(ATTENZIONE: questo articolo è stato accettato per la prossima pubblicazione su una rivista di filosofia; per cui (in linea con le vigenti leggi sul copyright) si diffida dalla sua riproduzione integrale e dalla sua citazione senza menzionarne l’autore)
Introduzione
Nikolaj Berdjaev, in tutti i suoi libri, ci suggerisce una prospettiva religiosa del tutto nuova (e di certo in parte rivoluzionaria), nel contesto della quale finiscono per sembrare estremamente inadeguate diverse idee e prassi esemplari che usualmente fanno da guida ai fedeli cristiani nell’affrontare l’esperienza religiosa in tutti i suoi aspetti (individuali ed ecclesiali), ma soprattutto nel contesto della personale esperienza della Presenza divina. Ci riferiamo comunque in particolare alla preghiera, ed ancora più particolare alla cosiddetta preghiera «di richiesta», ossia quella preghiera che invoca il concreto aiuto divino in situazioni esistenziali così difficili da essere ai limiti dell’impossibile ed esigere prestazioni quasi sovrumane (specialmente in quelle così difficili da non autorizzare, almeno sul piano naturale, alcuna forma di speranza). Preghiera che intanto oggi viene guardata con estremo sospetto da predicatori, apologeti e teologi cristiani. E peraltro senza alcuna eccezione.
Va detto comunque che il pensatore si riferisce qui unicamente alla religione cristiana. E quindi su questa linea rimarremo anche noi nel corso nella nostra indagine.
Entreremo più avanti nel merito delle parti del suo pensiero che fanno direttamente riferimento all’esperienza religiosa, oppure dalle quali sono deducibili elementi relativi a quest’ultima. Ma comunque, volendo fare una larga sintesi preliminare della presa di posizione berdjaeviana, si può dire che essa si rifiuta di concedere qualunque valore ai tradizionali valori dell’obbedienza, della contrizione e della mortificazione personale, in quanto a loro volta secondo lui basati su una concezione dell’esperienza religiosa che guarda unicamente al Peccato e alla Caduta (e quindi non è affatto attiva, dato che essa si limita a reagire passivamente a tali elementi). Ma proprio in tal modo l’esperienza religiosa viene vincolata alla realtà negativa di un mondo e di un uomo che vengono considerati decaduti e irrimediabilmente corrotti (in quanto peccaminosi), e che pertanto, così come sono, non hanno ovviamente la benché minima chance né di entrare in contatto con Dio né di chiedergli alcunché.
Egli prende intanto atto del fatto che, nella prospettiva della Redenzione, a tutto questo viene previsto il potente rimedio della Grazia o Misericordia divina. Ma intanto registra anche il fatto che tale atteggiamento corrisponde più fondamentalmente e realisticamente ad un’insana ossessione per la sola salvezza. La quale poi, nonostante il suo porsi entro la logica della Redenzione umano-mondana (ad opera di Cristo), tende a tradursi di fatto in un mero egocentrismo, che è inoltre malinconico, sfiduciato e perfino terrorizzato (e che poi ha sempre trovato il suo culmine nell’ascetismo monastico); entro il quale l’uomo persegue meno che mai l’attiva e produttiva presa di contatto con la Presenza divina. Qui infatti la preoccupazione e passione che domina nell’uomo non è affatto quella di entrare in relazione con Dio, ma invece unicamente di salvare sé stesso dalle terrificanti conseguenze del Peccato. Si tratta quindi di un complessivo atteggiamento negativo e tutto remissivo (specie in quanto passivo), che si presenta a sua volta come attitudine al pessimismo, alla disperazione preoccupata, al devastante senso di colpa e di indegnità (il quale in principio rende impossibile che si venga ascoltati da Dio), all’incapacità di coltivare alcuna forma speranza, ed insomma alla totale oscurità dello spirito. Più in generale egli definisce una simile presa di posizione come una passiva e sterile “adequazione alla necessità” che è propria del mondo naturale [Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Jaca Book, Milano 2018I p. 48-82, IV p. 153-156, IV p. 161-164, VII p. 206-209] – adequazione che coinvolge a sua volta con la religione, anche le stesse filosofia e scienza –, la quale comporta poi necessariamente l’accettazione passiva delle cose come sono nella loro forma più negativa ed irreversibile.
Qui stiamo insomma parlando di quel mondo naturale con le sue ferree e spietate leggi entro le quali domina totalmente l’indifferente Caso (se non addirittura una sorta di impietoso karma punitivo), ed in assenza totale, quindi, di etica, di giustizia e soprattutto di amore. Ma inoltre, per di più, nel mondo così retto domina anche totalmente la legge del più forte, ossia la legge della salvezza raggiungibile unicamente per la via della sopraffazione dell’altro (secondo la spietata logica del «mors tua, vita mea!»). È dunque del tutto ovvio che, su queste basi, Berdjaev affermi che il Cristianesimo ha fallito miseramente nell’essere una “religione dell’amore” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 307-310].
Ebbene, sulla base di tutto ciò ci sembra che non si possa concepire in alcun modo un’esperienza religiosa cristiana entro la quale si possano supporre alcuni pregevoli aspetti in particolare – che essa ponga una diretta relazione con quella che è la «positività» dell’essere per eccellenza, e cioè Dio ed in particolare il Dio vivo immanente (Gesù Cristo e/o lo Spirito divino); che essa procuri gioia o almeno una profonda e rasserenante consolazione; e che infine essa procuri soprattutto una reale speranza. Speranza che, per noi esseri storici e di carne, non può non coinvolgere anche aspetti estremamente concreti (sia pure nella complessiva esperienza di fede che pone l’obiettivo finale e più alto in quella vita ultraterrena che è senz’altro integralmente spirituale). Ma sta di fatto che proprio per la speranza non può esservi assolutamente alcun posto in un’esperienza religiosa che sia concepita negativamente al modo che abbiamo visto. Specie una speranza nei suoi aspetti più concreti. Il che rende necessariamente del tutto retorica (se non menzognera e perfino truffaldina) quella che usualmente viene concepita come «gioia cristiana».
Ebbene Berdjaev sostiene che tale complessiva obbedienza passiva all’irremovibile e gelida necessità del mondo proibisca assolutamente qualunque forma e grado di atteggiamento creativo. Ed a questo punto possiamo allora assumere che, nel contesto dell’esperienza religiosa (specie nelle forme in cui essa viene qui da noi esaminata), la creatività possa venire vista proprio come l’esatto contrario dell’atteggiamento che abbiamo appena descritto. Pariamo cioè di un atteggiamento religioso positivo (soprattutto in quanto attivo ed assertivo) che comporti l’attitudine all’ottimismo, alla serenità d’animo, alla fiducia, alla riconciliazione con sé stessi unita al senso del proprio valore (che faccia sentire degni di venire ascoltati da Dio), alla capacità di forgiare letteralmente potenti speranze, ed insomma alla totale luminosità dello spirito. Tutte attitudini queste che in questo caso si sposano con la «gioia cristiana» in una maniera sì autentica e realistica: in quanto essa è del tutto al riparo dalle ombre inquietanti gettate su di essa da qualunque mera e vuota retorica. In questo modo infatti la fede cristiana diviene realmente una vera e propria entusiastica fede nella Vita. Ed in tal modo la presenza immanente e storica nel mondo da parte di Cristo come Spirito Santo diviene qualcosa in cui si può credere senza alcuna difficoltà; ed alla quale quindi ci si può affidare con la massima serenità.
Per esprimere tutto in una formula sintetica (nel proporre la quale noi ci ispiriamo agli insegnamenti del nostro compianto Padre spirituale Prof. e Sac. Vincenzo Romano) diremmo che ciò comporta l’assoluta impossibilità di rivolgersi a Dio dicendo: − «Padre abbi pietà di me». Infatti è impossibile e perfino ridicolo che ad un padre amoroso si chieda pietà. Si può di certo chiedere a Lui perdono per i propri errori, peccati e nefandezze varie. Ma intanto a tale richiesta un padre amoroso non risponderà mai con la pietà; laddove la pietà si prova solo verso colui che è oggettivamente disprezzabile. Risponderà invece semmai con la gioia entusiasta e pienamente soddisfatta, con la simpatia e perfino con l’orgoglio (e con il travolgente ed attivo affetto collegato a tali emozioni) di colui che vede il figlio tornare sulla retta via e così tornare essere quello che era sempre stato. Questo padre infatti era sempre stato certissimo in cuor suo dell’incontrovertibile dignità e valore del proprio figlio, e ciò perfino ad onta di qualunque cosa negativa gli fosse accaduta o lui avesse fatta. E di tutto questo troviamo un’eco perfettamente corrispondente nella Parabola del Figliuol prodigo – entro la quale (ancora una volta in contraddizione con la dominante retorica dell’esperienza religiosa) l’aspetto primario non è affatto il pentimento, ma invece l’amore incondizionato che il Padre aveva sempre provato per lui, che è esattamente l’atteggiamento con il quale lo riaccoglie in casa.
Dunque un’esperienza religiosa che in qualunque modo si conformi a questa così insana e disperata richiesta di pietà (e tale è certamente quella dominata totalmente dalla consapevolezza del peccato e dall’ossessione per la salvezza, con l’aggravante dell’inevitabile umiliante obbedienza cieca alla ferrea necessità del mondo, ossia alle sue spietate leggi naturali) non può essere né autentica né credibile né realistica. E ciò appunto per il semplice fatto che essa non si rivolge affatto ad un Padre. Si rivolge invece semmai a qualcun altro, divinità o meno che sia.
Ma allora, se le cose stanno davvero in questo modo, tutto può essere proibito entro l’esperienza religiosa, tranne il fatto di chiedere al Padre ciò che nessun padre negherebbe mai al proprio figlio, ossia il suo aiuto. Ed un aiuto che non può essere tale se non è concreto, cioè tangibile. Infatti entro l’esperienza religiosa negativamente connotata (che abbiamo descritto prima) tutto si può fare tranne che chiedere aiuto. Il che trova nuovamente riscontro nel passo evangelico nel quale viene affermato che mai il Padre darebbe ai propri figli pietre, e non pane; oltre che nell’affermazione evangelica che invita espressamente al “chiedete e vi sarà dato”. Che peraltro proprio Edith Stein menziona espressamente [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis, Herder, Freiburg Basel Wien 1988I p. 59-66]. E anticipiamo qui che tale affermazione rientra in quelle sorprendenti oscillazioni del discorso steiniano delle quali parleremo poi analizzando i suoi testi.
