L’idealismo può ben venire considerato il tratto dominante della filosofia moderna. Esso inizia infatti con Cartesio e si protrae di fatto fino ai giorni nostri. Il che resta vero anche se tale percorso è stato comunque inframmezzato da non poche fasi di «realismo», ed inoltre sta proprio oggi culminando in uno dei realismi più estremistici che ci siano mai stati al mondo, ossia quello (in gran parte anglosassone) che intende ormai equiparare la filosofia alla scienza empirica della Natura. Eppure perfino quest’ultimo realismo è nato da una presa di posizione filosofica che senz’altro può venire definita un idealismo, ossia quella Filosofia Analitica entro la quale si è voluto far trionfare la «verità» per mezzo dello strumento di una logica (e relativa purissima epistemologia) tra le più sottili che mai siano state impiegate in filosofia; ossia una logica destinata a demolire senza mezzi termini qualunque verità che non abbia a che fare con la realtà esperienziale nuda e cruda (cioè solo e soltanto con il mondo degli oggetti effettivamente «reali» che noi sperimentiamo per mezzo dei sensi).
Ma cerchiamo innanzitutto di intenderci sui termini. Cosa intendiamo noi esattamente con «idealismo» e «realismo». Ebbene, forse una delle definizioni più pregnanti della natura di queste due prese di posizione filosofica ci venne fornita da Edith Stein nel suo “Potenza e atto”. Ella ci mostrò infatti che l’«idealismo» è quella presa di posizione filosofica che concepisce una «coscienza senza mondo», mentre il «realismo» è quella presa di posizione filosofica che concepisce un «mondo senza coscienza». Si tratta di una definizione molto sintetica e perfino sbrigativa; essa quindi porta senz’altro alle estreme conseguenze le affermazioni delle due prese di posizione (giungendo addirittura ad esagerarle). Ma comunque ci fa capire bene quale sia il loro nucleo più intimo. Intanto va però registrato che voi non udrete mai dire da un idealista che egli nega l’esistenza del mondo cosale (cioè dell’oggetto), e non udrete mai dire da un realista che egli nega l’esistenza della coscienza o dell’idea (cioè il soggetto).
Tuttavia sta di fatto che, al fondo di tutto, è esattamente questo che entrambi affermano.
Infatti l’idealismo postula una coscienza che può benissimo «esistere» senza un corrispondente mondo – volendo così sostenere che l’essere può venire riconosciuto solo interiormente, e quindi che la coscienza «sta» effettivamente per l’essere. Tale affermazione non è però affatto arbitraria, in quanto l’idealista vuole in definitiva dire con ciò che noi possiamo essere sicuri solo del mondo cosale conosciuto in quanto «vero», ossia sottomesso a quella verifica di realtà che può davvero avvenire solo entro la coscienza. Solo in questa sede infatti (per mezzo dell’infallibile intuizione della vera essenza della cosa, che caratterizza solo la mente sveglia, ossia cosciente ed auto-cosciente) io posso decidere se la cosa che sta davanti a me è un oggetto effettivo oppure è invece solo un’illusione dei sensi. E questo problema venne sollevato da uno dei capisaldi dell’idealismo filosofico occidentale, cioè Kant (poi vedremo l’efficacissimo esempio da lui addotto per questo). In altre parole l’idealista afferma che, senza volersi nemmeno pronunciare sull’esistenza oggettiva o meno di un mondo esteriore, quello che è certo intanto è che noi uomini (in quanto soggetti esistenti caratterizzati dall’essere coscienti-conoscenti-pensanti) il mondo esteriore possiamo solo conoscerlo. Dunque se noi smettiamo di conoscerlo, è davvero come se esso svanisse del tutto.
Questo fu del resto quanto venne sostenuto da Berkeley nel XVIII secolo (contro i realisti empiristi) con il suo principio dell’”esse est percipi”. Il che vuol dire che l’essere consiste nel venire percepito e quindi nel venire conosciuto (cosa che avviene per mezzo della rappresentazione ideale della cosa). Dunque, volendo di nuovo usare una formula molto sintetica, possiamo dire che se noi chiudiamo gli occhi (come avviene in sonno), di fatto il mondo esteriore svanisce; nel mentre intanto non resta altro che noi stessi come Io, e cioè come soggetto cosciente-conoscente-pensante. Come abbiamo visto nelle precedenti lezioni, la grande scoperta cartesiana del «cogito-sum» può ben venire riassunta proprio in questo – dopo aver cancellato per un attimo («messo tra parentesi») il così incerto essere mondano-esteriore, non resta altro esistente se non l’Io del quale noi intanto siamo consapevoli. Quindi deve essere necessariamente questo «il principio di ogni conoscenza».
Quanto poi al realismo, esso postula invece un mondo che può benissimo «esistere» senza una corrispondente coscienza – volendo così sostenere che l’essere non ha affatto bisogno di venir conosciuto perché ne possa venire ammessa l’esistenza. Ciò significa insomma che il mondo cosale è un’evidenza assolutamente inoppugnabile ed incontestabile – e ciò per il semplicissimo motivo che noi vi siamo immersi dentro, in quanto enti indubitabilmente «esistenti». Infatti, prima di ogni altra cosa, noi uomini (insieme al resto di tutte le altre cose, ossia gli altri) dobbiamo esistere per poter essere quello che siamo e fare quello che facciamo. In altre parole l’indubitabilità di esistenza si sposta dall’Io (soggetto e mondo interiore) al mondo (oggetto e spazio esteriore). E tale indubitabilità è del resto chiaramente attestata da ciò che i nostri sensi ci mettono davanti agli occhi (e senza la minima ombra di dubbio) ogni attimo del nostro esistere cosciente. In base a questo il realista considera assolutamente ridicolo sia il postulare una coscienza che possa esistere senza un corrispondente mondo, sia anche il ritenere che l’esistenza indubitabile della coscienza possa in alcun modo condizionare l’esistenza del mondo. Ecco che allora (volendo anche qui usare la nostra estremistica formula sintetica) bisogna dire che per il realismo è ridicolo anche il ritenere che il mondo possa (in qualunque misura) svanire se noi chiudiamo gli occhi. Infatti basta semplicemente allungare la mano ad occhi chiusi, e noi con la massima certezza possibile incontreremo intorno a noi il solito inoppugnabile mondo di cose.
L’esistenza del mondo è insomma per il realismo un dato di fatto incontrovertibile. E bisogna dire che questa presa di posizione è in fondo anche quella dell’uomo comune e dello scienziato della Natura.
Quindi il realismo filosofico si approssima molto a queste due ultime visioni. Ma qui arriviamo al punto. Perché intanto la filosofia moderna è stata (da Cartesio in poi quasi uniformemente idealistica) proprio perché essa ha sempre ritenuto insufficiente la visione del mondo propria dell’uomo comune ed anche dello scienziato della Natura. Tale visione è stata infatti sempre accusata di prendere semplicemente il mondo così com’è senza sottometterlo ad alcuna scrupolosa verifica conoscitiva – il che comporta poi il grande rischio di prendere per reali degli oggetti che sono appena frutto delle illusioni sensoriali.
E del resto sappiamo tutti quanto ciò sia vero. Ma Kant ci offre per questo un ottimo esempio, ossia quel bastoncino immerso a metà in un bicchiere d’acqua, che i nostri sensi vedono come piegato in due (al livello della superficie acquosa) mentre «in verità» esso è assolutamente dritto.
