella sua realtà più reale e storica, ossia della Donna immersa nel tempo, o “La donna nel tempo” (“Die Frau in der Zeit”, p. 33-95). È insomma la Donna temporale. E concretamente si tratta in particolare della Donna come vergine e poi sposa. È chiaro intanto che quest’ultima è anche madre, ma di questo aspetto Le Fort parlerà soprattutto nella terza ed ultima sezione. Il che però non significa affatto che la madre abbia un ruolo di secondaria importanza nel contesto della condizione femminile. Anzi è l’esatto contrario (come vedremo appunto nella terza ed ultima parte del libro). Si tratta invece del fatto che la vergine e la sposa (pur appartenendo di fatto alla dimensione più prosaica della vita femminile) sono in via di principio (almeno tendenzialmente) slegate dalla dimensione più fortemente biologica che caratterizza la madre. Cosa che vedremo in particolare laddove la sposa si rivela essere in effetti soprattutto la “compagna” dell’uomo.
Precisato questo, bisogna dire che, con la vergine e la sposa, si tratta insomma di null’altro che della vita femminile colta nella sua massima ordinarietà. E proprio per questo Le Fort si approssima qui quanto mai a diversi aspetti del moderno dibattito sulla Donna in tutta la sua concretezza.
Ebbene essa è per lei come tale per definizione “la metà” − metà dell’uomo come maschio, metà dell’essere umano ed ancor più metà dell’essere. Ma ancora una volta essa è tale come “silenzio” (e quindi nell’ascosità), dato il dominio maschile (che è invece voce e non silenzio) esercitato nei settori chiave (ad esempio nella politica). La presenza femminile è dunque in questo senso “dedizione” (“Hingabe”) − in particolare la Donna appare essere stata ed essere del tutto assente dalla storia. Tuttavia, dice Le Fort, sta di fatto che ormai il criterio che contrassegna la storia è del tutto non personale. Ossia non si riferisce più alle singolarità (grandi personalità) ma invece alla collettività. E quindi oggi la donna è in effetti più che mai dedita proprio alla collettività, ossia alla Totalità. Cosa che rafforza immensamente la sua attitudine alla dedizione.
Tutto ciò ha però un preciso significato anche biologico (oltre che simbolico), dato che la Donna è naturalmente in rapporto alla generazione essendo decisiva portatrice delle disposizioni o caratteri. Ecco che allora la Donna trasmette i caratteri senza però trattenerli e manifestarli, e quindi si limita a tramandarli senza mai appropriarsene (come invece fa l’uomo). E questo è dono disinteressato nel mentre è ascosità cioè ancora una volta velo.
Ma proprio perchè i caratteri della Donna appaiono solo nelle generazioni successive (e non in quella attuale), bisogna riconoscere che essa sta naturalmente in rapporto con l’infinito (anche sul piano meramente temporale ed immanente). Ed ecco che mentre l’uomo è la roccia che ferma il tempo, la donna è invece il flusso che incessantemente lo porta via (essa è insomma ontologicamente dinamica). Ma intanto solo il flusso è formante, mentre la roccia è sempre solo formata. A causa di tutto questo è sì vero che la dimensione maschile corrisponde a ciò che è pienamente personale-singolare (che però in verità appena passa e consuma), mentre invece la dimensione femminile corrisponde al generale (il quale per definizione ferma, ossia conserva). Intanto però, alla luce di tali costatazioni, la dimensione personale appare piuttosto mitigata nel suo così assoluto valore ontologico ed etico. Anzi finisce per approssimarsi molto non solo al solipsismo egocentrico ma anche ad una sorta di superfluo se non insensato dispendio di essere che invece viene completamente a mancare nella dimensione femminile. E non c’è dubbio che allora (sebbene solo in un determinato senso) la dimensione personale appare assomigliare non poco a quanto di più bassamente biologico ed elementare (sicuramente animale) ci sia nell’essere umano, ossia quell’istinto di sopravvivenza che è poi ostinata e perfino feroce difesa dei limiti del proprio essere. Insomma, sintetizzando, la dimensione così fortemente personale dell’uomo (maschio) sembra stare ad indicare una sua inguaribile tendenza a vivere solo per sé stesso, che invece sembra mancare completamente nella Donna.
E a tale proposito bisogna dire che Le Fort prende una posizione molto divergente da quella di Edith Stein, la quale invece difese con molta forza le ragioni del personalismo, specie vendendo nella Persona un valore assoluto ed incondizionato specie perché essa esprime la stessa umano-divinità dell’essere umano. Evidentemente, dunque, Le Fort è riuscita a guardare molto più a fondo in questa realtà, introducendo delle distinzioni delle quali invece Stein non si era affatto resa conto. E ciò va attribuito senz’altro ad una riflessione fondamentale sulla Donna, in assenza della quale probabilmente la dottrina personalista resta incompleta. Vedremo però più avanti che ci sono molte ragioni anche per relativizzare questo tendenziale disvalore della persona. E di nuovo in questo la Donna appare protagonista, specie nella sua condizione esplicitamente religiosa, ossia come vergine e sposa di Cristo, ossia monaca.
In ogni caso, dice Le Fort, la Donna è naturalmente “conservatrice” (“korservativ”). Ed è evidente che lo è però soprattutto in positivo, ossia nel contesto di una disposizione estremamente generosa e perfino sacrificale. Essa insomma fa sì che l’essere stesso persista e venga protetto dal deperimento. E lo fa addirittura a scapito di sé stessa come persona umana.
Intanto però, dice l’autrice, bisogna riconoscere che questa produttività è propriamente della madre. Non è invece della vergine, ossia la giovane donna (o ragazza) ancora senza marito. Dunque è realmente una tragedia (ecco la tendenziale tragicità della condizione verginale sul piano naturale) quando, nel contesto della relativa attesa, non avviene il passaggio dalla seconda alla prima. Tuttavia sta di fatto che tale attesa non realizzata è stata sempre valorizzata (nell’insuccesso e ascosità esaltati come purezza e rinuncia) presso le vergini sacre di ogni tempo e di ogni cultura e religione, inclusa Maria. Qui infatti la pienezza della persona si ha in modo invisibile all’uomo e visibile invece solo a Dio; quindi su un piano molto più alto che è del tutto sovrannaturale. In particolare in tale contesto il temporale riceve il suo senso interamente dal sovratemporale. Ed ecco allora che riceve puntualmente il suo premio la così generosa e sacrificale rinuncia della Donna a quanto ogni essere umano ha di più caro (quasi animalmente), ossia a sé stesso come persona.
Ecco quindi che il “mysterium caritatis” (che è tipico della disposizione amorosa femminile) finisce per manifestarsi anche nella vergine (in sé fatalmente sterile). È in tal modo che la sua attesa incompiuta viene completata e compensata dallo stato di sposa di Cristo. Nel caso di Maria si tratta della realizzazione su un piano più alto (nonostante il fallimento da vero e proprio non senso dell’esistenza femminile), che corrisponde al suo investimento da parte dello Spirito Santo, a sua volta in relazione con il “si” o “fiat mihi”. In particolare l’amore (mysterium caritatis) viene qui vissuto non nel matrimonio ma invece nella comunità monacale. E così esso finisce per evolvere nel senso di un puro amore per gli altri, entro il quale non vi è alcuno spazio per l’ordinaria ed elementare realizzazione personale. Oltre a ciò (in luogo delle dimensioni assenti) vi è poi la vita di contemplazione dedicata solo a Dio.
Naturalmente però, sottolinea Le Fort, tutto ciò si scontra frontalmente con la mentalità moderna, entro la quale in verità non è affatto chiaro quale possa essere il vero e più autentico senso della persona (al di là del piano elementare e superficiale del quale abbiamo appena parlato). Tutto ciò, comunque, anche se è vero sul piano prevalentemente monacale, vale inoltre anche per la Donna in generale, nella cui dimensione le realtà della madre e della sposa (strettamente intrecciate tra loro e rappresentanti i due sensi della Donna nella storia) di fatto prendono origine entrambe dalla vergine. Come abbiamo visto, infatti, quest’ultima condizione non è meno strettamente legata al mysterium caritatis, anche quando essa non sfocia nel matrimonio e nella vita familiare (come accade nell’attesa fallita). Per cui, nella forma di verginità sacra, anch’essa comporta senza alcuna vera contraddizione una reale condizione matrimoniale (quella di sposa di Cristo e relativa vita monacale), a sua volta dedita all’amore in maniera ancora più intensa ed alta. Del resto, proprio perché la Donna trasmette solo le disposizioni entro la generazione, può molto facilmente venire concepita una maternità puramente spirituale; com’è appunto quella monacale.
Ebbene, proprio a tale proposito possiamo ritrovare in pieno le ragioni di felicità e compimento personale che Edith Stein ritrovò nella decisa scelta della condizione monacale, entro la quale essa si riconobbe pienamente come vergine (tendenzialmente fallita sul piano naturale) divenuta ormai sposa di Cristo.
Si trattò di una compensazione ma anche sublimazione ad una serie di fallimenti che erano avvenuti su molti piani, e che includevano senz’altro anche quello sentimentale. Senz’altro ella aveva ritrovato qui in pieno la condizione sponsale e materna che le erano state negate dall’esistenza. E peraltro tra poco vedremo quanto poco la sponsalità religiosa (sposa di Cristo) sia in effetti in contraddizione con quella naturale. Anche qui, comunque, un’indagine sulle sue lettere e sulla sua auto-biografia renderebbe più chiara ed esplicita questa sua presa di posizione. Ma purtroppo non vi è spazio per questo nel presente scritto ed inoltre vi sono anche molti testi critici che ne parlano abbastanza diffusamente.
Tutto ciò, dice Le Fort, spiega il grande peso che la vergine ha sempre avuto nella storia, come vedremo poi nuovamente a proposito della madre (la quale invece nella letteratura non ha avuto alcuna attenzione). L’importanza che la letteratura ha attribuito alla vergine, corrispondente inoltre al fatto che la Donna è sempre intervenuta sempre nella storia in circostanze straordinarie (come guerre e catastrofi naturali) senza contraddire intanto la sua ascosità nemmeno quando è stata tangibilmente presente. Il che evidenzia una fondamentale dedizione (incentrata nel “si” mariano) nella quale la Donna sempre si è ritirata nuovamente in buon ordine dopo che l’emergenza era passata.
Tutto ciò evidenzia aspetti tipici della dimensione femminile che sono collegati ad un’ascosità, però in questo caso affatto slegata dalla presenza e dall’azione; ed inoltre anche alla stessa grandezza femminile o carisma. Si tratta ancora una volta, insomma, di ciò che si è manifestato nella vita ed opera di grandi personalità femminili (tra le quali senz’altro dobbiamo annoverare anche Edith Stein). Per la precisione siamo così di fronte alla tendenza tipica della Donna a farsi strumento o vaso, ed inoltre a venire «mandata» (vocazione e missione). Ma nello stesso tempo questa attitudine si è sempre coerentemente manifestata insieme alla tipica serie di aspetti solo apparentemente fallimentari della persona (oscurità, insuccesso, non venire capiti, non realizzarsi mai). Tutto ciò corrisponde al tratto tipico dell’azione femminile che è in primo luogo la collaborazione alla creazione (così come anche all’opera dell’uomo), corrispondente a sua volta allo stato di ancilla Domini (Maria). Qui insomma, dice Le Fort, nuovamente un raggio della Donna Eterna (Maria) cade su ogni donna ordinaria, ossia sulla Donna temporale.
In ogni caso va ammesso che in tal modo la Donna finisce per manifestare il valore massimo della persona. E quindi in tal modo finisce per venire rovesciata quella tipica dimensione a-personale della quale abbiamo parlato prima come di un carattere tipicamente femminile. Inoltre più avanti vedremo ancora altri aspetti della relativizzazione della dimensione tipicamente a-personale della Donna.
In tale contesto, con la fondamentale intermediazione di Maria (come modello di Donna, o Donna Eterna), la dimensione della vergine e quella della sposa risultano essere intimamente unite sia nella vita profana (famiglia e matrimonio) che in quella religiosa (Chiesa). Infatti la sposa dell’uomo equivale sempre (almeno in parte e tendenzialmente) alla sposa di Cristo. Ecco che la consacrazione della sposa dell’uomo (celebrata nella Messa nuziale) è non a caso simile a quella della sposa di Cristo (cerimonia dei voti).
E questo perché, sempre grazie a Maria come modello, Dio ha voluto che il fenomeno della generazione, in sé meramente naturale, venisse illuminato dalla sponsalità verginale (di Maria e quindi anche della monaca, o vergine sacra), trasformandosi così in sovrannaturale, ossia in puro amore, e quindi nel mysterium caritatis nella sua massima pienezza. In particolare si tratta dell’accettazione dell’altro come un mondo fatalmente fuori di me, e ciò sul modello del mondo fuori di Dio che il Creatore accetta umilmente affinché la Sua incommensurabile potenza non lo annichili totalmente. Considerazioni profondissime su questo si ritrovano in Simone Weil, specie in relazione alla sua personale interpretazione della capacità di fare la Volontà divina [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Simone Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, I p. 39-40; Simone Weil, Attesa di Dio, Adephi, Milano 2008, II p. 171-198; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 51-84; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016 < http://mondodomani.org/dialegesthai/vn01.htm%5D Le Fort chiarisce a questo punto che il fenomeno in causa, in sé storico e cosmico) è quello della collaborazione tra forze polari dell’intero essere (il maschile ed il femminile), che implica quindi l’amore e dedizione della moglie al marito e viceversa. Il che ha poi precisi risvolti nella cultura, dato che la Donna è sempre presente in essa accanto all’uomo sebbene (in principio volontariamente) in una posizione apparentemente di secondo piano (ascosità). Tuttavia entro tale collaborazione la sposa assume un ruolo di spicco diversamente dalla vergine e dalla madre. Le quali, al suo cospetto, diventano solo secondarie, soprattutto perché più biologiche che non culturali. La sposa infatti è “compagna” dell’uomo per definizione. Il che rivela in trasparenza dietro la sposa un’entità (e relativa condizione) che è ontologicamente ben più fondamentale, dato che essa riveste un valore di portata ben più ampia e più alta. E ciò ha come conseguenza che la sposa non può mai divenire mero strumento dell’uomo, come avviene invece nella generazione (fenomeno che riguarda soprattutto la madre), e quindi mantiene una sua autonomia, oltre che avere un ambito di esplicazione molto ampio. In ogni caso ciò comporta anche che non vi è alcuna consecuzione letterale (né di valore o rango) nella sequenza vergine > sposa > madre. Motivo per cui la sposa ha importanza (nella dimensione femminile) almeno quanto la madre. E quindi non è destinata ad avere per forza dei figli. Come del resto viene pienamente accettato anche dalla Chiesa. Nel complesso Le Fort mette qui in luce nuovamente la dimensione personalistica che è propria del matrimonio in quanto legato più alla relazione (spiritualità sovrannaturale) che non alla generazione (biologia). Ecco spiegata la presenza nella Messa nuziale della menzione sostanzialmente paolina di “una sola carne ed un solo spirito”. Il che implica il passaggio della vergine (attesa, infertilità) a madre (fertilità) per mezzo della sposa su un piano che è ben più che biologico. Oltre a ciò si tratta di una particolare persistenza nel tempo della sposa – è per la precisione della sponsalità connaturata essenzialmente alla donna (già latentemente da quando è vergine) che nel matrimonio raggiunge il proprio compimento e poi si prolunga per tutta la vita (nozze d’argento). Si tratta ancora più precisamente del mistero dell’amore perpetuato per tutta la vita.
Ed esso a sua volta mette nuovamente a nudo Maria come modello della sponsalità connaturata alla Donna. Essa si manifesta infatti anche nella monaca o sposa di Cristo, quale secondo compimento della verginità. L’aspetto primario di ciò è che Maria riceve incondizionatamente lo Spirito Santo in quanto realtà di amore e creazione.
Il sacramento cristiano abbraccia entrambi questi aspetti (sposa dell’uomo e sposa di Cristo) affermando l’intera portata del mysterium caritatis. Il suo aspetto principale è quindi il mistero della creatività.
Le Fort ci ricorda che del resto ciò è sempre stato espresso in letteratura nella descrizione delle coppie famose: − Dante e Beatrice, Michelangelo e Vittoria Colonna, Hölderlin e Diotima, Goethe e von Stein, Wagner e Mathilde Wesendonk.
In tale contesto si manifesta insomma il fenomeno della creazione come dilatazione dell’Io al Noi.
Orbene, su questa base cambia completamente la visione del ruolo e valore della Donna (che evidentemente è stato così frainteso dal Femminismo): − non vi è in realtà alcuna contraddizione tra il ruolo familiare e sociale (cultura) della Donna. Il che fa sì che l’ascondimento previsto dal primo ruolo (in sé in stridente conflitto con quello sociale) perde completamente il suo aspetto deteriore. Qui in particolare la Donna esercita in ogni caso (in famiglia o nella società-cultura) il ruolo di immane importanza che è quello di costituire la metà dell’intero Essere. il che ha una dimensione intellettuale nel “conoscere donna” biblico. Infatti si tratta del conoscere nella Donna l’”altra dimensione dell’essere umano”; il che implica una polarità che è sempre Totalità.
In tal contesto il ruolo di guida della donna per l’uomo (unita inscindibilmente al dono di sé), e la sua risonanza (quasi musicale) con il pensiero maschile, pongono del tutto in secondo piano la necessità della competizione con il maschio. Cosa che nuovamente relativizza non poco le rivendicazioni polemiche del Femminismo. Ma ciò pone inoltre in luce il fenomeno della “rivelazione” della donna. La quale, nel mentre si rivela, resta intanto nel mistero dell’ascosità (inapparenza) per mezzo della dimensione simbolica del velo. Tanto che l’uomo non si rende nemmeno conto di tale rivelazione. In particolare, grazie alla Donna, l’uomo raggiunge la sua pienezza di persona senza nemmeno rendersene conto, ossia senza fare nulla.
Ed in particolare ciò avviene per mezzo del fenomeno dell’interposizione della sposa tra vergine e madre, laddove la sposa stessa risulta essere la pienezza della persona per antonomasia. Specificamente la Donna libera l’uomo dalla sua solitudine ponendolo in correlazione con la Totalità dell’essere. Cosa che l’uomo non potrebbe invece mai fare da solo!
Tutto ciò significa che nell’anonimato (velo) la Donna è in verità il “pilastro invisibile” dell’essere.
E tutto ciò, secondo Le Fort, pone in evidenza la realtà della relazione tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’opera di creazione (specie culturale). Laddove la Donna è un soggetto totalmente anonimo (e per questo subordinato alla collettività invece che alla personalità), ma proprio per questo è possente. Ed in ogni caso tutto ciò getta luce sulle comunità di lavoro esistenti tra uomini e donne (sul piano culturale) e quindi anche su quell’amicizia tra uomo e donna che ha il potere di restare totalmente casta. In ogni caso l’autrice sottolinea che bisogna ammettere il fatto che tutto questo valore della Donna è stato effettivamente oscurato laddove (come nel fenomeno storico tutto tedesco delle “leghe maschili”) è stata affermata la mera unilateralità dell’essere (unicamente maschile). Non a caso in esse, in assenza della collaborazione tra maschile e femminile, il risultato è stato sempre l’infertilità, ossia la non creatività.
Naturalmente interferisce in questo la realtà innegabile del Femminile demonico (con tutta la sua portata inevitabilmente distruttiva), che è dunque qualcosa di esistente incontestabilmente. Ma qui il fattore critico è solo il livello e valore ontologico che si sceglie di attribuire al Femminile. Tuttavia qui perfino l’abisso esistente tra il Femminile positivo e quello negativo ricostituisce comunque la Totalità. In particolare il fatto è che la creazione può essere costruttiva o distruttiva. Tutto dipende in questo dalla presenza o assenza della collaborazione tra uomo e donna.
Ed ancora una volta appare evidente l’effetto distruttivo che il Femminismo ha avuto su questa pur solo tendenziale armonia. Esso ha infatti rigettato ed eliminato (con sdegno) proprio la possibilità di una collaborazione tra maschile e femminile.
Posto questo, Le Fort precida che la Donna dovrebbe in verità essere sempre presente nella vita sociale (e non invece solo in situazioni straordinarie). Perché solo in tal modo la Totalità viene ricostituita. Il che è vero specialmente nella cultura, dato che sono creative solo le produzioni che raggiungono la Totalità. Altrimenti esse alimentano solo un flusso della cultura che è fatalmente frazionato in mille rivoli separati tra loro.
Ma, pur ammesso questo, l’assenza della Donna in tale contesto evidenzia in fondo soltanto l’importanza capitale che ha l’anonimato nella produzione, che a sua volta è connessa ai valori dell’umiltà, del velo, e dell’abbandono; e che a loro volta hanno alla base l’attitudine tipicamente femminile del “rispetto” o “riverenza” (“Ehrfurcht”). Cosa che implica necessariamente la dimensione religiosa. Il che esclude la tendenza al dominio (ossia la Signoria) che è invece tipicamente maschile; e che è sempre tendenzialmente distruttiva o almeno non creativa, e comunque risulta legata indissolubilmente all’orgoglio e quindi all’egocentrismo solipsista.
Le Fort sottolinea che proprio questa disposizione è ciò che ha permesso l’edificazione delle cattedrali.
E qui la sua riflessione converge straordinariamente con quella di Ananda Coomaraswamy nella sua critica molto radicale al protagonismo nell’arte che contraddistingue da molto tempo (in particolare dal Rinascimento in poi) la cultura occidentale in radicale conflitto con quella orientale [Ananda K. Coomaraswamy, La concezione indù dell’arte, in : Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano Adelphi 2011, p. 41-73].
Ebbene nuovamente tutto ciò sta in stretta relazione a Maria come modello − con il suo “si” (“fiat mihi”), a sua volta intimamente legato alla disposizione alla collaborazione alla creazione. Entro la quale la Donna è decisamente modello e guida per l’essere umano in generale, specie sul piano religioso.
Il che sottolinea poi ancora una volta il valore ontologico fondamentale della sposa. In particolare si tratta della consapevolezza del fatto che la creazione umana ha indispensabilmente bisogno di un “plus” divino-trascendente, in assenza del quale il creatore appena naturale è del tutto impotente e sterile.
Ma oltre a ciò è necessario conformarsi ad un particolare aspetto dell’ascosità (che trova la sua piena realizzazione appunto nelle cattedrali), e cioè l’accettazione del fatto che, nel contesto di tale creazione, Dio resta comunque nascosto nonostante la Sua manifestazione. Tanto che Egli stesso accetta di restare nascosto alla propria creazione, affermando così il massimo dell’umiltà.
E sta di fatto che solo la Donna è capace di un simile genere di creazione, specie in quanto nascosta (anonima) creatrice.
Qui ritroviamo nuovamente le virtù tipiche della sposa dell’uomo e anche nello stesso tempo sposa di Cristo. Il che sottolinea il fatto che solo per suo mezzo (per mezzo dell’anima collaborazione) l’uomo riesce a toccare la Totalità dell’essere. Cosa che di nuovo sottolinea la natura inevitabilmente religiosa della Donna. In particolare avviene che solo nel contesto della sua opera lo sguardo dell’uomo viene sviato dalla propria creazione verso la creazione di Dio (che è in verità il solo e vero creatore)
Ebbene secondo l’autrice il misconoscimento di tutto ciò è tipico della modernità, con tutta la sua decadenza (consistente nella separazione tra uomo e Dio), in quanto mera “civilizzazione” e non vera cultura. Nel cui contesto prevalgono non a caso unicamente le grandi personalità dei creatori nel contesto di quel protagonismo dell’artista che giustamente anche Coomaraswamy ha criticato. Si tratta insomma della valorizzazione del solo talento, entro una cultura che è fatalmente “volente sé stessa” e quindi resta relegata entro in confini angusti del tempo e della storia (aldiquà). Per questo essa resta chiusa ermeticamente verso l’eternità e verso l’aldilà. Ecco che qui il mysterium caritatis viene massimamente mortificato.
In tale contesto si affermano allora inevitabilmente solo gli unilaterali valori maschili. E non è un caso che in esso si manifestino i fenomeni (e relativi valori morali) che sono diametralmente opposti alla collaborazione tra maschile e femminile: − tradimento, infedeltà e divorzio (rigetto della sposa). Si tratta in particolare di una “separazione spirituale” entro la quale si affermano la solitudine, l’isolamento del singolo e l’individualismo.
Ebbene, per Le Fort questi sono tutti fenomeni apocalittici, e quindi esprimono la “fine del mondo” (sebbene sotto l’aspetto specifico del tracollo di una civiltà). Il fenomeno di fondo di tutto ciò è comunque l’assolutizzazione della parte rispetto al tutto.
Rispetto a tutto questo Maria costituisce per lei ancora una volta un potente antidoto. Specie in quanto superamento dell’unilateralità e restaurazione della Totalità voluta da Dio: − uomo + donna.
In tale contesto soprattutto il maschile tende a sacrificare l’esistere del nascosto (“forze nascoste”) a quello del mero nudo visibile, che a sua volta corrisponde alla metà misconosciuta dell’Essere. Ed è proprio sotto questo segno che si compie il ripudio maschile della sposa (sia in termini metaforici che letterali). Con ciò avviene però anche il rigetto del mysterium caritatis. L’autrice ammette però che questo oggi vede innegabilmente anche una corresponsabilità femminile. Il che chiama di nuovo decisamente in causa il Femminismo.
Ma intanto Le Fort afferma che un aspetto di tale corresponsabilità (e quindi anche della critica femminista alla famiglia) è comunque positivo, dato che la crisi familiare è stata dovuta anche alla borghesizzazione della famiglia, a sua volta connessa allo svuotamento di qualunque senso religioso di essa. Ciò è avvenuto in particolare nel senso dell’affidamento alla famiglia di un ruolo meramente biologico. La critica femminista a tutto ciò è quindi in principio giustificata. Se non fosse che, secondo l’autrice, essa si è dedicata a riformare appena la superficie dell’edificio e non invece le fondamenta. Laddove questa dimensione superficiale consiste nell’interessarsi della sola questione sociale, e non invece dell’essenza femminile nel contesto dell’ordine dell’essere.
Ma intanto tale presa di posizione corrisponde inoltre alla postulazione di un Femminile trascendente oggettivo (Sophia o Donna divina) entro il pensiero tradizionale; del quale abbiamo già commentato la valenza fortemente riduttiva. In ogni caso, prescindendo da questo riduzionismo, va considerato che (come sottolinea Le Fort) il Femminile è autentico solo se si fa portatore della sua tipica dimensione simbolica, che poi si riassume tutta nel velo.
L’autrice sottolinea comunque il fatto che, non trovando oggettivamente un posto nel sociale, la Donna ha continuato comunque a cercare un suo posto (come da sempre) entro l’ordine dell’essere. Ed anche questo (oltre all’accento posto solo sul sociale) va considerato un aspetto del fallimento del Femminismo.
Esso infatti non ha saputo cogliere la portata sostanzialmente positiva che ha perfino la rinuncia delle donne alla lotta per l’emancipazione. Essa corrisponde infatti ad una tendenza che scaturisce dal riconoscere in sé stesse (anche se in modo vago e confuso) la propria più intima ed autentica natura.
Non a caso, dice Le Fort, proprio per questo la Donna ha continuato a restare sempre intimamente unita alla dimensione religiosa e cosmica.
Eppure, pur ammesso questo, resta il fenomeno tutto moderno (e degenerativo) del dissolversi della “comunità essenziale” (“Wesensgemeinschaft”) un tempo esistente tra uomo e donna. In luogo di quest’ultima si è affermata infatti una mera “organizzazione”, entro la quale la reciprocità (tutta spirituale) è stata sostituita dalla realtà giuridica e commerciale del contratto di scambio. Qui prevale insomma la dimensione del mero “accanto”, che è poi l’aspetto più superficiale e deteriore della Donna come compagna. E, almeno a mio avviso, non vi è dubbio che proprio da qui scaturiscono le attuali aberrazioni della legislazione che concerne il divorzio, che è oggettivamente tutta a sfavore del maschio.
Ebbene, Le Fort sottolinea a tale proposito che un decisivo aspetto sociale e di costume di tutto ciò è stato l’affermarsi della “lotta tra i sessi”. Secondo lei, però, è ingiusto attribuire la responsabilità di questo al solo Femminismo, dato che a tale fenomeno hanno contribuito anche le famigerate “leghe maschili”.
Ma soprattutto il fenomeno è espressione di qualcosa di più profondo, ossia della degenerazione sociale, causata a sua volta soprattutto dalla separazione uomo-Dio. In tal contesto, comunque, quella che era una forma di grande libertà femminile (ossia quella fondamentale relazione solo con Dio che le consentiva perfino di restare in qualche modo “sottomessa” all’uomo nella dedizione) ha finito per diventare mera dipendenza dall’uomo. Si tratta in principio dell’irrigidimento del mysterium caritatis. Ma tale fenomeno ha aspetti controversi e perfino opposti, includendo addirittura anche il fenomeno tutto femminista della mascolinizzazione della donna. Oltre ai fenomeni dello sprofondamento della donna nel mondo dei sensi, ossia nel piacere. E con ciò collimano ancora una volta vari aspetti etici negativi del naufragio dell’amore, del matrimonio e del comportamento sessuale che ho già prima descritto. E tutto ciò evidenzia in definitiva il totale spegnimento del mysterium caritatis e l’insterilimento di ogni dimensione produttiva e creativa.
Le Fort sottolinea che intanto, sullo sfondo di tutto ciò, è venuta a mancare soprattutto la possibilità e capacità della Donna di essere metà. E non vi è dubbio che il Femminismo ha contribuito fortemente a questo sviluppando la dimensione femminile in maniera diametralmente opposta a quella maschile (con il relativo conflitto).
Orbene la via di uscita a tutto ciò sta per lei nel recupero di una dimensione polivalente (e non invece bio-socio-unilaterale) del Femminile, ossia quella dimensione triplice (rivelazione femminile) che è vergine-sposa-madre. Solo grazie ad essa, infatti, il Femminile resta in grado di rinviare alla Totalità nella relazione con il maschile. In particolare si tratta della Totalità femminile che spinge anche il maschile verso la Totalità.
E qui l’elemento chiave è ancora una volta Maria come modello del femminile. Esso infatti esclude per definizione l’unilateralità femminile, e con essa la dimensione unicamente biologica e naturale del Femminile stesso, a sua volta riscattata dalla dimensione religiosa di esso. Nella prima infatti femminile e maschile sono irrevocabilmente separati. Mentre nella seconda essi sono irrevocabilmente uniti. Infatti proprio la Totalità del femminile implica inevitabilmente anche l’unione al maschile. E si delinea pertanto una Totalità del compito: − vergine-sposa-madre. In particolare assume qui speciale rilievo la dimensione della sposa che è sempre anche “compagna” dell’uomo in senso non solo fattuale ma soprattutto spirituale: − compagna dello spirito maschile. E proprio come tale essa è per davvero pienamente metà dell’Essere.
Ebbene ancora una volta in questo senso va rivisto e corretto il ruolo secondario che nel pensiero tradizionale il Femminile avrebbe al cospetto di uno Spirito da considerare come unicamente maschile.
Ecco allora che, in verità, la rigida separazione ontologica tra spirito (maschile) ed anima-corpo (femminile) appare non avere alcun senso.
L’aspetto deteriore della dimensione della compagna è comunque quella dell’”accanto”, ma solo se inteso in senso riduttivo. Mentre è di certo assolutamente deteriore la dimensione del “davanti” (della donna verso l’uomo).
A tale proposito Le Fort sottolinea comunque le ragioni storiche oggettive che il Femminismo ha avuto nel denunciare l’esclusione della donna specie nel campo dell’impegno o lavoro. Ma intanto sottolinea anche che l’impegno più congeniale (ed anche esemplare per l’uomo) della Donna è in verità quello di amare Dio; il che implica poi un “si” (“fiat mihi”) che a sua volta è alla radice della creatività basata sulla dedizione amorosa. Pertanto la rivendicazione dell’emancipazione non rappresenta in tale contesto alcuna vera soluzione. Specie in quanto essa non tiene affatto conto della natura femminile, nel mentre afferma appena una mascolinizzazione della donna ovvero la famosa parità dei sessi. Dunque per questa via la Donna finisce per non assumere il grandioso compito storico che oggi le compete di diritto, ossia la ri-affermazione della creatività entro l’ordine divino restaurato. L’avvento di una nuova epoca ispirata a questo principio corrisponde per Le Fort a null’altro che al ripristino del mysterium caritatis: − portato dalla Donna ma intanto valido per l’uomo e per l’intero mondo.
Tuttavia per lei è un fatto che, nel contesto della modernità, quest’ultimo è stato largamente tradito. E ciò è avvenuto a causa di quella negazione del vero significato simbolico della Donna (tutto racchiuso nel “si” o “fiat mihi”) ad opera sia della hybris maschile (valori dell’auto-affermazione) sia della hybris femminile (Femminismo). Ma ancora una volta sullo sfondo di tale negazione vi è il fenomeno ben più ampio e profondo (metafisico-religioso più che sociale) della separazione uomo-Dio; la quale a sua volta dipende vitalmente proprio dal “si”. E proprio questo ha comportato per l’autrice una profonda distorsione della stessa prospettiva apocalittica, con una connessa visione negativa di Dio (inteso principalmente come vendicatore). In particolare ella sottolinea qui di nuovo che l’apocalissi più tangibile è in verità quella attuale e storica (tramonto e degenerazione delle singole culture) e non quella davvero finale. E proprio in tal contesto ella si produce in una critica serrata della scienza (fondamentalmente maschile) in quanto inevitabilmente distruttiva. In particolare si manifesta qui in maniera più drammatica l’esclusione della dimensione femminile per mezzo di un mondo votato alla distruzione per esaurimento ossia per sterilità; specie in quanto deprivato della creatività femminile. Ma di nuovo è proprio in tal modo che (sebbene in negativo) il Femminile si manifesta in tutto il suo valore in quanto “pilastro invisibile” dell’essere, ossia vero e proprio Fondamento dell’essere.
Tuttavia è nuovamente Maria colei che corregge tale prospettiva. In quanto ella mette a nudo la dimensione religiosa di questa disposizione e natura femminile, dato che il vero Fondamento dell’essere è Dio. E quindi, grazie al suo apporto (unito alla ri-valorizzazione del Femminile), ci viene rivelato che esistono delle forze nascoste che alimentano l’essere; e che esse intervengono quando il mondo è giunto all’esaurimento totale delle proprie forze creative (aiuto divino). Si tratta insomma del profondo rinnovamento del mondo che viene operato dallo Spirito.