Dobbiamo comunque precisare che da ora in poi parleremo a tale proposito dell’aiuto in quanto «aiuto divino». Ma, ancora una volta, di quale genere e grado di aiuto divino si tratta entro la usuale retorica omiletico-teologica? E con questa domanda veniamo al nucleo più intimo dell’intera problematica che stiamo discutendo. Si tratta forse di un aiuto concreto e tangibile, ossia un aiuto nel quale Dio – per dirlo proprio con le parole di Edith Stein nè “ll Mistero del Natale” (testo che poi riprenderemo in esame) – provvede alle nostre necessità esistenziali concrete (ma ovviamente solo a quelle davvero urgenti, gravi e senza possibilità reale di soluzione) per mezzo di vere e proprie soluzioni pratiche? Ebbene no! Purtroppo no! Infatti la più tradizionale e canonica definizione dell’esperienza religiosa (smascherando così sé stessa come una mera e vuota retorica) afferma invece che sì l’aiuto divino deve venire considerato più che certo (tanto che bisogna restare incrollabilmente certi che «Dio non ci abbandona mai!»), ma intanto deve venire considerato nel modo riduttivo e pochissimo credibile che segue: − 1) aiuto in effetti del tutto invisibile e soprattutto intangibile (addirittura fino al punto che esso potrebbe non manifestarsi mai, ossia solo dopo che noi abbiamo già disincarnato, e quindi di fatto dopo aver passato l’intera nostra vita a soffrire senza mai aver ricevuto il benché minimo soccorso divino); 2) aiuto inteso come un agire di Dio «sempre-e-solo-per-il-nostro-bene-qualunque-cosa-accada-e-qualunque-forma-assuma» (corrispondente poi all’esortazione di Teresa d’Avila ad accettare qualunque evento come «proveniente dalla Mano di Dio», e con per di più la terribile minaccia che, se non lo facciamo, “Dio ci abbandonerà ad ogni passo”; 3) aiuto nella forma dello Spirito Santo stesso, che agisce però in tempi immensamente lunghi, e quindi produrrà dei frutti solo dopo una sofferenza che intanto ci porterà certamente allo sfinimento o alla distruzione della nostra sostanza umana (e probabilmente anche animico-spirituale). Ma le spietate finali conclusioni di questa serie negazioni le tira proprio Edith Stein dice senza peli sulla lingua che ha decisamente “fatto male i suoi conti” chi crede (ossia si illude) che Dio ci aiuti provvedendo ai nostri bisogni concreti. Insomma una negazione più frontale ed esplicita dell’auto divino concreto non ci sarebbe potuta essere.
E si tenga conto anche del fatto che l’inquietante affermazione di Teresa è stata tratta dal suo “Il castello interiore”, testo che Edith Stein tradusse, amò e considerò inoltre punto di riferimento fondamentale della sua prassi mistica [Edith Stein, Die Seelenburg, in: Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, Anhang p. 501-525]
Più avanti esporremo comunque le nostre obiezioni a tale retorica. Ma intanto va preso atto del fatto che essa, nel negare esplicitamente (sebbene per mezzo di sottili argomenti retorici) l’aiuto divino concreto, di fatto in definitiva lo nega in assoluto ed alla radice. Non a caso tutto ciò rientra poi nell’idea (per la quale viene preso spessissimo ad esempio emblematico Giobbe) secondo la quale sventura, dolore e problemi senza via di uscita né soluzione, non sarebbero altro che l’esame al quale Dio ci sottopone per mettere alla prova la nostra fede in una sua Presenza inderogabilmente invisibile. Il che configura poi letteralmente un Dio che ci usa letteralmente violenza, sebbene (come si sostiene) «solo-a-fin-di-bene». Il che di fatto ci invita ad aver fede in un Dio della cui esistenza non potremo mai e poi mai essere minimamente certi.
E questo è certamente l’inquietante “Deus absconditus” del quale la più raffinata mistica cristiana ha sempre parlato (vedi Agostino e Cusano). Ma, almeno a partire dal nostro ristretto e debole punto di vista umano (per quanto possiamo essere convinti uomini di fede o almeno per quanto ci sforziamo di esserlo in tutti i modi possibili), questo rischia fortemente di equivalere all’idea che Dio non esista affatto. Del resto, se non fosse così, Gesù non avrebbe operato quella serie infinita di miracoli che evidentemente servivano lo scopo di sostenere la fede nell’esistenza di Dio da parte di uomini di carne che sono costantemente esposti alle ferocissime evidenze imposte dal mondo naturale. Naturalmente anche questo discorso viene sempre rovesciato in termini sostanzialmente retorici. Per cui si sostiene che il miracolo non supporta la fede, ma invece, al contrario, esso proviene dalla fede. E ciò può essere anche vero. Ma intanto, nel caso che non sia nemmeno pensabile un aiuto divino concreto (quello che però, entro la prassi evangelica, guariva letteralmente paralitici, lebbrosi, muti, sordi, pazzi etc.), anche la fede più fervida e cieca non avrà la benché minima speranza di produrre alcun frutto tangibile.
Del resto l’evidente contraddittorietà e scarsa autenticità di tutta questa retorica − esposta peraltro ultimamente del tutto indifesa all’attacco possente di quell’agguerritissima «scienza cognitiva» (in sé in principio atea), che ormai spadroneggia nelle dispute teologiche, esigendo inflessibilmente di venire tenuta in debito conto – ha finito per imporsi con forza ai moderni teologi, spingendoli in tal modo ad elaborare dottrine praticamente atee ed agnostiche dell’esperienza religiosa (entro le quali si sono ormai sviluppate le famose dottrine che sostengono il cosiddetto “post-teismo” ed inoltre la totale storicità della figura di Gesù, ossia la sua non umano-divinità). E così, senza volere entrare nel merito questo immenso campo di discussione – del quale ho molto parzialmente discusso in un mio precedente articolo [Vincenzo Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018 < http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2357:il-realismo-filosofico-e-lo-stato-dell-odierna-filosofia&catid=82:filosofia&Itemid=28 >] −, i teologi oggi semplicemente considerano insostenibile ed anche ridicola l’idea di un aiuto divino concreto. E ciò soprattutto sulla base dell’idea secondo la quale, molto in generale, sarebbe razionalmente impensabile (anche nel contesto di dottrine religiose) l’intervento del Sovrannaturale (Trascendente) nel naturale (immanente). In altre parole secondo questi teologi non può essere attribuibile all’insegnamento di Cristo alcuna intenzione di trasfigurare il mondo (storico, naturale ed immanente) così com’è. Si assume pertanto che Cristo avrebbe avuto fin dall’inizio l’intenzione di lasciare il mondo così com’è dopo la Sua venuta, in modo tale che l’esperienza religiosa cristiana sarebbe destinata a muoversi su un piano totalmente diverso da quello storico e naturale. Laddove a questo punto diviene assolutamente incomprensibile su quale piano l’esperienza religiosa cristiana effettivamente si muova. Ed ecco che a questo punto il campo resta aperto alle più strampalate ipotesi e teorie dei moderni teologi, ormai trafitti a morte e sconfitti in partenza dall’implacabile logica analitica delle scienze cognitive (si veda per questo il nostro già citato articolo sul moderno realismo filosofico). Di conseguenza, se pure fosse possibile concepire una sorta di trasfigurazione del mondo, essa dovrebbe venire intesa in maniera assolutamente metaforica ed affatto letterale, ossia nei termini di quella pura e non pragmatica etica religiosa che la Chiesa rappresenta in primo luogo nell’osservanza del primario comandamento dell’amore dovuto al prossimo (ossia la carità).
Il che implica quindi una dimensione unicamente collettiva, comunitaria e sociale dell’esperienza religiosa, escludendo così da essa qualunque dimensione singolare. E non a caso l’ormai dominante dottrina della Chiesa si muove esattamente su questo registro – affermando in tal modo (sebbene scaltramente negandolo) che la Chiesa di Cristo in fondo altro non è se non un’immanente istituzione sociale.
Eppure va già qui fatto notare che Berdjaev invece vede come centrale nel profondo rinnovamento del Cristianesimo (da lui auspicato) proprio la decisione alla trasfigurazione reale del mondo. Ed inoltre precisa in più sedi che la “comunione” spirituale (che dovrebbe essere il frutto di tale trasfigurazione) è tutt’altro che mera socialità [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., I, p. 56-75, V p. 172-175, XI p. 318-326, XII p. 331-346]. Ma entreremo più avanti nel merito di questo importante aspetto. Inoltre parlano contro questo le predicazioni di alcuni veri e propri espliciti sostenitori dell’aiuto divino concreto, come ad esempio il napoletano Don Dolindo Ruotolo (al cui fondamentale aiuto ricorreremo alla fine).
Ed ecco quindi che, nel contesto dell’omiletica cristiana ed ancor più della relativa prassi di guida spirituale all’esistenza, si apre una frattura che appare essere davvero molto grave. Soprattutto perché essa disorienta totalmente il credente. In particolare si delineano a fronte dell’esperienza religiosa sostanzialmente due prese di posizioni canoniche: − 1) quella della retorica religiosa prima descritta, che continua ad affermare l’aiuto divino nel mentre di fatto lo nega e peraltro con molta forza (e tale presa di posizione include predicatori ed apologeti, con l’aggiunta anche delle prese di posizione, dirette o indirette, di monaci e santi di ieri e di oggi); 2) quelle della teologia, che spazza via totalmente tale intera retorica per mezzo di argomentazioni razionalistiche spesso sconfinanti nell’ateismo agnostico e nel totale immanentismo anti-spiritualista. Ma − lo ripeto − a queste due prese di posizione canoniche si contrappongono poi le affermazioni di predicatori (tra i quali anche santi o religiosi in odore di santità), i quali senza alcuna inibizione parlano esplicitamente di un aiuto divino concreto. E tra costoro spicca senz’altro Don Dolindo Ruotolo.
Detto questo, la posizione assunta da Edith Stein in “Il mistero del Natale” appare essere schierata decisamente dal lato della prima posizione canonica, ossia quella che è sostanzialmente retorica e nega con forza l’aiuto divino concreto.
Questo è il quadro generale nel quale si muove la nostra indagine. Ora passeremo ad un’analisi testuale che ci permetterà di allargare queste considerazioni e magari anche tentare di ottenere forse perfino qualche certezza e risposta.
Dobbiamo comunque ancora precisare che, aldilà dei testi di Berdjaev (che sono emblematici per le riflessioni fondamentali che contengono), la scelta degli altri due testi (di Edith Stein e di Getrud von Le Fort) va considerata in qualche modo arbitraria. Dato che esse rappresentano un’apologetica cristiana la cui estensione è sconfinata, e che quindi non è in alcun modo possibile prendere in considerazione integralmente in questa sede. Infine dobbiamo aggiungere che di fatto di Berdjaev analizzeremo qui “Il senso della creazione” (SC) ed alcuni brevi passi di “La concezione di Dostoevskij” (CD) [Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002], dato che invece “Das Ich und die Welt der Objekte” (DIWO) si occupa dell’esperienza religiosa solo nei termini di una possibile nuova filosofia religiosa. E questo richiederebbe un’altra trattazione a parte, anche se abbiamo già affrontato il tema abbastanza ampiamente nel secondo dei due articoli che abbiamo dedicato alle relazioni tra il pensiero di Berdjaev e quello di Edith Stein [Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein e la nuova filosofia dell’essere di Nicolaj Berdjaev. Dio-Essere e filosofia integralmente religiosa”.
https://cieloeterra.wordpress.com/2022/10/09/vincenzo-nuzzo-la-donna-secondo-getrud-von-le-fort-sullo-sfondo-di-edith-stein/%5D.