È esattamente per questo motivo che la filosofia idealistica moderna si è praticamente strutturata intorno alla teoria della conoscenza. Ed in fondo perfino i più realisti dei realisti (gli empiristi del XVIII secolo) tentarono di rispondere proprio alle fondamentali questioni poste da questa teoria.
Quanto ho appena detto ci mostra insomma perché in fondo la filosofia moderna è stata sempre più idealistica che realistica. Dunque essa ha sempre posto in primo piano la teoria della conoscenza, e quindi ha fatto decisamente prevalere l’«epistemologia» (la visione del mondo condizionata alla verità come criterio fondamentale della scienza) sull’«ontologia» (la visione del mondo che ritiene l’essere qualcosa di assolutamente incondizionato alla conoscenza). Su questa via si è giunti nella prima metà del XX a quella fenomenologia di Husserl che condannava molto esplicitamente l’”ingenuità” (nel guardare al mondo) sia dell’uomo comune che dello scienziato empirico.
Tuttavia a tutti sarà intanto apparso chiaro che idealisti e realisti hanno entrambi ragioni da vendere.
E quindi non può stupire nessuno sia il fatto che la questione idealismo / realismo non sia stata mai archiviata in filosofia, e sia il fatto che la filosofia idealistica moderna doveva per forza conoscere anche delle intensissime fasi realistiche. Una di questa fu quell’empirismo (anglo-francese del XVIII secolo: Hume, Locke, Condorcet etc.) che addirittura condizionò fortemente l’idealismo di Kant proprio per mezzo del valore attribuito all’esperienza (come criterio di realtà delle cose).
Volendo essere infine estremamente pratici, direi che la questione idealismo / realismo possa comunque interessare chiunque dato che essa tocca molto da vicino un problema che tutti incontriamo nella nostra esistenza, e cioè quello della relazione esistente tra il Possibile ed il Reale, ossia tra quello che vogliemo e desideriamo che sia e ciò che effettivamente può essere.
In qualche modo infatti l’idealismo si fa sostenitore di sorta di potenza illimitata del Possibile, ovvero della capacità del Possibile (la dimensione dell’idea come paradigma della cosa, e del soggetto come ordinatore intelligente-conoscente del caos mondano) di «creare» o «generare» letteralmente l’essere. Potremmo dunque definire questo atto come «onto-generazione». La spiegazione dell’essere come primariamente conoscibile fa in fondo riferimento proprio a questo – io, in quanto soggetto, genero un mondo di cose intelligibili, ossia perfettamente conosciute. E questo mondo di fatto si sostituisce al grezzo e caotico essere (immediato ed inintelligibile) del mondo esteriore percepito con i sensi. Ecco allora che, in una visione idealistica com’è stata la Fenomenologia di Husserl, il mondo degli oggetti interiori (tutti veri in quanto verificati) si sovrappone totalmente al mondo degli oggetti esteriori (non veri per definizione), configurando in tal modo una vera e propria «ontologia di coscienza». Non a caso tra questi oggetti ve ne sono alcuni che sono veri e reali anche se essi non hanno alcun riscontro nel mondo degli oggetti dell’esperienza concreta – tali oggetti sono infatti tanto immaginari quanto reali. Proprio questa ammissione ci fa dunque comprendere cosa intenda Husserl quando dice che la cosa deve venire concepita come “fenomeno” – essa è tale in quanto (una volta trasferita nella coscienza dall’atto conoscitivo) assume le caratteristiche specifiche di un “vissuto”, ossia di un oggetto interiore. La cosa in quanto “fenomeno” (ossia la cosa interiore) riesce quindi ad includere in sé tutti i possibili gradi di «realtà» di ciò che è «oggetto». Questo non accade invece affatto per la cosa lasciata alla sua esteriorità.
Pertanto l’oggetto interiore è reale in ogni caso – che esso sia soltanto immaginario o anche corrisponda ad un oggetto sperimentabile nel mondo esteriore. Anzi Husserl ritiene che la verità dell’oggetto possa essere (o non essere) affermata solo una volta che esso sia prima divenuto un oggetto interiore. Infatti solo l’analisi dell’essenza (che può avvenire solo entro la conoscenza auto-cosciente) ci potrà dire se l’esistenza di quell’oggetto (solo immaginario o anche sperimentabile) è o meno qualcosa di assolutamente impossibile. Tali sono le cose che Husserl (riferendosi alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, ma comunque richiamando anche i “paralogismi” kantiani della ragione) definì come “chimere”. E va notato che tra di esse rientrano gli oggetti che la tradizionale metafisica (almeno fino a Kant) aveva considerato come certamente esistenti. Tale è infatti ad esempio Dio.
Al contrario di tutto ciò il realismo si fa invece sostenitore dell’impotenza totale del Possibile rispetto a quel Reale che è esistente (e perfino vero) di per sé, ossia senza alcun bisogno di giustificazione conoscitiva. Pertanto per il realismo è un grave errore (ed anche una colpevolissima illusione) il ritenere che possa essere possibile ciò che sfida quanto abbiamo sotto gli occhi, e che obbedisce alle invariabili e ferree leggi che regolano la Natura. Quindi il realismo ci incoraggia ad essere estremamente sobri nelle nostre aspettative verso il mondo – dal suo punto di vista, insomma, avverrà solo quanto è conforme alle ferree leggi della Natura. Il che significa che buona parte delle nostre aspettative e speranze (in relazione al mondo) verranno spazzate via senza la benché minima pietà.
In buona sostanza possiamo quindi constatare che mentre l’idealismo allarga al massimo il campo del «reale», invece il realismo lo restringe al massimo possibile.
Dunque possiamo dire che in qualche modo l’idealismo ci autorizza a ritenere che «tutto è possibile» (solo a patto che sia razionale, ossia ragionevolmente reale anche se non necessariamente sperimentabile esteriormente), mentre invece il realismo ci autorizza a ritenere che «nulla è possibile» se non quello che abbiamo sotto gli occhi e a portata di mano (o che almeno domani, in piena conformità con le leggi della Natura, possiamo aspettarci di avere sotto gli occhi e a portata di mano). In qualche modo insomma il realismo sembra ben più pragmatista e perfino cinico. Sebbene vada comunque anche precisato che (almeno fino a Cartesio ed a partire dalla Scolastica medievale) era sempre esistito un realismo metafisico-religioso, ossia una visione che riteneva del tutto reale l’esistenza di oggetti intanto totalmente invisibili (come la famosa “sostanza” e ovviamente lo stesso Dio). È evidente che questo genere di realismo non aveva davanti a sé il mondo della Natura, ma invece il mondo creato da Dio. E quindi il suo sobrio pragmatismo veniva di molto mitigato da quell’etica religiosa che poteva ammettere nel mondo tutto tranne il male. In altre parole il realismo religioso non giungeva mai ad essere cinico, e quindi disinteressato ai destini del singolo umano. Anche per questo motivo esso riusciva ad essere metafisico.
Ma su questo non posso qui soffermarmi oltre.