II-4 La Donna atemporale (la madre).
Giungiamo così alla terza ed ultima parte del testo lefortiano, che discute la “Donna atemporale” (“Die zeitlose Frau”, p. 97-157). Si tratta in particolare della madre.
La tesi generale di questa sezione sta nell’idea che il culmine della femminilità viene raggiunto nella madre (o meglio la donna materna, ossia la Donna in possesso di un’autentica attitudine materna), e ciò a causa del fatto che il tempo non la tocca affatto. Essa insomma è eterna e atemporale per definizione. E lo è peraltro sul piano immanente, e quindi naturale e storico. Il che rappresenta un fenomeno del tutto portentoso, ossia una sorta di miracolo naturale.
Quindi appare qui del tutto evidente che compito imprescindibile della Donna è quello di essere madre.
Il che però non significa affatto appena avere dei figli propri (maternità biologica), bensì molto più prendersi cura di tutti i piccoli, deboli e indifesi.
Le Fort menziona al proposito quello che deve essere stato un dibattito del suo tempo circa il diritto e appello alla maternità (“Ruf nach der Mutter”). Che però non è ben chiaro cosa sia stato effettivamente (argomento femminista?; tematica para-nazista della maternità biologica per l’etnia tedesca?; appello alla ripopolazione in risposta al fenomeno della de-natalità?; tematizzazione post-bellica della tragedia delle donne con poche speranze di trovare un marito?; rivendicazione del diritto ad una normale e fisiologica sessualità femminile?). In ogni caso, comunque, più avanti ella porrà esplicitamente in discussione l’appropriatezza del concetto di “diritto” applicato alla maternità. Intanto ella però sottolinea il fatto positivo che, in tale contesto, è rappresentato dalla tematizzazione dell’essenza femminile in relazione alla maternità (laddove quest’ultima non viene più riconosciuta come una sorta di ovvietà meccanica, ma invece come qualcosa che è sottomesso a condizionamenti specialmente storici). Proprio a tale proposito ella sottolinea tuttavia che la Donna in quanto madre è atemporale per definizione, e quindi rappresenta qualcosa di largamente indipendente dai fenomeni storici. E il non riconoscerlo (come poteva avvenire entro il dibattito al quale ella fa riferimento) può per lei essere fonte di gravi malintesi.
Uno di questi è proprio quello costituito dalla tendenza a slegare la condizione femminile dalla maternità, considerando così quest’ultima come affatto essenziale per la donna. Siamo insomma di nuovo di fronte ad una delle più tipiche ed aggressive rivendicazioni del Femminismo (che negli anni ’60-’70 del XX secolo si riassunse nello slogan «Il corpo è mio e per esso decido io»).
In termini più propriamente filosofici si tratta però del fatto che la temporalità (tempo, attualità sociale) non ha in verità alcun potere sulla Donna in quanto la maternità è “compito della donna per eccellenza”.
Ne consegue che la Donna non può essere davvero tale se oltre che sposa non è anche madre.
Proprio per questo la donna-in-quanto-madre è atemporale e perfino eterna. Il che poi significa che essa è assoluta, e quindi è indiscutibile e soprattutto incondizionata. Non solo. Ma solo la madre è Donna atemporale, mentre non lo sono ancora affatto la vergine (obbligata all’attesa) e la sposa (condizionata dallo stato maritale). In particolare, in quanto resta sempre la stessa nel tempo, la donna-madre è l’infinito terreno stesso, e quindi equivale alla stessa Vita (ossia alla madre-terra o anche madre-natura).
Ed in questo senso essa rappresenta (almeno in un certo senso) anche senz’altro il Femminile più elementare e basico.
Ma proprio per questo essa è sacra per definizione ed anche autonoma. Così costituisce un oggetto intangibile che deve essere fatto segno di incondizionato rispetto e venerazione. Il che comporta poi la sacralità della Vita stessa ed inoltre nuovamente la dimensione religiosa della Donna, che qui (specie per mezzo del Bambino) è tramite tra uomo e Dio. E devo qui ricordare le fondamentali riflessioni svolte da Edith Stein sul mistero del Natale [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988]. In particolare infatti la pensatrice sostenne che il Bambino Gesù (il frutto della maternità) rappresenta tangibilmente (davvero in carne ed ossa) l’”incarnazione” divina (Menschenswerdung) ma nello stesso tempo anche tutta la serie di eventi provvisoriamente negativi (Croce, ossia dolore inevitabilmente comportato dalla sequela di Gesù) che contrassegnano l’accoglimento umano di Dio nella propria vita preludendo così alla Resurrezione. In altre parole Presepe (Bambino) e Croce sono una sola cosa, ma lo sono solo nella prospettiva difficile ma positiva della Resurrezione.
Tutto ciò comporta comunque ancora nuovamente la dimensione del mistero. Ed ecco che di nuovo qui si ripresenta il velo come realtà che accompagna tutti i fenomeni della maternità così come tutti gli aspetti propri della Donna. E a tale proposito Le Fort rivendica la necessità del silenzio da osservare rispetto alla maternità, sottraendola così ad ogni tematizzazione letteraria ed anche allo stesso così chiassoso dibattito sul diritto alla maternità. E questo include per lei anche tutto lo spazio di discussione che usualmente sussiste rispetto al matrimonio in crisi.
Più in generale però si tratta con ciò dell’irruzione del tempo nella dimensione della maternità. Come avviene anche nella medicalizzazione (ginecologia) di tale condizione, a sua volta espressione del fenomeno tutto moderno e dissacratorio dello sforzo per irretire quelle forze della Natura che invece nella maternità (nonostante la sua dimensione sacra) trovano piena espressione. Di nuovo qui Le Fort si produce qui in una forte critica alla scienza.
In termini filosofici ella contrappone a questa chiassosa tematizzazione (domanda di maternità, diritto alla maternità) l’atto del “discendere” (“hinabsteigen”) verso la madre. Sebbene non sia ben chiaro cosa ella intenda con questo.
Intanto comunque ella sottolinea nuovamente il silenzio che va osservato verso la maternità, facendo notare che non a caso la tragedia (così come anche l’arte plastica) non si è di fatto mai occupata della madre. Il che poi sottolinea tra l’altro la natura per definizione “impersonale” della madre, che va poi a raccordarsi con la già discussa fondamentale impersonalità della Donna specie in relazione alla generazione. E qui in particolare (specie nell’amore incondizionato ed eroico che la madre nutre per il figlio) la dimensione personale si rivela nuovamente (sebbene paradossalmente) contraria ai valori del sacrificio, dell’oblio di sé e dell’oscurità (sempre silenzio) che caratterizzano essenzialmente la maternità. L’autrice ci fa comunque notare che, diversamente dalla tragedia e dalla plastica, invece nell’arte popolare (favole, saghe, canzoni) la madre è stata sempre tematizzata, e specie molto in relazione con i temi della Natura.
Tuttavia ella sottolinea come sostanzialmente positivo anche perfino il significativo fenomeno della presenza della madre negativa in certa tragedia (Medea etc). Questo per lei sta infatti a indicare che l’essenza della maternità non è affatto biologica (e quindi istintuale) ma è invece etica in senso volontario, ossia implica una scelta. Il che significa poi che non tutte le donne sono in grado di essere madri, oppure al massimo possono impersonare il ruolo della sola “madre biologica” (“leibliche Mutter”). La vera natura della madre è invece in principio sacra, divina e sovrannaturale, come avviene paradigmaticamente nel caso di Maria, che quindi nuovamente si presenta come modello di femminilità anche in quanto madre.
E qui ella chiama a testimone Sigrid Undset con il suo romanzo dal titolo “Ida Elisabeth”. In esso in particolare emerge la natura della maternità in quanto cura dei deboli e indifesi. Ed inoltre emerge anche il fatto che è il figlio a generare la madre e non la madre a generare il figlio (insomma in verità è solo la presenza attuale di un figlio che fa della donna una madre, con tutti gli obblighi sacrificali che ciò comporta). Il che sottolinea poi il fatto che in verità (ben più fondamentalmente) è il mondo stesso ad aver bisogno di una madre; in quanto portatrice di quei valori della cura, in assenza dei quali il mondo fatalmente perisce o deperisce per sterilità. La maternità sta infatti alla radice della soddisfazione del bisogno che caratterizza anche l’azione della terra stessa (essa infatti nutre). E ciò comporta di nuovo tutta la serie dei valori dell’ascosità che sono propri della Donna ed anche della stessa terra in quanto materia.
Messe così le cose, la maternità influenza potentemente anche la stessa sponsalità, dato che inevitabilmente la sposa è anche madre del proprio uomo. Cosa che giunge fino al ruolo di vera e propria cirenea che la donna svolge a favore dell’uomo che porta la Croce, specie come ingiusta colpa, ingiustizia subita ed anche perfino fallimento esistenziale. E a tale proposito va sottolineato lo scandalo che affermazioni come queste certamente susciteranno sia nella femminista che nello psicanalista.
In ogni caso, mentre all’uomo spetta naturalmente il compito titanico di superare le resistenze della materia (forza maschile), alla Donna spetta naturalmente il compito di soddisfare i bisogni critici che questo compito comporta.
Ed ecco che in tutto questo si delinea chiaramente la figura chiave della “donna materna”, la cui attitudine principale non è solo la cura ma anche la stessa pietà o compassione. Questa attitudine rende assolutamente non femminile la tendenza di alcune donne alla critica ed al giudizio severo ed implacabile.
Ne consegue che la donna non è mai veramente tale se non è integralmente materna.
Un aspetto specifico della pietà propria della donna materna è quella di prendersi cura in particolare dell’essere umano colpito dal fallimento esistenziale. Si tratta di ciò che Le Fort definisce come “Fehlguß” (colata errata, ossia di fatto uomo nato sbagliato), ossia dell’ultimo degli ultimi, cioè colui che è venuto al mondo in forma errata e distorta, e quindi è lo sventurato per definizione. Ma intanto paradossalmente proprio la più fallita delle donne materne (ossia la vergine la cui attesa è andata delusa, cioè la monaca) è colei che è più chiamata a questo compito. A causa di questa opera della donna materna accade dunque che la “debolezza” (“Schwäche”) viene elevata a virtù principe per poter realmente conquistare il regno dei cieli. Ed ecco che nuovamente Maria diviene modello per la donna materna proprio in quanto “Madre di Misericordia”.
Ebbene, ritornando da ciò al modello della vergine-madre (monaca) − in quanto fallita nel suo desiderio di maternità −, emerge più che mai quanto il culmine della condizione di donna materna si abbia proprio nelle donne che non hanno avuto figli. Che poi sono in generale quelle che esercitano una funzione materna sostitutiva (donna parente, madrina di battesimo, educatrice…), oppure laddove la maternità è un lavoro (medico-donna, educatrice, insegnante, infermiera…). Ecco allora che questo genere di maternità si rivela costituire una “disposizione naturale” (“Naturanlage”) ancor più di quella biologica. Il che mostra che la madre biologica configura appena un abbozzo di autentica maternità, e quindi ancora una volta appare chiaro che non tutte le donne si rivelano capaci di essere madri. Si delinea quindi qui il supremo paradigma della donna materna e cioè quello della maternità spirituale. Ed a mio avviso ciò getta un luce davvero molto forte sul valore dell’atto di adozione.
Ma intanto con ciò il discorso sul diritto alla maternità viene definitivamente esautorato. Ecco allora che in verità “Non vi è alcun diritto della donna ad un bambino. Vi è invece solo il diritto del bambino ad una madre” (“Es gibt kein Recht der Frau aud ein Kind, sondern es gibt nur das Recht des Kindes auf eine Mutter”). Il che ancora una volta sottolinea l’importanza ed il valore dell’adozione.
Oltre a tutto ciò viene in tal modo allo scoperto un elemento che è di fondamentale importanza nel confronto con il Femminismo, ossia ancora una volta quello della “natura” femminile. Che Le Fort ritiene essere pienamente valido e vigente anche sul piano puramente spirituale. Il che significa quindi che non solo esiste effettivamente una «natura» femminile, ma essa va anche ben oltre i limiti che sono da assegnare a ciò che è meramente e bassamente «naturale» (ossia il biologico-animale), e quindi finisce per essere pienamente valida anche (e forse soprattutto) su un piano puramente spirituale. Che è poi la dimensione simbolica alla quale Le Fort raccorda la natura femminile.
Tutto ciò lascia per Le Fort emergere anche lo scottante tema del lavoro femminile, che per lei è altrettanto condizionato dalla pienezza della femminilità materna (e quindi ad esso secondario). Per cui è valido qui lo stesso principio affermato per il diritto alla maternità: − “Non vi al mondo alcun cosiddetto ‘diritto femminile’ al lavoro ed all’occupazione, ma vi è invece un diritto alla donna da parte del mondo in quanto bambino”.
Da questo la dimensione della donna materna si estende poi anche all’ambito collettivo e perfino politico, con il fenomeno della Regina (o reggente) come Madre del popolo. Con l’eccezione, però, della maternità negativa che si esprime nella donna che solo “vuole sé stessa” (Pompadour).
Di nuovo quindi emerge che il mondo ha bisogno di madre. Ed in generale emerge qui che la donna materna (ancor più che la Donna in generale) rappresenta il fattore critico per la creatività.
Ma da questo l’autrice passa poi alla discussione del ruolo della donna materna nella cultura. Ruolo che per lei appare basato su aspetti fondamentali della donna materna che sono ancora più elementari di quelli propri della Donna in generale. La donna è infatti per lei conservatrice per definizione, e quindi si presta più di chiunque altro a “supportare” (“tragen”) − cioè conservare, proteggere, difendere ed anche amare appassionatamente − i valori di una società. Il che ancora una volta si estende fino alla cura dello Stato (Regina o reggente).
Cosa che (come anche in altri aspetti) la porta a porsi al di sopra anche della sposa, la quale tende invece più a “spendere” (ossia a dissipare forze e risorse) che non a conservare.
L’esempio più elementare di tutto ciò si ritrova per lei nel ruolo critico che la donna materna esercita nello sviluppo del bambino (insegnamento di linguaggio e costumi).
Ed ovviamente più che mai è qui di importanza cruciale la serie dei valori legati all’attitudine all’ascosità.
I quali rendono la moderna donna dedita al piacere (“gaudente”) particolarmente inadatta ad essere una donna materna.
Al di sotto di questo ruolo culturale si delinea però un ruolo ancora più fondamentale ed elementare, che ancora una volta assimila la donna materna alla terra ed alla natura. Si tratta per la precisione di un ruolo religioso e sacro nella sua dimensione ultra-culturale. Esso è talmente possente e radicale da manifestarsi anche in tutti fenomeni connessi alla maternità naturale e biologica (parto etc.), dove vita e morte scaturiscono dall’eternità (nascita) per procedere come un’onda che infine ritorna all’eternità stessa (morte). Qui accade che l’eternità trapassa nel tempo, e proprio la donna materna ne è il tramite.
Si tratta insomma di una dimensione che più naturale non potrebbe essere. Ma sta di fatto che l’eternità è Dio stesso, e quindi si tratta in verità di un passaggio da Dio a Dio. E in tale contesto la donna materna assume di nuovo una valenza profondamente sacra e religiosa. Si tratta in verità della messa in contatto di Natura e Grazia, che vede proprio la donna materna come protagonista.
Ma Le Fort non manca di sottolineare che tale funzione si è fortemente indebolita in un mondo in cui la Donna è stata equiparata alla Natura proprio nel mentre però la Natura veniva sradicata dalla Grazia. E qui ella cita nuovamente Sigrid Undset con la sua Cristina (Kristin Lavranstochter), la quale ha sostenuto che la Donna-Natura perviene alla piena dimensione religiosa della maternità solo in quanto “cristiana” (“christin”), cioè arriva fino alla Chiesa.
Eccoci quindi alla santificazione della maternità da parte della Chiesa. Laddove viene per lei in fondo celebrata la Vita stessa. E qui vengono discussi tutti i temi dell’invito all’eroismo da parte della madre nel parto – specie nel preferire la vita del bambino alla propria.
L’autrice precisa che però in verità con ciò la Chiesa intende celebrare in questo la “Vita superiore”, ossia quella sacra e divina. Pertanto, entro tale in principio perfetta coordinazione tra Natura e Grazia (quale attitudine della donna materna) la Chiesa giunge infine a celebrare la madre addirittura anche più della vergine e della sposa. Dato che è propria della madre quella virtù dell’umiltà che la induce a non ribellarsi mai a Dio. Ecco che la dimensione di Natura della madre è sempre premessa per la Grazia. È in questo senso che la madre non solo è pronta a sacrificare la propria vita, ma inoltre è anche sempre pronta ad offrire il proprio bambino a Dio. Ella è insomma costantemente pronta a declinare qualunque titolo di possesso sul frutto delle proprie viscere.
E ciò avviene soprattutto nel Battesimo (in cui alla madre biologica del bambino si sostituisce la Chiesa come Madre spirituale), oltre che nell’educazione religiosa del bambino stesso.
In tutto ciò trionfano i valori dell’accoglienza e della rinuncia alla propria volontà, che ancora una volta trovano un modello in Maria e nel suo “si” (“fiat mihi”). In particolare si tratta dell’offrirsi della Donna come campo nel quale germoglia e cresce l’umano-divinità: − il figlio naturale diviene infatti figlio di Dio.
E a causa di ciò con la madre stanno naturalmente in relazione diverse figure del Rosario, ma in particolare quelle legate al dolore per quella perdita del Figlio che è sempre umile offerta. Non senza però che i misteri del dolore preludano a quelli della Resurrezione, e quindi della Gloria e della Gioia, che poi stanno poi in stretta relazione con l’atto di Assunzione di Maria al cielo. Atto con il quale non a caso ella diviene Madre di tutti gli uomini.
È su questa base che, secondo Le Fort, la virtù materna dell’accoglienza fa infine della madre una figura religiosa sacerdotale non inferiore a quella maschile. Ed inoltre in tal modo la donna materna si pone in relazione all’universalità della Chiesa e del Cristo. Ed è per questa via che la donna materna viene infine assimilata alla verginità di Maria (in quanto madre dell’uomo per eccellenza, Cristo), con la conseguenza che riassume in sé stessa (senza alcuna contraddizione) tutti gli aspetti della vita femminile esattamente come accade in Maria.
Con ciò, insomma, la maternità è destinata a venire costantemente riassorbita nella verginità. Il che significa che la maternità rientra sostanzialmente nell’ordine della vita femminile che è stato voluto da Dio e prevede quindi le due congiunte realtà di vergine e madre. E con questo viene restaurata l’”immagine eterna” (“Ewiges Bild”) della Donna (Donna Eterna).
In tal modo (e non senza l’intermediazione di Maria) viene dunque per sempre superata (in un ordine superiore) quella tragicità naturale della verginità, che è poi anche della madre stessa. Il che avviene attraverso la virtù mariana della totale disponibilità a Dio (ancilla Domini). Che è poi anche l’eleggere a propria missione la stessa missione accettata incondizionatamente da Maria. È proprio in tal modo che si può davvero affermare che la salvezza proviene dalla Donna. Dato che tale attitudine è esemplare per l’intero genere umano, ossia afferma il valore primario della relazione con Dio. Prospettiva che è poi anche apocalittica perché salva il mondo dalla Caduta, ed ancor più il mondo moderno che si è separato tragicamente da Dio.
Ma, per mezzo dell’intermediazione di Maria, oltre che vergine la madre è anche sposa, e precisamente “sposa dello Spirito” proprio in quanto sposa dell’uomo, e quindi impegnata con lui nella collaborazione alla creazione. Cosa che implica in una certa misura anche l’accettazione dell’uomo come “capo” (sottomissione), dato che Cristo stesso è Capo del Corpo (vedi testo).
Ebbene è per mezzo di tutto questo che la donna materna partecipa all’opera di salvezza del mondo.
In sintesi possiamo quindi dire che, entro la visione di Le Fort, in un certo senso la madre svetta decisamente sulla vergine e sulla sposa. Tuttavia (specie per mezzo del modello di Maria) essa finisce per venire ridotta sia all’una che all’altra. Ed è così, allora, che si ricostituisce quella perfetta “triplice rivelazione” della Donna (o anche Totalità femminile) che include vergine, sposa e madre senza che nessuna di queste dimensioni venga esclusa o assuma un valore secondario.

III- Conclusioni.
Ebbene, in via di principio alla fine di questa esposizione e commento del testo di Le Fort non ci sarebbe da aggiungere più nulla. Mi sembra infatti di aver assolto al compito molto limitato di offrire al lettore una sintesi di quest’opera che potrebbe anche dispensarlo dal leggere integralmente il testo.
Tuttavia mi sembra che comunque almeno una considerazione conclusiva molto generale meriti di essere fatta.
In particolare infatti ci si può chiedere quale ruolo e senso può avere la lettura di un’opera come questa in un mondo in cui l’ultima cosa che passa per la testa di una donna (giovane o attempata che sia) è quello di conformarsi al modello di Maria Vergine; oltre che di conformarsi ad un’ipotetica «natura» femminile che non solo è eterna ma è anche normante (cioè impone degli obblighi ben precisi). Ma a questo punto sorge la questione del se (aldilà di tutte le possibili sottili discussioni che si possono fare, e di tutte le relative rivendicazioni) l’obiettivo della donna moderna sia o meno per davvero quello di essere fedele alla propria natura. Laddove è chiaro che, se invece così non è, essa fallisce oggettivamente nell’essere ciò che è.
Il che porterebbe poi ad estendere anche alla donna (femmina) un’esortazione alla quale da sempre gli uomini (maschi) si sentono visceralmente vincolati, fino al punto di vergognarsi profondamente se non la seguono. Insomma oltre ad un «Fai l’uomo!» dovrebbe esistere anche un «Fai la donna!».
Ma intanto è anche chiaro che ciò trova un ostacolo ormai davvero possente nella pressoché totale dissoluzione dell’identità sessuale che intanto si va affermando
Orbene si può pensare che quest’obiettivo sia ancora davvero attuale per la donna?
Sinceramente sono portato a dubitarne visto che, nel corso del tempo e con il succedersi delle generazioni, si è sempre più affievolita la percezione di quella che è per davvero la natura femminile. Oggi infatti le donne (anche se non più giovani) ritengono un vero e proprio imperativo morale quello di realizzarsi come persona (ad esempio nel lavoro o nella politica), ed inoltre ritengono il piacere materiale e sensibile come un obiettivo assolutamente imprescindibile. E quindi pongono in cima ad ogni loro valore e desiderio quello di occupare un ruolo di rilievo nella società, specie nel campo del lavoro, ed inoltre di vivere la vita realizzando incondizionatamente il loro desiderio di piacere. Oltre a ciò, specie presso le ultime generazioni susciterebbe il riso o almeno lo stupore non solo l’idea che una donna si possa realizzare solo nella maternità e nella sponsalità (sia pure collateralmente all’esercizio di una professione), ma ancor più l’idea che tale realizzazione addirittura trovi il suo paradigma in una dimensione religiosa (com’è quella di Maria).
Eppure Gertrud von Le Fort non sembra avere alcun dubbio nell’indicare alle donne questi due obiettivi come quelli al di fuori dei quali la donna semplicemente cessa di essere tale, ma inoltre anche come quelli seguendo i quali la donna conquista per davvero l’immensa dignità che le spetta di diritto.
Che dire allora?
Che questa è un’opera semplicemente superata dai tempi e quindi affatto più valida? Che l’autrice è in fondo vittima di un condizionamento religioso che l’ha portata ad ignorare o almeno travisare profondamente quelli che sono i reali obiettivi di vita delle donne moderne? Che addirittura la sua visione sarebbe vittima di una sorta di maschilismo truffaldinamente mascherato da affermazione della massima dignità femminile?
Sinceramente non saprei rispondere a queste domande. E quindi non mi resta che lasciare la risposta alle donne che eventualmente leggeranno questo mio scritto.
L’unica cosa che so e posso dire è che il discorso di Le Fort appare a me personalmente estremamente coerente (almeno nel contesto di una fede cristiano-cattolica davvero salda e profonda) e che quindi per questo possa venire considerato anche molto convincente. Ma è intanto evidente che ciò cozza stridentemente con il dominante spirito del tempo. Non mi resta allora che augurare (ovviamente non senza in tal modo essere io stesso inevitabilmente ideologico e quindi di parte) che la visione esposta da Le Fort ritorni a poter essere di aiuto alle donne moderne. E ciò potrebbe avvenire proprio sulla base della delusione che certamente anch’esse provano nei confronti di un percorso storico-culturale (entro il quale oggettivamente le aggressive rivendicazioni femministe hanno avuto un ruolo di primo piano) che non sembra aver poi prodotto i frutti promessi. Certamente infatti le donne hanno conquistato nella società uno spazio che prima non potevano nemmeno sognarsi. Certamente esse si sono conquistate un diritto al piacere che prima era addirittura infamante. E certamente è stato ormai definitivamente spazzato via (come innegabilmente ingiusto ed anche ridicolo) il pregiudizio che affermava la superiorità del maschile sul femminile. Ed inoltre è altrettanto certo che ciò è avvenuto per una via che senz’altro in molti aspetti diverge radicalmente da quella indicata da Le Fort.
Ma intanto sono sotto gli occhi di tutti quelli che sono stati i frutti reali ed ultimi di tutto questo.
La cosiddetta «donna in carriera» fa una fatica titanica nel ricoprire contemporaneamente il ruolo di madre e sposa. Le famiglie sono ormai costantemente minacciate da un profondo dissidio tra mariti e mogli, così che il divorzio è diventato la norma molto più del matrimonio e della stabile unione coniugale. Fenomeni come il tradimento del proprio partner sono diventati non solo diffusi ma anche quasi obbligatori in quanto normalizzati e addirittura considerati psicologicamente sani. Le giovani donne delle ultime generazioni non pensano più nemmeno minimamente a realizzarsi come spose e madri, ed inoltre sono ormai dedite a comportamenti sessuali sempre più devianti rispetto alla tradizionale norma. Fino al punto che la pura sessualità animale (unita a sua volta all’edonismo ed all’esibizionismo) ha preso decisamente il posto dell’amore di coppia. E peraltro ciò contraddice perfino non pochi capisaldi della dignità femminile così come nel tempo sono stati affermati dal Femminismo. È evidente inoltre che perfino molte giovani ragazze si sentono profondamente disorientate quando pensano alla loro femminilità in un contesto così instabile, distorto e fonte di continue amarezze e delusioni, se non di un vero e proprio sordo dolore che è ormai senza volto e senza nome, e quindi estremamente inquietante. Infine l’identità sessuale stessa viene ormai sempre più aggressivamente posta in discussione.
Ebbene, era davvero questo ciò che si voleva? È davvero questa la giustizia, la pienezza, la felicità, la certezza della dignità femminile e della sua realizzazione? Sinceramente non credo che sia così. E peraltro credo che non sia così proprio per molte donne.
Ed allora mi chiedo se non sarebbe necessario un profondo ripensamento del cammino finora compiuto dalle donne. Ebbene tanto l’opera di Le Fort sulla natura femminile tanto anche quella di Edith Stein (che purtroppo qui non ho potuto commentare) offrono alle donne moderne almeno uno dei tanti possibili supporti per poter operare questo ripensamento.
Perché dunque non approfittarne?