I- L’aiuto divino sullo sfondo dell’esperienza religiosa in generale secondo Berdjaev.
Berdjaev – entro una parte di suo “Il senso della creazione” (SC) che è un saggio dal titolo molto significativo ed inoltre è dedicato alla memoria di Solov’ëv (grande sostenitore della riforma religiosa in senso anti-immanentista), cioè “Salvezza e creatività. Due modi di intendere il Cristianesimo” − afferma esplicitamente che la prospettiva unilaterale della salvezza si oppone inconciliabilmente a quella della creatività.
E ciò ha come conseguenza che la prima è in realtà tutta mondana e quindi rende puramente metaforica l’esperienza religiosa proprio in quanto rende non attuale la presenza divina e quindi anche l’aiuto divino, ossia esclude radicalmente l’incidere del Sovrannaturale nel mondo [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., 1-5 p. 3-30]. In particolare, nel porre appena la possibilità di “opere” mondane per definizione non santificate, in tal modo viene affermato un insuperabile dualismo tra spirito e mondo; specie nel senso che la prospettiva della salvezza apparterrebbe solo al primo ed affatto al secondo. In altre parole (come abbiamo già detto) la dimensione divino-spirituale si presenterebbe come qualcosa che con il mondo non ha assolutamente nulla a che fare. Intanto, comunque, va per lui preso atto del fatto che la mistica cristiana (unitamente ai santi stessi) ha invece sempre postulato esplicitamente l’unione a Dio nell’amore, ossia di fatto la piena possibilità dell’esperienza personale di Dio. E questo significa per il pensatore russo che il tradizionale discorso sulla salvezza è in realtà appena una mistificazione del vero cammino religioso (mistificazione tutta incentrata sulla punizione e non invece sull’amore divino) ed anche una sua profonda corruzione. A tale proposito egli precisa che la prospettiva tradizionalmente cristiana della salvezza non è altro che un “giuridismo” dell’esperienza religiosa (a sua volta erede pieno della religione ebraica in quanto Legge). E tale giuridismo trova peraltro espressione nell’intendimento dell’esperienza religiosa appena come formale vita ecclesiale incentrata nel vissuto dei Sacramenti, con l’esclusione pertanto di qualunque vissuto personale della Presenza divina. E con ciò possiamo certamente intendere l’intervento del Sovrannaturale divino nella vita personale, che a sua volta può poi venire considerato coincidente con il concreto aiuto divino.
In ogni caso tutto ciò comporta anche una serie di altri aspetti che sono secondari rispetto al nostro tema, ma intanto possono contribuire non poco a chiarirlo.
Per Berdjaev infatti la prospettiva della salvezza esprime la totale non-gratuità dell’amore verso Dio, che comporta a sua volta una rinuncia che si aspetta un tornaconto. Al contrario una rinuncia senza aspettativa di tornaconto sembra consistere proprio in quella creatività che trasfigura il mondo. Il che intanto, però, può avvenire solo al prezzo del proprio dolore come espiazione. In altre parole la nuova concezione dell’esperienza religiosa (una volta sottratta all’unilaterale ossessione egocentrica per la salvezza) non esclude affatto l’ammissione della necessità del dolore entro di essa. Anzi addirittura la esige. Ma intanto ciò non esclude affatto la dimensione della relazione personale con Dio da parte del credente. E qui può essere intravista la postulazione di un aiuto divino che si manifesta in particolare nell’affidamento all’uomo singolo di un mandato che consiste nella trasfigurazione del mondo. Non a caso Berdjaev parla continuamente della creatività umana come continuazione della creazione divina [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III p. 135-136, V p. 175-179, V p. 182-185 X p. 303-305].
Quindi il mondo così trasfigurato non sarà più assolutamente quello al quale l’usuale retorica della salvezza (e dell’inautentico aiuto divino) esige che noi ci adeguiamo senza pretendere da esso alcunché di buono, giusto ed amorevole. Questo significa pertanto che l’ammissione dell’aiuto divino non esclude affatto l’accettazione virile e coraggiosa del dolore connesso all’esistere nel mondo in quanto cristiani. Ed il nucleo di tale attitudine sembra essere un amore dell’uomo verso Dio che non esige alcun tornaconto. Pertanto, se l’aiuto divino concreto viene richiesto con la più piena convinzione, ciò significa che nel farlo si mette in contro la necessità di dover intanto soffrire affinché il mondo venga trasfigurato. Il che corrisponde poi ancora una volta al concetto tipicamente berdjaeviano della creatività umana come collaborazione attiva alla creazione, ossia alla sua continuazione. Ma proprio a questo punto possiamo comprendere cos’è esattamente la creatività per Berdjaev. Essa è sostanzialmente amore, soprattutto totalmente disinteressato (e proprio per questo capace di giungere ad essere eroico e sacrificale). Infatti è amore tutto ciò che genera essere (“affermazione dell’essere”), come nell’arte e nella conoscenza. Ma soprattutto è amore l’accettazione dell’altro in quanto essere. Il che avviene però soprattutto su base sovrannaturale e non naturale − io nell’altro riconosco sostanzialmente l’umano-divinità. Si tratta quindi di amore per l’uomo. Questo però comporta un concetto di salvezza molto allargato e riformato in modo da includere tutto ciò che è «altro» (uomo e mondo) − nel senso che io mi salvo solo insieme a te e a tutto il mondo.
E Berdjaev vede il contrario di tutto questo in quell’ascetismo monastico che è invece fatalmente egocentrico. A suo avviso, quindi, sulla base di tutto ciò, il Cristianesimo non è più tale se non aspira alla trasfigurazione del mondo insieme a quella dell’uomo; il che implica poi una crescita spirituale personale che va molto oltre la mera e formale partecipazione alla vita ecclesiale. Ancora una volta ciò corrisponde ad una collaborazione della creatura alla creazione del mondo che però deve implicare qualcosa di letterale, concreto ed attivo, cioè la trasfigurazione spirituale del mondo in forza dell’Incarnazione di Cristo che è lo Spirito stesso. Eccoci quindi di nuovo di fronte all’ammissione del concreto aiuto divino.
In particolare Berdjaev spiega il distacco della Chiesa dal mondo con il suo rifiuto di ammettere l’esistenza reale (ontologica) di una società oltre le anime individuali (singolarità). In particolare la prima viene considerata qualcosa di ontologicamente secondario, ossia una mera creazione umana. E qui va precisato che il pensatore vede nella società il campo di esplicazione della creatività umana per eccellenza.
Ecco che invece, una volta che venga ri-connessa al concetto di salvezza, la piena ammissione della società (ossia della creatività umana) implica per Berdjaev la “cattolicità” (“sobornost’”) della salvezza stessa (nel senso che non ci si salva da soli, ma invece solo entro l’ordinaria esperienza creativa collettiva). Il che poi esige l’ecclesialità ma in una maniera che però non sacrifica affatto la dimensione singolare dell’esperienza di Dio. Infatti la creatività operante nella società privilegia per lui proprio la singolarità in quanto dimensione personale in tutto il suo valore.
Il pensatore denuncia qui l’aderenza della dottrina cristiana ad un piatto e utilitaristico quetismo piccolo-borghese che addirittura finisce per sconfinare in qualcosa di buddhista. E proprio a tale proposito afferma che è ormai indispensabile una consacrazione religiosa del “principio umano” e quindi anche “nuovo monachesimo dentro il mondo”. È insomma il chiaro avallo offerto alla piena legittimità di una prassi dell’esperienza religiosa che sfugga agli angusti limiti della formale esperienza ecclesiale. Non solo, ma questo implica anche la postulazione di un tangibile intervento del Sovrannaturale nel mondo immanente. Dato che Berdjaev ritiene che, affinché tutto ciò sia possibile, bisogna ammettere che “le energie divine” agiscono ovunque nel mondo e che quindi il Cristo è presente (specie “nel suo popolo spirituale”) anche se la sua azione resta invisibile. Ne consegue allora che la dimensione ecclesiale-sociale significa qui tutt’altro che una formalizzazione dell’esperienza religiosa. Essa semmai implica invece espressamente la presenza tangibile del Sovrannaturale nel mondo. E questo non ci sembra affatto lontano dall’ammissione dell’aiuto divino.
Il pensatore precisa a tale proposito che la necessità dello spazio ecclesiale non può venire negata nel contesto religioso (dato che esso circoscrive la creatività umana da quella meramente profana ed atea, che a sua volta è solo distruttiva). Ma accanto a questa presenza è assolutamente necessario postulare anche l’esistere di una creatività deve venire considerata “teofanica”, e precisamente in accordo perfetto con l’umano-divinità quale centro della dottrina cristiana. Tuttavia sta di fatto che l’umano-divinità significa inevitabilmente mondanità e sacralità del mondo, quindi impegno in esso; e specialmente nello sforzo di salvarlo. Scopo che spetta alla Chiesa ma anche ai singoli indipendentemente da essa. E soprattutto non bisogna assolutamente rassegnarsi all’idea che ciò sia impossibile.
Berdjaev sottolinea in tale contesto che anche qui resta senz’altro un elemento di opposizione al mondo, ma non invece al mondo come “cosmo creato”. Con il quale egli intende il mondo trasfigurato dall’azione umana.
Successivamente poi, nell’Introduzione al suo SC [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., p. 39-43] sottolinea ancora una volta l’esperienza religiosa non può venire scissa dalla prova del dolore. Si tratta in particolare di una lotta al male, entro la quale il vissuto di quest’ultimo non può venire né negato né relativizzato. Ma perché questo sia possibile è intanto necessario ammettere che l’esperienza di Dio è necessariamente immanente.
