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Archive for ottobre 2022

(ATTENZIONE: questo articolo è stato accettato per la prossima pubblicazione su una rivista di filosofia; per cui (in linea con le vigenti leggi sul copyright) si diffida dalla sua riproduzione integrale e dalla sua citazione senza menzionarne l’autore)

Introduzione
Nikolaj Berdjaev, in tutti i suoi libri, ci suggerisce una prospettiva religiosa del tutto nuova (e di certo in parte rivoluzionaria), nel contesto della quale finiscono per sembrare estremamente inadeguate diverse idee e prassi esemplari che usualmente fanno da guida ai fedeli cristiani nell’affrontare l’esperienza religiosa in tutti i suoi aspetti (individuali ed ecclesiali), ma soprattutto nel contesto della personale esperienza della Presenza divina. Ci riferiamo comunque in particolare alla preghiera, ed ancora più particolare alla cosiddetta preghiera «di richiesta», ossia quella preghiera che invoca il concreto aiuto divino in situazioni esistenziali così difficili da essere ai limiti dell’impossibile ed esigere prestazioni quasi sovrumane (specialmente in quelle così difficili da non autorizzare, almeno sul piano naturale, alcuna forma di speranza). Preghiera che intanto oggi viene guardata con estremo sospetto da predicatori, apologeti e teologi cristiani. E peraltro senza alcuna eccezione.
Va detto comunque che il pensatore si riferisce qui unicamente alla religione cristiana. E quindi su questa linea rimarremo anche noi nel corso nella nostra indagine.
Entreremo più avanti nel merito delle parti del suo pensiero che fanno direttamente riferimento all’esperienza religiosa, oppure dalle quali sono deducibili elementi relativi a quest’ultima. Ma comunque, volendo fare una larga sintesi preliminare della presa di posizione berdjaeviana, si può dire che essa si rifiuta di concedere qualunque valore ai tradizionali valori dell’obbedienza, della contrizione e della mortificazione personale, in quanto a loro volta secondo lui basati su una concezione dell’esperienza religiosa che guarda unicamente al Peccato e alla Caduta (e quindi non è affatto attiva, dato che essa si limita a reagire passivamente a tali elementi). Ma proprio in tal modo l’esperienza religiosa viene vincolata alla realtà negativa di un mondo e di un uomo che vengono considerati decaduti e irrimediabilmente corrotti (in quanto peccaminosi), e che pertanto, così come sono, non hanno ovviamente la benché minima chance né di entrare in contatto con Dio né di chiedergli alcunché.
Egli prende intanto atto del fatto che, nella prospettiva della Redenzione, a tutto questo viene previsto il potente rimedio della Grazia o Misericordia divina. Ma intanto registra anche il fatto che tale atteggiamento corrisponde più fondamentalmente e realisticamente ad un’insana ossessione per la sola salvezza. La quale poi, nonostante il suo porsi entro la logica della Redenzione umano-mondana (ad opera di Cristo), tende a tradursi di fatto in un mero egocentrismo, che è inoltre malinconico, sfiduciato e perfino terrorizzato (e che poi ha sempre trovato il suo culmine nell’ascetismo monastico); entro il quale l’uomo persegue meno che mai l’attiva e produttiva presa di contatto con la Presenza divina. Qui infatti la preoccupazione e passione che domina nell’uomo non è affatto quella di entrare in relazione con Dio, ma invece unicamente di salvare sé stesso dalle terrificanti conseguenze del Peccato. Si tratta quindi di un complessivo atteggiamento negativo e tutto remissivo (specie in quanto passivo), che si presenta a sua volta come attitudine al pessimismo, alla disperazione preoccupata, al devastante senso di colpa e di indegnità (il quale in principio rende impossibile che si venga ascoltati da Dio), all’incapacità di coltivare alcuna forma speranza, ed insomma alla totale oscurità dello spirito. Più in generale egli definisce una simile presa di posizione come una passiva e sterile “adequazione alla necessità” che è propria del mondo naturale [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018I p. 48-82, IV p. 153-156, IV p. 161-164, VII p. 206-209] – adequazione che coinvolge a sua volta con la religione, anche le stesse filosofia e scienza –, la quale comporta poi necessariamente l’accettazione passiva delle cose come sono nella loro forma più negativa ed irreversibile.
Qui stiamo insomma parlando di quel mondo naturale con le sue ferree e spietate leggi entro le quali domina totalmente l’indifferente Caso (se non addirittura una sorta di impietoso karma punitivo), ed in assenza totale, quindi, di etica, di giustizia e soprattutto di amore. Ma inoltre, per di più, nel mondo così retto domina anche totalmente la legge del più forte, ossia la legge della salvezza raggiungibile unicamente per la via della sopraffazione dell’altro (secondo la spietata logica del «mors tua, vita mea!»). È dunque del tutto ovvio che, su queste basi, Berdjaev affermi che il Cristianesimo ha fallito miseramente nell’essere una “religione dell’amore” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 307-310].
Ebbene, sulla base di tutto ciò ci sembra che non si possa concepire in alcun modo un’esperienza religiosa cristiana entro la quale si possano supporre alcuni pregevoli aspetti in particolare – che essa ponga una diretta relazione con quella che è la «positività» dell’essere per eccellenza, e cioè Dio ed in particolare il Dio vivo immanente (Gesù Cristo e/o lo Spirito divino); che essa procuri gioia o almeno una profonda e rasserenante consolazione; e che infine essa procuri soprattutto una reale speranza. Speranza che, per noi esseri storici e di carne, non può non coinvolgere anche aspetti estremamente concreti (sia pure nella complessiva esperienza di fede che pone l’obiettivo finale e più alto in quella vita ultraterrena che è senz’altro integralmente spirituale). Ma sta di fatto che proprio per la speranza non può esservi assolutamente alcun posto in un’esperienza religiosa che sia concepita negativamente al modo che abbiamo visto. Specie una speranza nei suoi aspetti più concreti. Il che rende necessariamente del tutto retorica (se non menzognera e perfino truffaldina) quella che usualmente viene concepita come «gioia cristiana».
Ebbene Berdjaev sostiene che tale complessiva obbedienza passiva all’irremovibile e gelida necessità del mondo proibisca assolutamente qualunque forma e grado di atteggiamento creativo. Ed a questo punto possiamo allora assumere che, nel contesto dell’esperienza religiosa (specie nelle forme in cui essa viene qui da noi esaminata), la creatività possa venire vista proprio come l’esatto contrario dell’atteggiamento che abbiamo appena descritto. Pariamo cioè di un atteggiamento religioso positivo (soprattutto in quanto attivo ed assertivo) che comporti l’attitudine all’ottimismo, alla serenità d’animo, alla fiducia, alla riconciliazione con sé stessi unita al senso del proprio valore (che faccia sentire degni di venire ascoltati da Dio), alla capacità di forgiare letteralmente potenti speranze, ed insomma alla totale luminosità dello spirito. Tutte attitudini queste che in questo caso si sposano con la «gioia cristiana» in una maniera sì autentica e realistica: in quanto essa è del tutto al riparo dalle ombre inquietanti gettate su di essa da qualunque mera e vuota retorica. In questo modo infatti la fede cristiana diviene realmente una vera e propria entusiastica fede nella Vita. Ed in tal modo la presenza immanente e storica nel mondo da parte di Cristo come Spirito Santo diviene qualcosa in cui si può credere senza alcuna difficoltà; ed alla quale quindi ci si può affidare con la massima serenità.
Per esprimere tutto in una formula sintetica (nel proporre la quale noi ci ispiriamo agli insegnamenti del nostro compianto Padre spirituale Prof. e Sac. Vincenzo Romano) diremmo che ciò comporta l’assoluta impossibilità di rivolgersi a Dio dicendo: − «Padre abbi pietà di me». Infatti è impossibile e perfino ridicolo che ad un padre amoroso si chieda pietà. Si può di certo chiedere a Lui perdono per i propri errori, peccati e nefandezze varie. Ma intanto a tale richiesta un padre amoroso non risponderà mai con la pietà; laddove la pietà si prova solo verso colui che è oggettivamente disprezzabile. Risponderà invece semmai con la gioia entusiasta e pienamente soddisfatta, con la simpatia e perfino con l’orgoglio (e con il travolgente ed attivo affetto collegato a tali emozioni) di colui che vede il figlio tornare sulla retta via e così tornare essere quello che era sempre stato. Questo padre infatti era sempre stato certissimo in cuor suo dell’incontrovertibile dignità e valore del proprio figlio, e ciò perfino ad onta di qualunque cosa negativa gli fosse accaduta o lui avesse fatta. E di tutto questo troviamo un’eco perfettamente corrispondente nella Parabola del Figliuol prodigo – entro la quale (ancora una volta in contraddizione con la dominante retorica dell’esperienza religiosa) l’aspetto primario non è affatto il pentimento, ma invece l’amore incondizionato che il Padre aveva sempre provato per lui, che è esattamente l’atteggiamento con il quale lo riaccoglie in casa.
Dunque un’esperienza religiosa che in qualunque modo si conformi a questa così insana e disperata richiesta di pietà (e tale è certamente quella dominata totalmente dalla consapevolezza del peccato e dall’ossessione per la salvezza, con l’aggravante dell’inevitabile umiliante obbedienza cieca alla ferrea necessità del mondo, ossia alle sue spietate leggi naturali) non può essere né autentica né credibile né realistica. E ciò appunto per il semplice fatto che essa non si rivolge affatto ad un Padre. Si rivolge invece semmai a qualcun altro, divinità o meno che sia.
Ma allora, se le cose stanno davvero in questo modo, tutto può essere proibito entro l’esperienza religiosa, tranne il fatto di chiedere al Padre ciò che nessun padre negherebbe mai al proprio figlio, ossia il suo aiuto. Ed un aiuto che non può essere tale se non è concreto, cioè tangibile. Infatti entro l’esperienza religiosa negativamente connotata (che abbiamo descritto prima) tutto si può fare tranne che chiedere aiuto. Il che trova nuovamente riscontro nel passo evangelico nel quale viene affermato che mai il Padre darebbe ai propri figli pietre, e non pane; oltre che nell’affermazione evangelica che invita espressamente al “chiedete e vi sarà dato”. Che peraltro proprio Edith Stein menziona espressamente [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988I p. 59-66]. E anticipiamo qui che tale affermazione rientra in quelle sorprendenti oscillazioni del discorso steiniano delle quali parleremo poi analizzando i suoi testi.
Dobbiamo comunque precisare che da ora in poi parleremo a tale proposito dell’aiuto in quanto «aiuto divino». Ma, ancora una volta, di quale genere e grado di aiuto divino si tratta entro la usuale retorica omiletico-teologica? E con questa domanda veniamo al nucleo più intimo dell’intera problematica che stiamo discutendo. Si tratta forse di un aiuto concreto e tangibile, ossia un aiuto nel quale Dio – per dirlo proprio con le parole di Edith Stein nè “ll Mistero del Natale” (testo che poi riprenderemo in esame) – provvede alle nostre necessità esistenziali concrete (ma ovviamente solo a quelle davvero urgenti, gravi e senza possibilità reale di soluzione) per mezzo di vere e proprie soluzioni pratiche? Ebbene no! Purtroppo no! Infatti la più tradizionale e canonica definizione dell’esperienza religiosa (smascherando così sé stessa come una mera e vuota retorica) afferma invece che sì l’aiuto divino deve venire considerato più che certo (tanto che bisogna restare incrollabilmente certi che «Dio non ci abbandona mai!»), ma intanto deve venire considerato nel modo riduttivo e pochissimo credibile che segue: − 1) aiuto in effetti del tutto invisibile e soprattutto intangibile (addirittura fino al punto che esso potrebbe non manifestarsi mai, ossia solo dopo che noi abbiamo già disincarnato, e quindi di fatto dopo aver passato l’intera nostra vita a soffrire senza mai aver ricevuto il benché minimo soccorso divino); 2) aiuto inteso come un agire di Dio «sempre-e-solo-per-il-nostro-bene-qualunque-cosa-accada-e-qualunque-forma-assuma» (corrispondente poi all’esortazione di Teresa d’Avila ad accettare qualunque evento come «proveniente dalla Mano di Dio», e con per di più la terribile minaccia che, se non lo facciamo, “Dio ci abbandonerà ad ogni passo”; 3) aiuto nella forma dello Spirito Santo stesso, che agisce però in tempi immensamente lunghi, e quindi produrrà dei frutti solo dopo una sofferenza che intanto ci porterà certamente allo sfinimento o alla distruzione della nostra sostanza umana (e probabilmente anche animico-spirituale). Ma le spietate finali conclusioni di questa serie negazioni le tira proprio Edith Stein dice senza peli sulla lingua che ha decisamente “fatto male i suoi conti” chi crede (ossia si illude) che Dio ci aiuti provvedendo ai nostri bisogni concreti. Insomma una negazione più frontale ed esplicita dell’auto divino concreto non ci sarebbe potuta essere.
E si tenga conto anche del fatto che l’inquietante affermazione di Teresa è stata tratta dal suo “Il castello interiore”, testo che Edith Stein tradusse, amò e considerò inoltre punto di riferimento fondamentale della sua prassi mistica [Edith Stein, Die Seelenburg, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, Anhang p. 501-525]
Più avanti esporremo comunque le nostre obiezioni a tale retorica. Ma intanto va preso atto del fatto che essa, nel negare esplicitamente (sebbene per mezzo di sottili argomenti retorici) l’aiuto divino concreto, di fatto in definitiva lo nega in assoluto ed alla radice. Non a caso tutto ciò rientra poi nell’idea (per la quale viene preso spessissimo ad esempio emblematico Giobbe) secondo la quale sventura, dolore e problemi senza via di uscita né soluzione, non sarebbero altro che l’esame al quale Dio ci sottopone per mettere alla prova la nostra fede in una sua Presenza inderogabilmente invisibile. Il che configura poi letteralmente un Dio che ci usa letteralmente violenza, sebbene (come si sostiene) «solo-a-fin-di-bene». Il che di fatto ci invita ad aver fede in un Dio della cui esistenza non potremo mai e poi mai essere minimamente certi.
E questo è certamente l’inquietante “Deus absconditus” del quale la più raffinata mistica cristiana ha sempre parlato (vedi Agostino e Cusano). Ma, almeno a partire dal nostro ristretto e debole punto di vista umano (per quanto possiamo essere convinti uomini di fede o almeno per quanto ci sforziamo di esserlo in tutti i modi possibili), questo rischia fortemente di equivalere all’idea che Dio non esista affatto. Del resto, se non fosse così, Gesù non avrebbe operato quella serie infinita di miracoli che evidentemente servivano lo scopo di sostenere la fede nell’esistenza di Dio da parte di uomini di carne che sono costantemente esposti alle ferocissime evidenze imposte dal mondo naturale. Naturalmente anche questo discorso viene sempre rovesciato in termini sostanzialmente retorici. Per cui si sostiene che il miracolo non supporta la fede, ma invece, al contrario, esso proviene dalla fede. E ciò può essere anche vero. Ma intanto, nel caso che non sia nemmeno pensabile un aiuto divino concreto (quello che però, entro la prassi evangelica, guariva letteralmente paralitici, lebbrosi, muti, sordi, pazzi etc.), anche la fede più fervida e cieca non avrà la benché minima speranza di produrre alcun frutto tangibile.
Del resto l’evidente contraddittorietà e scarsa autenticità di tutta questa retorica − esposta peraltro ultimamente del tutto indifesa all’attacco possente di quell’agguerritissima «scienza cognitiva» (in sé in principio atea), che ormai spadroneggia nelle dispute teologiche, esigendo inflessibilmente di venire tenuta in debito conto – ha finito per imporsi con forza ai moderni teologi, spingendoli in tal modo ad elaborare dottrine praticamente atee ed agnostiche dell’esperienza religiosa (entro le quali si sono ormai sviluppate le famose dottrine che sostengono il cosiddetto “post-teismo” ed inoltre la totale storicità della figura di Gesù, ossia la sua non umano-divinità). E così, senza volere entrare nel merito questo immenso campo di discussione – del quale ho molto parzialmente discusso in un mio precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >] −, i teologi oggi semplicemente considerano insostenibile ed anche ridicola l’idea di un aiuto divino concreto. E ciò soprattutto sulla base dell’idea secondo la quale, molto in generale, sarebbe razionalmente impensabile (anche nel contesto di dottrine religiose) l’intervento del Sovrannaturale (Trascendente) nel naturale (immanente). In altre parole secondo questi teologi non può essere attribuibile all’insegnamento di Cristo alcuna intenzione di trasfigurare il mondo (storico, naturale ed immanente) così com’è. Si assume pertanto che Cristo avrebbe avuto fin dall’inizio l’intenzione di lasciare il mondo così com’è dopo la Sua venuta, in modo tale che l’esperienza religiosa cristiana sarebbe destinata a muoversi su un piano totalmente diverso da quello storico e naturale. Laddove a questo punto diviene assolutamente incomprensibile su quale piano l’esperienza religiosa cristiana effettivamente si muova. Ed ecco che a questo punto il campo resta aperto alle più strampalate ipotesi e teorie dei moderni teologi, ormai trafitti a morte e sconfitti in partenza dall’implacabile logica analitica delle scienze cognitive (si veda per questo il nostro già citato articolo sul moderno realismo filosofico). Di conseguenza, se pure fosse possibile concepire una sorta di trasfigurazione del mondo, essa dovrebbe venire intesa in maniera assolutamente metaforica ed affatto letterale, ossia nei termini di quella pura e non pragmatica etica religiosa che la Chiesa rappresenta in primo luogo nell’osservanza del primario comandamento dell’amore dovuto al prossimo (ossia la carità).
Il che implica quindi una dimensione unicamente collettiva, comunitaria e sociale dell’esperienza religiosa, escludendo così da essa qualunque dimensione singolare. E non a caso l’ormai dominante dottrina della Chiesa si muove esattamente su questo registro – affermando in tal modo (sebbene scaltramente negandolo) che la Chiesa di Cristo in fondo altro non è se non un’immanente istituzione sociale.
Eppure va già qui fatto notare che Berdjaev invece vede come centrale nel profondo rinnovamento del Cristianesimo (da lui auspicato) proprio la decisione alla trasfigurazione reale del mondo. Ed inoltre precisa in più sedi che la “comunione” spirituale (che dovrebbe essere il frutto di tale trasfigurazione) è tutt’altro che mera socialità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-75, V p. 172-175, XI p. 318-326, XII p. 331-346]. Ma entreremo più avanti nel merito di questo importante aspetto. Inoltre parlano contro questo le predicazioni di alcuni veri e propri espliciti sostenitori dell’aiuto divino concreto, come ad esempio il napoletano Don Dolindo Ruotolo (al cui fondamentale aiuto ricorreremo alla fine).
Ed ecco quindi che, nel contesto dell’omiletica cristiana ed ancor più della relativa prassi di guida spirituale all’esistenza, si apre una frattura che appare essere davvero molto grave. Soprattutto perché essa disorienta totalmente il credente. In particolare si delineano a fronte dell’esperienza religiosa sostanzialmente due prese di posizioni canoniche: − 1) quella della retorica religiosa prima descritta, che continua ad affermare l’aiuto divino nel mentre di fatto lo nega e peraltro con molta forza (e tale presa di posizione include predicatori ed apologeti, con l’aggiunta anche delle prese di posizione, dirette o indirette, di monaci e santi di ieri e di oggi); 2) quelle della teologia, che spazza via totalmente tale intera retorica per mezzo di argomentazioni razionalistiche spesso sconfinanti nell’ateismo agnostico e nel totale immanentismo anti-spiritualista. Ma − lo ripeto − a queste due prese di posizione canoniche si contrappongono poi le affermazioni di predicatori (tra i quali anche santi o religiosi in odore di santità), i quali senza alcuna inibizione parlano esplicitamente di un aiuto divino concreto. E tra costoro spicca senz’altro Don Dolindo Ruotolo.
Detto questo, la posizione assunta da Edith Stein in “Il mistero del Natale” appare essere schierata decisamente dal lato della prima posizione canonica, ossia quella che è sostanzialmente retorica e nega con forza l’aiuto divino concreto.
Questo è il quadro generale nel quale si muove la nostra indagine. Ora passeremo ad un’analisi testuale che ci permetterà di allargare queste considerazioni e magari anche tentare di ottenere forse perfino qualche certezza e risposta.
Dobbiamo comunque ancora precisare che, aldilà dei testi di Berdjaev (che sono emblematici per le riflessioni fondamentali che contengono), la scelta degli altri due testi (di Edith Stein e di Getrud von Le Fort) va considerata in qualche modo arbitraria. Dato che esse rappresentano un’apologetica cristiana la cui estensione è sconfinata, e che quindi non è in alcun modo possibile prendere in considerazione integralmente in questa sede. Infine dobbiamo aggiungere che di fatto di Berdjaev analizzeremo qui “Il senso della creazione” (SC) ed alcuni brevi passi di “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], dato che invece “Das Ich und die Welt der Objekte” (DIWO) si occupa dell’esperienza religiosa solo nei termini di una possibile nuova filosofia religiosa. E questo richiederebbe un’altra trattazione a parte, anche se abbiamo già affrontato il tema abbastanza ampiamente nel secondo dei due articoli che abbiamo dedicato alle relazioni tra il pensiero di Berdjaev e quello di Edith Stein [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/%5D.