Avendo già parlato già anche di Cartesio (nelle precedenti lezioni), non credo che sia necessario dire di più sull’idealismo come presa di posizione filosofica. Infatti non credo che al lettore (che non sia addentro negli studi filosofici) possano interessare né un’analisi più approfondita dell’idealismo né il ripercorrerne la storia entro il pensiero occidentale. Mi limiterò pertanto solo a ricordare che uno degli aspetti più tipici dell’intero idealismo è sempre stato la postulazione di un onnipotente Io che presiede in vari modi all’esistenza delle cose mondane esteriori, e come tale deve venire considerato come un «centro» dal quale tutto si diparte ed a partire dal quale tutto viene «controllato». Secondo quello che abbiamo già detto, dunque, questo Io veniva considerato in possesso di un potere dai due volti, ossia un potere centrifugo ed insieme centripeto: –
1) il potere di generare l’essere (cioè tutte le cose del mondo) per mezzo di un atto conoscitivo che sembrava avere la valenza di una vera e propria «creazione», ossia l’«onto-generazione»; 2) il potere di ricondurre a sé stesso l’essere (e cioè tutte le cose del mondo) in modo che esse acquistassero un’esistenza che si potesse riassumere nel suo «senso». La trasformazione husserliana della cosa esteriore in “fenomeno” ebbe proprio lo scopo di porre in evidenza il senso delle cose. Inoltre potremmo ricondurre proprio a due concetti husserliani le due azioni (centrifuga e centripeta) dell’Io appena delineate: –
1) l’azione centrifuga corrisponde alla “costituzione” (CO) dell’essere da parte dell’Io; 2) l’azione centripeta corrisponde alla “riduzione trascendentale” (RT) dell’essere all’Io, detta anche “riduzione fenomenologica”. Ma proprio in ragione di quest’ultimo concetto (che poi risale di fatto fino a Kant con la sua rivoluzionaria scoperta del livello “trascendentale” dell’essere) il così possente Io assunse entro l’Idealismo (del XIX e XX secolo) varie denominazioni che ne sottolineavano quell’importanza decisiva e quel potere onto-generativo i quali divengono evidenti proprio nella sua capacità di ricondurre a sé tutte le cose. Si tratta insomma del modo più radicalmente idealistico di intendere la questione conoscitiva (o teoria filosofica della conoscenza) – la conoscenza delle cose raggiunge il suo culmine solo laddove l’Io (e con esso la coscienza) costituisce l’ultimissimo momento del progredire di essa dall’esteriore all’interiore. In questo supremo luogo, dunque, la conoscenza delle cose trova la sua estrema sintesi, la sua estrema purificazione e la sua estrema verifica. Ecco quindi che l’Io finì per assumere nell’idealismo la valenza di una vera e propria entità trascendente (non a caso in Hegel esso finì per essere assimilata a Dio stesso, fondando così una curiosissima teologia laica). In ogni caso si basano su tutto questo le varie denominazioni che assunse l’Io quale entità finale e trascendente – “Io assoluto”, “Io puro”, “Io trascendentale” etc. Ed in particolare va notato che in tal modo si tendeva ad assolutizzare in maniera estrema quell’Io che era stato scoperto da Cartesio, e che però da lui veniva riconosciuto ancora come ciò che esso effettivamente è, ossia l’Io psichico umano, e quindi un’entità del tutto immanente e perfino naturale. Ebbene, almeno in una parte della filosofia idealistica (come ad esempio presso Edith Stein), questa entità veniva riconosciuta come un «Io-esistente», ossia un esistente tra gli esistenti ed un ente tra gli enti. Ed è chiaro che in tal modo ne veniva chiaramente (e del tutto giustamente) negata la così pleonastica e pochissimo convincente trascendenza.
L’effettiva trascendenza veniva infatti concessa solo all’Io divino. Sta di fatto che però nell’idealismo più oltranzista – non a caso rigorosamente laico (com’è senz’altro quello di Husserl o di Hegel) − l’Io assoluto era una specie di trasformazione universalizzante e depersonalizzante dell’Io psichico umano o anche Io-esistente.
Ebbene perché dico tutto questo? Un motivo c’è! Infatti, proprio perché (come ho detto prima) io non intendo estendere oltre la mia analisi dell’idealismo − volendo invece restringermi ad una soltanto delle problematiche che esso apre −, vorrei qui limitarmi a chiamare in causa soltanto la relazione che possiamo stabilire tra l’Idealismo occidentale e l’Idealismo orientale. E questo perché questo paragone ci permette di riconoscere nell’idealismo degli aspetti che a prima vista non emergono, e precisamente più degli aspetti negativi che non positivi. In primo luogo emerge infatti l’impressione che in Occidente l’idealismo abbia intuito (e solo tardivamente) una serie di cose che erano state in verità già intuite e pensate prima, e peraltro in maniera molto più completa, profonda e coerente. Esattamente questo era avvenuto entro quell’Idealismo orientale che è poi un pensiero nato forse già nel 6000 a. C. con la visione vedantica [Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, Āśrām Vidyā, Roma 1998, Voll. I, II, I p. 53]. L’Idealismo occidentale non può vantare in alcun modo questa così venerabile anzianità e maturità di pensiero. Esso infatti al massimo risale fino al IV secolo a.C. con Platone. E peraltro la straordinaria somiglianza esistente tra la dottrina platonica e il Vedanta lascia pensare che − come hanno sostenuti non pochi studiosi, tra i quali proprio Radhakrishnan [Purushottama Bilimoria, “S. Radhakrishnan: ‘Saving the Apparence’ in East-West Academy, Sophia 58 (1), 2019, 31-47] – forse (magari per mezzo dei misteri dionisiaci, eleusini ed orfici) Platone sia venuto a conoscenza (direttamente o indirettamente) di questa antichissima sapienza. Di questo tema ho trattato peraltro nel mio saggio su Platone [Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017].
In ogni caso devo dire qui di aver già affrontato questo tema in una serie di personali ricerche [Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll XX, 2017, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: I.V.A.N. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164]. Quindi invito il lettore più addentro negli studi filosofici, a leggerli se vuole.
Ma alla fine a cosa può praticamente servirci questa costatazione? Secondo me può servirci a realizzare che molte delle buone ragioni che (come ho detto prima) sono obiettivamente da riconoscere all’idealismo, vanno revocate non a fronte del realismo (che, come ho detto, «ha ragione» almeno quanto l’idealismo) ma proprio a fronte di un idealismo ben più pieno com’è stato quello orientale, ossia vedantico.
Tuttavia con ciò avremo relativizzato anche un’altra cosa, e cioè quella tendenza idealistica della filosofia occidentale che non a caso è stato il fulcro dell’orgoglio con la quale modernamente la disciplina ha cominciato a guardare a sé stessa. Non a caso sia l’Autore che abbiamo appena citato sia quello il cui testo tra poco esamineremo a fondo [Krishnachandra Bhattacharyya, Studies in Vedantism, Calcutta University Press, Calcutta 1909] sottolineano con quale del tutto immotivato disprezzo proprio questa filosofia idealistica occidentale abbia guardato a quel pensiero orientale che invece ad esso era ed è decisamente superiore. Ed a tale proposito dobbiamo suggerire al lettore interessato di consultare un altro grande studioso indiano di Vedantismo, e cioè Coomaraswamy [Ananda K., Coomaraswamy La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017; Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Adelphi Milano 2011].