Cosa che impone poi una coraggiosa e rivoluzionaria conciliazione di immanente e trascendente. Quindi l’esperienza del dolore come prova viene calata in questo modo in una certezza di fede che pone il monismo e non invece il dualismo. Ma sta di fatto che è fatalmente dualista proprio quella retorica dell’esperienza religiosa che nega l’aiuto divino nel mentre formalmente lo afferma. E per monismo Berdjaev intende in particolare l’assenza di dualismo tra spirito e carne; il quale va assolutamente negato pur fatto salvo il tradizionale (ma molto astratto) dualismo metafisico spirito-materia. In altre parole insomma il Cristianesimo deve ammettere che la dimensione spirituale può e deve venire vissuta nella carne. E, sebbene il nostro pensatore non arrivi ad affermare questo, è evidente che per questo motivo la carnalità umana va tenuta in debito conto nel concepire l’esperienza religiosa stessa. Il che significa che non è assolutamente possibile intendere la necessità del dolore come prova nei termini di un’ipotetica necessaria ed inoltre integrale partecipazione dell’uomo alla Croce di Cristo; soprattutto se la si intende addirittura come la prova più tangibile che ci sia della presenza e dell’amore di Dio. Ma sta di fatto che proprio questo sostiene la retorica prima menzionata – e lo vedremo in particolare commentando “Il mistero del Natale” di Edith Stein.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che Berdjaev chiarisce che in verità qualunque Trascendentismo rinuncia per definizione alla lotta al male, e pertanto (aldilà di qualunque retorica, per quanto raffinata possa essere in termini omiletici e/o teologici) di fatto si rassegna ad esso. Il che significa allora che il non credere in alcun modo nell’intervento del Sovrannaturale nel mondo implica l’affermazione (però sempre accuratamente occultata) che il male del mondo deve venire semplicemente accettato e sopportato.
Cosa che naturalmente impedisce poi di affermare che Dio starebbe sempre con noi e ci manifesterebbe quindi il suo amore proprio associandoci al suo dolore in quanto Cristo. Tutto questo può invece venire legittimamente affermato solo se si postula che Dio è realmente immanente. E questo Berdjaev lo afferma precisando che Dio è con noi in quanto è presente nella nostra interiorità. Proprio come tale Egli ci concede le forze per superare qualunque esperienza. Nello stesso tempo però questo primato assoluto dell’interiore significa che un Dio esteriore non può venire in alcun modo concepito, pena la necessità di dover ammettere la sua impotenza.
Ciò implica allora che l’aiuto divino potrebbe (sulla base di Berdjaev) venire concepito come quella spiritualizzazione del mondo che consiste esattamente in ciò che l’uomo fa con l’aiuto di Dio – lasciar passare lo Spirito attraverso di sé affinché il mondo venga trasfigurato. Orbene questo comporta senz’altro una lotta eroica (che poi è esattamente la lotta al male). Per cui su questa base si può anche dire che Dio permette la prova affinché noi diveniamo consapevoli di essere capaci di questa sovrumana opera; per mezzo della quale peraltro la nostra esistenza assume un senso, invece di restare insensata per inerzia.
Questo però comporta dei frutti tangibili, ossia mette capo ad una pienezza, e non avviene invece appena in un confuso vuoto retorico pieno di omissioni e contraddizioni. Il dolore come prova, insomma, modifica qualcosa nel mondo invece di lasciare il mondo esattamente com’è. Ma questo è invece esattamente ciò che abbiamo visto accadere entro la retorica prima commentata. Ecco che il dolore come prova, qualora inteso come partecipazione dell’uomo alla Croce (a sua volta supposta prova incontrovertibile di amore divino), implica una totale non produttività dell’esperienza religiosa (in quanto fede nella prossimità divina e nell’aiuto da parte di Dio) che può venire accettata solo se ci si rassegna alla retorica. Il che non può significare altro che lo si dice (ripetendo pappagallescamente una mera e vuota formula retorica) ma in verità non ci si crede affatto.
A tutto ciò va aggiunto anche che Berdjaev sottolinea che la vita spirituale si rivela dinamica per definizione in quanto è invariabile messa in relazione di immanente e Trascendente. Il che implica che la fede è sempre e giocoforza “nascita di Dio nell’uomo” − “Infatti non è solo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma è anche Dio ad avere bisogno dell’uomo”. Ed è evidente che ciò comporta una prossimità tra Dio e uomo che tutto può essere tranne che vuotamente retorica. Infatti, se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo, Egli non può non essere intanto consapevole che l’uomo è un essere di carne. E quindi non può esigere in alcun modo da lui una condizione sovrumana esattamente coincidente con la propria. Il che ancora una volta rende inevitabile che Dio soccorra fattivamente l’uomo (laddove ciò sia davvero necessario) proprio nel contesto del bisogno che Egli ha dell’uomo stesso.
L’ulteriore sviluppo di questo concetto di Berdjaev postula il generarsi di un vero e proprio vuoto entro la realtà creatrice divina originaria, che a sua volta è per lui da considerare come una “tragica insufficienza di Dio”, ossia un vuoto pieno di desiderio e perfino di bisogno [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., V p. 167-170]. Egli afferma peraltro che proprio il rifiuto delle Scritture cristiane di ammettere una così imbarazzante realtà ha fatto sì che esse configurassero semmai una cosmogonia, ma mai invece una vera antropogonia. Esse insomma non avrebbero mai dato all’uomo il valore che esso meritava proprio in forza della Volontà divina. In ogni caso proprio su questa base noi possiamo postulare la più intima e tangibile possibile prossimità tra Dio e uomo entro l’esperienza religiosa. Infatti quel Dio che ha un disperato bisogno dell’uomo, e quindi ne evoca espressamente la nascita, non può essere altro che quel Gesù che ogni giorno (e nel mondo!) cerca spasmodicamente l’uomo chiamandolo incessantemente da dentro.
Non a caso tutto questo Berdjaev lo sostiene nel contesto di un suo atto di vincolamento dell’esperienza religiosa all’intima relazione tra uomo e Dio nel contesto specifico dell’umano-divinità che il secondo dona al primo nel renderlo a Lui totalmente somigliante. Ed anche in tale contesto vanno ricercati elementi di supporto alla necessità dell’aiuto divino concreto.
Il pensatore russo afferma infatti che “il soffio dello Spirito non è solo divino ma anche divino-umano” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., III, p. 127-145]. È evidente quindi che con ciò l’esperienza religiosa si mantiene entro l’ambito del rapporto personale tra l’uomo e Gesù in quanto condivisione dell’umano-divinità nell’amore.
Ma sta di fatto che per Berdjaev la postulazione dell’umano-divinità resta del tutto monca senza l’affermazione davvero piena dell’Incarnazione divina. Ed egli con molte ragioni osserva che quest’ultima è stata sempre molto timida (se non assente) nella dottrina cristiana. Il motivo di ciò è secondo lui che quest’ultima di fatto si è fermata all’affermazione della Redenzione soprattutto in rapporto alla Passione.
Il che poi rende del tutto plausibile e coerente tutta quella retorica pessimistica dell’esperienza religiosa della quale abbiamo parlato. Infatti il pensatore sottolinea che La prospettiva della Redenzione ha evidenziato un solo “aspetto” del Dio incarnato, e cioè appunto quello della Passione. Laddove però ce n’è un altro ben più importante e decisivo, ossia quello della Gloria e della Potenza – è precisamente quello del Dio “che viene e che si manifesterà nella sua gloria”. E si tratta peraltro dello stesso ed unico Cristo, come Uomo assoluto che rivela all’uomo il suo mistero, cioè appunto la divino-umanità quale centro assoluto e primario del credo cristiano ed anche della relativa esperienza religiosa.
Ora, è evidente che questo ci suggerisce un’esperienza religiosa del tutto diversa da quella supposta entro l’usuale retorica omiletico-teologica. Ma a questo punto la prospettiva introdotta da Berdjaev può venire anche ulteriormente riveduta e corretta. È possibile infatti che nell’esperienza religiosa siano inscindibilmente fusi due aspetti, e cioè quella della Redenzione in negativo (Passione) e quella della Redenzione in positivo (Gloria-Potenza). Personalmente siamo infatti convinti del fatto che il Dio incarnato (Gesù Cristo) può mostrarsi pienamente succube della Passione (Croce) solo in quanto sa già di essere l’unico al mondo (in assoluto e senza eccezioni) a poterla sopportare e soprattutto superare (dato che è consapevole di essere integralmente vero uomo e vero Dio). Ed è a nostro avviso proprio quest’ultimo aspetto quello che noi sperimentiamo nella relazione intima con Gesù nella quale l’esperienza religiosa appare essere ciò che davvero deve essere. Quindi non deve essere affatto vero che quando noi soffriamo Gesù se ne sta crocifisso insieme a noi limitandosi in tal modo a sperimentare la nostra stessa impotenza, e assumendo così quell’atteggiamento kenotico che così tanta teologia mistica valorizza al massimo. Evidentemente, invece, nel mentre Egli molto amorosamente non ci umilia nemmeno nel venire in nostro soccorso – e quindi fa mostra di essere paralizzato nella crocifissione esattamente come lo siamo noi uomini di carne −, e nel mentre in tal modo non viola in alcun modo la nostra libertà di accettare o non accettare il nostro aiuto, però scatena silenziosamente ed invisibilmente la Sua Potenza (e quindi Gloria).
E così dispone i mezzi attraverso i quali la nostra eventuale preghiera «di richiesta» venga esaudita – sempre che naturalmente le nostri intenzioni siano pure e la nostra richiesta sia sufficientemente appassionata. È ovvio a questo punto che in via di principio può venire esaudita solo un’invocazione sostenuta da una fede intensa e pura (cosa che ovviamente esclude qualunque strumentalizzazione utilitaristica della Potenza divina); ed è inoltre ovvio che anche questo è rispetto da parte di Dio della nostra libertà. Però ce ne corre molto dal supporre questo al supporre invece che, pur con la fede più intensa e pura possibile, l’esaudimento divino della nostra richiesta sarebbe indiscernibile per definizione (e quindi di fatto non percepibile sensibilmente, laddove nulla vieta poi che esso non ci sia affatto); e questo magari perché lo Spirito divino agirebbe in un tempo incalcolabile ed inoltre prevederebbe perfino un nostro mancato esaudimento nel caso (senza che noi ce ne avvediamo) esso non corrisponderebbe al «nostro vero bene». Ribadiamo ancora una volta che l’uomo è un ente di carne, e quindi non ci si può aspettare che prescinda così facilmente dalla tangibilità dei frutti del suo fedele e fervido affidamento a Dio. E Dio nella sua infinita Sapienza e nel suo infinito Amore non può non essere consapevole di questo. Cosa per cui il Dio del quale si parla nella retorica agente in questi casi non può essere in alcun modo il vero Dio. Esso è semmai ancora una volta un Dio antropomorfizzato, e precisamente un Dio nei cui pensiero viene messa dall’uomo la propria stessa retorica.
Infine noi riteniamo che non si abbia alcun diritto di prendere poco sul serio il dolore umano nella sua massima intensità (se non prendersi addirittura letteralmente gioco di esso). Noi infatti non stiamo parlando qui della preghiera «di richiesta» come qualcosa a cui l’uomo ricorra per puro capriccio, per desiderio di beni terreni, per idolatria, per superstizione o per cose simili. Si tratta invece di un atto che viene spontaneo all’uomo allorquando esso si trova in situazioni terrificanti e senza alcuna via di uscita; situazioni nelle quali con le sue sole forze non potrebbe raggiungere alcun risultato dato che si trova invischiato in circoli viziosi davvero diabolici nel contesto dei quali qualunque azione umana finisce per apportare più male che bene, o almeno non ha alcuna possibilità di incidere positivamente sugli eventi.
