(*) Dottore di ricerca presso la FLUL di Lisbona
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Introduzione.
L’ontologia di Nicolai Hartmann non è stata cero l’unica forgiata nel XX secolo. Tra le tante altre vanno infatti certamente ricordate anche quelle della neo-scolastica tomista (tra le quali spicca quella di Maritain), quella di alcuni seguaci della Fenomenologia di Husserl, come Edith Stein ed Hedwig Conrad Martius ed infine quella del pensatore russo Nikolai Berdjaev; oltre ovviamente a quella di Heidegger, che però esce troppo fuori dagli schemi per restare nei limiti di un’autentica ontologia. Vanno poi ricordare anche le puntate in campo ontologico di pensatori esistenzialisti come Sartre, Merleau-Ponty e Gabriel Marcel. Tuttavia in questo modo abbiamo dato al lettore appena un’immagine molto approssimativa di uno scenario di pensiero estremamente composito, ricco e complesso.
Intanto, comunque, l’ontologia di Hartmann ha qualcosa di così tanto originale, da distinguersi molto nettamente da tutte le altre scienze simili concepite nel periodo in cui egli operò.
In primo luogo perché egli sottolinea con forza la radicale novità della sua concezione dell’essere, specie nei confronti della sua forma antica. E questo lo approssima senz’altro in qualche modo ad Heidegger. Ma non si tratta solo di questo perché il nostro pensatore dà alla sua ontologia un’impronta fortemente realista − che però sfugge decisamente al classico realismo filosofico (specie in quanto visione unilaterale diametralmente opposta all’idealismo) – esteriorista ed immanentista. E quest’ultima impronta si caratterizza per una quasi totale equiparazione dell’essere (colto dal pensatore in quanto “Essente come Essente”, o “Essente come tale”, “Seiende als solche”) con il mondo reale, e quindi con la realtà tanto esperibile quanto indubitabile.
Questa equiparazione si spinge fino al punto di considerare la filosofia dell’essere come una disciplina che si trova in perfetta sintonia con la scienza naturale, ossia si occupa di fatto degli stessi suoi oggetti e fenomeni. Tuttavia Hartmann non identifica affatto totalmente la filosofia dell’essere con la scienza naturale, dato che egli è intanto costantemente alla ricerca dei fondamenti ontologici ultimi delle cose e dei fenomeni (ossia le categorie dell’essere) sulla base dei quali si sviluppa la conoscenza scientifica senza però nemmeno avere consapevolezza di essi.
In ogni caso, però, il nostro rientra tra i pensatori del XX secolo secondo i quali la filosofia deve rinunciare definitivamente all’ambizione di sviluppare una conoscenza in contrasto con i risultati della ricerca scientifica che si sono andati accumulando a partire dalla Filosofia della Natura rinascimentale, passando poi per l’Illuminismo ed il Positivismo. Non a caso egli non si sogna nemmeno di porre in discussione teorie scientifico-naturalistiche come ad esempio l’evoluzione darwiniana. Tale approccio si lascia avvertire soprattutto in una delle due sue opere che abbiamo analizzato, e cioè “Neue Wege der Ontologie” (NWO) [Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968]. In particolare in questa ricerca il pensatore di dedica al chiarimento di quelle che sono le autentiche e davvero reali categorie dell’essere, abolendo in tal modo la gran parte dei fantasiosi e astratti relativi concetti ontologici che si ritrovano nell’antica ontologia. E proprio in questo modo egli ci mostra che le categorie dell’essere corrispondono puntualmente agli oggetti studiati dalla scienza empirica, sebbene debbano venire filtrati da una riflessione filosofica che non perde mai di vista i concetti di Essere e di Essente. In ogni caso l’intera indagine ci mostra quale sia la struttura del mondo nei suoi vari strati, a partire da quello meramente fisico-materiale (inanimato) fino a quello animico-psichico e spirituale-mentale. Ed in particolare nessuno di essi manca del carattere di realtà che anche per la scienza empirica è assolutamente imprescindibile.
Ne risulta quindi che in tal modo l’ontologia viene purificata da tutti i concetti dell’antica metafisica che forgiavano entità assolutamente irreali. E già qui, pertanto, si ritrova l’affermazione secondo la quale l’ontologia abbraccia senza alcuna contraddizione tanto l’essere reale (esistenza) quanto l’essere ideale (essenza). Entrambe le sfere dell’essere corrispondono infatti ad entità dotate di un’effettiva onticità, e quindi corrispondenti a realtà oggettuali esperibili e conoscibili tanto in modo filosofico quanto in modo scientifico. In particolare, comunque, la definizione dell’Essere che qui viene fornita si differenzia radicalmente da quella tradizionale per la rinuncia a qualunque forma di unità ottenuta per assimilazione di ogni cosa ad una sola ed esclusiva sfera o principio di essere (quella reale o quella ideale). Caratteristica portante dell’Essere è dunque un’unità che risulta unicamente dalla molteplicità. La sua struttura è dunque a strati. E questo contraddice in modo davvero radicale qualunque forma di ontologia che sia stata concepita nell’antichità (con l’inclusione della Scolastica cristiana), continuando poi a manifestarsi nel tempo anche molto oltre fino alle soglie della modernità, ossia almeno fino all’Illuminismo. E ciò coinvolge ovviamente anche ontologie moderne costruite su quella antica come quella di Maritain, Stein e Conrad-Martius. Inevitabilmente ciò induce Hartmann a riferirsi continuamente alla rivoluzione kantiana del pensiero filosofico, e quindi alla sua de-metafisicizzazione. Questo non significa però che il nostro pensatore sia un neo-kantiano, dato che in più sedi egli si esprime in maniera molto critica verso questa scuola filosofica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941, Einleitung, 1 p. 1-2, 3 p. 3-5, 10-11 p. 14-19, III, I, 25b p. 169-170, IV, II, 42a p. 267-268]. Tutto ciò è quanto si può dire sinteticamente di questa ricerca di Hartmann, della quale nel presente articolo parleremo però solo marginalmente. Di essa abbiamo però parlato più diffusamente in un altro articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’ontologia anti-quantistica di Wolfgang Smith e l’ontologia realista di Nicolai Hartmann”, in: http://cieloeterra/wordpress.com/2023(10/27/vincenzo-nuzzo-l’ontologia-amti-quantistica-di-wolfgang-smith-e-lontologia-realista-di-nicolai-hartmann ] dedicato alla critica della riforma ontologica della scienza empirica che è stata recentemente tentata da Wolfgang Smith [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023]. Ma Smith aveva tentato di ricostruire la conoscenza anche in un’altra sua precedente opera dedicata alle novità gnoseologiche secondo lui apportate dalla nuova Fisica sub-particellare e quantistica [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001].