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Scopo principale di questo articolo è quello di dilatare e differenziare (in termini critici) – senza però assolutamente volerla negare – l’usuale piuttosto scontata collocazione del pensiero steiniano nella scia della Fenomenologia husserliana. Questo tentativo rientra in una serie di ricerche da noi intraprese negli ultimi anni (successivantemente al tema del possibile platonismo del pensiero steiniano trattato nella nostra tesi di dottorato in filosofia), che hanno teso a discutere criticamente soprattutto l’effettiva continuità tra la Fenomenologia husserliana ed il pensiero steiniano nella sua ultimissima fase mistica . Tuttavia la maggior parte delle nostre considerazioni su questo tema sono raccolte in un saggio non ancora pubblicato che qui menzioniamo solo in una sua presentazione sintetica .
Orbene la lettura di Psychologie der Weltanschauungen (PWA) di Karl Jaspers ci è sembrata un’ottima occasione per trattare almeno una parte del tema che ci siamo preposti di indagare. Dobbiamo qui però precisare che non ci riteniamo affatto dei conoscitori approfonditi del pensiero jaspersiano, e quindi nostro intento non è affatto quello di approssimare il pensiero della Stein a quello di Jaspers nel suo complesso. Intendiamo invece riferirci unicamente all’opera appena menzionata. Tuttavia quest’ultima ci è sembrata di particolare importanza sostanzialmente per due motivi: 1) essa segnò di fatto il passaggio del pensatore dall’impegno in medicina (psichiatria) a quello in filosofia, e quindi in qualche modo convogliò in quest’ultima disciplina una serie di preziosi punti di vista che sono presenti entro la formazione ed esperienza medica; 2) lo sforzo fatto da Jaspers in quest’opera fu, almeno a nostro avviso, quello di relativizzare fortemente le aspirazioni della filosofia moderna ad una «riduzione trascendentale»; il che avvenne sulla base del suo ricorso ad una psicologia che non è però affatto quella empirica, ma invece vuole essere realmente una «scienza fondamentale» con l’ambizione di portare ordine non solo nella scienza in generale ma anche nella stessa filosofia. Anzi, come vedremo più avanti, essa venne di fatto considerata da Jaspers come una vera e proprio nuova filosofia; e precisamente una filosofia non scientifica. Ad essa poi corrisponde una Fenomenologia sostanzialmente “ermeneutica” , che per questo motivo va considerata in sostanziale linea con le tesi di Heidegger
E va qui subito precisato che la tesi di Jaspers è tutta incentrata sul ricorso alla psicologia (invece che alla filosofia) – sebbene profondamente rivista (secondo quanto vedremo più avanti) – come risorsa per ottenere uno sguardo davvero omni-comprensivo e fondante sulla totalità delle forme di conoscenza umana.
Quest’ultimo aspetto ci sembra si presti perfettamente in primo luogo ad emettere un giudizio di valore complessivo sulla primaria ambizione della Fenomenologia husserliana (e conseguentemente della stessa Fenomenologia steiniana), e cioè quella di fondare una scienza filosofica che sia in grado di offrire un solido fondamento alle scienze empiriche. Inoltre, nell’ambito di tale atto critico, ci sembra che l’aspetto appena menzionato si presti perfettamente a relativizzare l’aspirazione della Fenomenologia husserliana a costituire di fatto l’unica prospettiva di tipo «fenomenologico» che fosse disponibile in quel tempo per portare a compimento l’ambizione appena menzionata. Orbene, tenuto conto dell’evidente sforzo steiniano di distanziarsi dagli stretti limiti della Fenomenologia husserliana (pur restando comunque ad essa nel complesso fedele) – sforzo decisamente testimoniato dal suo approdo ad una metafisica religiosa sempre più mistico-contemplativa che certamente non era prevista nel pensiero di Husserl –, e tenuto conto anche del fatto che parte di questo sforzo puntava verso un realismo filosofico-metafisico anti-idealistico (che intanto la approssimò fortemente ad altre forme di Fenomenologia come quella di Max Scheler) , ci sembra estremamente opinabile che nella visione steiniana vi siano non pochi elementi per il possibile (o almeno tendenziale) intento di allargare l’intendimento di Fenomenologia ad un ambito molto più ampio di quello contrassegnato dalla dottrina di Husserl. Ed in effetti la lettura della menzionata opera di Jaspers ci ha offerto molti indizi in tal senso, unitamente però anche ad elementi che relativizzano lo stesso intendimento steiniano di Fenomenologia.
In conclusione va detto che anche altri Autori (vedi nota 14: Moran) hanno preso in considerazione la possibile approssimazione tra la Stein e Jaspers; sebbene (per quanto ne sappiamo) non vi sia traccia di un’eventuale frequentazione tra i due pensatori (diversamente da quanto avvenne invece con Husserl).
Per questo motivo, dunque, la nostra ricerca sembra avere un suo preciso fondamento

I- Jaspers e Stein in generale.
Pertanto – al netto di queste considerazioni introduttive – una volta esclusa l’ipotesi improponibile di una prossimità Stein-Jaspers che sia in contraddizione con la ben più comprovata prossimità Stein-Husserl –, speriamo che il confronto del pensiero steiniano con le osservazioni fatte da Jaspers ci possa permettere perlomeno di collocare la visione della nostra pensatrice in uno scenario (storico-filosofico e dottrinario) nel quale la Fenomenologia non venne affatto rappresentata solo da Husserl.
Per essere più precisi al proposito bisogna considerare quanto segue.
In primo luogo, a fronte della così decisiva iniziale formazione psicologica della Stein (a Breslau con Hönigswald), vi è da chiedersi se la pensatrice non avrebbe potuto considerare proprio Jaspers (a quel tempo attivo come docente ad Heidelberg) come suo punto di riferimento filosofico qualora lei non avesse invece già scelto di rivolgersi ad Husserl a Göttingen. E vedremo poi che per questo vi sono sostanziosi indizi se si considera quale posizione assunse Jaspers, come fenomenologo, di fronte a concetti come quello di un «mondo fuori di noi».
In secondo luogo – a fronte della perenne diatriba circa la perdurante filosoficità e fenomenologicità del pensiero steiniano in fase mistica – Jaspers appare essere l’unico (in campo filosofico) che offra gli strumenti per un giudizio davvero imparziale e oggettivo sulla natura del pensiero steiniano in questa fase. Questo perché la mistica viene da lui classificata psicologicamente e non invece filosoficamente, cioè al di fuori di qualunque anche minimo residuo di inderogabile giudizio critico demolitorio ed esautorante. Anticipando in parte il commento a quanto afferma il nostro pensatore , ricordiamo qui che egli non sembra vedere alcuna difficoltà nel considerare il Dio della mistica come un legittimo oggetto di conoscenza, sebbene esso non abbia nemmeno minimamente i crismi di ciò che Husserl considerava come un ragionevole oggetto di conoscenza (in quanto esistente sebbene solo come oggetto mentale). In base a ciò possiamo dunque dire che, tenendo presente quanto dice Jaspers, possiamo considerare con una molta maggiore libertà, equanimità e fedeltà quel distanziamento della Stein da Husserl che intanto (a nostro avviso) emerge in maniera così oggettiva nel seguire il percorso del lei pensiero. E che però la critica mainstream si ostina così dogmaticamente a negare o relativizzare.
Il terzo luogo va considerato che la relativizzazione della filosofia alla psicologia emerge con estrema chiarezza laddove Jaspers discute le aspirazioni metafisiche che sono sempre state proprie della filosofia, ossia l’aspirazione di quest’ultima disciplina all’Assoluto come rappresentazione e spiegazione ultima dell’Essere . E qui diviene chiaro anche quale sia la Fenomenologia che da lui viene concepita (incentrata com’era nella psiche, o anima e mente, e non invece nella coscienza filosoficamente definita). Con tutto ciò impallidiscono decisamente le aspirazioni al trascendentale di Husserl, e conseguentemente la sua Fenomenologia viene fortemente relativizzata nelle sue più assolute aspettative. Jaspers sembra infatti considerare la psicologia filosofica (e non la pura filosofia) come l’orizzonte davvero ultimo per la comprensione del senso delle cose. Tanto è vero che pare egli considerasse la PWA come una “struttura trascendentale” della psiche umana . E con ciò va intesa quella naturale e generale tendenza a produrre una “Weltanschauung” (WA) sulla quale riposa poi qualunque tipo di personale visione del mondo (che essa sia fisiologica o patologica). Come tale si tratterebbe quindi di quell’”a priori esistenziale” (che riscosse l’incondizionato plauso di Heidegger), con il quale va intesa una dimensione psicologica inscindibilmente legata alla dimensione esistenziale del singolo soggetto, ossia al suo specifico modo di «essere al mondo».
Il che poi è molto diverso da un Io trascendentale astratto, universale e collettivo; che si pretende travalichi il fattuale Io psicologico in quanto Io-esistente. Orbene, almeno in questo senso, va riconosciuto che in definitiva la Stein davvero restò sempre all’ombra di certe aspirazioni husserliane. Infatti, anche nella fase mistica del suo pensiero, le sue aspirazioni filosofiche restarono in continuità con la complessiva tendenza filosofica ad avere l’Assoluto come proprio oggetto. E speriamo di poter dimostrare questo attraverso l’analisi testuale che faremo più avanti.
La questione che affrontiamo in questo articolo non è quindi quella del se la Stein fu eventualmente più prossima a Jaspers che non ad Husserl (specie nel suo pensare metafisico). La questione è invece, semmai, quella del se la sola Fenomenologia di Husserl (specie a causa del suo atteggiamento verso la metafisica) possa davvero esaurire completamente la collocazione del pensiero steiniano entro un orizzonte che intanto vide anche ben altre prese di posizione di tipo fenomenologico. E nel caso di Jaspers si tratta di una presa di posizione fenomenologica che rende plausibile proprio un percorso metafisico e mistico che travalichi nettamente i limiti della filosofia.
Ma proprio questo fu ciò che accadde (almeno a nostro avviso) allorquando la Stein – dopo il momento più maturo della sua riflessione filosofico-religiosa (corrispondente alla seconda metà di Endliches und ewiges Sein, EES) – si rivolse decisamente verso un pensiero che aveva come proprio primario oggetto più la mistica che non la filosofia. Ammesso dunque che in questa fase ella restasse comunque nel contesto di un pensare fenomenologico, non è però più affatto sufficiente (per spiegare questo) una Fenomenologia che restava comunque entro i più stretti limiti della filosofia. Quindi inserire anche Jaspers nel complesso e multiforme scenario della Fenomenologia del tempo in cui operò la Stein ci aiuta ad osservare il di lei pensiero in maniera molto più oggettiva; sfuggendo così peraltro anche al piuttosto ozioso problema (spesso astioso e fazioso) del suo ininterrotto e diretto rapporto di continuità con Husserl. In effetti (che sia stato in maniera positiva o negativa, diretta o indiretta, esplicita o implicita) sembra proprio che il pensiero steiniano si lasci relazionare di fatto con tutte le forme di Fenomenologia del tempo.
E a noi sembra che esso possa venire debitamente compreso solo tenendo conto anche di questo.
Si tratta insomma di una dovuta relativizzazione e sdrammatizzzazione della questione della sua continuità con il pensiero di Husserl. Peraltro in questo stesso capitolo (vedi nota 8) Jaspers relativizza fortemente l’intero percorso filosofico al quale si rifecero Husserl ed anche la Stein (almeno prima della sua fase mistica), definendolo come “panlogismo” o “razionalismo” (la presunzione che lo Spirito o Logos o Ragione sia l’origine della realtà) e considerandolo affatto autenticamente e veritieramente filosofico ed oggettivo ma invece appena relativo e soggettivo.
Pertanto diremmo che nel complesso, tenendo in considerazione anche Jaspers (e non solo Scheler o magari lo stesso Heidegger) nella valutazione complessiva del pensiero steiniano, può venire colta l’occasione di collocare la pensatrice nella corrente di un pensiero fenomenologico para-husserliano che intravvide ben altre dimensioni dell’essere ed inoltre intravvide ben altri metodi per avere un approccio fondante alla conoscenza dell’essere ed infine alla coscienza. Nel caso di Jaspers si tratta di una psicologia che può venire considerata «fenomenologica», ossia una psicologia con i caratteri di una filosofia che aspira fortemente alla fondamentazione della conoscenza (e ciò con lo scopo primario di ritrovare il senso delle cose). Si trattò quindi di una filosofia interessata ad una amplissima visione globale dell’essere ed anche ad una sorta di (per così dire) «riduzione trascendentale». A nostro avviso si può considerare tale lo sforzo di riduzione della molteplicità di dottrine al fattore elementare- fondamentale che è rappresentato dalla tendenza del soggetto a sviluppare un punto di vista, e cioè una “visione del mondo” (“Weltanschauung”). Cosa alla quale corrisponde poi sempre puntualmente, al polo oggettuale, una relativa “immagine del mondo” (“Weltbild”). È evidente che, una volta postotutto questo, non ci si può aspettare alcuna visione filosofica del mondo che sia radicalmente omni-comprensiva e quindi assoluta, così come non ci si può aspettare più nulla da assolutizzazioni filosofiche del mondo nei termini di un idealismo o realismo. Ciò che Jaspers intende mostrarci (per mezzo del ricorso alla psicologia) è pertanto unicamente la collezione più sistematica possibile di tutte le possibili visioni soggettive del mondo, alle quali corrispondono poi le conseguenti immagini oggettuali del mondo stesso. Si tratta però evidentemente appena di una molteplicità di prese di posizione tutte relative e nessuna assoluta.
Ebbene, una volta delineato tale contesto, si può focalizzare con più precisione e cognizione di causa l’attenzione del critico sul superamento steiniano dell’idealismo husserliano nel contesto del famoso Excursus sull’idealismo trascendentale , e cioè l’individuazione di un legittimo mondo oggettuale esistente anche in assenza di coscienza, ossia un mondo esteriore indipendente che abbia i caratteri di un effettivo «mondo fuori di noi». Tale approdo filosofico-metafisico steiniano segnò un momento di svolta davvero cruciale, che senz’altro collocò la pensatrice nel versante più realistico della Fenomenologia del tempo – caratterizzato da svariati aspetti: le opinioni dei diversi discepoli che si erano opposti all’idealismo husserliano (tra i quali in particolare Hering e la Conrad-Martius), la tesi steiniana dell’approssimabilità della Fenomenologia all’onto-metafisica tomista (mai accettata da Husserl), le dottrine fenomenologiche divergenti come quelle di Scheler e Heidegger, ed infine forse anche alcuni aspetti del realismo proprio dell’onto-metafisica neotomista (rappresentata tra gli altri da quel Maritain che la Stein conosceva personalmente) . Ed al proposito va di nuovo tenuto presente che Jaspers fu molto vicino ad Heidegger . Jaspers però aggiunge elementi che permettono di gettare uno sguardo anche oltre questa classica contrapposizione idealismo-realismo che alla fine rischia di costituire uno scenario interpretativo non solo molto angusto ma alla fine dei conti anche piuttosto sterile. Idealismo e realismo sono infatti due posizioni filosofiche che, almeno in via di principio, contano entrambe su solidissimi argomenti. E pertanto la perenne lotta tra di esse non ha alcuna possibilità di vedere una fine.
Ebbene nulla più dell’insistenza del nostro pensatore sulla crucialità della presa di posizione soggettiva (senza la quale non vi sarebbe alcuna WA e quindi nemmeno alcuna filosofia) suggerisce in via di principio un idealismo filosofico. E quindi si potrebbe pensare che anche la sua Fenomenologia debba venire alla fine ridotta a tale elemento. Eppure non è affatto così, perché ciò sarebbe vero solo sul piano filosofico, ma non è affatto più vero sul piano psicologico. Dunque, proprio nel porre la psicologia prima della filosofia – e quindi affermando la crucialità della posizione soggettuale unicamentenei termini di un fattore di relativizzazione delle stesse prese di posizione idealistiche (in quanto esse costituiscono appena una delle tante tendenze conoscitive che sono implicate dalla del tutto naturale relazione tra soggetto ed oggetto comportata dall’esistenza di una mente, e come tale contemplata dalla psicologia prima ancora che intervenga qualunque sovrastruttura filosofica) –, Jaspers ci fa comprendere che l’idealismo non può affermare nulla di decisivo e di ultimo circa l’essere. Cosa che del resto è vera anche per il realismo.
Ecco allora che tutto quanto (in termini di conoscenza) viene prodotto dalla mente può venire osservato dal versante puramente soggettuale (come WA), oppure, con pari diritto, anche dal versante puramente oggettuale (come “Weltbild”; WB). Resta intanto vero che tutto ciò risale all’esistenza di un soggetto. Ma ciò avviene in ragione di una necessità puramente psicologica (l’esistenza indubitabile di una mente in quanto anima o psiche, con la sua struttura e la sua funzione) e non invece in ragione di una necessità filosofica, ovvero in ragione del riconoscimento (per via filosofica) di una sostanza (soggetto o oggetto) che spieghi l’essere in maniera ultima, ossia oggettivamente assoluta. Ed in tal modo decadono insieme idealismo e realismo, così come anche l’aspirazione tutta filosofico-fenomenologica husserliana ad una «riduzione trascendentale» quale metodo per mettere al sicuro la conoscenza.
Orbene, tenuto conto di tutto ciò, è evidente che la presa in considerazione di Jaspers permette di relativizzare non solo la complessiva Fenomenologia husserliana (con la sua impronta così idealistica) ma in via di principio anche quella steiniana (con la sua impronta tendenzialmente realistica). Tuttavia proprio per questo l’introduzione del fattore Jaspers dimostra anche che, nel giudicare globalmente il pensiero della nostra pensatrice, non si deve affatto guardare solo agli sforzi da lei compiuti a causa della sua insoddisfazione per l’idealismo husserliano, ma si deve anche guardare ad una sua presumibile tensione in direzione di una Fenomenologia ben più ampia. E probabilmente le vaste riflessioni svolte da Jaspers sulla metafisica – nel libro da lui esaminato in un capitolo specifico ma anche in scritti dedicati specificamente a questa disciplina – ci mostrano che nella fase mistica del suo pensiero la Stein giunse a toccare la riflessione su un “fenomeno” (l’Assoluto divino) che costituisce un’oggettualità mai ben comprensibile tanto nell’approccio idealistico quanto in quello realistico. Il che comporta poi anche un certo superamento del complessivo orizzonte filosofico della conoscenza dell’essere. Ed al proposito va detto che uno dei più grandi meriti di Jaspers (almeno in base allo studio dell’opera da noi analizzata) appare essere quello di aver mitigato tangibilmente gli effetti di quell’anti-psicologismo filosofico che anche la Stein aveva condiviso appassionatamente con Husserl.
Ebbene, proprio in tal modo Jaspers sembra aver portato ordine (nel contesto di una forte relativizzazione del valore della classica filosofia) in una serie di concetti e prese di posizione (organizzanti e classificanti) della disciplina che riguardano soprattutto la teoria della conoscenza. Dopo la sua opera noi sappiamo dunque molto meglio cosa possiamo davvero aspettarci dalla filosofia e cosa invece no. Su questa base, quindi, noi possiamo comprendere molto meglio quale fu (almeno tendenzialmente) la posizione della Stein, nella fase mistica del suo pensiero, non solo nei confronti della Fenomenologia ma anche nei confronti della stessa filosofia in generale.
Inoltre c’è da considerare che la riflessione di Jaspers introduce un elemento critico di forza davvero molto grande nel giudizio complessivo sul valore dell’approccio rigorosamente filosofico. Tale elemento consiste non solo nella relativizzazione delle aspirazioni della filosofia a fornirci un’immagine assoluta e conclusiva del mondo (e dell’essere), ma anche (e forse soprattutto) nell’affermazione della necessità di risalire dalla visione oggettiva del mondo esposta dal filosofo alle caratteristiche specifiche della sua personalità (in quanto origine di una presa di posizione soggettiva che deve essere giocoforza relativa). Una trattazione molto estesa e sistematica di questo aspetto può venire ritrovata laddove il pensatore analizza le visioni dei vari filosofi nella forma di –ismi, ossia prodotti di “tipi spirituali” (i filosofi stessi), a loro volta relativi alle visioni del mondo che essi hanno voluto affermare . Ebbene ciò (grazie ai precedenti studi medici e psicologici di Jaspers) non esclude ovviamente nemmeno il riconoscimento di una dimensione psico-patologica (o addirittura francamente psichiatrica) della presa di posizione attribuibile a quella determinata personalità di filosofo. Il che rappresenta poi un ulteriore fortissimo elemento di relativizzazione dell’effettivo apporto offerto dai singoli pensatori alla conoscenza del mondo e dell’essere.
Orbene, a noi sembra che non vi sia stato uno solo filosofo al mondo la cui visione non possa venire «giudicata» (e così inevitabilmente relativizzata nella sua oggettiva rilevanza) in base ad un’analisi psico-patologica della sua personalità . E tuttavia ciò vale in maniera ancora maggiore per Husserl.
E tuttavia ciò vale in maniera ancora maggiore per Husserl. Infatti, proprio inquadrando così dogmaticamente il pensiero della Stein in quello di Husserl, si tende a non considerare due aspetti oggettivamente piuttosto problematici del suo complessivo pensiero.
Il primo è l’introduzione (non facile da spiegare) di una tendenza idealistica in un metodo che inizialmente sembrava voler puntare ben più direttamente alla “cosa stessa” nella sua pienezza ontologica (“die Sache selbst”). Il secondo è un apparato di minuziosissime descrizioni delle strutture di coscienza (ossia di fatto della mente) che in termini analitici sono senz’altro di inestimabile valore, ma dall’altro lato rischiano di costituire anche un’immensa (e forse non del tutto utile) complicazione nello studio della mente. Cosa che vale senz’altro in primo luogo per il neurofisiologo e lo psicologo, ma in una certa misura vale anche per il filosofo. Il che viene poi testimoniato ben testimoniato dalle perplessità di pensatori di razza come Jaspers e Heidegger. Ciò che ne viene pregiudicato è infatti un vantaggioso sguardo d’insieme (invece che analitico) sulla mente umana. A mo’ di esempio di ciò ci sentiamo di menzionare quel Saggio sull’intelligenza umana di John Locke , che esamina la mente in una maniera senz’altro profonda ed esaustiva, ma intanto per mezzo di una limpidità e chiarezza di concetti e linguaggio che ci sembrano davvero esemplari.
Infatti, proprio inquadrando così dogmaticamente il pensiero della Stein in quello di Husserl, si tende a non considerare quella certa distorsione apportata dal pensatore tedesco nell’orizzonte filosofico universale per mezzo di una presa di posizione tendenzialmente idealistica ma intanto tendente comunque a realismo. Essa ha infatti creato una tangibile confusione di prospettive, non mancando inoltre di complicare in maniera forse non necessaria una materia già estremamente complessa attraverso una pletora estremamente farraginosa di concetti a tratti davvero molto pesante e perfino inestricabile. Non intendiamo in alcun modo negare il valore che hanno le osservazioni incredibilmente minuziose (e certamente geniali) di Husserl sulla mente umana e sul suo rapporto con le cose. E tuttavia, da un punto di vista meno interessato all’analisi dettagliata e più interessata invece allo sguardo di insieme (com’è del resto il punto di vista di Jaspers), esse rischiano di creare un apparato di conoscenze che si lascia incapsulare in una sacca che è in sé senz’altro in sé di grande valore (a causa della sua straordinaria ricchezza di contenuti) ma comunque resta una sacca. E così per certi versi essa rischia anche di costituire anche una troppo pesante e pleonastica zavorra.
A tale proposito va precisato che – sebbene inizialmente pare che Jaspers sia stato attratto entusiasticamente proprio dalla minuziosa “descrizione” husserliana dei contenuti di coscienza (per lui preziosa contraddizione del così riduttivo approccio puramente esplicativo della psicologia empirica) – la sua psicologia fenomenologica deve venire considerata anche un superamento di tale metodologia (come illustreremo meglio più avanti). Dunque essa deve venire intesa in fondo come una forte relativizzazione della descrizione mentale husserliana, e non invece come una sua applicazione. Non a caso, come vedremo più avanti, per Jaspers lo sguardo dell’Io rivolto verso sé stesso non è affatto fondante, ma invece non è in realtà altro che uno dei tanti fenomeni naturali della psiche. Esso è quindi un atto psicologico e non filosofico.
Detto questo vorremmo però chiarire che scopo di questo articolo non è affatto quello di sviluppare una polemica anti-husserliana, bensì semmai quello di mostrare (attraverso l’esempio della Stein nella sua relazione con una Fenomenologia che va perfino oltre quella husserliana) quali possano essere anche gli orizzonti molto lontani ed ampi di una Fenomenologia meno condizionata dalle ossessioni analitiche husserliane. Pertanto va detto anche che scopo di questo articolo non è quello di indagare gli scenari post-realistici (filosofia religiosa) del pensiero steiniano – come abbiamo fatto negli scritti precedentemente menzionati –, ma invece quello di restare in prossimità a ciò che effettivamente a lei provenne ancora da Husserl. E ciò in modo che il contributo di quest’ultimo ne resti comunque illuminato.

II- I riscontri testuali
Quanto abbiamo detto finora tocca gli aspetti generali che più ci interessava mettere a fuoco. Quindi in questa seconda sezione ci limiteremo a menzionare i luoghi testuali dell’opera di Jaspers nei quali è possibile trovare riscontro a quanto abbiamo già affermato. Per rendere questo compito più facile divideremo questa sezione in alcune sotto-sezioni dedicate ognuna ad aspetti specifici delle problematiche toccate da Jaspers e che riguardano secondo noi più o meno da vicino anche il pensiero della Stein (o spesso anche di Husserl).
Data però l’enorme ricchezza di spunti offerti dal testo jaspersiano dovremo limitarci a trattare solo le suggestioni più rilevanti e generali che da esso emergono.