Il che è tanto più vero allorquando l’uomo che è vittima di queste situazioni di vero e proprio martirio è un «giusto» proprio in quanto è deciso fermamente ad evitare quegli atti che offrirebbero una facile soluzione al prezzo del dolore delle persone con le quali si trova a che fare. Pertanto queste sono tipicamente quelle situazioni nelle quali l’essere umano in questione ha scelto previamente quella strada dell’etica, della giustizia, dell’amore, della non violenza e della totale dedizione di sé, le quali, escludendo qualunque senz’altro facilissima soluzione egoistica, configurano esattamente i termini di quella radicale scelta libera del bene che sicuramente comporta inevitabilmente il dolore.
E del resto tutto questo Berdjaev lo sottolinea peraltro più volte nel suo commento alla visione di Dostoevskij, ossia il testo CD [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Infatti dallo scrittore russo il nostro desume che la prova della necessità del dolore (entro la vita religiosa e la crescita spirituale) sta proprio nella libertà. Essa infatti determina il destino dell’uomo, e quindi il suo (per definizione) “doloroso errare”. Ecco dunque il (per definizione) tragico ”destino dell’uomo lasciato in libertà”. Questo è il “pathos” della libertà di Dostoevskij. In ogni caso quest’ultimo ritiene anche che esattamente questa è la strada verso Cristo che ci rende liberi. È insomma esattamente ciò che avvertiamo come Presenza divina nell’esperienza religiosa più intensa. E questa è una via incerta e piena di rischi, quindi pienamente esposta all’insuccesso e al dolore (come abisso, tragedia, tenebre). Essa infatti implica il male stesso. In tal modo colui che la percorre, prima di arrivare all’intimità con Dio, “deve provare disillusioni amare e insuccessi nell’amore per gli oggetti corruttibili e indegni”. Questo è allora il motivo per il quale sono necessariamente “cari a Dio” proprio coloro che sono chiamati a percorrere questa terribile strada.
Insomma, almeno in questo senso, bisogna ammettere che in una certa misura entro la più autentica esperienza religiosa si viene chiamati da Dio anche al vissuto certamente severo di una certa astinenza dal suo concreto aiuto. E tuttavia anche per questo è evidente che le situazioni estreme delle quali stiamo parlando, unite alle relative scelte, fanno correre seriamente il rischio di giungere al totale sfinimento, con la conseguenza realistica del definitivo crollo psicologico e spirituale, e forse anche della malattia e morte fisica. A questo essere umano rimangono quindi solo tre vie: − credere disperatamente (e contro ogni evidenza, perfino teologica ed omiletica) nel concreto aiuto divino, oppore rifugiarsi in un egoismo senz’altro sano dal punto di vista terreno-naturale (che con certezza assoluta lo salverà dal deperire e dal perire), oppure infine gettare via la fede in Dio come un orpello non solo inutile ma anche dannoso (specie come un inutile e tormentoso dispendio di preziose energie).
È evidente che qui ci troviamo al cospetto della vicenda di Giobbe, e sappiamo bene quali sono gli eventi ed insegnamenti finali di tale vicenda. Ma, visto come stanno le cose su un piano davvero sobrio e realistico (per quanto comunque animato dalla scelta incrollabile della fede), non è possibile che anche in Giobbe l’agiografo abbia (di suo) aggiunto una certa dose di retorica umana alla più autentica lectio divina (che a questo punto sarebbe ancora tutta da scoprire)? Ebbene forse tutto ciò non è affatto improbabile se prendiamo in considerazione episodi del Vecchio e Nuovo Testamento nei quali invece le cose sono andate ben diversamente, e cioè l’aiuto divino più concreto possibile è arrivato come non accade affatto entro la vicenda di Giobbe. Si pensi dunque alla vicenda dei tre fanciulli nella fornace ardente o addirittura all’episodio ben più storico della liberazione di Pietro dal Carcere Mamertino. Si pensi al grandioso scenario dell’attraversamento del Mar Rosso. Si pensi al concepimento di donne attempate e sterili come Elisabetta moglie di Zaccaria, Sara moglie di Abramo, Rachele moglie di Giacobbe, Rebecca moglie di Isacco, l’innominata moglie di Manoa, Ana moglie di Elcana. Sei donne sterili, dico sei. E che dire dell’assolutamente portentoso concepimento di Maria? E che dire infine dell’infinita serie di malati irreversibili che i miracoli di Gesù guarirono per sempre?
Vogliamo dire che tutto questo è solo agiografia, cioè leggenda, ossia invenzione e bugia? Ma, anche se fosse così, perché mai di punto in bianco la negazione omiletico-teologica dell’aiuto divino dovrebbe essere giustificata ad onta del fatto che le Scritture pongono così tanto l’accento su di essa?
In ogni caso, a proposito di tutto ciò, Berdjaev sta a testimoniare che il fermarsi alla sola Redenzione (con la inscindibilmente connessa unilaterale Passione è del tutto insufficiente proprio perché impedisce di sperimentare la Gloria e la Potenza divine. È vero anche che egli precisa che tuttavia per fare questo occorre comunque l’azione libera dell’uomo, la quale per decreto divino (in omaggio alla creatività umana in quanto sua dignità ed inviolabile libertà) deve essere per definizione rischiosa e cioè aperta a tutti gli esiti. Dunque è vero senz’altro che questa possibilità deve venire attivamente scoperta da ciascuno di noi in sé stesso. Ma dove altro ciò può accadere se non in quelle tremende situazioni senza uscita che abbiamo appena descritto? E dove mai l’uomo potrebbe mai arrivare da solo in queste situazioni se agisse sì in maniera liberamente creativa ma comunque in assenza dell’intervento tangibile della Potenza divina, ossia in assenza del concreto aiuto divino? È evidente insomma che la stessa libera creatività umana (alla quale Berdjaev giustamente attribuisce un valore capitale) è efficace solo nella misura in cui ad essa viene incontro quello che è il più rilevante effetto dell’Incarnazione (una volta presa sul serio davvero fino in fondo), e cioè il fatto che − nel nascere, vivere, farsi martirizzare, morire e poi immancabilmente risorgere – Gesù Cristo ci ha offerto sé stesso non per farci soffrire come Lui (associazione alla Croce) oppure per rendere credibile un mero atto rituale (l’Eucaristia), ma invece solo e soltanto per donarci la Sua Potenza, ossia appunto il più concreto possibile aiuto divino. Dunque, se è vero (in un certo senso) che noi veniamo messi alla prova da Dio in parte in maniera davvero crudele, ciò significa che Egli vuole portarci a riconoscere proprio questo. Tuttavia, perché ciò sia possibile noi dobbiamo divenire sovrumani non nel riuscire a saper soffrire esattamente come Lui, ma invece nel percorrere un cammino di conoscenza ed esperienza che all’uomo di carne è assolutamente impossibile. Dobbiamo cioè superare non solo lo scetticismo del mondo (che include senz’altro le Tenebre che si rifiutarono di accoglierLo, ossia gli uomini che servono Satana), non solo lo scetticismo degli scienziati e dei filosofi, ma perfino anche lo scetticismo dei religiosi. E non i religiosi come seguaci della Legge, ma invece i religiosi come seguaci della Redenzione, ossia quelli cristiani.
Ecco allora che la grande prova alla quale Dio permette che noi soggiaciamo nel dolore e nella sventura mira proprio al fatto che noi giungiamo a credere fino in fondo alla «follia della Croce», ossia alla costatazione secondo la quale «a Dio tutto è possibile». Il che equivale al credere nella possibilità del più concreto possibile aiuto divino.
Getrud von Le Fort ci lascia intravvedere questo laddove parla dell’azione divina come di un “plus” che viene ad aggiungersi all’azione creativa umana; come sarebbe avvenuto tipicamente nell’edificazione della grandi cattedrali gotiche [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau. Die Frau in der Zeit. Die zeitlose Frau, Kösel-Pustet, München 1934, p. 55-95]
In altre parole possiamo da tutto ciò dedurre che il fermarsi della dottrina cristiana tradizionale alla sola realtà della Redenzione (con l’inevitabile esclusione di quella della Gloria e Potenza) è altrettanto monca (e forse addirittura omissiva, mendace ed ipocrita) quanto lo è quella retorica che nega di fatto la possibilità di un concreto aiuto divino.
Ebbene cosa esattamente Berdjaev contrappone a tutto questo nel suo sforzo di indicare un nuovo genere di esperienza religiosa?
Senz’altro una delle vie è per lui quella di ricorrere alla tradizionale mistica in luogo della teologia, e, aggiungeremmo, della tradizionale omiletica. Egli sostiene infatti che non a caso i vari tipi planetari di esperienza religiosa sono tra loro uguali (pur nella diversità) perché pongono in evidenza la mistica come elemento primario e fondamentale dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 203-209]. Tuttavia egli sostiene che anche la tradizionale mistica deve arricchirsi della creatività. Cosa che pure in questo caso tende a non accadere affatto, dato che la creatività viene dal Cristianesimo considerata attività sacrilega in quanto mondana e legata alle passioni. E quale atto umano può essere considerato più passionale di quello che invoca Dio affinché Egli trasfiguri concretamente la propria esistenza, conducendolo fuori da situazioni senza la minima vita di uscita? Cosa insomma può venire considerato più passionale di questa speranza che non solo il mondo, non solo gli atei, ma perfino anche predicatori e teologi considerano idolatra e blasfemo? E quindi assolutamente indegno di un vero cristiano.
Bisogna insomma far entrare la creatività a pieno diritto nell’esperienza religiosa. Il che è possibile se si ammette l’assoluta originarietà appunto religiosa di essa. Insomma l’esperienza creativa va considerata “spirituale” nel senso pienamente religioso del termine. In effetti solo l’attività porta ad un “radicale mutamento” dell’uomo, senza il quale l’esperienza religiosa è vuota e non ha effetto. Ciò che secondo lui va auspicato è dunque un’”estasi creativa”. Ma a questo punto possiamo ritrovare proprio qui la giustificazione della preghiera come invocazione dell’aiuto divino che trasfigura il mondo per mezzo dello Spirito. Tuttavia, come abbiamo già visto, ciò deve avvenire in modo tangibile, e cioè mondano, carnale ed immanente.