Nell’altra opera di Hartmann appena menzionata, invece – “Zur Grundlegung der Ontologie” (ZGO) −, si può toccare con mano il nucleo più profondo del suo progetto di riforma dell’ontologia, che ancora una volta ripropone in grandi linee l’unità nella molteplicità dell’Essere attraverso l’evidenziazione della pari onticità dell’essere reale e dell’essere ideale. Quest’opera però contiene un’analisi estremamente dettagliata, sistematica, vasta, ricca e complessa di tutte le strutture dell’Essere; fino al punto da poter venire considerata quasi enciclopedica. E proprio per questo essa è estremamente interessante per qualunque cultore di filosofia, allo scopo di potersi rendere conto di quale sia la forma assunta modernamente dall’ontologia. In questo senso si tratta di un’analisi ancora oggi molto attuale e soprattutto istruttiva. In ogni caso questo libro rappresenta una vera e propria rivoluzionaria rivelazione per tutti i filosofi, ma soprattutto per chi (come noi) si è sempre occupato intensamente dell’antica ontologia. Una rivelazione della quale però ci sembra imprescindibile prendere atto, dato che (piaccia o meno) oggi la scienza dell’essere ha assunto una forma molto diversa da quella che ha avuto nel passato. Dunque oggi l’ontologia è questa e non più quella antica.
Comunque, a causa dell’estrema ricchezza e complessità di quest’opera, sebbene nella nostra ricerca ci riferiremo soprattutto ad essa – e quindi andremo anche esponendo man mano i suoi concetti portanti −, ci sembra impossibile farne una sorta di completa recensione. E quindi ci occuperemo soprattutto di uno degli aspetti specifici che in essa emerge, e cioè quanto nel titolo abbiamo definito come “ricostruzione della conoscenza”. Tale aspetto costituisce però anche uno di quelli più centrali dell’intera visione del pensatore, dato che esso sta in intima correlazione con l’accento da lui posto sul concetto di ”Essente” (“Seiende”) quale punto di riferimento assolutamente obbligatorio di quella sua revisione dell’ontologia che porta con sé inevitabilmente anche una radicale riforma della concezione della conoscenza. L’idea portante rispetto a questo è duplice: − 1) l’Essente è la Totalità che abbraccia in sé tutte le sfere dell’Essere ed oggettualità delle quali si deve prendere atto in ontologia (esso corrisponde infatti alla piena onticità tanto dell’essere reale che dell’essere ideale); 2) la conoscenza è in primo luogo “relazione di essere” tra soggetto cosciente ed oggetto, e quindi sussiste per davvero solo quando il primo (uscendo totalmente da sé stesso) intercetta realmente un effettivo Essente. E questo esautora decisamente l’intera teoria della conoscenza che è stata poi il nucleo della filosofia moderna a partire dall’Idealismo del XIX secolo (con le sue premesse già nel dualismo cartesiano separante nettamente “res cogitans” e “res extensa”) spingendosi poi fino alla Fenomenologia ed al neo-kantismo. Infatti, sulla base di quanto sostiene Hartmann, non è data conoscenza che non sia una schietta presa d’atto dell’oggetto del mondo reale (da intendere quale Essente) e che quindi non comporti da parte del soggetto il “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggettualità mondana, esteriore e indipendente nella sua totalità. Inevitabilmente questa concezione della conoscenza mette completamente fuori gioco tutte le varie forme della paradossale ritorsione dell’atto conoscitivo su sé stesso mediante uno sguardo rivolto verso l’interno (verso l’oggetto di coscienza) invece che verso l’esterno. E ciò è quanto Hartmann critica aspramente come “riflessività” della conoscenza. Ma proprio l’accento posto su quest’ultima ha fatto sì che la moderna teoria filosofica della conoscenza finisse per sconfinare in un vero e proprio scetticismo che è stato concepito come «problematicità della conoscenza», e quindi sua sostanziale e naturale incertezza ed inefficienza. Il che è avvenuto sulla base dell’idea secondo la quale sarebbe un autentico mistero il rapporto che in essa si viene a stabilire tra l’interiore soggettuale e l’esteriore oggettuale, ossia due sfere dell’essere che la filosofia moderna ha considerato da Cartesio in poi totalmente ed inconciliabilmente separate tra loro. E a questo punto l’auto-riflessivi accurato esame puramente interiore restava l’unico modo per garantire una conoscenza veridica
Con l’abolizione di tutti questi artificiosi apparati teoretico-conoscitivi si compie quindi in Hartmann una vera e propria ricostruzione della conoscenza in quanto pienamente possibile ed efficace già nella sua forma naturale ed ingenua. Ma questo è stato anche quanto è stato sostenuto da Smith. E quindi questo nostro articolo sta in relazione con quello precedente dedicato alle riflessioni di da questo pensatore.