II.1 Jaspers come fenomenologo e la Stein.
Sul ruolo giocato da Jaspers nella Fenomenologia non vi può essere alcun dubbio. In particolare egli conta come il fondatore dell’approccio fenomenologico-psichiatrico. Eppure questo suo ruolo tende da molti a venire ricondotto molto direttamente alle complesse analisi psicologiche e ontologiche che vennero condotte da Husserl . Naturalmente viene ampiamente attestata anche l’esistenza di altre fonti della psichiatria fenomenologica ed inoltre anche della visione di Jaspers stesso, e cioè Hegel, Dilthey e Heidegger . La nostra questione al proposito è però duplice. Da un lato l’analisi di PWA evidenzia elementi che già a prima vista distanziano non poco Jaspers da Husserl. Dall’altro lato gli stessi Autori che abbiamo poc’anzi citato attestano che, se è vero che Jaspers di rifece inizialmente ad Husserl, è anche vero che poi se ne distanziò quasi totalmente. Galimberti (p. 176-183) dice che Jaspers protestò con particolare veemenza contro l’intendimento husserliano di filosofia come “scienza rigorosa”. Ed in effetti deve essere stato davvero inaccettabile il fatto che Husserl abbia criticato così severamente la scienza (rivolgendo i suoi strali molto direttamente verso lo stesso “psicologismo” empirico-naturalista combattuto da Jaspers) per poi riabilitare pienamente la scienza facendola equivalere addirittura alla filosofia stessa. È evidente che in questo modo quel “comprendere” (“verstehen”), che aveva intanto sostituito lo “spiegare” (“erklären”) – mettendo così in primo piano il senso delle cose (e facendo così dei esse dei “fenomeni”) –, finiva in tal modo per perdere molta della sua forza, rischiando addirittura di venire abolito nel suo ruolo e valore.
Ecco che Galimberti menziona il fatto che la forte delusione provata da Jaspers verso Husserl (proprio dopo che quest’ultimo aveva letto ed approvato PWA) si lascia riassumere nel fatto che la husserliana “visione dell’essenza” (“Wesenschau”) cominciò ad apparirgli nel complesso un deplorevole “vedere indifferente” (quindi affatto attento al senso). E questo apparve ad Jaspers come un vero e proprio “pervertimento della filosofia”; laddove è evidente che con questo egli intendeva anche una Fenomenologia tutt’altro che soddisfacente. Successivamente (in seguito alla vera e propria rottura che avvenne tra i due a Göttingen nel 1913) il pensatore accentuò ancor più il suo giudizio critico su Husserl, ritenendolo incapace di capire “cos’è la filosofia” ed anche responsabile di un vero e proprio “tradimento” della disciplina. Il che trova poi riscontro nel fatto che Heidegger, nello scrivere una recensione su PWA, ritenne che Jaspers aveva in quel testo denunciato un “fallimento della filosofia” proprio nell’atto di scoprire una “psicologia più principiale”, incentrata nella realtà dell’esistenza e lontana quindi dalla realtà del puro pensiero. Da tutto questo emerge anche quanto sia opinabile che per il pensatore la psicologia venne intesa come una vera e propria filosofia, e più precisamente come una “psicologia comprensiva” radicalmente opposta a quella “esplicativa” (ossia quella meramente empirico-naturalista, e quindi riduzionista).
Il Biondi spiega in maniera ancora più precisa la differenza tra i due pensatori. Egli dice infatti che, se per Husserl i vissuti di coscienza furono appena un mezzo per giungere ad una filosofia fondamentale con l’aspetto di una Fenomenologia (dove è primario il senso della cosa e non la cosa stessa), invece per Jaspers i vissuti costituirono la Fenomenologia stessa. E con ciò abbiamo davanti a noi quella psicologia (primaria rispetto alla filosofia) che è emersa nell’opera jaspersiana da noi esaminata.
Non vi è lo spazio in questo articolo per esaminare oltre la letteratura circa la relazione tra i due pensatori. Per cui, prima di passare all’analisi testuale, diremo solo che ci sembra abbastanza superficiale ed illegittima la tendenza di alcune scuole e di alcuni studiosi a considerare Husserl (anche grazie all’intermediazione di Jaspers) come il padre dell’attuale psichiatria fenomenologica. E vorremmo esporre la nostra perplessità al proposito con la seguente domanda: – posto che Jaspers (in quanto medico e psichiatra) è stato di fatto il più legittimo fondatore della psichiatria fenomenologica, e posto inoltre che il suo pensiero non coincide affatto con quello di Husserl, come si può sostenere che proprio a quest’ultimo vada invece fatta risalire l’intera psichiatria fenomenologica?
Jaspers dal canto suo esprime oggettivamente in PWA delle opinioni che lo rendono abbastanza lontano da alcuni concetti fondanti della Fenomenologia husserliana. Quando discute la presa di posizione contemplativa , quest’ultima viene equiparata ad un “puro pensiero” il cui presupposto fondamentale è la ”distanza” dalla realtà, e quindi anche l’assenza di “interesse” per gli oggetti del mondo. Il che, per il nostro pensatore, annulla di fatto ogni possibilità effettiva di conoscenza. Questo perché si tratta appena di una conoscenza soggettuale e non invece oggettuale (definita come “ontologica”) – essa concepisce pertanto l’oggetto unicamente nel modo in cui esso viene visto dal soggetto, e non assolutamente nel modo in cui esso esiste effettivamente (in maniera totalmente indipendente dal soggetto e della sua coscienza). Oltre a ciò tale forma di conoscenza viene considerata per definizione appena relativa, dato che si tratta solo di una tra le tante possibili WA. Ebbene ci sembra che qui venga posto seriamente in discussione il metodo fenomenologico proposto da Husserl. E precisamente in tre modi: – 1) il distacco teoretico dall’oggetto (praticato nell’epochè e nella riduzione trascendentale) non solo è l’esatto contrario di una conoscenza oggettuale ma è perfino come tale del tutto inefficace; 2) l’oggetto puramente interiore (o oggetto di coscienza) , una volta isolato dal contesto sensibile, non ha assolutamente nulla a che fare con l’oggetto reale e quindi non è affatto un’unificazione di quest’ultimo per mezzo dell’intuizione essenziale ; 3) tale forma di conoscenza è ben lungi dall’essere fondante, in quanto non è per nulla assoluta ma è invece solo relativa. Da tutto ciò appare chiaro che il “fenomeno” deve essere stato per Jaspers qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quello concepito da Husserl. Come può dunque la Fenomenologia del primo essere in continuità con quella del secondo? Naturalmente ciò coinvolge anche le convinzioni espresse dalla Stein nella prima metà della sua opera. C’è però da chiedersi se ella non si sia spostata progressivamente verso una posizione simile a quella di Jaspers slittando poco a poco verso una vera e propria “conoscenza ontologica”, ossia una conoscenza che prevedeva sì ancora il metodo dell’epochè ma comunque appariva alla pensatrice impossibile in assenza del riconoscimento di un mondo oggettuale esteriore totalmente indipendente dalla coscienza. E ciò avvenne proprio nel contesto del già citato Excursus. Ciò potrebbe quindi significare che questo percorso di pensiero steiniano non si mosse soltanto sotto l’egida dell’aspirazione ad un realismo anti-idealistico, ma anche sotto l’egida della messa in discussione della Fenomenologia così come venne instancabilmente concepita da Husserl.
Ne consegue che la Stein deve essersi in quel momento trovata davanti al “fenomeno” nella forma di quell’oggetto definito da Jaspers come “immanente” (laddove quello “trascendente” sarebbe invece di esclusivo interesse psicologico e quindi privo di qualunque connessione con la realtà sensibile), che sembra avere le caratteristiche di una sorta di oggetto pre-cartesiano, e quindi sarebbe lontanissimo dall’oggettualità così come venne concepita da Husserl. E a tale proposito va sottolineata la netta opposizione (secondo Galimberti) di Jaspers al dualismo cartesiano. Il che ci porta a chiederci come avrebbe mai potuto il suo pensiero coincidere con quello di Husserl, che era invece così manifestamente di ispirazione cartesiana. Non a caso, come poi vedremo, Jaspers deplorò fortemente la dottrina filosofica della separazione filosofica tra soggetto ed oggetto (e cioè tra anima e corpo-mondo).
Del resto ovunque nel testo jaspersiano la “Anschauung” (percezione, esperienza ed anche osservazione) viene considerato non solo il presupposto indispensabile di un’effettiva conoscenza ma anche il segno di una conoscenza di sicura efficacia com’è l’intuizione . Del resto proprio nel passo che stiamo discutendo (vedi nota 23) Jaspers afferma che l’intuizione va equiparata ad una vera e propria “intenzione”. Quindi è proprio grazie ad essa che avviene la conoscenza della pienezza dell’oggetto esteriore.
Come abbiamo già accennato, un momento davvero rilevante di divergenza di Jaspers da Husserl sta poi nel modo in cui egli definisce il WB di tipo metafisico, ossia il mondo metafisico . Quello che a lui sembra più concreto e vivibile è il mondo metafisico che viene considerato come la Totalità in cui viviamo e che da ogni parte ci circonda; pur non essendo affatto un oggetto sensibile, e quindi costituendo senz’altro un oggetto sovrasensibile ed un Assoluto. Ebbene questa Totalità è secondo lui l’insieme co-ordinato entro il quale soltanto le singole entità acquistano un senso; dato che altrimenti esse sarebbero solo una caotica congerie. Ma questo è esattamente il mondo nel quale noi come uomini-esistenti siamo immersi totalmente. E quindi questa sua intelligibilità contraddice molto stridentemente ciò che la Stein osserva sulla scorta di Husserl introducendo alla Fenomenologia come fondamentale filosofia – e deplorando proprio quell’immersione nelle cose sensibili che ci impedirebbe di avere la distanza teoretica senza la quale è impossibile una conoscenza affidabile. E ciò riguarda poi la contraddizione jaspersiana del concetto di “ingenuità” naturale (sostenuto dalla Stein di concerto con Husserl) sul quale non possiamo però soffermarci, per cui citeremo qui solo i luoghi testuali in cui può venire ritrovato .
Va però anche detto che, se Husserl rimase sostanzialmente su queste posizioni (nonostante tutte le sue approfondite riflessioni sull’hyletica), il pensiero della Stein si allontanò progressivamente da una visione così rigida. Ecco allora che ancora una volta, grazie ad Jaspers, la scoperta steiniana di un «mondo fuori di noi» può assumere non solo una valenza realistica ma anche la valenza di allargamento del campo di riflessione della Fenomenologia. Del resto in un suo articolo ella parlò proprio di questo, e cioè della Fenomenologia come “Weltanschauung”, nel menzionare Scheler e Heidegger ma senza chiamare in causa Jaspers
Le cose divengono però ancora più chiare nel passo immediatamente successivo, nel quale Jaspers affronta quel particolare genere di metafisica che si associa alla filosofia anche quando non sembrerebbe che sia così . E con ciò torniamo alla valenza contemplante di quello che per lui è appena “puro pensiero” ma non è invece effettiva conoscenza. Ecco che noi ci troviamo con ciò di fronte ad una vera e propria metafisica filosofica (o filosofia metafisica), che però si presenta a noi come la filosofia per eccellenza, e cioè quella che affida l’indagine sull’Assoluto al solo puro pensiero. Più in particolare si tratta di quella tendenza conoscitiva che è costantemente alla ricerca di WB assoluti e totalizzanti per mezzo dei quali fornire un’interpretazione completa ed esaustiva del mondo nella sua natura, secondo la specifica sostanza che viene riconosciuta come il suo fondamento (materia, spirito, divenire, etc.). Si tratta insomma dei vari –ismi per mezzo dei quali la natura del mondo viene definita. E questo è ciò che fa anche la scienza, sebbene l’aspirazione all’Assoluto renda l’indagine comunque tipicamente filosofica. Il problema è però secondo Jaspers sempre lo stesso – queste visioni pretendono dogmaticamente di essere oggettive, ma invece sono sempre soltanto soggettive, e ciò in quanto si tratta appena di WA tra le tante. Non solo, ma in questo caso esse sono costruzioni di puro pensiero astratto, che non si basano in realtà su alcuna esperienza. Ecco allora che ne scaturiscono delle teorie che hanno la valenza di vere e proprie “mitologie”. E di esse vi è traccia perfino in medicina (come nel caso dell’interpretazione meramente cerebrale della mente, secondo Wernicke). Proprio in tale contesto Jaspers riconosce però un “errore” tipico della filosofia, che a nostro avviso può venire (almeno in parte) ascritto anche alla Fenomenologia husserliana, e cioè la presupposizione di un incolmabile jato tra soggetto ed oggetto; laddove invece per la psicologia (in nome della quale parla il nostro pensatore) tra i due termini c’è una del tutto naturale continuità. La conseguenza di tutto ciò è che mentre il filosofo tende a vedere nel soggetto (quanto più distaccato possibile dall’oggetto) la garanzia di una conoscenza affidabile, lo psicologo invece sa che con ciò non si fa altro che forgiare una visione soggettiva dell’oggetto o del mondo, ossia una WA tra le tante che mette poi capo ad un WB tra i tanti. Una presa di posizione così relativa non può quindi avere alcuna speranza di ricostruire l’unità oggettiva del mondo. Cosa per cui lo psicologo (esattamente come fa lo stesso Jaspers lungo tutto la sua opera) si limita a raccogliere tutti i molteplici e relativi WB che stanno in relazione con le altrettanto relative WA prodotte dai filosofi. Si vede bene, dunque, che non vi è qui alcuno spazio per riconoscere un possibile vero atto di riduzione trascendentale da parte della filosofia. Vi è però la possibilità di vedere proprio nella psicologia lo scenario trascendentale nel quale rientra anche la stessa filosofia, venendone così riassorbita e notevolmente relativizzata nelle sue aspirazioni. In particolare il pensatore parla qui della PWA come di un “pensiero del pensiero”, e quindi anche come vera e propria “scienza fondamentale” (ossia una scienza fondante). Ed esso è tale perché indaga le forme del pensiero che possono potenzialmente insorgere nella psiche (o anima) umana e non invece nella coscienza filosoficamente intesa.
Ebbene è esattamente in questo modo che a nostro avviso Jaspers si pone come fenomenologo. Ed è facilmente possibile vedere che in tal modo la sua Fenomenologia non converge affatto con quella di Husserl. Tra l’altro (come abbiamo già detto) proprio qui emerge in Jaspers la suggestione che ci porta a pensare ad una possibile «psichiatria della filosofia» (o anche «psichiatria della personalità del filosofo». Infatti in ogni WB traspare la particolare psicologia del filosofo che lo ha forgiato. Il che significa ancora una volta che l’oggettualità di quel WB ne risulta fortemente svalutata e ridotta.
A tutto ciò va aggiunta un’altra forte critica mossa da Jaspers alla filosofia (partendo dalla psicologia), e cioè il giudizio emesso sulla tendenza costante dell’intera disciplina (da Parmenide, per Spinoza, fino ad Hegel) a costituire un “panlogismo” o “razionalismo”. Secondo il quale il Logos, o Ragione, o Spirito, va considerato come l’autentica origine di ogni realtà. E bisogna ammettere che sia Husserl che la Stein ricadono senz’altro in questo ambito, dato che per essi il mondo esiste d fatto solo se viene conosciuto.
Vi sono però anche luoghi in cui la Fenomenologia di Jaspers sembra collimare abbastanza bene con quella di Husserl. Avviene ad esempio laddove egli chiarisce cos’è l’”osservazione psicologica” (“psychologische Betrachtung”) . Si tratta di un atto conoscitivo-esperienziale che è sostanzialmente diverso da quello filosofico ed anche da quello scientifico. Proprio per questo esso è genuinamente “psicologico”. E tuttavia esso è un atto fondamentale nella sua capacità costitutiva, perché ci restituisce il mondo tipicamente prodotto dalla WA, ovvero un mondo che esiste unicamente in funzione del soggetto che lo produce (ed ha caratteristiche specifiche a seconda del genere di specifica WA). Si tratta in particolare di quanto Jaspers ci mostra come un mondo sostanzialmente umano, ossia l’orizzonte locale di esperienze che ognuno di noi considera spontaneamente (ma anche ingenuamente) come il mondo nella sua totalità, sebbene esso sia appena una parte molto ristretta del mondo, ossia il piccolo luogo o ambito (spaziale e temporale) in cui noi trascorriamo la nostra esistenza. Si tratta di ciò che Jaspers definisce come il nostro proprio “mondo domestico” (“Gehäuse”) E ci sembra che questo concetto possa essere fortemente approssimato al concetto heideggeriano di “radura dell’essere” (“Lichtung”) . Jaspers sta insomma qui affermando che il mondo oggettuale è in realtà costituito dal soggetto. Ed in tal modo egli assume una posizione molto simile a quella assunta da Husserl (con il pieno consenso della Stein) nella seconda parte delle Idee nel contesto della dottrina della costituzione . Almeno in questo senso le Fenomenologie dei due pensatori non possono che convergere. In altre parole anche Jaspers sta qui ponendo in primo piano criteri soggettivi come il «proprio» ed il «quoad nos» come decisivi per affrontare il problema dell’essere. Ed anche a tale proposito va sottolineata l’importanza della riflessione steiniana più prossima all’idealismo trascendentale di Husserl .
Non possiamo però dimenticare che Jaspers sta parlando qui di psicologia e non di filosofia.
Di certo proprio in questa sede egli si oppone con forza all’ingenuità tipica della psicologia empirica, la quale dà acriticamente per scontato il mondo colto dai sensi (convergendo così anche in questo con Husserl nella reazione allo “psicologismo”) . Ma sembra che, ricorrendo alla psicologia e non alla filosofia, Jaspers ci voglia dire che tale ingenuità non è affatto solo dell’uomo comune (chiuso nel suo piccolo mondo) e dello psicologo empirico, ma è anche del filosofo. E ciò è vero perché, stando a ciò che lui dice, anche l’atto di purificazione dell’esperienza per mezzo dell’epochè risulta in definitiva del tutto inutile conoscitivamente dato che inevitabilmente anche il filosofo dedito a questo atto è un uomo chiuso nel piccolo mondo umano che egli invano ritiene riscattato dall’atto di distacco teoretico dall’esperienza sensibile. E ciò ci riporta molto suggestivamente ai luoghi testuali in cui la Stein finisce per riconoscere che anche lo stesso Io trascendentale in ultima analisi non è altro che un esistente, ossia è pienamente appena un “Io psicologico” . In altre parole il pensiero della Stein sembra sfociare anche a tale proposito in un ordine di pensieri nel quale, oltre che di un realismo onto-metafisico, ne va dell’affermazione del primato dell’esistenza su ogni costrutto filosofico che cerchi di relativizzarne l’importanza. E ciò, oltre che ad Heidegger, ci riporta peraltro ad un’orizzonte filosofico ancora più ampio, che è quello rappresentato dal concetto di «in-mondo» indagato da Sartre e Merlau-Ponty .
Un’ulteriore momento di convergenza della Fenomenologia di Jaspers con quella di Husserl e della Stein è quello in cui egli parla delle caratteristiche proprie del WB “animico-culturale”, ossia quello incentrato sulla WA di tipo riflessivo (o auto-riflessivo), e cioè quella che ha come proprio oggetto il Sé umano (interiorità) e non invece l’oggetto esteriore . In questa sede infatti la riflessione del pensatore assomiglia in molti punti alle conclusioni alle quali giunse la Stein alla fine della sua indagine sulla psicologia, mettendo così in evidenza un mondo umano-culturale che ha le caratteristiche di un vero e proprio “spirito oggettivo” .
E questa riflessione collimò peraltro con quella di Husserl circa la relazione inscindibile tra l’hyletica (il mondo della cieca materia) e l’edificio culturale su di essa eretta dall’intelletto umano . Jaspers insomma ci mostra che accanto al “mondo sensibile” vi è un “mondo culturale” che rappresenta un’oggettualità non meno esperibile. Oggettualità che viene esperita proprio mediante il rivolgersi del soggetto verso sé stesso invece che verso il mondo esteriore. E ciò avviene nonostante il fatto che l’interiorità umana (cioè il Sé) sia di fatto un nulla ontologico, e quindi sia una solo metaforica oggettualità nel contesto dell’atto intellettuale auto-riflessivo. Ancora una volta però non possiamo dimenticare che l’impianto complessivo dell’opera jaspersiana si basa sull’affermazione del primato assoluto della dimensione conoscitivo-esperienziale psicologica su quella filosofica – riflessione della quale forniremo qui i riferimenti testuali senza poterci addentrare in essa . Ciò significa quindi che in tale contesto l’atto di auto-riflessione non equivale affatto all’atto (sostanzialmente filosofico) fondante l’essere, lungo un percorso che è lo stesso della riduzione trascendentale (ossia il rivolgersi dello spirito verso sé stesso per riconoscersi come l’unico luogo in cui l’essere esteriore trovi una forma compiuta). Ed in ciò va detto che Jaspers mette fuori gioco anche la ponderosissima riflessione condotta da Stein su questo aspetto proprio nella fase più matura della sua onto-metafisica, ossia in EES . Il richiamo di Jaspers ad un atto sostanzialmente psicologico (e non filosofico) ci ricorda ancora una volta che esso sarà magari anche fondante, ma appena nella veste di una tra le tante WA che sono alla portata della psiche (o anima o mente) umana. Ponendo in evidenza tale atto noi non abbiamo dunque fatto altro che descrivere una delle tante possibilità di conoscenza del mondo da parte dello spirito. Ma non abbiamo invece affatto messo al sicuro per sempre la conoscenza del mondo stesso.
A ciò va solo aggiunto che proprio in questo passo Jaspers precisa che uno dei più bassi mondi esperiti dall’uomo per questa via è quello “immediato”, ossia il mondo vissuto ma non ancora compreso. E questo è per lui (così come per Husserl e Stein) il mondo di una deplorevole ingenuità che senza dubbio attende di venire riscattata. Ed il riscatto consiste per lui (sempre in concordanza con la Fenomenologia husserliana) nella consapevolezza del “mondo dell’altro”. Solo con quest’ultimo, infatti, si può parlare di un’autentica conoscenza. Il che avviene per mezzo del riconoscimento di un’oggettualità (che sta davanti al soggetto, ovvero un “Gegenstand”) che non insorgerebbe mai se essa non venisse riconosciuta anche dall’altro. Stiamo insomma parlando della dottrina husserliana dell’inter-soggettività.

II.2. Il processo della formazione del mondo e dell’auto-formazione spirituale.
Nel pensiero di Edith Stein quello della formazione e dell’auto-formazione è un tema costante ed inoltre affrontato in maniera nel tempo sempre più nuova e ricca, nel corso dello sviluppo dell’opera in direzione di una franca metafisica religiosa. All’inizio la riflessione steiniana al proposito restò sostanzialmente all’ombra delle convinzioni espresse da Husserl, specie nella seconda parte delle Idee con la sua complessiva dottrina della costituzione. Ed in questo caso si tratta in primo luogo della formazione del mondo materiale da parte dello spirito umano in quanto Io intellettuale e razionale. Successivamente però (a partire dall’intensificarsi della vita religiosa associato all’incontro con il tomismo) la Stein iniziò a pensare da un lato ad una formazione di più ampio respiro (la formazione del caos materiale mondano da parte dello Spirito o Io divino) e dall’altro lato ad un’auto-formazione dell’uomo ad ente intellettuale-spirituale che ricalcava (in termini metafisico-religiosi e teologici) il percorso della «riduzione trascendentale» (in quanto atto del ripiegarsi dell’Io su sé stesso nell’osservazione del flusso dei suoi vissuti). In questo atto la Stein iniziò a vedere (rifacendosi intanto ormai non più a Tommaso alla grande tradizione agostiniana della riflessione sull’«Io sono» dell’Esodo, ovvero la principale affermazione di Dio sulla propria identità) il prototipo dell’auto-conoscenza e dell’auto-coscienza. Ossia le vie per mezzo delle quali l’uomo si riconosce come Io intellettuale-spirituale e quindi afferma la propria identità ed insieme natura spirituale, elevandosi così (con l’intermediazione dell’anima) sul corpo e sulla materia mondana. Questa complessiva riflessione iniziò nella seconda metà di Potenz und Akt (PA) e poi si prolungò in EES raggiungendo il culmine nella seconda metà di quest’opera .
A tale proposito (senza però poter scendere troppo in dettaglio) c’è da dire che Jaspers semplificò e snellì alquanto il concetto di auto-formazione unito poi inestricabilmente a quello di auto-riflessione (invece visto in maniera così complessa sia da Husserl che dalla Stein) . Egli infatti constatò che non vi è alcun risultato se al semplice «trovarsi davanti a sé stesso» non si aggiunge anche il “volersi”, e precisamente l’accettarsi esattamente come si è. Il che svincola pragmaticamente il processo di auto-formazione dal peso di qualunque ideale pregiudiziale da raggiungere, e quindi da qualunque ipoteca etica ed etico-religiosa. Cosa che oggettivamente relativizza non poco (almeno dal punto di vista di Jaspers) le così dense congetture steiniane su questo tema. Per il nostro pensatore l’atto di formazione è pertanto concreto, vitale e fattuale al massimo grado, dato che consiste appena nel ricongiungersi con la personalità che si è davvero autenticamente. Questo processo non ha quindi assolutamente nulla di teoretico e intellettuale né ha assolutamente nulla di metafisico-religioso (come nel contesto delle dottrine che teorizzano la naturale razionalità dell’uomo quale Io-Spirito in seguito al dono divino). E quindi tale processo non equivale né alla propria auto-formazione come «Io» (intellettuale-spirituale) né tanto meno al raggiungimento dell’auto-coscienza. Va da sé che in tal modo si tratta di un formarsi come “persona” che per Jaspers è totalmente diverso da quello sostenuto dalla Stein. Per cui non mette conto assolutamente parlare di questo aspetto nel quale i due pensatori sono così radicalmente diversi. Diremo quindi solo che la pienezza dell’auto-formazione si raggiunge per Jaspers nelle cosiddette “nature plastiche” (e non invece nelle nature ascetiche, rappresentate dal “santo”), ossia quelle che vivono avendo solo sé stesse come scopo. Qui la sua presa di posizione esprime una certa adesione al titanismo nietzschiano. Ma comunque non è su questo verte il nostro articolo.
Intanto non vi è alcun dubbio che, sia per Husserl che per Stein, questa complessiva dinamica equivale alla formazione razionale del caos mondano, che a sua volta (in termini teoretico-conoscitivi) corrisponde alla trasformazione dell’ente mondano in ente conosciuto, e quindi tanto oggetto di coscienza quanto oggetto dotato di senso. Ancora una volta ci troviamo dunque qui di fronte all’intendimento della cosa come “fenomeno”. Jaspers invece parla molto poco di spirito (se non piuttosto criticamente, e cioè negli usuali termini riduttivi impiegati in filosofia per definirlo). Egli parla invece continuamente ed intensivamente di “anima” (identificata con la mente in quanto psiche, e quindi entità ben più che naturale) vedendo in essa il centro motore dal quale si irradiano tutte le possibili WA ed i conseguenti relativi WB. E vede la formazione del mondo da parte dello spirito umano proprio nella relazione esistente tra anima, WA ed infine WB, ovvero le immagini del mondo che l’uomo si crea al solo scopo di poter esistere in esso. Tuttavia, pur annoverandola tra i vari possibili WB, egli esprime una certa sfiducia nella presa di posizione razionalistica (incentrata com’è proprio nella forza formatrice del pensiero) colta nella sua attitudine a portare ordine nel caos materiale . Tale atto consiste infatti per lui semplicemente nella “formalizzazione” e quindi nella sottomissione del dinamismo materiale reale, concreto e vitale, alla rigida fissità (astratta ed irreale) della forma. Non a caso egli giunge spesso a deplorare il conflitto tra Conoscenza e Vita che sempre è stato apportato dalla filosofia nell’esperienza umana . Ed inoltre giunge spesso a deplorare nel complesso l’opera del tutto astratta ed irreale della logica .
Commentando negativamente la formalizzazione, egli però sta svalutando anche quella complessiva dottrina teoretico-conoscitiva incentrata nel riempimento delle “forme vuote” che già si ritrova (in parte e solo indirettamente) in Husserl e che poi nella Stein non solo si sviluppa ma si riconnette anche alla tradizione medievale (specie a Duns Scoto oltre che a Tommaso d’Aquino) . Dobbiamo quindi presumere che le due vie per pervenire al “fenomeno” (quella di Husserl-Stein e quella di Jaspers) siano state molto diverse. Jaspers spera infatti di coglierlo nel pieno del divenire vitale mondano ed esteriore (grazie alla forza dell’intuizione, o “Anschauung”), mentre gli altri due pensatori sperano invece di coglierlo negli alti e sereni strati dell’interiorità, della coscienza egoica, dello spirito (umano-divino) ed anche delle grandi ed astratte forme categoriali (presso la Stein esattamente i Trascendentali del pensiero medievale) .
In particolare Jaspers ritiene che l’intuizione (per il fatto di muoversi nel mondo del divenire senza turbarlo) sia l’unica capace di lasciare l’oggettualità esteriore così come essa è (ossia come un “fenomeno”). Di conseguenza egli ritiene l’intuizione il presupposto irrinunciabile affinché davanti allo spirito si presenti realmente un’oggettualità. E bisogna dire che una posizione molto simile era stata espressa anche da Scheler nella sua davvero severa critica all’ambizione husserliana di concepire un “oggetto di coscienza” .
Ma in tal modo noi ci ritroviamo nuovamente di fronte allo spessore dell’ontologia («mondo fuori di noi» indipendente dalla coscienza) alla quale approdò la Stein dall’Excursus in poi. Ed in effetti, leggendo la sua opera, si ha esattamente l’impressione che da questo momento in poi la complessiva dottrina della conoscenza (incentrata nella formazione) sia rimasta senz’altro in piedi ma solo assumendo un ruolo di secondo piano. Bisogna però anche dire che nel corso dello sviluppo successivo (poc’anzi menzionato) ella ritornò in qualche modo ad una sorta di teoria della conoscenza, ormai però profondamente influenzata dalla metafisica religiosa agostiniana. E ci chiediamo allora se in questa fase (nel descrivere l’atto di ripiegamento dello spirito su sé stesso, auto-formandosi per mezzo del riconoscersi come identità che include in sé tutto l’essere possibile, sul modello dell’«Io sono» divino) ella non stia parlando di un atto di intuizione quasi esperienziale. Del resto il coglimento agostiniano del «cogito-sum» aveva in fondo esso stesso queste caratteristiche. Ebbene bisogna considerare che qui Jaspers sta tra l’altro contrapponendo la presa di posizione contemplativa a quella razionale. E l’intuizione gli sembra il nucleo stesso della prima. Dato che soltanto tale atto è per lui capace di lasciare integro un oggetto supremamente unitario come l’Assoluto invece di scinderlo fatalmente come fa la tendenza alla definizione concettuale che è propria della razionalità. Questo deve pertanto essere stato il tratto portante dell’estremo interesse del pensatore per la metafisica.
Va comunque detto che anche qui interviene il forte fattore svalutante che è rappresentato in Jaspers dall’affermazione del primato della psicologia sulla filosofia . Per lui infatti il processo di formazione del mondo, che si diparte dall’anima (in quanto centro) è un processo che tende all’infinito (la teorica totalità di tutti i possibili WA e WB) senza però mai poter giungere a compimento. Si tratta pertanto solo della relazione tra ideale (in quanto possibilità infinita) e reale (in quanto possibilità già realizzata). Ebbene, questo reale è senz’altro l’oggettualità in quanto WB posta di fronte alla relativa WA. Ma tale oggettualità è appena un’immagine e non invece l’effettivo “Gegenstand” (determinato e finito); che è poi l’oggetto stante davanti a noi del tutto indipendentemente dalla nostra presa di posizione. In primo luogo ne deriva quindi che l’intero processo di formazione è appena la metafora di qualcosa che avviene in verità solo nella nostra mente (e non invece nella realtà fattuale) ed in secondo luogo ne deriva che da esso non ci si può aspettare in alcun modo un risultato definitivo (come quello ipotizzato da Husserl e dalla Stein), cioè la completa ed esaustiva definizione dell’oggetto per mezzo dell’ormai ultimata intuizione essenziale. A ciò va solo aggiunto che presso la Stein ritroviamo (nella fase ultima della sua matura ontologia) uno schema molto simile della relazione tra la possibilità ideale infinita (le “essenzità”, o “Wesenheiten” trascendenti) e la realtà oggettuale concreta . E questo può essere un altro indizio della progressiva diminuzione in lei della fede nell’ontologia interiore e di coscienza (ideale), la quale qui viene riconosciuta essere appena una «possibilità di essere» ed affatto invece una realtà.
In una qualche misura, fin dal momento del suo pieno riconoscimento di un’ontologia esteriore, la Stein si era approssimata dal mondo ideale al mondo reale. Uno dei nuclei della sua contestazione dell’idealismo trascendentale di Husserl (insieme ad altri discepoli, in particolare Hering) fu proprio l’affermazione della necessità di ricostruire (per mezzo della ricerca fenomenologica) un mondo di essenze, ossia le cose come “fenomeni” (ontologia essenziale) nella realtà vissuta e non invece solo nella coscienza . Il progetto era insomma quello di restituire semplicemente ad ogni cosa il suo senso, senza dover necessariamente passare per il pesantissimo e complessissimo apparato dottrinario messo su da Husserl. E ritroviamo qualcosa del genere anche in Jaspers . Egli precisa infatti che la formazione da parte dell’anima si compie nel pieno della dimensione attiva, vitale e dinamica, ossia quella che è caratterizzata dal perenne movimento e quindi è infinitamente lontana dal piano (astratto e statico) della definizione concettuale.
Soffermandoci poi su altri aspetti del concetto di formazione jaspersiano possiamo notare che esso sembra a tratti voler sostituire con esso quello husserliano di intenzione . E non a caso ciò avviene ancora sul piano della vita. infatti egli afferma che, fermo restando l’oggetto esteriore nella sua irriducibile impositività ontologica, l’oggetto di visione interiore agisce ormai sull’anima appena come una forza e non più invece come un’effettiva oggettualità. È dunque proprio così che avviene la formazione (dal versante puramente soggettuale dell’esperienza), e cioè nel contesto del costituirsi di una WA che a sua volta delinea una determinata immagine dell’oggetto reale. Ne consegue ancora una volta che la formazione non è altro che un processo metaforico. Inoltre qui Jaspers sta di nuovo parlando di quella particolare WA che è la presa di posizione intuitiva, ossia quella che è molto più delle altre basata sull’esperienza immediata (“Anschauung”). Dato che esso è soggettuale, nemmeno questo atto può dunque venire considerato effettivamente formativo (invece che metaforico). E però esso, a differenza della presa di posizione razionale-pensante, è comunque in grado di rispettare l’oggetto come totalità (senza scinderlo nelle sue molteplici qualità, corrispondenti poi a categorie e concetti), e quindi riesce a restare ben più prossimo all’oggettualità reale che è esteriore alla coscienza. Tanto più perché qui si delinea un’esemplare e piena “chiarezza” dell’oggetto (garantita pienamente solo dall’esperienza immediata), della quale quella pensante-razionale è appena una pallida ombra. E peraltro Jaspers ci mostra come tutto ciò si presti perfettamente a definire una delle oggettualità più pienamente ontiche come sono il simbolo e l’idea.
I quali vengono colti intellettualmente nella loro unità su un piano molto simile a quello della percezione, e quindi senza alcuna sussunzione nell’universale e nell’inter-soggettività (solo il singolo può infattti coglierli).
Ebbene a nostro avviso questa dottrina potrebbe aiutare molto a comprendere il tipo di riflessione filosofico-metafisica che la Stein condusse (nel pieno della sua fase mistica) allorquando si occupò della teologia simbolica di Dionigi l’Areopagita. Quel che è certo è che ciò non sarebbe potuto avvenire se ella non avesse percorso (attraverso l’intermediazione dell’onto-metafisica tomista) una strada che recava verso una Fenomenologia esteriorista che in Husserl certamente non si ritrova. E tutto ciò diviene ancora più chiaro se teniamo conto di quanto dice Jaspers circa presa di posizione mistica . Egli equipara fortemente tale presa di posizione a quella intuitiva soprattutto per il fatto che un supremo oggetto unitario e totale (che peraltro si trova del tutto al di fuori del campo dell’esperienza sensibile) ha la caratteristica di rappresentare una “pienezza” oggettuale (la massima possibile) così grande da poter venire colta (ancor più che nel caso dell’oggettualità mondana) solo rinunciando del tutto alla tendenza analitica del pensiero razionale. Infatti se esso viene suddiviso, allora immediatamente svanisce (il che avviene quando all’Assoluto divino si attribuiscono qualità sensibili). Pertanto solo un coglimento immediato e incondizionato del tutto “irrazionale” può permetterci di coglierlo. E per giunta tale oggettualità deve necessariamente sfuggire a qualunque atto di “formazione razionale” in quanto essa si trova infinitamente aldilà del reale mondano e del sensibile. E quindi di fatto è un nulla. Tanto è vero che il luogo del suo coglimento è solo interiore ed affatto invece esteriore. Esso insomma non è un “contenuto” (“Inhalt”) ma è solo un “vissuto” (“Erlebniss”). Ebbene tutto questo è ciò che effettivamente avviene in quell’esperienza mistica della quale così intensivamente si occupò la Stein nell’ultima fase del suo pensiero. Ed in base a queste osservazioni, appare allora evidente che ciò non sarebbe stato mai possibile se ella avesse continuato a servirsi della presa di posizione razionale-pensante che è imprescindibile nel pensiero husserliano. Tra l’altro anche quando ciò che dice Jaspers sembra assomigliare a ciò che dice Husserl (definizione dell’oggetto mistico come un “vissuto”), appare chiaro che intanto esso si costituisce per una via completamente diversa da quella del distacco teoretico dall’esperienza sensibile. Anzi sembra costituirsi su un piano (quello dell’immediata intuizione) che è molto vicino a quello della percezione.
Nel complesso l’indagine condotta da Jaspers (fondandosi sulla psicologia e non sulla filosofia) riesce a vedere nella mistica un effettivo campo di conoscenza anche se esso (in maniera apparentemente paradossale ed incomprensibile) diverge tanto dall’esperienza quanto dal pensiero razionale. In particolare nella mistica mancano totalmente l’oggettualità e gli opposti logici, con la conseguenza della totale impossibilità di qualunque indagine razionale su di essa. Eppure, ciononostante, mentre la razionalità sfugge il compimento (a causa dell’aspirazione ad un’indagine infinita), la mistica invece punta proprio al compimento, ossia all’unione a Dio. E quindi pur con tutta la sua inconsistenza ontologica non vi è nulla di più concreto di questo genere di conoscenza.
Ebbene, una volta messe così le cose, il lavoro svolto dalla Stein nella sua ultimissima fase mistica appare perfettamente comprensibile sulla base di una Fenomenologia che non si lascia in alcun modo ridurre al rigore fanatico del razionalismo tanto filosofico che scientifico. Abbiamo visto infatti con quanta forza Jaspers protestò contro la filosofia come “scienza rigorosa”. Questa Fenomenologia appare pertanto in grado di contemplare qualunque genere di presa di posizione senza in alcun modo contestarne la legittimità (se non sottolineandone la relatività). Ed ecco allora che grazie a Jaspers il pensiero mistico della Stein è ben più comprensibile che non grazie ad Husserl. Rifacendosi solo ad Husserl, infatti, o si è costretti ad arrampicarsi sugli specchi per dimostrare un’inesistente continuità della mistica steiniana con la Fenomenologia husserliana, oppure si è costretti a dichiarare la totale rottura della pensatrice con quest’ultima (che è anch’essa una forzatura). Rifacendosi a Jaspers, invece, non è necessario nulla di tutto ciò.