Ma prima di entrare nel merito del testo di Batthacharyya, direi che va considerata una cosa abbastanza importante dal punto di vista storico-filosofico ed anche culturale. Infatti, come ho accennato poc’anzi (citando Edith Stein), l’Idealismo occidentale non è stato poi così univoco nella sua strampalata pretesa di assolutizzare l’Io umano. Vi sono stati infatti pensatori come la Stein i quali hanno sottolineato con forza che, se proprio vogliamo parlare di un Io trascendente, allora dobbiamo chiamare in causa quello divino e non invece quello umano. Ebbene, proprio questa è una delle istanze centrali dell’Idealismo vedantico che ora andremo ad esaminare. Ma bisogna anche osservare che non bisogna affatto essere religiosi per ammettere quanto ho appena sottolineato. Non a caso infatti il Vedanta non corrispose mai ad una religione strutturata (come sono stati invece tutti i Monoteismi occidentali). In altre parole è un’assoluta stupidaggine (oltre che blasfemia) ritenere che l’Io umano abbia le stesse caratteristiche dell’Io divino.
E credo che questo possa ammetterlo senza difficoltà anche un ateo.
Ma perché nell’Idealismo vedantico si configura una visione come quella alla quale ho appena accennato?
Ebbene ciò accade per due motivi che a noi occidentali possono apparire entrambi paradossali se non assurdi: – 1) la vera Realtà viene considerata quella del sonno, e non invece quella della veglia; 2) il “vero” e “puro sé”, ossia l’Io, viene considerato un soggetto che in realtà è un oggetto, ossia è la più piena Oggettualità che esista. Quest’ultimo è però il Brahman stesso, e cioè null’altro che Dio, ossia l’Io divino.
È dunque su questi due assi portanti che si articola l’intero Idealismo vedantico, del quale ora cercherò di delineare le più salienti differenze rispetto a quello occidentale, specie quello fenomenologico-husserliano.
Prima di tutto bisogna però rendere comprensibili le due affermazioni dalle quali siamo appena partiti.
E tutto ruota qui intorno alle scoperte fatte dalla davvero possente psicologia vedantica rispetto a ciò che avviene nel sonno rispetto a ciò che avviene nella veglia. Tutti noi possiamo prendere atto di questa dottrina leggendo le Upanishad [Bṛhadāṇyaka Upanișad, in: Raphael, Upaniṣad,, Bompiani Milano 2010 IV, III, 34-38 p. 187; Raphael, Note al Terzo Brāhmana e al Quarto Adhyāya, ibd., p. 188-189; Māṇḍukya Upaniṣad, ibd., I, 1.1-1.18, p. 1021-1029].
Ma bisogna inoltre dire che il principale protagonista di questa dottrina deve venire considerato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi (e non solo orientale) e cioè Śankara. Egli infatti (come viene ben chiarito da Radhakrishnan e da Bhattacharyya) fu il principale elaboratore filosofico dei testi sacri (tra i quali in particolare le Upanishad). Questo grande pensatore vedantico visse nel II secolo d.C. (contemporaneamente ai molti fondatori della dottrina buddhistica ed in profonda polemica con essi) ed elaborò la famosissima dottrina del “monismo assoluto” detto anche “advāita”, ossia la fondamentale e irriducibile non-dualità dell’intero Essere. In altre parole, insomma, secondo lui la Realtà è restata sempre avviluppata ed involuta nel seno dell’Uno divino, per cui il mondo che noi sperimentiamo non è altro che “illusione”, cioè una non-realtà. Nello stesso tempo si può dire quindi che per il Vedanta è reale la dimensione interiore (ossia quella della coscienza) e non invece quella esteriore. Rispetto a questo mi colpisce davvero molto l’esistenza nella cultura occidentale di un uomo che sembra avere colto in pieno questa verità sul piano letterario, e cioè il grande poeta e drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (“La vida es sueño”), non a caso citato spessissimo dal grandissimo poeta argentino Jorge Luís Borges.
Partendo da tutto questo si può dunque comprendere meglio perché mai noi nel corso del sonno sperimentiamo effettivamente la vera Realtà. Ciò avviene perché il sonno è la condizione in cui noi siamo disconnessi dalla percezione del mondo esteriore che è in verità solo illusoria. Ed infatti l’analisi vedantica della psicologia del sonno evidenzia lo stato del “sonno segna sogni” come quello in cui la mente è disconnessa dai sensi nella maniera più completa. Ciò non avviene invece nemmeno nel sogno stesso (sonno con sogni), nel quale noi viviamo invece una vera e propria esperienza percettiva, sebbene stranamente senza alcuna sensazione (in esso possiamo addirittura giungere a vedere il nostro corpo che giace addormentato). Il sonno senza sogni corrisponde pertanto all’esperienza dell’”estasi” (samadhi) nella sua pienezza, che per il Vedanta è poi l’esperienza conoscitiva nella sua maggiore integralità – proprio in essa noi cogliamo infatti l’unica vera Realtà, ossia quella interiore.
Ma cosa ne è dell’Io nel corso di queste esperienze oniriche? Ebbene, secondo il Vedanta, esso raggiunge in esse la sua maggiore pienezza ontologica. E, come ci mostra il sonno senza sogni, ciò avviene peraltro ben aldilà dello stesso ordinario e naturale stato di coscienza. Infatti nello stato finale del sonno l’Io non sperimenta altro oggetto se non sé stesso, e quindi si trova per davvero nel pieno dell’auto-coscienza.
La coscienza (ordinaria e naturale) si rivela quindi essere lo stato in cui solo apparentemente l’Io si trova nella sua pienezza di Io puro o assoluto (come riteneva invece Husserl); dato che lo stato cosciente non è in fondo altro che quello in cui l’Io stesso sta in relazione con il mondo esteriore. Il che significa che la mente non è affatto ancora disconnessa dai sensi.
Eccoci allora davanti alla vera definizione di ciò che è “io puro”. Non a caso il Vedanta considera come “vero sé” (dove il “sé” nel Vedanta sta per l’Io) proprio quello che sta in relazione solo con sé stesso, essendo in tal modo totalmente auto-cosciente. Ed infatti la riflessione vedantica ci mostra che, allorquando l’Io sta nel pieno dello stato di coscienza ordinaria e naturale (cioè sta in relazione con le cose per mezzo dei sensi), esso opera in maniera in verità “incosciente”. E lo stesso viene affermato anche per l’idea stessa quale entità che è protagonista interiore della conoscenza del mondo cosale. L’idea infatti è davvero attiva (e con essa anche l’Io stesso) solo quando è totalmente disconnessa dai sensi. Mentre invece è solo passiva quando è connessa ai sensi (subendo così il continuo bombardamento dei loro stimoli ed inoltre essendo sottomessa all’obbligo dell’”attenzione concentrata”). La pienezza dell’incoscienza come «coscienza-davvero-piena» (in quanto non più ordinaria e naturale ma invece già «ipr-coscienza») si lascia quindi cogliere anche come autentica attività dell’idea e dell’Io. Evidentemente, insomma, l’Idealismo occidentale (sebbene ai suoi massimi vertici, come avvenne in Husserl) aveva di certo intuito qualcosa di obiettivo, ma in fondo non sapeva bene nemmeno di cosa parlasse. Non a caso esso era riuscito appena a porre la coscienza (ordinaria e naturale) come ultimo livello dell’essere e della conoscenza. Ma intanto non aveva osato spingersi molto più oltre come fa invece il Vedanta.
Da questo possiamo dunque pervenire al secondo aspetto fondamentale della visione vedantica, e cioè quella dell’oggettualità del soggetto posto al culmine (in quanto Io) della sua pienezza ontologica.