In ogni caso ci sembra comunque che proprio in questo modo Hartmann abbia assunto, con la sua ontologia, una posizione davvero unica nello scenario della moderna filosofia. Egli ha infatti spazzato via quei dogmi non poco astrusi (in particolare quello della “riflessività”) che avevano portato la filosofia a deragliare da quel suo usuale percorso entro il quale sempre la scienza dell’essere era rimasta al suo centro. E questo fu del resto quanto sostiene anche Berdjaev [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018, V p. 172-185; Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951, I, 2 p. 39-48, II, 1 p. 66-70]. Non a caso entrambi i filosofi si sono dedicati ad una critica di quell’atto di ”oggettivazione” (da parte della coscienza) per mezzo del quale la gran parte del pensiero moderno ha spostato l’attenzione dall’esistenza dell’oggetto alla sua sola conoscenza. Insomma, nel contesto di questo scenario filosofico a dir poco paradossale, si sentiva fortemente la necessità di un ritorno a quell’ontologia che ormai da molto tempo (già da Cartesio in poi) era letteralmente svanita dal pensiero. E certamente la ricostruzione moderna di questa scienza offre vantaggi estremamente rilevanti rispetto alla semplice ripresa dell’ontologia antica. Infatti, se vogliamo restare entro i limiti di una filosofia ortodossa (e quindi di una storia della filosofia praticamente condivisa da tutti i pensatori moderni senza eccezioni), bisogna tener conto del fatto che la riforma kantiana aveva per sempre sbarrato la strada a qualunque visione che in qualche modo assomigliasse all’ontologia antica. Pertanto la ripresa di quest’ultima offre fatalmente il fianco alla critica distruttiva da parte dell’intera filosofia moderna avendo quindi pochissime speranze di sopravvivere. Non per nulla i progetti filosofici di pensatori come Maritain, Stein e Conrad-Martius sono tramontati per sempre con la scomparsa dei loro protagonisti. E questo proprio perché la loro ontologia, riesumata dal passato, non aveva affatto forze sufficienti per controbattere la più diffusa e condivisa presa di posizione filosofica moderna. Non così appare essere invece per la moderna e rivoluzionaria ontologia di Hartmann. La quale non solo si distingue per una geniale originalità, ma inoltre mostra anche di avere forze sufficienti non solo per resistere alla critica bensì anche per esercitare una solida contro-critica, e precisamente una contro-critica talmente intensa da giungere ad essere demolitoria. Alla luce del suo pensiero infatti quei concetti dogmatici della filosofia moderna, che all’uomo comune (ed anche al filosofo poco disposto al conformismo) appaiono giustamente astrusi, assurdi e perfino ridicoli, si sono rivelati finalmente estremamente poco consistenti, ingiustificati e soprattutto per nulla oggettivi e necessariamente condivisibili.
Al proposito di questo tema della conoscenza, da noi estratto dal contesto di ZGO, bisogna comunque aggiungere che esso fu talmente importante per il pensatore che egli dedicò ad esso una brevissima opera specifica dal titolo “Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7]. Qui Hartmann sostiene soprattutto che è stato Kant a porre per primo in evidenza l’intima ed ineluttabile relazione esistente tra le categorie della conoscenza e le categorie dell’essere. Ed in questo consisté in fondo soprattutto la sua riduzione trascendentale. Poi però sono stati sottolineati solo altri aspetti della sua “Critica alla Ragion pura”, e così il suo pensiero è stato completamente distorto per poi venire addirittura dimenticato. Come conseguenza quindi l’oggetto è stato completamente eroso e dissolto dal primato attribuito alla rappresentazione (“Vostellung”), con la totale soppressione dell’evidenza secondo la quale l’oggetto sussiste in maniera totalmente indipendente dalla coscienza, e precisamente non solo come spaziale-materiale ma anche come animico e spirituale (ossia come Totalità). E così la teoria critica della conoscenza ha fatto sì che risultasse impossibile all’uomo conoscente anche solo approssimarsi ai veri oggetti, ossia all’Essente. Pertanto nel complesso gli errori della moderna filosofia teoretico-conoscitiva sono stati due: − 1) il ritenere come conoscenza veridica unicamente quella mentale; 2) la totale perdita di vista dell’oggetto reale in quanto indipendente dalla coscienza, ossia l’autentico oggetto reale. Dunque, con questa premessa, filosofia e scienza hanno poi seguito strade completamente erronee.
Esporremo nelle conclusioni che comunque proviamo, in quanto pensatore tradizionalista, contro questa del tutto nuova ontologia. E tuttavia va intanto ammessa che la ricerca di Hartmann si presenta non solo come genialmente originale ma anche come estremamente meritoria. Essa ha infatti tentato di riportare la filosofia sulla retta via. Non a caso nell’introduzione a ZGO [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 2 è. 23-] egli denuncia lo stato di stanchezza della filosofia moderna che ha causato l’abbandono della trattazione delle grandi questioni (la principale delle quali è ovviamente quella dell’essere) ed inoltre ha causato il consolidarsi di un relativismo secondo il quale non esiste alcuna verità oggettiva. Inoltre denuncia anche che la filosofia ha smesso di riconoscere il mistero nel quale sconfinano molte realtà dell’essere (e quindi del mondo) dando così vita a problemi del tutto naturalmente insolubili per qualunque forma di conoscenza.
Questo concetto viene comunque da lui sottolineato più volte anche in NWO [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IV p. 27-35]. Dunque non a caso, sebbene anche la visione di Hartmann sia tramontata sotto l’urto del pensiero sviluppatosi dal dopoguerra in poi, comunque se ne avvertono ancora oggi gli echi (di sapore appunto ontologico) in alcune forme di realismo filosofico (come quelle di Sellars) [Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2013, I, 2-6 p. 53-147, I, II, 2 p. 164-185, II, III, 1 p. 266-283, II, III, 2-3 p. 283-309, II, III, 4 p. 315-333; Diego Marconi e Gianni Vattimo, Nota introduttiva, ibd., p. V-XXXIV Miguel Pérez de Laborda, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, p. 137-152] che sono succedute recentemente alla grande ubriacatura razionalista costituita dalla Filosofia analitica unita a quella logico-matematica, della mente e del linguaggio.
Detto questo passeremo all’analisi di alcune parti di ZGO nelle quali è possibile prendere atto più direttamente della riforma della conoscenza in quanto uno dei prodotti principali dell’ontologia di Hartmann.
1. I tratti fondamentali del concetto di Essente. Il “realismo naturale” di Hartmann.
La migliore, più chiara, più semplice, più completa e sintetica definizione dell’Essente ci viene offerta da Hartmann laddove egli ci indica in esso null’alto che «ciò che è» [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 5a p. 57-59]. Ma ciò significa due altre cose fondamentali: − 1) esso non è altro che il mondo reale così com’è, ovvero tutto quanto «c’è» nel mondo e come tale può venire esperito e conosciuto esattamente com’è al di fuori di ogni dubbio ed incertezza; 2) esso è molto più della mera cosa, ossia l’oggettualità esteriore indipendente dalla coscienza e dalla conoscenza; semmai è ciò che sta al fondo di queste realtà. Proprio per questo esso è un “ultimo” e pertanto è una realtà ontica sicuramente di natura metafisica (tale è per la precisione l’”Essente come Essente”); infatti in definitiva esso è concettualmente inafferrabile sebbene possa venire indubitabilmente conosciuto, e precisamente in tutta la sua esteriorità mondana e assolutamente reale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3ab p. 46-48]. Pertanto, nel conoscerlo, non dobbiamo fare altro che constatare dove esse “è dato”, e quindi constatare la realtà mondana nella sua assoluta immediatezza e nel suo assoluto essere incondizionata. In qualche modo esso è dunque la “datità” per eccellenza, sebbene (come poi vedremo) questo concetto sia stato fortemente condizionato dalla filosofia riflessiva.