Ancora una volta Berdjaev ci mostra però che, pur nell’ammettere tutto questo, noi non possiamo negare in alcun modo che l’esperienza del dolore sia necessaria nel contesto di una vera e propria prova alla quale veniamo sottomessi da Dio. Infatti la creatività implica un superamento attivo del mondo che come tale tende prepotentemente ad un vero e proprio “altro mondo”, nel mentre intanto si contrappone al quel solo falso superamento passivo che è unicamente deplorevole adequazione al mondo del peccato e della necessità. Con la creatività si configura quindi un effettivo “non amare il mondo” che però è decisamente positivo ed affermativo, ossia è fortemente assertivo. In altre parole esso non è affatto così lontano dal concetto nietzschiano di volontà di potenza. Ma intanto è innegabile che, per com’è il mondo oggettivamente, non può non trattarsi di un dare senso al dolore del mondo. E eccoci dunque nuovamente di fronte a quelle tremende situazioni senza uscita, nelle quali la vittima si sente come un uccello rinchiuso una gabbia di vetro che quindi continua a non far altro che a fracassarsi il cranio nel tentativo inutile di sfondarne le pareti. L’altra metafora valida in questo caso è inoltre quella che vede la vittima di queste situazioni affannarsi per scardinare la serratura di una delle porte chiuse all’unico scopo di poi ritrovarsi nuovamente di nuovo di fronte ad un’altra porta ermeticamente sbarrata. E tutto questo significa allora che l’inesorabilità del karma (di stampo induista-buddhista) è senz’altro reale. Ma non nel contesto di un’esperienza religiosa autenticamente cristiana; il che è però vero solo perché in essa può e deve venire considerato possibile il concreto aiuto divino. E vedremo subito meglio il perché di questo.
Infatti quanto dice Berdjaev ci dice che l’unica soluzione possibile sta nel rifiutarsi semplicemente di restare nel disperante edificio minotaurico del quale si è prigionieri. Cosa a sua volta possibile solo se lo si fa saltare in aria con un unico e possente impeto creativo, il quale di colpo non vuole altro che qualcosa di radicalmente diverso; e lo vuole con volontà inflessibile. Ma intanto la distruzione dell’edificio non può essere meramente fisica. Perché altrimenti essa sarebbe solo una hybris (ingiusta per definizione agli occhi di Dio) e quindi un solo vano annullamento provvisorio del relativo karma, che quindi senz’altro porterebbe alla crescita intorno a sè di un altro labirinto minotaurico. Essa deve invece essere spirituale, e quindi deve consistere nel riconoscere l’illusorietà delle impenetrabili pareti che ci circondano e delle porte sbarrate che si disegnano in esse.
Ed eccoci dunque di fronte a ciò che Berdjaev definisce come la “purificazione per fuoco”. Essa è per la precisione quell’atto che alla fine lascia emergere un’altra natura, o altro mondo, il quale come tale è il contrario esatto dell’adequazione a ciò che c’è già (e che non è affatto “superamento creativo”). Quindi è evidente che tutto questo per definizione richiede un coraggio che consiste esattamente nell’accettazione della purificazione, oltre che naturalmente nella fede incrollabile nel risultato positivo.
Ma ancora una volta a che porterebbe tutto questo in sé così remissivo sforzo eroico-ascetico se intanto ad esso non venisse incontro la Potenza divina in forma di aiuto concreto? Sarebbe appunto anch’esso solo attitudine remissiva, ossia adequazione, e quindi tutto il suo eroismo ascetico non otterrebbe altro scopo che lasciarci nella stessa identica situazione di prima. Accresciuta quindi soltanto della mera illusione di aver superato ciò che invece nei fatti non abbiamo affatto superato. E ciò non è altro che quella banale rassegnazione al dolore che la retorica prima menzionata traveste delle forme totalmente inautentiche che poi rinviano tutte al supposto amore divino che ci manterrebbe apposta entro la prova dolorosa (e senza alcuna prospettiva di soluzione). Ecco allora che anche il dolore come prova in quanto “purificazione” non può venire concepito senza che sia intanto possibile una sua produttività tangibile. Cosa che può avvenire solo per mezzo dell’aiuto divino per il semplicissimo fatto che un essere umano si trova racchiuso in situazioni senza uscita esattamente perché è solo un essere umano, ossia è appena un essere di carne che da solo non potrà mai (in alcun modo) venire fuori da quella situazione. Nemmeno per mezzo della purificazione per fuoco.
Questo discorso di Berdjaev diviene comunque ancora più radicale laddove egli avanza l’ipotesi della genialità del santo e, viceversa, della santità del genio. Cosa che però apre anch’essa una prospettiva del tutto nuova dell’esperienza religiosa [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 223-227]. Egli ritiene infatti che il genio sia l’uomo creativo per definizione e che inoltre lo sia ancora di più nell’essere santo. Ma intanto registra che
lo spirito vetero-cristiano si è sempre opposto ed ancora si oppone veementemente a questo.
Ebbene per lui in questo genere di santità va riconosciuto il nuovo monachesimo per eccellenza.
E a questo punto diremmo che questa condizione si attaglia perfettamente a quegli uomini che oggi tendono a vivere molto intensamente la relazione con Dio, in uno stato però di totale oscurità ed isolamento, ossia di fatto al di fuori dell’esperienza ecclesiale (anche se essi non la rigettano affatto e non mancano nemmeno di partecipare ad essa nei limiti del possibile). Tanto è vero che quando essi presentano la loro esperienza religiosa agli ecclesiastici tendono a venire snobbati e presi per pazzi, con l’aggravante di dover subire umilianti quanto inutili sermoni. Ma intanto costoro possono vivere questo genere di estrema esperienza religiosa solo se essa produce i suoi frutti per mezzo del concreto aiuto divino.
Altrimenti, a fronte della sterilità della loro esperienza, essi sarebbe fatalmente costretti a ripiegare nuovamente sull’esperienza religiosa più formale, ossia su quella liturgico-precettuale della più esteriore
realtà ecclesiale. Oppure, come abbiamo detto, sarebbero costretti a gettare la fede nel cestino.
Ed infatti non a caso Berdjaev si esprime molto criticamente contro l’esperienza religiosa che resta entro i limiti della più esteriore realtà ecclesiale [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XII p. 334-339]. Egli denuncia infatti che tale realtà è inficiata dal fatto che in essa non vi è stata mai per davvero una piena Rivelazione, dato che ha invece sempre dominato la tensione verso la “città terrena”. Ecco allora che il rinnovamento religioso-cristiano implica ciò che nella storia nemmeno ha mai iniziato ad esistere. Ma intanto, nella sua ardente aspirazione al potere terreno, la Chiesa si è sempre opposta allo spirito creativo difendendo così molto ipocritamente “il pathos della pace eterna”; espressione a sua volta di mera obbedienza che degenera sempre in schiavitù. Bisogna quindi considerare colpevole e superata la stessa dimensione ecclesiale, che nei fatti ha costituito il principale ostacolo all’unione libera dell’uomo con Dio o umano-divinità.
Ed ecco dunque di nuovo giustificata pienamente quell’esperienza religiosa quale relazione diretta con Gesù entro la quale abbiamo poi constato che è indispensabile concepire l’aiuto divino concreto.
Berdjaev denuncia però il fatto che la creatività è venuta a mancare ed ancora manca anche nelle forme non ortodosse di esperienza religiosa, come in quella mistica spuria e popolare che ora è divenuta molto di moda specie nella forma di nuove forme di teosofia [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XIII p. 358-370]. In particolare, egli dice, ad essa manca del tutto la purificazione. Per questo essa è panteistica e come tale non conosce affatto l’umano-divinità – e così concepisce solo un’unione d Dio in cui la persona umana (in quanto peccatrice) viene annullata (insomma per fare manifestare Dio essa deve svanire totalmente). Qui si assume insomma più che mai che l’uomo possa unirsi a Dio solo scomparendo ossia uscendo di scena. Ebbene certamente anche questo elimina l’esperienza religiosa come contatto con Gesù. Soprattutto perché qui c’è uno svuotamento e sterilizzazione dell’esperienza religiosa, nel senso che ad essa vengono tolti tutti gli aspetti esaltanti dell’incontro con Dio. E tra questi ultimi non può non mancare lo sperimentare il concreto aiuto divino.
Ma sta di fatto che, secondo Berdjaev, le cose non cambiano nemmeno nelle mistiche più tradizionali e ortodosse (che esse siano cristiane o pagane, occidentali o orientali). In particolare egli denuncia il fatto che la mistica occidentale cattolica è assolutamente gelida, non prevedendo in alcun modo la Presenza divina (e teorizzando quindi di fatto l’incolmabile distanza di Dio dall’uomo). La mistica orientale ortodossa, per contro, adombra una tangibile presenza divina ma in una maniera tutto sommato solo timida e tiepida in quanto scontata e formale nel contesto di una pura ritualità. Ecco allora che anche qui noi non troviamo per nulla la pienezza dell’esperienza religiosa. Dunque per lui si può e si deve immaginare una nuova mistica alternativa con non propriamente ecclesiale (almeno sul piano esteriore), e quindi una mistica della davvero diretta relazione con Dio.
II- L’esperienza religiosa vista attraverso la mistica dell’incondizionata “dedizione” (“Hingabe) di Edith Stein e Gertrud von Le Fort. Possibili riflessi sulla possibilità dell’aiuto divino.
È giunto ora il momento di esaminare il testo già citato dal titolo “Das Weihnachsgeheimnis” (DWG), o “Il mistero del Natale”, di Edith Stein, ed inoltre il testo anch’esso già citato dal titolo “Die ewige Frau” (DEF), o “La Donna eterna”, di Gertrud von Le Fort. Pur essendo tematicamente molto diversi, i due libri sono profondamente accomunati da un elemento, e cioè dall’atto di incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che secondo entrambe le pensatrici connota di sé l’esperienza religiosa in maniera quasi essenziale. E più precisamente Le Fort ritiene che questo atto, in quanto tipico dell’essenza spirituale femminile, renda la donna l’essere più religioso che esista. Questa posizione del resto venne in gran parte condivisa anche da Stein nel discorso da lei sviluppato in una serie di conferenze sulla donna che poi è diventato un suo libro postumo dal titolo “Die Frau” (DF), o “La Donna” [Edith Stein, Die Frau, ESGA 13, Herder, Freiburg Basel Wien 2000]. Tuttavia in DWG Stein non tocca questo tema.
Ora si tratta comunque di vedere in che modo il discorso sviluppato in DWG si raccorda con la retorica omiletico-teologica dell’esperienza religiosa che abbiamo descritto introduttivamente. E certamente troveremo specialmente in questo testo degli elementi probanti per questo. Per cui l’analisi di DEF, di Le Fort, sarà sicuramente secondaria.
Conviene partire in questo dall’Introduzione al testo che è stata curata dalla Prof. Hanna-Barbara Gerl.