Infatti, come abbiamo appena visto, l’Io che sta in relazione solo con sé stesso coglie in sé stesso l’unico oggetto che riempia tutto il campo della propria conoscenza. E quindi esso, in quanto soggetto, si fonde totalmente con sé stesso in quanto oggetto. Si tratta insomma di quella fusione integrale tra soggetto e oggetto che l’intera mistica planetaria (orientale e occidentale) ha sempre riconosciuto come la condizione per la cosiddetta “unio mystica”, cioè l’unione a Dio. Il Vedanta non fa affatto eccezione in questo, perché l’oggettualità assoluta appena identificata (cioè il “puro sé”, ossia l’Io puro) altro non è se non il Brahman stesso come fondamentale “sostanza” di tutto l’Essere. E nello stesso tempo tale Oggettualità suprema e fondamentale altro non è se non quell’oggetto metafisico invisibile ed inafferrabile (concepito con chiarezza estrema da Platone in quanto oggettualità ideale trascendente, ossia paradigma ideale di tutte le cose, o anche Logos) di cui Kant si vide invece costretto a decretare l’inconoscibilità in quanto “noumeno” o anche “cosa in sé”. Ebbene il Vedanta ci mostra che questo oggetto può invece davvero venire colto dalla nostra intelligenza. Ma ciò avviene solo a determinate condizioni. In primo luogo noi dobbiamo infatti trovarci in quello stato (insieme mentale ed ontologico) che è appunto lo stato iper-cosciente dell’estasi.
Ed in secondo luogo noi dobbiamo ammettere che in questo caso non vi è affatto una conoscenza attuale del “noumeno”, ma invece solo una sua conoscenza persistentemente potenziale, ossia virtuale, e cioè mai totalmente raggiunta. E questa è una vera e propria non-conoscenza. Intanto però è esattamente nel contesto di questa non-conoscenza che l’Io assume tutta la sua pienezza non solo ontologica (quella di “vero” e “puro sé”) ma anche epistemologica – perché esso corrisponde perfettamente a quella fondamentale ed ultima Oggettualità che per il Vedanta è la “verità” ultima. Come vedremo più avanti essa è per la precisione la Materia-Sostanza-Forma dalla quale inizia ogni cosa; e quindi è ancora più convincentemente un’Oggettualità.
Eppure (del tutto sorprendentemente per noi occidentali) in questa condizione non vi è alcun contenuto conoscitivo. Il che avviene perché la coscienza davvero ultima (costituita dall’Io che coglie solo sé stesso) è occupata unicamente dal “sé” e da nient’altro. Quindi, cogliendo solo sé stesso, l’Io coglie un oggetto che non è affatto un oggetto, in quanto in verità è solo un soggetto. Ecco allora che la pienezza dello stato iper-cosciente non consiste in null’altro se non nella pienezza dell’atto auto-conoscitivo e nello stesso tempo inevitabilmente auto-cosciente. Ma l’auto-coscienza va qui evidentemente di pari passo con l’assenza di conoscenza. Ed infatti la “coscienza pura” (e quindi davvero ultima) è per il Vedanta proprio quella che è del tutto vuota di conoscenza. Non a caso qui si configura per il Vedanta un “oblio del sé” da parte dello stesso “sé”, che evidentemente è equivalente alla sua disconnessione totale dalla mente. Tale disconnessione dalla mente (da parte dell’Io) porta quindi a compimento la disconnessione dell’Io solo dai sensi, che è presente nel sonno con sogni. In questo stato infatti noi abbiamo delle vere e proprie percezioni, sebbene i nostri sensi esteriori siano del tutto inattivi.
In questo stato quindi il sé (ossia l’Io) è realmente incosciente. Ma è proprio come tale che il Vedanta lo considera come il “soggetto” nella sua pienezza.
Ebbene proprio partendo da tutto questo noi abbiamo la possibilità di riconoscere tutte le incompletezze, inconsistenze ed anche incoerenze dell’intero Idealismo occidentale. Ma in questo noi potremo realizzare anche che l’idealismo può davvero stare nella sua pienezza solo e soltanto quando esso è estremistico come quello orientale. E questo discorso critico potrà incentrarsi proprio su quelle due azioni dell’Io che abbiamo visto prima prendendo a modello l’idealismo husserliano.
Prima di entrare nel merito va però sottolineata quella che è la cosa più importante ed insieme più semplice. L’Idealismo orientale conferma infatti in pieno il tratto più estremistico dell’idealismo in assoluto, e cioè quello costituito dall’affermazione secondo la quale pienamente possibile una «coscienza senza mondo». Questo è esattamente ciò che accade nel sonno, ossia quando la mente è disconnessa dai sensi. Conseguentemente l’Idealismo orientale afferma più che mai che non appena io chiudo gli occhi il mondo esteriore svanisce completamente. Inoltre a questo punto a nulla mi vale stendere le mani per toccare le cose che continuano a circondarmi. Su questo mi esprimerò comunque alla fine.
Veniamo quindi ai punti principali della critica all’Idealismo occidentale partendo dal punto di vista dell’estremistico Idealismo orientale.
Io puro ed assoluto:
Abbiamo già commentato a sufficienza ciò che riguarda i concetti di «coscienza», «coscienza pura» e «coscienza ultima». Ed abbiamo anche già visto che è assolutamente ridicolo ritenere che l’Io psichico umano possa davvero costituire un Io assoluto o un Io puro. Ed abbiamo appena visto perché – infatti per il Vedanta l’unico vero Io che esista è quello divino, ossia il “puro sé”, ovvero il Brahman ed insieme la suprema Oggettualità. A tale proposito vi è però ancora qualcosa da dire. Infatti, in quello stato iper-cosciente prima commentato (nel quale noi siamo al massimo dell’auto-conoscenza ed auto-coscienza) l’Io è disconnesso non solo dal corpo ma anche dalla mente stessa, e quindi è «puro» come invece prima non poteva assolutamente essere. Prima insomma esso non era puro perché, costituendo appena la «coscienza» semplice (cioè quella mentale), non era altro che l’Io psichico, ed affatto l’Io trascendentale.
Esso insomma (pur con tutte le pretese che gli hanno consentito gli idealisti occidentali) non era altro che il banalissimo Io-esistente. È quindi evidente che l’Idealismo occidentale (specie quello husserliano) non ha prodotto altro che un’operazione di maquillage dell’ordinario e naturale Io psichico.
Vedremo più avanti (a proposito della costituzione) che nel Vedanta questo supremo Io è però in primo luogo un Soggetto-Oggetto. Ebbene, come tale esso è il supremo Conoscente solo nella misura in cui esso costituisce intanto la massima negazione della conoscenza. Infatti esso è l’”indeterminato”, e quindi è “ignoto ed inconoscibile” per eccellenza. Ma proprio come tale esso è intanto esattamente ciò che deve venire inevitabilmente “presupposto” in ogni conoscenza, ossia il vero e più autentico soggetto. Per la precisione sta proprio in esso la sorgente di quel soggetto che (nella sua forma più riduttiva) si trova per definizione davanti ad un oggetto – e peraltro proprio a questo deve la sua presunta natura. Rispetto a tutto ciò, quanto viene invece dopo e più in basso (in corrispondenza dell’Io soggettuale umano), può secondo il Vedanta venire considerato conoscenza esattamente come avviene anche entro la teoria filosofica occidentale della conoscenza. Qui però ci troviamo appena davanti all’«Io empirico» o anche «Io psichico».