II-3. Jaspers e l’ontologia realista.
Nel complesso l’impianto teorico della ricerca di Jaspers (incentrata sulla relatività di qualunque presa di posizione filosofica o scientifica rispetto all’essere ed al mondo) esautora per definizione tanto la posizione idealistica quanto quella realistica. Ci sembra pertanto abbastanza utile verificare cosa accade quando si applica questo schema alle idee più realiste sviluppate nel tempo dalla Stein nel distanziarsi dall’idealismo trascendentale husserliano.
Ecco che, esaminando i vari possibili WB, Jaspers pone alla base di tutti quello che viene professato tanto dall’uomo comune quanto dallo scienziato empirico, e cioè quello che vede il mondo come sostanzialmente sensibile e spaziale . Si tratta senza dubbio del mondo più concreto e reale che ci sia. Eppure, per quanto ciò sia sorprendente, le cose non stanno affatto così per l’uomo, proprio a causa del fatto che esso tende spontaneamente a formarsi una propria immagine del mondo dove vive. Pertanto nemmeno il mondo sensibile-spaziale è per davvero oggettivo ed assoluto, ma è invece appena relativo alla corrispondente WA umana. Jaspers suggerisce (sulla base del biologo von Üxküll) che questo mondo è davvero oggettivo solo per gli animali invertebrati, ossia quelli che non hanno nemmeno un barlume di coscienza. Dunque il mondo più immediato in cui viviamo è in realtà sempre solo un mondo umano e pertanto per definizione soggettivo. In altre parole qui Jaspers assume una posizione che (almeno in una certa misura) si può considerare sbilanciata verso l’idealismo, e con ciò esautora ogni forma di realismo in quanto presumibilmente ingenuo. Del resto da ciò che lui dice si può opinare che il mondo nel quale Husserl e la Stein temevano l’immersione da parte dell’uomo (con la conseguente impossibilità della conoscenza) sembra essere appena il mondo animale più basso possibile. Sulla base di tutto ciò si potrebbe quindi ritenere che la Stein si illuse sia quando assunse una posizione idealistica (insieme ad Husserl) sia quanto assunse poi una posizione realistica (insieme a Tommaso). Ma sta di fatto che quest’ultimo realismo era di stampo onto-metafisico (ed anche non poco influenzato dalla dogmatica cristiana di origine aristotelica) e quindi rispecchiava quella metafisica alla quale Jaspers non concesse alcun valore, ossia quella che nega la piena coincidenza tra il Trascendente ed il mondano (in una forma di vero e proprio panteismo) . L’onto-metafisica alla quale approdò ad un certo punto la Stein si incentrò infatti (almeno fino ad un certo punto) sul concetto di “analogia entis” tomista; secondo il quale l’ente mondano risaliva al supremo Ens divino.
Posizione che però non a caso venne da lei decisamente superata nell’iter successivo, anche grazie all’apporto del pensiero di Przywara .
Del resto Jaspers persiste in questa convinzione anche quando teorizza una differenza tra il punto di vista soggettuale ed il punto di vista oggettuale (due tra le principali forme di WA), riconoscendo poi in quest’ultimo una forma attiva ed una forma passiva. Ebbene, parlando della forma attiva della presa di posizione oggettuale egli la definisce come quella generata dall’espressa volontà umana di incontrare una resistenza nel mondo, e quindi di imbattersi in un “Gegenstand”. In tal modo sembra delinearsi più che mai un mondo indipendente esteriore, eppure esso continua a dipendere comunque dal soggetto. In altre parole esso ancora una volta non è affatto il mondo oggettivo, bensì è invece appena un mondo umano. Ma la Stein riconobbe la pienezza ontologica del “Gegenstand” proprio quando iniziò ad avere dubbi sulla costituzione dell’oggetto da parte della coscienza (intenzione). E non solo. Perché proprio per questa via ella pervenne al concetto di essere che invece era del tutto assente nella visione husserliana.
Tutto ciò sembra dunque suggerirci un altro ed opposto angolo visivo dal quale osservare il pensiero della Stein per l’intermediazione di quello di Jaspers. La visione di quest’ultimo sembra avere anche una certa portata soggettivistica (sebbene solo nel contesto del generale relativismo da lui sostenuto), per cui alla luce di essa il realismo perde non poco in forza e valore filosofico. Il che può significare poi che una Fenomenologia davvero appropriata dovrebbe essere capace di mantenere un saggio equilibrio tra idealismo e realismo (equilibrio che non sembra davvero esserci in quella husserliana). Ora, come abbiamo già suggerito, è probabile che la Stein abbia intuito questa necessità filosofica, e che quindi il suo realismo possa venire interpretato come la conseguenza negativa, forzosa e poco autentica di un suo vero e proprio intrappolamento nelle maglie della dogmatica tomista. Che sicuramente costituisce anche una delle più dogmatiche forme di realismo. Fatto sta che (come abbiamo già detto) la Stein si sottrasse poi a questo invischiamento. E quindi è probabile che il suo successivo percorso di pensiero sia stato tra l’altro anche la continuazione dello sforzo per allargare il campo della Fenomenologia.
Continuando l’analisi del testo jaspersiano constatiamo poi che secondo il pensatore il mondo esteriore rappresentato dal WB non è altro che quello “concresciuto” (“verwachsen”) insieme all’anima . Ecco allora che, tenendo presente Jaspers, così come fallisce il tentativo di dissecare un mondo oggettivo rispecchiato nella coscienza (dopo la sua purificazione per mezzo dell’epoché), allo stesso modo fallisce anche il tentativo di identificare un mondo esteriore totalmente oggettivo in quanto del tutto indipendente dal soggetto Esso, infatti, a causa della sempre modificante presenza del “Dasein” è altrettanto illusorio quanto il primo.
Giunto a questo punto Jaspers riconosce però che accanto al mondo concresciuto con l’anima (che è quello vissuto e reale, per quanto in parte soggettuale), e che è tipicamente sconosciuto, vi è molto marginalmente anche un mondo conosciuto (cioè quello considerato reale e valido per Husserl). Ma esso, per quanto conosciuto, è il mondo meno reale e più illusorio; lo dimostra il fatto che esso è quello meno “efficace” (“wirksam”). Nella gerarchia di oggettualità sta dunque decisamente in primo piano il mondo concresciuto con l’anima. Il mondo conosciuto è invece sostanzialmente quello dell’appercezione e della formalizzazione. Ecco che ancora una volta vediamo che della Fenomenologia di Jaspers idealismo e realismo trovano in equilibrio pressoché perfetto.
Possiamo poi trovare espressa la perfezione di questo equilibrio ritornando alla trattazione jaspersiana del mondo animico-culturale . Come abbiamo visto egli pone l’uno accanto all’altro il “mondo immediato” (puramente soggettivo) e il “mondo dell’altro” (puramente oggettivo). La pari legittimità di esistenza di questi due mondi dipende da quella indiscutibile continuità naturale tra soggetto ed oggetto che secondo Jaspers può venire ritrovata solo in psicologia (prendendo atto delle fondamentali funzioni della mente) e non invece in filosofia. Quest’ultima invece parte sempre da una scissione irrecuperabile tra i due termini, e quindi tende inevitabilmente a rappresentarsi un mondo soggettuale «posto davanti» al mondo oggettuale, e da esso fatalmente separato. Ecco che in tal modo insorge ineluttabilmente quel tema della «problematicità della conoscenza» che senza alcun dubbio è stato una delle principali molle che hanno fatto insorgere l’intera ricerca husserliana. Sta di fatto però che tale problematicità appare del tutto astrusa ed assurda agli occhi del medico (abituato com’è a considerare come scontate le naturali funzioni psicologiche nel contesto della conoscenza). E così è stato evidentemente anche per Jaspers.
Ebbene va detto che, pur nel suo lodevole tentativo di superare l’idealismo husserliano verso un realismo, la Stein restò lei stessa vittima della contrapposizione tra due visioni (idealismo e realismo), ognuna delle quali ha pretese assolutizzanti e trascendentalizzanti. Tuttavia, a moderazione di questa critica va considerato che, solo grazie a Jaspers, la negazione steiniana di un Io trascendentale viene completata dall’affermazione che vi è in verità appena un Io psicologico (che è poi l’Io-esistente da lei pienamente riconosciuto nel contesto della sua onto-metafisica) . Esso corrisponde poi allo spirito soggettivo di fronte al quale si trova un mondo oggettuale che qui anche Jaspers ammette come “spirito oggettivo”, ossia mondo della cultura. E così si ricostituiscono in fondo i termini di una alla quale la Stein era approdata.

III- Conclusioni.
Sulla base delle osservazioni testuali ci sembra che i principali obiettivi di questo articolo siano stati raggiunti. Essa ha dimostrato infatti che, se per molti versi la Fenomenologia di Jaspers (PWA) si contrappone non solo a quella di Husserl ma anche a quella della Stein, la sua analisi offre comunque la preziosa occasione di comprendere meglio quel percorso della pensatrice che (in misura maggiore o minore, secondo le varie interpretazioni) comunque si distanziò tangibilmente dal pensiero husserliano. Abbiamo visto che tale prospettiva si riflette soprattutto nella possibilità di intendere meglio il senso e la misura del distanziamento della Stein da Husserl durante l’ultimissima fase mistica del suo pensiero. Ma oltre a ciò (non volendo attardarsi in una polemica anti-husserliana che senz’altro può essere fazione e sterile), la presa in considerazione di Jaspers suggerisce con discreti argomenti che il complessivo percorso di pensiero steiniano debba venire inteso anche come lo sforzo di allargare l’ambito della Fenomenologia husserliana raccordandolo con un orizzonte storico-filosofico che oggettivamente fu molto più ampio.

Note.

Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Vol. IX, 2016 p. 129-170; Vincenzo Nuzzo, “Il pensiero di Edith Stein sullo sfondo del pensiero di Meister Eckhart. Ovvero il neoplatonismo steiniano”, Dialeghestai, 30 Dicembre 2016; Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018; Vincenzo Nuzzo, “È possibile pensare ad una Edith Stein cartesiana in quanto filosofa religiosa?”, Dialeghestai, 21, 2019; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e l’ebraismo religioso”, Philosophica, 51, 2018, 81-95.
2Vincenzo Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della-fase-mistica-del-suo-pensiero/
3Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Forgotten Books, London 2018.
4Umberto Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2020, II, 9, 1 p. 178.
5Marco Tedeschini, “La controversia Idealismo Realismo (1907-1931). Breve storia concettuale della contesa tra Husserl e gli allievi di Monaco e Göttingen”, Internat. J. For the History of Texts and Ideas, 2, 2014, 235-260.
6Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald, Mainz 1998, II p. 18, VII p. 81-94; Edith Stein, “Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie”, in: Edith Stein, Freiheit und Gnade, ESGA 9, Herder, Freiburg Basel Wien 2014, 8 p. 143-158.
7Karl Jaspers, Psychologie… cit., I, IA, 3 p. 73-78.
8Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIC p. 160-188.
9Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9,3 p. 188-189.
10Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, V-VIII p. 239-441; Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches… cit., X, p. 129-133, XII p. 148-155.
1Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI p 344-386.
12Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v. Aquino. Versuch einer Gegenüberstellung“, in: Husserl zum 70. Geburtstag, N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-338; Edith Stein, “Was ist Philosophie? Ein Gespräch zwischen Edmund Husserl und Thomas von Aquino”, in: Edith Stein, Freiheit… cit., 6 p. 91-118.
3Vincenzo Nuzzo, “L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain”, Dialeghestai, 31 Dicembre 2018.
4Dermot Moran, “Immanence, Self-Experience, and Transcendence in Edmund Husserl, Edith Stein, and Karl Jaspers”, American Catholic Philosophical Quarterly, 82 (2) 2008; Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 2 p. 179-187.
5Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIC p. 160-188.
6Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Heidelberg New York 1973.
7Karl Jaspers, Psychologie… cit., III p. 189-407.
8Pare che, nel Dicembre 2007, nel corso di un colloquio privato avvenuto a Venezia presso l’Università Ca’ Foscari (nell’ambito del Master in Comunicazione e Linguaggi non verbali), Galimberti abbia affermato che ogni filosofo è tendenzialmente uno psicotico.
19John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma Bari 2022.
20Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 2 p. 180.
21Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9, 2 p. 179-187; Simone Biondi, “I due volti della psichiatria fenomenologica”, Comprendre, 25-26, 2015-2016, 131-152.
22Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 8-11 p. 168-220.
23Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2 p. 50-73.
24Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, I, 31-32 p. 67-73, I, II, II, 60-65 p. 78-86, I, II, III, 103-108 p. 135-141, I, III, II, 85-86 p. 213-221, I, III, 87-96 p. 222-246, I, IV, 97-102 p. 245-260, I, IV, I-III, 128-153 p. 338-382, II, I, I, 1-4 p. 441-448, II, I, I, 11-15 p. 461-479, II, III, I, 49 p. 611-621; Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia pura, Il Saggiatore, Milano 2008, III, A, 28-55, p. 133-215; Pedro MS Alves e Carlos Aurélio Morujão, Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Universidade de Lisboa, Lisboa 2007, II Voll, I, I, § 4, 25-38 p. 56-58, I, I, § 11, 49-51 p. 68-71, I, II, II, § 38, 67-69 p. 89-91, § 41-43, 73-80 p. 97-105, I, III, § 29-30, 97-104, p. 116-123.
25Edmund Husserl, Idee…cit., I, II-IV p. 115-375, II, III, I, 49 p. 611-621; Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão, Edmund Husserl…cit., II Voll., I, I, § 11, 49-51, p. 68-71, II, I, III, § 29, 97-101 p. 116-120.
26Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão, Edmund Husserl…cit., II Voll. § 17, 67-68 p. 87-89.
27Umberto Galimberti, Psichiatria … cit., II, 9, 1 p. 177.
28Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA p. 50-73,
29Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, C, I p. 163-166.
30Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, Introd., p. 35-52, I, I p. 53- 86, I,II p. 87- 99; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, Introd. p. 39-44, I, 1-2, p. 45-71.
31Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2 p. 68-73, II p. 122-132.
32Edith Stein, “Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie”, in: Edith, Freiheit…cit., 8 p. 143-158.
33Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, C, II p. 166-177.
34Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
35Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano, 2008, p. 52-57; Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, Intr. II, 7-8 p. 46-60, I, I, I, 9 p. 64-68.
36Edmund Husserl, Idee…cit., II, I, I, 1-8 p. 439-454, II, I, I, 11 p. 461-463, II, I, I 18, p. 491-523.
37Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, I, 1-3 p. 9-50, V-VI p. 107-154.
38Edith Stein, Endliches… cit., III, 3 p. 68-72, III, 7 p. 83-86, IV, 3, 2-16 p. 144-181, VI, 4, 3 p. 293-296.
39Umberto Galimberti, Psichiatria… cit., II, 9, 2 p. 179-180.
40Vedi nota 11.
41Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, I, I, 1 p. 37-40, III, II, 1 p. 354-389; Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 39-41, p. 121-124
42Karl Jaspers, Psychologie… cit., II, B p. 147-160; Karl Jaspers, Psychologie… cit., I, B p. 78-102.
43Edith Stein, Psicologia… cit., I, 5, 2-3 p. 106-118, II, 2, 2 p. 221-240; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 3, p. 23-26; V, II, 2, p. 80-91.
44Angela Ales Bello, Il senso …cit., I, 1-3, p. 9-50, V – VI, p. 107-154.
45Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl. 4 p. 38-42, IA, 2 p. 50-73, IB, 2 p. 94-100, II p. 122-124, IIC, II-III p. 166-188.
46Edith Stein, Der Aufbau… cit., VI, I-II p. 74-92; Edith Stein, Potenza e atto… cit., V 1-8 p. 147-236, VI, 1-23, p. 237-386; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4, 3 p. 293-296, VII, 9, 2 p. 362-365.
47Edith Stein, Endliches … cit., II, 7 p. 57-61, V, 5, 1 p. 239-241, VI, 4, 3-4 p. 288-296; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 115-120.
48Karl Jaspers, Psychologie… cit., IB, 2 p. 80-94.
49Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2c p. 61-65.
50Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl., 3, 1 p. 35, IA, 1c p. 61-65, IA, 2 p. 68-73, IB, 2c p. 93-94, IIB p. 147-160, IIC, II-III p. 166-188.
51Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 3 p. 76-78, IB, 2c p. 88-89, IIC, II p. 166-177
52Edith Stein, Potenza ed atto… cit., I, III, 8-13 p. 117-137; Sarah Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010, 2-4 p 36-115.
53Edith Stein, Endliches… cit., V p. 239-279.
54Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962, p. 7-10, II, 1, p. 11-13.
55Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
56Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p. 303-394. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXVII, 1 p. 20-25, 2 p. 26-40, 2 p. 54-58, 3 p. 56-64, 4 p. 115-126.
57Edith Stein, Potenza… cit., VI, 26, i-j p. 380-386; Jean Hering, “Bemerkungen über das Wesen, di Wesenheit und die Idee“, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IV, 1921, p. 495-543.
58Karl Jaspers, Psychologie… cit., Einl., 1 p. 1-7
59Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 2a p. 55-59.
60Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, 3 p. 73-78.
61Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIA p. 133-147.
62Karl Jaspers, Psychologie… cit., II C p. 160-188.
63Edith Stein, Endliches… cit., VI, 4 p. 288-302; Chantal Beauvais, “Edith Stein et Erich Przywara: la reconciliation du noetique et de l’ontique”, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335.
64Karl Jaspers, Psychologie… cit., IA, I p. 44-50.
65Karl Jaspers, Psychologie… cit., II p. 122-133.
66Karl Jaspers, Psychologie… cit., IIB p. 147-160.
67Vedi nota 11.

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Introduzione.
Prima di entrare nel merito specifico della nostra investigazione, ci sembra che sia opportuno sintetizzare in grandi linee il messaggio filosofico e religioso che viene lanciato dalla Walther con il suo libro Fenomenologia della mistica.
La pensatrice pone chiaramente ed esplicitamente la possibilità piena di una comunicazione, a partire dall’immanenza, con il mondo trascendente e sovrannaturale. Si tratta in particolare dell’esperienza fisica, ma comunque sfuggente, di un mondo purissimamente ideale (spirituale); che è però anche pienamente ontico, ossia è percepibile sensibilmente. In ogni caso ella distingue dallo spiritismo (molto spesso tendenzialmente demoniaco) la pienezza di tale esperienza; che sta senz’altro in primo luogo nel contesto della mistica religiosa. In questo caso si tratta infatti di esperienza di Dio e nient’altro.
Su questa base la Walther lascia poi emergere la relazione esistente tra l’Io e le esperienze (fenomeni) che stanno alle sue spalle (a tergo, e nel profondo) – non invece davanti ad esso. Pertanto in tale contesto si può ritrovare l’affermazione di una primaria ontologia interiore, che appare destinata a dominare totalmente la dottrina dell’Io, qui completamente riformulata.
E come vedremo nelle conclusioni, si tratta con ciò (almeno da un certo punto di vista) di un idealismo filosofico decisamente anti-realista.
Con tutto ciò la Walther si fa nel complesso sostenitrice della necessità di spostare il luogo primario dell’esperienza dall’esteriore all’interiore. E ciò comporta inevitabilmente la forte relativizzazione della primarietà dell’Io che è stata affermata nell’intero pensiero moderno, ed in maniera forza ancora più spinta da Husserl.
È dunque su questa complessiva base filosofica che la pensatrice ci illustra la fenomenologia specificamente religiosa costituita dalla dimensione sostanzialmente interiore della relazione verticale dell’uomo con Dio. Tale relazione si colloca quindi entro la tradizione metafisico-religiosa e filosofica che ha considerato l’auto-conoscenza quale momento specificamente religioso della conoscenza nella sua interezza. La Walther si fa quindi sostenitrice di una diretta ed immediata esperienza di Dio – specie nella forma congiunta dell’emersione profonda del Suo Essere (sia nel cuore che nella testa) come Luce. Proprio la sostanza luminosa testimonia pertanto l’esistere ed agire qui di un’onticità che in tanto si lascia sensibilmente cogliere in quanto sfugge alla cattura da parte di qualunque percezione grossolana, e cioè materiale.
Ella sottolinea però con grande forza che si tratta di un Dio Trascendente, ma intanto presentantesi come Dio decisamente personale. Anche quest’ultima immagine di Dio assume però un senso del tutto diverso da quello usuale. Il Dio-Persona qui in causa è infatti radicalmente onto-spirituale, e quindi estremamente sottile nel Suo essere. Egli non è quindi in alcun modo un Dio circoscrivibile entro una concezione limitante. Non è in alcun modo il Dio onto-cosmologico della tradizionale metafisica tomistico-aristotelica (e della più tradizionale teologia dogmatica). Non è in alcun modo il Dio unilateralmente immanente, vivo e storico (appena formalmente ecclesiale), che l’attuale filosofia religiosa ci presenta nella persona del solo Gesù . E non è naturalmente in alcun modo nemmeno il Dio delle pratiche pietistiche acritiche, superstiziose e fanatiche, così come della fede cieca. Non a caso il Dio così intensamente percepito dai mistici – del quale ci parla la Walther – è un Dio che sempre invariabilmente si ritira dopo averci elevato fino alle Sue incommensurabili altezze . Così Egli ci lascia ricadere talmente in basso, che noi siamo costretti ogni volta a chiamarlo nuovamente dalle profondità della nostra disperazione.
Pertanto è proprio in relazione a tale ultima nettissima esclusione, che il «religioso» così provocatoriamente immediato, del quale ci parla la nostra pensatrice, non può avere assolutamente nulla di quello che le apparenze a prima vista ci suggeriscono. Non si tratta insomma assolutamente del «religioso» nella sua forma spiritistica, occultistica, o in qualunque modo frutto di speculazioni soggettivistiche ed arbitrarie (se non di tentazioni demoniache).
Si tratta invece esattamente della religiosità che è sempre stata propria dei veri mistici.
In tal modo, però, la visione religiosa così presentata non può avere nulla di provocatorio nemmeno per la filosofia stessa – quella filosofia rigorosamente laica che potrebbe ben considerare il pensiero waltheriano come inammissibile nel proprio ambito. In questo senso non vi è dunque alcuna contraddizione tra la Walther filosofa, quella mistica ed infine quella studiosa di fenomeni paranormali.

È su questa base che ci accingiamo quindi a pervenire all’oggetto della nostra investigazione, e cioè l’esplorazione delle relazioni esistenti tra il pensiero della Walther e quello di Edith Stein ed Edmund Husserl. Bisogna a tale proposito però menzionare che questo tema è stato già trattato abbastanza intensivamente da diversi autori (tra i quali la Prof. Ales Bello) .

I- Walther e Stein.
Inizieremo quindi ora a trattare prima di tutto delle relazioni esistenti tra il pensiero della Walther e quello di Edith Stein. Senz’altro va ricercata in primo luogo proprio qui la continuità esistente tra la visione della nostra pensatrice e la complessiva visione fenomenologica. È infatti ben noto che la Walther seguì a Freiburg le lezioni della Stein (oltre che di Husserl), e che inoltre fu attenta lettrice della di lei opera . La continuità esistente tra le due pensatrici è pertanto un fenomeno assolutamente scontato. Diversamente stanno invece le cose rispetto ad Husserl, del quale non a caso in Fenomenologia della mistica la Walther fa menzione molte meno volte. Con il di lui pensiero infatti non solo non sussiste alcuna continuità, ma semmai sussiste una ben chiara discontinuità, e forse perfino nel senso di un suo deciso superamento. Questa costatazione però non uscirebbe dai limiti di una questione puramente filologica (del tutto secondaria), se non fosse invece in gioco la dimensione radicalmente filosofico-religiosa del pensiero. La discontinuità del pensiero della Walther da quello di Husserl reca infatti esattamente a quest’ultima; pertanto il suo senso è questo. E quindi è proprio questo anche il vero significato della continuità esistente tra la Walther e Stein.
Ma ciò significa allora che la continuità di pensiero esistente tra le due pensatrici segrega di fatto, entro il complessivo pensiero fenomenologico, un’area che non solo è squisitamente filosofico-religiosa, ma che, proprio come tale, si pone anche molto al di fuori dell’orizzonte di pensiero tipico della scuola.
Ebbene, la nostra tesi è proprio quella secondo la quale la Walther ha sviluppato alcune tendenze già presenti nella visione steiniana (in relazione a quella husserliana), e peraltro dilatandone anche notevolmente la portata. E tali tendenze erano esattamente quelle che puntavano di fatto da una filosofia laica ad una filosofia intensamente religiosa. Intanto, però, nel pensiero di Husserl l’effettiva presenza di una dimensione filosofico-religiosa – nonostante una linea di ricerca (Ales Bello) la affermi con molta decisione – è da considerare estremamente vaga, se non del tutto assente. Al massimo, infatti, si può ritrovare in essa l’accenno ad una religiosità sostanzialmente a-teistica (nel senso di non «teista») e rigorosamente razionale. Ed in quest’ultima non può in alcun modo prevedere (né tanto meno teorizzare) un’esperienza religiosa davvero autentica ed effettiva in quanto viva ed intensa. Ebbene in generale – aldilà di specifiche questioni metafisico-filosofiche di tipo dottrinario-analitico – le cose non stanno in tal modo né per Edith Stein né per la Walther.
E questo sostanzialmente perché le loro visioni (entrambe decisamente e strenuamente filosofico-religiose) risultano intimissime l’una all’altra per mezzo della mistica. Quest’ultima costituì infatti interesse intensivo tanto dell’una quanto dell’altra pensatrice; e non solo come oggetto di riflessione ma anche di appassionata prassi. Sicuramente però presso la Walther la mistica ha assunto una dimensione più intensa. E ciò è vero in quanto, come abbiamo già visto, essa sconfina decisamente verso aree di pensiero, ricerca e di prassi che potremmo definire in generale come «spiritualismo» – e che includono le esperienze religiose dei mistici, unitamente ai fenomeni psichici cosiddetti «paranormali» (telepatia, ipnosi, esperienze medianiche etc.) . Proprio a causa di tali caratteristiche la visione filosofico-religiosa della nostra pensatrice sembra aver sviluppato e dilatato in maniera davvero estrema le tendenze già presenti presso la Stein. E ciò non può non comportare un distanziamento del pensiero di quest’ultima da quello di Husserl, che è ancora maggiore di quello che è già presumibile nel contesto dello studio dell’opera steiniana.
In parole molto semplici possiamo quindi dire che tanto più la complessiva visione waltheriana appare continua con quella steiniana, tanto più quest’ultima ci appare aver contenuto fin dall’inizio in sé una profonda aspirazione ad affrancarsi dal pensiero di Husserl.
Verificheremo quindi, per mezzo dell’esame testuale di Fenomenologia della mistica, se tale ipotesi può essere effettivamente confermata dai fatti. Ed inoltre verificheremo anche in quali modi e con quali contenuti tematico-dottrinari ciò può essere affermato.