I- L’aiuto divino sullo sfondo dell’esperienza religiosa in generale secondo Berdjaev.
Berdjaev – entro una parte di suo “Il senso della creazione” (SC) che è un saggio dal titolo molto significativo ed inoltre è dedicato alla memoria di Solov’ëv (grande sostenitore della riforma religiosa in senso anti-immanentista), cioè “Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo” − afferma esplicitamente che la prospettiva unilaterale della salvezza si oppone inconciliabilmente a quella della creatività.
E ciò ha come conseguenza che la prima è in realtà tutta mondana e quindi rende puramente metaforica l’esperienza religiosa proprio in quanto rende non attuale la presenza divina e quindi anche l’aiuto divino, ossia esclude radicalmente l’incidere del Sovrannaturale nel mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1-5 p. 3-30]. In particolare, nel porre appena la possibilità di “opere” mondane per definizione non santificate, in tal modo viene affermato un insuperabile dualismo tra spirito e mondo; specie nel senso che la prospettiva della salvezza apparterrebbe solo al primo ed affatto al secondo. In altre parole (come abbiamo già detto) la dimensione divino-spirituale si presenterebbe come qualcosa che con il mondo non ha assolutamente nulla a che fare. Intanto, comunque, va per lui preso atto del fatto che la mistica cristiana (unitamente ai santi stessi) ha invece sempre postulato esplicitamente l’unione a Dio nell’amore, ossia di fatto la piena possibilità dell’esperienza personale di Dio. E questo significa per il pensatore russo che il tradizionale discorso sulla salvezza è in realtà appena una mistificazione del vero cammino religioso (mistificazione tutta incentrata sulla punizione e non invece sull’amore divino) ed anche una sua profonda corruzione. A tale proposito egli precisa che la prospettiva tradizionalmente cristiana della salvezza non è altro che un “giuridismo” dell’esperienza religiosa (a sua volta erede pieno della religione ebraica in quanto Legge). E tale giuridismo trova peraltro espressione nell’intendimento dell’esperienza religiosa appena come formale vita ecclesiale incentrata nel vissuto dei Sacramenti, con l’esclusione pertanto di qualunque vissuto personale della Presenza divina. E con ciò possiamo certamente intendere l’intervento del Sovrannaturale divino nella vita personale, che a sua volta può poi venire considerato coincidente con il concreto aiuto divino.
In ogni caso tutto ciò comporta anche una serie di altri aspetti che sono secondari rispetto al nostro tema, ma intanto possono contribuire non poco a chiarirlo.
Per Berdjaev infatti la prospettiva della salvezza esprime la totale non-gratuità dell’amore verso Dio, che comporta a sua volta una rinuncia che si aspetta un tornaconto. Al contrario una rinuncia senza aspettativa di tornaconto sembra consistere proprio in quella creatività che trasfigura il mondo. Il che intanto, però, può avvenire solo al prezzo del proprio dolore come espiazione. In altre parole la nuova concezione dell’esperienza religiosa (una volta sottratta all’unilaterale ossessione egocentrica per la salvezza) non esclude affatto l’ammissione della necessità del dolore entro di essa. Anzi addirittura la esige. Ma intanto ciò non esclude affatto la dimensione della relazione personale con Dio da parte del credente. E qui può essere intravista la postulazione di un aiuto divino che si manifesta in particolare nell’affidamento all’uomo singolo di un mandato che consiste nella trasfigurazione del mondo. Non a caso Berdjaev parla continuamente della creatività umana come continuazione della creazione divina [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 135-136, V p. 175-179, V p. 182-185 X p. 303-305].
Quindi il mondo così trasfigurato non sarà più assolutamente quello al quale l’usuale retorica della salvezza (e dell’inautentico aiuto divino) esige che noi ci adeguiamo senza pretendere da esso alcunché di buono, giusto ed amorevole. Questo significa pertanto che l’ammissione dell’aiuto divino non esclude affatto l’accettazione virile e coraggiosa del dolore connesso all’esistere nel mondo in quanto cristiani. Ed il nucleo di tale attitudine sembra essere un amore dell’uomo verso Dio che non esige alcun tornaconto. Pertanto, se l’aiuto divino concreto viene richiesto con la più piena convinzione, ciò significa che nel farlo si mette in contro la necessità di dover intanto soffrire affinché il mondo venga trasfigurato. Il che corrisponde poi ancora una volta al concetto tipicamente berdjaeviano della creatività umana come collaborazione attiva alla creazione, ossia alla sua continuazione. Ma proprio a questo punto possiamo comprendere cos’è esattamente la creatività per Berdjaev. Essa è sostanzialmente amore, soprattutto totalmente disinteressato (e proprio per questo capace di giungere ad essere eroico e sacrificale). Infatti è amore tutto ciò che genera essere (“affermazione dell’essere”), come nell’arte e nella conoscenza. Ma soprattutto è amore l’accettazione dell’altro in quanto essere. Il che avviene però soprattutto su base sovrannaturale e non naturale − io nell’altro riconosco sostanzialmente l’umano-divinità. Si tratta quindi di amore per l’uomo. Questo però comporta un concetto di salvezza molto allargato e riformato in modo da includere tutto ciò che è «altro» (uomo e mondo) − nel senso che io mi salvo solo insieme a te e a tutto il mondo.
E Berdjaev vede il contrario di tutto questo in quell’ascetismo monastico che è invece fatalmente egocentrico. A suo avviso, quindi, sulla base di tutto ciò, il Cristianesimo non è più tale se non aspira alla trasfigurazione del mondo insieme a quella dell’uomo; il che implica poi una crescita spirituale personale che va molto oltre la mera e formale partecipazione alla vita ecclesiale. Ancora una volta ciò corrisponde ad una collaborazione della creatura alla creazione del mondo che però deve implicare qualcosa di letterale, concreto ed attivo, cioè la trasfigurazione spirituale del mondo in forza dell’Incarnazione di Cristo che è lo Spirito stesso. Eccoci quindi di nuovo di fronte all’ammissione del concreto aiuto divino.
In particolare Berdjaev spiega il distacco della Chiesa dal mondo con il suo rifiuto di ammettere l’esistenza reale (ontologica) di una società oltre le anime individuali (singolarità). In particolare la prima viene considerata qualcosa di ontologicamente secondario, ossia una mera creazione umana. E qui va precisato che il pensatore vede nella società il campo di esplicazione della creatività umana per eccellenza.
Ecco che invece, una volta che venga ri-connessa al concetto di salvezza, la piena ammissione della società (ossia della creatività umana) implica per Berdjaev la “cattolicità” (“sobornost’”) della salvezza stessa (nel senso che non ci si salva da soli, ma invece solo entro l’ordinaria esperienza creativa collettiva). Il che poi esige l’ecclesialità ma in una maniera che però non sacrifica affatto la dimensione singolare dell’esperienza di Dio. Infatti la creatività operante nella società privilegia per lui proprio la singolarità in quanto dimensione personale in tutto il suo valore.
Il pensatore denuncia qui l’aderenza della dottrina cristiana ad un piatto e utilitaristico quetismo piccolo-borghese che addirittura finisce per sconfinare in qualcosa di buddhista. E proprio a tale proposito afferma che è ormai indispensabile una consacrazione religiosa del “principio umano” e quindi anche “nuovo monachesimo dentro il mondo”. È insomma il chiaro avallo offerto alla piena legittimità di una prassi dell’esperienza religiosa che sfugga agli angusti limiti della formale esperienza ecclesiale. Non solo, ma questo implica anche la postulazione di un tangibile intervento del Sovrannaturale nel mondo immanente. Dato che Berdjaev ritiene che, affinché tutto ciò sia possibile, bisogna ammettere che “le energie divine” agiscono ovunque nel mondo e che quindi il Cristo è presente (specie “nel suo popolo spirituale”) anche se la sua azione resta invisibile. Ne consegue allora che la dimensione ecclesiale-sociale significa qui tutt’altro che una formalizzazione dell’esperienza religiosa. Essa semmai implica invece espressamente la presenza tangibile del Sovrannaturale nel mondo. E questo non ci sembra affatto lontano dall’ammissione dell’aiuto divino.
Il pensatore precisa a tale proposito che la necessità dello spazio ecclesiale non può venire negata nel contesto religioso (dato che esso circoscrive la creatività umana da quella meramente profana ed atea, che a sua volta è solo distruttiva). Ma accanto a questa presenza è assolutamente necessario postulare anche l’esistere di una creatività deve venire considerata “teofanica”, e precisamente in accordo perfetto con l’umano-divinità quale centro della dottrina cristiana. Tuttavia sta di fatto che l’umano-divinità significa inevitabilmente mondanità e sacralità del mondo, quindi impegno in esso; e specialmente nello sforzo di salvarlo. Scopo che spetta alla Chiesa ma anche ai singoli indipendentemente da essa. E soprattutto non bisogna assolutamente rassegnarsi all’idea che ciò sia impossibile.
Berdjaev sottolinea in tale contesto che anche qui resta senz’altro un elemento di opposizione al mondo, ma non invece al mondo come “cosmo creato”. Con il quale egli intende il mondo trasfigurato dall’azione umana.
Successivamente poi, nell’Introduzione al suo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., p. 39-43] sottolinea ancora una volta l’esperienza religiosa non può venire scissa dalla prova del dolore. Si tratta in particolare di una lotta al male, entro la quale il vissuto di quest’ultimo non può venire né negato né relativizzato. Ma perché questo sia possibile è intanto necessario ammettere che l’esperienza di Dio è necessariamente immanente.
Cosa che impone poi una coraggiosa e rivoluzionaria conciliazione di immanente e trascendente. Quindi l’esperienza del dolore come prova viene calata in questo modo in una certezza di fede che pone il monismo e non invece il dualismo. Ma sta di fatto che è fatalmente dualista proprio quella retorica dell’esperienza religiosa che nega l’aiuto divino nel mentre formalmente lo afferma. E per monismo Berdjaev intende in particolare l’assenza di dualismo tra spirito e carne; il quale va assolutamente negato pur fatto salvo il tradizionale (ma molto astratto) dualismo metafisico spirito-materia. In altre parole insomma il Cristianesimo deve ammettere che la dimensione spirituale può e deve venire vissuta nella carne. E, sebbene il nostro pensatore non arrivi ad affermare questo, è evidente che per questo motivo la carnalità umana va tenuta in debito conto nel concepire l’esperienza religiosa stessa. Il che significa che non è assolutamente possibile intendere la necessità del dolore come prova nei termini di un’ipotetica necessaria ed inoltre integrale partecipazione dell’uomo alla Croce di Cristo; soprattutto se la si intende addirittura come la prova più tangibile che ci sia della presenza e dell’amore di Dio. Ma sta di fatto che proprio questo sostiene la retorica prima menzionata – e lo vedremo in particolare commentando “Il mistero del Natale” di Edith Stein.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che Berdjaev chiarisce che in verità qualunque Trascendentismo rinuncia per definizione alla lotta al male, e pertanto (aldilà di qualunque retorica, per quanto raffinata possa essere in termini omiletici e/o teologici) di fatto si rassegna ad esso. Il che significa allora che il non credere in alcun modo nell’intervento del Sovrannaturale nel mondo implica l’affermazione (però sempre accuratamente occultata) che il male del mondo deve venire semplicemente accettato e sopportato.
Cosa che naturalmente impedisce poi di affermare che Dio starebbe sempre con noi e ci manifesterebbe quindi il suo amore proprio associandoci al suo dolore in quanto Cristo. Tutto questo può invece venire legittimamente affermato solo se si postula che Dio è realmente immanente. E questo Berdjaev lo afferma precisando che Dio è con noi in quanto è presente nella nostra interiorità. Proprio come tale Egli ci concede le forze per superare qualunque esperienza. Nello stesso tempo però questo primato assoluto dell’interiore significa che un Dio esteriore non può venire in alcun modo concepito, pena la necessità di dover ammettere la sua impotenza.
Ciò implica allora che l’aiuto divino potrebbe (sulla base di Berdjaev) venire concepito come quella spiritualizzazione del mondo che consiste esattamente in ciò che l’uomo fa con l’aiuto di Dio – lasciar passare lo Spirito attraverso di sé affinché il mondo venga trasfigurato. Orbene questo comporta senz’altro una lotta eroica (che poi è esattamente la lotta al male). Per cui su questa base si può anche dire che Dio permette la prova affinché noi diveniamo consapevoli di essere capaci di questa sovrumana opera; per mezzo della quale peraltro la nostra esistenza assume un senso, invece di restare insensata per inerzia.
Questo però comporta dei frutti tangibili, ossia mette capo ad una pienezza, e non avviene invece appena in un confuso vuoto retorico pieno di omissioni e contraddizioni. Il dolore come prova, insomma, modifica qualcosa nel mondo invece di lasciare il mondo esattamente com’è. Ma questo è invece esattamente ciò che abbiamo visto accadere entro la retorica prima commentata. Ecco che il dolore come prova, qualora inteso come partecipazione dell’uomo alla Croce (a sua volta supposta prova incontrovertibile di amore divino), implica una totale non produttività dell’esperienza religiosa (in quanto fede nella prossimità divina e nell’aiuto da parte di Dio) che può venire accettata solo se ci si rassegna alla retorica. Il che non può significare altro che lo si dice (ripetendo pappagallescamente una mera e vuota formula retorica) ma in verità non ci si crede affatto.
A tutto ciò va aggiunto anche che Berdjaev sottolinea che la vita spirituale si rivela dinamica per definizione in quanto è invariabile messa in relazione di immanente e Trascendente. Il che implica che la fede è sempre e giocoforza “nascita di Dio nell’uomo” − “Infatti non è solo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma è anche Dio ad avere bisogno dell’uomo”. Ed è evidente che ciò comporta una prossimità tra Dio e uomo che tutto può essere tranne che vuotamente retorica. Infatti, se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo, Egli non può non essere intanto consapevole che l’uomo è un essere di carne. E quindi non può esigere in alcun modo da lui una condizione sovrumana esattamente coincidente con la propria. Il che ancora una volta rende inevitabile che Dio soccorra fattivamente l’uomo (laddove ciò sia davvero necessario) proprio nel contesto del bisogno che Egli ha dell’uomo stesso.
L’ulteriore sviluppo di questo concetto di Berdjaev postula il generarsi di un vero e proprio vuoto entro la realtà creatrice divina originaria, che a sua volta è per lui da considerare come una “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e perfino di bisogno [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. Egli afferma peraltro che proprio il rifiuto delle Scritture cristiane di ammettere una così imbarazzante realtà ha fatto sì che esse configurassero semmai una cosmogonia, ma mai invece una vera antropogonia. Esse insomma non avrebbero mai dato all’uomo il valore che esso meritava proprio in forza della Volontà divina. In ogni caso proprio su questa base noi possiamo postulare la più intima e tangibile possibile prossimità tra Dio e uomo entro l’esperienza religiosa. Infatti quel Dio che ha un disperato bisogno dell’uomo, e quindi ne evoca espressamente la nascita, non può essere altro che quel Gesù che ogni giorno (e nel mondo!) cerca spasmodicamente l’uomo chiamandolo incessantemente da dentro.
Non a caso tutto questo Berdjaev lo sostiene nel contesto di un suo atto di vincolamento dell’esperienza religiosa all’intima relazione tra uomo e Dio nel contesto specifico dell’umano-divinità che il secondo dona al primo nel renderlo a Lui totalmente somigliante. Ed anche in tale contesto vanno ricercati elementi di supporto alla necessità dell’aiuto divino concreto.
Il pensatore russo afferma infatti che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III, p. 127-145]. È evidente quindi che con ciò l’esperienza religiosa si mantiene entro l’ambito del rapporto personale tra l’uomo e Gesù in quanto condivisione dell’umano-divinità nell’amore.
Ma sta di fatto che per Berdjaev la postulazione dell’umano-divinità resta del tutto monca senza l’affermazione davvero piena dell’Incarnazione divina. Ed egli con molte ragioni osserva che quest’ultima è stata sempre molto timida (se non assente) nella dottrina cristiana. Il motivo di ciò è secondo lui che quest’ultima di fatto si è fermata all’affermazione della Redenzione soprattutto in rapporto alla Passione.
Il che poi rende del tutto plausibile e coerente tutta quella retorica pessimistica dell’esperienza religiosa della quale abbiamo parlato. Infatti il pensatore sottolinea che La prospettiva della Redenzione ha evidenziato un solo “aspetto” del Dio incarnato, e cioè appunto quello della Passione. Laddove però ce n’è un altro ben più importante e decisivo, ossia quello della Gloria e della Potenza – è precisamente quello del Dio “che viene e che si manifesterà nella sua gloria”. E si tratta peraltro dello stesso ed unico Cristo, come Uomo assoluto che rivela all’uomo il suo mistero, cioè appunto la divino-umanità quale centro assoluto e primario del credo cristiano ed anche della relativa esperienza religiosa.
Ora, è evidente che questo ci suggerisce un’esperienza religiosa del tutto diversa da quella supposta entro l’usuale retorica omiletico-teologica. Ma a questo punto la prospettiva introdotta da Berdjaev può venire anche ulteriormente riveduta e corretta. È possibile infatti che nell’esperienza religiosa siano inscindibilmente fusi due aspetti, e cioè quella della Redenzione in negativo (Passione) e quella della Redenzione in positivo (Gloria-Potenza). Personalmente siamo infatti convinti del fatto che il Dio incarnato (Gesù Cristo) può mostrarsi pienamente succube della Passione (Croce) solo in quanto sa già di essere l’unico al mondo (in assoluto e senza eccezioni) a poterla sopportare e soprattutto superare (dato che è consapevole di essere integralmente vero uomo e vero Dio). Ed è a nostro avviso proprio quest’ultimo aspetto quello che noi sperimentiamo nella relazione intima con Gesù nella quale l’esperienza religiosa appare essere ciò che davvero deve essere. Quindi non deve essere affatto vero che quando noi soffriamo Gesù se ne sta crocifisso insieme a noi limitandosi in tal modo a sperimentare la nostra stessa impotenza, e assumendo così quell’atteggiamento kenotico che così tanta teologia mistica valorizza al massimo. Evidentemente, invece, nel mentre Egli molto amorosamente non ci umilia nemmeno nel venire in nostro soccorso – e quindi fa mostra di essere paralizzato nella crocifissione esattamente come lo siamo noi uomini di carne −, e nel mentre in tal modo non viola in alcun modo la nostra libertà di accettare o non accettare il nostro aiuto, però scatena silenziosamente ed invisibilmente la Sua Potenza (e quindi Gloria).
E così dispone i mezzi attraverso i quali la nostra eventuale preghiera «di richiesta» venga esaudita – sempre che naturalmente le nostri intenzioni siano pure e la nostra richiesta sia sufficientemente appassionata. È ovvio a questo punto che in via di principio può venire esaudita solo un’invocazione sostenuta da una fede intensa e pura (cosa che ovviamente esclude qualunque strumentalizzazione utilitaristica della Potenza divina); ed è inoltre ovvio che anche questo è rispetto da parte di Dio della nostra libertà. Però ce ne corre molto dal supporre questo al supporre invece che, pur con la fede più intensa e pura possibile, l’esaudimento divino della nostra richiesta sarebbe indiscernibile per definizione (e quindi di fatto non percepibile sensibilmente, laddove nulla vieta poi che esso non ci sia affatto); e questo magari perché lo Spirito divino agirebbe in un tempo incalcolabile ed inoltre prevederebbe perfino un nostro mancato esaudimento nel caso (senza che noi ce ne avvediamo) esso non corrisponderebbe al «nostro vero bene». Ribadiamo ancora una volta che l’uomo è un ente di carne, e quindi non ci si può aspettare che prescinda così facilmente dalla tangibilità dei frutti del suo fedele e fervido affidamento a Dio. E Dio nella sua infinita Sapienza e nel suo infinito Amore non può non essere consapevole di questo. Cosa per cui il Dio del quale si parla nella retorica agente in questi casi non può essere in alcun modo il vero Dio. Esso è semmai ancora una volta un Dio antropomorfizzato, e precisamente un Dio nei cui pensiero viene messa dall’uomo la propria stessa retorica.
Infine noi riteniamo che non si abbia alcun diritto di prendere poco sul serio il dolore umano nella sua massima intensità (se non prendersi addirittura letteralmente gioco di esso). Noi infatti non stiamo parlando qui della preghiera «di richiesta» come qualcosa a cui l’uomo ricorra per puro capriccio, per desiderio di beni terreni, per idolatria, per superstizione o per cose simili. Si tratta invece di un atto che viene spontaneo all’uomo allorquando esso si trova in situazioni terrificanti e senza alcuna via di uscita; situazioni nelle quali con le sue sole forze non potrebbe raggiungere alcun risultato dato che si trova invischiato in circoli viziosi davvero diabolici nel contesto dei quali qualunque azione umana finisce per apportare più male che bene, o almeno non ha alcuna possibilità di incidere positivamente sugli eventi.
Il che è tanto più vero allorquando l’uomo che è vittima di queste situazioni di vero e proprio martirio è un «giusto» proprio in quanto è deciso fermamente ad evitare quegli atti che offrirebbero una facile soluzione al prezzo del dolore delle persone con le quali si trova a che fare. Pertanto queste sono tipicamente quelle situazioni nelle quali l’essere umano in questione ha scelto previamente quella strada dell’etica, della giustizia, dell’amore, della non violenza e della totale dedizione di sé, le quali, escludendo qualunque senz’altro facilissima soluzione egoistica, configurano esattamente i termini di quella radicale scelta libera del bene che sicuramente comporta inevitabilmente il dolore.
E del resto tutto questo Berdjaev lo sottolinea peraltro più volte nel suo commento alla visione di Dostoevskij, ossia il testo CD [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Infatti dallo scrittore russo il nostro desume che la prova della necessità del dolore (entro la vita religiosa e la crescita spirituale) sta proprio nella libertà. Essa infatti determina il destino dell’uomo, e quindi il suo (per definizione) “doloroso errare”. Ecco dunque il (per definizione) tragico ”destino dell’uomo lasciato in libertà”. Questo è il “pathos” della libertà di Dostoevskij. In ogni caso quest’ultimo ritiene anche che esattamente questa è la strada verso Cristo che ci rende liberi. È insomma esattamente ciò che avvertiamo come Presenza divina nell’esperienza religiosa più intensa. E questa è una via incerta e piena di rischi, quindi pienamente esposta all’insuccesso e al dolore (come abisso, tragedia, tenebre). Essa infatti implica il male stesso. In tal modo colui che la percorre, prima di arrivare all’intimità con Dio, “deve provare disillusioni amare e insuccessi nell’amore per gli oggetti corruttibili e indegni”. Questo è allora il motivo per il quale sono necessariamente “cari a Dio” proprio coloro che sono chiamati a percorrere questa terribile strada.
Insomma, almeno in questo senso, bisogna ammettere che in una certa misura entro la più autentica esperienza religiosa si viene chiamati da Dio anche al vissuto certamente severo di una certa astinenza dal suo concreto aiuto. E tuttavia anche per questo è evidente che le situazioni estreme delle quali stiamo parlando, unite alle relative scelte, fanno correre seriamente il rischio di giungere al totale sfinimento, con la conseguenza realistica del definitivo crollo psicologico e spirituale, e forse anche della malattia e morte fisica. A questo essere umano rimangono quindi solo tre vie: − credere disperatamente (e contro ogni evidenza, perfino teologica ed omiletica) nel concreto aiuto divino, oppore rifugiarsi in un egoismo senz’altro sano dal punto di vista terreno-naturale (che con certezza assoluta lo salverà dal deperire e dal perire), oppure infine gettare via la fede in Dio come un orpello non solo inutile ma anche dannoso (specie come un inutile e tormentoso dispendio di preziose energie).
È evidente che qui ci troviamo al cospetto della vicenda di Giobbe, e sappiamo bene quali sono gli eventi ed insegnamenti finali di tale vicenda. Ma, visto come stanno le cose su un piano davvero sobrio e realistico (per quanto comunque animato dalla scelta incrollabile della fede), non è possibile che anche in Giobbe l’agiografo abbia (di suo) aggiunto una certa dose di retorica umana alla più autentica lectio divina (che a questo punto sarebbe ancora tutta da scoprire)? Ebbene forse tutto ciò non è affatto improbabile se prendiamo in considerazione episodi del Vecchio e Nuovo Testamento nei quali invece le cose sono andate ben diversamente, e cioè l’aiuto divino più concreto possibile è arrivato come non accade affatto entro la vicenda di Giobbe. Si pensi dunque alla vicenda dei tre fanciulli nella fornace ardente o addirittura all’episodio ben più storico della liberazione di Pietro dal Carcere Mamertino. Si pensi al grandioso scenario dell’attraversamento del Mar Rosso. Si pensi al concepimento di donne attempate e sterili come Elisabetta moglie di Zaccaria, Sara moglie di Abramo, Rachele moglie di Giacobbe, Rebecca moglie di Isacco, l’innominata moglie di Manoa, Ana moglie di Elcana. Sei donne sterili, dico sei. E che dire dell’assolutamente portentoso concepimento di Maria? E che dire infine dell’infinita serie di malati irreversibili che i miracoli di Gesù guarirono per sempre?
Vogliamo dire che tutto questo è solo agiografia, cioè leggenda, ossia invenzione e bugia? Ma, anche se fosse così, perché mai di punto in bianco la negazione omiletico-teologica dell’aiuto divino dovrebbe essere giustificata ad onta del fatto che le Scritture pongono così tanto l’accento su di essa?
In ogni caso, a proposito di tutto ciò, Berdjaev sta a testimoniare che il fermarsi alla sola Redenzione (con la inscindibilmente connessa unilaterale Passione è del tutto insufficiente proprio perché impedisce di sperimentare la Gloria e la Potenza divine. È vero anche che egli precisa che tuttavia per fare questo occorre comunque l’azione libera dell’uomo, la quale per decreto divino (in omaggio alla creatività umana in quanto sua dignità ed inviolabile libertà) deve essere per definizione rischiosa e cioè aperta a tutti gli esiti. Dunque è vero senz’altro che questa possibilità deve venire attivamente scoperta da ciascuno di noi in sé stesso. Ma dove altro ciò può accadere se non in quelle tremende situazioni senza uscita che abbiamo appena descritto? E dove mai l’uomo potrebbe mai arrivare da solo in queste situazioni se agisse sì in maniera liberamente creativa ma comunque in assenza dell’intervento tangibile della Potenza divina, ossia in assenza del concreto aiuto divino? È evidente insomma che la stessa libera creatività umana (alla quale Berdjaev giustamente attribuisce un valore capitale) è efficace solo nella misura in cui ad essa viene incontro quello che è il più rilevante effetto dell’Incarnazione (una volta presa sul serio davvero fino in fondo), e cioè il fatto che − nel nascere, vivere, farsi martirizzare, morire e poi immancabilmente risorgere – Gesù Cristo ci ha offerto sé stesso non per farci soffrire come Lui (associazione alla Croce) oppure per rendere credibile un mero atto rituale (l’Eucaristia), ma invece solo e soltanto per donarci la Sua Potenza, ossia appunto il più concreto possibile aiuto divino. Dunque, se è vero (in un certo senso) che noi veniamo messi alla prova da Dio in parte in maniera davvero crudele, ciò significa che Egli vuole portarci a riconoscere proprio questo. Tuttavia, perché ciò sia possibile noi dobbiamo divenire sovrumani non nel riuscire a saper soffrire esattamente come Lui, ma invece nel percorrere un cammino di conoscenza ed esperienza che all’uomo di carne è assolutamente impossibile. Dobbiamo cioè superare non solo lo scetticismo del mondo (che include senz’altro le Tenebre che si rifiutarono di accoglierLo, ossia gli uomini che servono Satana), non solo lo scetticismo degli scienziati e dei filosofi, ma perfino anche lo scetticismo dei religiosi. E non i religiosi come seguaci della Legge, ma invece i religiosi come seguaci della Redenzione, ossia quelli cristiani.
Ecco allora che la grande prova alla quale Dio permette che noi soggiaciamo nel dolore e nella sventura mira proprio al fatto che noi giungiamo a credere fino in fondo alla «follia della Croce», ossia alla costatazione secondo la quale «a Dio tutto è possibile». Il che equivale al credere nella possibilità del più concreto possibile aiuto divino.
Getrud von Le Fort ci lascia intravvedere questo laddove parla dell’azione divina come di un “plus” che viene ad aggiungersi all’azione creativa umana; come sarebbe avvenuto tipicamente nell’edificazione della grandi cattedrali gotiche [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934, p. 55-95]
In altre parole possiamo da tutto ciò dedurre che il fermarsi della dottrina cristiana tradizionale alla sola realtà della Redenzione (con l’inevitabile esclusione di quella della Gloria e Potenza) è altrettanto monca (e forse addirittura omissiva, mendace ed ipocrita) quanto lo è quella retorica che nega di fatto la possibilità di un concreto aiuto divino.
Ebbene cosa esattamente Berdjaev contrappone a tutto questo nel suo sforzo di indicare un nuovo genere di esperienza religiosa?
Senz’altro una delle vie è per lui quella di ricorrere alla tradizionale mistica in luogo della teologia, e, aggiungeremmo, della tradizionale omiletica. Egli sostiene infatti che non a caso i vari tipi planetari di esperienza religiosa sono tra loro uguali (pur nella diversità) perché pongono in evidenza la mistica come elemento primario e fondamentale dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 203-209]. Tuttavia egli sostiene che anche la tradizionale mistica deve arricchirsi della creatività. Cosa che pure in questo caso tende a non accadere affatto, dato che la creatività viene dal Cristianesimo considerata attività sacrilega in quanto mondana e legata alle passioni. E quale atto umano può essere considerato più passionale di quello che invoca Dio affinché Egli trasfiguri concretamente la propria esistenza, conducendolo fuori da situazioni senza la minima vita di uscita? Cosa insomma può venire considerato più passionale di questa speranza che non solo il mondo, non solo gli atei, ma perfino anche predicatori e teologi considerano idolatra e blasfemo? E quindi assolutamente indegno di un vero cristiano.
Bisogna insomma far entrare la creatività a pieno diritto nell’esperienza religiosa. Il che è possibile se si ammette l’assoluta originarietà appunto religiosa di essa. Insomma l’esperienza creativa va considerata “spirituale” nel senso pienamente religioso del termine. In effetti solo l’attività porta ad un “radicale mutamento” dell’uomo, senza il quale l’esperienza religiosa è vuota e non ha effetto. Ciò che secondo lui va auspicato è dunque un’”estasi creativa”. Ma a questo punto possiamo ritrovare proprio qui la giustificazione della preghiera come invocazione dell’aiuto divino che trasfigura il mondo per mezzo dello Spirito. Tuttavia, come abbiamo già visto, ciò deve avvenire in modo tangibile, e cioè mondano, carnale ed immanente.
Ancora una volta Berdjaev ci mostra però che, pur nell’ammettere tutto questo, noi non possiamo negare in alcun modo che l’esperienza del dolore sia necessaria nel contesto di una vera e propria prova alla quale veniamo sottomessi da Dio. Infatti la creatività implica un superamento attivo del mondo che come tale tende prepotentemente ad un vero e proprio “altro mondo”, nel mentre intanto si contrappone al quel solo falso superamento passivo che è unicamente deplorevole adequazione al mondo del peccato e della necessità. Con la creatività si configura quindi un effettivo “non amare il mondo” che però è decisamente positivo ed affermativo, ossia è fortemente assertivo. In altre parole esso non è affatto così lontano dal concetto nietzschiano di volontà di potenza. Ma intanto è innegabile che, per com’è il mondo oggettivamente, non può non trattarsi di un dare senso al dolore del mondo. E eccoci dunque nuovamente di fronte a quelle tremende situazioni senza uscita, nelle quali la vittima si sente come un uccello rinchiuso una gabbia di vetro che quindi continua a non far altro che a fracassarsi il cranio nel tentativo inutile di sfondarne le pareti. L’altra metafora valida in questo caso è inoltre quella che vede la vittima di queste situazioni affannarsi per scardinare la serratura di una delle porte chiuse all’unico scopo di poi ritrovarsi nuovamente di nuovo di fronte ad un’altra porta ermeticamente sbarrata. E tutto questo significa allora che l’inesorabilità del karma (di stampo induista-buddhista) è senz’altro reale. Ma non nel contesto di un’esperienza religiosa autenticamente cristiana; il che è però vero solo perché in essa può e deve venire considerato possibile il concreto aiuto divino. E vedremo subito meglio il perché di questo.
Infatti quanto dice Berdjaev ci dice che l’unica soluzione possibile sta nel rifiutarsi semplicemente di restare nel disperante edificio minotaurico del quale si è prigionieri. Cosa a sua volta possibile solo se lo si fa saltare in aria con un unico e possente impeto creativo, il quale di colpo non vuole altro che qualcosa di radicalmente diverso; e lo vuole con volontà inflessibile. Ma intanto la distruzione dell’edificio non può essere meramente fisica. Perché altrimenti essa sarebbe solo una hybris (ingiusta per definizione agli occhi di Dio) e quindi un solo vano annullamento provvisorio del relativo karma, che quindi senz’altro porterebbe alla crescita intorno a sè di un altro labirinto minotaurico. Essa deve invece essere spirituale, e quindi deve consistere nel riconoscere l’illusorietà delle impenetrabili pareti che ci circondano e delle porte sbarrate che si disegnano in esse.
Ed eccoci dunque di fronte a ciò che Berdjaev definisce come la “purificazione per fuoco”. Essa è per la precisione quell’atto che alla fine lascia emergere un’altra natura, o altro mondo, il quale come tale è il contrario esatto dell’adequazione a ciò che c’è già (e che non è affatto “superamento creativo”). Quindi è evidente che tutto questo per definizione richiede un coraggio che consiste esattamente nell’accettazione della purificazione, oltre che naturalmente nella fede incrollabile nel risultato positivo.
Ma ancora una volta a che porterebbe tutto questo in sé così remissivo sforzo eroico-ascetico se intanto ad esso non venisse incontro la Potenza divina in forma di aiuto concreto? Sarebbe appunto anch’esso solo attitudine remissiva, ossia adequazione, e quindi tutto il suo eroismo ascetico non otterrebbe altro scopo che lasciarci nella stessa identica situazione di prima. Accresciuta quindi soltanto della mera illusione di aver superato ciò che invece nei fatti non abbiamo affatto superato. E ciò non è altro che quella banale rassegnazione al dolore che la retorica prima menzionata traveste delle forme totalmente inautentiche che poi rinviano tutte al supposto amore divino che ci manterrebbe apposta entro la prova dolorosa (e senza alcuna prospettiva di soluzione). Ecco allora che anche il dolore come prova in quanto “purificazione” non può venire concepito senza che sia intanto possibile una sua produttività tangibile. Cosa che può avvenire solo per mezzo dell’aiuto divino per il semplicissimo fatto che un essere umano si trova racchiuso in situazioni senza uscita esattamente perché è solo un essere umano, ossia è appena un essere di carne che da solo non potrà mai (in alcun modo) venire fuori da quella situazione. Nemmeno per mezzo della purificazione per fuoco.
Questo discorso di Berdjaev diviene comunque ancora più radicale laddove egli avanza l’ipotesi della genialità del santo e, viceversa, della santità del genio. Cosa che però apre anch’essa una prospettiva del tutto nuova dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 223-227]. Egli ritiene infatti che il genio sia l’uomo creativo per definizione e che inoltre lo sia ancora di più nell’essere santo. Ma intanto registra che
lo spirito vetero-cristiano si è sempre opposto ed ancora si oppone veementemente a questo.
Ebbene per lui in questo genere di santità va riconosciuto il nuovo monachesimo per eccellenza.
E a questo punto diremmo che questa condizione si attaglia perfettamente a quegli uomini che oggi tendono a vivere molto intensamente la relazione con Dio, in uno stato però di totale oscurità ed isolamento, ossia di fatto al di fuori dell’esperienza ecclesiale (anche se essi non la rigettano affatto e non mancano nemmeno di partecipare ad essa nei limiti del possibile). Tanto è vero che quando essi presentano la loro esperienza religiosa agli ecclesiastici tendono a venire snobbati e presi per pazzi, con l’aggravante di dover subire umilianti quanto inutili sermoni. Ma intanto costoro possono vivere questo genere di estrema esperienza religiosa solo se essa produce i suoi frutti per mezzo del concreto aiuto divino.
Altrimenti, a fronte della sterilità della loro esperienza, essi sarebbe fatalmente costretti a ripiegare nuovamente sull’esperienza religiosa più formale, ossia su quella liturgico-precettuale della più esteriore
realtà ecclesiale. Oppure, come abbiamo detto, sarebbero costretti a gettare la fede nel cestino.
Ed infatti non a caso Berdjaev si esprime molto criticamente contro l’esperienza religiosa che resta entro i limiti della più esteriore realtà ecclesiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Egli denuncia infatti che tale realtà è inficiata dal fatto che in essa non vi è stata mai per davvero una piena Rivelazione, dato che ha invece sempre dominato la tensione verso la “città terrena”. Ecco allora che il rinnovamento religioso-cristiano implica ciò che nella storia nemmeno ha mai iniziato ad esistere. Ma intanto, nella sua ardente aspirazione al potere terreno, la Chiesa si è sempre opposta allo spirito creativo difendendo così molto ipocritamente “il pathos della pace eterna”; espressione a sua volta di mera obbedienza che degenera sempre in schiavitù. Bisogna quindi considerare colpevole e superata la stessa dimensione ecclesiale, che nei fatti ha costituito il principale ostacolo all’unione libera dell’uomo con Dio o umano-divinità.
Ed ecco dunque di nuovo giustificata pienamente quell’esperienza religiosa quale relazione diretta con Gesù entro la quale abbiamo poi constato che è indispensabile concepire l’aiuto divino concreto.
Berdjaev denuncia però il fatto che la creatività è venuta a mancare ed ancora manca anche nelle forme non ortodosse di esperienza religiosa, come in quella mistica spuria e popolare che ora è divenuta molto di moda specie nella forma di nuove forme di teosofia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-370]. In particolare, egli dice, ad essa manca del tutto la purificazione. Per questo essa è panteistica e come tale non conosce affatto l’umano-divinità – e così concepisce solo un’unione d Dio in cui la persona umana (in quanto peccatrice) viene annullata (insomma per fare manifestare Dio essa deve svanire totalmente). Qui si assume insomma più che mai che l’uomo possa unirsi a Dio solo scomparendo ossia uscendo di scena. Ebbene certamente anche questo elimina l’esperienza religiosa come contatto con Gesù. Soprattutto perché qui c’è uno svuotamento e sterilizzazione dell’esperienza religiosa, nel senso che ad essa vengono tolti tutti gli aspetti esaltanti dell’incontro con Dio. E tra questi ultimi non può non mancare lo sperimentare il concreto aiuto divino.
Ma sta di fatto che, secondo Berdjaev, le cose non cambiano nemmeno nelle mistiche più tradizionali e ortodosse (che esse siano cristiane o pagane, occidentali o orientali). In particolare egli denuncia il fatto che la mistica occidentale cattolica è assolutamente gelida, non prevedendo in alcun modo la Presenza divina (e teorizzando quindi di fatto l’incolmabile distanza di Dio dall’uomo). La mistica orientale ortodossa, per contro, adombra una tangibile presenza divina ma in una maniera tutto sommato solo timida e tiepida in quanto scontata e formale nel contesto di una pura ritualità. Ecco allora che anche qui noi non troviamo per nulla la pienezza dell’esperienza religiosa. Dunque per lui si può e si deve immaginare una nuova mistica alternativa con non propriamente ecclesiale (almeno sul piano esteriore), e quindi una mistica della davvero diretta relazione con Dio.