Riduzione trascendentale (RT):
Lo stato iper-cosciente che abbiamo più volte commentato configura un totale “isolamento” dell’Io.
E qui ancora una volta l’Idealismo orientale intercetta il più estremistico Idealismo occidentale facendo emergere quel «solipsismo» che, entro il dibattito filosofico, era stato postulato solo come accusa, e cioè come costatazione detrattiva. Husserl si era infatti difeso accanitamente proprio contro l’accusa di solipsismo che fu rivolta al suo idealismo. Ma la ragione di ciò è davvero chiara solo tenendo presente l’Idealismo orientale – il solipsismo dell’Io rischiava infatti di configurare proprio una RT che finiva nel particolare e non invece nell’universale, e quindi non supportava affatto la verità oggettiva (in quanto sintesi inter-soggettiva di tutti i possibili punto di vista o giudizi). Ecco che la RT trova la sua pienezza ed anche la sua letteralità solo nell’Idealismo orientale. Solo qui, infatti, l’essere viene ricondotta ad un Io assoluto solo in quanto nucleare, nel quale pertanto l’essere stesso viene contratto (e fino al Nulla) invece di venire dilatato. Il problema principale della RT non appare essere dunque l’universalità (come presunto ultimo momento dell’atto di riduzione dell’essere alla verità) ma semmai invece la riduzione ad una radicale centralità nucleare (equivalente alla straordinaria concentrazione di essere) che di fatto è l’unica in grando di nullificare davvero l’essere nella sua illusoria molteplicità e relatività. Il problema principale della RT è insomma il suo alludere all’Uno come il luogo nel quale (attraverso la nullificazione di tutto il molteplice e relativo) non può che emergere quella che è la sola vera Realtà, ossia la Realtà trascendente. Del resto (come viene attestato da Radhakrishnan) questo fu esattamente quanto venne intuito da Platone e poi anche da Plotino – le cui visioni vanno considerate assolutamente sovrapponibili come invece pochi filosofi occidentali sono disposti ad ammettere [David J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London Oxford New York New Delhi Sydney 2014].
Va inoltre osservato anche che Bhattacharyya sottolinea che la fusione tra soggetto ed oggetto, che dovrebbe caratterizzare un Io assoluto e puro, avviene di fatto solo nello stato di estasi. E quindi è assolutamente impossibile che Hegel possa credibilmente attribuire al suo Io assoluto (concepito del tutto al di fuori di un’estremamente obiettiva scienza psicologico-metafisica come quella vedantica, e quindi come mera astrazione del pensiero) proprio questo carattere. In altre parole se l’Io puro di Husserl era il frutto di un abile maquillage, l’Io assoluto di Hegel fu il frutto di una vera e propria truffa filosofica.
Costituzione (CO):
Abbiamo già visto che la suprema Realtà (da noi colta solo nel sonno più avanzato) è per il Vedanta il “sé” come suprema Oggettualità. Ed in questo senso l’Io cessa davvero di essere appena un soggetto, divenendo invece l’Oggettualità suprema. Dato poi che essa è il Brahman stesso, può ben venire considerata come il Principio ed anche come la Forma autentica di tutte le cose. Solo essa insomma è il vero Io assoluto in possesso del potere di formazione dell’essere. E quindi tutte le “forme” ontologicamente inferiori ad essa (quelle che la filosofia occidentale è riuscita a concepire solo come entità puramente mentali, e quindi totalmente vuote di essere, ossia astratte «idee» che formano l’essere solo in quanto lo rendono conoscibile nel senso della risposta alla domanda «cos’è questo?») non sono per davvero delle forme.
Esse sono invece per il Vedanta appena le manifestazioni transitorie di un’unica originaria Sostanza-Materia che resta eternamente stabile, nel mentre da origine a tutte le forme possibili di essere – le quali insorgono solo per venire poi distrutte e tornare così al Fondamento che fa da loro sfondo e sostegno. Il Vedanta usa per questo una metafora formidabile, e cioè quella del mucchio di argilla come possibile causa di una sua possibile forma, il vaso d’argilla. A tale proposito viene infatti chiarito che la vera “causa” non è affatto il vaso né tanto meno il mucchio (ossia la cosiddetta “causa finale” di Aristotele), ma è invece proprio l’argilla. L’argilla è dunque la Sostanza-Materia che fa da Fondamento all’infinita evoluzione delle molteplici forme, dando così origine ora ad un vaso ora a tutt’altra cosa. Ecco allora che la forma è un’idea solo nella misura in cui essa venga considerata già di per sé come piena di essere, anzi coincidente con lo stesso Essere trascendente ed originario (l’argilla come idea guidante qualunque progetto formativo che trasformi il mucchio). La forma che sta invece al di sotto di questo stato dell’idea non è altro che una delle tante cose transitorie del mondo.
Ora, se si accoppia questa dottrina a quella dei “devata” − le molteplici idee o “sostanze” delle cose (l’oggettualità conoscibile più prossima a quella metafisica, il “noumeno”) −, e se si considera che tali entità procedono emanativamente dal Principio divino, noi ci troviamo in tal modo proprio davanti allo schema idealistico-occidentale della CO. Eppure essa assume qui un senso ed uno spessore molto diverso. Perché non procede affatto dalla soggettualità più alta (l’Io) verso l’oggettualità più infima (quella del caos mondano inintelligibile da ordinare nel renderlo intelligibile). Appare insomma evidente che la portata della CO è molto più ampia nell’Idealismo orientale. Ma il suo senso completamente diverso (il processo dalla suprema all’infima oggettualità) delinea intanto un orizzonte dottrinario ben più articolato e profondo. Infatti l’onto-metafisica vedantica non conosce altro che la Sostanza-Materia-Forma (quale unica realtà e suprema Oggettualità), la quale include poi in sé il soggetto-Io e l’oggetto-mondo. Cionondimeno questa Sostanza-Materia fondamentale, quale suprema Oggettualità, è e resta il soggetto per eccellenza, ossia una sorta di Soggetto-Oggetto.
Quindi (come abbiamo visto prima) tale entità corrisponde senz’altro anche al mondo ideale. Il quale non equivale però affatto al mondo mentale intra-soggettuale (l’idea come mera forma conoscitiva del «cos’è questo?»), ma si colloca invece molto prima di esso. L’idea, insomma, non equivale affatto al mondo ideale immanente, ma solo a quello trascendente, e quindi è del tutto pre-soggettuale. Così come è pre-soggettuale anche il supremo Soggetto-Oggetto del quale stiamo parlando. Ecco allora che il soggetto non è altro che una forma di manifestazione dell’idea-sostanza-materia, ed è pertanto ontologicamente del tutto pari in grado con l’oggetto esteriore. Eccoci insomma di nuovo davanti all’’Io-esistente colto nella sua solo riduttiva immanenza. Possiamo quindi ben dire che la Fenomenologia husserliana non ha affatto illustrato l’intero Essere, bensì solo il suo segmento ultimo (rappresentato dalla relazione soggetto-oggetto) nel quale poi non rientra affatto l’idea nella sua assolutezza, ossia l’Io puro. L’Io puro sta invece molto prima della coscienza. Ma nel Vedanta esso non è affatto un Dio ben delineato concettualmente, bensì è molo più l’Oggetto metafisico assoluto.