I-1. Il Fondamento animico-spirituale.
Innanzitutto bisogna partire dalla definizione che la Walther ci offre dell’ontologia che per lei è davvero fondamentale, ossia quella propria della vita interiore. È in tale sede, infatti, che va per lei collocata l’esperienza religiosa nella sua maggiore autenticità. Tuttavia non è di quest’ultima che intendiamo trattare direttamente. Ciò di cui ne va è infatti proprio il comprendere in che modo la pensatrice concepisca l’esperienza religiosa come specifica fenomenologia, ossia appunto fenomenologia dell’interiorità.
Per questo possiamo partire proprio da uno dei concetti sui quali la ricerca steiniana si è soffermata con maggiore attenzione, ossia quella dell’«originarietà» degli enti.
Ebbene dalla Walther può essere dedotto un concetto di «originario» che appare essere ben più avanzato di quello steiniano . E con tale concetto noi giungiamo immediatamente al nucleo stesso dell’ontologia interiore così come concepita dalla pensatrice. Tale ontologia è poi da considerare anche quella che per lei – come vedremo poi chiarirsi meglio poco a poco – è la più fondamentale, ossia quella che configura insieme il «Fondamento» tanto dell’essere interiore quanto anche dell’essere nella sua totalità. Il nucleo di tale ontologia sono le entità pienamente metafisiche, nel senso di oggetti razionalmente irreali ma comunque esistenti. E la Walther li definisce esattamente come l’«originario» per definizione. L’intero corpus della mistica è infatti per lei originario, in quanto lo è in maniera ontologica davvero radicale (“Urphänomen”). E per questo la sfera dei suoi enti sfugge al naturale, cioè alla composizione elementare. Si parla insomma qui di «originario» anche nel senso specifico della ricerca fenomenologica – in quanto l’onticità qui in causa è irriducibile a qualunque altro fenomeno. È un’essenza. Ma gioca qui un ruolo fondamentale un concetto di Origine decisamente metafisico (molto simile a quello di Eckhart). Intanto, comunque, in tal modo ci viene indicato anche quanto l’intera Fenomenologia intende come l’ente colto nella sua pienezza incondizionata, ossia l’essenza stessa delle cose. Va però infine precisato che la dimensione «originaria» equivale qui a quella della profondità interiore dalla quale sgorgano le esperienze proprie della mistica. Questo è insomma in luogo stesso nel quale per noi prendono forma le relative entità.
Lo stesso concetto può poi, secondo la Walther, venire applicato anche al flusso dei vissuti che emergono dal profondo. Anche qui noi ci troviamo di fronte all’«originario» nel senso dello spirituale profondo sconfinante verso l’Origine stessa. Ma intanto esso mette capo alla sua forma più immanente, rappresentata dalle entità personali spirituali che trasmettono all’Io – per la via dell’emersione interiore profonda – quelle esperienze che sono specificamente interiori ed affatto esteriori (dalla mistica ai fenomeni paranormali). A proposito delle entità che emergono nel corso i tali esperienze la pensatrice precisa che si tratta di oggetti immateriali che però vengono avvertiti con la stessa intensità propria della percezione esteriore. Essi, tuttavia, possono sussistere anche non propriamente come oggetti in carne ed ossa, bensì invece anche come oggetti che si stanno semplicemente «ri-presentando» (provenendo dal una sfera di essere attualmente lontana). E ciò allarga pertanto di molto la ricerca steiniana sul fenomeno della ripresentazione di oggetti mentali non più presenti in carne ed ossa (come ad esempio nelle memorie). Tale riflessione non era infatti intimamente legata ad alcuna ontologia interiore.
Comunque, in tale contesto, vi è da considerare anche il fenomeno rappresentato dal «retro-sguardo» dell’Io, che insorge quando ciò che intanto va emergendo dal profondo lo assorbe completamente. In tal caso avviene quello sprofondamento dell’Io nel suo stesso fondo spirito-animico, che più avanti esamineremo ulteriormente.
Il discorso appena svolto sull’«originario» si riconnette inevitabilmente a quello che la Walther conduce sulla “datità” . Ed anche qui il concetto viene impiegato in una maniera ben più ampia e profonda che non presso la Stein. Qui infatti si chiarisce ancor meglio che l’ontologia in causa è quella specificamente spirituale, ossia quanto tendiamo a definire come «onto-spiritualità».
La pensatrice parla infatti qui di “datità spirituale” (“geistige Gegebenheit”). Ella chiarisce inoltre che con ciò deve essere considerato qualcosa che esiste comunque nonostante i veti della Ragione.
Si tratta infatti di un altro campo di essere rispetto a quello ordinario. La Ragione (“Verstand”) e la coscienza soprassiedono infatti a tutte le esperienze di oggetti sensibili (“Gegenständlichkeiten”).
Ma non soprassiedono invece quelle che interessa gli enti metafisici (“metaphysische Wesen”).
In ogni caso proprio qui viene specificato che con questo genere di enti va inteso – come dicevamo poc’anzi – proprio quanto è «originario» nel senso di fenomenologicamente fondamentale.
La Walther dice infatti che qui sono in causa le essenze ideali degli enti (o esseri viventi), e cioè le idee degli esseri. Esattamente questo ci mostra come in tal modo noi stiamo davanti ad enti effettivamente metafisici, ma intanto pienamente reali (“metaphysisch reale Wesen”). In termini più mistici si tratta degli enti individuali che costituiscono le scintille (“Funken”) di un’unica sostanza fondamentale, ossia dell’infinito ed iper-spirituale, e cioè il “fondamento essenziale divino” (“göttliches Wesengrund”). La pensatrice richiama qui le emanazioni dell’Uno così come concepite da Plotino. E tale affermazione inscrive naturalmente il suo pensiero nella grande orbita della tradizione platonica.
È in questo modo che abbiamo davanti a noi il «Fondamento» stesso nella sua forma onto-spirituale più pregnante, e cioè lo Spirito. I relativi enti, dice la pensatrice, sono oggetti “di pura natura spirituale” (“rein geistiger Natur”), ossia oggetti che rientrano in quell’onticità immateriale e sottile che è propria dello Spirito. In tal modo, però, ci viene fornita anche definizione di “Gegenstand” – «oggetto» in quanto «stante-davanti» alla coscienza – che è ben più ampia di quella fornitaci nel contesto della Fenomenologia husserliana. E l’ampiezza consiste proprio nel fatto che qui c’è qualcosa che non esiste solo per il suo stare davanti alla coscienza – come avviene entro la dottrina husserliana dell’«intenzione».
Dopo aver chiarito tutto questo, la pensatrice afferma quindi che l’intelletto (inteso come Ragione) non può fare in alcun modo da arbitro in questo campo di essere. E pertanto esso di fatto non ha nulla da dire circa anima e spirito – sebbene si occupi comunque di estremamente astratti enti matematici. Si delineano in tal modo allora due ambiti epistemologici separati, ed ogni dei quali corrisponde ad una determinata ontologia – quello puramente interiore e quello puramente esteriore. La Walther precisa però anche che ciò non taglia affatto fuori la Ragione. Di essa infatti viene appena postulato un livello ben più alto. Si tratta della Ragione che ha di mira esattamene gli oggetti integralmente spirituali. Ma essa costituisce comunque tutt’altro genere di coscienza (“Bewusstsein”) rispetto a quella che la Fenomenologia prende in considerazione, ossia costituisce una coscienza che si sforza di andare oltre il sensoriale esteriore. Si tratta con ciò allora dello sforzo umano di cogliere oggetti puramente spirituali che tendono comunque a fuoriuscire dall’ambito usuale della coscienza. E questo è esattamente lo sforzo che è tipico del pensiero autenticamente metafisico-religioso.
Ebbene, tutto ciò esclude chiaramente che la definizione husserliana di «spirituale» possa valere anche qui. E vedremo poi questo in maniera ancora più chiara a proposito della relazione da riconoscere tra «spirituale» ed «intellettuale». In ogni caso, nel contesto della visione waltheriana, appare chiaro che si deve parlare di un intellettuale che è già anche spirituale, senza con ciò dover affatto dilatare il proprio spazio di conoscenza. In altre parole l’intellettuale concepito in maniera solo riduzionistica, come accade in Husserl – e cioè come uno spirituale ben al di sotto del livello dell’ontologia spirituale, così come concepita dalla metafisica religiosa (ed anche dalla Walther) –, deve venire ricompreso in uno «spirituale» che ha una valenza intellettuale del tutto implicita.
E che pertanto non ha alcun bisogno di essere ricondotto all’«intellettuale» solo riduzionisticamente concepito. È quindi in questo senso che lo spirituale (una volta concepito nella sua vera integralità) non equivale affatto all’intellettuale.
È da tutto questo che può allora scaturire una definizione di “psichico”, ed anche del rapporto tra psichico e spirituale. La Walther menziona la differenza in genere riconosciuta tra il sensibile come frutto di percezione (“sinnliche Wahrnhemung”) ed il “puro psichico” (“rein Psychisches”), o anche “puro spirituale” (“rein Geistiges”). Ma tale differenza è per lei da considerare insufficiente. Perché essa non include affatto tutta una serie di atti psichici (memorie, rappresentazioni, opinioni – supposizioni), i quali hanno il carattere essenziale del “blosses Meinen”; ovvero della misteriosa, vaga e sfuggente impressione psichica (come nel «sento che…», oppure «ho l’impressione che…»). In esse si avverte insomma qualcosa che intanto né i sensi né l’intelletto sono in grado di cogliere. Ma è proprio in questo genere di oggetti, che consiste l’esperienza interiore nella sua pienezza così come descritta dalla pensatrice.
In tal modo si delinea pertanto un «puro psichico» che ha pochissimo a che fare con l’entità mentale definita in tal modo dalla Erkenntnistheorie. Si tratta infatti dei contenuti di specifiche esperienze, le quali contengono in sé in nuce la possibilità di emersione di contenuti dal profondo, che a loro volta non hanno nulla a che fare con il mondo esterno in modo fisico (telepatia, ipnosi), oppure hanno addirittura a che fare con l’altro mondo. Né essi hanno nulla a che fare con le usuali rappresentazioni mentali di oggetti nel senso di oggetti astratti. Tuttavia tali rappresentazioni mentali – in quanto esperienze di un vero e proprio «in carne ed ossa» (indagato anche dalla Stein nella ri-presentazione) –, hanno comunque qualcosa del puro psichico così come viene definito dalla Walther. Esempio classico sono le esperienze visive come quelle in cui vediamo fisicamente davanti a noi la nostra casa natale; ma ciò senza che riusciamo a rappresentarci tutto questo in modo davvero visivo (“uns anschaulich vorstellen”). L’oggetto mentale che vediamo in carne ed ossa si costituisce proprio per questo come un’effettiva “datità” (“Gegebenheiten”). E proprio per questo, nel contesto di tali esperienze integralmente spirituali (di entità puramente psichiche), noi sperimentiamo per davvero percettivamente qualcosa che intanto è presente davanti a noi fisicamente e corporalmente (“leibhaftig”). Eppure ciò avviene solo e soltanto interiormente, e quindi indipendentemente da qualunque relativo oggetto reale esteriore. Si tratta insomma di oggetti puramente ed integralmente interiori. Eccoci insomma davanti ad una vera e propria percezione spirituale di tipo corporale. Per la precisione, dice la Walther, la cosa sta davanti a noi solo con la sua essenza intima, e non invece effettivamente (cioè non in forza della percezione sensoriale o dell’elaborazione mentale astratta).
Viene così nel complesso delucidato un alternativo modello psichico di rappresentazione, che effettivamente pone allo scoperto un oggetto davvero esclusivamente psichico. Esso esiste solo come tale ed esiste pienamente, ossia costituisce un’effettiva ontologia! Eccoci insomma davanti ad un’altra lettura del fenomeno del mondo spirituale (costituito da pure essenze) del quale la Stein parla (in particolare in relazione ai valori) con accenti pur molto simili.
In relazione a quanto abbiamo già detto a proposito del concetto di «originario», il retro-sguardo dell’Io si rivolge esattamente verso questo genere di entità metafisico-spirituali. E sono quindi proprio esse stesse, quale oggetto intenzionale interiore (totalmente rivisto rispetto ad Husserl e Stein), a trasfigurare completamente la dottrina dell’intenzione. Essa infatti non è più affatto appena teoretica (e quindi anche fatalmente esteriore), ma è invece interiore ed inoltre anche inevitabilmente sentimentale. In essa infatti l’Io sprofonda nel suo stesso fondo, ossia verso la fonte delle emozioni che lo coinvolgono. E così distoglie totalmente l’attenzione (“aus dem Auge”) dal proprio oggetto intenzionale esteriore. Ecco allora che il massimo del coglimento intenzionale dell’oggetto avviene in realtà interiormente e non invece esteriormente.
In questo modo è andato pertanto delineandosi un mondo interiore dotato di una sua ben definita ontologia, e quest’ultima si è rivelata chiaramente spirituale. Ma la sua comprensione sarebbe incompleta se non ne riconoscessimo un ulteriore carattere essenziale, e cioè quello del quale abbiamo già parlato come di un «Fondamento». La sostanza qui in causa è infatti tale, in quanto è collocabile molto indietro rispetto all’Io, e precisamente in una profondità che pertanto rispetto ad esso si trova sempre “a tergo”. Vedremo poi più avanti che tale assetto viene molto efficacemente spiegato dalla pensatrice per mezzo dell’immagine esemplare di una lampada ad olio.
Ecco insomma qualcosa che costituisce una dimensione del «retro» (o anche «fondo», oppure infine «sfondo») per definizione. Di tutto questo la Walter ci fornisce una definizione molto precisa . Si tratta per lei infatti della “Einbettung”, o, più complessivamente, del “Grundwesen”.
I due termini congiunti ci illustrano il sussistere di un profondo alveo di essere che accoglie l’Io, e nello stesso tempo costituisce anche il ”fondamento essenziale” dell’intera compagine individuale, nella quale l’Io stesso esiste e vive la propria vita. In parole più semplici si tratta del fondamento spirito-animico-corporeo dell’Io. E qui va colta una differenza davvero fondamentale rispetto al corrispondente aspetto triadico, così come viene riconosciuto anche da Husserl (nel contesto della sua dottrina dell’antropologia). Qui infatti lo spirito non è affatto (quale Io) il primo termine di una triade concatenata che rechi dall’interiore all’esteriore (specie per mezzo della fondamentale interazione esistente tra corpo e mondo) lungo una linea orizzontale. Esso è invece quanto sta al di sotto dell’Io insieme all’anima ed al corpo. Per la Walther si tratta di una suprema onticità di specifica sostanza psichica, e che è quindi tendenzialmente già di per sé intellettuale; ma lo è solo in termini di effettiva onto-spiritualità. Nello stesso tempo è però anche un hypokeimenon, ossia ciò che «sta sotto» in quanto «sottostà» a qualunque ente e fenomeno. Esso è proprio in questo senso il “fondamento essenziale” (“Grundwesen”) di ogni cosa. E nel quale quindi tutto esiste ed accade.
E proprio per questo è anche il “nucleo essenziale” della persona umana. Lo è evidentemente anche perché l’uomo è un ente onto-spirituale. Quindi, se il Fondamento sottostà ad ogni cosa, a maggior ragione esso sottostà all’uomo, ed in particolare lo fa coincidendo con il suo stesso centro.
Proprio per queste caratteristiche molto ampie e profonde, non si può trattare assolutamente (secondo la pensatrice) dell’inconscio psicanalitico (“Unterbewusstsein”); ossia qualcosa che per sua costituzione ontica sia indipendente dalla coscienza (“Bewusstsein”). Ma la dinamica che intanto lega i due termini è estremamente significativa. Perché essa è rappresentata dal fenomeno della riflessione da parte dell’Io. Che, così come concepita dalla Walther, è un ripiegarsi su sé stesso dell’Io stesso, ed insieme anche un volgere indietro il proprio sguardo spirituale. Si tratta insomma dell’atto di «rivolgimento» del quale parla Platone nel Fedro . Ancora una volta, dunque, il platonismo appare potere essere la sfera di pensiero nella quale molto naturalmente si adagia la visione waltheriana.
Dal fondo così identificato avviene comunque il fenomeno altrettanto fondamentale dell’emersione di elementi che sono oggetto di esperienza interiore. Ma tale emersione sfugge a qualunque riduzionismo, così come ad esso sfugge anche il Fondamento stesso. Ed in questo, per la Walther, è di importanza critica il fenomeno dell’assoluta ed incondizionata attualità, ossia quello dell’“ora” (“jetzt”). Esso si manifesta soprattutto in maniera iper-spaziale, e cioè come un fondo che simultaneamente conosce sempre anche un oltre che sta intanto alle sue spalle. Ecco allora un centro che presuppone sempre un antecedente centro dei centri ancora più profondo (ossia davvero insondabilmente profondo). È infatti proprio da tale insondabile Abisso che il fenomeno dell’emersione trae la sua forza di spinta. Ragion per cui il nucleo interiore personale può poi generare intorno a sé cerchi e strati concentrici di essere che procedono fino all’Io. Ma in tal modo è stato definito anche lo spirito in maniera davvero ultimativa, e cioè come quanto è caratterizzato da una profondità sempre (simultaneamente) antecedente qualunque altra realtà attuale.
Appare pertanto con ciò particolarmente evidente in quale senso quello spirituale, che ha sempre anche una valenza intellettuale («psichico»), trascende per definizione l’Io in tutti i sensi – e quindi non potendo in alcun modo venire ridotto ad esso. È quindi sempre in questo senso che lo spirito va collocato «al di sotto» dell’Io, e non invece (come avviene in Husserl) nel suo stesso luogo.
È dunque proprio in forza del fenomeno dell’emersione che, presso la Walther, si ripresenta la dottrina steiniana ed husserliana dell’antropologia spirito-animico-corporea. Lo spirito è in qualche modo anche qui il primo termine, e quindi anche il motore primario di una realtà ternaria sempre statico-dinamica, e proprio per questo unitaria – nel senso di «originario» e «fondamentale». Ma ciò significa anche che, per sua natura, lo spirito è fatto in modo tale da stare intanto sempre nel profondo («retro»), ed inoltre da sprofondare oltre il nucleo più profondo.
Non per nulla l’Io è spirituale proprio in quanto esso, secondo la nostra pensatrice, ha facoltà di sprofondare nel suo fondo. Lo spirito è dunque un «primo» (della serie) soprattutto in quanto è un «profondo» (dei profondi).
In ogni caso resta pienamente possibile che lo spirito inteso quale puro intelletto (Io) possa porsi in comunicazione con lo spirito inteso quale puro fondo. La Walther ci mostra che ciò accade tipicamente nella soluzione improvvisa di problemi intellettuali o esistenziali – laddove ne va insomma di radicali scelte e decisioni, secondo il principio del «cosa fare?». È quanto in genere tutti tendiamo a definire come «misteriosa ispirazione» – intuendo però con ciò molto vagamente qualcosa che di certo sentiamo distintamente, ma di cui non abbiamo alcuna spiegazione.
Si tratta, dice la pensatrice, di un raggio di luce che si sprigiona dal basso provenendo dal “fondamento” (“Grundwesen”) spirituale. E così l’Io, intanto da esso inglobato, viene trasportato totalmente nell’interiore. Di nuovo esso sprofonda. Ebbene proprio questa può essere considerata l’azione di ciò che tendiamo a definire come «voce di Dio». Quindi sta qui il fulcro stesso dell’intera religiosità mistica della quale ci parla la Walther.
Questo fondo divino-spirituale è pertanto il Trascendente stesso. Esso è quindi del tutto indipendente dall’esteriore inteso come trascendente (così come concepito da Husserl in termini estremamente riduzionistici) . Infatti la presa di contatto con il proprio fondamento spirituale (“Grundwesen”) non viene affatto sollecitata direttamente dall’oggetto esteriore. In questo caso infatti il limitante dell’Io, ossia l’oggetto per mezzo del quale esso si riconosce («non-Io») – diventando così esteriormente visibile –, è il proprio fondo stesso (“Grundwesen”), e non invece l’oggetto esteriore. In altre parole viene qui riconosciuto che l’Io ha per proprio oggetto esattamente il fondo di essere che intanto lo sostiene e lo alimenta da dentro.
Ecco che allora la trasformazione dello spirito soggettivo (Io) in spirito oggettivo (“objektiverter Geist”), e cioè “Gegenstand”, avviene semmai nell’interiore, e non invece nell’esteriore. Ancora una volta, insomma, il mondo spirituale (o spirito oggettivo) appare essere ben più interiore che non invece esteriore.

I-2. La dinamica interiore sentimentale ed il flusso dei vissuti. Empatia e telepatia.
Una volta chiarite le premesse più propriamente ontologiche (e quindi statiche) dell’interiorità (così come interpretata dalla Walther), dobbiamo ora rivolgerci a considerarne gli aspetti più specificamente dinamici. In realtà abbiamo già accennato ad esso nel fenomeno dell’emersione.
Ma nella trattazione che ne andremo a fare ora emerge un ulteriore carattere, e davvero fondamentale, di tale fenomenologia, e cioè quello sentimentale. Sullo sfondo di esso di delineerà poi inevitabilmente anche la dimensione etico-estetica.
Ebbene non vi è forse un punto di partenza migliore per tale trattazione, se non la complessiva dottrina steiniana dell’empatia. In essa risiedono infatti i germi stessi di quella visione waltheriana che poi giunge a concepire una forma di empatia ancora più estrema, e cioè la realtà telepatica . Non vi può essere pertanto luogo dottrinario migliore di questo, per cogliere la continuità esistente tra le due pensatrici. Esamineremo quindi qui la serie di riferimenti a questo tema che emergono nel testo della Walther .
Effettivamente presso quest’ultima la dottrina steiniana (e relativo concetto) di empatia trova davvero molti echi. Ma ciò avviene specificamente in intima relazione con l’ontologia interiore della quale abbiamo appena esposto i caratteri. La pensatrice chiarisce infatti che nell’uomo il vissuto dell’esteriorità è sempre solo interiore (il dolore corporeo viene vissuto sempre solo dall’interno). È dunque come se l’esperienza esteriore fosse realmente solo interiore. E ciò introduce quindi nella dinamica dell’empatia la dimensione fondamentale della riflessione, e cioè del retro-sguardo dell’Io del quale abbiamo già parlato. In essa infatti per definizione l’Io viene distolto dall’attenzione rivolta al mero oggetto esteriore, per vederne invece in primo luogo il solo riflesso interiore. E così, dice la Walther, noi di fatto, nel momento in cui vediamo un oggetto esteriore, vediamo sempre soprattutto il nostro nucleo interiore. In base a quanto abbiamo visto prima, noi insomma vediamo intanto quello che è l’unico vero oggetto del nostro Io, ossia noi stessi.
Per la verità, precisa la Walther, noi siamo in grado di vedere il nostro nucleo interiore solo attraverso gli oggetti esteriori. Ed è proprio qui che interviene la complessiva dottrina dell’empatia esposta dalla Stein – con tutti i successivi sviluppi che poi essa ebbe nel suo pensiero (configurando poco a poco la dottrina di un’ontologia spirituale interiore in profonda risonanza con quella esteriore). Infatti cruciale è qui l’azione di quel “nucleo” che reagisce all’influsso degli oggetti esteriori per mezzo dei meccanismi dell’«essere toccati» e della «presa di posizione» morale. Ma, chiarisce la nostra pensatrice, si tratta con ciò di null’altro se non dell’atteggiamento sostanzialmente valutativo dell’Io nei confronti degli enti colti intanto come valori. Caso emblematico di ciò è il sentirsi profondamente toccati dalla bellezza delle cose. Ma ben più chiaramente che la Stein, ella mette in luce il fatto che ciò comporta un influsso avvertito dall’Io come “da sotto” (“wie von unten”), o anche come “dal cuore” (“wie vom Herzen”). Si tratta quindi di emersione di emozioni. Tutto questo modifica quindi tangibilmente la forma della relazione esistente tra Io ed esteriorità per quanto riguarda i valori. Prevale infatti in tal modo il paradigma dell’emersione da dentro, e quindi prevale anche decisamente la dimensione interiore dell’essere. Ecco che in tal modo la sensibilità ai valori da parte dell’Io si rivela essere un fenomeno fondato solo interiormente, e cioè un fenomeno ontologicamente animico-spirituale ed affatto invece egoico. È proprio per questa via che l’Io viene spinto a sprofondare nella sostanza che ad esso retrostà. E più sprofonda più esso si concentra intanto di più sull’oggetto esteriore che intanto aveva appena sollecitato tutto questo. Se infatti l’oggetto esteriore viene colto come valore, ciò non avviene infatti per nulla a causa di sue qualità oggettive, ma invece solo in forza della coloritura che esse assumono nell’interiorità che lo coglie e lo giudica.
In ogni caso la Walther sottolinea che in effetti anche gli stessi segnali esteriori dell’empatia (come la mimica) vengono in realtà colti totalmente nell’interiore. E qui ella ricalca decisamente la Stein: –io colgo l’altro immerso nell’anima come lo sono io stesso. È quindi la percezione profonda dell’altro come spirito. Posto questo, allora la forma più completa di empatia è comunque proprio quella telepatica. Essa infatti prescinde totalmente dall’esteriorità ed avviene quindi solo nel profondo.
Si tratta così di esperienze che si comunicano a me come se emergessero da me stesso (e questo è l’effetto del contatto incondizionato con il nucleo che l’Io sviluppa in tale contesto). E questo ci riconduce al cospetto del fenomeno ulteriore della presa di contatto con l’unicità individuale nucleare, del quale parleremo più avanti. Più precisamente – come abbiamo prima anticipato (e come spiegheremo meglio dopo) – la pensatrice ci mostra che il fenomeno telepatico si basa sulla comunicazione esistente tra due lampade ad olio. Accade insomma che l’olio (cioè l’intera sostanza interiore spirito-animica) fluisce di fatto da una lampada all’altra, in modo tale che lo stoppino (l’Io) di ognuna è impregnato anche dall’olio dell’altra; e proprio di esso brucia producendo così la sua tipica luce. Ma l’unificazione è intanto solo inconscia (radicalmente profonda), e quindi non è affatto dei due Io che intanto rimangono sempre tra loro separati. E questo amplia in maniera davvero straordinaria la concezione dell’empatia sviluppata dalla Stein. Quest’ultima infatti non era mai giunta a considerare il fenomeno come addirittura indipendente dall’Io. La Walther invece lo fa. Sebbene il suo interesso sia rivolto ad illustrare una forma davvero molto estrema di fenomenologia empatica, ossia quella telepatica. Tuttavia da ciò che ella mostra, appare ben probabile che risieda proprio in questo l’essenza più profonda dell’empatia.
In ogni caso, comunque – come ella ci fa vedere – anche in questo caso (così come nel fenomeno dello sprofondamento) l’Io viene distolto dal suo usuale oggetto esteriore; per venire in tal modo assorbito totalmente dall’esperienza dell’altro. Cosa che evidentemente avviene esattamente attraverso l’inconscio, ossia attraverso l’emersione dell’inconscio dell’altro nel proprio. In ogni caso la comunicazione solo interiore vede un disinnesco dell’Io nel suo ruolo di intermedio tra interiore ed esteriore.
Con quanto appena illustrato si riconnette poi l’intera fenomenologia (anch’essa di intenso interesse da parte della Stein, di concerto con Husserl) dei vissuti di coscienza e del flusso nel quale essi sono intimamente uniti. L’interconnessione con tale fenomenologia avviene perché, in relazione al fenomeno della conoscenza del proprio nucleo per mezzo di un oggetto esteriore, viene alla luce anche il fenomeno dell’immediatezza. E ciò nel senso specifico dell’emersione di vissuti (esperienze) dal profondo secondo il paradigma del «da sè», ossia come emersione spontanea, e per questo immediata. Si tratta così di un flusso inesauribile di esperienze (“Erlebnisse”), che si presentano al modo (messo in luce dalla Stein) dell’”unità di esperienza” (“Erlebnisseinheit”); ossia un’ininterrotta continuità dinamica. Ed anche qui domina il principio della preferenza interiore di alcuni tipi di oggetto esteriore, che avviene in ragione delle specifiche qualità del nucleo individuale: – “colorazione” (“Färbung”). La forza di spinta dell’emersione immediata sta proprio nel potente impulso che promana da questo centro in direzione di un solo ed uno solo oggetto (quello preferito). Tuttavia la dimensione immediata del flusso consiste soprattutto nel fatto che qui non è affatto in gioco appena di una somma di qualità (tra loro slegate), ma si tratta invece di un’inscindibile unità. E ciò vale tanto per il nucleo caratteriale, che sta esprimendo il proprio atto di preferenza, quanto anche per la consecuzione di momenti che costituisce l’emanazione risultante dall’atto stesso. Tale consecuzione viene infatti totalmente riassorbita nell’unità di un getto assolutamente fulmineo; nel quale non è più riconoscibile né il momento di inizio nè quello di fine (così come anche i suoi momenti intermedi). È dunque proprio in virtù di questo, che l’atto emanazionale di preferenza (dipartentesi dal nucleo) fa immediatamente suo l’oggetto che da esso è stato intanto investito. È come se letteralmente lo inglobasse (con un meccanismo simile alla fagocitosi) in sé non appena ha anche solo scelto di farlo.
E anche questo ci conduce nuovamente al cospetto dell’unicità individuale irripetibile, che per la Stein caratterizza l’individuo umano. Infatti qui sono in atto esperienze che di fatto vengono determinate dal nucleo, in relazione alle qualità specificissime con le quali esso si esprime. Tuttavia la somma di queste qualità non restituisce affatto l’interezza del nucleo personale, che è in realtà qualitativa e non invece quantitativa. E noi questo lo sappiamo poi infallibilmente. Il che prova che noi dobbiamo già da sempre conoscere effettivamente il nostro nucleo interiore. Ecco dunque l’immediatezza nella forma di connessione immediata e fulminea dell’Io con il nucleo.
Il che è poi totalmente indipendente dalla nostra relazione con l’esteriore.
Tutto ciò pone pertanto in luce la dimensione del flusso di vissuti in correlazione stretta con la dimensione del fondo come retro. Infatti l’Io esperisce un flusso di vissuti di esperienza che provengono unicamente dal fondo (a tergo), e non invece dall’esteriorità. Si tratta di onde che promanano dal fondo e che investono l’Io stesso. Va quindi considerata proprio questa la vera via fisiologica della relazione tra Io ed esteriorità. Ed il paradigma dominante è comunque quello dell’affinità qualitativa (molto strenua) dell’Io con queste esperienze – quelle che sono più congeniali al proprio essere.
A tutto ciò si riconnette poi (per mezzo del fenomeno dell’«essere toccati») anche un altro aspetto specifico dell’empatia, e cioè l’atto del rivolgersi totalmente all’interno da parte dell’Io. Ciò avviene proprio perché esso viene investito da un flusso che emerge totalmente all’interno. E questo determina quel fenomeno dello sprofondamento del quale abbiamo già parlato. Tale fenomeno può essere pertanto considerato l’esatto equivalente dell’atto di inglobamento fulmineo dell’oggetto preferito da parte del nucleo. Esso continua infatti finché l’Io stesso non è pervenuto al centro (“Mittelpunkt”) della fonte di emozioni (“Gefühlsquelle”) dalla quale emerge il flusso.
È proprio in forza di questo che l’Io viene catturato, così che esso si distoglie perfino dall’oggetto esteriore. La sua percezione diviene così interiore e riflessiva, in quanto ormai rivolta totalmente all’indietro.
La dinamica dell’intensa relazione dell’Io con il suo retrofondo viene illustrata comunque dalla Walther anche nei suoi aspetti problematici o addirittura negativi, e cioè in relazione a quel fenomeno del fondarsi su sé stesso – la capacità di «auto-sostegno» –, nel quale la Stein vedeva uno dei caratteri davvero primari della spiritualità umana. Forse si può cogliere proprio qui uno dei pochi (o forse l’unico) elemento di dissidio tra lei e la Stein. L’auto-sostegno dell’Io compare infatti per la Walther nel momento che precede più direttamente la presa di posizione mistica, e cioè quando l’Io stesso ha perso interesse per qualunque ente e valore mondano; e quindi cerca invece ormai solo Dio. L’esperienza è quella della perdita (“…alles verloren hat”), e del fatale stare ormai solo su sé stesso da parte dell’Io (e dunque dell’individuo).
Vi è ancora la relazione con la propria essenza fondamentale (Grundwesen), ma in maniera sentimentalmente negativa ed anche vuota; in quanto di fatto l’Io non ha più sé stesso come proprio oggetto. Infatti il soggetto personale qui in causa ormai si disprezza. Con una lucidità devastante ma acutissima, egli guarda alla propria intera esistenza come ad un ripugnante cumulo di errori e bassezze. E quindi ritiene anche sé stesso un disvalore al pari di tutte le altre cose del mondo. L’Io sente che allora non può più in alcun modo tornare al mondo che ha appena abbandonato. E quindi sa di avere una sola via davanti: –l’abisso alieno nel quale esso può solo sprofondare senza fine. Abisso che è un «oltre» interiore ed insieme profondo. Ma, appunto, non si tratta solo di perdita del mondo, bensì forse ancor più di sé stesso, ossia del proprio fondo spirito-animico-corporeo (Grundwesen). Ecco allora che la propria spiritualità (isolata-individuale-determinata) non gli basta più ed egli vuole ormai uno spirito oggettivo, diffuso ed infinito.
Si tratta indubbiamente di un ulteriore presa di posizione critica della Walther verso il valore dell’onticità dell’Io; che qui viene decisamente posto in questione. Quando infatti l’Io sta al massimo della sua pienezza (ossia quando si è distaccato perfino dal quel fondo istintivo-sentimentale che costantemente lo contraddice), esso sta anche nel pieno della sua solitudine (solipsismo). E questa costituisce per esso una vera angoscia di morte.