II- L’esperienza religiosa vista attraverso la mistica dell’incondizionata “dedizione” (“Hingabe) di Edith Stein e Gertrud von Le Fort. Possibili riflessi sulla possibilità dell’aiuto divino.
È giunto ora il momento di esaminare il testo già citato dal titolo “Das Weihnachsgeheimnis” (DWG), o “Il mistero del Natale”, di Edith Stein, ed inoltre il testo anch’esso già citato dal titolo “Die ewige Frau” (DEF), o “La Donna eterna”, di Gertrud von Le Fort. Pur essendo tematicamente molto diversi, i due libri sono profondamente accomunati da un elemento, e cioè dall’atto di incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che secondo entrambe le pensatrici connota di sé l’esperienza religiosa in maniera quasi essenziale. E più precisamente Le Fort ritiene che questo atto, in quanto tipico dell’essenza spirituale femminile, renda la donna l’essere più religioso che esista. Questa posizione del resto venne in gran parte condivisa anche da Stein nel discorso da lei sviluppato in una serie di conferenze sulla donna che poi è diventato un suo libro postumo dal titolo “Die Frau” (DF), o “La Donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Tuttavia in DWG Stein non tocca questo tema.
Ora si tratta comunque di vedere in che modo il discorso sviluppato in DWG si raccorda con la retorica omiletico-teologica dell’esperienza religiosa che abbiamo descritto introduttivamente. E certamente troveremo specialmente in questo testo degli elementi probanti per questo. Per cui l’analisi di DEF, di Le Fort, sarà sicuramente secondaria.
Conviene partire in questo dall’Introduzione al testo che è stata curata dalla Prof. Hanna-Barbara Gerl.
Qui infatti già ritroviamo in partenza un elemento molto negativo che caratterizza essenzialmente l’esperienza religiosa così come intesa da Stein [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., Einführung, p. 10-40]. Ella dice cioè che uno dei nuclei del discorso steiniano sul mistero del Natale è la “rinuncia alla volontà” (“Willensübergang”), ossia esattamente quanto, entro la classica retorica omiletico-teologica, si presenta come valorizzazione del «fare la volontà del Padre», ossia di Dio. Ebbene ciò avrebbe per Gerl un aspetto chiaro (la deposizione di ogni preoccupazione) ed un aspetto oscuro (la totale perdita di orientamento). In altre parole, se in via di principio la cessione della propria volontà è un cammino chiaro (e quindi configura un aspetto positivo dell’esperienza religiosa), nello stesso tempo però essa fa perdere l’orientamento e quindi precipita nelle tenebre di un Dio totalmente invisibile. Ed in tal modo sfocia fatalmente in un’esperienza religiosa totalmente negativa. Ma sta di fatto che proprio questo costituirebbe per Stein la più piena e tipica partecipazione alla Croce di Gesù, il quale del resto allo stesso identico modo sperimentò un Dio assente.
Comunque, nonostante questa agghiacciante negatività, tutto ciò implica per Stein una
pienezza di senso che viene colta proprio nell’abbandono – e precisamente sia nella piacevolezza che nella spiacevolezza. Ci troviamo insomma qui immediatamente al cospetto di affermazioni che allo stesso tempo negano ed affermano la positività dell’esperienza religiosa, ossia l’effettivo incontro con Dio.
E tutto ciò è ancora più tangibile se si prende atto di un altro fatto messo in luce da Gerl, e cioè che, siccome l’Incarnazione dell’Uno nei molti è totalmente corporale e carnale, e quindi quotidiana, essa implica un restare esposti persistentemente alla Presenza divina (a partire dalla nascita divina in poi).
Ma in che modo? Per mezzo della “luce impietosa” (“unerbittliches Licht”), cioè spietata, che è poi la Presenza divina stessa. Essa è infatti tale perché non accetta in alcun modo che noi restiamo come siamo. Ed eccoci allora di fronte alla tremenda serietà che per Stein è costituita dalla Passione sempre inscindibilmente unita all’Incarnazione.
Dunque impietosità e serietà dell’esperienza religiosa al cospetto della Presenza divina.
E si tenga contro che l’espressione “unerbittliches Licht” fu scelta da Gerl (nel suo relativo saggio) come il lemma che secondo lei descrive sinteticamente in maniera perfetta l’intera vita ed opera di Edith Stein [Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald Mainz 1998]. Questo fu dunque il tono della spiritualità mistica della pensatrice. E questo deve essere stato anche il tono della spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito in maniera totalmente incondizionata. Ebbene dov’è qui la libertà (concessa in dono da Dio all’uomo) che invece Berdjaev ritiene così tanto importante nel contesto dell’esperienza religiosa da rendere necessario affermare (sulla scorta di Dostoevskij) che un bene senza libertà equivale al male? Ed allora queste impietosità e serietà dell’esperienza religiosa devono indurci a pensare che Dio intende essere volontariamente malefico nei nostri confronti – tanto che la Sua Presenza accanto a noi si risolve di fatto nel suo forzarci ogni giorno ad andare oltre i limiti che noi abbiamo per natura (e che non possiamo superare nemmeno volendolo con tutte le nostre forze)? Pur tenendo conto della supposta bontà dello scopo (la perfezione sovrumana dell’umano-divino) ci riesce davvero difficile pensare questo. Tanto che infatti Berdjaev considera la libertà un dono assolutamente incondizionato di Dio all’uomo, e peraltro fatto in modo che Dio tutto può fare tranne che violare la libertà umana (perfino a fin di bene). Non a caso il pensatore russo – come del resto anche Simone Weil [Simone Weil, L’ombra e la grazia, p. 61-63, Bompiani, Milano 2022; Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016] – ritiene che Dio lascia che nel mondo esista il male pur di non violare la libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Dunque le uniche spiegazioni che riusciamo a trovare a queste terrificanti affermazioni sono da un lato la già commentata retorica omiletico-teologica, e dall’altro lato l’antropomorfizzazione di Dio, ossia l’attribuzione a Dio di atti, pensieri, emozioni e scopi che sono unicamente umani (e peraltro nel contesto di un discorso lampantemente lacunoso a causa di una logica sgangherata e piena di contraddizioni).
Ma la cosa diviene ancora più inquietante al cospetto dell’emergere in Stein (qui sempre attraverso il commento di Gerl) di affermazioni di segno totalmente opposto, e precisamente nel senso di una formulazione decisamente positiva dell’esperienza religiosa. E dobbiamo dire, dagli annosi studiosi steiniani da noi condotti, che questa è un’esperienza costante nella lettura dei suoi testi, specie quando essi toccano temi religiosi di grande intensità, profondità ed altezza – all’improvviso, dopo pagine e pagine di affermazioni rigidamente ortodosse, si delineano all’improvviso affermazioni che aprono al nostro sguardo scenari dottrinari assolutamente non convenzionali e perfino molto arditi. Ciò avviene qui (p. 35 della Introduzione) laddove la commentatrice si sofferma sull’espressione “non confessionale” che Stein attribuisce alla Chiesa invisibile, che secondo sarebbe lei insorta già con i primi progenitori umani (Adamo ed Eva) e prolungatasi poi nei primi uomini ed infine nei Patriarchi, culminando infine nei pastori che circondano il Presepe e nei Re Magi. È chiaro comunque che Stein non considera questa Chiesa invisibile come qualcosa a sé, e soprattutto qualcosa che possa sostituire la Chiesa visibile (anzi essa è appena una forma di passaggio verso quest’ultima). Ma poi ella registra un interessante aspetto specifico dell’esperienza religiosa così come si compie nel contesto della Chiesa invisibile – in essa vi è una profonda relazione tra l’anima e Dio (che addirittura nel crescere fa crescere la Chiesa stessa) ed essa esclude specificamente la “struttura visibile” (“sichtbare Struktur”) della Chiesa, da lei definita come mera “amministrazione del religioso” (“Verwaltung des Religiösen”). Ciò che dunque resta è solo e soltanto la presenza di Dio nel singolo. Ma, precisa la pensatrice, quest’ultima comporta l’”istruzione” (“Einweisung”) costante dell’anima che sta in intima relazione con Dio, ossia un vero e proprio aperto «parlare» di Dio all’uomo, e precisamente all’uomo singolo. Non alla Chiesa. Peraltro ella aggiunge che in tale contesto “in gran parte” (“zum grossen Teil”) il “flusso formante” (“gestaltender Strom”) della mistica resta totalmente “invisibile” (“unsichtbar”). E questo tra l’altro ci dà precise informazioni su quella che fu la mistica di Stein stessa, ossia una mistica dimessa, oscura, silenziosa, discreta, non eclatante e quindi molto sottile.
Ma che significa tutto questo? Significa forse che vi è quindi un’appartenenza alla Chiesa (perfino volontaria ed esteriore) che però non rientra formalmente nell’esperienza ecclesiale più istituzionale (confessionale) e quindi esteriore? Ed essa è forse la Chiesa occulta di coloro che hanno un’intima relazione con Dio, ossia quelli che ci sentiremmo di definire come dei veri e propri «santi occulti» e del tutto laici? Realtà che corrisponde poi bene al nuovo monachesimo auspicato da Berdjaev. Ma costoro sono coloro che sono ciò che sono molto spesso proprio perché sono stati sospinti in questa condizione da un acuto e dilaniante bisogno, e quindi si trovano esattamente in quelle situazioni senza uscita che abbiamo costantemente descritto. La loro santità scaturisce intanto dalla scelta rigorosamente etica che essi hanno fatto rispetto al dolore da vivere e rispetto alle altre persone coinvolte in tali situazioni. Cosa che fa di essi chiaramente dei veri e propri martiri. Non ci sarebbe alcun bisogno di dire che proprio costoro dipendono vitalmente dall’aiuto divino per trovare una via di uscita (in sé impossibile) alla situazione in cui si trovano.
Ma, aldilà di questo aspetto, tutto questo significa anche che in verità la Chiesa più autentica sussiste solo e soltanto nella profondità del rapporto personale con Dio. Per cui in verità non è affatto il cristiano a porsi nella Chiesa, ma è invece semmai la Chiesa a porsi nel cristiano. Ecco che la Chiesa esteriore appare essere assolutamente secondaria (in quanto mera struttura, per quanto terrenamente necessaria, ma solo relativamente) rispetto a all’intensità dell’esperienza religiosa che si manifesta nella singolarità. Per cui il Cristianesimo è molto probabilmente primariamente relazione personale con Dio. Cosa del resto provata dalla mistica in larga parte invisibile della quale qui Stein prende debitamente atto. A fronte di ciò osiamo quindi avanzare l’ipotesi che si debba ritornare a questa forma originaria di Cristianesimo ogni volta che storicamente la Chiesa visibile entra in crisi minacciando addirittura di disfarsi totalmente per svuotamento dall’interno. Ed ecco quindi spiegata la sofferenza dei martiri e santi occulti, i quali nella prova del dolore (la purificazione per fuoco della quale parla Berdjaev, ma in questo caso espiazione di peccati non propri) partoriscono una nuova Chiesa.
In sintesi, insomma, potremmo dire che il discorso steiniano apre qui alla possibilità di un’esperienza religiosa incentrata sull’aiuto divino concreto. Ma ciò avviene comunque molto ma molto alla lontana. Come testimoniato dal fatto che le riflessioni da noi fatte al proposito sono in realtà appena delle extrapolazioni ed ipotesi. Restano comunque le ulteriori parti del suo discorso che sono di segno totalmente opposto.
E tali affermazioni vengono immediatamente (sempre nel commento di Gerl) a proposito del prototipo di esperienza religiosa che secondo Stein si ritrova nei Re Magi. In via di principio essi vivono l’esperienza religiosa nella sua massima intensità ed intimità, in quanto chiamati ad uno scambio davvero carnale tra i loro doni (deponendo i quali ai piedi del Bambino, essi si spogliano della loro intera umanità) e la Presenza viva di Dio (che offre sé stesso in cambio di tale atto di rinuncia). Tuttavia, dice Stein (qui ancora per bocca di Gerl) che si esige ancora un successivo ritorno al quotidiano, con l’inevitabile perdita di tutto quanto appena si era conquistato, ossia la prossimità della Presenza divina stessa. Il che dovrebbe significare che l’esperienza religiosa è connotata dal fatto che tale Presenza non è mai durevole, anzi per lunghi periodi di tempo resta totalmente inaccessibile. E su questo non c’è nulla da dire. Chiunque vive l’esperienza religiosa nel modo più intenso possibile (ossia personalmente e non al riparo della tranquillizzante ritualità formale ecclesiale) sa che Dio svanisce per lunghissimi periodi di tempo lasciandolo così totalmente solo.
Perché mai questo? Se lo chiede perfino Stein e ne conclude sbrigativamente che si tratta di un mistero insolubile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 57). E questo dunque può e deve venire accettato. Ma la retorica no! Ed è solo retorica quella che Gerl ci propone qui facendo da portavoce a Stein. Per lei infatti l’evidenza dell’occultamento divino esige da noi la sempre rinnovata fiducia e disponibilità. E questo implica un continuo “errare” (“Wanderung”) nella perenne ed inesausta ricerca di Dio. Intanto, comunque, quello che non ci si può assolutamente aspettare è la “consapevolezza dell’efficacia” (“Bewußtsein des Wirkens”), per cui bisogna semplicemente essere capaci di lasciare tutto nelle mani di chi intanto agisce. E ne conclude addirittura che non è affatto detto che noi dobbiamo sperimentare l’epifania nella nostra vita. Sebbene “la strada maestra” (la prossimità immediata della Presenza divina) è sia e resti lì nonostante del tutto invisibile.
Di fronte a tali affermazioni viene sempre la voglia irresistibile di dire: − «Molto bello! Ma facilissimo a dirsi però difficilissimo a farsi!». E ci riferiamo di nuovo in particolare alle esperienze senza uscita dell’esistenza. Non invece alle frustrazioni ordinarie, per le quali sarebbe follia e blasfemia invocare l’aiuto divino. Ma, aldilà di questo, la domanda pressante è semmai un’altra − «Quello del quale si parla qui è il Dio vero, oppure è appena quello inventato dalla nostra retorica antropomorfizzante?». Insomma, come si può pensare che Dio, nel suo inspiegabile occultarsi, esiga intanto da noi esseri di carne l’incondizionata “fiducia e disponibilità”, esattamente come verrebbe chiesto di fare ai soldati nella caserma in cui si addestrano alla guerra? Come si può pensare che questo Dio esiga da noi addirittura un continuo “errare” senza la benché minima certezza non solo di sperimentare di nuovo un giorno la sua Presenza ma perfino nel totale digiuno di ogni frutto del nostro affidamento a Lui entro le tempeste della nostra esistenza (mancata consapevolezza dell’efficacia)? E come, in tale contesto, si può chiedere a noi esseri mortali addirittura la somma virtù dell’affidamento cieco e totalmente privo di risultati, nel “lasciare tutto nelle mani” di Colui del quale dobbiamo essere fermamente certi che continua intanto invisibilmente ad agire? Siamo insomma di nuovo al teresiano «accettare tutto dalle mani di Dio», pena il dover accettare che altrimenti Egli «ci abbandonerà ad ogni passo». Ma il sommo della provocazione di tali affermazioni sta nella richiesta rivolta a noi (poveri esseri di carne) di essere pronti ad accettare che mai e poi mai vi sarà un’”epifania” divina nella nostra esistenza.
Orbene, è davvero un Padre il Dio che pensa ed agisce così? Costui è davvero Colui che ha detto che un Padre mai e poi mai darebbe ai propri figli pietre in luogo del pane? Sinceramente ci viene spontaneo rispondere di no. E quindi non possiamo concluderne altro che nuovamente qui è all’opera quella insidiosa, arrogante e prepotente retorica (la retorica di predicatori, apologeti e teologi, che pretende a noi comuni mortali di dare saccenti lezioni sulla natura di Dio e sul suo agire), la quale pretende di riconoscere in Dio aspetti che invece sono unicamente umani.
Ed è evidente allora che qui è all’opera un sadismo molto ben mascherato (e peraltro anche questo con sadismo), il quale a sua volta pretende che il masochismo divenga in noi altissima virtù religiosa. Insomma molto meglio sarebbe che costoro semplicemente affermassero che non sanno assolutamente nulla di Dio – come del resto richiesto espressamente da Gesù stesso nell’esortazione severissima a non “scandalizzare” i piccoli. E sinceramente ci dispiace dover coinvolgere in questa accusa anche la nostra carissima Edith Stein. Rispetto alla quale dobbiamo riconfermare quello che abbiamo detto anche per Dio – è davvero possibile che una persona così profonda, sensibile, colta, umile, visionaria, ferventemente religiosa abbia aderito ad una retorica così violenta, becera e falsificante? Come si spiega tutto questo?
Lo vedremo più avanti.
Ma veniamo ora ai suoi testi originali, nei quali è possibile che possiamo anche trovare risposta a queste angosciose domande.
Ed iniziamo dal primo dei testi contenuti in DWG, e cioè “Menschenwerdun und Menscheit”.
Qui Stein sottolinea il fatto che Cristo è da considerate il Capo del Corpo Mistico del quale noi siamo membra [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 50-59]. E come tale esso si comunica a noi come vita divina esattamente come il Bambino fa con le sue mani protese verso chi lo circonda nel Presepe. Attenzione però, ella precisa − questo è solo l’inizio della “vita eterna”, ma non è affatto la “visione di Dio nella Luce della Gloria” (“Gottschauen im Glorienlicht”). Non possiamo dedurne altro che questo – la pur intimissima (addirittura carnale) esperienza religiosa che viene illustrata esattamente nel Presepe non è mai e poi mai piena relazione con Dio. Del resto Stein stessa sottolinea al proposito che nel Presepe il Deus absconditus diviene per la prima volta immediatamente tangibile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 31-40]. A ciò Stein stessa aggiunge però che si tratta con tutto ciò di un’evidente “oscurità della fede” (“Dunkel des Glaubens”), anche se già non è più uno stare in questo mondo, bensì invece nel “regno di Dio” (“Gottesreich”). E precisa che esso è in effetti iniziato immediatamente già con il “fiat” di Maria [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17, p. 33-95, p. 97-157]. Insomma la pur immediata prossimità a noi di Dio nel Bambino, e quindi ormai tangibile Presenza divina, non andrebbe affatto considerata unione a Dio. Ma intanto dovremmo consolarci con il fatto che essa è comunque fede (per quanto oscura) ed inoltre è anche perfino uno stare nel Regno di Dio.
Ma come? Proprio laddove la volontà divina ha voluto rendere possibile l’impossibile, ossia rendere tangibile la sua Presenza, proprio lì non si può nemmeno parlare di intimità immediata con Lui entro l’esperienza religiosa? Ed inoltre dovremmo soddisfare questa fame insoddisfatta accontentandoci di una meramente formale fede (peraltro totalmente oscura) entro la quale dovremmo per di più credere di stare già di fatto nel Regno di Dio? In altre parole in tal modo veniamo rilanciati di nuovo impietosamente entro l’esperienza straziante dell’Invisibile proprio nel mentre ci trovavamo già nel pieno dell’esperienza del Dio visibile. È pensabile un tale sadismo della retorica omiletico-teologica? Ed è pensabile esso che sia frutto dell’amorosa Volontà divina? Ma, oltre a ciò, è possibile affermare tutto questo con totale disinvoltura?
Ed inoltre è possibile affermarlo proprio nella forma deteriore che è stata scelta, ossia nel contesto di una logica che (sebbene applicata ad ineffabili realtà religiose) in effetti fa acqua davvero da tutte le parti?
E si badi bene che qui parla Edith Stein, ossia una che per tutta la vita si era preoccupata dell’inflessibile rigore del pensiero. Come si spiega dunque questo suo improvviso inclinare ad una logica così tanto sgangherata?
Ma le cose divengono ancora più gravi più avanti, laddove Stein perviene al centrale discorso sul «fare la volontà divina» (p. 55-59). In particolare ella considera tale atto il “terzo segno” della filialità divina, laddove i primi due segni sono la filialità stessa in sé (essere “uno con Dio”), la fraternità o carità (essere “uno in Dio”). Questi sono insomma gli aspetti più fondamentali della fede cristiana.
Ebbene, per lei l’essere integralmente figlio di Dio significa andare con Lui mano nella mano, e quindi “fare il volere divino e non il proprio”. Ciò significa in particolare deporre ogni preoccupazione e speranza nelle mani di Dio non preoccupandosi così mai più assolutamente né di sé e del proprio futuro. E questo sarebbe per lei libertà e felicità. Ella riconosce però che queste due attitudini le posseggono davvero pochi, escludendo così perfino coloro che hanno una forte disposizione al sacrificio, ossia coloro che sono pienamente disposti ad offrire sé stessi come olocausto vivente. Anche costoro, insomma, rientrano nell’assoluta maggioranza di coloro che per tutta la vita non fanno altro che camminare curvi sotto i loro pesi. E chiaramente sono coloro che non mostrano la famosa «gioia cristiana».
Sì abbiamo sentito bene – non sono da considerare pienamente cristiani anche coloro che di fatto offrono la propria vita nel contesto di situazioni esistenziali impossibili (senza uscita) affrontando ogni giorno un vero e proprio martirio e peraltro non pensando nemmeno lontanamente a sottrarsi egoisticamente a tali situazioni. E perché? Perché essi non dimostrano l’altra virtù cristiana inscindibilmente legata al «fare la volontà», cioè la gioia nel fare la volontà. Tale virtù conferma infatti pienamente quell’eroismo che a sua volta configura anche in Berdjaev l’elezione aristocratica che contrassegna il vero cristiano [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-326, XII p. 346-349, XIII p. 355-358]. Ma intanto (cristiano o non cristiano) essa mostra i tratti tipici di un vero e proprio ebetismo; peraltro anche nauseante e sdolcinato. E si badi bene che non stiamo affatto affermando questo sulla base del mero senso comune o anche buon senso (la famosa ragionevolezza), bensì sulla base di una fede cristiana che sente il dovere di rigettare con sdegno ogni retorica che osi mettere in scherzo la serietà del dolore che le persone provano nel corso della loro esistenza. Ma quali libertà e felicità nel consegnare la propria volontà a quella divina? Come si può pensare infatti che l’essere cristiano obblighi a sorridere sempre anche se ci si trova costantemente in situazioni che rischiano continuamente di portarci sull’orlo della follia, della malattia, e perfino della morte?
Ebbene, cos’è questo se non sadismo? E come questo sadismo può venire spiegato se non come una mera retorica che necessariamente può avere pochissimo a che fare con il Cristianesimo come religione dell’amore, e quindi con gli stessi insegnamenti di Cristo?
Del resto la Stein appare perfettamente consapevole di questo. E così, nell’invitarci ad essere come “gigli del campo” (secondo l’esortazione di Gesù), prende atto del fatto che per l’usuale buon senso del mondo questa appare come una “follia”, di fronte alla quale si scuote la testa. Eppure la pensatrice conferma pienamente l’ammissibilità di tale follia, dato che proprio qui ella afferma che “deve aver sbagliato i suoi calcoli” (“könnte sich schwer verrechnet haben”), ossia si sbaglia di grosso, colui che ha osato pensare che Dio che provveda davvero ad ogni sua necessità. Vi è forse una smentita più violenta e frontale della possibilità del concreto aiuto divino? E dunque, secondo Stein, predicatori e santi come Don Dolindo Ruotolo (che invece parlava apertamente di tale aiuto e peraltro invitava tutti noi a crederci ciecamente) si sbagliavano anche loro di grosso?
C’è da restare davvero sconcertati di fronte alla così profonda frattura che in tal modo emerge nel cuore dell’intera omiletica e teologia cristiana. E pertanto si è portati a chiedersi da che lato si trovi la verità.
Insomma siamo così di fronte al punto e momento più cruciale (il suo fulcro stesso) della definizione cristiana dell’esperienza religiosa. Ed è evidente che esso consiste nell’ammissione o meno del concreto aiuto divino.
Intanto qui (proprio come fece Teresa d’Avila) Stein ci esorta ad essere pronti a prendere dalla mano di Dio qualunque cosa venga. E questo perché solo Lui “sa cosa è bene per noi”, incluso bisogno, spoliazione e insuccesso. Eccoci insomma di fronte alla più aperta e chiara forma della retorica che abbiamo descritto e deplorato all’inizio. Ma di nuovo si è spinti a chiedersi se davvero si può pensare e dire una cosa simile in nome di Gesù. Appare invece molto più probabile che Gesù non c’entri nulla con questo, e che quindi si tratti appena di una retorica umana mimetizzata da ispirato discorso religioso.
Tanto più per il fatto che qui Stein impietosamente continua a rincarare la dose. Ella dice infatti che in
questo senso il “sia fatta la Tua volontà” deve venire considerata una regola generale, ubiquitaria e persistente di comportamento per il cristiano: − essa deve regolare la sua intera vita. Dunque questa deve essere l’”…unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre se le prende il Signore su di sé. Ma intanto questa unica resta a noi per la vita intera”. Il che significa che, anche come cristiani, noi non siamo affatto “assicurati per sempre”. E quindi ognuno di noi cammina sempre sul “filo di rasoio (“Messers Schneide”) tra il “nulla” (“Nichts”) e la “pienezza” (“Fülle”) della vita divina.
Ciò significa insomma che l’esperienza religiosa andrebbe intesa proprio come vissuto contemporaneo e misto di nulla e pienezza.
È di nuovo insomma una frontale smentita del concreto aiuto divino; unita peraltro al solito insopportabile (logicamente sgangherato e pochissimo autentico e credibile) dire e non dire, affermare e negare. Ma intanto, posto che abbiamo già chiarito che è ammissibile invocare l’aiuto divino solo in situazioni estreme e quindi serissime, dove sarà allora la “pienezza” della quale qui Stein blatera? Evidentemente da nessuna parte per il santo martire che si trova in quelle condizioni. E quindi – pur con tutto questo florilegio omiletico-retorico – a questo poveraccio non resterà altro che rassegnarsi al solo “nulla”. Dato che qui della pienezza non vi è alcuna traccia. Ecco di nuovo che la montagna partorisce il topolino, e così l’intera retorica finisce per risolversi nell’esortazione a rassegnarsi al dolore senza via di uscita, senza poter più nemmeno lamentarsi di questo.
Eppure Stein precisa che sta esattamente qui il punto di passaggio tra la fede infantile a quella adulta. Infatti per lei solo nella prima ni sperimentiamo almeno per un po’ una mano sicura e forte. Ma poi, come lei dice, “non sarà sempre così”. E dire che proprio lei aveva visto in Dio quel Fondamento di essere che funge da forte “braccio” che immancabilmente salva noi enti finiti dalla minaccia costante di sprofondare nel nulla [Edith Stein, Endliches…cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113]. Ma qui ella sostiene che, nel contesto di una fede adulta, noi dobbiamo invece rinunciare a questo Braccio forte in quanto mano che guida, e quindi dobbiamo accettare che la nostra fede implica inevitabilmente l’associazione all’esperienza della Croce.
E qui ci troviamo di fronte ad un altro tipico elemento della retorica introduttivamente commentata – quello secondo il quale l’esperienza religiosa cristiana implichi necessariamente la nostra associazione all’integrale esperienza della Croce. Laddove in questa idea si trascura la lapalissiana constatazione che Dio non avrebbe mai scelto volontariamente di sottomettersi allo strazio infinito dell’essere «uomo» se avesse saputo che l’uomo sarebbe stato capace per definizione di sopportare la stessa incommensurabile dose di dolore che egli ha sopportato come Cristo, ossia come pieno Dio-Uomo. È evidente inoltre che Dio in quanto Gesù Cristo è stato capace di sopportare questo insopportabile ed immane strazio solo perché in fondo a sé stesso sapeva di essere un dio, e che quindi tutta quella che Lui ha vissuto sullo sfondo non era che una pantomima, sebbene con tutti i caratteri della realtà (nessun escluso). Ma Egli intanto sapeva esattamente che a questa pantomima (che poi è l’illusoria commedia della morte che viene messa costantemente in atto da Satana) invariabilmente sarebbe seguita la Sua Resurrezione dai morti e il Suo ritorno alla Gloria della condizione divino-celeste.
Pertanto, nel contesto di una logica di tipo religioso, è assolutamente ridicolo pensare che l’uomo possa davvero condividere integralmente la realtà della Croce – per quanto santo possa essere! E pertanto è evidente che chi lo pensa (inclusa purtroppo la nostra carissima Stein) non è altro che uno psicotico (oltre che un indegno antropomorfizzatore).
Ebbene noi riteniamo che stiano proprio qui le risposte alle domande che spontaneamente sorgono di fronte alle affermazioni di tutta questa retorica della necessaria associazione dell’uomo all’esperienza della Croce − è davvero possibile pensare che il partecipare alla vita divina coincida con il vivere solo soffrendo?
È davvero possibile e sano sostenere questo? E queste domande senz’altro ci riconducono all’insidioso rischio insito nella condizione mistica, ossia quello di scambiare i propri deliri per sublimi pensieri religiosi.
Cosa che, a quanto pare, non ha escluso nemmeno Stein ed inoltre l’intera spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito, e che mostra le sue forme proprio in queste affermazioni.
A quanto prima detto la pensatrice aggiunge comunque qui la costatazione che il dolore non è nulla di fronte all’esperienza terrificante della notte oscura. Ma, ella precisa, sta di fatto che la notte oscura è un altro (ed ancora più fondamentale) momento della nostra partecipazione alla vita divina; in particolare della divinità come liberazione, cosa che avviene solo attraverso il dolore. E questo perché la partecipazione alla vita divina è (dopo l’Incarnazione) anche partecipazione alla vita umana di Dio, nella quale Egli ebbe la possibilità di “soffrire e morire”.
Eccoci insomma di fronte ad un’altra affermazione inaccettabile per l’uomo che si trova pienamente immerso nell’esperienza del dolore come prova (in quanto situazione seria, straordinaria e senza uscita).
Ed ancora una volta Stein sembra pienamente consapevole di questo. Ella afferma infatti che naturalmente per la “ragione naturale” questa è chiaramente “perversione”. Ma aggiunge che invece non è così nella “luce della Liberazione”, nella quale tutto questo si rivela come la “più alta ragione” (“höchste Vernunft”).
Ebbene questo ci dimostra che, nel corso della fase mistico-monastica e contemplativa della sua opera,
ella non seguiva già più la ragione naturale ma invece solo una ragione superiore, ossia un discorso chiaramente iper-razionale. E di questo va preso atto nel corso della comprensione del suo pensiero in fase mistica.
Ma intanto la più alta Ragione divina sarebbe quella che avrebbe spinto Dio ad incarnarsi e soffrire solo a condizione che anche noi soffrissimo insieme a Lui? Inoltre ciò sembra voler implicare anche il dovere di resistere perfino nella sensazione di essere stati totalmente abbandonati da Dio. E questa sarebbe liberazione? Ed inoltre addirittura liberazione dall’assolutamente irresistibile pressione del bisogno e da quello dell’istinto di sopravvivenza? Tutti elementi che Dio sa perfettamente essere così profondamente insiti nella natura umana da non poter venire in alcun modo ignorati o eliminati. E forse la “preveggenza divina” (della quale qui Stein parla espressamente) aveva previsto il proprio martirio nel mentre intanto sapeva che questo sarebbe stato liberante soltanto con tutta la zavorra di questi così gravi limiti?
No! È davvero impossibile pensare tutto questo. Perché questo contraddice davvero frontalmente la logica unilateralmente amorosa ed unicamente auto-sacrificale dell’Incarnazione. Pertanto non si può concluderne altro che, entro questo ragionamento, vi devono essere delle gravi lacune logiche che (volutamente o non volutamente) ci si rifiuta di riempire. E questo a sua volta non può essere spiegato da altro che dal fatto di aver abbracciato acriticamente una retorica preformata e rigidamente canonica.
Cosa che per Stein è così sorprendente da lasciare il suo studioso davvero di stucco.
Ma passiamo ora al secondo testo steiniano presente in DWG, ossia “Verborgenes Leben und Epiphanie” (“Vita nascosta ed epifania”) [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., II p. 67-77].
E qui emergono nuovamente in Stein (in maniera di nuovo sorprendente, visti anche i passi appena commentati) dei possibili elementi positivi nella concezione dell’esperienza religiosa – specie come intima relazione personale con Dio.
La pensatrice constata infatti che tutte le persone coinvolte (direttamente o indirettamente) nello scenario del Presepe (Maria, Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, i Re Magi) avevano vite separate, e precisamente nel contesto di una relazione assolutamente solitaria con Dio. Solo che non sapevano di rientrare anche così in una realtà comune, che poi corrisponde al piano divino; elemento che è stato del resto sempre presente nel pensiero steiniano. Per questo, ella dice, al cospetto del Presepe noi ci troviamo davanti ad uno scenario davvero grandioso: − caratterizzato soprattutto dai Pagani (Re Magi) per i quali da Giuda doveva venire la salvezza. Ed essi rappresentano così “i cercatori” di Dio che sono ovunque nel mondo, aldilà di tutte le specifiche religioni e relative Chiese istituzionali.
Ma ciò significa che costoro sono il prototipo di coloro che sperimentano una del tutto pura ed incondizionata “aspirazione” (“Verlangen”) alla verità. La quale evidentemente non conosce confini né limiti di sorta. E questo accade perché “Dio è la Verità e vuole farsi trovare da coloro che la cercano con tutto il cuore”. Questo è insomma, entro la simbologia del Presepe, ciò che accade per mezzo della Stella che mostra la strada.
Ebbene di nuovo ci ritroviamo in tal modo al cospetto di una concezione dell’esperienza religiosa che è caratterizzata dalla singolarità (dell’esperienza di Dio) e che inoltre è di altissimo livello non solo religioso ma anche filosofico, dato che ne va dell’incontro con la Verità per eccellenza. Ma esattamente in tale contesto emerge la constatazione che Dio vuole a tutti i costi venire trovato; il che richiama l’idea berdjaeviana secondo la quale Dio ha un bisogno spasmodico dell’uomo. Ora, una volta posto questo, si può ancora per davvero sostenere che Dio esiga dall’uomo una fede che consiste unicamente nell’esperienza dell’Invisibile, e quindi escluda rigorosamente qualunque frutto tangibile dell’esperienza religiosa, ossia ancora una volta il concreto aiuto divino?
Ma con ciò abbiamo ultimato l’analisi di DWG.

Giunti a questo punto il testo di Le Fort (DEF) ci offrirà solo pochi contributi, dato che, come abbiamo detto, esso si occupa solo marginalmente dell’esperienza religiosa. Cosa che peraltro può venire ridotta entro i termini di quella incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che è tipicamente femminile, ma nello stesso tempo fa da paradigma per la corretta relazione con Dio per qualunque essere umano.
Infatti Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17] afferma che Maria è da considerate il «religioso» stesso per eccellenza, specie in quanto primaria manifestazione del religioso, attraverso il quale Dio viene venerato.
Il che si giustifica con il fatto che solo il femminile (in quanto capace di illimitata ricezione) può esprimere in pieno la dimensione religiosa in quanto esperienza umana del divino.
A ciò Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 95] aggiunge che i moderni deplorevoli fenomeni del distacco del femminile dalla propria simbologia intensamente religiosa (ossia dalla propria vera natura) vanno di pari passo con il fenomeno della separazione tra uomo e Dio che è avvenuto nella società (in gran parte per il prevalere di unilaterali valori maschili sulla invece necessaria stretta collaborazione tra uomo e donna). E la tragica conseguenza di ciò è stato secondo lei lo spostamento della relazione tra uomo e Dio (ossia la stessa esperienza religiosa) in direzione della Fine dei Tempi. Il che equivale poi all’intendimento dell’esperienza religiosa unicamente nel contesto di una prospettiva apocalittica. Infatti quest’ultima si è di fatto sostituita a quella pienezza dei tempi che invece è sempre solo attuale ossia storica. In definitiva, dunque, la relazione con Dio è stata spostata alla fine, e quindi non viene più vissuta attualmente, come invece si potrebbe e si dovrebbe. Ciò significa allora che – come del resto ha sostenuto Guardini [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585] – se nella storia non vi è traccia del Regno dei Cielo questo è solo frutto della nostra responsabilità, ed inoltre significa anche che tutto ciò non sarebbe avvenuto se la Donna non solo avesse continuato ad essere fedele alla sua vera natura, ma inoltre, proprio su questa base, avesse continuato a costituire il paradigma massimo dell’esperienza religiosa per mezzo della figura della Vergine Maria.
A ciò va comunque aggiunto che Le Fort considera il “si” (o “fiat”) tipicamente femminile-mariano come una forma di collaborazione dell’uomo alla creazione che ci ricorda quanto abbiamo già visto in Berdjaev [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 18-29, p. 33-95, p. 97-157].
Tutto questo non ha certo relazione con il nostro specifico tema dell’aiuto divino. Ma comunque l’attualità storica del Regno dei Cieli contraddice anch’essa un’esperienza religiosa che (nel contesto della retorica introduttivamente commentata) si incentra unicamente su un vissuto totalmente negativo del divino, sia pur mascherato sotto confuse, contraddittorie ed inautentiche (se non menzognere) formule omiletico-teologiche che vorrebbero convincerci della sua positività.

Conclusioni.
Giunti a questo punto è ormai necessario trarre delle conclusioni dall’intero discorso.
Abbiamo davanti a noi due parti di un unico discorso, ossia il discorso che (direttamente o indirettamente) concerne l’esperienza religiosa in quanto relazione tra uomo e Dio. Abbiamo visto che essa può venire intesa in diversi modi, ed abbiamo però anche visto che, nel contesto della tradizionale dottrina cristiana, si rilutta fortemente (e per vari motivi) in primo luogo a considerarla un’esperienza anche strettamente personale e quindi intima (oltre che collettiva ed ecclesiale) ed in secondo luogo a considerarla un’esperienza produttiva, ossia capace di mettere capo ad un concreto aiuto divino.
Intanto il pensiero di Berdjaev ci ha fornito molti elementi per considerare l’esperienza religiosa in una maniera che renda plausibili entrambi questi due intendimenti. Ma abbiamo anche visto che ciò a suo avviso non può avvenire se prima non vi è un profondo rinnovamento della dottrina e prassi cristiana, che egli sintetizza come “nuova Rivelazione” e che consiste in definitiva in una sorta di finora mai avvenuta “rivelazione antropologica” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Quest’ultima consiste a sua volta nella dichiarazione dell’inalienabile dignità dell’uomo in quanto ente pienamente umano-divino, e quindi necessariamente in intima relazione con Dio. Ed è evidente che tale scenario non solo è tutto di là da venire, ma inoltre non si può assolutamente essere certi che esso un giorno davvero si delineerà davanti al nostro sguardo. Questo significa allora che attualmente abbiamo solo alcune possibilità a disposizione, e tutte peraltro estremamente negative, rispetto alla concezione cristiana dell’esperienza religiosa: − rassegnarci tristemente al dominio della retorica omiletico-teologica che prima abbiamo descritto e deplorato, abbracciare l’immanentismo scettico e tendenzialmente ateo dei nuovi teologi cristiani, oppure addirittura dire addio alla fede cristiana più canonica nella costatazione che essa non intende in alcun modo permetterci un’autentica esperienza di Dio. E a questo punto ci resteranno solo altre due alternative: − professare una fede cristiana tutta nostra, oppure abbandonarla del tutto.
Ma, per l’uomo che ci trova in quelle tremende soluzioni senza uscita delle quali abbiamo parlato, questa ultima possibilità equivale ad abbandonare ogni speranza di uscirne nella giustizia e nell’amore, essendo così costretto ad uscirne solo nell’egoismo e nella violenza, oppure essendo costretto a gettare la spugna ed abbandonarsi del tutto alle soverchianti forze negative che gli si oppongono, offrendo così il capo alla loro affilata scure.
Tuttavia tale scenario diviene ancora più oscuro se teniamo conto del fatto che una pensatrice intensamente religiosa e mistica come Edith Stein sembra aver accettato senza troppe difficoltà la prima tra le soluzioni negative che abbiamo poc’anzi indicato, ossia la via della mera retorica. Ed in essa abbiamo constatato in particolare il sussistere di un discorso che non regge assolutamente nel contesto di una logica del tutto sgangherata (lacunosa, piena di contraddizioni e fortemente sospetta di omissioni, reticenza e mendacia) sia pure molto attenta alle caratteristiche specifiche della fenomenologia religiosa. Proprio a causa di quest’ultima noi veniamo costretti ad accettare un’esperienza religiosa che può venire considerata positiva solo con un immenso sforzo di immaginazione, e peraltro non senza una cieca obbedienza. Il che poi, una volta trasportato sul piano di quelle tremende situazioni senza uscita (delle quali abbiamo più volte parlato), ci obbliga di fatto a rinunciare a qualunque possibilità di un concreto aiuto divino in quanto mera illusione. Cosa che poi (come abbiamo detto poc’anzi) ci precipita nel profondo di un’esperienza religiosa nel contesto della quale, nel mentre siamo totalmente abbandonati alla solitudine ed all’impotenza, o abbracciamo anche noi la retorica omiletico-teologica per pura disperazione (e quindi senza la benché minima speranza) oppure ci rassegniamo all’ineluttabilità dell’esperienza che stiamo vivendo in tutta la sua crudezza. Cosa che ovviamente ci renderà molto difficile, se non impossibile, conservare la fede.
Ebbene, di fronte ad uno scenario così oscuro e desolante ci possono venire in soccorso solo due elementi – la speranza che gli auspici di Berdjaev davvero un giorno trovino realizzazione, e la costatazione che forse una pensatrice come Stein (nello scrivere un’opera come DWG) non ci abbia detto tutto quello che pensava, sentiva e sapeva. Ed abbiamo visto che nel contesto del suo discorso non mancano (per quanto siano molto flebili e timidi) dei segnali che suggeriscono tale ipotesi.
Dunque cosa può essere mai accaduto nel pieno della retorica omiletico-teologica così com’è stata vissuta e pensata da una pensatrice e mistica come Stein – sulla cui onestà, purezza, profondità spirituale e potenza intellettuale è davvero difficile nutrire dei dubbi?
Può essere solo accaduto che, così come ella si era sottomessa di fatto ad una necessaria rinuncia sacrificale pressoché completa all’atteggiamento attivo-assertivo che la filosofia avrebbe potuto consentirle, allo stesso modo ella si sia sottomessa ad un altro atto di rinuncia, che probabilmente è consistito nella scelta (profondamente motivata) di abbracciare in maniera davvero radicalmente incondizionato la spiritualità carmelitana alla quale ella dovette aderire nel varcare per sempre la soglia del Carmelo di Köln; ed ancor più la soglia di quel Carmelo di Echt che poi la condusse al pieno compimento della sua decisione di offrirsi come vittima per l’espiazione dei peccati del mondo. È solo pensando questo che le sue affermazioni riconducibili alla natura dell’esperienza religiosa cessano di essere scandalose ed inaccettabili, e cessano quindi di indurre in noi un moto di profonda indignazione. Ciò significa dunque che probabilmente noi non dobbiamo guardare tanto ai contenuti del suo discorso, ma dobbiamo invece guardare al loro sfondo profondo e nascosto. Che corrisponde esattamente poi a quelle sue radicali scelte che furono insieme religiose ed esistenziali.
Ma quali possono essere state le motivazioni profonde di una scelta di rinuncia così dura?
Ebbene possiamo comprenderlo nel mentre ricolleghiamo la sua scelta monastica al quella che fu la natura più autentica della sua mistica. Esaminando infatti DWG abbiamo constatato che in esso la mistica steiniana si presenta in un aspetto molto dimesso, discreto, poco ambizioso che quindi fa di essa una mistica per nulla rigogliosa (come lo fu invece quella di Teresa d’Avila e Juan de la Cruz, i quali pure furono per lei punti di riferimento esemplari). E questo potrebbe significare allora che, così come la sua stessa scelta monastica, anche perfino la prassi mistica restò per lei sempre sottomessa (e quindi del tutto secondaria) al ben più primario aspetto della sua previa e primaria scelta di offrire sé stessa in olocausto. Il che spiegherebbe per un’altra via anche il perché della sua sottomissione incondizionata alla spiritualità carmelitana con tutto il suo inflessibile rigore quasi militare. A mo’ di esempio ricordo al proposito al lettore un fatto del quale veniamo a sapere mediante le sue lettere, e cioè che al tempo in cui ella entrò in convento la Regola carmelitana proibiva severamente qualunque forma di riscaldamento degli spazi, motivo per cui tutte le monache andavano soggette a malattie respiratorie anche gravi [Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015, lettere 299, 300, 334, 572, 654, 684, 692). Questa assurda prescrizione fu poi abolita, ma pare che intanto Stein ne abbia sofferto moltissimo, essendo costretta nella sua cella a correre ai ripari coprendosi e riscaldandosi con mezzi di fortuna.
Dunque tutto ciò getta una luce non indifferente sulla retorica alla quale ella si rifà nel descrivere i tratti fondamentali dell’esperienza religiosa. Sembra quasi, insomma, che ella si sia volontariamente sottomessa al compito di affermare cose (ed anche di farle) nelle quali però molto probabilmente nemmeno credeva fino in fondo – e tuttavia con fini che abbiamo visto essere non solo nobili ma perfino sublimi. Sta di fatto che però tali fini erano, dal suo specifico punto di vista, inconfessabili per pudore e discrezione, dato che ella aveva fatto le sue così radicali scelte unicamente nel segreto del proprio intimo ed in privata relazione con Dio. Ciò può venire dimostrato dalla frase, citata da Gerl, che ella pronunciò quando le fu chiesto come si sentisse mentre veniva trasportata verso Borken e poi verso Auschwitz: − “Mein Geheimniss gehört mir”, o “Il mio segreto appartiene solo a me” [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 7-19]. E questo spiegherebbe bene anche le oscillazioni del suo discorso, tra l’affermazione della rigorosità tutta negativa dell’esperienza religiosa ed invece l’apertura ad i suoi aspetti positivi. In sintesi il rigore negativo dell’esperienza religiosa descritta e raccomandata da Stein appare essere molto più relativo che non assoluto – e più precisamente relativo alla sua tutta personale via al divino, via che lei stessa aveva autonomamente scelto e che evidentemente le era stata concessa da Dio. Senza però alcuna intenzione (da parte di entrambi!) di farne un modello obbligatorio e valido per tutti. E questo senz’altro vale anche per la così rigorosa e spietata spiritualità carmelitana di tipo senz’auto-mortificante se non (da un certo punto di vista) sado-masochista.
Essa può essere effettivamente così in termini oggettivi. Ma evidentemente esistono anime che non possono arrivare a Dio se non per questa via. Il che però non significa affatto che tale via a Dio debba venire descritta come l’unica possibile.
Ma comunque tutto ciò significa allora che le così possenti ed autorevoli esortazioni steiniane ad un’esperienza religiosa integralmente sacrificale (fino al punto di renderla totalmente negativa, una volta che essa venga spogliata di ogni retorica) vanno prese appena come rinvio alla decisione auto-sacrificale che ella intanto aveva preso. Il che però significa che esse sono valide solo relativamente a questo, e non invece in assoluto.
In definitiva insomma sembra che noi non siamo affatto chiamati a prendere come insegnamenti vincolanti le indicazioni che Stein ci da circa ciò che dovrebbe essere un’autentica esperienza religiosa. Il che poi esautora totalmente, ma per una via alternativa, la tradizionale retorica omiletico-teologica.
E dunque, su questa base – sebbene restando comunque orfani di una guida autorevole che ci possa confortare nel nostro intendimento dell’esperienza religiosa (dato che le inattuali considerazioni di Berdjaev restano comunque insufficienti in quanto assolutamente non attuali) – noi potremmo ora ritornare a percorrere da soli il cammino che speriamo possa portare alla concezione di un’esperienza religiosa entro la quale sia pienamente lecito aspettarsi il concreto aiuto divino.
A questo punto, dunque, non ci resta che rivolgere la nostra attenzione agli scritti di Don Dolindo Ruotolo, che abbiamo in questa indagine solo vagamente menzionato senza però poterne trattare per il semplice fatto che conosciamo solo alcune sue isolate affermazioni, ma non invece tutto ciò che ha scritto. Ma sta di fatto che questi libri ci sono, e quindi possiamo citarne anche i titoli: − “Gesù pensaci tu”; “Don Dolindo Ruotolo e gli spiriti celesti” (a cura di Marcello Stanzione e Carmine Alvino); “Atto di abbandono. Mio Dio confido in te!”; “L’Immacolata nella vita di Don Dolindo Ruotolo”; “Don Dolindo sull’altura delle beatitudini” (a cura di Pasquale Rea); “Don Dolindo Ruotolo nei piani di Dio” (a cura di Pasquale Rea).
E quindi l’esame di questi scritti potrebbe essere l’oggetto di una nostra prossima indagine.
Restano comunque intanto lo sconcerto e l’amarezza del credente al cospetto di uno scenario religioso-cristiano nel quale sembra che si tenda a fare (e peraltro con ostinazione e forse perfino con protervia) l’esatto contrario del supportare l’uomo comune nella sua fede vissuta. In altre parole, nell’esortarlo alla fede in Dio, intanto si fa di tutto per togliergli il pane, ossia la speranza in un concreto aiuto divino entro le più gravi avversità. Ed abbiamo visto quanto forte possa essere il contributo di questa prassi all’abbandono della fede da parte di un numero sempre più grande di persone. Infatti, per come siamo fatti noi uomini, l’esperienza di Dio o è tangibile, concreta, realistica, credibile e trasparente (sebbene nel rispetto della sua natura spirituale e non materiale), oppure finisce per diventare una favola se non addirittura una barzelletta. E ci sembra che questo sia esattamente quanto è accaduto nelle nuove generazioni. Le quali ormai, smaliziate come sono, guardano alla fede solo con un atteggiamento di divertita commiserazione piena di scherno.
Che sia anche questo un altro segno dell’odierno potente operare dell’Anticristo non solo nel mondo ma anche nella Chiesa stessa?