Intanto, comunque, in qualche modo la suprema Oggettualità quale Materia-Fondamento di ogni cosa (un’idea-sostanza-materia) è nel Vedanta anche il soggetto per eccellenza, ossia il sé come “puro soggetto”, ossia il Soggetto davvero nella sua pienezza ontologica, in quanto radicalmente pre-soggettuale e insieme pre-oggettuale. Esso è insomma quanto più pienamente esiste. E pertanto è solo questo l’Io-esistente concepito in maniera non immanente e riduttiva. E questo dunque il vero ”Io trascendentale”.
Pertanto solo ad esso può venire coerentemente attribuita la valenza di Io assoluto o Io puro quale ultimo termine della RT.
Epistemologia e/o ontologia:
Detto tutto questo, bisogna infine sottolineare quello che è uno dei tratti più fondamentali della visione vedantica, e cioè la strettissima ed estremamente coerente compenetrazione tra epistemologia ed ontologia.
Non bisogna dimenticare che questa dottrina si incentrò su un’autentica psicologia nello stesso tempo pratica, teorica e metafisico-contemplativa. Una disciplina che veniva costantemente praticata dagli yogi e che tendeva appunto al “samadhi”, ossia all’ultimissimo stadio di coscienza (iper-coscienza) nel quale si aveva la possibilità effettiva di cogliere la più vera Realtà. Questa psicologia scaturiva però intanto solo dalle verità rivelate nei testi sacri, e quindi era sostanzialmente appunto una metafisica contemplativa.
Inoltre era inevitabilmente anche un’onto-metafisica, dato che essa puntava alla comprensione profonda dell’essere (e del mondo esteriore in esso immerso). Tale psicologia metafisica, quindi, poteva senz’altro dare vita ad un’effettiva e rispettabilissima epistemologia, ossia ad una dottrina filosofica della conoscenza scientifica incentrata sul criterio della verità. Ma intanto non poteva in alcun modo concentrarsi unilateralmente sulla verità come qualcosa di necessariamente separato dall’essere. Quindi non poteva teorizzare in alcun modo una conoscenza rigorosamente «pura», e pertanto anch’essa unilaterale – cioè appunto una pura ed unilaterale epistemologia. Ed infatti nel Vedanta non a caso la verità emerge solo laddove la conoscenza diventa impura per eccellenza, ossia si rovescia addirittura nella non-conoscenza.
Questo è esattamente ciò che accade nell’estasi o “samadhi”, cioè nel sonno senza sogni.
Ebbene tutto questo significa allora che, se l’ontologia concepita dall’Idealismo occidentale mostra i chiari segni di un immenso sforzo intellettuale per tentare l’impossibile − e cioè per sovvertire quello che è l’assunto di fatto di ogni idealismo, ossia il principio della «coscienza senza mondo» −, tutto ciò non avviene assolutamente nell’Idealismo orientale semplicemente perché esso ebbe la capacità ed il coraggio di partire proprio da questo principio. Ed ebbe questa capacità e coraggio solo perché tali virtù vennero offerte ad esso dal Vedanta (cioè un pensiero basato sulla Rivelazione) ed inoltre dall’intera riflessione filosofico-metafisica che ad esso seguì (con vertice in Śankara) – una riflessione che non si tirò mai indietro davanti alla necessità di restare in linea con una mistica contemplativa, e con la relativa intensa prassi religiosa. Ecco allora che quanto riuscì facilissimamente all’Idealismo orientale (specie l’esporre una davvero ampia e coerente dottrina idealistica della costituzione della RT), riuscì invece malissimo all’Idealismo occidentale – costretto come fu ad arrabattarsi penosamente, arrampicandosi sugli specchi per fare in modo che l’ontologia alla quale si sentiva obbligato non sconfinasse in un realismo che avrebbe annullato rovinosamente tutte le premesse dalle esso partiva. E del resto nei fatti (tenendo presente quanto mostratoci dal Vedanta) l’Idealismo occidentale – proprio a causa del suo ostinato volersi concentrare soltanto su un’epistemologia dominante, la cui appendice è un’estremamente sobria e naturalistica teoria della conoscenza −, nel voler riassumere ogni essere ed ogni conoscenza entro la sola relazione soggetto-oggetto, condanna di fatto sé stesso proprio al realismo. Abbiamo visto infatti che in tal modo in fondo è esattamente l’oggetto (e non invece il soggetto) a prevalere ontologicamente e gnoseologicamente. Rispetto ad esso infatti il soggetto è solo passivo e perfino incosciente.
Inevitabilmente quindi questo penoso quanto improduttivo sforzo doveva andare di pari passo con la tenace postulazione di una totale astrattezza della verità. Mentre invece abbiamo visto che nel Vedanta la verità sta al suo vertice (solo tendenzialmente astratto) proprio laddove (in vari modi) l’Essere raggiunge intanto il suo culmine. Proprio per questo, quindi, il Vedanta riesce perfettamente nello scopo di postulare una «mentalità» dell’essere senza intanto in alcun modo sfociare in un epistemologismo unilaterale.
Del resto, laddove quest’ultimo comunque si profila nella dottrina vedantica, ciò avviene nella chiara consapevolezza che si tratta di un livello solo inferiore della conoscenza. Mi riferisco alla riflessione sulla relazione esistente tra “devata” e “loka”, cioè tra oggettualità assoluta trascendente ed oggettualità relativa immanente. L’ammissione di quest’ultima comporta infatti anche l’ammissione di una necessaria «localizzazione» dell’idea trascendente – nel senso della determinazione e fissazione a circostanze immanenti. Ebbene ciò configura un livello corporeo-spaziale-materiale di realtà che è senz’altro inintelligibile (come concepito anche dall’Idealismo occidentale). Ma non lo è affatto in quanto attenda ancora l’azione ordinatrice di intelligibilizzazione da parte dell’Io cosciente-conoscente. Lo è invece semplicemente perché tale livello di essere è e resta irrimediabilmente inintelligibile, e quindi è e resta molteplice e caotico. Tutto ciò corrisponde del resto esattamente a quella divisione soggetto-oggetto (della cui natura e delle cui conseguenze abbiamo parlato) con la quale effettivamente la pura epistemologia vige incontrastata. In questo senso dunque l’Idealismo occidentale (sia con la CO che con la RT) ha espresso immense ambizioni che però erano destinate a venire miserevolmente deluse. Ed inoltre ha costruito un edificio dottrinario estremamente ingombrante (nella sua ambizione) che in verità non aveva alcuna ragion d’essere.
A ciò bisogna aggiungere ancora che, laddove Bhattacharyya ci parla della sicuramente esistita logica vedantica (scienza filosofica dotata della stessa potenza argomentativa di quella occidentale), l’Autore ci mostra come i vari strumenti della logica vedantica non siano stati in fondo altro che una forma di contemplazione della Verità dal basso. Qui insomma si rinunciava in partenza a qualunque pretesa di cogliere la verità direttamente. Cosa che è invece veniva ritenuta possibile solo in quei supremi stati di essere che sfuggono anche completamente alla conoscenza ed all’epistemologia come teoria della conoscenza. In parole più semplici, insomma, l’epistemologia dell’Idealismo occidentale ebbe quella deferente umiltà tutta religiosa che invece l’epistemologia dell’Idealismo occidentale non volle né seppe mai avere.
Detto tutto questo, appare allora chiaro il motivo delle così tante insufficienze dell’Idealismo occidentale. Esso non si riposava affatto sulle Verità rivelate, anzi le aveva da tempo gettate dietro di sé con disprezzo.