Qui infatti già ritroviamo in partenza un elemento molto negativo che caratterizza essenzialmente l’esperienza religiosa così come intesa da Stein [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., Einführung, p. 10-40]. Ella dice cioè che uno dei nuclei del discorso steiniano sul mistero del Natale è la “rinuncia alla volontà” (“Willensübergang”), ossia esattamente quanto, entro la classica retorica omiletico-teologica, si presenta come valorizzazione del «fare la volontà del Padre», ossia di Dio. Ebbene ciò avrebbe per Gerl un aspetto chiaro (la deposizione di ogni preoccupazione) ed un aspetto oscuro (la totale perdita di orientamento). In altre parole, se in via di principio la cessione della propria volontà è un cammino chiaro (e quindi configura un aspetto positivo dell’esperienza religiosa), nello stesso tempo però essa fa perdere l’orientamento e quindi precipita nelle tenebre di un Dio totalmente invisibile. Ed in tal modo sfocia fatalmente in un’esperienza religiosa totalmente negativa. Ma sta di fatto che proprio questo costituirebbe per Stein la più piena e tipica partecipazione alla Croce di Gesù, il quale del resto allo stesso identico modo sperimentò un Dio assente.
Comunque, nonostante questa agghiacciante negatività, tutto ciò implica per Stein una
pienezza di senso che viene colta proprio nell’abbandono – e precisamente sia nella piacevolezza che nella spiacevolezza. Ci troviamo insomma qui immediatamente al cospetto di affermazioni che allo stesso tempo negano ed affermano la positività dell’esperienza religiosa, ossia l’effettivo incontro con Dio.
E tutto ciò è ancora più tangibile se si prende atto di un altro fatto messo in luce da Gerl, e cioè che, siccome l’Incarnazione dell’Uno nei molti è totalmente corporale e carnale, e quindi quotidiana, essa implica un restare esposti persistentemente alla Presenza divina (a partire dalla nascita divina in poi).
Ma in che modo? Per mezzo della “luce impietosa” (“unerbittliches Licht”), cioè spietata, che è poi la Presenza divina stessa. Essa è infatti tale perché non accetta in alcun modo che noi restiamo come siamo. Ed eccoci allora di fronte alla tremenda serietà che per Stein è costituita dalla Passione sempre inscindibilmente unita all’Incarnazione.
Dunque impietosità e serietà dell’esperienza religiosa al cospetto della Presenza divina.
E si tenga contro che l’espressione “unerbittliches Licht” fu scelta da Gerl (nel suo relativo saggio) come il lemma che secondo lei descrive sinteticamente in maniera perfetta l’intera vita ed opera di Edith Stein [Hanna-Barbara Gerl, Unerbittliches Licht, Matthias-Grünewald Mainz 1998]. Questo fu dunque il tono della spiritualità mistica della pensatrice. E questo deve essere stato anche il tono della spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito in maniera totalmente incondizionata. Ebbene dov’è qui la libertà (concessa in dono da Dio all’uomo) che invece Berdjaev ritiene così tanto importante nel contesto dell’esperienza religiosa da rendere necessario affermare (sulla scorta di Dostoevskij) che un bene senza libertà equivale al male? Ed allora queste impietosità e serietà dell’esperienza religiosa devono indurci a pensare che Dio intende essere volontariamente malefico nei nostri confronti – tanto che la Sua Presenza accanto a noi si risolve di fatto nel suo forzarci ogni giorno ad andare oltre i limiti che noi abbiamo per natura (e che non possiamo superare nemmeno volendolo con tutte le nostre forze)? Pur tenendo conto della supposta bontà dello scopo (la perfezione sovrumana dell’umano-divino) ci riesce davvero difficile pensare questo. Tanto che infatti Berdjaev considera la libertà un dono assolutamente incondizionato di Dio all’uomo, e peraltro fatto in modo che Dio tutto può fare tranne che violare la libertà umana (perfino a fin di bene). Non a caso il pensatore russo – come del resto anche Simone Weil [Simone Weil, L’ombra e la grazia, p. 61-63, Bompiani, Milano 2022; Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 < http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016] – ritiene che Dio lascia che nel mondo esista il male pur di non violare la libertà [Nikolaj Berdjaev, La concezione… cit., III p. 49-57]. Dunque le uniche spiegazioni che riusciamo a trovare a queste terrificanti affermazioni sono da un lato la già commentata retorica omiletico-teologica, e dall’altro lato l’antropomorfizzazione di Dio, ossia l’attribuzione a Dio di atti, pensieri, emozioni e scopi che sono unicamente umani (e peraltro nel contesto di un discorso lampantemente lacunoso a causa di una logica sgangherata e piena di contraddizioni).
Ma la cosa diviene ancora più inquietante al cospetto dell’emergere in Stein (qui sempre attraverso il commento di Gerl) di affermazioni di segno totalmente opposto, e precisamente nel senso di una formulazione decisamente positiva dell’esperienza religiosa. E dobbiamo dire, dagli annosi studiosi steiniani da noi condotti, che questa è un’esperienza costante nella lettura dei suoi testi, specie quando essi toccano temi religiosi di grande intensità, profondità ed altezza – all’improvviso, dopo pagine e pagine di affermazioni rigidamente ortodosse, si delineano all’improvviso affermazioni che aprono al nostro sguardo scenari dottrinari assolutamente non convenzionali e perfino molto arditi. Ciò avviene qui (p. 35 della Introduzione) laddove la commentatrice si sofferma sull’espressione “non confessionale” che Stein attribuisce alla Chiesa invisibile, che secondo sarebbe lei insorta già con i primi progenitori umani (Adamo ed Eva) e prolungatasi poi nei primi uomini ed infine nei Patriarchi, culminando infine nei pastori che circondano il Presepe e nei Re Magi. È chiaro comunque che Stein non considera questa Chiesa invisibile come qualcosa a sé, e soprattutto qualcosa che possa sostituire la Chiesa visibile (anzi essa è appena una forma di passaggio verso quest’ultima). Ma poi ella registra un interessante aspetto specifico dell’esperienza religiosa così come si compie nel contesto della Chiesa invisibile – in essa vi è una profonda relazione tra l’anima e Dio (che addirittura nel crescere fa crescere la Chiesa stessa) ed essa esclude specificamente la “struttura visibile” (“sichtbare Struktur”) della Chiesa, da lei definita come mera “amministrazione del religioso” (“Verwaltung des Religiösen”). Ciò che dunque resta è solo e soltanto la presenza di Dio nel singolo. Ma, precisa la pensatrice, quest’ultima comporta l’”istruzione” (“Einweisung”) costante dell’anima che sta in intima relazione con Dio, ossia un vero e proprio aperto «parlare» di Dio all’uomo, e precisamente all’uomo singolo. Non alla Chiesa. Peraltro ella aggiunge che in tale contesto “in gran parte” (“zum grossen Teil”) il “flusso formante” (“gestaltender Strom”) della mistica resta totalmente “invisibile” (“unsichtbar”). E questo tra l’altro ci dà precise informazioni su quella che fu la mistica di Stein stessa, ossia una mistica dimessa, oscura, silenziosa, discreta, non eclatante e quindi molto sottile.
Ma che significa tutto questo? Significa forse che vi è quindi un’appartenenza alla Chiesa (perfino volontaria ed esteriore) che però non rientra formalmente nell’esperienza ecclesiale più istituzionale (confessionale) e quindi esteriore? Ed essa è forse la Chiesa occulta di coloro che hanno un’intima relazione con Dio, ossia quelli che ci sentiremmo di definire come dei veri e propri «santi occulti» e del tutto laici? Realtà che corrisponde poi bene al nuovo monachesimo auspicato da Berdjaev. Ma costoro sono coloro che sono ciò che sono molto spesso proprio perché sono stati sospinti in questa condizione da un acuto e dilaniante bisogno, e quindi si trovano esattamente in quelle situazioni senza uscita che abbiamo costantemente descritto. La loro santità scaturisce intanto dalla scelta rigorosamente etica che essi hanno fatto rispetto al dolore da vivere e rispetto alle altre persone coinvolte in tali situazioni. Cosa che fa di essi chiaramente dei veri e propri martiri. Non ci sarebbe alcun bisogno di dire che proprio costoro dipendono vitalmente dall’aiuto divino per trovare una via di uscita (in sé impossibile) alla situazione in cui si trovano.
Ma, aldilà di questo aspetto, tutto questo significa anche che in verità la Chiesa più autentica sussiste solo e soltanto nella profondità del rapporto personale con Dio. Per cui in verità non è affatto il cristiano a porsi nella Chiesa, ma è invece semmai la Chiesa a porsi nel cristiano. Ecco che la Chiesa esteriore appare essere assolutamente secondaria (in quanto mera struttura, per quanto terrenamente necessaria, ma solo relativamente) rispetto a all’intensità dell’esperienza religiosa che si manifesta nella singolarità. Per cui il Cristianesimo è molto probabilmente primariamente relazione personale con Dio. Cosa del resto provata dalla mistica in larga parte invisibile della quale qui Stein prende debitamente atto. A fronte di ciò osiamo quindi avanzare l’ipotesi che si debba ritornare a questa forma originaria di Cristianesimo ogni volta che storicamente la Chiesa visibile entra in crisi minacciando addirittura di disfarsi totalmente per svuotamento dall’interno. Ed ecco quindi spiegata la sofferenza dei martiri e santi occulti, i quali nella prova del dolore (la purificazione per fuoco della quale parla Berdjaev, ma in questo caso espiazione di peccati non propri) partoriscono una nuova Chiesa.
In sintesi, insomma, potremmo dire che il discorso steiniano apre qui alla possibilità di un’esperienza religiosa incentrata sull’aiuto divino concreto. Ma ciò avviene comunque molto ma molto alla lontana. Come testimoniato dal fatto che le riflessioni da noi fatte al proposito sono in realtà appena delle extrapolazioni ed ipotesi. Restano comunque le ulteriori parti del suo discorso che sono di segno totalmente opposto.
E tali affermazioni vengono immediatamente (sempre nel commento di Gerl) a proposito del prototipo di esperienza religiosa che secondo Stein si ritrova nei Re Magi. In via di principio essi vivono l’esperienza religiosa nella sua massima intensità ed intimità, in quanto chiamati ad uno scambio davvero carnale tra i loro doni (deponendo i quali ai piedi del Bambino, essi si spogliano della loro intera umanità) e la Presenza viva di Dio (che offre sé stesso in cambio di tale atto di rinuncia). Tuttavia, dice Stein (qui ancora per bocca di Gerl) che si esige ancora un successivo ritorno al quotidiano, con l’inevitabile perdita di tutto quanto appena si era conquistato, ossia la prossimità della Presenza divina stessa. Il che dovrebbe significare che l’esperienza religiosa è connotata dal fatto che tale Presenza non è mai durevole, anzi per lunghi periodi di tempo resta totalmente inaccessibile. E su questo non c’è nulla da dire. Chiunque vive l’esperienza religiosa nel modo più intenso possibile (ossia personalmente e non al riparo della tranquillizzante ritualità formale ecclesiale) sa che Dio svanisce per lunghissimi periodi di tempo lasciandolo così totalmente solo.