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[ATTENZIONE: questo articolo è stato già accettato per la prossima pubblicazione sulla rivista Dialeghestai, per cui diffida dalla riproduzione non autorizzata del testo, in accordo con le leggi vigenti sui diritti d’autore]

Introduzione.
Abbiamo già trattato di questo tema in un precedente articolo, ma esso era fondato su una base testuale molto più ristretta [Vincenzo Nuzzo, Rilettura di Edith Stein alla luce del pensiero di Nikolai Berdjajew. L’essere in quanto Essente (Seiende), Dialeghestai 2022 (in corso di pubblicazione)]. Comunque lì come anche qui, nell’affrontare il tema, è stato necessario innanzitutto chiedersi il perché di questo sforzo di approssimazione. Tra i due pensatori non c’è infatti null’altro se non delle molto vaghe relazioni e comunque mai dirette. Alcune lettere della Stein mostrano che Berdjaev fu oggetto di lettura e riflessione da parte di alcuni suoi conoscenti (per questo si veda comunque il primo articolo appena citato). Ed inoltre il libro di Gertrud von Le Fort (sua corrispondente e carissima amica) menziona non poche volte il pensatore russo come un proprio importante punto di riferimento [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Sta di fatto che, per quanto si sappia, Stein e Berdjaev non si conobbero mai né mai ebbero alcuno scambio di idee. È vero comunque che Berdjaev si soffermò molto su Husserl nel corso delle sue riflessioni, e quindi non è escluso che vi siano stati dei contatti tra la lui e quella scuola di pensiero. Anche perché da espatriato Berdjaev soggiornò a Berlino, città nella quale però la scuola husserliana non fu affatto rappresentata. A causa di tutto ciò non ci sentiremmo di escludere che la Stein abbia perfino letto i testi del pensatore, sebbene nei di lei testi non ne viene mai fatta alcuna menzione. In ogni caso è evidente anche già a prima vista che il suo pensiero diverge radicalmente da quello di Berdajev, sebbene i due condivisero una serie di significative prese di posizione filosofiche: – la necessità di un’impostazione intensamente religiosa della filosofia, la necessità di ritornare ad una forte antropologia filosofico-religiosa, l’etica incentrata nella libertà, nella responsabilità, nella scelta, il personalismo e lo spiritualismo.
Quindi, come è già avvenuto in molte altre nostre ricerche, il senso di questo nostro sforzo di accostamento consisterà in primo luogo nell’esplorazione dell’ambiente filosofico che vi fu intorno al mondo steiniano nel tempo in cui ella visse ed operò. Cosa che poi giustifica le possibili affinità in una maniera anche abbastanza ovvia. In ogni caso bisogna dire che il tempo in cui visse ed operò Stein coincide quasi totalmente con quello in cui visse ed operò Berdjaev, con l’unica eccezione nel fatto che egli ebbe la fortuna di superare incolume la tragedia della II Guerra Mondiale per morire solo nel 1948. Pertanto una certa (per quanto vaga) relazione tra i due pensieri deve esistere anche solo perché essi sono stati di fatto immersi nella stessa atmosfera storico-culturale, ideale ed anche fattuale. È evidente però già in partenza che può trattarsi solo di una relazione nella differenza. E del resto questo è quanto avevamo messo in luce anche nel nostro primo articolo.
Oltre a ciò colpisce comunque il fatto che Berdjaev è stato uno di quei pensatori che (in maniera abbastanza simile a Heidegger e Jaspers) si è spinto abbastanza oltre i limiti sia del concetto di essere della tradizionale ontologia sia del concetto di essere estremamente riduttivo al quale Husserl permise di esistere nel contesto del suo idealismo trascendentale. E qui le cose divengono estremamente interessanti dato che Stein compì di fatto il percorso che riportava dal secondo al primo concetto di essere.
Berdjaev, invece – anche se si dedicò con molta energia al recupero di questo concetto – non percorse affatto questo cammino. E questa evidenza si presta quindi molto bene ad una relativizzazione del progetto filosofico-metafisico perseguito da Stein nel costruire la sua ontologia; il che poi ci permette anche di comprenderlo molto meglio di quanto sia possibile quando esso viene considerato scontato e così anche assolutizzato. In tal modo scopriamo insomma che al tempo di Stein il recupero del concetto di essere conobbe varie possibilità, delle quale ella seguì appena una. E di questo abbiamo parlato anche nel nostro primo articolo, sebbene a partire da un punto di vista piuttosto ristretto.
Questo non significa però dover necessariamente stabilire una gradazione di valore tra l’una e l’altra filosofia dell’essere. Significa invece molto più tentare di allargare la gamma delle forme storiche con le quali essa si presentò a quel tempo. Ma, rispetto a Stein, implica anche un’altra cosa. Infatti ella condivise fortemente con Berdjaev i valori della libertà, della responsabilità, della scelta, e soprattutto della persona umana. E tali valori risultano strettamente connessi a quella filosofia dell’essere che presso di lui si manifesta con i tratti primari di un’antropologia ancora più forte di quella steiniana (in altre parole in lui il concetto di «essere» e quello di «uomo» coincidono quasi totalmente). Eppure la sua filosofia dell’essere differì molto sensibilmente da quella steiniana a causa di un concetto di essere molto diverso.
E tutto questo, quindi, ci permette di analizzare più approfonditamente come ed in che misura, presso Stein, la filosofia dell’essere si sia strutturata in relazione con elementi filosofici tipici del personalismo.
In altre parole questa indagine ci permetterà anche di gettare uno sguardo sulla relazione tra il personalismo steiniano e quello di Berdjaev. Sebbene a questo così complesso argomento sarà necessario dedicare un’ulteriore indagine.
Naturalmente comunque ci riferiremo qui quasi esclusivamente ai testi di Berdjaev e solo di rimando a quelli di Stein, e quindi tutto sommato dando per scontata la visione di quest’ultima. Se così non fosse l’ampiezza del materiale non ci permetterebbe di restare nello spazio di un articolo. Ma intanto il lettore che non è addentro negli studi steiniani potrebbe orientarsi rapidamente in esso per mezzo della sintesi che noi ne abbiamo fatto [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/%5D, oppure anche per mezzo delle diverse opere riassuntive che sono state scritte su di esso.
Intanto devo ricordare che il nostro primo articolo sul tema si riferì integralmente al testo “Das Ich und die Welt der Obiekte” (DIWO) [Nikolai Berdjajew, Das Ich und die Welt der Objekte, Holle, Darmstadt 1951], che fu un’opera solo tardiva (del 1938). Anche su questa ristretta e secondaria base avevamo discusso la differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. DIWO però aveva obiettivi ben più ristretti di quelli perseguiti in altre opere, e cioè aspirava ad affrontare in primo luogo il problema del filosofare in rapporto ad uno dei suoi aspetti tradizionali più fondamentali, ossia la relazione tra Io ed oggetti. L’opera è quindi di respiro molto meno ampio rispetto a quelle che esamineremo in questo articolo, e cioè “Il senso della creazione” (SC) e “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaka Book, Milano 2018; Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], che sono state poi anche opere più precoci e basilari del pensatore − rispettivamente del 1916 e del 1923.
Bisogna inoltre dire che in SC il concetto di essere si presenta in maniera ben più diretta e compiuta. Per cui ci è sembrato necessario basarci soprattutto su questo testo per completare le nostre considerazioni sulla differenza esistente tra la filosofia dell’essere di Stein e quella di Berdjaev. Pertanto il presente articolo si baserà soprattutto su SC e CD, sebbene conterrà anche alcune considerazioni tratte da DIWO.
Infine ecco un’ultima considerazione introduttiva. Tutto quello che diremo della filosofia dell’essere steiniana riguarda di fatto in gran parte quel suo pensiero che venne prima della fase mistico-monastica della sua vita ed opera. Quindi quella certa svalutazione di tale filosofia che inevitabilmente ne scaturisce non investe affatto l’interezza e pienezza del pensiero steiniano. Dato che a nostro avviso essi si ritrovano solo nella sua ultimissima fase mistico-monastica, come del resto evidente nella lettura delle sue ultime lettere [Vincenzo Nuzzo, Le caratteristiche del pensiero nella fase mistica dell’opera di Edith Stein alla luce delle lettere 1933-1942, Dialeghestai, 23, 2021]. D’altro canto proprio in questa fase il centro del pensiero steiniano non era già più affatto la filosofia dell’essere.

I- Essere e conoscenza dell’essere. Il problema della “gnoseologia critica”.
Stando a ciò che Berdjaev scrive in SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., II p. 85-88] è davvero difficile distinguere cos’è per lui il mistero dell’essere e cos’è invece il mistero dell’uomo. Di fatto sono per lui la stessa identica cosa. E lo sono soprattutto in quanto entrambi sono degli a priori assoluti tanto dell’ontologia quanto della stessa gnoseologia. Per cui si tratta di fatto di un complessivo a priori non gnoseologico. Ed ecco che già in tal modo l’essere si presenta in maniera assolutamente incondizionata; come senz’altro non si presenta affatto nel contesto della Fenomenologia husserliana. Non a caso Berdjaev sostiene che l’uomo è essere in una maniera così ampia prima di tutto in quanto è microcosmo in intima relazione con il macrocosmo. Il che significa che, anche ammesso che noi volessimo seguire la linea della riduzione trascendentale dell’essere secondo Husserl, dovremmo comunque andare a ritroso ben oltre lo stesso Io puro (il quale già non è affatto l’Io empirico della psicologia) per poter raggiungere davvero il termine ultimo della riduzione.
Il quale appare qui anche del tutto rovesciato rispetto a ciò che avviene nella visione di Husserl – perché è l’essere antecedente pensiero e conoscenza, e non viceversa.
Ecco allora che, per Berdjaev, l’essere va inteso (insieme all’uomo) come quanto di più originario possa venire mai concepito. Ora è senz’altro vero che, a partire dalla sua fase realistica (coincidente con l’ontologia tomistico-aristotelica), Stein iniziò a concepire l’essere come in qualche modo primario rispetto alla conoscenza ed al pensiero (coscienza). Proprio in questo senso ella lo intese come il Fondamento, e proprio in questo senso ella cominciò a concepire l’Io come in primo luogo esistente. Tuttavia ciò significava che l’essere non veniva più considerato così tanto condizionato dal pensiero-conoscenza da venire di fatto «dopo» di essi nell’ordine della realtà. Ella non giunse però mai a pensare che l’essere venisse non solo «prima» del pensiero-conoscenza ma perfino prima di ogni possibile cosa. Mai insomma ella giunse a pensare che l’essere fosse un radicale originario. Semmai ella lo considerò contemporaneo al pensiero-conoscenza nell’ordine dell’essere. Dunque l’assoluta originarietà dell’essere rappresenta il tratto che più radicalmente distingue la filosofia dell’essere di Berdjaev, rendendola così assolutamente unica.
Oltre a ciò vi è però anche un’altra questione. Stein sicuramente ha trasceso lo gnoseologismo (pensiero-conoscenza) fondante l’essere (che un po’ dappertutto Berdjaev definisce e deplora come “gnoseologismo critico”). Ma è con ciò arrivata per davvero ad una concezione così estrema dell’essere come quella del pensatore russo? Non diremmo che sia stato così perché ella prima approdò ad un’ontologia realista (sullo stampo di quella tomistico-aristotelica e con al centro il concetto di sostanza) e poi addirittura ritornò ad un’ontologia idealistica sebbene ormai intensamente religiosa (sullo stampo di quella agostiniano-platonica e con al centro il concetto di Logos o essenza trascendente). Dunque ella non giunse mai a considerare l’essere addirittura un a priori pre-gnoseologico. Laddove con ciò l’essere viene concepito in maniera molto diversa dall’ontologia realista – nella quale esso è invece appena l’esteriore «mondo fuori di noi» (oggettualità) che trascende il soggetto. Per Berdjaev invece l’essere è in primo luogo un assoluto ed inafferrabile mistero proprio in quanto radicalmente originario. E bisogna ammettere che tale fu l’essere anche per Jaspers [Karl Jaspers, Philosophie III. Metaphysik, Springer, Berlin Göttingen Heidelberg 1956; Karl Jaspers, Philosophy of existence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1971]. Vedremo però più avanti in che modo il pensatore russo distingue la sua filosofia dell’essere da quella di quest’ultimo.
Di ciò troviamo del resto un preciso riscontro in un altro luogo di SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, cit., I p. 68-75], e cioè laddove scopriamo che, entro la concezione di Berdjaev, tanto la realtà quanto la coscienza stessa si trovano in fondo entro un piccolo mondo (il nostro); soltanto oltre il quale si trova il vero essere in quanto “rigoglio” (pieno ed originario), e quindi come qualcosa che per definizione eccede tutto quanto noi sperimentiamo nel vivere. E qui ciò che noi sperimentiamo e viviamo sono proprio la gnoseologia (coscienza, o pensiero-conoscenza) e l’ontologia esteriore (realtà o mondo), che appunto restano entro i limiti del nostro piccolo mondo.
Da ciò risulta quindi che per Berdjaev l’essere non può venire affatto ridotto a ciò che è appena esteriore alla coscienza. Anzi, commentando alcuni punti di DIWO, vedremo che quest’ultimo è per lui appena il pensiero obiettivato, e quindi è un essere assolutamente inautentico oltre che estremamente riduttivo. Risulta chiaro, quindi, che la sua filosofia dell’essere si trova totalmente al di fuori sia dell’idealismo che del realismo, e si trova pertanto anche totalmente al di fuori del conflitto esistito da sempre tra queste due posizioni. Tanto è vero che, entro il suo tentativo di definire la filosofia (che discuteremo più avanti) – e nel sostenere che la filosofia è totalmente riducibile al filosofare dell’uomo in quanto essere –, emerge un antropologismo assolutamente primario che è quindi carattere tanto della coscienza quanto dell’essere (senza alcuna precedenza dell’uno verso l’altro e senza alcun primato) [Nikolaj Berdjaev, Il senso…, I p. 75-82]. In altre parole la coscienza non è altro che essere per il fatto che l’essere equivale interamente all’uomo (mentre non equivale affatto alla coscienza, come invece l’intera filosofia idealistica aveva tendenzialmente pensato). Ancora una volta, quindi, l’«essere-in-quanto-uomo» (unitamente all’«uomo-in-quanto-essere») precede la coscienza in modo totale e radicale, in tal modo fondandola e pertanto rendendola anche del tutto secondaria. Ne risulta allora che la coscienza non fonda un bel nulla (diversamente da ciò che Husserl pensò, del resto accompagnato da Stein per molto tempo). È però vero anche che lo stesso mero «essere-esteriore-alla-coscienza» non è assolutamente fondante. Ed ecco allora l’esclusione tanto dell’idealismo che del realismo. Su questa base Berdjaev fornì poi la sua definizione della filosofia: “La filosofia è appunto l’autocoscienza che l’uomo ha del proprio ruolo sovrano e creatore del cosmo”. Ecco insomma un’autocoscienza quale puro atto umano che trascende la coscienza in quanto entità oggettiva.

Ed è proprio in tale contesto che emerge in lui l’elemento ontologico fondamentale che è costituito dalla relazione tra microcosmo e macrocosmo, laddove il microcosmo è poi l’uomo stesso. L’uomo, insomma, è esso stesso un universo nel mentre l’universo è esso stesso uomo. Il che significa che il macrocosmo (grande universo) sta in lui e non fuori di lui. Macrocosmo e microcosmo sono quindi in verità simultanei. Pertanto proprio come microcosmo in relazione con il macrocosmo l’uomo partecipa del Logos universale. E precisamente partecipa di esso impersonandolo nella propria essenza, com’è stato sempre illustrato nelle varie postulazioni metafisiche e teosofiche di un Uomo prototipico o “Macroanthropos” (ossia Adamo e Cristo insieme) [Nikolaj Berdjaev, Il senso… cit., I p. 75-82, II p. 85-113, VI p. 190-196, XIII p. 370-374]. E bisogna dire che anche la stessa Stein non mancò di postulare più volt tale entità nel suo libro dedicato alla costruzione della persona umana [Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001].

Ora, la filosofia dell’essere steiniana non solo non si pose mai fuori dell’ambito filosofico idealismo-realismo, ma, oltre a ciò, oscillò di fatto continuamente tra le due prese di posizione. Essa infatti può (a seconda delle fasi e dei punti di vista) venire considerata in parte realista ed in parte idealista. E proprio per questo, entro la nostra tesi di dottorato [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018] parlammo a tale proposito di un «idealismo realista».
In ogni caso – sulla base delle riflessioni di Berdjaev −, se proprio noi vogliamo parlare dell’essere in quanto «mondo fuori di noi» (essere esteriore alla coscienza), dobbiamo allora ammettere che la sua estensione è molto maggiore di quella che possiamo pensare basandoci sulle mere apparenze (incluse quelle metafisiche). Esso insomma va ben oltre i limiti dello stesso mondo esistente, percepibile e pensato. Ossia è un integrale ed inafferrabile mistero più che invece un’evidenza metafisica. E di nuovo ricorre qui la concezione dell’essere di Jaspers. È certo che (almeno su un piano filosofico-metafisico formale) Stein non pensò affatto l’essere in questo modo – sebbene abbia comunque intuito questo suo carattere definendolo (in polemica con Heidegger) come “magis ignotum quam notum” [Edith Stein, Heideggers Existenzphilosophie, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, p. 495-499]. Ma aldilà di tutto ciò Berdjaev sta in tal modo pensando anche ad un essere che l’uomo riporta alla sua ampiezza e pienezza trascendente nell’incrementarlo grazie al suo continuo atto creativo (potremo comunque comprendere meglio questo più avanti quando definiremo più precisamente il suo concetto di essere). Ed inoltre egli sta pensando a quella che definisce come “filosofia del futuro”. La quale per lui non è altro che quella in cui sia stata per sempre abolita quella distanza tra conoscenza ed essere che era stata istituita dal razionalismo, ossia di fatto dall’idealismo (nel quale rientra poi senz’altro anche la Fenomenologia husserliana). Ed ecco che allora la conoscenza si presenta come in realtà immanente all’essere, a sua volta concepito nel modo più ampio possibile. E questo è un altro modo per dire che l’essere è un assoluto a priori pre-gnoseologico. Orbene, per quanto Stein si sia non poco allontanata dall’idealismo trascendentale husserliano, appare chiaro che ella non arrivò mai a concepire l’essere in questo modo così estremo.
Berdjaev va però ancora oltre nel dichiarare l’atto creativo umano (dal quale scaturisce proprio l’incremento di essere del quale abbiamo appena parlato) come intoccabile da parte della gnoseologia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 151-153]. Pertanto, data l’equivalenza assoluta tra creazione ed essere, è allora evidente che anche l’essere dovrà essere del tutto intoccabile da parte della gnoseologia. Per la precisione ciò avviene secondo lui a causa della natura della coscienza che noi scopriamo una volta che abbiamo scoperto l’assoluta identità tra essere e uomo. Infatti su queste basi (come peraltro abbiamo in parte già visto) la coscienza si presenta come l’atto di “auto-rivelazione dell’essere”, ossia la rivelazione dell’essere all’uomo da parte dell’uomo e senza alcun’altra premessa. Insomma non vi è alcuna dottrina che possa darci conto della coscienza (come invece avviene entro la Fenomenologia husserliana, e senza che Stein l’abbia mai smentita). Infatti abbiamo già visto che la coscienza non è nulla di oggettivo.
Ed ecco del resto anche perché l’essere e l’uomo sono la stessa cosa – essi sono immediatamente simultanei (dove c’è l’uno c’è anche l’altro). Quindi l’atto creativo umano è qualcosa che giustifica senza venire mai giustificato, e pertanto non conosce alcun “fondamento” ad esso esteriore.
Ecco allora che la stessa autocoscienza umana è assolutamente “originaria e non derivata”. Ossia, essa nasce nell’uomo e presuppone solo l’uomo, e ne è quindi atto assolutamente originario così come l’uomo è assolutamente originario. Per tali motivi l’atto creativo si trova sempre già di per sé sul piano dell’essere, e pertanto o è di per sé già gnoseologia (senza però affatto identificarsi onticamente con essa) oppure non presuppone alcuna gnoseologia. Ecco che l’auto-coscienza è l’uomo stesso, e pertanto è premessa di tutto almeno quanto lo è l’uomo stesso. Ancora una volta diviene così chiaro che la coscienza (ossia il pensiero-conoscenza) non precede, non giustifica, non fonda e non costituisce un bel nulla. E ciò per il semplice fatto che, se lo facesse, essa già cesserebbe di essere «coscienza» e sarebbe invece solo «essere».
Ebbene da tutto ciò deriva che la coscienza (in quando riducibile interamente all’atto creativo) non richiede alcuna dottrina che la giustifichi – essa è cioè ontologia (ossia è l’essere stesso) in quanto è pre-scientifica e pre-gnoseologica. Ma sta di fatto che Berdjaev si riferisce qui alla dottrina gnoseologica in quanto volutamente scientifica, ossia come “gnoseologia critica”, e quindi come ciò in cui la filosofia moderna si è voluta trasformare per poter essere scientifica. Quindi essa sembra filosofia ma in verità tradisce la filosofia. E da ciò deriva allora che le aspettative della riduzione trascendentale fenomenologica (quelle che auspicano la conoscenza come giustificante l’essere) in verità non sono affatto filosofico-scientifiche ma sono invece unicamente scientifiche. Infatti, come dice il nostro pensatore, soltanto in ambito scientifico è necessaria una giustificazione gnoseologica dell’essere. Mentre invece in ambito filosofico l’essere è oggetto di un’intuizione assolutamente immediata ed incondizionata. E bisogna allora ammettere che anche Stein è caduta in questa trappola (in cui è caduta di fatto l’intera filosofia moderna); almeno finché non si è svincolata quasi completamente dalla stessa filosofia moderna per muoversi quasi interamente sul piano della mistica.
Berdjaev chiarisce comunque ulteriormente questa sua posizione nel mentre definisce la gnoseologia critica come una vera e propria “malattia” della cultura moderna. Egli chiama qui in causa Kant e i neo-kantiani nel rimproverare loro il fatto di aver voluto a tutti i costi strappare l’area della creatività conoscitiva dal piano dell’essere, identificandola totalmente con quel giudizio che per definizione esula dall’esperienza immediata. Ed ecco che qualunque trasfigurazione pensante dell’essere (che è sempre un suo arricchimento visionario) è stata in tal modo proibita; come nel caso del religioso, dell’in sé e dell’invisibile. Ma per Berdjaev la creatività conoscitiva coincide anche con il pensiero stesso nella sua pienezza. Per cui, grazie a Kant, è accaduto che di fatto non si potesse più pensare senza prima chiederne il permesso.
Un ulteriore spunto per una nuova filosofia dell’essere può poi venire trovato in SC anche sul piano esplicitamente religioso [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., IV p. 159-164]. Berdjaev auspica infatti anche qui una creatività che superi i limiti dell’esperienza religiosa tradizionale per mezzo di un atto che è in primo luogo conoscitivo e che prevede la fusione tra soggetto ed oggetto, ossia il superamento della distanza tra conoscenza ed essere che poi sempre ha caratterizzato ogni religione. In esse infatti Dio è stato sempre un oggetto di conoscenza molto difficile da definire oppure affatto non definito. Ma proprio questo conoscere Dio è ciò che Berdjaev definisce come il tendere verso il Trascendente. Più precisamente egli auspica in campo religioso un’autentica creazione dell’essere (un suo incremento), per mezzo dello svelamento della divinità laddove essa era prima invisibile. E definisce questo un atto che decisamente va oltre la cultura.
Ma in termini più generali si tratta di una “trasfigurazione dell’essere” che consiste sostanzialmente in una “donazione di senso”.
Ancora una volta egli vede però nella gnoseologia critica ciò che pretende di rendere infondato razionalmente questo atto nell’esigere di giudicare criticamente ogni creatività. Ed in questo essa fa prevalere il concetto di adequazione alla necessità (o più precisamente alla “datità”) in una maniera così forte da far di fatto svanire l’essere stesso. Tuttavia Berdjaev ritiene questa disciplina del tutto incompetente a dirimere sia nei confronti della ricerca di senso sia nei confronti della creatività, dato che il suo obiettivo dovrebbe essere unicamente quello di giudicare circa la scientificità della conoscenza. Ma intanto quest’ultimo non è assolutamente il campo sul quale si possa conoscere il senso dell’essere né l’essere stesso. E quindi per lui la gnoseologia critica risulta del tutto destituita di fondamento nella sua ambizione a porre le condizioni per una filosofia dell’essere. Dunque ancora una volta l’essere appare in Berdjaev qualcosa di pre-gnoseologico ed anche pre-ontologico. Esso insomma esso sfugge per definizione ad ogni «logicizzazione».
Su questa base possiamo allora comprendere in maniera più profonda quale può venire considerata la forma di una possibile nuova conoscenza dell’essere in Berdjaev. Essa appare dipendere strettamente da una nuova definizione della conoscenza, e precisamente una definizione che abolisca qualunque contrapposizione tra conoscenza ed essere: − “La conoscenza non è né esterna all’essere né contrapposta all’essere, essa si situa anzi nel cuore stesso dell’essere ed è un’azione dell’essere. La conoscenza è quella luce solare dalla quale l’essere trae alimento. La conoscenza è lo sviluppo creativo, la crescita solare della vita”. La filosofia dell’essere di Berdjaev appare quindi condizionata alla totale inesistenza di un’impotenza della conoscenza (come quella che è stata considerata un dogma dalla gnoseologia critica entro la cosiddetta «teoria della conoscenza»); il che è poi possibile solo in una conoscenza che sfugga a qualunque giudizio gnoseologico (che per definizione deve concernere unicamente qualcosa di settoriale, e quindi tipicamente scientifico). Ed ecco quindi che la filosofia dell’essere è del tutto incompatibile con qualunque scientificità della conoscenza. Ebbene, appare con ciò evidente che una simile filosofia dell’essere non sarebbe mai potuta insorgere in Stein. Dato che, se vi fu un aspetto nel quale ella non prese mai le distanze dalla Fenomenologia di Husserl, questo fu proprio l’accettazione della teoria della conoscenza. Ma quest’ultima appare costituire per Berdjaev un ostacolo insormontabile alla conoscenza dell’essere e perfino al riconoscimento dell’esistenza dell’essere. E quindi non potrebbe mai e poi mai fondare una filosofia dell’essere.

II- Il concetto di essere.
Possiamo però approssimarci ancora di più alla filosofia dell’essere di Berdjaev se la intendiamo più chiaramente come una primaria ontologia. Il che è possibile cercando di capire cos’è per lui ultimanente l’essere, ossia qual è il suo concetto di essere. Ne possiamo avere un’idea dove egli in SC cerca di definire ultimamente la creatività stessa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. E qui risulta chiaro che, dato che egli considera l’uomo un ente essenzialmente creativo, deve anche considerare l’essere identico alla creatività; almeno nella stessa misura in cui esso stesso è da considerare identico all’uomo.
Bisogna in primo luogo osservare che le sue giustificazioni al proposito sono metafisico-religiose, ma come tali così estreme da rasentare perfino l’eresia teologica; almeno nel contesto della classica ontologia dogmatica cristiana. In questo egli parte infatti da una davvero estrema somiglianza tra uomo e Dio che riguarda non solo l’attitudine ma anche la stessa potenza creativa. Il che significa che di fatto l’uomo genera letteralmente l’essere esattamente come fa Dio. E qui è piuttosto evidente che la sua dottrina si approssima non poco a quella dell’onto-generazione che Nietzsche attribuisce all’uomo specie nel contesto di “volontà di potenza” [Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi Milano 2006, II, p. 31-51; Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Roma 2005, 54-88 p. 50-63 89-98 p. 63- 66]. In particolare Berdjaev sostiene che necessariamente il “creato” deve essere creatore, così come lo è Colui che lo ha creato. Il che riguarda pertanto non solo l’uomo ma anche il mondo creato stesso.
E proprio qui veniamo al punto decisivo, perché questo non è per lui affatto un dogma infondato, bensì è invece qualcosa che scaturisce direttamente dalla natura stessa dell’essere. Infatti è tale solo ciò che è possibile in quanto deve costituire per definizione e necessariamente “qualcosa di nuovo e di mai visto prima”; e non invece “precedentemente dato”. Il che poi non vale affatto solo per l’origine dell’essere ma forse ancor più per il suo persistere nel tempo, ovvero il suo continuare ad esistere. Ne consegue che l’essere può esistere e sussistere solo in forza di un continuo suo incremento e crescita, ossia il dinamismo – infatti se invece fosse stabile esso perirebbe senz’altro per esaurimento. Ed ecco allora che il concetto di essere esclude radicalmente non solo qualunque staticità ma anche (e soprattutto) qualunque genere di “redistribuzione” di ciò che già «è». Cosa che spazza via tanto la visione tradizionalmente scientifica dell’essere (come quella della fisica naturalistica e materialistica ed anche dello stesso evoluzionismo, nonostante il dinamismo al quale esso si appella) quanto anche la metafisica nella sua versione emanatista. Infatti l’emanazione, per Berdjaev, implica necessariamente una materia eterna alla quale attinge il flusso che intanto (del tutto involontariamente) promana dal Divino (ossia si limita a traboccare da esso), e che ha poi il grave difetto di esporsi all’inevitabile esaurimento. È evidente che ciò implica sul piano metafisico una del tutto necessaria “creazione dal nulla”, mentre contraddice necessariamente il concetto di «materia eterna» che era stato in comune tra Platone e Aristotele. Ed ecco allora ultimamente giustificata la creatività – essa deve essere carattere necessario del mondo e quindi (in via di principio) anche dell’uomo. Tuttavia per lui la vera e piena creatività (per somiglianza a Dio) esiste solo per l’uomo, dato che esso è l’unico ente la cui anima sussista da prima della creazione. E qui viene indirettamente chiamato in causa il Logos stesso.
È inoltre su questa base che per lui l’uomo è da considerare creativo per definizione, e come tale libero nella stessa misura in cui lo è Dio. Ed abbiamo visto prima in che modo l’uomo esplica questa sua creatività simile a quella divina – cioè attraverso una trasfigurazione dell’essere che è sostanziale incremento, ed inoltre consiste più in particolare nel lasciare emergere (specialmente sul piano conoscitivo ma intuitivo e visionario) aspetti dell’essere che prima erano nascosti. Proprio per questo Berdjaev ritiene che l’uomo è chiamato da Dio ad un’opera di vera e propria continuazione della creazione, che più precisamente consiste nel porre rimedio alla originaria incompletezza di essa (ma da Dio espressamente voluta). E più meno la stessa cosa egli afferma quando rivendica la necessità che l’uomo moderno porti alla luce gli aspetti della Rivelazione cristiana che finora non erano ancora emersi [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Proprio in questo consiste per lui l’assolutamente necessaria “nuova Rivelazione”.
Possiamo comunque guardare tutto questo anche dal punto di vista di Dostoevskij [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., I, p. 5-15]. Berdjaev infatti osservò lo spirito (visionario) di Dostoevskij e non invece la sua opera come letteratura e psicologia. E tale spirito visionario consisté per lui nell’intuizione di “idee” che (molto diversamente da quelle astratte, calme e statiche di Platone) configurano un dinamismo turbinoso e infuocato, e cioè in particolare i destini umani. Come tali esse sono sempre anticipazione di “nuovi mondi”, e quindi in questo senso sono sempre travolgente creazione di essere. Insomma pare che Dostoevskij si sia soffermato dovunque nel mondo vedesse l’insorgere questo turbine, cosa che poi avviene primariamente nel profondo interiore dell’uomo. Più precisamente si tratta di una dimensione in cui mancano forma, misura e freno. Quindi si tratta sempre dell’abisso infuocato rappresentato dallo spirito umano (diversamente dall’anima), che proprio come tale è crogiolo per eccellenza di un nuovo essere futuro.
Ma sta di fatto che l’ontologia tradizionale non a caso ha sempre considerato di fatto inesistenti gli aspetti nascosti dell’essere (il perenne «nuovo») dei quali abbiamo poc’anzi parlato; dato che essa ha sempre preso le mosse dall’essere così come a noi appare attualmente, anche se su un piano metafisico (ossia oltre le mere apparenze sensibili prese in considerazione dalla fisica e perfino oltre lo spazio ed il tempo) e al di fuori dell’immediato attimo anche se considerato intemporale.

In altre parole Berdjaev non sta parlando affatto di una sorta di astruso essere fisico iper-spaziale ed iper-temporale, come oggi è usuale pensare ricorrendo (in filosofia ed in teosofia) ai concetti della moderna fisica quantistica. Né sta parlando del non meno astruso e sofistico essere come Nulla e come Possibilità che fu postulato da Heidegger [Martin Heidegger, Cos’è Metafisica? Adelphi, Milano 2008, p. 44-51; Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010, p. 109-167] nel tentativo di forgiare una neo-ontologia inaudita, ardita ed orgogliosissima che recasse il suo solo nome. Berdjaev, invece, si sta mettendo umilmente davanti al solo mistero dell’essere cercando di evitare qualunque mediazione nel coglierlo. E ciò all’unico scopo di inginocchiarsi davanti alla sua maestà.

Tuttavia per uscire da questi limiti è necessario pre-vedere ciò che ancora non si vede, ossia è necessaria quell’intuizione che è sempre visionaria. Ed infatti Berdjaev considera l’intuizione un atto di importanza cruciale nella conoscenza dell’essere [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I p. 48-82]. In ogni caso a questo punto (sfiorando così l’eresia teologica) egli considera del tutto insufficiente l’immagine dell’essere che ci viene proposta nel Genesi del Vecchio Testamento, e quindi dalla dottrina cristiana. Essa infatti per lui ignora (o almeno finge di ignorare) il vuoto antecedente l’essere che deve venire presupposto per lasciar emergere la natura di «novità» che spetta di diritto all’essere stesso; e quindi tace circa il vero e proprio Nulla (“abisso pieno di mistero”) dal quale scaturisce l’essere ma che è anche in fondo l’essere stesso nella sua natura ultima. Insomma la natura dell’essere è per definizione abissale e misteriosa, e quindi la sua integralità è per definizione nascosta al nostro sguardo, almeno finché essa non venga portata alla luce. In luogo di tutto ciò per Berdjaev il Genesi si è limitato a porre in evidenza appena il momento del venire alla luce dell’essere grazie al volontario atto creativo divino. In altre parole egli sospetta la teologia cristiana di un atto di occultamento della natura dell’essere. Per questo motivo il nostro pensatore ritiene che la dottrina teologica del Genesi abbia in verità configurato semmai una cosmogonia, ma mai per davvero un’antropogonia. E precisa che invece ciò è avvenuto in teosofie come quella di Böhme [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170], entro la quale compariva proprio il vuoto originario (“Ungrund”). Va registrato però che egli dimentica qui di menzionare la creazione così come si presenta nella Cabbala specie luriana; dato che essa ci mostra in Dio proprio un tragico Vuoto originario, consistente nell’Ein-Sof nascosto dietro il Volto divino (rivolto verso il mondo) e dinamicamente espresso nello “zimzum” ossia un vero e proprio svuotamento interno che scatena la creazione attraverso un’innimmaginabile ed immane concentrazione [James David Dunn, Window of the Soul…cit., p. 19-24; Gershom Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982, p. 94-111].
A tutto ciò egli aggiunge una considerazione etico-religiosa non meno tendenzialmente eretica. Sostiene infatti che sarebbe da ammettere un’originaria “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e bisogno, che sarebbe poi quanto per davvero (nel contesto dell’atto creativo) spingerebbe Dio amorosamente verso l’uomo. E questa è evidentemente per lui la più profonda giustificazione della creazione a somiglianza.
Ora vi sono qui diversi elementi che allontanano di molto la visione steiniana dell’essere da quella di Berdjaev. Fa forse eccezione solo il concetto di “Urgrund” che da lei viene discusso in alcune parti della sua opera [Edith Stein, Der Aufbau… cit., V, II, 1-10 p. 59-73, VII, I, 1-2 p. 93-99; Edith Stein, Endliches… cit., VI, 1-7 p. 280-232, VII, 1-11 p 303-394]; e che a questo punto lascia piuttosto sconcertato lo studioso, indicando forse che anche lei stessa aveva concepito l’atto creativo in maniera molto più estrema di quanto il resto della sua più formale ontologia lasci pensare. Stein comunque sicuramente si attenne nel complesso all’ontologia tomistico-aristotelica nel considerare l’essere come quell’entità metafisica della quale a noi non è nascosto alcun aspetto – si tratta in particolare dell’”essere come tale” del quale Aristotele parlò nella metafisica. Ed è evidente che ciò esclude senz’altro l’intendimento dell’essere come sostanziale «novità» e quindi come sostanziale dinamismo. Le cose cambiano sensibilmente laddove ella successivamente trattò dell’essere facendo ricorso al paradigma trinitario – qui domina infatti quel paradigma dinamico che ella vide nel fenomeno dell’“aus sich herausgehen” (“procedere a partire da sé stesso”) e che quindi contraddice in modo lampante la staticità dell’essere [Edith Stein, Der Aufbau … cit., VII, III, 2 p. 112-113; Edith Stein, Endliches… cit., VII, 2 p. 307-310, VII, 6 p. 352-356, VII, 9, 6 p. 377-385]. Ma diremmo che questo non modificò di molto la concezione basilare e media dell’essere che ella aveva concepito. Infatti il suo intendimento dell’essere come sostanziale “Fondamento”, e perfino forte “braccio” sostenente ogni cosa [Edith Stein, Endliches… cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113], si rifece senz’altro costantemente all’essere come qualcosa che «è-sempre-già-stato», che non sprofonda da alcun lato nell’Abisso e che infine è senz’altro statico. Oltre a ciò ella non giunse mai a identificare l’essere stesso con la stessa creatività umana (e quindi con la sua libertà), dato che indagò queste ultime sì entro il concetto di creazione a somiglianza ma comunque come “donazione” di essere fatta dal Dio all’uomo, senza che l’uomo stesso abbia posseduto questo carattere fin dall’inizio. Ella insomma intese la creatività umana in maniera ben più moderata di Bedjaev, e quindi senza contraddire in nulla né la classica ontologia dogmatica cristiana né la dottrina teologica esposta nel Genesi. In altre parole Stein non mise mai in dubbio che tale dottrina sia stata anche un’antropogonia oltre che una mera cosmogonia.