I-3. La dimensione del «proprio», l’unicità individuale e il mondo spirituale.
In relazione a tutto questo si può quindi ora esplorare la serie di concetti che riconnettono la visione della Walther a quella parte della visione della Stein, in cui vengono toccati i temi del «proprio» (eigen) e dell’unicità individuale. In base a quanto abbiamo appena visto, infatti, appare chiaro che il fondo, quale “qualcosa” (“Etwas”) – ossia quale ontologia interiore –, è sempre insieme strenuamente interiore ed anche personale. Ecco insomma quell’oggetto che è sempre strenuamente «mio» – come del resto abbiamo costatato quando esso si rivelava essere l’oggetto per eccellenza con il quale l’Io si rapporta. Il fondo è pertanto il proprio intimo per definizione, ossia l’«eigen» nella sua pienezza. Ancora una volta la dottrina dell’intenzionalità fa qui un notevole passo avanti – sia rispetto alla Stein che ad Husserl. Perché qui di tratta del centro come nucleo assoluto del relazionarsi dell’Io con il proprio oggetto. Ciò supera dunque decisamente l’intenzionalità come un rispecchiarsi dell’Io nel mondo esteriore. Perché l’oggetto pur così trovato viene poi subito perso allorquando l’Io si rivolge a sé stesso. Tuttavia la direzione di tale intenzionalità – rivolta sempre verso ciò a cui tengo di più (il mio) – va comunque soggetta ad invertirsi, proiettandosi così verso l’esterno per mezzo di un Io la cui intenzione è in tal modo non più appena freddamente teoretica ma è ormai anche sentimentale. Se l’intenzione esteriorizzante dell’Io è quindi appena un vago stare alla finestra, in forza di questo appare ora esserlo comunque in maniera anche sempre fortemente sentimentale. Ed in questo senso l’Io qui in causa non sarà mai un Io puro.
Ma la Walther ci illustra una fenomenologia che va anche ben oltre quella appena discussa. Ed è quella che entra in vigore in un momento di intellettualità che prelude fortemente alla mistica (anche se in modo diverso dall’esperienza dell’Io prima descritta). E non a caso si tratta di un momento in cui l’intellettualità si trasfonde completamente nella spiritualità. In questa situazione avviene dunque in maniera molto incrementata tutto quanto abbiamo visto poc’anzi. Qui infatti l’intero essere individuale viene elevato a quella sfera superiore di luce, laddove lo sguardo spirituale diviene straordinariamente chiaro ed acuto. In tale caso, insomma, si sta meno che mai in relazione con un oggetto rispetto al quale si resta estrinseci. Si sta invece semmai immersi in una sfera ontica. E quindi è qui che ritroviamo il nostro proprio (eigen) – lo ritroviamo esattamente nell’esservi ormai totalmente immersi.
Tutto ciò viene completato da quanto accade nella fenomenologia dell’emersione di vissuti provenienti da presenze spirituali esteriori ma che si pongono in contatto profondo con noi.
Gli elementi che emergono sono sempre estranei (“fremde”). Qui insomma l’elemento estraneo percorre all’inverso la stessa strada che percorre l’Io nel porsi in contatto con il proprio (eigen).
L’appena discusso tema del proprio (eigen) si fonde così presso la Walther con quello dell’unicità individuale proprio come accade anche presso la Stein. E ciò implica anche in questo caso il tema del carattere. Ma nel contesto del discorso della nostra pensatrice, quest’ultimo rischia di costituire un argomento riduzionistico. E ciò avviene in quanto esso pone il «proprio» (e quindi anche l’unicità) come ciò che spiegherebbe interamente i fenomeni interiori, spogliandoli in tal modo di tutta la loro metafisicità (effettiva ontologia spirituale interiore, e non invece appena inconsistente suggestione interiore). In tale riduzionismo vengono inevitabilmente inclusi anche i fenomeni dell’emersione. Ma, sottolineando l’oggettività inoppugnabile di fenomeni sostenuti da prove (“sie sind trotzdem da”), la pensatrice afferma che in realtà l’emersione è assolutamente immediata, e quindi non viene in alcun modo condizionata (negativamente) dalla specificità individuale.
In altre parole bisogna qui prendere atto di un fenomeno effettivo in quanto totalmente esogeno. Esso, cioè, non è affatto riducibile a ciò che solo apparentemente è esogeno, ma invece in realtà è dovuto appena a quanto viene prodotto artificiosamente dalle nostre tendenze soggettive interiori. In questo caso si tratterebbe infatti di fenomeni interiori del tutto effimeri, e quindi privi di qualunque realtà oggettiva.
Ma la dimensione dell’unicità individuale si delinea presso la Walther anche a proposito della direzione dello sguardo intenzionale dall’Io rivolto verso il proprio oggetto interiore. Quest’ultimo però corrisponde di fatto anche al relativo oggetto esteriore sentito come valore e quindi investito di amore. Secondo la pensatrice, però, la psiche umana può sostenere solo limitatamente un’esperienza così intensa. In quanto in questo caso l’amore tende a trasformarsi molto facilmente in un desiderio divorante. Lo stesso tuttavia non accade invece affatto quando lo sguardo intenzionale dell’Io assume la stessa attitudine dello sguardo di Dio (in questo caso esso vede infatti davanti sé una sua “creatura”). E proprio così si delinea pertanto l’unicità individuale come oggetto dell’intenzionalità sentimentale dell’Io, e quindi come intensificazione sentimentale dell’individualità prodotta dall’Io. Anche tutto ciò sta comunque in relazione con diversi aspetti della dottrina dell’empatia della Stein (essere toccati etc.). Ma ciò che più importa è che è proprio su questo piano che si finisce per riconoscere anche l’umano-divinità. Gli altri esseri vengono infatti riconosciuti unici in quanto creature divine, ossia come figli di dio (elevati alla filialità divina). E bisogna dire che – per quanto mai troppo esplicitamente sottolineato dalla pensatrice – la dottrina steiniana dell’unicità individuale tende a sfociare proprio in una dottrina dell’umano-divinità.
In questo ambito di fenomeni rientra poi anche l’intera dottrina (anch’essa di ascendenza steiniana) del «mondo spirituale». A questo concetto dobbiamo però approssimarci per mezzo di altre riflessioni della Walther – deviando pertanto per un po’ dal tema dell’unicità per poi ritornare nuovamente ad esso.
Bisogna partire da quanto segue. L’evenienza di una manifestazione effettiva di Dio (ammessa dalla pensatrice in alcune inconfondibili occasioni) porta allo scoperto anche l’effetto della percezione spirituale che abbiamo visto prima. Cosa con la quale si delineano poi le datità squisitamente spirituali. Tale genere di percezione avviene quindi nel puro spazio ontico dello spirito (onto-spiritualità). E quindi mette capo ad una sensorialità superiore, che è in grado di cogliere specificamente il mondo spirituale.
Parlando dell’investimento di luce spirituale da parte dell’Io rispetto agli oggetti esteriori (in seguito allo sprofondamento dell’Io nel suo fondo, dopodiché la luce spirituale fuoriesce dal buio del fondo e prende a galleggiare liberamente dietro), la Walther postula quindi un’irradiazione di ritorno da parte degli oggetti. E questo integra non poco il concetto steiniano di mondo spirituale – entro il quale comunque veniva posto in evidenza un effetto di ritorno, dovuto all’investimento etico-emozionali degli oggetti da parte dell’interiorità individuale. Ma tale fenomeno viene indagato dalla Walther in maniera ben più completa ed estesa rispetto alla Stein. Perché lei parla di una fusione tra la luce esteriore e quella interiore; con il confluire poi di entrambe in una Luce spirituale di ancora maggiore portata, ossia un’unitaria sfera di luce. L’effetto di ciò è quindi l’abolizione di qualunque spazialità, specie come differenza tra interiore ed esteriore. E questa non rappresenta altro se non lo “spirito divino” (“göttlicher Geist”) stesso (o anche Spirito santo, “Heiliger Geist”), del quale gli uomini sono scintille. Questa è la fonte primaria di luce (“Urquelle”) e pertanto anche di qualunque emersione interiore.
Più precisamente accade questo. Dagli oggetti promana una luce che viene incontro a quella promanante dall’Io. E così la luce centrale umana sembra derivare da quella degli oggetti (Essere), mentre poi quest’ultima sembra a sua volta derivare dalla stessa Luce divina (o Spirito santo).
Sperimentando e riconoscendo tutto questo, l’uomo si riconosce quindi possessore di una sfera spirituale luminosa profonda, che a sua volta rinvia ad una “fonte spirituale primaria” (“geistige Urquelle”). Anche a tale riguardo, allora, il concetto steiniano di mondo spirituale viene estremamente dilatato. Infatti è proprio per questa via che l’uomo si riconosce parte del “mondo spirituale” (“geistige Welt”), o anche “regno spirituale” (“geistiges Reich”). Esso sta chiaramente nel profondo, ma è anche per sua natura un «mondo», ossia è un’ontologia. E quindi è fatto di altri – estranei che hanno influsso su di noi, ovvero, più precisamente ancora, entità metafisico-spirituali e relative presenze spirituali.
Possiamo quindi costatare come il concetto di mondo spirituale configura presso la Walther una vastissima ontologia i cui caratteri sono apertamente non solo mistici ma anche teosofici. Presso la Stein invece si delinea in primo luogo un’ontologia cristocentrica . E quest’ultima si allinea poi ad una dottrina metafisica religiosa – quella di Cristo come «carne» del mondo –, che è anch’essa tendenzialmente mistica, ma lo è solo tendenzialmente. Il suo punto di ancoraggio primario è infatti soprattutto teologico.
La Walther ci mostra poi anche come il discendere della Luce spirituale divina (come accade, ad esempio, in situazioni di grave rischio di vita) – nella forma di raggio proveniente dalla “sfera di luce spirituale” che avvolge l’Io – ha l’effetto specifico di consegnarlo esattamente al mondo spirituale nella forma specifica di impregnazione spirituale del mondo stesso. Il rafforzamento dell’Io (con la conseguente decisione di continuare la lotta) – che risulta di tutto ciò – non avviene infatti sulla linea delle leggi del mondo, ma invece all’opposto, e cioè sottraendolo ad esse.
E quindi consegna di fatto l’Io ad un altro mondo. Il mondo spirituale è dunque anche questo: – un altro mondo, o anche il mondo ideale parallelo a quello reale. Non vi è dubbio che solo la prova (dolore e sventura), affiancata dalla manifestazione divina, ci permette di sperimentarlo nel corso di questa esistenza. Per mezzo della complessiva esperienza, infatti, noi ci rendiamo conto di vivere in realtà letteralmente accanto ad un mondo del tutto invisibile; che è però il più bello, giusto e buono che esista.
Ebbene l’appena descritto fenomeno della fusione delle due sfere di luce comporta per l’uomo un riconoscersi come ente spirituale, e simile al Dio-Spirito, che è poi un ulteriore aspetto sia dell’unicità che anche dell’umano-divinità. Si tratta per la precisione di “qualità spirituale individuale” (“individuelle geistige Qualität”); ed è ancora unicità in termini specificamente onto-spirituali, in quanto sta sempre in relazione con la sensibilità individuale (sempre di natura spirituale) a determinati enti-valori (mondo spirituale). In questo l’uomo resta però comunque onto-spiritualmente inferiore allo Spirito divino; che pure è esso stesso altrettanto unico (fino ad essere personale), ma intanto sfuggendo all’individualità. Questo significa però anche che la Walther allarga il significato dell’unicità umana (indagata dalla Stein) a quella di una spiritualità che forza notevolmente i limiti dell’’individualità e della personalità. Il che significa che, almeno per questo aspetto, la sua filosofia religiosa supera anche la prospettiva steiniana, ponendosi così fuori di un orizzonte di pensiero cristiano che è stato quasi interamente personalista .
Ecco che la spiritualità umana, una volta colta nella sua pienezza, appare tendere ad andare ben oltre i limiti della persona, e quindi nel senso della morte della persona e dell’Io. L’unicità individuale non è fatta insomma per celebrare sé stessa e restare com’è. Come tale infatti essa è appena un Io, ossia ente intellettuale dotato di facoltà (equivalenti onticamente alla spiritualità personale, e non invece a quella impersonale o divina). Essa è fatta invece per superarsi. In ogni caso la pensatrice ammette che l’unicità umana come individualità resta comunque pur sempre sul piano immanente – com’è evidente nella preferenza di alcuni particolari oggetti.
In rapporto a tutto ciò può poi venire esaminato presso la Walther un tema che compare entro la riflessione metafisica steiniana davvero più prossima alla mistica, e cioè quella riguardante il mistero della dinamica trinitaria. Vedremo però che a tale proposito emergono anche importanti elementi di differenziazione della dottrina waltheriana da quella husserliana dell’Io e della pura teoresi, che ad esso viene attribuito dal pensatore tedesco.
La pensatrice chiarisce infatti che il raccogliersi in sé stesso dell’Io (lo sprofondamento) genera sempre una gioia che inevitabilmente irradia all’esterno (Austrahlung). Questa irradiazione è poi contemporanea alla stessa emersione interiore del sentimento. Ma il tutto ci riporta a quel «procedere da sé stesso» (“Herausgehen”) che la Stein ha messi in evidenza appunto in relazione alla dinamica trinitaria . Si tratta in particolare di una dinamica effusiva, procedente dal primo termine della triade divina (il Padre), nel contesto della quale tutto viene donato senza che intanto avvenga alcuna consumazione di essere. A tale proposito la Walther sottolinea poi in particolare l’impossibilità di equiparare l’effettiva filialità divina con quella umana. In questo senso la sua dottrina è decisamente anti-gnostica.
Ma a tutto ciò va aggiunta anche la dimensione di passività che si viene a stabilire in quel raccoglimento dell’Io in sé stesso che è anche concentrazione, e quindi superamento della spazialità. Si tratta pertanto dell’intensificazione spasmodica dell’interiorità, che a sua volta sembra tendere a superare la diffusione e dispersione spaziale. Infatti l’Io raccoglie anche il suo sguardo, normalmente disperso, in modo tale che esso si acuisce in maniera straordinaria. E così di nuovo l’intenzione assume un volto totalmente diverso rispetto alla dottrina fenomenologica. Perché in tal modo non c’è più né l’avere di mira un oggetto né il muoversi di un flusso di vissuti entro la coscienza. Infatti, sebbene sia stato comunque un oggetto esterno ad aver catturato l’attenzione dell’Io, non è affatto nell’usuale senso che si muove l’intenzione. Essa non è più diretta in senso lineare – puntando così dritta sull’oggetto –, ma è invece modulata; e quindi non affatto incondizionata come lo è quella puramente teoretica. La dimensione della modulazione è qui rappresentata dalla presa di posizione di uno spirito che non è affatto solo intelletto puro (teoresi pura), ma è anche sentimento. Ed inoltre la concentrazione dell’attenzione esprime proprio questa libertà come auto-determinazione dell’Io; più che invece indeterminata ed incondizionata sua cattura da parte di un esteriore neutrale in senso etico-estetico. È proprio a tale proposito che entro il riscorso della Walther si chiarisce che lo spirito (“Geistiges”) è un’intellettualità davvero superiore (ente umano); e che quest’ultima è opposta allo psichico (“Psychisches”) in generale, che è invece appena funzionale ed animale. È solo in questo ultimo caso che si può parlare di una reazione davvero incondizionata tra l’interiorità psichica e l’oggetto esteriore. E proprio la Stein aveva chiarito tale fenomenologia, parlando dell’”apertura” (“Aufgebrochenheit”) incondizionata dalla psiche animale verso l’oggetto esteriore, al quale essa è legata per mezzo dell’istinto.
Ebbene proprio a tale proposito nella psiche umana gioca evidentemente un ruolo davvero fondamentale la dimensione emozionale-sentimentale; in assenza della quale evidentemente la stessa teoresi (tipicamente umana) resta comunque incompleta. A tale proposito, infatti, la Walter critica la de-sentimentalizzazione dell’Io come affermazione della pura teoresi.
Tale discorso si riconnette poi a quello che faremo più avanti a proposito di Husserl sulla differenza tra Io, spirito ed intelletto. Infatti – in linea con quanto abbiamo appena visto – possiamo costatare che (nella visione della Walther) lo sguardo spirituale dell’Io non investe più solo linearmente nell’esteriore gli oggetti (“Gegenstände”) in maniera concentrata (cioè in funzione del solo determinato). Esso è invece una luce che sprigiona dall’Io investendo globalmente gli oggetti stessi. Ma questo pone di nuovo in primo piano il «procedere da sé stesso» trinitario (Herausgehen). Infatti qui nel complesso avviene la trasformazione completa del fondamento spirituale (“Grundwesen”) retrostante all’Io: – esso si libera e si diffonde come una sfera di luce interiore, che a sua volta trasforma lo sguardo spirituale da concentrato a diffuso-splendente (la sfera esemplifica proprio il fenomeno dell’irradiazione di luce da un centro, ovvero Ausstrahlung). E ciò deve evidentemente corrispondere alla conoscenza come illuminazione.

I-4. La dottrina dell’anima, della triade spirito-anima-corpo e della relazione tra anima e corpo.
Sulla base di tutte queste premesse si può ora ritornare alla struttura ontologica statica dalla quale siamo partiti, tentando così di delineare quelle che sono per la Walther (sullo sfondo delle relative dottrine steiniane) la dottrina dell’anima, la dottrina della relazione tra anima e corpo e la dottrina della compagine spirito-animico-corporea, ossia di fatto l’antropologia .
A tutto questo va premesso però che finora di fatto abbiamo parlato proprio della realtà spirito-animico-corporea. L’intera sostanza interiore e retrostante all’Io ha infatti esattamente questa natura. Quando pertanto si parla di retrofondo dell’Io si parla di spirito, si parla di anima, e si parla del corpo nel senso specifico di “Leib”. Ossia (come chiarito proprio dalla Stein) si parla di corpo animico – cioè una corporalità intimamente unita all’animicità, e da essa pertanto profondamente impregnata.
Tuttavia proprio qui è necessario pervenire ad una differenziazione ontologica ancora più netta di intellettualità e spiritualità. Laddove va qui precisato che l’anima, a causa della sua valenza conoscitiva, può qui venire intesa come equivalente all’intelletto. Vedremo però tra poco che ciò può essere sostenuto solo per approssimazione. Ebbene, la pensatrice sostiene con estrema decisione la dovuta differenziazione ontologica tra anima e spirito. Laddove la prima è per lei (proprio come per Plotino) da assimilare onticamente al secondo in maniera totale. In questo senso la sua presa di posizione è decisamente gnostica (almeno nella tendenza). Ma tutto ciò sta in intima relazione con quanto già detto circa le caratteristiche del fondo quale retro, ossia realtà aperta posteriormente verso uno spirito impersonale. Inoltre ciò sta in relazione anche con il fenomeno dello sprofondamento dell’Io nel proprio stesso fondo. Quindi, in forza di tali caratteristiche, sta di fatto che spirito ed anima si pongono in una continuità così serrata da configurare un’unità inscindibile. La quale poi corrisponde esattamente all’antropologia spirito-animico-corporea, ossia quanto la Walther definisce come una tri-unità. Tuttavia il paradigma di tale unità è propriamente dinamico, e cioè equivale perfettamente al fenomeno dell’emersione. Più precisamente si tratta dell’irradiazione di essere (immateriale e sottile), a partire da una sostanza profonda, che però è l’essenza stessa di tutto quanto da essa viene emanato. In altre parole la sostanza implicata nell’emersione è una sola cosa con il processo stesso dell’emersione – essa è ciò che è proprio in quanto è totalmente dinamica. E questo è senz’altro un ulteriore carattere della sostanza spirituale. Si tratta insomma dello spirito quale Pneuma.
Naturalmente, ci dice la Walther, bisogna tenere conto dei diversi punti di vista metafisici che sono da sempre esistiti rispetto a questo insieme di tre sostanze. E questi, scindendo l’unità tri-unitaria, hanno sempre teso ad interpretarla per mezzo di una sola delle sue possibili forme: – o spirito, o anima o corpo. Ed ecco quindi anche le varie visioni di uomo; secondo quella che viene giudicata volta per volta la sua essenza: – uomo corporeo, uomo animico, uomo spirituale.
In ogni caso la Walter protesta molto esplicitamente contro chi ha voluto negare la primaria natura spirituale dell’anima (ed anche qui ella assume una posizione decisamente gnostica). Proprio affermando questo, la pensatrice si produce dunque nella proposta di una vera e propria dottrina dell’anima. E quest’ultima, per quanto affermata davvero in pochissimi concetti, è estremamente decisa e chiara: – l’anima non è altro che spirito. Pertanto la differenza tra le due sostanze esiste eccome. Anche se essa può essere moderata (come fa Plotino) affermando l’esistenza di una parte superiore dell’anima ed anche dello spirito. Per esemplificare ciò in campo metafisico-religioso, la Walther si rifà qui alla natura essenzialmente spirituale di Gesù Cristo (ecco ancora la gnosi) – riconosciuta da alcuni (demoni) ed invece negata da altri (Pilato e Farisei). A tale proposito la pensatrice si sofferma poi nuovamente sulla definizione “psichico”. Esso designa infatti per lei un’ontologia immediatamente superiore a quello del mero corpo. E non a caso lo psichismo risulta evidente anche in animali e piante (con la gradazione verticale esistente tra di essi), nella forma specifica rappresentata dalla funzione conoscitiva dell’anima (anima conoscente). Ma nello stesso tempo si tratta comunque di qualcosa di diverso dall’intelletto: – qualcosa di meno, certamente, ma soprattutto di diverso. L’onticità dell’anima è infatti sostanzialmente emozionale. Essa è thymos, e quindi rappresenta tutto quanto è sentimentale ed umorale (“Gemüt”, “Gefühl”).
Ma, come abbiamo detto, tutto questo si esprime in maniera sostanzialmente dinamica. E ciò ripropone decisamente il tema steiniano ed husserliano della formazione animico-spirituale. Quest’ultima viene letta però dalla Walther in maniera ancora una volta decisamente sentimentale, e cioè come volontà ed amore. Lo sguardo spirituale dell’Io è infatti per lei sostanzialmente questo, ossia una vera e propria forza creatrice e trasfigurante. E ciò deve avvenire proprio perché essa è sorretto da una forte spinta emozionale emergente dal fondo interiore.
La pensatrice comunque – in obbedienza ad una visione che in generale sottolinea la corporeità delle entità spirituali – non può qui avvalorare la posizione platonico-pitagorica della totale riduzione del corpo allo spirito (come nel concetto di corpo come prigione dell’anima). Per lei bisogna insomma pienamente ammettere la valenza spirituale del corpo (corporalità spirituale). Sebbene non si possa nemmeno ridurre lo spirito al corpo. La dimensione spirituale del corpo viene vista da Walther soprattutto nel processo (sostanzialmente spirituale) della formazione animica che reca al risultato finale della bellezza corporea: – propria solo di un essere perfettamente integrato spirito-anima-corpo. Tale fenomeno esprime quindi nuovamente l’unità statico-dinamica spirito-anima-corpo, che a sua volta va ancora una volta di pari passo con il fenomeno di emersione.

II- Walther e Husserl.
Il discorso fatto per la Stein, vale naturalmente anche per Husserl – almeno rispetto a diversi elementi del comune pensiero. Abbiamo infatti già visto (a proposito dei concetti di intenzionalità, proprio o eigen, inter-soggettività e teoresi pura) che la visione della Walther integra e dilata sia quella della Stein che quella di Husserl.
Alcuni aspetti specifici della sua riflessione sembrano però riferirsi ben più direttamente al solo pensatore tedesco. E pertanto li esamineremo seguendo in una certa maniera lo stesso schema già seguito in relazione alla Stein, e cioè partendo dall’ontologia di fondo della visione waltheriana.

II-1 Gli oggetti irreali, ovvero metafisici.
Un primo elemento da esaminare è quindi nuovamente quello delle entità che per la Walther stanno al centro dell’ontologia interiore, ossia gli enti davvero strenuamente metafisici .
Abbiamo già visto chiaramente infatti che la pensatrice ammette pienamente, e senza la minima difficoltà razionale, l’esistenza fisico-corporea di oggetti irreali nel senso di enti puramente metafisici caratterizzati dall’assoluta sottigliezza immateriale di essere. E questo non si può dire certamente per Husserl. A questo punto bisogna anche ricordare alcuni momenti testuali del suo pensiero, nei quali egli, proprio nel escludere recisamente l’ammissibilità razionale dell’effettivo esistere di tali enti, assunse una posizione nettissimamente anti-metafisica . Proprio questo rende impossibile pensare nel suo caso al sussistere di una vera filosofia religiosa. Ebbene appurare questo non è l’obiettivo del nostro articolo, e tuttavia almeno brevemente dobbiamo occuparci qui della questione. Certo è infatti che quanto nel caso di Husserl risulta impossibile, risulta invece del tutto possibile entro la “fenomenologia della mistica” waltheriana. Come abbiamo visto, proprio in quest’ultima sono collocabili gli oggetti che sono ragionevolmente irreali, eppure sono anche tangibilmente esistenti. E lo sono per il semplice motivo che noi ne «sentiamo» chiaramente l’esistenza dentro di noi. Con ciò la Walther non mette insomma minimamente in discussione la realtà effettiva dei fenomeni che si verificano nell’esperienza religiosa colta nella sua effettiva pienezza, e cioè davvero viva ed intensa. Si tratta del presentarsi effettivo in essa di enti assolutamente irreali – come avviene nell’emersione di contenuti interiori totalmente sine materia. In particolare abbiamo qui l’emersione dal profondo di elementi di esperienza che non sono mai assolutamente passati per l’Io. Esi insomma non hanno affatto seguito la via esteriore, ma invece solo quella interiore. Del resto poi essi stessi esistono nel mondo esteriore anche in una maniera assolutamente ultra-sensibile, e cioè nella forma di entità personali emananti influssi energetici assolutamente non materiali; oppure addirittura come presenze purissimamente spirituali.
In questo caso avviene quindi senz’altro un’esclusione dell’Io cosciente – un bypassamento dell’Io che è poi un vero e proprio disinnesco della coscienza –, con il conseguente passaggio diretto degli elementi estranei all’”Einbettung” personale, seguito poi dall’emersione interiore alle spalle dell’Io.
Si tratta insomma di una comunicazione interpersonale non esteriore ma invece tutta interiore.
E si può ben dire che di tale fenomenologia la Stein ha esplorato solo la parte più in linea con la più rigorosa filosofia e psicologia. La Walther va invece ben oltre.
Ora è evidente che, per tutto il tempo del verificarsi di questi fenomeni, l’Io non viene a sapere assolutamente nulla di ciò che accade. In questo modo, allora, viene alla luce una fenomenologia psichica entro la quale la coscienza non gioca assolutamente alcun ruolo. E per la precisione ciò non avviene già sul piano della semplice psicologia. Pertanto ciò non avviene in maniera ancora maggiore sul piano di quella Fenomenologia, la quale tende ad assegnare alla coscienza (e quindi all’Io) un ruolo di importanza davvero cruciale.
A fronte delle osservazioni della Walther, bisogna quindi ammettere che ci troviamo davvero anni luce lontano dalla visione di Husserl. I termini della Fenomenologia di quest’ultimo sono quindi da considerare totalmente assenti presso la nostra pensatrice. E pertanto lo sono anche i termini della Fenomenologia storica che non fu husserliana (quella scheleriana e heideggeriana). Per quanto (per alcuni aspetti) ciò possa sembrare paradossale, l’elemento che accomuna queste tre visioni filosofiche appare essere proprio quello di un realismo del quale non vi è invece alcuna traccia nella visione della Walther. Ed in questo modo appare chiaro quanto quest’ultima si distacchi sullo sfondo del pensiero del suo tempo. La forte tendenza teosofica della visione waltheriana va pertanto senz’altro intesa come il segno dell’operare in lei di una vera e propria “perennis philosophia”. Non a caso la pensatrice protesta energicamente contro la negazione scettica dei fenomeni che lei invece avvalora pienamente. Ella sostiene infatti che, anche nel caso che tale negazione avesse le sue ragioni, essa urta comunque contro l’evidenza secondo la quale nella contemplazione noi possiamo effettivamente osservare oggetti (concetto, essenza, idea) in maniera puramente astratta.