Per tutti questi motivi, esso, in quanto “Essente come essente”, è la Totalità stessa dell’Essere in quanto composta da parti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, II, 7d p. 69-71].; e quindi è caratterizzato da quella unità nella molteplicità (corrispondente ad una struttura a strati) della quale abbiamo già parlato sulla base di NWO. Inoltre è il reale stesso in quanto opposto del possibile, e quindi (nonostante la sua così metafisica ultimità) coincide con il mondo reale stesso [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 8ab p. 72-74]. Ciononostante − come da Hartman dimostrato nel successivo corso del libro, entro un’analisi estremamente minuziosa di tutto ciò che è “essenza”, ossia “l’essere così” (“Sosein” connesso al “esser-ci” o “Dasein”), l’essere ideale, e le “essenzità” (“Wesenheiten”), cioè le essenze dotate di onticità – per lui anche la possibilità è comunque dotata di realtà, in quanto è inscindibilmente connessa a quest’ultima quale “natura” (“Beschaffenheit”) o qualità delle oggettualità. La possibilità pertanto rientra pienamente nel regno di «ciò che è» (realmente), invece di rappresentarne la premessa trascendente ed astratta. Per questo egli critica la definizione di realtà come “Wirklichkeit” in quanto per lui essa tende ad escludere il possibile dal reale, negando così ad esso ogni onticità.
Per tutti questi motivi per Hartmann l’ontologia è scienza dell’“Essente come essente” e non invece scienza della mera ed immediata oggettualità cosale, ossia la cosiddetta “cosalità”, “Dinglichkheit” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 4ab p. 51-54]. In questo senso essa è scientifica. Ma nello stesso tempo corrisponde anche ad una conoscenza naturale e del tutto ovvia delle realtà, che è quella dell’uomo comune in quanto immerso nel mondo. La sua natura scientifica si esprime comunque soprattutto nella rigorosissima ricerca delle molteplici categorie che costituiscono l’essere e precisamente l’essere reale del mondo [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I 3a p. 46-47].
Ma comunque è qui più che mai evidente la distanza enorme che vi è tra la nuova ontologia di Hartmann e quella antica. Non vi è qui infatti alcuna traccia dell’intendimento dell’Essere come concetto, ossia dell’«Essere in quanto tale» di Aristotele. Questo perché, in questo suo intendimento, l’Essere diviene quanto mai inafferrabile e pertanto non si presta in alcun modo a rappresentare la realtà mondana, anzi è qualcosa di unicamente astratto e puramente speculativo. Al contrario Hartmann ha l’ambizione di lasciarlo delineare solo e soltanto attraverso la definizione delle molteplici categorie che lo compongono [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1b p. 40-41].
Ma queste categorie stesse devono essere assolutamente reali, e quindi non devono corrispondere ad alcun oggetto che sia frutto di una speculazione astratta. Ed ecco quindi che questa nuova ontologia viene espunta di tutti i concetti astratti (e senz’altro metafisici) dell’antica ontologia, come – indipendenza, unità, determinato, indeterminato, sostanza, forma etc. [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 5bd p. 59-63]. In conclusione Hartmann si rifiuta decisamente di accettare un’ontologia (come quella antica) che sia incentrata nella posizione dell’essere come concetto.
Una volta posto tutto questo appare evidente che il realismo di Hartmann non corrisponde affatto a quello tradizionale, che si identifica totalmente con l’affermazione della primarietà di un mondo esteriore meramente oggettuale-cosale concepito nella sua immediata indipendenza dalla coscienza, ossia con il mondo delle cose (che si è sempre teso ad intendere come «mondo fuori di noi»). Abbiamo visto infatti che l’Essente è per il nostro pensatore molto più che una mera cosa. Semmai è invece (entro certi limiti) una datità, che rappresenta qualcosa di metafisicamente molto più complesso e profondo della mera cosa. Del resto egli stesso afferma che la sua visione supera non solo la presa di posizione idealistica ma anche quella realistica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, I, 1ab p. 39-40, I, I, 4b p. 52-54]. Entrambe le prese di posizione sono infatti appena visioni filosofiche del mondo, e come tali unilaterali, ossia tendenti a riportare l’essere da un unico e solo principio (ideale o reale). Invece il “realismo naturale” al quale egli punta aspira ad un coglimento affatto unilaterale della realtà immediata del mondo (certamente comunque colta nella sua totale esteriorità alla coscienza) che accomuna la conoscenza scientifica con quella naturale ed ingenua dell’uomo comune. Questa conoscenza considera comunque del tutto ovvia la constatazione della realtà del mondo, e pertanto, almeno in questo senso, si pone (almeno in parte) al di fuori della filosofia.
In ogni caso con essa viene spazzata via qualunque problematicità della conoscenza.
A tutto ciò va aggiunto che, come poi vedremo, uno dei caratteri essenziali dell’Essente è quello di costituire un «in sè», ossia un’”essente in sé” (“Ansichseiende”), ma ciononostante (diversamente da quanto statuito da Kant) resta comunque conoscibile.