III- L’essere e l’uomo. Il nuovo spiritualismo e personalismo, la nuova esperienza religiosa e la morale.
Dell’identità tra essere e uomo abbiamo già trattato, ma conviene richiamare il testo di SC nel quale di essa si tratta molto più direttamente [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 179-182].
Qui Berdjaev dice in particolare che alla nuova concezione dell’essere bisogna far seguire una nuova concezione dell’uomo, e quindi un’antropologia che fino a quel momento di fatto non era mai esistita se non in forme non solo molto riduttive ma anche menzognere (come entro la classica antropologia cristiana o anche nel contesto dell’Umanesimo). L’uomo insomma deve venire inteso come essenzialmente creativo e quindi anche letteralmente creante. Proprio per questo esso va considerato radicalmente originario, e quindi equivalente all’essere stesso nella sua pienezza.
Per questo però è (ancora una volta) secondo lui necessario un nuovo intendimento della conoscenza che allo stesso modo trascenda e superi tutti quelli antecedenti. La conoscenza deve infatti venire intesa come assolutamente attiva e pertanto assolutamente non passiva. Essa pertanto deve divergere da qualunque forma di reazione alla realtà, e dunque anche di adequazione conoscitiva alla datità ed alla necessità che sono proprie del mondo naturale. In altre parole una siffatta conoscenza deve rifiutarsi di accettare il mondo così com’è, puntando invece incessantemente ad una sua trasfigurazione (che poi corrisponde alla messa a nudo di aspetti sconosciuti dell’essere, della quale prima abbiamo parlato). La direzione in cui quest’ultima deve muoversi è per la precisione quella della spiritualizzazione delle cose. E quindi la nuova conoscenza di cui parla deve equivalere ad un vero e proprio spiritualismo, ossia ad una concezione dell’essere che intende le cose come essenzialmente spirituali. Sono spirituali infatti le cose nella loro invisibilità, e restano tali anche quando alla fine vengono alla luce.
Ovviamente però non si può trattare assolutamente del vecchio spiritualismo. E con quest’ultimo egli intende esplicitamente quella concezione cristiana dell’uomo quale persona in possesso del libero arbitrio e capace di agire in maniera eticamente responsabile. Questa concezione infatti aveva per lui sempre mortificato la creatività libera dell’uomo in quanto intanto sottometteva l’essere ed agire umani alla dimensione del peccato. Pertanto era una concezione passiva mascherata sotto le apparenze di una concezione attiva. Essa insomma non concepiva affatto per davvero l’uomo come libero. È evidente che in tal modo ci ritroviamo al cospetto di quel classico personalismo cristiano che a sua volta era stato costruito sempre su un’antropologia tarata sulla Rivelazione cristiana, e incentrata a sua volta sulla Redenzione in quanto prodotto del peccato e della Caduta. Ma Berdjaev denuncia più volte (in tutti i suoi libri) questa dottrina come mero adattamento al mondo della necessità, ossia al mondo decaduto. E la ritiene quindi del tutto inadatta a descrivere e promuovere la creatività libera dell’uomo. In essa infatti l’accento posto sull’azione responsabile è mera reazione alla dimensione del peccato, e quindi è condizionata invece che condizionante. Non a caso, egli dice, essa ha sempre conosciuto solo il concetto di “potenza” (in sé involontaria e determinata) ma mai per davvero quello di creatività (in sé volontaria e indeterminata).
Del resto egli sottolinea che nel Vangelo non vi è di fatto alcuna traccia del concetto di creatività [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., Prefazione, p. XL-LV].
Va infine sottolineato che Berdjaev vede lo spazio per questa nuova conoscenza in una “filosofia creativa” che è tale in quanto è incentrata nella dinamicità dell’essere sulla base del relativo concetto che prima abbiamo esposto.
Orbene non c’è dubbio che il personalismo e l’antropologia steiniani (che non a caso pongono fortemente l’accento proprio sulla libera responsabilità dell’azione dell’uomo in quanto persona) ricadano senz’altro entro i limiti di una dottrina che Berdjaev ritiene insufficiente, sterile ed anche poco autentica. E questo ancora una volta fu il frutto dell’atto dell’accettazione incondizionata della dottrina dogmatica cristiana da parte della pensatrice. Dobbiamo quindi pensare che il suo personalismo, a sua volta senz’altro unito ad un forte spiritualismo, rientri esso stesso nei limiti di una visione che il nostro pensatore ritiene superata e del tutto incapace di portare l’uomo fuori dalla tremenda crisi nella quale è caduto a causa proprio del prevalere di dottrine anti-cristiane (come il materialismo, il positivismo, l’Umanesimo, l’evoluzionismo etc.).
Anche rispetto a personalismo e spiritualismo, le cose sono troppo complesse per risolvere entro questi termini la relazione tra il pensiero berdjaeviano e quello steiniano. E quindi anche questo richiederà un’indagine a parte.
Comunque c’è qui da prendere atto del fatto che Stein non riuscì a concepire la creatività come carattere essenziale dell’uomo; sebbene, proprio come Berdjaev, abbia posto fortemente in luce la sua umano-divinità in quanto persona. Questo significa quindi che la sua filosofia (personalista-spiritualista) può e deve ricevere tutto l’apprezzamento che merita, ma non può propriamente venire considerata come creativa.
In ogni caso in SC Berdjaev definisce ulteriormente questa sua visione sul piano sia religioso che estetico [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., X p. 297-305]. Egli auspica infatti per il Cristianesimo una “rivoluzione della creatività” che segua all’antecedente e tradizionale “rivoluzione della redenzione”, e quindi lasci apparire un “nuovo essere” specie in forma di “profezia”. Secondo lui infatti l’esperienza religiosa deve cessare di basarsi sul sacerdozio per iniziare a basarsi invece sulla profezia. E qui ritroviamo quindi sul piano religioso quell’incremento di essere che prima avevamo osservato sul piano conoscitivo. Sulle prime non è per la verità ben chiaro cosa Berdjaev intenda esattamente sul piano della prassi religiosa, però più avanti forse ciò diverrà meglio comprensibile. Sul piano artistico però le cose risultano da subito ben più chiare, dato che egli auspica un’arte che si muova verso il “possesso reale della bellezza nel suo essere” (superando così anche l’estremo confine del simbolismo). Ed appare quindi evidente che questa prassi (consistente in una vera e propria celebrazione dell’essere) può e deve venire considerata coincidente una nuova filosofia dell’essere, e cioè quella che coglie l’essere come abissale mistero a sua volta intimamente unito alla creatività. Anche questo ha però una valenza religiosa, perché secondo lui si tratta in realtà di un vero e proprio nuovo essere (“nuovo cosmo”) e quindi del regno dei Cieli. In altre parole la ricerca dell’essere deve venire per lui spostata dal piano (metaforico) dell’arte a quello fattuale della creazione effettiva di essere, ossia al campo dell’azione.
E ciò sposta decisamente l’attenzione dall’arte e dalla religione ad una vera e propria teurgia. Laddove la creazione di nuovo essere deve venire intesa come collaborazione alla creazione ed alla sua continuazione.
Ecco dunque cosa forse egli intendeva per creazione di nuovo essere sul piano religioso – deve trattarsi della collaborazione alla creazione da parte di un uomo riconosciuto ormai come creativo anche dalla religione stessa. Ma qui emerge ancora un nuovo significato della possibile nuova filosofia dell’essere Perché per Berdjaev nella teurgia si rivela “il significato religioso dell’essere”. Precisamente si tratta di “una natura nuova e trasfigurata”, e quindi nuovamente del Regno dei Cieli.
Infine in SC Berdjaev si produce in una nuova definizione dell’essere in relazione alla sua precisazione di ciò che deve venire inteso come personalismo, a sua volta poi in intima relazione con la morale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-329]. Qui in particolare egli auspica una vera e propria nuova rivelazione della persona, e precisamente nei termini di una fortemente rinnovata visione cristiana. Egli intende in SC questo rinnovamento soprattutto come superamento dell’eccessiva morale dell’umiltà, e quindi anche come superamento di un ascetismo che secondo lui è stato sempre fin troppo ossessionato dalla sola salvezza (costituendo in tal modo un’attitudine sostanzialmente egoistica e individualistica)
Il suo discorso parte comunque dalla costatazione che la moderna crisi della morale va considerata in intima relazione proprio con l’insufficienza del concetto di essere, che a sua volta va attribuito tanto all’antica e tradizionale ontologia quanto anche alla progressiva azione corrosiva della gnoseologia critica. Ciò che ne è risultato non è però solo astrattamente conoscitivo bensì anche molto pratico, e cioè è la cronica inesistenza di fatto di una vera “comunione” tra gli uomini. E quest’ultima è stata dovuta poi allo spostarsi sul piano sociale e morale di quella cogente aspirazione all’universalità che intanto aveva sempre dominato nella conoscenza. Ma sta di fatto che il sussistere della comunione non è pensabile senza la creatività (specie morale), e cioè senza l’impegno verso un rinnovamento continuo delle forme, che a sua volta impone tutti i rischi dell’assenza di qualunque stabilità e sicurezza. E qui egli avvalora di nuovo fortemente la critica alla morale di Nietzsche, auspicando che poco a poco l’imperativo morale scaturisca da dentro invece di provenire da fuori (con le cogenze della legge). Ma ciò implica anche la pienezza del valore attribuito all’individualità e quindi alla qualità in luogo della quantità. Il che trova poi il suo riscontro sul piano cristiano con l’affermazione della piena ed incondizionata umano-divinità della persona. Tuttavia per lui quest’ultima resterà sempre inibita e paralizzata finché dominerà l’idea di peccato, a sua volta in intima relazione con l’ossessione per la salvezza e con un sostanziale giuridismo della religione. Ebbene questo sommo valore attribuito alla persona ed alla sua qualitatività corrisponde per Berdjaev ad un intendimento aristocratico e gerarchico del Cristianesimo. E con ciò si tratta in definitiva del nucleo del personalismo, ossia dell’affermazione del “valore assoluto di ogni essere umano”.
Ecco dunque le vastissime e profonde conseguenze che può avere una revisione del concetto di essere in senso creativo anche sul piano religioso.
Infine, sempre in SC, tutto ciò trova la sua espressione nell’indicazione di una nuova prassi rivoluzionaria [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Berdjaev sostiene infatti che essa non deve essere esteriore, e quindi statica in quanto in tal modo rivolta al Passato. Essa è infatti così unicamente una reazione in negativo, e quindi è in sostanza reazionaria. E come tale resta fatalmente sotto il segno del peccato, della Legge ed anche della stessa Redenzione, che secondo lui dev’essere anch’essa superata sul piano della religione cristiana. La rivoluzione deve invece (in quanto creativa) tendere ad una rinascita e quindi alla dimensione cosmica in quanto armonia (quindi ancora una volta alla “comunione”). Deve insomma essere “rivoluzione dello spirito”. E pertanto essa deve cambiare per davvero lo stato delle cose, cosa che può avvenire solo se essa avviene nel profondo (interiore). Se essa invece è superficiale (esteriore), lo stato di cose resterà necessariamente e fatalmente così com’è. Nel senso che non saranno state modificate le premesse profonde dello stato di cose. La rivoluzione deve allora rinnovare le stesse fonti e condizioni dell’essere. Come tale essa deve essere una rivoluzione “mistica”. Deve insomma essere trasfigurazione dell’essere – specie in quanto “nuovo cosmo” incentrato nella “comunione”. Di nuovo siamo in tal modo al cospetto della reale possibilità di un avvento del Regno dei Cieli.
E qui devo ricordare solo per inciso che questa fu anche la posizione espressa da Romano Guardini e peraltro nella stessa epoca in cui operò Berdjaev [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585]. Guardini ritenne infatti del tutto possibile un avvento storico del Regno dei cieli sulla base di un’azione umana altrettanto storica. Anche questo richiederà però un’indagine specifica. Ma bisogna qui ricordare anche che il filosofo italo-tedesco va considerato uno dei più grandi rappresentanti del personalismo.
Queste extrapolazioni dal concetto di essere alla morale si prestano bene a venire integrate da alcune considerazioni tratte anche da CD, opera nella quale appare evidente che molte delle prese di posizione etico-filosofiche ed etico-religiose di Berdajev derivarono molto direttamente dal pensiero che egli attribuiva a Dostoevskij. Innanzitutto si tratta dell’intima relazione che per il nostro pensatore esiste tra essere e libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione…cit., Prefazione, 2 p. VIII-XIV]. Infatti La libertà è per Dostoevskij un’entità radicale proprio perché essa ha a che fare con l’essere e non invece con le passioni della psicologia (e quindi con gli elementi meramente funzionali della mente). Essa può dunque costituire a pieno diritto il nucleo di una filosofia dell’essere. A tale proposito va però precisato che la morale di Dostoevskij è soggettiva e non oggettiva. Essa dipende infatti dall’azione dell’uomo come soggetto di libertà, e non invece da astratti principi universalmente oggettivi. E quindi, se la libertà ha un’intima relazione con l’essere, ciò è da intendere come effetto della scelta dell’uomo, a sua volta libero per essenza e quindi originariamente.
Laddove l’uomo libero lascia insorgere l’essere oppure lo annichila a seconda che scelga rispettivamente il bene o il male. Per Dostoevskij il male corrisponde infatti integralmente al non-essere, per cui la scelta di esso configura necessariamente un nichilismo (a sua volta basato sullo scadere della libertà in arbitrio). Berdajev precisa però che tutto questo ha risvolti etico-religiosi davvero estremi, dato che per Dostoevskij il bene senza libertà equivale infine al male stesso. E quindi l’intima relazione esistente tra libertà ed essere comporta il grande scenario religioso di un Cristianesimo (profondamente riveduto e corretto dal pensatore pietrogurghese) nel quale la libertà venga considerato qualcosa di assoluto ed irrinunciabile. Infatti dal sussistere integrale di esso (o meno) dipende il predominio nel mondo dell’essere o del non-essere.
Ecco che una filosofia dell’essere come quella possibile sulla base di Berdajev deve tenere conto di questo come di un elemento assolutamente originario. Per il pensatore infatti (ed ancor più sulla base di Dostoevskij) la libertà è qualcosa di talmente originario da essere ontologicamente abissale, e quindi assolutamente inafferrabile e misterioso. Qualcosa che insomma scaturisce da fonti profondissime.
Orbene, questo non sembra essere affatto vero entro la visione di Stein, secondo la quale semplicemente la libertà è il frutto di quella costituzione animico-spirituale dell’uomo che a sua volta trova una spiegazione del tutto razionale sia entro l’antropologia husserliana sia entro quella cristiana (e quindi in qualche modo è secondaria agli aspetti funzionali della mente, sebbene intesa come anima e precisamente come anima spirituale). Ecco che quindi anche da questo punto di vista la filosofia dell’essere steiniana è molto meno profonda e radicale di quella di Bedjaev.

IV- Filosofia, Io ed essere.
Nel tentare di disegnare in Berdajev una filosofia dell’essere ci si imbatte anche nella relazione di intimità che esiste tra filosofia ed essere (oltre che tra uomo ed essere, tra creatività ed essere e tra libertà ed essere).
Ritroviamo questa relazione in DIWO (che, come abbiamo detto, è stato oggetto del nostro primo articolo ponente a confronto la filosofia dell’essere di Stein e Berdajev), nel quali tutti gli aspetti trattati finora riappaiono nel contesto di un tema che è stato da secoli al centro del pensiero moderno. Ed ecco che la relazione tra filosofia ed essere si presenta laddove il pensatore afferma che (come fa anche in SC) la filosofia è intuizione e precisamente intuizione originaria e primaria che non è deducibile da alcunché se non da sé stessi [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 28-38]. Ed è evidente che questa non è affatto la filosofia come viene intesa ormai già da molti secoli. Per Berdjaev è dunque solo mediante una siffatta filosofia che si coglie l’esistenza nella sua ampiezza, pienezza e tragicità, e quindi come destino umano. Ne consegue che il proprio vissuto emotivo è di importanza cruciale. Ed ecco allora che il momento fondamentale del filosofare risulta l’”essere filosofo” più che non la filosofia stessa nella sua oggettività. Ed ecco anche che la filosofia non può costituire appena un indifferente atto tecnico, ma può costituire invece essa stessa solo un essere. Il che implica poi che la filosofia dell’essere non è per nulla l’atto conoscitivo (distaccato per definizione) per mezzo del quale il soggetto filosofante indaga l’essere (in quanto esteriore alla coscienza), ma invece non è altro che il cogliere immediato dell’essere (rivelazione dell’essere nella sua incondizionata pienezza) non appena ci si dispone a filosofare nel mentre intanto si esiste.
Ma tutto ciò sta in relazione con ciò che abbiamo già posto in evidenza, e cioè con l’importanza dell’uomo in quanto persona colto nel pieno della sua creatività. Berdjaev rivendica infatti che colui che filosofa è in primo luogo un uomo-persona, e non invece un impersonale soggetto sottomesso a sua volta alle intimazioni della coscienza trascendentale – come esso era apparso in Kant e nell’idealismo tedesco [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 1 p. 54-59] E difatti in tal modo l’oggetto resta irrimediabilmente separato dal soggetto in modo tale da non poter in alcun modo costituire una rivelazione di un vero qualcosa (ossia dell’essere).
Il problema è stato quindi per lui sempre l’avvaloramento della conoscenza dell’essere e non dell’uomo. Perché invece, una volta rivalutato l’uomo, ci si accorge che (come abbiamo visto) esso è del tutto identico all’essere – e lo è in forza dell’onticità del suo Io o mondo interiore, ossia in forza del “contenuto ontico” (“seinmäßiges Inhalt”) del proprio Io. Posto questo, allora non sarà più la conoscenza a precedere l’essere, ma sarà invece soltanto l’essere (in quanto uomo) a precedere la conoscenza. Per tali motivi, dunque, l’uomo (l’Io) non potrà mai venire contrapposto all’essere. Ecco quindi una rivalutazione filosofica dell’uomo in quanto né parte della Natura né spirito obiettivato. Come tale esso può infatti essere solo gettatezza (anche se nel contesto di una filosofia come gnoseologia). Ma non può esserlo in alcun modo una volta riconosciuto nella sua piena e incondizionata onticità. Tutto questo significa comunque molto in sintesi che l’Io filosofante (in quanto uomo-persona) va considerato primariamente un esistente.
Tuttavia il considerarlo un esistente non implica affatto considerarlo un ente immanente in quanto gettato nel mondo esistente; ma semmai il Signore stesso perfino dell’esistenza.
Ad evitare qui un mero soggettivismo dobbiamo però fare al proposito delle importanti precisazioni [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., II, 2 p. 64-71]. Sappiamo già che Berdjaev considera l’essere come qualcosa che eccede da ogni parte il nostro mondo, soggettivo o oggettivo che sia. Egli parte quindi dal fatto che l’essere non sta né nel soggetto né nell’oggetto. E quindi è del tutto vano tentare di costruire una filosofia dell’essere superando l’idealismo (soggettivismo) in direzione di un realismo (oggettivismo). Va intanto però ammesso che, allorquando si assume la posizione idealistica, compare al massimo una conoscenza dell’essere, ma invece mai l’essere stesso; dato che non si fa altro che produrre un’oggettivazione dell’essere. Questi atti conoscitivi non ci restituiscono dunque mai un’autentica filosofia dell’essere. Berdajev accusa molto direttamente Kant di aver fatto in modo che si scambiasse il pensiero per essere (ma riducendo il secondo al primo), con la conseguenza di un’oggettivazione del pensiero che poi viene scambiato per piena realtà, ossia il famoso «mondo fuori di noi». Ma in definitiva questa era stata ed è restata anche la stessa posizione di quel realismo intellettualistico che aveva trovato la sua espressione nella Scolastica. Anche in questo caso la realtà non era altro che pensiero oggettivato.
E quindi anche il realismo non è altro che conoscenza dell’essere. Ne consegue pertanto che idealismo e realismo convergono perfettamente nel fallito tentativo di costruire una filosofia dell’essere. Ed è stato esattamente così che per Berdjaev è insorta quella “tragedia della conoscenza” la quale consiste di fatto nella conoscenza dell’essere in quanto mera oggettivazione del pensiero.
Da questo egli giunge allora alla conclusione che un’autentica filosofia dell’essere sussiste solo in una vera e proprio “filosofia dell’esistenza” (“Existenz-Philosophie” o ”existenzielle Philosophie”). Solo in essa la tragedia della conoscenza viene infatti superata, e ciò accade perché in essa l’essere dilaga nel trascendere ed inglobare qualunque elemento che fino a quel momento aveva preteso di governarlo e dare ad esso un volto. E nel suo contesto quindi ogni elemento possibile diviene fatalmente un «esistente».
Ma per lui a questa costatazione manca ancora un fondamentale elemento, e cioè un carattere tipico ed estremo dell’essere. Infatti, in base a quanto abbiamo appena detto, l’essere compare ancora in maniera fin troppo chiara ed esplicita (categorizzato), nonostante sia stata ormai tematizzata l’immersione totale e senza scampo dell’Io (o soggetto) nell’esistenza (come per lui è avvenuto al massimo in Kirkegaard). Manca cioè ancora la costatazione che, con tale immersione, l’Io o soggetto finisce per costituire esso stesso l’essere e precisamente come “mistero”, ossia come qualcosa di assolutamente non categorizzabile e quindi inafferrabile. In altre parole, anche quando abbiamo la netta sensazione di aver davanti a noi chiaramente l’essere e addirittura ci sentiamo totalmente immersi in essi (fino al punto di non poter in alcun modo trascenderlo con la nostra conoscenza), noi di esso non possiamo dire assolutamente nulla. Sta di fatto però che solo in questo modo l’essere si configura come un vero “qualcosa” e non invece appena come il discorso “sopra qualcosa”. Ed è esattamente questo ciò che fa della filosofia dell’esistenza una davvero autentica e piena filosofia dell’essere.
Orbene ci ritroviamo qui laddove ci eravamo ritrovati anche già prima, e cioè nel momento in cui noi osserviamo Stein obiettivare chiaramente l’essere prima nell’obiettivarlo come pensiero (seguendo la Fenomenologia husserliana) e poi, come Aristotele e Tommaso, nel concepirne le categorie ed anche nel definirlo come “essere come tale”. Ed è allora evidente che, almeno dal punto di vista di Berdajev, ella non ha affatto costruito una piena filosofia dell’essere. In quest’ultima infatti (nella sua formulazione steiniana) l’essere si presenta in maniera fortemente condizionata, sia che venga concepito in maniera idealistica sia che venga concepito in maniera realistica.
Detto questo, Berdjaev pone a confronto le grandi filosofie dell’esistenza, e cioè quelle di Heidegger, di Jaspers e di Kirkegaard, e deplora peraltro il pessimismo tragico delle prime due. In ogni caso queste ultime sembrano a lui del tutto insufficienti − in quanto quella di Heidegger vede l’esistente unicamente con le caratteristiche molto specifiche del “Dasein”, e quella di Jaspers lo vede unicamente come soggetto sfuggito all’universale nel mentre è dedito all’atto di trascendere le apparenze sensibili verso l’oltre.
Ma il punto sta per lui altrove ed esso viene colto solo da Kirkegaard. Il quale definì davvero in modo pieno l’”esistere” come oggetto primario dell’”esistente”. Ed in tal modo l’esistente viene collocato nel tempo più che non nello spazio. Ma è solo in tal modo che l’obiettivazione dell’essere (statica per definizione e quindi non temporale) viene spazzata via definitivamente; in maniera che l’essere comincia ad emergere davvero nella sua pienezza. In particolare, con l’obiettivazione scompare tutto che è esteriore in quanto oggettuale (per definizione statico), mentre resta invece tutto ciò che è interiore in quanto vero immanente. Ed ecco allora che il soggetto conoscente, una volta posto solo come esistente nel tempo (ossia colto come l’“esistere” stesso), finisce per scomparire dal novero delle oggettualità. È in tal modo che Berdajev sostiene insomma nuovamente che uomo ed essere sono la stessa cosa (il che rende del tutto superfluo postulare un Io o soggetto posto di fronte all’essere).
Tuttavia la filosofia dell’essere emerge qui anche per un altro motivo, sempre sostenuto da Kirkegaard. Infatti, dato che il filosofo è in primo luogo un esistente, anche la filosofia lo sarà – ossia la filosofia in primo luogo esiste. E solo in tal modo essa non sarà più una filosofia «sull’esistenza», ma sarà invece una filosofia «dell’esistenza». Ecco dunque la vera filosofia dell’essere.

Conclusioni.
Ebbene, rispetto a quanto era emerso nel nostro primo articolo, ci sembra che qui sia divenuto ben più chiaro come si possa e debba intendere la filosofia dell’essere in Berdjaev, e quindi quanto essa sia diversa da quella di Stein. Nel precedente articolo (e sulla base di DIWO) l’aspetto che stava in primo piano era soprattutto quello dell’Io in quanto esistente (nel contesto dell’identificazione dell’essere con la dimensione interiore); che a sua volta aveva indotto Berdjaev a considerare la filosofia dell’esistenza come la più autentica filosofia dell’essere. E ciò convergeva del resto con alcuni aspetti di quell’Essente che Stein aveva posto al centro della sua filosofia metafisica.
Tuttavia la lettura di SC e di CD ci ha mostrato che il concetto di essere di Berdjaev è ben più complesso e profondo di questo, e quindi va ben oltre la definizione di ciò che è davvero l’«Io» e del rapporto di quest’ultimo con l’essere in generale e con l’essere oggettuale (il mondo degli oggetti che è esteriore alla coscienza). In particolare abbiamo visto che in SC il pensatore russo definisce in maniera davvero ultima l’essere ed inoltre lo equipara all’uomo, alla creatività ed alla libertà. E ciò dà vita non solo ad una visione filosofica che per molti aspetti è davvero oceanica (tanto che contiene spunti per molte altre ricerche), ma inoltre configura una filosofia dell’essere dai tratti estremamente ampi, profondi, complessi e soprattutto misteriosi. In altre parole non si tratta affatto solo dell’identità riconosciuta tra filosofia dell’essere e filosofia dell’esistenza. Si tratta invece di una filosofia dell’essere entro la quale il concetto di essere si presenta come radicalmente abissale ed originario, così come lo sono anche i concetti di uomo, di creatività e di libertà. Il concetto di essere insomma finisce per essere esattamente equivalente alla stessa fenomenologia creativa (e creazionale) colta in tutta la sua così prodigiosa ed ineffabile produttività. E ciò avviene inoltre nella quasi perfetta equivalenza riconosciuta tra la creatività divina e quella di un uomo il quale (per amoroso dono divino) è in primo luogo libero.
Ebbene, questo così ricco, complesso e significativo assetto della filosofia dell’essere berdjaeviana non poteva non indurci a prendere di nuovo in esame la sua possibile relazione con quella steiniana. Ed ancora una volta (così come nel primo articolo) nell’indagine è emerso che quest’ultima è di ampiezza, profondità e radicalità molto inferiori alla prima. In particolare in essa il concetto di essere non è affatto così estremo e profondo come quello di Berdjaev, e quindi si presenta molto meno come un autentico ineffabile mistero. Mistero che però trova di fatto la sua piena manifestazione nell’uomo. Come abbiamo visto nel primo articolo, però, una volta che noi concentriamo la nostra attenzione sul concetto steiniano di Essente, l’immensa di distanza che separa le due filosofie dell’essere risulta almeno un poco accorciata (per questo però invitiamo il lettore a consultare quell’articolo). Ed inoltre anche in questa nuova indagine abbiamo dovuto constatare che, qualora noi concentriamo la nostra attenzione sull’ultimissima fase mistico-monastica della vita ed opera steiniane, allora l’insufficienza della sua filosofia dell’essere cessa di costituire un criterio di giudizio del suo pensiero − giudizio tendenzialmente negativo, ma solo molto relativamente e metaforicamente.
Detto questo, allora, possiamo concluderne che senz’altro l’analisi del pensiero berdjaeviano ci permette di constatare che la via steiniana alla filosofia dell’essere non fu affatto (nel tempo in cui operarono i due pensatori) né l’unica praticabile né quella più piena, produttiva ed avvincente. Anzi la filosofia dell’essere di Berdjaev sembra aver colto molto di più l’obiettivo di indagare l’essere in maniera da coglierlo nella sua pienezza. Quello che è comunque certo è che la filosofia dell’essere steiniana non ebbe alcuna aspirazione ad essere nuova, ma semmai volle espressamente restare entro limiti molto tradizionali.
Ed allora, a fronte di tutto questo, siamo costretti ad ammettere che l’essere non sembra avere affatto quei caratteri tutto sommato razionali e tangibili che esso ha nell’onto-metafisica steiniana.
In particolare esso non appare costituire affatto quel saldo, stabile ed eterno Fondamento che tutto regge e sostiene, e che salva gli esistenti tanto dalla distruzione comportata dal tempo quanto dallo sprofondamento nel Nulla; non appare costituire affatto un’estensione, tanto che (per quanto invisibile e infinita) finisce per coincidere con l’intero mondo creato, o anche universo, e cioè l’elemento in cui ci sentiamo quasi sensibilmente immersi nel nostro esistere; non appare costituire affatto qualcosa che per definizione resta sempre uguale a sé stesso, giustificando e consolidando in tal modo quell’ente che invece continuamente muta, e così trascendendolo nel rappresentare ciò a cui l’ente deve obbligatoriamente rinviare entro la metafisica (ossia il concetto metafisico di essere in senso aristotelico in quanto “essere come tale”). Insomma, a fronte di questa serie di davvero eclatanti negazioni, la stessa espressione «essere» appare in definitiva non solo insufficiente ed inautentica ma perfino falsificante; dato che essa si presenta fin troppo appena come l’opposto del «nulla», e così finisce per lasciar coincidere l’essere con il mero «è»; quindi in definitiva non appare costituire affatto ciò che per definizione continua ad esistere immancabilmente (per sempre) sullo sfondo di ciò che invece continuamente cessa di esistere. In altre parole l’Essere non appare affatto trascendere davvero il Nulla, ma semmai sembra dipendere logicamente da esso (come sua mera negazione).
Dopo aver preso atto delle riflessioni di Berdjaev, infatti, noi ci ritroviamo di fronte ad un qualcosa che non costituisce affatto una salda, stabile e lineare estensione quasi delimitata (sia pure in maniera indefinibile) e provvista dei caratteri di ciò che brilla al sole come un «definito» che è ormai per sempre emerso ed è così sfuggito per sempre alla notte dell’indefinizione e pertanto all’abissale profondità. Ci troviamo invece di fronte all’esatto contrario di tutto ciò, e cioè di fronte a qualcosa che è quello che è unicamente perché sgorga proprio così com’è da un profondo ed abisso oscuro; emergendo così alla luce come ciò che, nel suo persistere infinitamente (vincendo così effettivamente il divenire in quanto morte), non fa altro che divenire incessantemente in quanto perennemente rinnovato «nuovo». E proprio con queste caratteristiche finisce, secondo Berdjaev, per coincidere con la creatività per eccellenza (e quindi anche con la creazione), ed inoltre con l’uomo stesso in quanto ineluttabilmente creativo. È evidente che in tal modo l’essere è qualcosa di abissale, profondo, inafferrabile e misterioso perfino quando viene alla luce. E tale resta anche nel corso di tutto il suo infinito persistere.
Ebbene cos’è questo in termini filosofico-metafisici ed anche filosofico-religiosi? Abbiamo visto già che non è assolutamente l’essere così come concepito da Aristotele (e probabilmente, in qualche modo, anche da Platone), cioè quella “ousía” che in fondo può venire intesa tanto come sostanza quanto come essenza (senza che poi cambi davvero molto nella sua natura). Ma è forse invece l’infinito divenire di Eraclito? O è forse l’eterno «è» che per Parmenide si dissocia perennemente dal non-essere, facendo sì che quest’ultimo equivalga ad un «nulla» che a sua volta cessa immediatamente di avere qualunque senso?
No! Non sembra proprio che sia così.
Ed allora non ci resta che pensare che Berdjaev abbia goduto di una vera e propria rivelazione assolutamente originale e senz’altro visionaria dell’essere, che non trova pari nemmeno in quel grande rinnovatore dell’ontologia che al suo tempo era stato Heidegger. Tanto che, con la riflessione del pensatore russo, l’essere si presenta a noi in una natura assolutamente finora inaudita, e che quindi è immensamente sorprendente.
Ma quali possono essere le basi di tale rivelazione visionaria? Al di là del pensiero di Nietzsche, che viene da lui non a caso spesso menzionato, ed al di là anche del pensiero di Dostoevskij (al quale Berdjaev attribuisce l’intuizione per eccellenza di un essere spirituale profondo che è abissale, dinamico e magmatico per definizione), riteniamo che si tratta molto più dell’essere così come si presenta nella teosofia, e soprattutto in Böhme (anche lui spesso citato dal pensatore) ed inoltre nella Cabbala lurianica (invece da lui non citata). E come tale si tratta di un essere in sé totalmente ed irrimediabilmente misterioso, inafferrabile ed ineffabile, che (pur presentandosi come il perennemente «nuovo») resta in fondo ciò che è anche dopo essere venuto alla luce.
E così è qualcosa che non cessa né cesserà mai di sorprenderci. E perciò finisce senz’altro per esorbitare perfino dall’ambito di quella filosofia e di quella metafisica che inclinano di più a categorizzare (formalmente e rigidamente) ciò che osservano.
Ebbene, possiamo cogliere le grandi conseguenze di tale conclusione nel constatare che, una volta posto questo, possiamo allora solo dire che l’essere non può rapresentare altro che lo stesso Dio creatore una volta colto al di fuori degli infiniti schemi che le più formali filosofia, teologia ed onto-metafisica hanno fatto calare su di Lui per comprenderlo. Ma a questo punto dobbiamo a questo punto ricordare al lettore che lo scopo della ricerca ontologica alla quale Stein si era sentita chiamata molto prepotentemente era stato proprio quello di definire il Dio-Essere, ossia «Dio-in-quanto-essere». Ora è certo (in base a tutto ciò che abbiamo visto in questo articolo) che la pensatrice – abbagliata come fu da Tommaso ed Aristotele e continuamente intralciata come fu anche dai residui di idealismo trascendentale fenomenologico husserliano che erano rimasti nella sua mente – non è riuscita a dare al Dio-Essere il volto che invece Gli è stato dato da Berdjaev. E tuttavia, come abbiamo fatto notare, vi sono nel suo pensiero indizi del fatto che ella deve averlo comunque intuito – come nel concetto di “Urgrund” e nella riflessione sulla Trinità quale incessante flusso di essere impregnato d’amore.
Ed allora non ci resta che spostare totalmente la nostra attenzione sulla valenza integralmente religiosa di questo Dio-Essere nel contesto di quell’esperienza religiosa alla quale Berdjaev stesso perviene continuamente nel corso delle sue riflessioni come loro esito finale ed anche suggello. E tutto questo significa allora che dovremo dedicare proprio a questo tema la nostra prossima indagine su quel materiale di pensiero berdjaeviano che appare essere quasi inesauribile. Infatti l’esperienza religiosa promette di costituire esattamente quell’ambito entro il quale il Dio-Essere si offre a noi con caratteri più prossimi a quelli davvero inusuali e stupefacenti che Berdjaev attribuisce all’essere.
Ma tutto ciò significa forse anche che, nel leggere Berdjaev e nel connetterlo con una grande pensatrice dell’essere come Stein, non si tratta tanto di verificare se la filosofia dell’essere di quest’ultima sia stata o meno insufficiente. Si tratta invece probabilmente molto più di contemplare lo straordinario fenomeno di una stagione della filosofia (corrispondente grosso modo al XX secolo) nel corso della quale, grazie all’apporto di diversi fertilissimi pensatori (e sebbene nel contesto di una grande sterilità e sostanziale insignificanza dei più poderosi ed apprezzati pensatori e sistemi filosofici che intanto li circondarono), Dio stesso ha voluto far progredire in una maniera prima inimmaginabile la conoscenza che noi uomini possiamo avere di Lui.
Il che significa allora anche che in tale contesto è di fatto rinata una filosofia che vuole essere religiosa nel definire il proprio più primario oggetto al di fuori di qualunque riduzionismo razionalista e/o scientista.
Ed infatti proprio Berdjaev definisce spesso la filosofia come religiosa per sua profonda vocazione, aspirazione ed ispirazione [Nikolaj Berdjajew, Das Ich… cit., I, 1 p. 11-28]. Ciò a causa del fatto che essa da sempre si è occupata di temi misterici (come la reincarnazione e la liberazione). Ma inoltre, anche al di fuori di questo ambito, per lui essa non è mai stata separata dalla religione; nemmeno nelle sue fasi più razionaliste e scettiche (come da Cartesio in poi). Il che per lui si spiega soprattutto a causa della relazione del filosofare umano con l’essere − sulla base del fatto che il filosofo non può mai scindersi dal proprio vivere immerso nell’esistenza che intanto però gli rivela l’essere come mai altrimenti sarebbe stato possibile. A ciò si aggiunge inoltre che secondo Berdjaev la filosofia è necessariamente religiosa perché (a differenza della scienza) tende incessantemente a liberare l’uomo dal mondo; e per questo essa è atto di intuizione (ed anche atto di auto-rivelazione) e non invece mera reazione alla datità del mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 48-68, I p. 75-82]. Il che poi indica che la filosofia è in primo luogo un “atto creativo”, anzi è l’atto creativo per eccellenza; e come tale è la forma stessa di auto-emancipazione dell’atto creativo dello spirito umano.
Il quale in tal modo (ossia nel filosofare) “reagisce al mondo con la conoscenza e con essa si oppone al mondo”. La conoscenza filosofica, infatti, crea “idee sostanziali” che si oppongono alla datità del mondo introducendo così in essa l’”essenza ultra-mondana”. Dunque la filosofia non riflette affatto il mondo così com’è, ma invece semmai lo purifica e trasfigura in forza della propria intuizione del Sovrannaturale.
Per Berdjaev, comunque, tutto ciò implica anche che, per poter essere pienamente religiosa, la filosofia non può in alcun modo sottomettersi a quei criteri che la rendono scientifica, e così la distaccano dal suo vero metodo e dal suo vero oggetto (laddove in particolare l’atto fondamentale dell’intuizione viene sottomesso al giudizio inevitabilmente distruttivo della gnoseologia critica). Ecco che allora, per poter divenire pienamente religiosa (e così costituire anche una davvero piena filosofia dell’essere, obbedendo in tal modo alla sua più profonda vocazione), l’attuale filosofia deve per sempre scrollarsi di dosso l’ossessione che più l’ha tenuta lontana da questo scopo (specie negli ultimi quattro secoli), ossia l’aspirazione ad essere “scientifica”. Per Berdjaev inoltre la religiosità della filosofia ha anche una valenza radicalmente cristiana, dato che la sua aspirazione religiosa trova piena realizzazione di quell’affermazione di Cristo (“Io sono la Verità”) che poi lo qualifica esattamente come l’Uomo assoluto colto nell’atto più pieno del filosofare (quello in cui la verità viene incarnata). Dovremo comunque esaminare tutto ciò più approfonditamente laddove indagheremo l’intendimento di esperienza religiosa che è deducibile dal pensiero di Berdjaev.
Tutto ciò significa allora che l’apparente dissociazione della filosofia dalla religione (iniziata in parte già in Platone stesso) non è da vedere in altro modo che come insufficienza della sua relazione con l’essere, e quindi deficitaria filosofia dell’essere. Ma abbiamo appena visto che l’essere altro non è se non Dio, e peraltro nella sua forma più estrema e sorprendente. Inoltre appare anche evidente che, per poter essere davvero religiosa, la filosofia deve ripensare totalmente sé stessa, giungendo così a darsi un’identità che finora non aveva forse mai aveva avuto il coraggio di avere. Tranne forse nella fase in cui, come dice Schelling, essa era stata sostanzialmente sacerdotale [Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10].
E con questa ipotesi direi che questa indagine possa essere ritenuta aver raggiunto quello che era stato fin dall’inizio il suo scopo principale. In altre parole, insomma, dietro le due filosofie dell’essere a confronto (quella di Berdjaev e quella di Stein), noi dobbiamo soprattutto guardare al grandioso fenomeno del rinascere di una fervorosissima e profondissima filosofia religiosa in un mondo nel quale intanto la separazione tra uomo e Dio sembrava invece averla seppellita e liquidata per sempre.
Dunque, poste così le cose, la differenza tra la filosofia di Berdjaev e quella di Stein appare essere molto ma molto minore.