E quindi la sua riflessione sui livelli più alti dell’essere (il Trascendente) non poggiava affatto su una metafisica. Ma come abbiamo visto solo la metafisica può offrire alla riflessione sul Trascendente quelle ampiezza, profondità, complessità e spessore, che sono capaci di restare nello stesso tempo semplicità tutta contemplativa, e quindi sono capaci di evitare mastodontici sistemi filosofici titanicamente forgiati dal nulla (come quelli di Hegel e Husserl) nei quali finisce per dominare solo l’inutile e vana complessità del vanaglorioso ingegno umano.
Con ciò mi sembra che sia stato chiarito a sufficienza perché l’Idealismo orientale è decisamente superiore a quello occidentale. Resta però il problema rappresentato dal fatto che esso è effettivamente molto estremistico. Esso insomma davvero sfida la nostra intelligenza nel volerci convincere che la vera Realtà sarebbe quella che a noi meno sembra tale, ossia quella del sogno. Ma oltre a ciò l’osservatore occidentale si pone a tale proposito una domanda ancora più provocatoria: − «Sarà mai possibile che, per poter cogliere la vera Realtà, noi dobbiamo passare il nostro tempo dormendo?». La domanda è davvero tremendamente provocatoria, almeno dal punto di vista specificamente occidentale. Essa peraltro rischia di giungere a mettere in dubbio perfino l’oggettiva verità delle conoscenze esposte nella psicologia metafisica vedantica. Pertanto a questa domanda non si può rispondere affrontandola frontalmente. Bisogna insomma ammettere che la dottrina vedantica della Realtà è e resta molto provocatoria per noi occidentali. E bisogna anche ammettere che, almeno da questo punto di vista, essa presta il fianco a critiche davvero demolitorie.
Tuttavia, nello stesso tempo, noi dobbiamo porci anche un’altra domanda: − «Siamo davvero certi che sia inappropriata (e perfino inutile) la pur così radicalmente posta questione della vera Realtà?».
Ed allora siamo obbligati a constatare che, se così fosse, essa non sarebbe stata posta anche dallo stesso pensiero occidentale. Ciò è testimoniato proprio da tutto quanto abbiamo detto circa la disputa tra idealismo e realismo. Infatti il primo poneva esattamente la questione del se davvero noi possiamo considerare reale ciò che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi ed a portata di mano. E questo comportava una ben precisa accusa rivolta alle effettive capacità di conoscenza offerteci dai sensi. Orbene, una volta posto (come afferma il pensiero vedantico) che la massima lontananza dall’illusorietà dei sensi sta proprio in quello stato mentale in cui essi non giocano alcun ruolo (ossia quello del sonno senza sogni, o estasi, o “samadhi”), non può né deve affatto stupirci il fatto che solo dormendo noi riusciamo a cogliere la vera Realtà. Del resto nemmeno il Vedanta osa considerare quest’ultima come qualcosa di davvero obiettivo – com’è effettivamente il mondo davanti al quale si trova il soggetto. Essa viene invece intesa come un mondo che non sta affatto in discontinuità con il soggetto, fino al punto di essere il prodotto della sua libera attività creativa. La vera Realtà appare dunque essere quella in cui il «reale oggettivo» non esercita alcuna coercizione restrittiva sull’«ideale soggettivo».
E così veniamo alla questione estremamente pratica ed esistenziale alla quale ho accennato all’inizio a proposito della questione idealismo / realismo. La vera Realtà propostaci dall’Idealismo vedantico è insomma quella in cui noi non dobbiamo in alcun modo temere che la realtà venga spietatamente a smentire le nostre speranzose aspettative. Essa è quindi una Realtà nella quale il nostro Spirito può spaziare senza alcuna limitazione, e certo in questo di poter davvero realizzare tutto ciò che gli sembra opportuno. Ma tutto ciò assume ancora più spessore se teniamo conto del fatto che – come dice Coomaraswamy [Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra… cit., 21 p. 374-382] – la psicologia vedantica non è affatto empirica (come invece potrebbe sembrare) bensì è metafisica e ancora più precisamente è religioso-trascendente. Essa insomma non riguarda affatto l’Io umano, ma invece semmai soltanto l’Io divino che pervade continuamente l’Io umano, conferendogli così tutti gli straordinari poteri che lo caratterizzano in quanto Spirito. E questi poteri sono propriamente onto-creativi – come viene testimoniato proprio dallo stesso Idealismo occidentale (per mezzo dei concetti di CO e RT). L’Io così concepito non è altro che il “sé” in quanto supremo Vedente o Osservatore del quale ci parla anche Bhattacharyya. Del resto questa concezione del potere creativo (di cui è in possesso la nostra mente in sogno) è stata esposta anche in Occidente dal pensatore tedesco noto con lo pseudonimo di Bô yin Râ [Bô yin Râ, Da Buch vom Jenseits, Kober’sche Verlagsbuchhandlung, Basel Leipzig 1929].
Dunque, se il conoscere la vera Realtà equivale al crearla liberamente da parte del nostro Io, ciò non significa altro che, quando giungiamo a questo potere, noi non abbiamo fatto altro che unirci all’Io divino, ossia a Dio stesso. E nessun occidentale oserebbe contestare che tra gli attributi di Dio vi è quello di essere creatore. Pertanto probabilmente è proprio questo il senso della questione della vera Realtà, così come viene posta dall’Idealismo vedantico. È vero che esso ci invita ad immergerci nel sonno per ritrovare ciò che ha più valore (oltre l’immediato esistere). Ma non ci invita a questo per estraniarci dall’azione alla quale siamo certamente obbligati ad attendere nel mondo (specie se essa è etica). Ci invita invece a questo solo e soltanto per ricordarci che noi non possiamo vivere senza tentare continuamente di entrare in intimo e reale contatto con Dio. Ed è dunque nel contesto di questo contatto che ci verrà anche rivelato cosa significa esattamente il nostro «esistere», e quale valore effettivo esso abbia.
Ecco insomma che la dottrina vedantica della vera Realtà non ci invita ad altro che all’atto davvero vitale della preghiera, per mezzo del quale noi cerchiamo Dio e nello stesso tempo cerchiamo una risposta alla drammatica domanda circa il senso della nostra esistenza. Inoltre in quale luogo dell’essere, se non in Dio, noi possiamo anche solo pensare che «tutti (dico tutti!) in nostri desideri possono trovare realizzazione»? Ebbene all’ateo più che a chiunque altro risulterà evidente che, se ciò non avviene al cospetto di Dio, non sarà certo al cospetto del mondo che questo potrà avvenire. Infine in qualche modo in ogni luogo del mondo l’uomo ha intuito che in sonno ci viene incontro Dio stesso. Lo Zohar ci dice questo usando concetti ed immagini davvero bellissimi, nel sostenere che “il Santo” comunica continuamente con gli uomini in sogno, e che inoltre l’Eden non è altro che la nostra anima (e mente) quale Giardino di Delizie nel quale Dio la notte si compiace di discendere [Giulio Busi (a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 39-42, 90-93, 115-116].
Insomma, al netto di tutto ciò che abbiamo detto finora, è evidente che un idealismo può davvero essere all’altezza delle sue immense promesse, solo e soltanto se esso è estremistico nel modo specifico del Vedanta, ossia come Idealismo metafisico-religioso.
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