2. L’atto conoscitivo e l’Essente. La critica demolitoria ad ogni teoria della conoscenza.
La ricostruzione della pienezza ed efficacia dell’atto conoscitivo si basa in Hartmann soprattutto sulla critica ad una delle principali prese di posizione filosofiche che hanno fatto della filosofia stessa unicamente una teoria della conoscenza, e cioè la “riflessività” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 9e p. 77-83]. In particolare egli obietta a questa presa di posizione che: − 1) essa confonde i limiti della conoscenza (conoscibilità) con i limiti dell’essere (per cui l’Essente per lui sussiste ben oltre i limiti del conoscibile); 2) essa ignora che l’Essente include anche il soggetto stesso e la relazione di conoscenza che esso mantiene con l’oggetto. Naturalmente questa critica va di pari passo con la severa critica al concetto di “intenzione” quale nucleo di un atto conoscitivo ritorto su sé stesso, e cioè non diretto verso l’esteriore (come entro la conoscenza intesa quale “relazione di essere”) ma invece verso l’interiore, ossia verso i contenuti di coscienza; i quali poi non sono altro che puri atti mentali (rappresentazione, pensiero, fantasia) totalmente disconnessi dalla realtà [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., I, III, 10a p. 83-84]. Ne consegue che l’oggetto intenzionale non ha assolutamente nulla a che fare con l’oggetto reale; invece di esserne la purificazione ed unificazione entro la coscienza. L’appello ad esso, quindi, non mette affatto al sicuro la conoscenza, ma semmai la demolisce; come del resto testimoniato dall’intendimento dell’oggettualità come “Gegenstand”, ossia ciò che esiste solo perché sta «davanti» alla coscienza conoscente [[Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung 11 p. 16-19, I, I, 4b p. 52-54, II, III, 9 p. 77-83, II, III, 10b p. 84-85, II, I, 12c p. 96-97, II, III, 20c p. 144-146, II, I, 12c p. 96-97, III, I, 22ab p. 151-153, IV, II, 42d p. 271-273]. In questo consiste quindi anche la critica di Hartmann all’”oggettivazione” quale tentativo di rendere intelligibile la realtà mediante la mera esteriorizzazione di un contenuto concettuale della coscienza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 18c p. 130-133, III, I, 22a p. 151-152, III, I, 22c p. 159-160, III, I, 25b p. 167-170, IV, III, 47a p. 293-294]. Un’operazione questa che mai potrebbe essere capace di cogliere la realtà del vero Essente, che appartiene invece totalmente al mondo e nulla ha a che fare con i prodotti della coscienza, ossia i meri contenuti mentali.
In ogni caso per approssimarci alla definizione di conoscenza proposta dal nostro pensatore dobbiamo di nuovo riprendere alcuni aspetti della sua analisi dell’Essente (e quindi indirettamente anche dell’Essere).
Prima di tutto appare evidente che la sua critica alla teoria della conoscenza è ben più ontologica che non gnoseologica. E qui ci troviamo di fronte ad una delle principali tesi ontologiche di Hartmann (alla quale abbiamo già accennato) – l’essere ideale possiede esattamente la stessa onticità dell’essere reale. Pertanto le “essenzità” (“Wesenheiten”) non sono affatto prive di realtà, ed inoltre l’essenza (meglio intesa come “Sosein”) non è affatto separata dall’esistenza (meglio intesa come “Dasein”) [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 11c p. 91-92, II, I p. 94-101]. Pertanto nel complesso questo intero essere ideale fa pienamente parte della realtà. Il pensatore accusa Platone di avere per primo sottratto l’onticità alle “Wesenheiten”. Ma su questo non siamo affatto d’accorso dato che il Prof. Reale ha mostrato chiaramente che, per il pensatore ateniese, uno dei caratteri dell’idea fu un Platone proprio la sua paradigmatica ed assoluta realtà, sebbene di natura radicalmente trascendente [Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano , II, VI,III-IV p. 172-186, II, VI, VI p. 190-197, II, VII, I p. 214-221, III, XI, II p. 323-336, III, XI, III p. 336-344, IV, XVII, I p. 544-548, IV, XVI, II p. 501-511]. E noi abbiamo sottolineato questo concetto nel nostro saggio su Platone, entro il quale abbiamo sostenuto che per lui l’idea non era null’altro che la più reale delle cose [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017]. In ogni caso Hartmann attribuisce a pensatori come Kant e Scheler la radicale divisione istituita tra “Sosein” e “Dasein”, con la conseguenza di scindere in questo modo uno dei caratteri fondamentali dell’essere reale, ossia l’unità omnicomprensiva dell’Essente (del quale i due menzionati elementi non sono parti separate ma invece appena aspetti diversi). E qui possiamo riconoscere nuovamente la natura del suo realismo, che non coincide affatto con il solo “Dasein” in quanto solo ed autentico «atto di esistere» e quindi costituente quello che il realismo tradizionale concepisce come «mondo fuori di noi». Così questo intendimento del realismo non può in alcun modo essere appropriato, dato che esso è unilaterale, cioè esclude totalmente l’essere ideale (“Sosein”), il quale invece per Hartmann è intimamente unito all’essere reale (“Dasein”) entro la Totalità rappresentata dall’Essente. Un autentico realismo quindi si deve incentrare nell’Essente e non nel solo “Dasein”. Ed è ovvio pertanto che in questo l’ontologia di Hartmann differisce radicalmente da quella di Heidegger.
Ma soprattutto questa presa di posizione distingue l’ontologia del nostro pensatore da quella antica, entro la quale veniva secondo lui concepita l’alternativa ineluttabile (entro l’essere) tra il possibile ed il reale, in modo tale che una cosa debba essere necessariamente o l’uno o l’altro [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15-16 p. 110-118]. E ciò corrisponde per lui all’”argomento modale” di Aristotele, secondo il quale vi sono solo modalità opposte dell’essere, in luogo della loro contemporanea presenza entro l’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 16b p. 116-117]. Invece per Hartmann i “modi dell’essere” esistono senz’altro (come essere ideale, o “Sosein”, ed essere reale, o “Dasein”), ma intanto si ritrovano nella realtà mondana sempre intimamente uniti tra loro. E questo porta pensatore ad assumere (almeno qui) una posizione nettamente avversa alla tradizionale metafisica, dato che per lui non esistono affatto due sfere dell’essere separate tra loro, ossia quella trascendente (ideale e sprovvista di onticità ossia di realtà) e quella immanente (reale e quindi provvista di onticità ossia di realtà). Il mondo invece (e quindi anche l’essere) è nella sua totalità unicamente reale. Questa sua presa di posizione fa dunque sì che la sua ontologia diverga questa volta in modo inaccettabile (almeno agli occhi del pensatore tradizionalistae) da quella antica, nel senso che essa di fatto sacrifica totalmente la trascendenza dell’essere alla sua realtà unicamente immanente. E pertanto almeno in questo il suo realismo appare inaccettabile per il pensatore tradizionalista.
In ogni caso un aspetto estremamente specifico della sua riflessione al proposito è quella circa la definibilità dell’Esssente, che poi è un caposaldo della moderna teoria della conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, I, 13c p. 104-105]. Egli nega infatti che l’Essente possa e debba essere completamente definibile (per mezzo del “Sosein”), tenuto conto che la definizione di qualcosa riguarda in verità unicamente il “Sosein” stesso, lasciando così fuori il “Dasein”. E questo è un altro argomento contro la teoria della conoscenza, dato che essa è incentrata sulla necessità di definizione dell’oggetto in modo che esso possa venire sottratto (in obbedienza ai dettami kantiani) all’inconoscibilità ed illusorietà del puro e nudo “Dasein”, ossia di fatto l’”in sé”.