II-2 L’Io secondo la Walther.
La visione waltheriana non può quindi rapportarsi a quella di Husserl se non in maniera fortemente critica. E ciò non può non avere conseguenze sulla dottrina dell’Io.
Di quest’ultimo infatti la pensatrice pone in forse peso e consistenza . Abbiamo già visto con quanta forza la pensatrice pone allo scoperto l’inconsistenza ontica dell’Io proprio quando esso appare nella sua forma più autarchica e quindi nel pieno di una vera e propria sua manifestazione di potenza. Si tratta insomma del fenomeno del solipsismo. Che qui però la Walther esamina nella sua manifestazione più schietta, ossia nel contesto di una vera e proprio ontologia dell’Io.
La pensatrice afferma infatti davvero senza mezzi termini che il soggetto non è affatto una monade senza finestre (Leibniz), e quindi per definizione non è affatto chiuso in sé stesso. Esso invece sempre condivide l’essere con gli altri. Per tale motivo il soggetto è per lei esso stesso un “fenomeno originario” (“Urphänomen”). Ed è in questo senso che esso costituisce un “campo di forze”.
Il riferimento è qui chiaro alla posizione e ruolo affidati da Husserl all’Io – ossia alla sua valenza di “Io-centro” che sta conoscitivamente alla radice (originario) di qualunque essere, e precisamente per mezzo di un atto di coscienza e conoscenza (forza). Ma abbiamo già visto (in relazione alla Stein) che la realtà caratterizzata dall’«originario» è ben lontana dall’ontologia che può essere del solo Io. Ne consegue pertanto che, se quest’ultima può avere caratteristiche di «originarietà», ciò può avvenire solo se essa risulta riconducibile all’ontologia interiore fondamentale posta dalla Walther. Ed infatti quest’ultima colloca l’originarietà del soggetto proprio nel contesto dell’ontologia spirituale interiore. E ciò implica poi tutte le caratteristiche da essa comportate – in particolare la dimensione sentimentale ed empatica (laddove l’empatia è testimone dei fenomeni di esperienza sostanzialmente interiore). Infatti la dimensione del non-solipsismo del soggetto (necessaria condivisione) comporta anche l’inevitabile percezione dell’altro, e quindi porta l’Io ad avere una percezione della vita interiore dell’altro nel contesto della sua visione interiore di sé stesso (“Innenschau”). E due sono le strade per mezzo delle quali ciò si verifica: – 1) dedizione (“Zuwendung”) al mondo esteriore; 2) risonanza incondizionata (“unmittelbare Mitschwingen”) con le esperienze dell’altro. La Walther ci mostra così di fatto la strada stessa che, proprio per mezzo dell’empatia, aveva portato da Stein a Husserl.
Del resto, come abbiamo già visto nella precedente sezione, alla solitudine dell’Io la nostra pensatrice da un volto ed un corpo davvero eccezionali; descrivendoli come il desolante stato spirituale ed intellettuale che precede di poco l’esperienza mistica. Qui viene insomma da lei descritto lo stato di spaventosa solitudine dell’Io nella sua pienezza concentrata (solipsismo), che sembra essere quello della teoresi piena, ma invece si rivela essere quello del distacco. Proprio come tale esso prelude all’esperienza mistica nella sua pienezza.
Per comprendere meglio tutto questo dobbiamo però entrare nei dettagli di quanto la pensatrice ci illustra. L’Io è infatti per lei germe (“Keim”) dello spirito solo in quanto esso si pone in relazione con il fondo spirito-animico (Grundwesen) – quale sua base di appoggio (punto di partenza) per l’auto-determinazione (auto-conoscenza), in relazione a ciò che ognuno di noi deve diventare in forza del proprio fondo o nucleo. Nello stesso tempo però in tal modo appare chiaro che anche il fondo stesso ha assolutamente bisogno dell’Io come proprio vertice (“Aufgipfelung”). Si pone quindi così (in tutto il suo valore) l’esistenza indipendente dell’Io rispetto al fondo quale sua base.
E funzionalmente ciò avviene al massimo nella concentrazione piena dell’Io (diversa alla condizione del fondo in cui l’attenzione è sempre divisa). Qui si delinea dunque una condizione di vera e propria libertà dell’Io dal fondo. Ed il suo paradigma è in via di principio estremamente negativo – Lucifero stesso ci viene qui presentato come esempio della pienezza incondizionabile dell’Io. Ma alla fine tutto ciò, grazie allo sconfinamento dell’intera fenomenologia egoica nel campo della mistica, si rivela nei fatti totalmente positivo. Si delinea infatti in tal modo un isolamento dell’Io che in sé configura l’autentico Io puro (“reines Ich”). Ma si tratta solo di un momento di splendore dell’Io nella sua incondizionatezza ontica. Qui si ha infatti l’esperienza pura di sé stesso (e perfino di Dio), ma intanto ormai totalmente in assenza del mondo. Si tratta insieme di un isolamento dell’Io ed anche di un massimo di coscienza. In questa situazione l’Io è pertanto autentica e indispensabile cerniera tra ciò che gli sta dietro (Grundwesen) e ciò che gli sta davanti (mondo). Ecco dunque l’Io raffigurato come occhio dell’anima. Ma questa sua straordinaria elevazione non appare affatto fine a sé stessa, né appare affatto destinata a rappresentare il suo status ontico in assoluto. E questo è esattamente quello al quale cerca di dar corpo Husserl. Almeno in questi termini, quindi, la visione waltheriana va considerata decisamente anti-idealista.
Inevitabile è dunque la decisa relativizzazione della centralità dell’Io da parte della Walther . L’intero concetto di “Io-centro” (“Ichzentrum”) viene infatti sottoposto dalla pensatrice ad una critica fortemente limitante. E ciò si esprime anche nell’affermare (nell’ambito della fenomenologia ed ontologia qui illustrata) la sua totale assenza di potere rispetto alle esperienze esteriori.
Di converso però all’Io viene concesso un grande potere nelle esperienze interiori. Si tratta insomma di un potere di ritorno, e del quale l’Io resta debitore proprio alla sostanza che lo nutre dal fondo – l’olio della lampada, che è il combustibile in assenza del quale lo stoppino non potrebbe mai assolvere al suo ruolo, e cioè quello di irradiare luce.
Ovviamente non si tratta però di un potere assoluto, ma invece solo relativo. Si tratta cioè della capacità dell’Io di facilitare (per mezzo della sua sensibilità solo verso alcuni vissuti) l’esperienza interiore. Ma questo mette inevitabilmente in primo piano quella dimensione etica della coscienza (atteggiamento valutativo), che invece in Husserl è del tutto secondaria (sebbene considerata contemporanea) rispetto all’atteggiamento teoretico . E questo pone di nuovo in questione l’intenzionalità stessa in quanto “coscienza di” un oggetto. Così formulata, essa esprime infatti il possesso inalienabile dell’Io sull’oggetto. Specie nel senso che l’inizio dell’atto di coscienza è tutto suo. La Walther introduce invece una netta differenziazione in tale convincimento di Husserl (sebbene in parte anche confermandolo). Ella afferma insomma che non è affatto dell’Io il possesso sull’oggetto esteriore. Infatti, come abbiamo visto prima (a proposito della Stein), l’oggetto esteriore è in verità il momento di inizio di un’esperienza psichica sostanzialmente interiore.
E sta solo qui il suo effettivo valore. Non sta invece laddove esso è invece un indifferente oggetto esteriore sul quale si soffermi l’Io senza intanto intrattenere alcuna relazione con il profondo.
La Walther completa quindi la dottrina husserliana dell’intenzionalità affermando che la “coscienza di” è sostanzialmente auto-coscienza. Non è “Bewusstsein” (“essere cosciente”) ma è “Selbstbewußstsein” (“essere cosciente di sé”). È quindi vera e proprio coscienza del proprio Sé.
È pertanto quel «sapere di sè», quale tratto fondamentale dell’onto-intellettualità umana. Ebbene a tale costatazione Husserl sembra concedere un grande spazio e peraltro di concerto con la Stein – nel contesto della concezione spirituale del soggetto cosciente-conoscente. E tuttavia è evidente che tale concessione è solo incompleta se non si coniuga per davvero con la postulazione della primarietà dell’ontologia interiore. E ciò avviene solo entro quelle visioni filosofico-metafisiche che concepiscono l’«auto-conoscenza» quale dimensione radicalmente primaria dalla conoscenza stessa (Platone, Agostino etc.) . Dunque, più che di un coglimento di vissuti (rispetto ai quali si sia ontologicamente estranei), si tratta con ciò di un sapere dei propri vissuti. Ed ecco che il «sapere di sé» proprio dell’Io assume ben altro senso che quello di un’auto-coscienza puramente teoretica e solipsistica. Si tratta insomma del fatto che, quando conosce coscientemente, l’Io prima di tutto coglie sé stesso nel conoscere. Ma questo introduce nella dottrina husserliana dell’Io la primarietà di un’ontologia interiore (rispetto a quella esteriore), che invece in essa era completamente assente. E quindi ciò inaugura un idealismo anti-realista (tipico di ogni spiritualismo religioso) che è incentrato sulla conversione all’interiore. Conversione che poi ha lo stesso identico significato che ha il fenomeno del «rivolgimento» (platonico) da noi già posto in luce.
Si può dire allora che con la Walther noi riconosciamo al campo della conoscenza (proprio dell’Io) lo spessore e la dignità di un’ontologia non più separata dall’Io – in quanto esteriore e quindi ad esso irrecuperabile (idealismo) –, ma invece sempre inclusa in esso stesso. In tal modo l’Io stesso viene una sostanza primariamente interiore. Come tale questa realtà interiore sarà quindi caratterizzata da un’oggettualità tipicamente metafisica, e quindi onto-spirituale: – corporea ma immateriale e sottile. Ed eccoci dunque di nuovo al cospetto della fondamentale fenomenologia dello sprofondamento dell’Io nel suo fondo. Si tratta con esso del raggiungimento da parte dell’Io del culmine del potere effettivamente a sua disposizione – che però non è diretto affatto verso l’esterno, bensì in realtà solo verso l’interno. In esso avviene allora il coglimento dell’essere nella sua forma spirituale. Ed il fenomeno dello sprofondamento dimostra dunque che cogliere lo spirituale è possibile solo se ci immergiamo in esso. Ciò comporta pertanto un arretramento dell’Io rispetto all’esteriore proprio nel senso dello sprofondamento verso il retro. Solo lì c’è infatti lo spirituale.
Ecco allora che il fondamentale intervento della Walther nel contesto della Fenomenologia husserliana mette a nostra disposizione contenuti riflessivi che altrimenti in essa forse non sarebbero mai maturati.

II-3 Anima e spirito sullo sfondo della visione husserliana.
Da qui si può dunque pervenire ad una precisazione circa la dottrina dell’anima e dello spirito, così come si sviluppa nel pensiero waltheriano in relazione alle premesse husserliane della ricerca fenomenologica.
In realtà tutto quanto abbiamo finora chiarito – a proposito dello sprofondamento dell’Io, dell’ontologia interiore e del solo relativo spessore ontico dell’Io rivolto all’esteriore – porta allo scoperto, presso la Walther , una dottrina dell’anima della quale in Husserl non vi è alcuna traccia. Eppure è innegabile che essa sia presente nei suoi scritti (come ad esempio nella seconda parte di Idee per una fenomenologia pura). L’intera dinamica descritta dalla nostra pensatrice presuppone infatti una struttura, e cioè la primaria posizione profonda nell’insieme personale che in qualche modo si contrappone all’Io. E questa è poi la più autentica ontologia interiore. Di essa pertanto è presumibile che l’Io sia la parte più superficiale ed onticamente meno consistente. Questo insieme profondo è, come abbiamo visto, la dimensione spirito-animica contrapposta all’Io. E l’importanza del suo influsso sull’Io l’abbiamo già costatata nel conferimento all’Io stesso dei presupposti sentimentali per un atteggiamento conoscitivo sostanzialmente emozionale-estetico ed etico.
Tutto ciò si ricollega comunque all’immagine della lampada illustrata da Walther. Ella chiarisce infatti che all’interno di tale struttura (il recipiente limitato più esternamente dalle pareti stesse del corpo) vi è comunque una barriera ontologica tra spirito-animico e corporeo (Leib). Essa è porosa, ma comunque sussiste. La lampada è quindi di un doppio recipiente, la cui parte interna (interiore) è anima-spirito-mente, e la cui parte esterna è il corpo. Ciò significa allora che sempre ed invariabilmente “noi sperimentiamo il nostro corpo da dentro e non da fuori” (“wir erleben unser Leib von innen”). La nostra esperienza è insomma primariamente interiore, e non esteriore; e diviene esteriore solo a causa dell’interfacie esistente tra corpo e mondo. Tale interfacie è però esattamente quanto Husserl presuppone come il limite più estremo dell’Io, e quindi come la parte più periferica e secondaria di un’ontologia la cui pienezza coincide invece proprio con l’Io stesso nella sua estensione. Al contrario, in virtù di quanto ci mostra la Walther, tale ontologia si rivela essa stessa coincidente con l’esteriorità. Essa è insomma tutta esteriore, includendo infatti perfino l’Io (esso stesso solo superficiale, e quindi esteriore) con tutto ciò che intanto si distende davanti ad esso.
Per tale motivo essa è allora anche del tutto secondaria ed irrilevante ontologicamente.
La parte dell’essere più consistente e rilevante (dal punto di vista psichico) sta invece per la Walther del tutto alle spalle dell’Io. E quindi essa cessa decisamente di essere consistente già a partire dall’Io. Si tratta insomma di quanto avevamo già chiarito (criticamente) mostrando come la sequenza lineare orizzontale spirito(Io)-anima-corpo, procedente dall’interno verso l’esterno, costituisce un’immagine non fedele delle cose. Infatti lo spirito non sta per davvero appena dietro l’anima ed il corpo su una sequenza lineare orizzontale. Anzi esso non si identifica nemmeno con l’Io stesso come primo termine di tale sequenza. Lo spirito invece sta al di sotto dell’anima e del corpo, e più ancora sta al di sotto dell’io. È pertanto solo da questo «retro» e «sotto» (prima da noi costatato quale insondabile profondità) che inizia per davvero la sequenza spirito-anima-corpo.
L’intera critica waltheriana alla concezione husserliana dell’Io passa quindi obbligatoriamente per la rigorosa distinzione tra spirito e intelletto. Laddove presso Husserl la relazione tra i due elementi è stata lasciata fin troppo in un’ambiguità che non può ingenerare altro che confusione. Nel suo pensiero si sentiva infatti ancora l’effetto del riduzionismo positivistico e storicistico applicato al concetto di «spirito». E quindi, l’impiego husserliano del termine ha senz’altro una valenza di restaurazione di valore. Tuttavia ciò è ancora troppo poco finché non perviene alle sue effettive conseguenze. Ed ecco allora che la Walther, posta di fronte alla questione della possibile spiritualità dell’Io – espressa nella forma di differenziazione di altezza dell’Io stesso in direzione della spiritualità [“alto sé” (“höheres Selbst”) o anche di “alto Io” (“höheres Ich”), con i quali si intende poi un “fondamento spirituale” (“geistes Grundwesen”)] – precisa che non può esservi null’altro che spirito . Ancora una volta si tratta di un problema il cui stesso affronto pone in primo piano l’atteggiamento filosofico-religioso. Il quale poi a sua volta impone, quando autentico, l’affermazione di un’ontologia spirituale. E ciò è esattamente quanto fa la Walther nel sottolineare l’assoluta primarietà dello spirito. Ella afferma insomma che non vi è nulla di alto che non sia integralmente spirito. Ed ecco che dunque l’Io in sé (quello concepito da Husserl) non può in alcun modo essere spirituale in quanto «alto». Ma nemmeno può essere davvero spirituale, se prima non cessa di essere sé stesso per assimilarsi così totalmente alla realtà spirituale.
Inoltre ciò è ancora più vero se all’Io si vuole attribuire una valenza di «fondamento». Esso lo può essere solo e soltanto se è identificabile totalmente con la sostanza spirituale. Ed infatti solo lo spirito è fondamento spirituale, e come tale è anche «alto» – un alto che non a caso, come mostrato da Platone , è anche il profondo più profondo che si possa mai immaginare.
Tutto ciò deve quindi venire differenziato nettamente dall’Io nella sua originarietà, ossia dall’Io-centro (“Ichzentrum”). Con il quale si può poi anche intendere l’Io «alto» nel senso specifico di «centro funzionale», e quindi come Io puro. Si può dire allora che l’Io-centro resta semmai costantemente incluso nell’Io superiore, ovvero nello Spirito stesso. Come tale (cioè solo come spirito) esso è fondamento spirituale (Grundwesen) dell’entità personale, ma non è intanto affatto identico ad esso. Il mondo spirituale (“Welt des Geitigen”) è infatti, dice la Walther, una regione (“Region”) dell’essere per sé (“für sich”). E ad essa appartiene anche l’uomo come spirito. In forza di tale incidentale assimilazione essa ha pertanto perfino facoltà del genere di quelle intellettuali umane: – amore spirituale, volontà spirituale. Ma intanto non coincide affatto con l’uomo-intelletto quale spirito (“…der Geist ist auch nicht etwa mit dem Intellekt identisch”). Ecco allora che la sostanza spirituale è in sé radicalmente diversa dall’Io-Intelletto. Perché questo è sempre tendenzialmente naturale-ontico, e quindi è sempre differenziato . In questo senso esso è un possesso della facoltà attiva (che nell’Io è propria del carattere): – volere, amare. Lo spirito puro non possiede Io, e non ha quindi queste facoltà. Lo spirito è infatti ontologicamente più che intelletto: – è propriamente luce. E la luce è sempre globale. Ecco allora che il mondo dello spirito sovrastà all’uomo come spirito e non equivale invece ad esso. Si tratta così semmai molto più del sussistere ben primario di un “essere spirituale” (“geistiges Wesen”), il quale poi nel suo essere equivale pienamente all’ontologia spirituale. La pienezza dell’essere spirituale si ha quindi soltanto nell’essere spirituale per eccellenza, e cioè nello spirito puro. E qui bisogna dire che la visione waltheriana si differenzia radicalmente da quella husserliana proprio in quanto si approssima alla visione della Stein. Anche in quest’ultima infatti il paradigma più pieno della spiritualità umana viene visto nello spirito puro .
Tutto ciò significa allora che, se proprio si vuole attribuire all’Io il carattere dell’originarietà (Io-centro come radice dell’essere), allora bisogna travalicare la sua ristretta ontologia e postulare invece l’ontologia spirituale. In termini filosofico-religiosi ciò pone poi necessariamente la prospettiva della morte dell’Io e della morte della persona. Non a caso è esattamente in questa direzione che si muove l’Io dopo aver raggiunto quell’apogeo della sua pienezza. Nel quale però intanto la sua pochezza ontica solipsistica emerge in tutta la sua tragica evidenza.
In ogni caso di tutto ciò possiamo avere un’immagine dinamica allorquando osserviamo il fenomeno già commentato (Stein) del liberarsi della luce intellettuale-spirituale dal fondo (retro) nel quale essa era nascosta, per galleggiare liberamente alle spalle dell’Io (nell’interiore non più oscuro), in modo da porsi anche in contatto con esso.

Conclusioni.
Il nostro intero excursus testuale ci ha rivelato in modo davvero chiaro la continuità serratissima esistente tra il pensiero della Walther e quello della Stein. Sebbene in alcuni punti abbiamo visto che la prima addirittura supera la seconda nella pienezza di alcuni concetti filosofico-metafisici (come per esempio laddove la Walther osa varcare il confine delle più rigorose psicologia e filosofia). Nello stesso tempo ci è stato mostrato anche come l’approfondimento e la dilatazione della portata dei corrispondenti elementi dottrinari steiniani, da parte della Walther, fa sì che le tendenze già chiaramente presenti presso la Stein giungano a compimento nella forma specifica di una metafisica religiosa davvero intensissima. E tutto questo conferma decisamente la veridicità dell’ipotesi dalla quale siamo partiti.
Ma a ciò si aggiunge come elemento dirimente quanto abbiamo costatato esaminando le relazioni tra Walther e Husserl. Qui infatti la distanza tra i due pensieri si è rivelata essere davvero abissale.
Ed allora ciò significa che la forma strenuamente metafisico-religiosa assunta dalla visione steiniana, grazia all’opera svolta su di essa dalla Walther, segna anche un distacco definitivo di essa dalla visione husserliana. Di un tale distacco ci sono in verità avvisaglie anche nei testi dell’ultimissima opera della pensatrice. Ma ciò può essere constatato solo in concomitanza all’altrettanto evidente continuità ininterrotta (totalmente volontaria) che legò la sua visione a quella husserliana fine nei suoi momenti più ultimi.
È pertanto evidente che la dimensione espressamente filosofico-religiosa del pensiero gioca qui un ruolo fondamentale. Ma abbiamo anche detto che di quest’ultima non intendiamo interessarci direttamente in questo articolo. Più importanti ci sembrano gli elementi di fondo sui quali poggia la filosofia religiosa waltheriana, e cioè quegli enti intesi in una maniera strenuamente metafisica la quale non potrebbe essere tale se non fosse anche strenuamente religiosa. Parliamo insomma della dichiarazione dello spirito come davvero autentica, e quindi davvero originaria, ontologia. E per spirito va inteso quindi qui un’onto-spiritualità che, nello stesso tempo in cui è totalmente tangibile (nel corso dell’esperienza interiore), denota anche un’onticità immateriale e sottile, ossia estremamente rarefatta. Di essa possiamo avere esperienza nella nostra interiorità, ma è evidente che nella sua pienezza essa si trova solo negli spiriti puri, ossia in quelle persone spirituali che vanno dai demoni, agli angeli, e che culminano con Dio. La consapevolezza netta di tali entità ha caratterizzato l’intera metafisica religiosa occidentale, e senza alcuna vera distinzione tra la sua fase pre-cristiana («pagana») e cristiana . Non a caso in Origene noi possiamo prendere ancora pienamente atto di una visione che le prevede tutte. Va precisato però che la concezione davvero spiritualistico-religiosa di tali entità – ossia la concezione nella quale si afferma effettivamente senza mezzi termini che l’Essere è Spirito divino e nient’alto – si ritrova solo pensiero cristiano platonico e gnostico-platonico.
Fatto sta che, chiaramente accennate nella visione metafisico-religiosa steiniana (ma molto più in connessione con una metafisica religiosa tomistico-aristotelica), tali entità vengono concepite nella loro pienezza solo presso la Walther. In Husserl invece esse sono non solo assenti, ma vengono anche negate. Possiamo quindi prendere proprio questo come l’elemento in relazione al quale trarre le nostre conclusioni sulla presente investigazione. La precisa misura della distanza esistente tra Husserl, Stein e Walther si può avere infatti proprio in relazione allo svilupparsi progressivo – nel contesto della complessiva visione fenomenologica – di un onto-spiritualismo che, giunto davvero alla sua pienezza, si pone poi inevitabilmente come autentica filosofia religiosa.
Ebbene, sta di fatto che in tal modo si giunge a pensare un’ontologia che il pensiero filosofico moderno (unanimemente vincolati ai veti kantiani) non ha mai nemmeno lontanamente voluto considerare ammissibile. Con l’ontologia waltheriana noi ci troviamo non a caso proprio sul piano di quelle affermazioni metafisiche sulle quale le moderne filosofie decostruzioniste (analitica, della mente, del linguaggio, cognitivista), tutte radicalmente anti-metafisiche, avrebbero da sollevare una serie infinita di obiezioni demolitorie. E del resto chi frequenta gli ambienti della Filosofia accademica sa bene che di cose come queste non è di fatto lecito parlare nemmeno negli ambienti nei quali si coltiva ancora lo studio di un pensiero autenticamente religioso (come accade negli studi del pensiero antico).
È proprio qui insomma che possiamo cogliere davvero con mano quale sia stato il contributo offerto dalla Walther, nel contesto delle relazioni che esistono tra il suo pensiero e quello della complessiva scuola fenomenologica. Ed è evidente che il carattere di tale contributo è quello di una straordinaria originalità, che poi è sicuramente anche non conformistica. E quello dell’originalità è senz’altro un carattere anche del pensiero steiniano. Il che significa che la Walther lo ha portato a compimento anche da tale punto di vista.
Dobbiamo però ancora chiarire quali sono gli elementi specifici più generali del contributo waltheriano. Ebbene, essi sono emersi piuttosto chiaramente nel corso della nostra investigazione.
Il primo luogo si tratta di un radicale idealismo religioso che naturalmente sta in perfetta sintonia con lo spiritualismo metafisico-religioso. Pertanto tutte le così seducenti possibili affinità gnostiche del pensiero waltheriano (forse solo apparenti) si spiegano alla fine proprio in forza di questi due elementi congiunti – idealismo religioso e spiritualismo metafisico-religioso
Ciò significa allora che l’originalità della Walther si presenta nella forma di una totale estraneità della sua visione filosofica (e soprattutto filosofico-religiosa) al realismo che decisamente ha preso il sopravvento dopo il tramonto dell’idealismo husserliano. Naturalmente però va anche precisato che la pensatrice non si allinea affatto nemmeno a quest’ultimo. E lo abbiamo visto con chiarezza nel contesto della sua davvero radicale critica alla dottrina husserliana dell’Io. Abbiamo visto inoltre anche che la sua visione è per alcuni aspetti anche anti-personalistica.
In questo senso si può dire che la sua complessiva presa di posizione è anche anti-idealistica.
Lo è però, come abbiamo visto, nel contesto di un suo riconoscersi di fatto nella tradizione di quella “perennis philosophia”, il cui tratto dottrinario fondamentale è stato sempre quello dell’idealismo strenuamente religioso. Come tale esso non ha mai avuto il carattere dell’idealismo filosofico moderno occidentale, ossia non ha mia posto il soggetto umano (ovvero l’Io) come l’origine di fatto di tutto ciò che è reale e ontologico. Proprio per questo nell’idealismo religioso non si è mai configurata una contrapposizione inconciliabile tra soggetto ed oggetto. E ciò ha quindi sempre escluso tanto un idealismo unilaterale quanto anche un realismo unilaterale. L’idealismo religioso autentico è stato quindi sempre tendenzialmente un «idealismo realista».
Ma nemmeno in questo caso esso è assimilabile all’idealismo realista fenomenologico-husserliano sintetizzato dal principio del “zur Sache selbst”. E qui va sottolineato che, in relazione al «sapere di sé», noi abbiamo dovuto costatare presso la Walther perfino una sorta di idealismo decisamente anti-realista. La sua relativizzazione del ruolo e valore dell’Io sottrae infatti ogni valore al mondo esteriore che sia totalmente indipendente dall’essere soggettivo.
Anche questo sta ad indicare che l’idealismo religioso waltheriano è ciò che è proprio in quanto è estremamente radicale. Ed in questo senso la sua visione può e deve venire considerata come il polo diametralmente opposto dell’attuale iper-realismo della filosofia religiosa ed anche della filosofia in generale.
Questi sono dunque i tratti fondamentali della visione metafisico-religiosa sviluppata dalla Walther sulla base degli elementi offerti dalla complessiva dottrina fenomenologica. Ed è evidente ancora una volta che, in virtù di essi, la visione della nostra pensatrice si offre a noi come la possibilità di concepire oggi una filosofia religiosa del tutto diversa da quella attuale. Il che significa che allora essa molto difficilmente può essere fatta ricadere nell’ambito dell’attuale Fenomenologia religiosa.

Note.

Heinrich von Sass, “Event-Management. Vom Ereignis und seinem theologischen Horizont”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 61 (1), 2015, 79-100; Markus Kneer, “Das Verhähaltnis von Phänomenologie und Theologie neu gewendet: Der Ansatz von Emmanuel Falque“, ibd., 62 (2) 2015, 350-367; Markus Lipowicz, “Das Leben als das Unausprechliche ‒ oder : Simmel und Wittgenstein als Vordenker der Postmoderne”, ibd., 61 (1), 2015, 24-44; Martin Breul, “Religiöse Sehnsucht im zeitgenössischen Atheismus. Schnädelbach, Dworkin, Nagel und die Gottesfrage“, ibd., 62 (2) 2015, 310-335; Tamsin Jones, “Questions from the borders: a response to Kevin Hart’s Kingdom of God”, Sophia, 56 (1) 2017, 5-14; Bradley B. Onishi, “Between a Saint and a Phenomenologist: Hart’s theological criticism of Marion”, ibd., 56 (1) 2017, 15-31; J. Aaron Simmons, “Cheaper than a Corvette: the relevance of phenomenology for contemporary philosophy of religion”, ibd., 56, 2017, 33-43; B. Keith Putt, “A poetic of parable and the ‘basileic reduction’: ricoeurean reflections on Kevin Hart’s Kingdom of God”, ibd., 56, 2017, 45-58; Joshua Lupo, “The affective subject: Emmanuel Levinas and Michel Henry, on the role of affect in the constitution of subjectivity, ibd., 56, 2017, 99-114; Kevin Hart, “Concretion and concrete: a response to my critics”, ibd., 56, 2017, 69-80; Shan Mackinlay, “Hermeneutic perspective on ontology, after metaphysics has been overcome: from Levinas to Merleau-Ponty”, ibd., 56, 2107, 115-124; Mikel Burley, “Dislocating the Eschaton? Appraising realized eschatology”, ibd., 55 (3) 2016, 1-18; John D. Caputo, “The return of anti-religion: from atheism to radical theology”, J. of Cultural and Religious Theory, 11 (1) 2011, 32-124.
2 Gerda Walther, Phänomenologie der Mystik, Walter-Verlag, Freiburg im Breisgau 1955, 18 p. 202-213.
3 Angela Ales Bello, Marina Pia Pellegrino, Incontri possibili. Empatia, telepatia, comunità, mistica. Edith Stein, Gerda Walther, Castelvecchi, Roma 2014; Angela Ales Bello, Francesco Alfieri, Mobeen Shahid, Edith Stein Hedwig Conrad-Martius Gerda Walther. Fenomenologia della persona, della vita e della comunità, Giuseppe Laterza, Bari 2011;
4 Il tema è stato trattato in maniera molto specifica dagli autori prima menzionati (vedi nota 3). Vi sono poi studi che trattano più ampiamente del percorso filosofico della pensatrice [Andreas Resch & Eberhard Ave-Lallemant, Gerda Walther – Ihr Leben und Werk, Resch Verlag, Innsbruck 1983; Corinne Pouilly, “Gerda Walther”, Revue de Théologie et de Philosophie, 138 (3) 2006, 209-225; Paola Ricci Sindoni. “Mistica femminile, mistica duale percorsi filosofici nel Novecento”, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 99 (3) 2007, 441-456].
5 Angela Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio – Credere in Dio, Messaggero, Padova 2005, II, 1-5, p. 37-80.
6 Gerda Walther, “Reinkarnation und Parapsychologie“, Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte, 9 (2) 1957, 191-199.
7Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 2 p. 47-53, 9 p. 110-118.
8Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-46, 9 p. 110-118.
9Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 2 p. 47-53, 7 p. 93-99, 10 p. 119-130, 11 p. 131-134.
10Platone, Fedro, Rizzoli, Milano 2006, 244a-257b p. 177-227; Proclo, Teologia platonica, Bompiani, Milano, 2005, 17, 5-25 p. 865-873.
11 Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, I, II, I, 38, 67-69 p. 89-91, 41-43, 73-89 p. 97-105.
12 Vedi nota 3 (Ales Bello)
13 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 2 p. 47-53, 3 p. 54-62, 9 p. 110-118, 4 p. 63-77.
14Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 13 p. 142-161.
15Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl., p. 21-34, 1 p. 35-46, 3 p. 54-62, 6 p. 89-92, 9 p. 110-118, 10 p. 119-130.
16 Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 8 p. 358-360, VII, 9 p. 360-391, VIII, 3 p. 422-441.
17 E questo è estremamente singolare se si constata che oggi si tende a considerare superato il pensiero della Stein (di concerto con quello di Husserl) proprio in quanto ad esso viene attribuito il personalismo come carattere essenziale [Enrica Lisciani Petrini, “Fuori dalla persona. L’impersonale in Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze”, Daímn, Revista Internacional de Filosofía, 55 (2012), 73-88]. L’osservazione viene qui fatta in uno spirito tutt’alto che filosofico-religioso, e precisamente nel contesto di quell’ultra-moderno realismo che ormai si oppone recisamente a qualunque genere di idealizzazione soggettivista del mondo. Tenendo però presente il fatto che il superamento del personalismo si manifesta ugualmente presso la Walther, tutto ciò indica allora che forse tale sviluppo era effettivamente necessario anche perché la stessa filosofia religiosa facesse in tal modo un passo avanti. Ma in questo caso ciò non avviene in direzione di un realismo. Avviene invece in direzione di un intensissimo idealismo religioso come quello vedantico. È infatti proprio in quest’ultimo che viene con maggiore decisione postulata la necessità della morte della persona [Ananda K. Coomaraswamy, Due passi tratti dal «Paradiso» di Dante, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 18 p. 277-292; Ananda K. Coomaraswamy, Ākiṃkañña: l’annullamento di sé, in: Ananda K. Coomaraswamy, ibd., 7 p. 115-133; Ananda K. Coomaraswamy, Ātmayaiña : il sacrificio di sé, ibd. 8 p. 135-175; Ananda K. Coomaraswamy, Il Vedānta e la tradizione occidentale, ibd.1 p. 42-47].
18 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 1 p. 35-46, 10 p. 119-130, 20 p. 224-230.
19Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches…cit., VII, 2, p. 307-310; VII, 6, p. 352-356; VII, 9, 6 p. 377-385.
20 Edith Stein, Der Aufbau …cit., IV, 1-8 p. 45-56.
21 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 7 p. 93-99, 8 p. 100-109, 9 p. 110-118.
22 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., Einl. p. 21-34, 4 p. 63-77.
23 Edmund Husserl, Idee… cit., I, II, 46 p. 111-114.
24 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 3 p. 54-62, 12 p. 135–141.
25 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 1 p. 35-46.
26Edmund Husserl, Ideen…cit., II, I, I-II, 11, 25-45 p. 461-481.
27Su tale aspetto ci siamo soffermati molto intensivamente in un saggio da noi dedicato all’interpretazione sacra della Psicologia [Vincenzo Nuzzo, La Psicologia Sacra, Victrix, Forlì 2018 (in via di pubblicazione)].
28 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 2 p 47-53, 9 p. 100-118.
29 Gerda Walther, Phänomenologie… cit., 10 p. 119-130, 10 p. 119-130
30Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, III p. 77-87.
31 Non a caso, entro i fenomeni dello sviluppo psico-motorio umano, dall’indifferenziazione olistica iniziale si passa ad una differenziazione sempre maggiore che è anche sempre maggiore determinazione in facoltà specifiche e ben localizzate
32Edith Stein, Excursus sull’idealismo trascendentale, in: Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI, g p. 367-369; ibd. p. 387-389.
33Jean Daniélou, Origene. Il genio del Cristianesimo, Arkeios, Roma 1991, I, I p. 23-48, I, IV p. 121-129; Vincenzo Nuzzo, “Emanazione e continuità di essere tra Cabala e neoplatonismo”, in: Ivan Pozzoni, Mauro Murzi, in: Moderni orizzonti della scienza e della tecnica, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. V, 2017 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “Un’unitaria metafisica filosofico- religiosa entro la continuità tra neoplatonismo pagano e cristiano. Il caso di Gregorio di Nissa”, in: Andrea Muni, Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta (MB), vol. XI, 2017 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017.
34 Jean Daniélou, Origene …cit., III, I-II p. 251-294.

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