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I- Introduzione
Gertrud von Le Fort ha vissuto una lunga vita a cavallo tra il XIX e il XX secolo – nata nel 1876, è deceduta addirittura solo nel 1971. Il che significa che ha vissuto tutti i momenti cruciali, in gran parte tragici, della storia tedesca e della storia europea. Ed evidentemente ha vissuto anche alcuni tra i più decisivi momenti di cambiamento che hanno caratterizzato la vita della Chiesa Cattolica. Anche per questo i suoi libri (ed ancor più il libro del qual esporrò il testo in questo scritto) meritano una grande attenzione non solo da parte dei credenti cristiano-cattolici ma anche da parte di chi non crede.
Dopo aver studiato teologia, storia e filosofia, Le Fort si diede sostanzialmente alla scrittura, pubblicando molti saggi, romanzi e poesie, tutti incentrati nella fede cristiano-cattolica. E così si guadagnò il titolo di migliore scrittrice cattolica tedesca. Intanto fu sempre molto vicina alla spiritualità carmelitana, tanto che il suo più famoso romanzo fu “Die letzte am Schafott” (“L’ultima al patibolo”), dedicato al triste episodio dell’esecuzione di alcune monache carmelitane durante la Rivoluzione Francese. Anche per questo (oltre che per il comune interesse per la questione femminile vista dal punto di vista cattolico) conobbe molto da vicino Edith Stein; anzi le lettere steiniane testimoniano il sussistere tra loro di un rapporto di amicizia molto profondo ed intenso [Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Erster Teil 1916-1933, ESGA 2, Herder, Freiburg Basel Wien 2010; Gerl-Falkowitz Hanna-Barbara, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015]. Tanto che Le Fort (lettera 368) si assunse addirittura il compito di visitare i parenti e la madre di Edith Stein a Breslau nel tentativo difficilissimo (ma poi fallito) di spiegare loro la scelta religiosa cattolica dell’amica.
Pare intanto che l’idea lefortiana della mistica fu molto prossima proprio a quella di Stein, ossia fu incentrata nel tema del dolore come strumento fondamentale per la crescita spirituale; specie a causa del fatto che esso spinge verso l’amore allontanando dall’orgoglio (ossia il dominio dell’Io) e quindi tempra l’anima specialmente nel senso del costruire la difficilissima virtù dell’umiltà. Il dolore dunque è mezzo per raggiungere quell’amorosa e sacrificale capacità di “dedizione” (“Hingabe”) che secondo lei caratterizza essenzialmente la natura femminile. Infatti il concetto di dedizione è centrale nell’opera da lei dedicata alla Donna, opera che ora andrò ad esporre e commentare [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934]. Ma anche Edith Stein si dedicò ad una molto approfondita e prolungata riflessione sulla Donna, che trovò spazio in un ciclo di conferenze da lei tenuta presso circoli cattolici nel corso degli anni 30. Il relativo materiale divenne infine un suo libro postumo dal titolo “Die Frau”, “La donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Anzi pare che abbia conosciuto Le Fort proprio in occasione di una di queste conferenze tenuta a Monaco nei locali di una lega di donne cattoliche (lettera 191). Intanto però, nel corso della lunga amicizia che la legò alla Le Fort, Stein aveva fatto la scelta definitiva della vita monastica, e quindi la mistica era divenuta di fatto il suo pane quotidiano. Ebbene, anche la sua mistica fu concentrata sul tema del dolore come decisivo fattore di crescita spirituale ed inoltre sul tema dell’attitudine alla dedizione. Anzi la “dedizione” (“Hingabe”) restò costantemente al centro dei suoi pensieri per poi finire per diventare il viatico che l’accompagnò verso la morte nell’offerta volontaria di sé stessa per la purificazione del mondo dai suoi peccati.
Quindi non ci si potrebbe affatto meravigliare se la sua riflessione sulla Donna presentasse gli stessi tratti della mistica che ritroviamo in Le Fort. Il che è poi giustificato dal fatto che entrambe le pensatrici furono contemporaneamente molto attive nel campo del movimento femminile cattolico. Per verificare questo sarebbe però necessario uno studio comparativo sulle due opere al quale non so se riuscirò a dedicarmi. Intanto comunque le due raccolte di lettere di Edith Stein offrono materiale a sufficienza per venire a conoscenza degli intensissimi scambi di idee che vi furono tra le due donne. E quindi a questo materiale bisognerebbe fare riferimento per comprendere meglio se e quanto Edith Stein si sia riferita anche a “Die Ewige Frau” di Le Fort nel concepire le sue riflessioni sulla Donna. Tuttavia purtroppo non c’è spazio per questo nel contesto di uno scritto che vuole essere solo un’esposizione sintetica dell’opera di Le Fort. Ciononostante, però, colui che conosce anche solo superficialmente la vita ed opera di Edith Stein troverà nell’esposizione di Le Fort non pochi rinvii intuitivi all’esperienza (e relativa riflessione) che la pensatrice visse nell’abbracciare con straordinario entusiasmo la condizione di una donna che è in primo luogo vergine (in principio fallita nella sua attesa di una vita amorosa e familiare) ed insieme sposa di Cristo.
In ogni caso dalle lettere veniamo a sapere che Stein lesse “La donna Eterna” di Le Fort nel 1935 (lettera 365) e ne consigliò anche la lettura ad Hedwig Conrad-Martius (lettera 430). Anzi il libro le fu regalato per Natale dall’autrice stessa. Ed in questa occasione Stein lodò Le Fort per aver ricondotto la realtà della Donna alle sue radici, rendendo in tal modo “superfluo” tutto ciò che era stato scritto fino allora su questo tema. Non è chiaro però dal testo della lettera se ella si riferì con questo alla letteratura cattolica sulla donna, oppure a quella laica e femminista. Comunque Stein apprezzò molto anche gli “Inni alla Chiesa” di Le Fort ed inoltre anche “Die letzte am Schafott” (lettere 371 e 374).
Intanto devo aggiungere a tutto questo il fatto che io stesso negli ultimi tempi ho dedicato un’approfondita riflessione alla Donna paradigmatica (la Donna Eterna, o anche Donna Divina, cioè la Sophia o Sapienza divina, ossia il Femminile metafisicamente paradigmatico) [Vincenzo Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017]. Anche in questo libro la tesi centrale consisteva nel fatto che la figura di Maria Vergine va considerata il modello più alto e compiuto di Donna che possa esserci – specie sulla base dei libri di Luigi Grignion de Monfort dedicato appunto al culto mariano ed inoltre al simbolismo della Vergine Maria [Luigi Monfort M. Grignion, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, San Paolo, Milano 2015; San Luigi Maria Monfort, L’amore dell’eterna Sapienza, Edizioni Monfortane, Roma 2002]. E questa è del resto anche la tesi centrale del libro “Die Frau” di Edith Stein. Tuttavia il mio libro restava ancora fortemente influenzato da concetti ed elementi metafisico-religiosi relativi al Femminile che avevo poco a poco assorbito studiando il pensiero «tradizionale», ossia quella riflessione che si riferisce sostanzialmente a contenuti sviluppati nella metafisica filosofica pagana (specie platonica e neoplatonica), nella letteratura gnostica, in diversi testi propri della sapienza esoterico-ermetica ed infine nella sofiologia greco-ortodossa specialmente russa (rappresentata in gran parte da Solov’ëv). Va precisato però che quest’ultima forma di riflessione fu profondamente cristiana specie in quanto rientrava nella fede ortodossa, a sua volta basata sulla Patristica greca (Gregorio di Nissa etc.). L’elemento principale delle mie riflessioni (in gran parte critiche) consisté allora nell’osservazione che l’identificazione di Maria Vergine con la Sophia (o Donna Divina) corrisponde in effetti a null’altro al concetto metafisico-religioso pagano di “Anima mundi”. Laddove quest’ultima era stata sempre considerata come un elemento di raccordo piuttosto statico ed impersonale tra lo Spirito divino-celeste (in gran parte corrispondente all’Intelletto nella sua pienezza o Nous) e la dimensione mondano-corporale-materiale costituita a sua volta in particolare dall’uomo. Ma sta di fatto che nel Paganesimo non vi era alcuna traccia del concetto di Grazia né vi era molto interesse per la Persona.
E quindi la femminile Sapienza divina era un’entità del tutto impersonale e non faceva alcun passo verso l’uomo. Pertanto essa non esercitava di fatto alcuna “misericordia” a favore dell’uomo e del mondo. In altre parole essa non era affatto dinamica in senso discensivo, e quindi si limitava a costituire appena il gradino più basso di un’ascesa al Divino che intanto veniva affidata interamente all’azione umana. Non a caso (specie nel contesto della Gnosi pagana) si pensava che per mezzo di tale ascesa attiva l’uomo potesse deificare sé stesso in maniera assolutamente autonoma e quindi senza ricevere in questo alcun genere di aiuto dall’alto. È evidente che tale visione confligge radicalmente con quella che vede invece la persona di Maria Vergine come un elemento decisivo dell’ascesa umana alla divinità. Essa è infatti la mediatrice per eccellenza tra l’umano e il Divino. Ma in quel libro io mi ero limitato semplicemente a cercare le ragioni pro e contro queste due visioni, e quindi non avevo posto alcun forte accento sul concetto di Misericordia ad opera di Maria Vergine. Tuttavia il libro di Le Fort (addirittura ancor più di quello di Edith Stein) mi ha mostrato che, almeno per chi si sente cristiano, le ragioni stanno tutte dalla parte della visione che concepisce Maria Vergine come un elemento personale e dinamico che è decisivo nell’ascesa umana alla divinità, e ciò proprio in forza del suo movimento discensivo verso l’umano. È esattamente per questo che Le Fort (nel considerarla come il modello e paradigma della Donna) considera Maria Vergine primariamente come una sostanziale “Madre di Misericordia”. E indubbiamente proprio così ella venne considerata anche da Edith Stein. Nelle cui lettere peraltro si ritrovano molti riferimenti al culto di Maria Vergine come “Regina della Pace”, che veniva fervorosamente osservato nel Carmelo di Colonia, dove lei visse la maggior parte della sua vita monacale. Ebbene, a causa di questi miei trascorsi riflessivi sulla Donna, nel descrivere i contenuti del libro di Le Fort dovrò a volte fare riferimento anche ad essa. Ma lo farò sostanzialmente nel correggere le mie convinzioni di allora.
Vi è infine un altro decisivo punto di riferimento del quale dovrò tener conto, e cioè la riflessione sulla donna che poco a poco (negli ultimi due secoli e mezzo) si è andata sviluppando nel contesto del movimento femminista. Orbene non vi è dubbio che sia Le Fort che Stein si sentirono in qualche modo parte dei questo movimento. Anzi pare che, prima di convertirsi al Cattolicesimo, Stein abbia abbracciato le idee femministe in maniera piuttosto intensa. Ma oltre a ciò non vi è dubbio nemmeno circa il fatto che entrambe le pensatrici, a causa della fede cristiano-cattolica che professavano, finirono per non abbracciare mai interamente la visione femminista della donna. Visione che era incentrata su alcuni decisivi e molto specifici elementi −: 1) il reciso rifiuto ad ammettere l’esistere di qualunque «natura» femminile (tanto naturalistico-biologica quanto animico-spirituale), ossia di fatto qualunque forma di “anima femminile” ossia sostanza femminile assoluta; e questo perché la dimensione della donna era invece da concepire in termini unicamente relativi, ossia sociologici e psicologici, allo scopo di poter poi erigere su questo una critica di tipo politico alla sua tradizionale «condizione»; insomma ciò che doveva importare era appunto la «condizione» della donna (storica e relativa, ossia unicamente temporale) e non la sua «sostanza» (a-storica ed assoluta, ossia intemporale) ; 2) la costruzione su questa base di una definizione della donna che si incentrava nella sua differenziazione polemica dalla dimensione maschile; differenziazione che però a sua volta veniva giustificata unicamente in negativo, ossia sulla base della distorsione indotta dalle tradizionali strutture sociali (in gran parte patriarcali), e che infine sfociava nella teorizzazione di una vera e propria necessaria e rivoluzionaria lotta tra i sessi; in altre parole l’approccio femminista (almeno nella sua formulazione media) puntava allo scopo di un sovvertimento totale della relazione sociale e psicologica esistente tra donna ed uomo, e quindi ad una sua vera e propria sua inversione rivoluzionaria con la costruzione di un vero e proprio matriarcato (almeno di resistenza) entro la continua e tenace rivendicazione bellicistica di una finale parità totale tra uomo e donna; 3) l’accento posto sul concetto di «parità tra i sessi» (quale obiettivo finale della lotta politica tra i sessi stessi) veniva infine a chiudere il cerchio dell’intera visione nell’affermazione che non vi è né vi può essere tra uomini e donne alcuna sostanziale differenza se non quella banale, elementare ed etico-politicamente indifferente, che è solo di tipo anatomico-fisiologico; ma tale scontata e banale differenza non deve avere il diritto di costituire la base per alcun genere di differenziazione (sociale, psicologica, etica, politica ed economica) tra uomini e donne, e quindi non ha il diritto di fondare alcuna struttura della relazione tra uomo e donna ed anche della condizione femminile (ovviamente soprattutto sulla base della teorizzazione della naturale superiorità del maschio).
In sintesi dunque il Femminismo affermava che non sussiste di fatto alcuna «natura» femminile, e quindi non è un alcun modo possibile definirne i caratteri, specie in termini negativi, in relazione alla «natura» maschile.
Ora dunque, tanto il libro di Le Fort quanto quello di Stein, nel loro sforzo di definire la natura femminile, dovevano entrare necessariamente in conflitto in modo frontale con questa complessiva e media visione femminista. E per questo nel libro di Le Fort si ritrovano non solo spunti di riflessione anti-femministi ma anche molto esplicite affermazioni in tal senso. Quindi anche di questo tema collaterale dovrò parlare nell’esposizione del testo di Le Fort e nel commento ad esso. Il che però non significa affatto che entrambe abbiano in alcun modo teorizzato l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Cosa che è evidentemente non può venire sostenuta sulla base di qualunque argomento, così come non può venire sostenuta alcuna superiorità dell’uomo rispetto alla donna o viceversa. Quindi, almeno in questo senso, le loro riflessioni restano nell’orbita del movimento femminista; o, per meglio dire, restano nell’ambito degli elementi più giusti e sensati che il pensiero femminile ha messo allo scoperto e rappresentato.
Detto questo sarà risultato chiaro che ciò che mi propongo in questo scritto è in primo luogo di esporre sinteticamente il testo lefortiano in modo da portarlo a conoscenza (nei suoi elementi essenziali) soprattutto a chi condivide l’approccio cristiano-cattolico, specie nell’idea che Maria Vergine sia di fatto il primario modello per l’essere ed agire della Donna secondo criteri in linea con l’ordine divino. In secondo luogo mi propongo però anche di riflettere su questo testo. Cosa che farò con dei commenti ed extrapolazioni che lo connettano da un lato al tema antichissimo della Donna paradigmatica (il cosiddetto «eterno femminino») e dall’altro lato alla moderna discussione sulla donna (nella quale indubbiamente è stato protagonista il movimento femminista) che da tempo è in atto nella società moderna e che ha anche occupato larghissimi spazi della nostra cultura.
Di altri temi interessanti collaterali non potrò però parlare. Mi riferisco in particolare ad una sorta di indagine comparativa tra la visione lefortiana e quella steiniana della Donna. Questa indagine richiede infatti un’analisi testuale molto estesa che ovviamente non può trovare posto in questo breve scritto. Ma probabilmente nel futuro riuscirò a fare anche questo.
Vorrei inoltre anche precisare che (con poche eccezioni) menzionerò la donna sempre indicandola con la lettera maiuscola (Donna), dato che l’intera opera di Le Fort intende parlare del femminile nella sua dimensione paradigmatica.

II- Esposizione del testo e suo commento.
Per chiarezza di esposizione vorrei qui precisare che riporterò di seguito l’intero testo di Le Fort non mancando però di indicare con chiarezza i luoghi testuali (sezioni) ai quali man mano andrò riferendomi, e prendendo comunque come base l’originale testo in tedesco. Devo però avvertire il lettore interessato che il libro è stato anche tradotto in italiano [Gertrud von Le Fort, La donna eterna, Estrela de Oriente, Caldonazzo (TN) 2015], e quindi chi vuole può decidere di verificare quanto ho scritto anche andandosi a leggere direttamente il relativo testo. Tuttavia la mia sintesi potrà comunque servire a chi non intenda dedicarsi alla lettura del testo originale né in tedesco né in italiano.

II-1 Prefazione
L’autrice si è preoccupata di fare precedere al testo una prefazione, e quindi da questa inizierò nella mia esposizione dei suoi contenuti (Prefazione, p. 5-7). In essa viene dichiarato che scopo del libro è quello di esporre il “significato” della Donna dal punto di vista unicamente simbolico (non invece psicologico, biologico, storico e sociale). Inoltre l’autrice precisa che il simbolo (in quanto linguaggio) si riferisce sempre unicamente al metafisico ed all’invisibile. Quindi suo scopo è illustrare il significato sovrannaturale del Femminile, e non invece quello empirico, ossia meramente naturalistico, biologico ed elementare. Dunque, in buona sostanza, il suo scopo è quello di mostrare specificamente nella Donna la portatrice del Divino. Ecco dunque definita la valenza essenzialmente ed intensissimamente religiosa del Femminile. Ed ecco allora che proprio questa può essere considerata (in estrema sintesi) la «natura» della Donna, una volta indagata in termini primariamente metafisico-religiosi. La Donna non è altro che la portatrice del Divino entro il mondano e l’umano. E ciò ci riporta immediatamente alla figura di Maria Vergine − sia come prototipo della fede incondizionata ed incrollabile in Dio (nell’Annunciazione il “si” o “fiat mihi”) che poi fa nascere Dio nell’uomo (conducendo così il credente all’umano-divinità), sia come colei che riporta la Donna Prototipica del Genesi (Eva) alla sua originaria dignità e funzione entro il disegno divino. Vedremo poi più avanti che in verità tale dignità e funzione della Donna non è mai stata offuscata nemmeno dalla Caduta. Anzi è stata semmai da essa esaltata e rafforzata. Per tale motivo, quindi, non vi è alcun motivo per fondare nella Caduta una sorta di obbligatorio e costituzionale disprezzo religioso per la Donna. Questo però è stato purtroppo oggettivamente un errore nel quale è caduta per molto tempo la dottrina più superficiale della Chiesa Cristiana.
Da tutto ciò risulta comunque che, almeno in questi ultimi termini, la «natura» femminile è qualcosa di cui si ha pienamente il diritto di parlare. Ma affatto con l’intenzione tanto di considerarla superiore quanto di considerarla inferiore. In altre parole, grazie all’apporto della metafisica religiosa (specie cristiano-cattolica) il concetto di «natura» femminile può e deve venire svincolato da qualunque significato ideologico-polemico (positivo o negativo che sia). Si tratta invece molto più di descrivere come stanno le cose su un piano oggettivo, che poi in qualche modo è quello per così dire «naturale». Entreremo comunque più avanti di nuovo nel merito di questo decisivo aspetto.
L’autrice precisa inoltre che, nel caso della Donna, si tratta di analogia religiosa e non invece di religiosità vera e propria. Si tratta insomma della descrizione di un’attitudine il cui campo di azione è ben più ampio anche di quello strettamente religioso – non si tratta dunque unicamente della fede in Dio ma anche (ed ancor più) delle ricadute che la fede in Dio ha sull’agire umano. Il che poi fa sì che il carattere femminile si dilati simbolicamente (specie nel senso della protezione dei deboli) potendo venire esteso anche a persone di sesso maschile, oppure presentandosi in emblematiche persone di sesso femminile (es. Caterina da Siena) che hanno occupato nel tempo perfino dei ruoli maschili ed inoltre hanno addirittura presentato anche caratteri maschili. Si tratta insomma in definitiva della descrizione di un’attitudine «di tipo femminile» che si confà naturalmente all’homo religiosus tanto di sesso femminile quanto di sesso maschile. E come vedremo più avanti esso trova il suo culmine senz’altro in quell’attitudine «materna» che a sua volta concorda quasi perfettamente con la virtù della carità, ossia l’amore agapico.
Più precisamente si tratta insomma in sintesi della descrizione della natura simbolica della Donna Eterna.
La quale, in quanto trascendente, deve necessariamente abbracciare in sé esseri e caratteri sia maschili che femminili. Ed in questo senso essa è molto più che una donna naturale. È appunto più che altro un simbolo del Femminile e cioè di quanto va inteso come «femminilità» nel senso più ampio possibile.
Eccoci quindi già di fronte alle riflessioni che io avevo svolto nel mio saggio dedicato alla Sophia in quanto Donna Divina. Infatti è evidente qui che, nel definire quest’ultima, non si tratta affatto dell’identificare Dio stesso con il sesso femminile. Si tratta invece semmai dell’indicazione di quelli che sono i caratteri simbolici dell’eterno Femminino (massimamente espressi in Dio e minimamente espressi nell’uomo), il quale appunto abbraccia in sé maschi e femmine trascendendo così totalmente il sesso empirico. In parole povere si tratta soprattutto della seguente domanda rivolta a noi stessi: − se perfino l’uomo (ente in fondo carnale, naturale e mondano) è fatto in modo tale da riuscire ad amare l’altro come una donna (specie come una madre), allora quanto immensamente ne sarà capace Dio?
Ma a tale proposito ci ritroviamo anche di fronte ad un tema che a volte si può ritrovare in quella riflessione femminista che si sforza di sconfinare perfino nel campo metafisico-religioso. È stato infatti sostenuto da alcuni studiosi che, contrariamente alla tradizionale iconografia, Dio sarebbe in verità una femmina più che un maschio. E ciò sarebbe perfettamente coerente con la sua attitudine insieme amorosa e creativa. Dunque non vi sarebbe in verità alcun Dio-Padre, ma invece semmai un Dio-Madre, ossia un Dio-Donna.
Rimando comunque il lettore al mio saggio per ritrovare alcuni elementi della tradizionale metafisica religiosa pagana, della teosofia e della mitologia che supportano effettivamente questa tesi. Ma intanto sta di fatto che concetti come questi sono stati impiegati dal Femminismo allo scopo di combattere l’idea che il patriarcato avrebbe una fondazione divina. E quindi è chiaro che l’interesse primario è qui di parte e meramente ideologico, ossia non è affatto interessato a scoprire come stanno effettivamente ed oggettivamente le cose sul piano metafisico-religioso. Pertanto le precisazioni di Le Fort ci aiutano non poco a rintuzzare questo tentativo sostanzialmente ideologico, che quindi necessariamente deve corrispondere molto poco alla verità. Quello che si può dire è che Dio, almeno così come appare dal nostro limitato punto di vista umano (condannato a vivere la dualità degli opposti, cioè la polarità), ha aspetti sia maschili che femminili. Ma questo non contraddice intanto affatto il concetto di Dio-Padre, il quale ha giustificazioni metafisico-religiose estremamente profonde e sofisticate (giustificazioni che ho esposto nel mio saggio). In ogni caso, comunque, tale concetto non ha affatto lo scopo di giustificare il patriarcato (almeno non nei suoi aspetti più ideologici, e quindi arbitrari e violenti). E ciò semplicemente perché il patriarcato è qualcosa di meramente relativo al mondano, allo storico ed all’immanente, quindi non ha in sé alcuna valenza religiosa ed assoluta. Questo però è un argomento molto complesso, per il quale devo rinviare il lettore necessariamente al mio saggio.
In ogni caso parla chiaramente contro il discorso strumentale femminista la straordinaria raffigurazione che Michelangelo fece della creazione di Adamo da parte di Dio nella volta della Cappella Sistina. Qui infatti un evidente Dio-Padre protende il suo braccio destro (quello della Potenza) verso l’indice dell’uomo, nel mentre con il braccio sinistro abbraccia proprio la Sophia in quanto Donna Divina. E nel mio saggio ho mostrato che con quest’ultima è da intendere molto probabilmente proprio quel Logos divino nel cui seno giacciono latentemente fin dall’eternità tutti gli enti (in quanto Idee astratte degli enti) che sono destinati a venire creati dal Dio-Padre. E a ciò va aggiunto anche che in una vastissima letteratura (che va dalla teosofia esoterica pagana e cristiana fino alla Patristica specie greca) il Logos in quanto Figlio (nel contesto della Trinità), ossia il Cristo, ha in effetti i caratteri di un Androgino, ossia possiede caratteri maschili e femminili in una perfetta armonia.