Grazie invece alla perfetta convergenza (entro l’essere reale) di “Sosein” e “Dasein”, l’«è» ontologico (esistenza) diviene totalmente sovrapponibile all’«è» gnoseologico, ossia quello predicativo (rappresentato dal “Sosein”). Tra essi insomma non vi è né distanza né contraddizione, ma semmai invece sovrapponibilità. E così di fatto «ciò che è» (ossia l’Essente) risulta conoscibile senza alcuna difficoltà nonostante il fatto che esso sia sostanzialmente un “in sé”, ossia qualcosa che da solo non è conoscibile ma lo è solo grazie al concorso del “Sosein”.
Oltre a ciò egli sottolinea che l’insieme inestricabile dei “modi dell’essere” (“Sosein” e “Dasein”) abbraccia l’intero essere iin quanto fatto di essere ideale ed essere reale, e quindi ci restituiscono la totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 15a p. 110-112].
In relazione a tutto ciò egli sente il bisogno di sottomettere ad una radicale critica l’aspirazione della Fenomenologia a ricavare l’essere reale per mezzo del metodo della «messa tra parentesi» o epoché [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, II, 17f p. 126-128]. Questa aspirazione (della quale senz’alto Husserl è stato protagonista) è secondo lui vittima di una fatale illusione, e cioè quella per cui la messa tra parentesi riguardi per davvero la cosa reale e non invece appena il “fenomeno”. Ne risulta allora che la Fenomenologia crede addirittura di ricostruire in tal modo l’ontologia, ma in verità resta invece lontanissima da essa. Successivamente poi – sulla base di una riflessione estremamente complessa (occupante l’intero capitolo 18), entro la quale Hartmann rigetta la natura meramente inerente del “Sosein” (secondo Aristotele), e quindi differenzia tale elemento dal “Dasein” solo per il fatto che quest’ultimo è “a portata di mano”, o “vorhanden” (ma senza che l’unità ed assimilabilità dei due elementi venga intanto negata) – Hartmann giunge ad una delle più chiare definizioni della sua ontologia incentrata nell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 19a p. 133-134]. Egli sostiene infatti che ogni “Sosein” di qualcosa (“etwas”) “è” sempre anche “Dasein” di qualcosa, e viceversa (il “Dasein” è sempre anche “Sosein”). Solo che questo qualcosa non è “uno e lo stesso “ (“ein und das selbe”). E così l’insieme di “Sosein” e “Dasein” si approssima alla Totalità del mondo in quanto identità. Questa è dunque la costituzione effettiva dell’Essente che supera la concezione scolastica secondo la quale l’esistenza è anche essenza mentre l’essenza è anche essenza (perché in questo caso ciascuno dei due termini veniva di fatto isolato nella propria sfera dell’essere).
Da tutto ciò scaturisce comunque una riflessione che ci fa ben comprendere come vada intesa la nuova ontologia [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., II, III, 20bc p. 141-144]. Essa è caratterizzata soprattutto dal fatto che la determinazione è reale per definizione (è esistenza o “Dasein”) e quindi non è affatto deducibile da un mondo trascendente di “Wesenheiten” puramente ideali. Inoltre essa non può risolversi nel concetto di sostanza, corrispondente ad una realtà del tutto inconsistente rispetto a quella fatta di “natura” (“Beschaffenheit”) delle cose, e quindi anche dal loro mutamento e dalle relazioni che esistono tra esse. Infine non può più venire sostenuto il sussistere di un intreccio tra mondo dell’essenza e mondo dell’esistenza se essi restano intanto sovrapposti l’uno rispetto all’altro (in quanto l’uno trascendente e l’altro immanente). L’aspetto principale della nuova ontologia appare quindi essere nuovamente la totale non separazione tra “Sosein” e “Dasein”, i quali non rappresentano più affatto un essere differente nella loro rispettiva essenza (“Wesenverschiedenheit”), cioè essere ideale ed essere reale. Essi invece sono sempre presenti insieme in ogni cosa del mondo, così che non vi sono affatto mondi (o sfere) dell’essere separati tra loro. Mentre essi sono intanto appena concepibili come “modi dell’essere” (“Seinsweisen”) diversi tra loro in maniera solo relativa (l’uno inerente al “Dasein”, ovvero il “Sosein”, e l’altro rappresentato dal “Dasein” stesso). Essi sono dunque null’altro che membri dell’essere legati tra loro entro un unico Essente. Che è poi null’altro che la cosa reale nella sua pienezza ontica e anche metafisica.
Una volta chiarito tutto questo possiamo approssimarci maggiormente alla definizione della conoscenza secondo Hartmann. E qui, entro la sua esposizione, non a caso inizia a delinearsi chiaramente la natura di “in sé” dell’Essente (“essere in sé”, o “Ansichsein”). In questo discorso si parte dal suo ribadire che l’Essente è sostanzialmente “ciò che è” e nient’altro, e quindi costituisce un’oggettualità ontologica, ed affatto invece gnoseologica [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 22 p. 151-156]. Ma in filosofia è possibile riconoscere questo solo dopo aver spazzato via la necessità di un atto riflessivo per potere cogliere l’oggetto in quanto “Gegenstand”, e cioè di fatto appena un concetto obiettivato. Quest’ultimo è infatti unicamente un oggetto di conoscenza e rende quindi tale anche qualunque Essente si concepisca.
Il vero oggetto ontologico è dunque quello che sussiste “in sé” e non invece “per noi” (come accade per il “Gegenstand”). E proprio per questo esso coincide unicamente con l’Essente in quanto “ciò che è”. Ecco allora che nuovamente l’ontologia ci appare non appena come campo dei meri oggetti reali indipendenti posti fuori della coscienza (il «mondo fuori di noi» del realismo tradizionale), ma è invece ciò abbraccia tutto l’essere esteriore e l’essere interiore in quanto consiste in tutto ciò che “è”.
A tale proposito tuttavia il concetto di “datità” si rivela costituire un problema, in quanto esso è strettamente connesso con l’intendimento dell’oggetto come gnoseologico e non ontologico, e quindi come oggetto di conoscenza [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23 p. 156-162]. L’Essente infatti in verità è per Hartmann appena «tutto ciò che è», e quindi è qualcosa di totalmente indipendentemente dalla coscienza. Mentre l’oggetto quale datità dipende in una certa misura da quest’ultima. Quindi, secondo lui, l’Essente non è né cosa, nè fenomeno, né “Gegenstand”, nè apparenza (o apparizione). E pertanto non coincide né con la sola esteriorità mondana (indipendente dalla coscienza) né dalle forme di oggettualità che la coscienza genera. Pertanto l’ontologia è quanto trascende tanto l’esteriorità mondana (concepita quale unica realtà dal tradizionale realismo) quanto l’interiorità.
Naturalmente tutto ciò comporta nuovamente la severa critica di Hartmann al concetto husserliano di “intenzione” [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., III, I, 23d p. 160-162] in quanto questo atto è appunto produttivo dell’essere e quindi onto-generativo. Ed ecco che allora, proprio con tale opposizione, si delinea finalmente l’atto di conoscenza. Essa infatti costituisce per il nostro pensatore un atto trascendente e quindi è capace di cogliere davvero l’«è» cioè l’Essente in quanto con esso il soggetto supera i limiti della coscienza. Pertanto, diversamente da quanto avviene nell’intenzione, l’atto non resta entro i limiti dei puri atti mentali senza mai poter intercettare l’essere. L’atto di conoscenza così inteso è pertanto un vero “coglimento” (“Erfassen”) dell’oggetto in quanto Essente, ed infatti non è attivo-produttivo ma è invece ricettivo (quindi è connesso alla percezione ossia alla passività del soggetto). In tal modo la conoscenza resta sì un atto di coscienza ma in un modo radicalmente diverso, ossia tende ad uscire dai suoi limiti per incontrare un essere alieno che esiste del tutto indipendentemente da essa. Ebbene questa è la conoscenza com’è stata sempre intesa in tutta la sua ovvietà prima di venire completamente sovvertita dalle astruse teorie filosofiche moderne. E quindi è la conoscenza come può e deve venire intesa da tutti noi – dal filosofo, dallo scienziato e dall’uomo comune. Essa è dunque una piena conoscenza naturale. E come tale non può essere considerata altro che indubitabilmente efficace. Insomma nessuna teoria scettica può toccarne l’integrità.
Tuttavia Hartmann sottolinea anche la primarietà della conoscenza naturale rispetto a quella scientifica, e ciò in forza della sua dimensione vitale ed esistenziale [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II, 42 p. 267-273]. Infatti innanzitutto la conoscenza naturale della realtà è un pieno coglimento dell’Essente in quanto non è condizionato dalla rappresentazione. In essa quindi l’oggetto reale prende il sopravvento sul relativo concetto. Pertanto essa è per definizione ingenua. Ma lo è ancor più perché sullo sfondo di questo sopravvento vi è il fenomeno emozionale dell’”essere colpiti” (“Betroffensein”) dalla realtà incondizionata nel contesto della vita quotidiana. E ciò è radicalmente diverso da quanto accade nella scienza. Con ciò si pone dunque l’”impositività” (“Aufdringlichkheit”) che caratterizza l’Essente, ossia quella sua forza e peso che rendono impossibile non coglierlo conoscitivamente. Ma ciò avviene solo in virtù della sua natura solidamente ontica.
Nell’esposizione successiva Hartmann si dedica soprattutto a dimostrare la sua tesi secondo la quale l’essere ideale non è impositivo come l’essere reale e quindi viene conosciuto con difficoltà molto maggiore sebbene non sia affatto privo di onticità ed inoltre rientri comune nella totalità dell’Essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, II-III, p. 267-322]. Peraltro egli sottolinea nuovamente che l’essere ideale (“Sosein”) si presenta sempre associato all’essere reale (“Dasein”) nell’esperienza e nella realtà, per cui la conoscenza dell’uno implica la conoscenza dell’altro. Ebbene questa è l’estrema sintesi di una riflessione che è estremamente analitica, dettagliata, profonda, vasta e complessa, e quindi su di essa non possiamo soffermarci. L’unico aspetto di essa che va sottolineato è comunque quello che riguarda più da vicino l’atto di conoscenza, e cioè la parte in cui Hartmann critica il concetto di “visione essenziale” (proprio della Fenomenologia husserliana) ritenendolo affatto scevro da errori e quindi per nulla capace di cogliere infallibilmente la verità; e peraltro senza con questa difettività nulla cambi nell’esistenza dell’essente [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., IV, III, 47d p. 297-298]. Si riconferma quindi che la conoscenza è autentica solo quando essa intercetta un oggetto reale che ha inevitabilmente le caratteristiche dell’”in sé”, e quindi è del tutto indipendente da qualunque forma di conoscenza e/o atto e contenuto di coscienza (inclusa quella apparentemente posta al sicuro da Husserl mediante l’estrazione dell’oggetto per mezzo della messa tra parentesi).
L’oggetto di questa riflessione può questo quindi venire considerato il suggello finale dell’ontologia di Hartmann, la quale senza ombra di dubbio va di pari passo con l’eradicazione dalla filosofia di qualunque problematicità della conoscenza. Alla quale evidentemente la Fenomenologia non aveva posto alcun vero rimedio.
Conclusioni.
Dopo aver constatato tutto ciò possiamo ritenere confermato il fatto che Hartmann ha compiuto un’operazione estremamente lodevole nel sottrarre l’ontologia all’astrattezza e ad una serie infinita di visioni pregiudiziali ed arbitrarie che avevano caratterizzato l’antica ontologia, ma che poi sono persistite entro quella filosofia moderna che intanto aveva spazzato via ogni ontologia. L’accento posto sulla riflessione (con tutte le sue conseguenze teoretico-conoscitive, specie l’affermazione della problematicità della conoscenza) rientra infatti pienamente in queste visioni unilaterali.
Su questa base, dunque, il nostro pensatore ci obbliga a considerare con un certo disincanto ciò che è l’Essere in quanto prima di tutto reale, ossia quello mondano. E ciò scava senz’altro un profondo fossato tra la sua ontologia e la tradizionale onto-metafisica.
Ebbene è proprio questo, secondo noi, l’aspetto che rende non poco criticabile la stessa ontologia di Hartmann. Almeno da un determinato punto di vista. E quindi, aldilà di tutto il positivo che abbiamo constatato in essa, bisogna anche mettere in luce ciò che è invece negativo. Almeno dal punto di vista del pensatore tradizionalista, per il quale è molto difficile (se non impossibile) accettare che l’antica ontologia (che poi era in primo luogo metafisica) sia stata davvero superata, e fino ad aver bisogno di una radicale riforma.