II-2 La Donna Eterna, ossia il Femminile trascendente ed assoluto.
Successivamente Le Fort inizia poi a trattare della prima delle tre sezioni del suo libro, e cioè quella dedicata specificamente alla “Donna Eterna”, o “Ewige Frau” (“Die Ewige Frau”, p. 9-29).
In questa prima sezione si parla del Femminile molto in generale, trascendente, eterno ed atemporale, mentre nelle altre due sezioni si parlerà del Femminile concreto ed immanente − prima come temporale (vergine e sposa) e poi come atemporale (madre).
E proprio sulla base di quanto precisato nella Prefazione è evidente che il discorso sulla natura della Donna riguarda primariamente l’eterno (atemporale e trascendente) e non invece il creaturale (temporale ed immanente). Cosa per cui, per l’autrice, la creatura cessa di essere assoluta (ossia un assoluto ed imprescindibile oggetto di conoscenza) e diviene invece relativa. Quindi essa è appena specchio in cui si riflette l’eterno, ovvero “similitudine” dell’eterno stesso. Come tale essa è “vaso” (Gefäß) contenente il Divino. Già questo pone il carattere radicalmente fondamentale della dedizione e precisamente religiosa, ossia subordinazione ontica della Donna alla dimensione religiosa. E questo deve venire necessariamente visto come un carattere fondamentale (assoluto e trascendente) della natura della Donna – la Donna, insomma, sta per sua natura in intimissima relazione con il Divino. In altre parole non vi è dubbio che Eva stessa abbia avuto questo carattere. E quindi, così come nel DNA di Adamo sono sintetizzati i caratteri di tutti gli uomini (maschi) che da lui discendono, allo stesso modo nel DNA di Eva sono sintetizzati i caratteri di tutte le donne (femmine) che da lei discendono. Tra i quali spicca decisamente l’attitudine alla dedizione che poi è anche attitudine religiosa per eccellenza.
Ma qui vi è forse addirittura un timido e larvato indizio per una sua possibile superiorità sull’uomo in quanto maschio, sebbene in totale assenza di qualunque intenzione tanto di dispregio quanto di dominio.
Si tratta insomma di qualcosa di metafisicamente oggettivo di cui bisogna assolutamente tenere conto quando si vuole comprendere la relazione che esiste tra essere umano e Dio. Il che, come poi vedremo, trova puntuale e preciso riscontro in Maria come modello assoluto non solo per la Donna ma anche per la corretta relazione tra uomo e Dio.
E di nuovo ritroviamo qui un elemento di differenziazione rispetto alla concezione pagano-tradizionale del Femminile. Infatti evidentemente la Donna Eterna (diversamente dalla tradizionale concezione della Sophia o Donna Divina) è molto meno qualcosa di metafisicamente ontologico e molto più invece qualcosa di etico in senso specificamente religioso. Essa è insomma molto più una disposizione del Femminile e molto meno invece un’oggettiva entità femminile di tipo metafisico. E tale era (nel mio saggio) sia l’Anima mundi, sia la Sapienza divina (o Logos) associata a quel Dio-Padre che nel pensiero pagano è sostanzialmente l’Uno che trascende vertiginosamente ogni ente. Essa è insomma più che altro una metafora etico-religiosa da applicare al Femminile.
Ma intanto, se seguiamo il discorso di Le Fort, vediamo che proprio applicando questa griglia metaforica al femminile empirico finiscono per emergere i suoi caratteri metafisici, cosmici, misteriosi e religiosi. Ed essi, peraltro, fanno parte di un modello coincidente con Dio stesso, che si presenta tanto all’origine quanto alla fine dell’essere. Quindi tali caratteri mettono a nudo una sagoma del Femminile che occupa di fatto tutto lo spazio dell’essere (sia entro l’eternità sia fuori di essa). Tuttavia bisogna dire che qui finisce per delinearsi davvero qualcosa di effettivamente oggettivo sul piano metafisico-religioso (ossia un’effettiva entità). Infatti l’autrice sottolinea che l’approccio puramente soggettivo al femminile esautora ed annulla totalmente il discorso su di esso, a causa del fatto che lo rende pericolosamente arbitrario. E questo discorso soggettivo sul femminile si ritrova proprio quando si parla di esso come meramente temporale ed empirico. In questo caso, insomma, non emerge alcuna sagoma del Femminile. Quindi qui ci ritroviamo pienamente nel contesto di quella visione femminista che nega il sussistere di qualunque «natura» femminile.
Intanto per Le Fort va però ammesso che la dimensione soggettiva ha una sua legittima giustificazione in quel campo dell’arte sacra. La quale si sforza di dare un volto tangibile alla dogmatica − è insomma uno sforzo soggettivo di rappresentare quella dimensione metafisica che è però in sé solo oggettiva. In altre parole siamo qui costretti ad ammettere una certa licenza poetica, in assenza della quale l’artista avrebbe insuperabili difficoltà nel raffigurare plasticamente realtà evanescentemente divine. E tutto ciò ha per l’autrice un senso e valore particolare in relazione al dogma mariano in quanto manifestazione dell’umano-divinità. Quest’ultima emerge infatti sotto il segno di un’attitudine tipicamente e concretamente femminile (la ricezione passiva, che è poi anche della materia metafisicamente intesa), e cioè l’attitudine al “si” incondizionato (“fiat mihi”). In altre parole, dunque, quella che è un’attitudine meramente naturale e biologica (evidente nel concepimento per mezzo della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo), si dilata e si trasforma sul piano religioso nella «concezione». Ed è allora del tutto coerente (oltre che chiarissimo) che, trattandosi di una realtà puramente spirituale, deve necessariamente trattarsi di un’«immacolata concezione» (atto e fenomeno puramente spirituale). Altrimenti l’attitudine alla ricezione passiva in termini religiosi cesserebbe del tutto di essere una realtà spirituale. E questo spazza via in un sol colpo tutte le vergognose e ridicole perplessità (scettiche e scientiste) alle quale i moderni teologi (tutti privi non solo di fede ma soprattutto di coraggio) hanno aperto la porta nel prendere in considerazione specialmente i dogmi dell’Incarnazione e di Maria.
Rispetto alla metafisica pagana, però, tale attitudine è altamente positiva invece che negativa per eccellenza. Cioè non è un carattere metafisico della materia in quanto sostanza cieca, caotica ed inattiva che somiglia così tanto al non-essere. Essa esprime infatti qualcosa di in verità attivo (e non passivo), ossia la collaborazione della creatura alla Creazione divina. Non solo, ma esprime anche la capacità di rivelare Dio (e la dimensione religiosa) senza frapporre ad esso alcun ostacolo. Ecco il perché della natura religiosa del Femminile.
Tuttavia Le Fort precisa che ciò avviene in maniera tutt’altro che palese, e quindi getta necessariamente su Maria quel velo che poi è quanto caratterizza indelebilmente il femminile in quanto religioso. E del resto abbiamo appena visto che questa intera realtà non può in alcun modo venire compresa in termini meramente materialistici e razionalistici. Si tratta infatti evidentemente di un «mistero» agli occhi di noi uomini fatalmente immersi nella carne. Potremmo dire allora che l’atto femminile di rivelare di Dio avviene sempre solo molto ma molto discretamente. Proprio come avviene per quelle cose che, essendo sacre, sono estremamente delicate e quindi vengono sempre violate dallo sguardo umano. La rivelazione femminile del Divino avviene pertanto solo e soltanto nel luogo più segreto del Tempio, ossia oltre il velo, nel Sancta Sanctorum. Del resto dalla storia di Maria (vedi Maria Valtorta) sappiamo che fin da piccola – e cioè molto prima dell’Annunciazione − ella amava intrattenersi nel Tempio servendo Dio. Ella insomma sapeva già di appartenere totalmente a Dio. Anzi ella si era sentita da sempre una sacerdotessa di Dio.
Ed è attribuibile a questo la sua ostinata decisione alla castità, ossia alla verginità. Cosa che rende ancora più stupefacente il suo atto eroico di accettazione incondizionata della concezione del Divino; con il quale ella di fatto rinnegava sé stessa totalmente fin alle radici del proprio essere. Ma sta di fatto che questa, e solo questa, è la Fede!
In questo senso, dunque, dice Le Fort, la Donna è fatta per illustrare il mistero, e quindi la sua dedizione religiosa è dedizione al mistero metafisico stesso. Il che, come lei precisa, è avvenuto anche molto prima del Cristianesimo con figure come la Sibilla. E di nuovo ci viene qui in aiuto il Michelangelo della Cappella Sistina, dato che egli annoverò tra i profeti anche la Sibilla e la Pizia delfica quale Oracolo del dio Apollo.
In ogni caso per l’autrice la Donna è dedita in termini metafisico-religiosi in tutte le sue forme, le quali vanno tutte oltre il naturale, animale e biologico. Lo è come vergine, sposa e madre. In particolare secondo la maternità. La quale corrisponde secondo lei al momento più forte della missione che è sempre toccata ad alcune tra le più grandi donne della storia, come Caterina da Siena e Giovanna d’Arco. La maternità è infatti in primo luogo protezione e cura, e lo è specialmente verso ciò che non è appariscente, ossia è nascosto. Ecco di nuovo il motivo del velo, a sua volta sempre intimamente unito a quello della dedizione. Vedremo comunque come questo discorso lefortiano diventi ancora più chiaro e forte nella terza parte della sua opera, che è dedicata appunto solo alla madre.
Tuttavia non si tratta solo dell’ascosità dei protetti da parte del Femminile, bensì si tratta anche dell’ascosità che è essenzialmente propria del Femminile stesso. Infatti proprio questo atto protettivo nasconde il Femminile, imponendo un suo ritiro rispetto alla vita pubblica (dato che si tratta di un compito del tutto privato ed in sé tutt’altro che eclatante, ossia un compito considerato di second’ordine). E ciò è tanto vero che la filosofa Hannah Arendt (prendendo a modello la società greca) si è sentita di identificare realmente lo spazio femminile nella società con quello che non ha né può avere alcuna relazione con quel livello eccelso che è occupato invece dalla politica ed è inoltre l’unico che sia davvero caratterizzato dall’esercizio della libertà [Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani Milano, 2008, II, 9-10 p. 49-57, III, 11 p. 58-66]. Per lei infatti lo spazio della donna riguarda gli elementari e brutali fenomeni della vita e della morte, e ciò implica pertanto perfino una certa sua deteriorità. L’ascosità femminile è infatti per lei un fenomeno sostanzialmente deteriore. Mentre per Le Fort esso manifesta in pieno quella grandezza femminile che trova il suo compimento nell’umiltà di una posizione che è di secondo piano soltanto sul piano sociale ma intanto è assolutamente di primo piano sul piano etico e religioso. Proprio per questo tale ascosità non viene affatto subita dalla Donna, ma viene invece voluta e scelta nell’’intuizione (senz’altro sublime) che non sono affatto le apparenze quelle che davvero contano.
La prova di tutto questo sta in fondo proprio il fatto che il contrario di tale attitudine si ritrova nella dimensione negativa che può caratterizzare il Femminile, ossia quella in cui la Donna non fa altro che volere sé stessa, e quindi rinuncia per definizione a qualunque cura dell’altro. Il che ci riporta nuovamente nel campo di quella che secondo il Femminismo sarebbe l’unica prospettiva lungo la quale il Femminile dovrebbe svilupparsi per conquistare la propria dignità.
Per Le Fort invece le cose stanno in maniera del tutto opposta, dato che proprio l’ascosità del Femminile (unita a sua volta all’attitudine alla cura dei più nascosti della realtà sociale) mostra l’enorme peso che esso ha avuto ed ha nella società e nel mondo, oltre che più in generale nell’essere. In altre parole (diversamente da ciò che pensa Hannah Arendt) proprio l’occupazione dello spazio più elementare e basico della società e del mondo fa della Donna il Fondamento stesso dell’essere, ossia una realtà della quale non si potrebbe in alcun modo fare a meno. Ed è evidente che, stando così le cose, lo spazio occupato dall’uomo (maschile) finisce per apparirci come molto più accessorio e secondario, fino a presentarsi addirittura come superfluo e vuotamente retorico. In parole molto semplici potremmo dire che mentre la Donna «fa», l’uomo si limita invece a parlare, se non a blaterare vuotamente ed inconsistentemente.
Non a caso, per l’autrice, tale così preponderante presenza è di nuovo quella che è tipica della Donna Eterna. Infatti questo enorme peso e ruolo della Donna nell’essere (con culmine nel “si” di Maria, la Donna Eterna per antonomasia) trova il suo riscontro negativo nella Caduta che vede proprio Eva come protagonista. Secondo Le Fort qui non si tratta però affatto della mera negatività di un atto che sia stato femminile solo casualmente e quindi incidentalmente. Si tratta invece dell’inaccettabilità di tale atto a fronte di quella naturale grandezza e forza femminile che consiste proprio nella sua religiosità, ossia nel suo esprimere al massimo la relazione tra uomo e Dio. Con l’atto di Eva (prendere il frutto) decade quindi la Creazione nella sua dimensione femminile, ossia dove meno ciò sarebbe potuto e dovuto accadere. In altre parole cade quel muro maestro che era poi quello che mai e poi mai avrebbero dovuto cadere. In particolare si tratta dello svanire della dedizione a vantaggio della signoria su sé stessi, ossia dedizione alla propria volontà. È evidente, dunque, che la Caduta di Eva non mette affatto a nudo una sostanziale deteriorità del Femminile (che avrebbe addirittura profondi fondamenti onto-metafisici ed etici) ma invece rappresenta una tragica de-femminilizzazione del Femminile. Con esso, insomma, la Donna non rivela affatto cosa essa sia veramente, ma invece cessa di essere ciò che essa è veramente. In altre parole essa si svergogna non per essere Donna ma invece per non esserlo più.
Tutto ciò sottolinea l’importanza capitale che ha la Donna nell’essere. Ma inoltre sottolinea anche l’importanza che ha perfino il Femminile negativo. Questo è per la precisione il Femminile che tradisce il proprio ruolo nella mera dedizione ai propri istinti animali. Ci troviamo insomma di nuovo di fronte alla donna che appena vuole sé stessa. E purtroppo proprio questo è quel Femminile che per il Femminismo è un valore invece che un disvalore.
Non a caso per Le Fort tale deviazione implica la caduta del Femminile addirittura nel demoniaco. Come viene illustrato da tutte le figure femminili negative presenti nella letteratura specie tragica – Medusa, le Erinni, le streghe, la Pentesilea di Kleist etc.
Per di più, ella dice, è proprio a causa dell’immensa portata della grandezza della Donna, che la Caduta dell’uomo avviene solo nel contesto della Caduta della donna. È questo ciò che si intende quando, nel Genesi, sembra che Eva abbia sedotto un innocente Adamo trascinandolo nel Peccato, e quindi macchiandosi della maggiore delle colpe. La verità è invece semmai che Eva contava molto più di Adamo.
E quindi proprio per questo la Caduta causata da Eva è molto più rovinosa di quella che sarebbe potuta venire causata da Adamo. Ciò in quanto essa riguarda l’intero essere. Quindi essa apre una prospettiva apocalittica in cui la Caduta finale porterà a termine quella originaria nell’ormai totale infertilità della terra (simboleggiata nell’Apocalisse di Giovanni dall’emersione della Bestia dall’Abisso). Il che rappresenta l’esatto contrario del “si” in quanto incapacità della Donna (Terra) di accogliere e di raccogliere le benedizioni che piovono su di essa.
Le Fort precisa che questa Apocalisse finale è preceduta però da diverse più ristrette e concrete apocalissi, rappresentate dalla degenerazione delle culture. Esse sono insomma storiche e temporali, invece che ultra-storiche ed atemporali. E non a caso proprio in esse svaniscono del tutto i segni positivi del Femminile. Com’e sicuramente il velo. Ed ecco il del tutto non casuale affermarsi della nudità e della vanità femminili (segni della dedizione della donna al piacere ed ai sensi) proprio entro tali contesti degenerativi. Per l’autrice si tratta di segni di “indurimento” (“Enthartung”) della donna, dedita ormai solo alla cura del proprio corpo. Ed eccoci di nuovo di fronte ad un fenomeno che il Femminismo di certo non ha voluto ma al quale ha senz’altro aperto la strada. Vedremo poi più concretamente nelle conclusioni cosa ciò comporti e significhi nella società contemporanea.
Ma tutto queto rappresenta per l’autrice l’esatto contrario della somiglianza uomo-dio (umano-divinità) e della collaborazione della creatura alla creazione, che sono invece i frutti religiosi più tipici della presenza ed azione di un Femminile che resti davvero in linea con la sua profonda essenza o anche «natura».
Ecco allora perché oggi (in un contesto storico ormai sempre più generativo) Maria viene invocata come aiuto (aiuto divino). Ciò avviene proprio perché ella vicaria il decadere della donna storica dal proprio ruolo. In particolare essa è liberatrice perché ripristina quella creatività che dalla creatura può venire solo accolta.
Il che avviene proprio nel contesto della dedizione e della collaborazione. Tutte virtù in cui Maria eccelle in quanto è “ancilla Domini” (ancella del Signore) per definizione.
In questo senso, dunque, la Donna è per davvero capace di benedire il mondo. Il che corrisponde poi soprattutto all’essere madre nell’atto di staccarsi da sé stessa. E qui in particolare la sua maternità è preparazione del mondo per l’eternità.

II-3 La Donna temporale (vergine e sposa).

Nella seconda sezione Le Fort parla molto più concretamente della Donna, cioè della Donna colta nella sua realtà più reale e storica, ossia della Donna immersa nel tempo, o “La donna nel tempo” (“Die Frau in der Zeit”, p. 33-95). È insomma la Donna temporale. E concretamente si tratta in particolare della Donna come vergine e poi sposa. È chiaro intanto che quest’ultima è anche madre, ma di questo aspetto Le Fort parlerà soprattutto nella terza ed ultima sezione. Il che però non significa affatto che la madre abbia un ruolo di secondaria importanza nel contesto della condizione femminile. Anzi è l’esatto contrario (come vedremo appunto nella terza ed ultima parte del libro). Si tratta invece del fatto che la vergine e la sposa (pur appartenendo di fatto alla dimensione più prosaica della vita femminile) sono in via di principio (almeno tendenzialmente) slegate dalla dimensione più fortemente biologica che caratterizza la madre. Cosa che vedremo in particolare laddove la sposa si rivela essere in effetti soprattutto la “compagna” dell’uomo.
Precisato questo, bisogna dire che, con la vergine e la sposa, si tratta insomma di null’altro che della vita femminile colta nella sua massima ordinarietà. E proprio per questo Le Fort si approssima qui quanto mai a diversi aspetti del moderno dibattito sulla Donna in tutta la sua concretezza.
Ebbene essa è per lei come tale per definizione “la metà” − metà dell’uomo come maschio, metà dell’essere umano ed ancor più metà dell’essere. Ma ancora una volta essa è tale come “silenzio” (e quindi nell’ascosità), dato il dominio maschile (che è invece voce e non silenzio) esercitato nei settori chiave (ad esempio nella politica). La presenza femminile è dunque in questo senso “dedizione” (“Hingabe”) − in particolare la Donna appare essere stata ed essere del tutto assente dalla storia. Tuttavia, dice Le Fort, sta di fatto che ormai il criterio che contrassegna la storia è del tutto non personale. Ossia non si riferisce più alle singolarità (grandi personalità) ma invece alla collettività. E quindi oggi la donna è in effetti più che mai dedita proprio alla collettività, ossia alla Totalità. Cosa che rafforza immensamente la sua attitudine alla dedizione.
Tutto ciò ha però un preciso significato anche biologico (oltre che simbolico), dato che la Donna è naturalmente in rapporto alla generazione essendo decisiva portatrice delle disposizioni o caratteri. Ecco che allora la Donna trasmette i caratteri senza però trattenerli e manifestarli, e quindi si limita a tramandarli senza mai appropriarsene (come invece fa l’uomo). E questo è dono disinteressato nel mentre è ascosità cioè ancora una volta velo.
Ma proprio perchè i caratteri della Donna appaiono solo nelle generazioni successive (e non in quella attuale), bisogna riconoscere che essa sta naturalmente in rapporto con l’infinito (anche sul piano meramente temporale ed immanente). Ed ecco che mentre l’uomo è la roccia che ferma il tempo, la donna è invece il flusso che incessantemente lo porta via (essa è insomma ontologicamente dinamica). Ma intanto solo il flusso è formante, mentre la roccia è sempre solo formata. A causa di tutto questo è sì vero che la dimensione maschile corrisponde a ciò che è pienamente personale-singolare (che però in verità appena passa e consuma), mentre invece la dimensione femminile corrisponde al generale (il quale per definizione ferma, ossia conserva). Intanto però, alla luce di tali costatazioni, la dimensione personale appare piuttosto mitigata nel suo così assoluto valore ontologico ed etico. Anzi finisce per approssimarsi molto non solo al solipsismo egocentrico ma anche ad una sorta di superfluo se non insensato dispendio di essere che invece viene completamente a mancare nella dimensione femminile. E non c’è dubbio che allora (sebbene solo in un determinato senso) la dimensione personale appare assomigliare non poco a quanto di più bassamente biologico ed elementare (sicuramente animale) ci sia nell’essere umano, ossia quell’istinto di sopravvivenza che è poi ostinata e perfino feroce difesa dei limiti del proprio essere. Insomma, sintetizzando, la dimensione così fortemente personale dell’uomo (maschio) sembra stare ad indicare una sua inguaribile tendenza a vivere solo per sé stesso, che invece sembra mancare completamente nella Donna.
E a tale proposito bisogna dire che Le Fort prende una posizione molto divergente da quella di Edith Stein, la quale invece difese con molta forza le ragioni del personalismo, specie vendendo nella Persona un valore assoluto ed incondizionato specie perché essa esprime la stessa umano-divinità dell’essere umano. Evidentemente, dunque, Le Fort è riuscita a guardare molto più a fondo in questa realtà, introducendo delle distinzioni delle quali invece Stein non si era affatto resa conto. E ciò va attribuito senz’altro ad una riflessione fondamentale sulla Donna, in assenza della quale probabilmente la dottrina personalista resta incompleta. Vedremo però più avanti che ci sono molte ragioni anche per relativizzare questo tendenziale disvalore della persona. E di nuovo in questo la Donna appare protagonista, specie nella sua condizione esplicitamente religiosa, ossia come vergine e sposa di Cristo, ossia monaca.
In ogni caso, dice Le Fort, la Donna è naturalmente “conservatrice” (“korservativ”). Ed è evidente che lo è però soprattutto in positivo, ossia nel contesto di una disposizione estremamente generosa e perfino sacrificale. Essa insomma fa sì che l’essere stesso persista e venga protetto dal deperimento. E lo fa addirittura a scapito di sé stessa come persona umana.
Intanto però, dice l’autrice, bisogna riconoscere che questa produttività è propriamente della madre. Non è invece della vergine, ossia la giovane donna (o ragazza) ancora senza marito. Dunque è realmente una tragedia (ecco la tendenziale tragicità della condizione verginale sul piano naturale) quando, nel contesto della relativa attesa, non avviene il passaggio dalla seconda alla prima. Tuttavia sta di fatto che tale attesa non realizzata è stata sempre valorizzata (nell’insuccesso e ascosità esaltati come purezza e rinuncia) presso le vergini sacre di ogni tempo e di ogni cultura e religione, inclusa Maria. Qui infatti la pienezza della persona si ha in modo invisibile all’uomo e visibile invece solo a Dio; quindi su un piano molto più alto che è del tutto sovrannaturale. In particolare in tale contesto il temporale riceve il suo senso interamente dal sovratemporale. Ed ecco allora che riceve puntualmente il suo premio la così generosa e sacrificale rinuncia della Donna a quanto ogni essere umano ha di più caro (quasi animalmente), ossia a sé stesso come persona.
Ecco quindi che il “mysterium caritatis” (che è tipico della disposizione amorosa femminile) finisce per manifestarsi anche nella vergine (in sé fatalmente sterile). È in tal modo che la sua attesa incompiuta viene completata e compensata dallo stato di sposa di Cristo. Nel caso di Maria si tratta della realizzazione su un piano più alto (nonostante il fallimento da vero e proprio non senso dell’esistenza femminile), che corrisponde al suo investimento da parte dello Spirito Santo, a sua volta in relazione con il “si” o “fiat mihi”. In particolare l’amore (mysterium caritatis) viene qui vissuto non nel matrimonio ma invece nella comunità monacale. E così esso finisce per evolvere nel senso di un puro amore per gli altri, entro il quale non vi è alcuno spazio per l’ordinaria ed elementare realizzazione personale. Oltre a ciò (in luogo delle dimensioni assenti) vi è poi la vita di contemplazione dedicata solo a Dio.
Naturalmente però, sottolinea Le Fort, tutto ciò si scontra frontalmente con la mentalità moderna, entro la quale in verità non è affatto chiaro quale possa essere il vero e più autentico senso della persona (al di là del piano elementare e superficiale del quale abbiamo appena parlato). Tutto ciò, comunque, anche se è vero sul piano prevalentemente monacale, vale inoltre anche per la Donna in generale, nella cui dimensione le realtà della madre e della sposa (strettamente intrecciate tra loro e rappresentanti i due sensi della Donna nella storia) di fatto prendono origine entrambe dalla vergine. Come abbiamo visto, infatti, quest’ultima condizione non è meno strettamente legata al mysterium caritatis, anche quando essa non sfocia nel matrimonio e nella vita familiare (come accade nell’attesa fallita). Per cui, nella forma di verginità sacra, anch’essa comporta senza alcuna vera contraddizione una reale condizione matrimoniale (quella di sposa di Cristo e relativa vita monacale), a sua volta dedita all’amore in maniera ancora più intensa ed alta. Del resto, proprio perché la Donna trasmette solo le disposizioni entro la generazione, può molto facilmente venire concepita una maternità puramente spirituale; com’è appunto quella monacale.
Ebbene, proprio a tale proposito possiamo ritrovare in pieno le ragioni di felicità e compimento personale che Edith Stein ritrovò nella decisa scelta della condizione monacale, entro la quale essa si riconobbe pienamente come vergine (tendenzialmente fallita sul piano naturale) divenuta ormai sposa di Cristo.
Si trattò di una compensazione ma anche sublimazione ad una serie di fallimenti che erano avvenuti su molti piani, e che includevano senz’altro anche quello sentimentale. Senz’altro ella aveva ritrovato qui in pieno la condizione sponsale e materna che le erano state negate dall’esistenza. E peraltro tra poco vedremo quanto poco la sponsalità religiosa (sposa di Cristo) sia in effetti in contraddizione con quella naturale. Anche qui, comunque, un’indagine sulle sue lettere e sulla sua auto-biografia renderebbe più chiara ed esplicita questa sua presa di posizione. Ma purtroppo non vi è spazio per questo nel presente scritto ed inoltre vi sono anche molti testi critici che ne parlano abbastanza diffusamente.
Tutto ciò, dice Le Fort, spiega il grande peso che la vergine ha sempre avuto nella storia, come vedremo poi nuovamente a proposito della madre (la quale invece nella letteratura non ha avuto alcuna attenzione). L’importanza che la letteratura ha attribuito alla vergine, corrispondente inoltre al fatto che la Donna è sempre intervenuta sempre nella storia in circostanze straordinarie (come guerre e catastrofi naturali) senza contraddire intanto la sua ascosità nemmeno quando è stata tangibilmente presente. Il che evidenzia una fondamentale dedizione (incentrata nel “si” mariano) nella quale la Donna sempre si è ritirata nuovamente in buon ordine dopo che l’emergenza era passata.
Tutto ciò evidenzia aspetti tipici della dimensione femminile che sono collegati ad un’ascosità, però in questo caso affatto slegata dalla presenza e dall’azione; ed inoltre anche alla stessa grandezza femminile o carisma. Si tratta ancora una volta, insomma, di ciò che si è manifestato nella vita ed opera di grandi personalità femminili (tra le quali senz’altro dobbiamo annoverare anche Edith Stein). Per la precisione siamo così di fronte alla tendenza tipica della Donna a farsi strumento o vaso, ed inoltre a venire «mandata» (vocazione e missione). Ma nello stesso tempo questa attitudine si è sempre coerentemente manifestata insieme alla tipica serie di aspetti solo apparentemente fallimentari della persona (oscurità, insuccesso, non venire capiti, non realizzarsi mai). Tutto ciò corrisponde al tratto tipico dell’azione femminile che è in primo luogo la collaborazione alla creazione (così come anche all’opera dell’uomo), corrispondente a sua volta allo stato di ancilla Domini (Maria). Qui insomma, dice Le Fort, nuovamente un raggio della Donna Eterna (Maria) cade su ogni donna ordinaria, ossia sulla Donna temporale.
In ogni caso va ammesso che in tal modo la Donna finisce per manifestare il valore massimo della persona. E quindi in tal modo finisce per venire rovesciata quella tipica dimensione a-personale della quale abbiamo parlato prima come di un carattere tipicamente femminile. Inoltre più avanti vedremo ancora altri aspetti della relativizzazione della dimensione tipicamente a-personale della Donna.
In tale contesto, con la fondamentale intermediazione di Maria (come modello di Donna, o Donna Eterna), la dimensione della vergine e quella della sposa risultano essere intimamente unite sia nella vita profana (famiglia e matrimonio) che in quella religiosa (Chiesa). Infatti la sposa dell’uomo equivale sempre (almeno in parte e tendenzialmente) alla sposa di Cristo. Ecco che la consacrazione della sposa dell’uomo (celebrata nella Messa nuziale) è non a caso simile a quella della sposa di Cristo (cerimonia dei voti).
E questo perché, sempre grazie a Maria come modello, Dio ha voluto che il fenomeno della generazione, in sé meramente naturale, venisse illuminato dalla sponsalità verginale (di Maria e quindi anche della monaca, o vergine sacra), trasformandosi così in sovrannaturale, ossia in puro amore, e quindi nel mysterium caritatis nella sua massima pienezza. In particolare si tratta dell’accettazione dell’altro come un mondo fatalmente fuori di me, e ciò sul modello del mondo fuori di Dio che il Creatore accetta umilmente affinché la Sua incommensurabile potenza non lo annichili totalmente. Considerazioni profondissime su questo si ritrovano in Simone Weil, specie in relazione alla sua personale interpretazione della capacità di fare la Volontà divina [Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 61-63; Simone Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, I p. 39-40; Simone Weil, Attesa di Dio, Adephi, Milano 2008, II p. 171-198; Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001, p. 51-84; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016 < http://mondodomani.org/dialegesthai/vn01.htm%5D Le Fort chiarisce a questo punto che il fenomeno in causa, in sé storico e cosmico) è quello della collaborazione tra forze polari dell’intero essere (il maschile ed il femminile), che implica quindi l’amore e dedizione della moglie al marito e viceversa. Il che ha poi precisi risvolti nella cultura, dato che la Donna è sempre presente in essa accanto all’uomo sebbene (in principio volontariamente) in una posizione apparentemente di secondo piano (ascosità). Tuttavia entro tale collaborazione la sposa assume un ruolo di spicco diversamente dalla vergine e dalla madre. Le quali, al suo cospetto, diventano solo secondarie, soprattutto perché più biologiche che non culturali. La sposa infatti è “compagna” dell’uomo per definizione. Il che rivela in trasparenza dietro la sposa un’entità (e relativa condizione) che è ontologicamente ben più fondamentale, dato che essa riveste un valore di portata ben più ampia e più alta. E ciò ha come conseguenza che la sposa non può mai divenire mero strumento dell’uomo, come avviene invece nella generazione (fenomeno che riguarda soprattutto la madre), e quindi mantiene una sua autonomia, oltre che avere un ambito di esplicazione molto ampio. In ogni caso ciò comporta anche che non vi è alcuna consecuzione letterale (né di valore o rango) nella sequenza vergine > sposa > madre. Motivo per cui la sposa ha importanza (nella dimensione femminile) almeno quanto la madre. E quindi non è destinata ad avere per forza dei figli. Come del resto viene pienamente accettato anche dalla Chiesa. Nel complesso Le Fort mette qui in luce nuovamente la dimensione personalistica che è propria del matrimonio in quanto legato più alla relazione (spiritualità sovrannaturale) che non alla generazione (biologia). Ecco spiegata la presenza nella Messa nuziale della menzione sostanzialmente paolina di “una sola carne ed un solo spirito”. Il che implica il passaggio della vergine (attesa, infertilità) a madre (fertilità) per mezzo della sposa su un piano che è ben più che biologico. Oltre a ciò si tratta di una particolare persistenza nel tempo della sposa – è per la precisione della sponsalità connaturata essenzialmente alla donna (già latentemente da quando è vergine) che nel matrimonio raggiunge il proprio compimento e poi si prolunga per tutta la vita (nozze d’argento). Si tratta ancora più precisamente del mistero dell’amore perpetuato per tutta la vita.
Ed esso a sua volta mette nuovamente a nudo Maria come modello della sponsalità connaturata alla Donna. Essa si manifesta infatti anche nella monaca o sposa di Cristo, quale secondo compimento della verginità. L’aspetto primario di ciò è che Maria riceve incondizionatamente lo Spirito Santo in quanto realtà di amore e creazione.
Il sacramento cristiano abbraccia entrambi questi aspetti (sposa dell’uomo e sposa di Cristo) affermando l’intera portata del mysterium caritatis. Il suo aspetto principale è quindi il mistero della creatività.
Le Fort ci ricorda che del resto ciò è sempre stato espresso in letteratura nella descrizione delle coppie famose: − Dante e Beatrice, Michelangelo e Vittoria Colonna, Hölderlin e Diotima, Goethe e von Stein, Wagner e Mathilde Wesendonk.
In tale contesto si manifesta insomma il fenomeno della creazione come dilatazione dell’Io al Noi.
Orbene, su questa base cambia completamente la visione del ruolo e valore della Donna (che evidentemente è stato così frainteso dal Femminismo): − non vi è in realtà alcuna contraddizione tra il ruolo familiare e sociale (cultura) della Donna. Il che fa sì che l’ascondimento previsto dal primo ruolo (in sé in stridente conflitto con quello sociale) perde completamente il suo aspetto deteriore. Qui in particolare la Donna esercita in ogni caso (in famiglia o nella società-cultura) il ruolo di immane importanza che è quello di costituire la metà dell’intero Essere. il che ha una dimensione intellettuale nel “conoscere donna” biblico. Infatti si tratta del conoscere nella Donna l’”altra dimensione dell’essere umano”; il che implica una polarità che è sempre Totalità.
In tal contesto il ruolo di guida della donna per l’uomo (unita inscindibilmente al dono di sé), e la sua risonanza (quasi musicale) con il pensiero maschile, pongono del tutto in secondo piano la necessità della competizione con il maschio. Cosa che nuovamente relativizza non poco le rivendicazioni polemiche del Femminismo. Ma ciò pone inoltre in luce il fenomeno della “rivelazione” della donna. La quale, nel mentre si rivela, resta intanto nel mistero dell’ascosità (inapparenza) per mezzo della dimensione simbolica del velo. Tanto che l’uomo non si rende nemmeno conto di tale rivelazione. In particolare, grazie alla Donna, l’uomo raggiunge la sua pienezza di persona senza nemmeno rendersene conto, ossia senza fare nulla.
Ed in particolare ciò avviene per mezzo del fenomeno dell’interposizione della sposa tra vergine e madre, laddove la sposa stessa risulta essere la pienezza della persona per antonomasia. Specificamente la Donna libera l’uomo dalla sua solitudine ponendolo in correlazione con la Totalità dell’essere. Cosa che l’uomo non potrebbe invece mai fare da solo!
Tutto ciò significa che nell’anonimato (velo) la Donna è in verità il “pilastro invisibile” dell’essere.
E tutto ciò, secondo Le Fort, pone in evidenza la realtà della relazione tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’opera di creazione (specie culturale). Laddove la Donna è un soggetto totalmente anonimo (e per questo subordinato alla collettività invece che alla personalità), ma proprio per questo è possente. Ed in ogni caso tutto ciò getta luce sulle comunità di lavoro esistenti tra uomini e donne (sul piano culturale) e quindi anche su quell’amicizia tra uomo e donna che ha il potere di restare totalmente casta. In ogni caso l’autrice sottolinea che bisogna ammettere il fatto che tutto questo valore della Donna è stato effettivamente oscurato laddove (come nel fenomeno storico tutto tedesco delle “leghe maschili”) è stata affermata la mera unilateralità dell’essere (unicamente maschile). Non a caso in esse, in assenza della collaborazione tra maschile e femminile, il risultato è stato sempre l’infertilità, ossia la non creatività.
Naturalmente interferisce in questo la realtà innegabile del Femminile demonico (con tutta la sua portata inevitabilmente distruttiva), che è dunque qualcosa di esistente incontestabilmente. Ma qui il fattore critico è solo il livello e valore ontologico che si sceglie di attribuire al Femminile. Tuttavia qui perfino l’abisso esistente tra il Femminile positivo e quello negativo ricostituisce comunque la Totalità. In particolare il fatto è che la creazione può essere costruttiva o distruttiva. Tutto dipende in questo dalla presenza o assenza della collaborazione tra uomo e donna.
Ed ancora una volta appare evidente l’effetto distruttivo che il Femminismo ha avuto su questa pur solo tendenziale armonia. Esso ha infatti rigettato ed eliminato (con sdegno) proprio la possibilità di una collaborazione tra maschile e femminile.
Posto questo, Le Fort precida che la Donna dovrebbe in verità essere sempre presente nella vita sociale (e non invece solo in situazioni straordinarie). Perché solo in tal modo la Totalità viene ricostituita. Il che è vero specialmente nella cultura, dato che sono creative solo le produzioni che raggiungono la Totalità. Altrimenti esse alimentano solo un flusso della cultura che è fatalmente frazionato in mille rivoli separati tra loro.
Ma, pur ammesso questo, l’assenza della Donna in tale contesto evidenzia in fondo soltanto l’importanza capitale che ha l’anonimato nella produzione, che a sua volta è connessa ai valori dell’umiltà, del velo, e dell’abbandono; e che a loro volta hanno alla base l’attitudine tipicamente femminile del “rispetto” o “riverenza” (“Ehrfurcht”). Cosa che implica necessariamente la dimensione religiosa. Il che esclude la tendenza al dominio (ossia la Signoria) che è invece tipicamente maschile; e che è sempre tendenzialmente distruttiva o almeno non creativa, e comunque risulta legata indissolubilmente all’orgoglio e quindi all’egocentrismo solipsista.
Le Fort sottolinea che proprio questa disposizione è ciò che ha permesso l’edificazione delle cattedrali.
E qui la sua riflessione converge straordinariamente con quella di Ananda Coomaraswamy nella sua critica molto radicale al protagonismo nell’arte che contraddistingue da molto tempo (in particolare dal Rinascimento in poi) la cultura occidentale in radicale conflitto con quella orientale [Ananda K. Coomaraswamy, La concezione indù dell’arte, in : Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano Adelphi 2011, p. 41-73].
Ebbene nuovamente tutto ciò sta in stretta relazione a Maria come modello − con il suo “si” (“fiat mihi”), a sua volta intimamente legato alla disposizione alla collaborazione alla creazione. Entro la quale la Donna è decisamente modello e guida per l’essere umano in generale, specie sul piano religioso.
Il che sottolinea poi ancora una volta il valore ontologico fondamentale della sposa. In particolare si tratta della consapevolezza del fatto che la creazione umana ha indispensabilmente bisogno di un “plus” divino-trascendente, in assenza del quale il creatore appena naturale è del tutto impotente e sterile.
Ma oltre a ciò è necessario conformarsi ad un particolare aspetto dell’ascosità (che trova la sua piena realizzazione appunto nelle cattedrali), e cioè l’accettazione del fatto che, nel contesto di tale creazione, Dio resta comunque nascosto nonostante la Sua manifestazione. Tanto che Egli stesso accetta di restare nascosto alla propria creazione, affermando così il massimo dell’umiltà.
E sta di fatto che solo la Donna è capace di un simile genere di creazione, specie in quanto nascosta (anonima) creatrice.
Qui ritroviamo nuovamente le virtù tipiche della sposa dell’uomo e anche nello stesso tempo sposa di Cristo. Il che sottolinea il fatto che solo per suo mezzo (per mezzo dell’anima collaborazione) l’uomo riesce a toccare la Totalità dell’essere. Cosa che di nuovo sottolinea la natura inevitabilmente religiosa della Donna. In particolare avviene che solo nel contesto della sua opera lo sguardo dell’uomo viene sviato dalla propria creazione verso la creazione di Dio (che è in verità il solo e vero creatore)
Ebbene secondo l’autrice il misconoscimento di tutto ciò è tipico della modernità, con tutta la sua decadenza (consistente nella separazione tra uomo e Dio), in quanto mera “civilizzazione” e non vera cultura. Nel cui contesto prevalgono non a caso unicamente le grandi personalità dei creatori nel contesto di quel protagonismo dell’artista che giustamente anche Coomaraswamy ha criticato. Si tratta insomma della valorizzazione del solo talento, entro una cultura che è fatalmente “volente sé stessa” e quindi resta relegata entro in confini angusti del tempo e della storia (aldiquà). Per questo essa resta chiusa ermeticamente verso l’eternità e verso l’aldilà. Ecco che qui il mysterium caritatis viene massimamente mortificato.
In tale contesto si affermano allora inevitabilmente solo gli unilaterali valori maschili. E non è un caso che in esso si manifestino i fenomeni (e relativi valori morali) che sono diametralmente opposti alla collaborazione tra maschile e femminile: − tradimento, infedeltà e divorzio (rigetto della sposa). Si tratta in particolare di una “separazione spirituale” entro la quale si affermano la solitudine, l’isolamento del singolo e l’individualismo.
Ebbene, per Le Fort questi sono tutti fenomeni apocalittici, e quindi esprimono la “fine del mondo” (sebbene sotto l’aspetto specifico del tracollo di una civiltà). Il fenomeno di fondo di tutto ciò è comunque l’assolutizzazione della parte rispetto al tutto.
Rispetto a tutto questo Maria costituisce per lei ancora una volta un potente antidoto. Specie in quanto superamento dell’unilateralità e restaurazione della Totalità voluta da Dio: − uomo + donna.
In tale contesto soprattutto il maschile tende a sacrificare l’esistere del nascosto (“forze nascoste”) a quello del mero nudo visibile, che a sua volta corrisponde alla metà misconosciuta dell’Essere. Ed è proprio sotto questo segno che si compie il ripudio maschile della sposa (sia in termini metaforici che letterali). Con ciò avviene però anche il rigetto del mysterium caritatis. L’autrice ammette però che questo oggi vede innegabilmente anche una corresponsabilità femminile. Il che chiama di nuovo decisamente in causa il Femminismo.
Ma intanto Le Fort afferma che un aspetto di tale corresponsabilità (e quindi anche della critica femminista alla famiglia) è comunque positivo, dato che la crisi familiare è stata dovuta anche alla borghesizzazione della famiglia, a sua volta connessa allo svuotamento di qualunque senso religioso di essa. Ciò è avvenuto in particolare nel senso dell’affidamento alla famiglia di un ruolo meramente biologico. La critica femminista a tutto ciò è quindi in principio giustificata. Se non fosse che, secondo l’autrice, essa si è dedicata a riformare appena la superficie dell’edificio e non invece le fondamenta. Laddove questa dimensione superficiale consiste nell’interessarsi della sola questione sociale, e non invece dell’essenza femminile nel contesto dell’ordine dell’essere.
Ma intanto tale presa di posizione corrisponde inoltre alla postulazione di un Femminile trascendente oggettivo (Sophia o Donna divina) entro il pensiero tradizionale; del quale abbiamo già commentato la valenza fortemente riduttiva. In ogni caso, prescindendo da questo riduzionismo, va considerato che (come sottolinea Le Fort) il Femminile è autentico solo se si fa portatore della sua tipica dimensione simbolica, che poi si riassume tutta nel velo.
L’autrice sottolinea comunque il fatto che, non trovando oggettivamente un posto nel sociale, la Donna ha continuato comunque a cercare un suo posto (come da sempre) entro l’ordine dell’essere. Ed anche questo (oltre all’accento posto solo sul sociale) va considerato un aspetto del fallimento del Femminismo.
Esso infatti non ha saputo cogliere la portata sostanzialmente positiva che ha perfino la rinuncia delle donne alla lotta per l’emancipazione. Essa corrisponde infatti ad una tendenza che scaturisce dal riconoscere in sé stesse (anche se in modo vago e confuso) la propria più intima ed autentica natura.
Non a caso, dice Le Fort, proprio per questo la Donna ha continuato a restare sempre intimamente unita alla dimensione religiosa e cosmica.
Eppure, pur ammesso questo, resta il fenomeno tutto moderno (e degenerativo) del dissolversi della “comunità essenziale” (“Wesensgemeinschaft”) un tempo esistente tra uomo e donna. In luogo di quest’ultima si è affermata infatti una mera “organizzazione”, entro la quale la reciprocità (tutta spirituale) è stata sostituita dalla realtà giuridica e commerciale del contratto di scambio. Qui prevale insomma la dimensione del mero “accanto”, che è poi l’aspetto più superficiale e deteriore della Donna come compagna. E, almeno a mio avviso, non vi è dubbio che proprio da qui scaturiscono le attuali aberrazioni della legislazione che concerne il divorzio, che è oggettivamente tutta a sfavore del maschio.
Ebbene, Le Fort sottolinea a tale proposito che un decisivo aspetto sociale e di costume di tutto ciò è stato l’affermarsi della “lotta tra i sessi”. Secondo lei, però, è ingiusto attribuire la responsabilità di questo al solo Femminismo, dato che a tale fenomeno hanno contribuito anche le famigerate “leghe maschili”.
Ma soprattutto il fenomeno è espressione di qualcosa di più profondo, ossia della degenerazione sociale, causata a sua volta soprattutto dalla separazione uomo-Dio. In tal contesto, comunque, quella che era una forma di grande libertà femminile (ossia quella fondamentale relazione solo con Dio che le consentiva perfino di restare in qualche modo “sottomessa” all’uomo nella dedizione) ha finito per diventare mera dipendenza dall’uomo. Si tratta in principio dell’irrigidimento del mysterium caritatis. Ma tale fenomeno ha aspetti controversi e perfino opposti, includendo addirittura anche il fenomeno tutto femminista della mascolinizzazione della donna. Oltre ai fenomeni dello sprofondamento della donna nel mondo dei sensi, ossia nel piacere. E con ciò collimano ancora una volta vari aspetti etici negativi del naufragio dell’amore, del matrimonio e del comportamento sessuale che ho già prima descritto. E tutto ciò evidenzia in definitiva il totale spegnimento del mysterium caritatis e l’insterilimento di ogni dimensione produttiva e creativa.
Le Fort sottolinea che intanto, sullo sfondo di tutto ciò, è venuta a mancare soprattutto la possibilità e capacità della Donna di essere metà. E non vi è dubbio che il Femminismo ha contribuito fortemente a questo sviluppando la dimensione femminile in maniera diametralmente opposta a quella maschile (con il relativo conflitto).
Orbene la via di uscita a tutto ciò sta per lei nel recupero di una dimensione polivalente (e non invece bio-socio-unilaterale) del Femminile, ossia quella dimensione triplice (rivelazione femminile) che è vergine-sposa-madre. Solo grazie ad essa, infatti, il Femminile resta in grado di rinviare alla Totalità nella relazione con il maschile. In particolare si tratta della Totalità femminile che spinge anche il maschile verso la Totalità.
E qui l’elemento chiave è ancora una volta Maria come modello del femminile. Esso infatti esclude per definizione l’unilateralità femminile, e con essa la dimensione unicamente biologica e naturale del Femminile stesso, a sua volta riscattata dalla dimensione religiosa di esso. Nella prima infatti femminile e maschile sono irrevocabilmente separati. Mentre nella seconda essi sono irrevocabilmente uniti. Infatti proprio la Totalità del femminile implica inevitabilmente anche l’unione al maschile. E si delinea pertanto una Totalità del compito: − vergine-sposa-madre. In particolare assume qui speciale rilievo la dimensione della sposa che è sempre anche “compagna” dell’uomo in senso non solo fattuale ma soprattutto spirituale: − compagna dello spirito maschile. E proprio come tale essa è per davvero pienamente metà dell’Essere.
Ebbene ancora una volta in questo senso va rivisto e corretto il ruolo secondario che nel pensiero tradizionale il Femminile avrebbe al cospetto di uno Spirito da considerare come unicamente maschile.
Ecco allora che, in verità, la rigida separazione ontologica tra spirito (maschile) ed anima-corpo (femminile) appare non avere alcun senso.
L’aspetto deteriore della dimensione della compagna è comunque quella dell’”accanto”, ma solo se inteso in senso riduttivo. Mentre è di certo assolutamente deteriore la dimensione del “davanti” (della donna verso l’uomo).
A tale proposito Le Fort sottolinea comunque le ragioni storiche oggettive che il Femminismo ha avuto nel denunciare l’esclusione della donna specie nel campo dell’impegno o lavoro. Ma intanto sottolinea anche che l’impegno più congeniale (ed anche esemplare per l’uomo) della Donna è in verità quello di amare Dio; il che implica poi un “si” (“fiat mihi”) che a sua volta è alla radice della creatività basata sulla dedizione amorosa. Pertanto la rivendicazione dell’emancipazione non rappresenta in tale contesto alcuna vera soluzione. Specie in quanto essa non tiene affatto conto della natura femminile, nel mentre afferma appena una mascolinizzazione della donna ovvero la famosa parità dei sessi. Dunque per questa via la Donna finisce per non assumere il grandioso compito storico che oggi le compete di diritto, ossia la ri-affermazione della creatività entro l’ordine divino restaurato. L’avvento di una nuova epoca ispirata a questo principio corrisponde per Le Fort a null’altro che al ripristino del mysterium caritatis: − portato dalla Donna ma intanto valido per l’uomo e per l’intero mondo.
Tuttavia per lei è un fatto che, nel contesto della modernità, quest’ultimo è stato largamente tradito. E ciò è avvenuto a causa di quella negazione del vero significato simbolico della Donna (tutto racchiuso nel “si” o “fiat mihi”) ad opera sia della hybris maschile (valori dell’auto-affermazione) sia della hybris femminile (Femminismo). Ma ancora una volta sullo sfondo di tale negazione vi è il fenomeno ben più ampio e profondo (metafisico-religioso più che sociale) della separazione uomo-Dio; la quale a sua volta dipende vitalmente proprio dal “si”. E proprio questo ha comportato per l’autrice una profonda distorsione della stessa prospettiva apocalittica, con una connessa visione negativa di Dio (inteso principalmente come vendicatore). In particolare ella sottolinea qui di nuovo che l’apocalissi più tangibile è in verità quella attuale e storica (tramonto e degenerazione delle singole culture) e non quella davvero finale. E proprio in tal contesto ella si produce in una critica serrata della scienza (fondamentalmente maschile) in quanto inevitabilmente distruttiva. In particolare si manifesta qui in maniera più drammatica l’esclusione della dimensione femminile per mezzo di un mondo votato alla distruzione per esaurimento ossia per sterilità; specie in quanto deprivato della creatività femminile. Ma di nuovo è proprio in tal modo che (sebbene in negativo) il Femminile si manifesta in tutto il suo valore in quanto “pilastro invisibile” dell’essere, ossia vero e proprio Fondamento dell’essere.
Tuttavia è nuovamente Maria colei che corregge tale prospettiva. In quanto ella mette a nudo la dimensione religiosa di questa disposizione e natura femminile, dato che il vero Fondamento dell’essere è Dio. E quindi, grazie al suo apporto (unito alla ri-valorizzazione del Femminile), ci viene rivelato che esistono delle forze nascoste che alimentano l’essere; e che esse intervengono quando il mondo è giunto all’esaurimento totale delle proprie forze creative (aiuto divino). Si tratta insomma del profondo rinnovamento del mondo che viene operato dallo Spirito.

II-4 La Donna atemporale (la madre).
Giungiamo così alla terza ed ultima parte del testo lefortiano, che discute la “Donna atemporale” (“Die zeitlose Frau”, p. 97-157). Si tratta in particolare della madre.
La tesi generale di questa sezione sta nell’idea che il culmine della femminilità viene raggiunto nella madre (o meglio la donna materna, ossia la Donna in possesso di un’autentica attitudine materna), e ciò a causa del fatto che il tempo non la tocca affatto. Essa insomma è eterna e atemporale per definizione. E lo è peraltro sul piano immanente, e quindi naturale e storico. Il che rappresenta un fenomeno del tutto portentoso, ossia una sorta di miracolo naturale.
Quindi appare qui del tutto evidente che compito imprescindibile della Donna è quello di essere madre.
Il che però non significa affatto appena avere dei figli propri (maternità biologica), bensì molto più prendersi cura di tutti i piccoli, deboli e indifesi.
Le Fort menziona al proposito quello che deve essere stato un dibattito del suo tempo circa il diritto e appello alla maternità (“Ruf nach der Mutter”). Che però non è ben chiaro cosa sia stato effettivamente (argomento femminista?; tematica para-nazista della maternità biologica per l’etnia tedesca?; appello alla ripopolazione in risposta al fenomeno della de-natalità?; tematizzazione post-bellica della tragedia delle donne con poche speranze di trovare un marito?; rivendicazione del diritto ad una normale e fisiologica sessualità femminile?). In ogni caso, comunque, più avanti ella porrà esplicitamente in discussione l’appropriatezza del concetto di “diritto” applicato alla maternità. Intanto ella però sottolinea il fatto positivo che, in tale contesto, è rappresentato dalla tematizzazione dell’essenza femminile in relazione alla maternità (laddove quest’ultima non viene più riconosciuta come una sorta di ovvietà meccanica, ma invece come qualcosa che è sottomesso a condizionamenti specialmente storici). Proprio a tale proposito ella sottolinea tuttavia che la Donna in quanto madre è atemporale per definizione, e quindi rappresenta qualcosa di largamente indipendente dai fenomeni storici. E il non riconoscerlo (come poteva avvenire entro il dibattito al quale ella fa riferimento) può per lei essere fonte di gravi malintesi.
Uno di questi è proprio quello costituito dalla tendenza a slegare la condizione femminile dalla maternità, considerando così quest’ultima come affatto essenziale per la donna. Siamo insomma di nuovo di fronte ad una delle più tipiche ed aggressive rivendicazioni del Femminismo (che negli anni ’60-’70 del XX secolo si riassunse nello slogan «Il corpo è mio e per esso decido io»).
In termini più propriamente filosofici si tratta però del fatto che la temporalità (tempo, attualità sociale) non ha in verità alcun potere sulla Donna in quanto la maternità è “compito della donna per eccellenza”.
Ne consegue che la Donna non può essere davvero tale se oltre che sposa non è anche madre.
Proprio per questo la donna-in-quanto-madre è atemporale e perfino eterna. Il che poi significa che essa è assoluta, e quindi è indiscutibile e soprattutto incondizionata. Non solo. Ma solo la madre è Donna atemporale, mentre non lo sono ancora affatto la vergine (obbligata all’attesa) e la sposa (condizionata dallo stato maritale). In particolare, in quanto resta sempre la stessa nel tempo, la donna-madre è l’infinito terreno stesso, e quindi equivale alla stessa Vita (ossia alla madre-terra o anche madre-natura).
Ed in questo senso essa rappresenta (almeno in un certo senso) anche senz’altro il Femminile più elementare e basico.
Ma proprio per questo essa è sacra per definizione ed anche autonoma. Così costituisce un oggetto intangibile che deve essere fatto segno di incondizionato rispetto e venerazione. Il che comporta poi la sacralità della Vita stessa ed inoltre nuovamente la dimensione religiosa della Donna, che qui (specie per mezzo del Bambino) è tramite tra uomo e Dio. E devo qui ricordare le fondamentali riflessioni svolte da Edith Stein sul mistero del Natale [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988]. In particolare infatti la pensatrice sostenne che il Bambino Gesù (il frutto della maternità) rappresenta tangibilmente (davvero in carne ed ossa) l’”incarnazione” divina (Menschenswerdung) ma nello stesso tempo anche tutta la serie di eventi provvisoriamente negativi (Croce, ossia dolore inevitabilmente comportato dalla sequela di Gesù) che contrassegnano l’accoglimento umano di Dio nella propria vita preludendo così alla Resurrezione. In altre parole Presepe (Bambino) e Croce sono una sola cosa, ma lo sono solo nella prospettiva difficile ma positiva della Resurrezione.
Tutto ciò comporta comunque ancora nuovamente la dimensione del mistero. Ed ecco che di nuovo qui si ripresenta il velo come realtà che accompagna tutti i fenomeni della maternità così come tutti gli aspetti propri della Donna. E a tale proposito Le Fort rivendica la necessità del silenzio da osservare rispetto alla maternità, sottraendola così ad ogni tematizzazione letteraria ed anche allo stesso così chiassoso dibattito sul diritto alla maternità. E questo include per lei anche tutto lo spazio di discussione che usualmente sussiste rispetto al matrimonio in crisi.
Più in generale però si tratta con ciò dell’irruzione del tempo nella dimensione della maternità. Come avviene anche nella medicalizzazione (ginecologia) di tale condizione, a sua volta espressione del fenomeno tutto moderno e dissacratorio dello sforzo per irretire quelle forze della Natura che invece nella maternità (nonostante la sua dimensione sacra) trovano piena espressione. Di nuovo qui Le Fort si produce qui in una forte critica alla scienza.
In termini filosofici ella contrappone a questa chiassosa tematizzazione (domanda di maternità, diritto alla maternità) l’atto del “discendere” (“hinabsteigen”) verso la madre. Sebbene non sia ben chiaro cosa ella intenda con questo.
Intanto comunque ella sottolinea nuovamente il silenzio che va osservato verso la maternità, facendo notare che non a caso la tragedia (così come anche l’arte plastica) non si è di fatto mai occupata della madre. Il che poi sottolinea tra l’altro la natura per definizione “impersonale” della madre, che va poi a raccordarsi con la già discussa fondamentale impersonalità della Donna specie in relazione alla generazione. E qui in particolare (specie nell’amore incondizionato ed eroico che la madre nutre per il figlio) la dimensione personale si rivela nuovamente (sebbene paradossalmente) contraria ai valori del sacrificio, dell’oblio di sé e dell’oscurità (sempre silenzio) che caratterizzano essenzialmente la maternità. L’autrice ci fa comunque notare che, diversamente dalla tragedia e dalla plastica, invece nell’arte popolare (favole, saghe, canzoni) la madre è stata sempre tematizzata, e specie molto in relazione con i temi della Natura.
Tuttavia ella sottolinea come sostanzialmente positivo anche perfino il significativo fenomeno della presenza della madre negativa in certa tragedia (Medea etc). Questo per lei sta infatti a indicare che l’essenza della maternità non è affatto biologica (e quindi istintuale) ma è invece etica in senso volontario, ossia implica una scelta. Il che significa poi che non tutte le donne sono in grado di essere madri, oppure al massimo possono impersonare il ruolo della sola “madre biologica” (“leibliche Mutter”). La vera natura della madre è invece in principio sacra, divina e sovrannaturale, come avviene paradigmaticamente nel caso di Maria, che quindi nuovamente si presenta come modello di femminilità anche in quanto madre.
E qui ella chiama a testimone Sigrid Undset con il suo romanzo dal titolo “Ida Elisabeth”. In esso in particolare emerge la natura della maternità in quanto cura dei deboli e indifesi. Ed inoltre emerge anche il fatto che è il figlio a generare la madre e non la madre a generare il figlio (insomma in verità è solo la presenza attuale di un figlio che fa della donna una madre, con tutti gli obblighi sacrificali che ciò comporta). Il che sottolinea poi il fatto che in verità (ben più fondamentalmente) è il mondo stesso ad aver bisogno di una madre; in quanto portatrice di quei valori della cura, in assenza dei quali il mondo fatalmente perisce o deperisce per sterilità. La maternità sta infatti alla radice della soddisfazione del bisogno che caratterizza anche l’azione della terra stessa (essa infatti nutre). E ciò comporta di nuovo tutta la serie dei valori dell’ascosità che sono propri della Donna ed anche della stessa terra in quanto materia.
Messe così le cose, la maternità influenza potentemente anche la stessa sponsalità, dato che inevitabilmente la sposa è anche madre del proprio uomo. Cosa che giunge fino al ruolo di vera e propria cirenea che la donna svolge a favore dell’uomo che porta la Croce, specie come ingiusta colpa, ingiustizia subita ed anche perfino fallimento esistenziale. E a tale proposito va sottolineato lo scandalo che affermazioni come queste certamente susciteranno sia nella femminista che nello psicanalista.
In ogni caso, mentre all’uomo spetta naturalmente il compito titanico di superare le resistenze della materia (forza maschile), alla Donna spetta naturalmente il compito di soddisfare i bisogni critici che questo compito comporta.
Ed ecco che in tutto questo si delinea chiaramente la figura chiave della “donna materna”, la cui attitudine principale non è solo la cura ma anche la stessa pietà o compassione. Questa attitudine rende assolutamente non femminile la tendenza di alcune donne alla critica ed al giudizio severo ed implacabile.
Ne consegue che la donna non è mai veramente tale se non è integralmente materna.
Un aspetto specifico della pietà propria della donna materna è quella di prendersi cura in particolare dell’essere umano colpito dal fallimento esistenziale. Si tratta di ciò che Le Fort definisce come “Fehlguß” (colata errata, ossia di fatto uomo nato sbagliato), ossia dell’ultimo degli ultimi, cioè colui che è venuto al mondo in forma errata e distorta, e quindi è lo sventurato per definizione. Ma intanto paradossalmente proprio la più fallita delle donne materne (ossia la vergine la cui attesa è andata delusa, cioè la monaca) è colei che è più chiamata a questo compito. A causa di questa opera della donna materna accade dunque che la “debolezza” (“Schwäche”) viene elevata a virtù principe per poter realmente conquistare il regno dei cieli. Ed ecco che nuovamente Maria diviene modello per la donna materna proprio in quanto “Madre di Misericordia”.
Ebbene, ritornando da ciò al modello della vergine-madre (monaca) − in quanto fallita nel suo desiderio di maternità −, emerge più che mai quanto il culmine della condizione di donna materna si abbia proprio nelle donne che non hanno avuto figli. Che poi sono in generale quelle che esercitano una funzione materna sostitutiva (donna parente, madrina di battesimo, educatrice…), oppure laddove la maternità è un lavoro (medico-donna, educatrice, insegnante, infermiera…). Ecco allora che questo genere di maternità si rivela costituire una “disposizione naturale” (“Naturanlage”) ancor più di quella biologica. Il che mostra che la madre biologica configura appena un abbozzo di autentica maternità, e quindi ancora una volta appare chiaro che non tutte le donne si rivelano capaci di essere madri. Si delinea quindi qui il supremo paradigma della donna materna e cioè quello della maternità spirituale. Ed a mio avviso ciò getta un luce davvero molto forte sul valore dell’atto di adozione.
Ma intanto con ciò il discorso sul diritto alla maternità viene definitivamente esautorato. Ecco allora che in verità “Non vi è alcun diritto della donna ad un bambino. Vi è invece solo il diritto del bambino ad una madre” (“Es gibt kein Recht der Frau aud ein Kind, sondern es gibt nur das Recht des Kindes auf eine Mutter”). Il che ancora una volta sottolinea l’importanza ed il valore dell’adozione.
Oltre a tutto ciò viene in tal modo allo scoperto un elemento che è di fondamentale importanza nel confronto con il Femminismo, ossia ancora una volta quello della “natura” femminile. Che Le Fort ritiene essere pienamente valido e vigente anche sul piano puramente spirituale. Il che significa quindi che non solo esiste effettivamente una «natura» femminile, ma essa va anche ben oltre i limiti che sono da assegnare a ciò che è meramente e bassamente «naturale» (ossia il biologico-animale), e quindi finisce per essere pienamente valida anche (e forse soprattutto) su un piano puramente spirituale. Che è poi la dimensione simbolica alla quale Le Fort raccorda la natura femminile.
Tutto ciò lascia per Le Fort emergere anche lo scottante tema del lavoro femminile, che per lei è altrettanto condizionato dalla pienezza della femminilità materna (e quindi ad esso secondario). Per cui è valido qui lo stesso principio affermato per il diritto alla maternità: − “Non vi al mondo alcun cosiddetto ‘diritto femminile’ al lavoro ed all’occupazione, ma vi è invece un diritto alla donna da parte del mondo in quanto bambino”.
Da questo la dimensione della donna materna si estende poi anche all’ambito collettivo e perfino politico, con il fenomeno della Regina (o reggente) come Madre del popolo. Con l’eccezione, però, della maternità negativa che si esprime nella donna che solo “vuole sé stessa” (Pompadour).
Di nuovo quindi emerge che il mondo ha bisogno di madre. Ed in generale emerge qui che la donna materna (ancor più che la Donna in generale) rappresenta il fattore critico per la creatività.
Ma da questo l’autrice passa poi alla discussione del ruolo della donna materna nella cultura. Ruolo che per lei appare basato su aspetti fondamentali della donna materna che sono ancora più elementari di quelli propri della Donna in generale. La donna è infatti per lei conservatrice per definizione, e quindi si presta più di chiunque altro a “supportare” (“tragen”) − cioè conservare, proteggere, difendere ed anche amare appassionatamente − i valori di una società. Il che ancora una volta si estende fino alla cura dello Stato (Regina o reggente).
Cosa che (come anche in altri aspetti) la porta a porsi al di sopra anche della sposa, la quale tende invece più a “spendere” (ossia a dissipare forze e risorse) che non a conservare.
L’esempio più elementare di tutto ciò si ritrova per lei nel ruolo critico che la donna materna esercita nello sviluppo del bambino (insegnamento di linguaggio e costumi).
Ed ovviamente più che mai è qui di importanza cruciale la serie dei valori legati all’attitudine all’ascosità.
I quali rendono la moderna donna dedita al piacere (“gaudente”) particolarmente inadatta ad essere una donna materna.
Al di sotto di questo ruolo culturale si delinea però un ruolo ancora più fondamentale ed elementare, che ancora una volta assimila la donna materna alla terra ed alla natura. Si tratta per la precisione di un ruolo religioso e sacro nella sua dimensione ultra-culturale. Esso è talmente possente e radicale da manifestarsi anche in tutti fenomeni connessi alla maternità naturale e biologica (parto etc.), dove vita e morte scaturiscono dall’eternità (nascita) per procedere come un’onda che infine ritorna all’eternità stessa (morte). Qui accade che l’eternità trapassa nel tempo, e proprio la donna materna ne è il tramite.
Si tratta insomma di una dimensione che più naturale non potrebbe essere. Ma sta di fatto che l’eternità è Dio stesso, e quindi si tratta in verità di un passaggio da Dio a Dio. E in tale contesto la donna materna assume di nuovo una valenza profondamente sacra e religiosa. Si tratta in verità della messa in contatto di Natura e Grazia, che vede proprio la donna materna come protagonista.
Ma Le Fort non manca di sottolineare che tale funzione si è fortemente indebolita in un mondo in cui la Donna è stata equiparata alla Natura proprio nel mentre però la Natura veniva sradicata dalla Grazia. E qui ella cita nuovamente Sigrid Undset con la sua Cristina (Kristin Lavranstochter), la quale ha sostenuto che la Donna-Natura perviene alla piena dimensione religiosa della maternità solo in quanto “cristiana” (“christin”), cioè arriva fino alla Chiesa.
Eccoci quindi alla santificazione della maternità da parte della Chiesa. Laddove viene per lei in fondo celebrata la Vita stessa. E qui vengono discussi tutti i temi dell’invito all’eroismo da parte della madre nel parto – specie nel preferire la vita del bambino alla propria.
L’autrice precisa che però in verità con ciò la Chiesa intende celebrare in questo la “Vita superiore”, ossia quella sacra e divina. Pertanto, entro tale in principio perfetta coordinazione tra Natura e Grazia (quale attitudine della donna materna) la Chiesa giunge infine a celebrare la madre addirittura anche più della vergine e della sposa. Dato che è propria della madre quella virtù dell’umiltà che la induce a non ribellarsi mai a Dio. Ecco che la dimensione di Natura della madre è sempre premessa per la Grazia. È in questo senso che la madre non solo è pronta a sacrificare la propria vita, ma inoltre è anche sempre pronta ad offrire il proprio bambino a Dio. Ella è insomma costantemente pronta a declinare qualunque titolo di possesso sul frutto delle proprie viscere.
E ciò avviene soprattutto nel Battesimo (in cui alla madre biologica del bambino si sostituisce la Chiesa come Madre spirituale), oltre che nell’educazione religiosa del bambino stesso.
In tutto ciò trionfano i valori dell’accoglienza e della rinuncia alla propria volontà, che ancora una volta trovano un modello in Maria e nel suo “si” (“fiat mihi”). In particolare si tratta dell’offrirsi della Donna come campo nel quale germoglia e cresce l’umano-divinità: − il figlio naturale diviene infatti figlio di Dio.
E a causa di ciò con la madre stanno naturalmente in relazione diverse figure del Rosario, ma in particolare quelle legate al dolore per quella perdita del Figlio che è sempre umile offerta. Non senza però che i misteri del dolore preludano a quelli della Resurrezione, e quindi della Gloria e della Gioia, che poi stanno poi in stretta relazione con l’atto di Assunzione di Maria al cielo. Atto con il quale non a caso ella diviene Madre di tutti gli uomini.
È su questa base che, secondo Le Fort, la virtù materna dell’accoglienza fa infine della madre una figura religiosa sacerdotale non inferiore a quella maschile. Ed inoltre in tal modo la donna materna si pone in relazione all’universalità della Chiesa e del Cristo. Ed è per questa via che la donna materna viene infine assimilata alla verginità di Maria (in quanto madre dell’uomo per eccellenza, Cristo), con la conseguenza che riassume in sé stessa (senza alcuna contraddizione) tutti gli aspetti della vita femminile esattamente come accade in Maria.
Con ciò, insomma, la maternità è destinata a venire costantemente riassorbita nella verginità. Il che significa che la maternità rientra sostanzialmente nell’ordine della vita femminile che è stato voluto da Dio e prevede quindi le due congiunte realtà di vergine e madre. E con questo viene restaurata l’”immagine eterna” (“Ewiges Bild”) della Donna (Donna Eterna).
In tal modo (e non senza l’intermediazione di Maria) viene dunque per sempre superata (in un ordine superiore) quella tragicità naturale della verginità, che è poi anche della madre stessa. Il che avviene attraverso la virtù mariana della totale disponibilità a Dio (ancilla Domini). Che è poi anche l’eleggere a propria missione la stessa missione accettata incondizionatamente da Maria. È proprio in tal modo che si può davvero affermare che la salvezza proviene dalla Donna. Dato che tale attitudine è esemplare per l’intero genere umano, ossia afferma il valore primario della relazione con Dio. Prospettiva che è poi anche apocalittica perché salva il mondo dalla Caduta, ed ancor più il mondo moderno che si è separato tragicamente da Dio.
Ma, per mezzo dell’intermediazione di Maria, oltre che vergine la madre è anche sposa, e precisamente “sposa dello Spirito” proprio in quanto sposa dell’uomo, e quindi impegnata con lui nella collaborazione alla creazione. Cosa che implica in una certa misura anche l’accettazione dell’uomo come “capo” (sottomissione), dato che Cristo stesso è Capo del Corpo (vedi testo).
Ebbene è per mezzo di tutto questo che la donna materna partecipa all’opera di salvezza del mondo.
In sintesi possiamo quindi dire che, entro la visione di Le Fort, in un certo senso la madre svetta decisamente sulla vergine e sulla sposa. Tuttavia (specie per mezzo del modello di Maria) essa finisce per venire ridotta sia all’una che all’altra. Ed è così, allora, che si ricostituisce quella perfetta “triplice rivelazione” della Donna (o anche Totalità femminile) che include vergine, sposa e madre senza che nessuna di queste dimensioni venga esclusa o assuma un valore secondario.

III- Conclusioni.
Ebbene, in via di principio alla fine di questa esposizione e commento del testo di Le Fort non ci sarebbe da aggiungere più nulla. Mi sembra infatti di aver assolto al compito molto limitato di offrire al lettore una sintesi di quest’opera che potrebbe anche dispensarlo dal leggere integralmente il testo.
Tuttavia mi sembra che comunque almeno una considerazione conclusiva molto generale meriti di essere fatta.
In particolare infatti ci si può chiedere quale ruolo e senso può avere la lettura di un’opera come questa in un mondo in cui l’ultima cosa che passa per la testa di una donna (giovane o attempata che sia) è quello di conformarsi al modello di Maria Vergine; oltre che di conformarsi ad un’ipotetica «natura» femminile che non solo è eterna ma è anche normante (cioè impone degli obblighi ben precisi). Ma a questo punto sorge la questione del se (aldilà di tutte le possibili sottili discussioni che si possono fare, e di tutte le relative rivendicazioni) l’obiettivo della donna moderna sia o meno per davvero quello di essere fedele alla propria natura. Laddove è chiaro che, se invece così non è, essa fallisce oggettivamente nell’essere ciò che è.
Il che porterebbe poi ad estendere anche alla donna (femmina) un’esortazione alla quale da sempre gli uomini (maschi) si sentono visceralmente vincolati, fino al punto di vergognarsi profondamente se non la seguono. Insomma oltre ad un «Fai l’uomo!» dovrebbe esistere anche un «Fai la donna!».
Ma intanto è anche chiaro che ciò trova un ostacolo ormai davvero possente nella pressoché totale dissoluzione dell’identità sessuale che intanto si va affermando
Orbene si può pensare che quest’obiettivo sia ancora davvero attuale per la donna?
Sinceramente sono portato a dubitarne visto che, nel corso del tempo e con il succedersi delle generazioni, si è sempre più affievolita la percezione di quella che è per davvero la natura femminile. Oggi infatti le donne (anche se non più giovani) ritengono un vero e proprio imperativo morale quello di realizzarsi come persona (ad esempio nel lavoro o nella politica), ed inoltre ritengono il piacere materiale e sensibile come un obiettivo assolutamente imprescindibile. E quindi pongono in cima ad ogni loro valore e desiderio quello di occupare un ruolo di rilievo nella società, specie nel campo del lavoro, ed inoltre di vivere la vita realizzando incondizionatamente il loro desiderio di piacere. Oltre a ciò, specie presso le ultime generazioni susciterebbe il riso o almeno lo stupore non solo l’idea che una donna si possa realizzare solo nella maternità e nella sponsalità (sia pure collateralmente all’esercizio di una professione), ma ancor più l’idea che tale realizzazione addirittura trovi il suo paradigma in una dimensione religiosa (com’è quella di Maria).
Eppure Gertrud von Le Fort non sembra avere alcun dubbio nell’indicare alle donne questi due obiettivi come quelli al di fuori dei quali la donna semplicemente cessa di essere tale, ma inoltre anche come quelli seguendo i quali la donna conquista per davvero l’immensa dignità che le spetta di diritto.
Che dire allora?
Che questa è un’opera semplicemente superata dai tempi e quindi affatto più valida? Che l’autrice è in fondo vittima di un condizionamento religioso che l’ha portata ad ignorare o almeno travisare profondamente quelli che sono i reali obiettivi di vita delle donne moderne? Che addirittura la sua visione sarebbe vittima di una sorta di maschilismo truffaldinamente mascherato da affermazione della massima dignità femminile?
Sinceramente non saprei rispondere a queste domande. E quindi non mi resta che lasciare la risposta alle donne che eventualmente leggeranno questo mio scritto.
L’unica cosa che so e posso dire è che il discorso di Le Fort appare a me personalmente estremamente coerente (almeno nel contesto di una fede cristiano-cattolica davvero salda e profonda) e che quindi per questo possa venire considerato anche molto convincente. Ma è intanto evidente che ciò cozza stridentemente con il dominante spirito del tempo. Non mi resta allora che augurare (ovviamente non senza in tal modo essere io stesso inevitabilmente ideologico e quindi di parte) che la visione esposta da Le Fort ritorni a poter essere di aiuto alle donne moderne. E ciò potrebbe avvenire proprio sulla base della delusione che certamente anch’esse provano nei confronti di un percorso storico-culturale (entro il quale oggettivamente le aggressive rivendicazioni femministe hanno avuto un ruolo di primo piano) che non sembra aver poi prodotto i frutti promessi. Certamente infatti le donne hanno conquistato nella società uno spazio che prima non potevano nemmeno sognarsi. Certamente esse si sono conquistate un diritto al piacere che prima era addirittura infamante. E certamente è stato ormai definitivamente spazzato via (come innegabilmente ingiusto ed anche ridicolo) il pregiudizio che affermava la superiorità del maschile sul femminile. Ed inoltre è altrettanto certo che ciò è avvenuto per una via che senz’altro in molti aspetti diverge radicalmente da quella indicata da Le Fort.
Ma intanto sono sotto gli occhi di tutti quelli che sono stati i frutti reali ed ultimi di tutto questo.
La cosiddetta «donna in carriera» fa una fatica titanica nel ricoprire contemporaneamente il ruolo di madre e sposa. Le famiglie sono ormai costantemente minacciate da un profondo dissidio tra mariti e mogli, così che il divorzio è diventato la norma molto più del matrimonio e della stabile unione coniugale. Fenomeni come il tradimento del proprio partner sono diventati non solo diffusi ma anche quasi obbligatori in quanto normalizzati e addirittura considerati psicologicamente sani. Le giovani donne delle ultime generazioni non pensano più nemmeno minimamente a realizzarsi come spose e madri, ed inoltre sono ormai dedite a comportamenti sessuali sempre più devianti rispetto alla tradizionale norma. Fino al punto che la pura sessualità animale (unita a sua volta all’edonismo ed all’esibizionismo) ha preso decisamente il posto dell’amore di coppia. E peraltro ciò contraddice perfino non pochi capisaldi della dignità femminile così come nel tempo sono stati affermati dal Femminismo. È evidente inoltre che perfino molte giovani ragazze si sentono profondamente disorientate quando pensano alla loro femminilità in un contesto così instabile, distorto e fonte di continue amarezze e delusioni, se non di un vero e proprio sordo dolore che è ormai senza volto e senza nome, e quindi estremamente inquietante. Infine l’identità sessuale stessa viene ormai sempre più aggressivamente posta in discussione.
Ebbene, era davvero questo ciò che si voleva? È davvero questa la giustizia, la pienezza, la felicità, la certezza della dignità femminile e della sua realizzazione? Sinceramente non credo che sia così. E peraltro credo che non sia così proprio per molte donne.
Ed allora mi chiedo se non sarebbe necessario un profondo ripensamento del cammino finora compiuto dalle donne. Ebbene tanto l’opera di Le Fort sulla natura femminile tanto anche quella di Edith Stein (che purtroppo qui non ho potuto commentare) offrono alle donne moderne almeno uno dei tanti possibili supporti per poter operare questo ripensamento.
Perché dunque non approfittarne?

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