È evidente infatti che, checché se ne possa dire, tale appello al disincanto a fronte dell’Essere deve essere considerato il frutto di un’operazione decisamente anti-metafisica. Tuttavia, oltre a ciò, possiamo davvero considerare “ontologia” una disciplina che di fatto identifica l’Essere unicamente con tutto ciò che è contenuto nel mondo dell’esperienza, ed è quindi reale in quanto noi possiamo tangibilmente prendere contatto con esso (in maniera più o meno sensibile)? Eppure, come abbiamo visto, Hartmann stesso afferma che l’essere è in sé qualcosa di inafferrabile ed incomprensibile. Ma poi mitiga questa affermazione sostenendo che le sue specificazioni (“Besonderheiten”) mondane non lo sono affatto. Anzi sarebbero l’esatto contrario. Tuttavia l’ontologia non è scaturita forse nel cuore della filosofia di tutti i tempi proprio perché si sentiva il bisogno di cogliere l’Essere al di fuori delle sue specificazioni tangibili, ossia l’«essere come tale»? E questo non è forse accaduto proprio perché l’uomo avverte con forza straordinaria la decisività del concetto di «essere» rispetto a qualunque aspetto della sua esistenza ed esperienza – in perfetta obbedienza al concetto lebniziano del “perché qualcosa e non nulla?”? [Gottfried von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2008, II, 7-15 p. 47-53]. L’uomo insomma ha sempre sentito forte l’esigenza di comprendere cosa mai fosse questo qualcosa di inafferrabile e misteriodo, entro il quale però esso vive la propria esistenza e del quale, inoltre, sono fatte tutte le cose con le quali l’uomo stesso viene in contatto nel corso della propria esistenza. Ma quale modo vi era per cogliere questo mistero se non un’indagine che, con non poco sforzo, gettasse lo sguardo dietro e aldilà di quelle evidenze e specificazioni reali che, a fronte del mistero, possono benissimo essere appena delle mere apparenze e quindi solo illusioni. Ora, è vero che l’antica ontologia, ha compiuto questo lavoro in gran parte in base a prese di posizione pregiudiziali (visioni del mondo) che potevano ben essere non meno illusorie delle apparenze sotto le quali essa intanto scavava. Ed è vero anche che questo può avere recato a concetti astratti le cui contraddizioni vengono giustamente messe impietosamente in luce da Hartmann. Tuttavia ciò non è forse accaduto perché la filosofia (con pochissime eccezioni, come quelle di Pitagora e Platone) aveva deciso già ai suoi primordii di distaccarsi da quel «mito» il quale era tutt’altro che una favola, trattandosi invece dell’originaria Rivelazione circa l’Essere che era stata offerta all’uomo da Dio stesso per mezzo della Scienza Sacra originaria? Il mito era infatti in verità la stessa Sapienza e Scienza che da tempo immemorabile era stata custodita nel Tempio, e non certo invece nelle Accademie filosofiche. Non a caso Platone (indubbiamente il padre dell’intera filosofia) aveva fatto un deciso salto di qualità nella profondità del suo pensiero dopo aver soggiornato nel tempio di Heliopolis [Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015, I p. 26-36] oltre che nella Magna Grecia dove prese contatto con la Sapienza filosofico-religiosa orfico-pitagorica [Eduard Zeller, Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Nuova Italia, Firenze 1974, XII, 1 nota 32 p. 663-671]. Ed inoltre anche Schelling ha affermato che la filosofia ha avuto un tempo una totale consonanza con la Sapienza custodita nel Tempio [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Putnam, Conn. : Spring Publication, 2010, p. 7-10].
Qui ci troviamo dunque di fronte ad una serie di contenuti che sono sempre stati il frutto di una riflessione di tipo contemplativo (e non razionale), quindi profondissimamente intuitiva ed iper-razionale. Motivo per cui essa non è mai stata astratta e meno che mai pregiudiziale ed arbitraria (dietro di essa vi era infatti la Verità divina stessa e quindi anche la stessa Sapienza divina). Pertanto essa è stata sempre lontanissima dai principi logici (contraddizione etc.) ai quali invece si è rifatta acriticamente l’antica ontologia criticata da Hartmann (e qui del tutto giustamente) almeno a partire da Aristotele e poi entro la Scolastica ed in tutte le sue successive evoluzioni.
Dunque, se non vi fosse stato il fatale distacco da tale Sapienza, probabilmente l’antica ontologia non si sarebbe mai abbandonata a costrutti unilaterali ed arbitrari. E di conseguenza non ci sarebbe mai stato bisogno che nascesse una nuova ontologia. La quale si caratterizza per il fatto che di tutto questo lavoro di scavo nell’Essere non vuole sapere assolutamente nulla dato che esige di rifarsi appena alle evidenze mondane. Se così fosse stato, allora, non vi sarebbe stata mai la necessità di una distinzione tra antica e nuova ontologia. Una distinzione che è essa stessa non poco artificiosa e pochissimo credibile. Infatti, almeno in una certa misura, rinnovandosi così radicalmente l’ontologia rischia di perdere la propria natura.
Detto questo però va riconfermato che (come abbiamo già accennato), senza l’ontologia di Hartmann, l’antica ontologia riesumata nel XX secolo non avrebbe mai avuto la forza sufficiente per ricostruire la pienezza della conoscenza. E questo avrebbe lasciato la filosofia nel pantano costituito da una serie di visioni avevano reso la conoscenza impossibile, consegnandola in tal modo di fatto nelle mani di un nuovo distruttivo scetticismo. Certamente anche la filosofia di Hartmann non ha retto all’urto delle recenti forme immanentistiche di pensiero che hanno di nuovo reso impossibile l’ontologia (insieme alla metafisica). E tuttavia essa resta come un punto di riferimento dal valore inestimabile in uno scenario filosofico che già allora stava per incamminarsi in questa così deleteria direzione.
Questo conferma quindi l’importanza del suo ruolo e del suo valore, e pertanto la necessità di studiarla e non dimenticarla quando si pensa alla filosofia del XX secolo. Il nostro articolo, dunque, vuole essere sostanzialmente un richiamo a questa necessità.
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