Perché mai questo? Se lo chiede perfino Stein e ne conclude sbrigativamente che si tratta di un mistero insolubile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 57). E questo dunque può e deve venire accettato. Ma la retorica no! Ed è solo retorica quella che Gerl ci propone qui facendo da portavoce a Stein. Per lei infatti l’evidenza dell’occultamento divino esige da noi la sempre rinnovata fiducia e disponibilità. E questo implica un continuo “errare” (“Wanderung”) nella perenne ed inesausta ricerca di Dio. Intanto, comunque, quello che non ci si può assolutamente aspettare è la “consapevolezza dell’efficacia” (“Bewußtsein des Wirkens”), per cui bisogna semplicemente essere capaci di lasciare tutto nelle mani di chi intanto agisce. E ne conclude addirittura che non è affatto detto che noi dobbiamo sperimentare l’epifania nella nostra vita. Sebbene “la strada maestra” (la prossimità immediata della Presenza divina) è sia e resti lì nonostante del tutto invisibile.
Di fronte a tali affermazioni viene sempre la voglia irresistibile di dire: − «Molto bello! Ma facilissimo a dirsi però difficilissimo a farsi!». E ci riferiamo di nuovo in particolare alle esperienze senza uscita dell’esistenza. Non invece alle frustrazioni ordinarie, per le quali sarebbe follia e blasfemia invocare l’aiuto divino. Ma, aldilà di questo, la domanda pressante è semmai un’altra − «Quello del quale si parla qui è il Dio vero, oppure è appena quello inventato dalla nostra retorica antropomorfizzante?». Insomma, come si può pensare che Dio, nel suo inspiegabile occultarsi, esiga intanto da noi esseri di carne l’incondizionata “fiducia e disponibilità”, esattamente come verrebbe chiesto di fare ai soldati nella caserma in cui si addestrano alla guerra? Come si può pensare che questo Dio esiga da noi addirittura un continuo “errare” senza la benché minima certezza non solo di sperimentare di nuovo un giorno la sua Presenza ma perfino nel totale digiuno di ogni frutto del nostro affidamento a Lui entro le tempeste della nostra esistenza (mancata consapevolezza dell’efficacia)? E come, in tale contesto, si può chiedere a noi esseri mortali addirittura la somma virtù dell’affidamento cieco e totalmente privo di risultati, nel “lasciare tutto nelle mani” di Colui del quale dobbiamo essere fermamente certi che continua intanto invisibilmente ad agire? Siamo insomma di nuovo al teresiano «accettare tutto dalle mani di Dio», pena il dover accettare che altrimenti Egli «ci abbandonerà ad ogni passo». Ma il sommo della provocazione di tali affermazioni sta nella richiesta rivolta a noi (poveri esseri di carne) di essere pronti ad accettare che mai e poi mai vi sarà un’”epifania” divina nella nostra esistenza.
Orbene, è davvero un Padre il Dio che pensa ed agisce così? Costui è davvero Colui che ha detto che un Padre mai e poi mai darebbe ai propri figli pietre in luogo del pane? Sinceramente ci viene spontaneo rispondere di no. E quindi non possiamo concluderne altro che nuovamente qui è all’opera quella insidiosa, arrogante e prepotente retorica (la retorica di predicatori, apologeti e teologi, che pretende a noi comuni mortali di dare saccenti lezioni sulla natura di Dio e sul suo agire), la quale pretende di riconoscere in Dio aspetti che invece sono unicamente umani.
Ed è evidente allora che qui è all’opera un sadismo molto ben mascherato (e peraltro anche questo con sadismo), il quale a sua volta pretende che il masochismo divenga in noi altissima virtù religiosa. Insomma molto meglio sarebbe che costoro semplicemente affermassero che non sanno assolutamente nulla di Dio – come del resto richiesto espressamente da Gesù stesso nell’esortazione severissima a non “scandalizzare” i piccoli. E sinceramente ci dispiace dover coinvolgere in questa accusa anche la nostra carissima Edith Stein. Rispetto alla quale dobbiamo riconfermare quello che abbiamo detto anche per Dio – è davvero possibile che una persona così profonda, sensibile, colta, umile, visionaria, ferventemente religiosa abbia aderito ad una retorica così violenta, becera e falsificante? Come si spiega tutto questo?
Lo vedremo più avanti.
Ma veniamo ora ai suoi testi originali, nei quali è possibile che possiamo anche trovare risposta a queste angosciose domande.
Ed iniziamo dal primo dei testi contenuti in DWG, e cioè “Menschenwerdun und Menscheit”.
Qui Stein sottolinea il fatto che Cristo è da considerate il Capo del Corpo Mistico del quale noi siamo membra [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., I p. 50-59]. E come tale esso si comunica a noi come vita divina esattamente come il Bambino fa con le sue mani protese verso chi lo circonda nel Presepe. Attenzione però, ella precisa − questo è solo l’inizio della “vita eterna”, ma non è affatto la “visione di Dio nella Luce della Gloria” (“Gottschauen im Glorienlicht”). Non possiamo dedurne altro che questo – la pur intimissima (addirittura carnale) esperienza religiosa che viene illustrata esattamente nel Presepe non è mai e poi mai piena relazione con Dio. Del resto Stein stessa sottolinea al proposito che nel Presepe il Deus absconditus diviene per la prima volta immediatamente tangibile [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 31-40]. A ciò Stein stessa aggiunge però che si tratta con tutto ciò di un’evidente “oscurità della fede” (“Dunkel des Glaubens”), anche se già non è più uno stare in questo mondo, bensì invece nel “regno di Dio” (“Gottesreich”). E precisa che esso è in effetti iniziato immediatamente già con il “fiat” di Maria [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17, p. 33-95, p. 97-157]. Insomma la pur immediata prossimità a noi di Dio nel Bambino, e quindi ormai tangibile Presenza divina, non andrebbe affatto considerata unione a Dio. Ma intanto dovremmo consolarci con il fatto che essa è comunque fede (per quanto oscura) ed inoltre è anche perfino uno stare nel Regno di Dio.
Ma come? Proprio laddove la volontà divina ha voluto rendere possibile l’impossibile, ossia rendere tangibile la sua Presenza, proprio lì non si può nemmeno parlare di intimità immediata con Lui entro l’esperienza religiosa? Ed inoltre dovremmo soddisfare questa fame insoddisfatta accontentandoci di una meramente formale fede (peraltro totalmente oscura) entro la quale dovremmo per di più credere di stare già di fatto nel Regno di Dio? In altre parole in tal modo veniamo rilanciati di nuovo impietosamente entro l’esperienza straziante dell’Invisibile proprio nel mentre ci trovavamo già nel pieno dell’esperienza del Dio visibile. È pensabile un tale sadismo della retorica omiletico-teologica? Ed è pensabile esso che sia frutto dell’amorosa Volontà divina? Ma, oltre a ciò, è possibile affermare tutto questo con totale disinvoltura?
Ed inoltre è possibile affermarlo proprio nella forma deteriore che è stata scelta, ossia nel contesto di una logica che (sebbene applicata ad ineffabili realtà religiose) in effetti fa acqua davvero da tutte le parti?
E si badi bene che qui parla Edith Stein, ossia una che per tutta la vita si era preoccupata dell’inflessibile rigore del pensiero. Come si spiega dunque questo suo improvviso inclinare ad una logica così tanto sgangherata?
Ma le cose divengono ancora più gravi più avanti, laddove Stein perviene al centrale discorso sul «fare la volontà divina» (p. 55-59). In particolare ella considera tale atto il “terzo segno” della filialità divina, laddove i primi due segni sono la filialità stessa in sé (essere “uno con Dio”), la fraternità o carità (essere “uno in Dio”). Questi sono insomma gli aspetti più fondamentali della fede cristiana.
Ebbene, per lei l’essere integralmente figlio di Dio significa andare con Lui mano nella mano, e quindi “fare il volere divino e non il proprio”. Ciò significa in particolare deporre ogni preoccupazione e speranza nelle mani di Dio non preoccupandosi così mai più assolutamente né di sé e del proprio futuro. E questo sarebbe per lei libertà e felicità. Ella riconosce però che queste due attitudini le posseggono davvero pochi, escludendo così perfino coloro che hanno una forte disposizione al sacrificio, ossia coloro che sono pienamente disposti ad offrire sé stessi come olocausto vivente. Anche costoro, insomma, rientrano nell’assoluta maggioranza di coloro che per tutta la vita non fanno altro che camminare curvi sotto i loro pesi. E chiaramente sono coloro che non mostrano la famosa «gioia cristiana».
Sì abbiamo sentito bene – non sono da considerare pienamente cristiani anche coloro che di fatto offrono la propria vita nel contesto di situazioni esistenziali impossibili (senza uscita) affrontando ogni giorno un vero e proprio martirio e peraltro non pensando nemmeno lontanamente a sottrarsi egoisticamente a tali situazioni. E perché? Perché essi non dimostrano l’altra virtù cristiana inscindibilmente legata al «fare la volontà», cioè la gioia nel fare la volontà. Tale virtù conferma infatti pienamente quell’eroismo che a sua volta configura anche in Berdjaev l’elezione aristocratica che contrassegna il vero cristiano [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., XI p. 318-326, XII p. 346-349, XIII p. 355-358]. Ma intanto (cristiano o non cristiano) essa mostra i tratti tipici di un vero e proprio ebetismo; peraltro anche nauseante e sdolcinato. E si badi bene che non stiamo affatto affermando questo sulla base del mero senso comune o anche buon senso (la famosa ragionevolezza), bensì sulla base di una fede cristiana che sente il dovere di rigettare con sdegno ogni retorica che osi mettere in scherzo la serietà del dolore che le persone provano nel corso della loro esistenza. Ma quali libertà e felicità nel consegnare la propria volontà a quella divina? Come si può pensare infatti che l’essere cristiano obblighi a sorridere sempre anche se ci si trova costantemente in situazioni che rischiano continuamente di portarci sull’orlo della follia, della malattia, e perfino della morte?
Ebbene, cos’è questo se non sadismo? E come questo sadismo può venire spiegato se non come una mera retorica che necessariamente può avere pochissimo a che fare con il Cristianesimo come religione dell’amore, e quindi con gli stessi insegnamenti di Cristo?
Del resto la Stein appare perfettamente consapevole di questo. E così, nell’invitarci ad essere come “gigli del campo” (secondo l’esortazione di Gesù), prende atto del fatto che per l’usuale buon senso del mondo questa appare come una “follia”, di fronte alla quale si scuote la testa. Eppure la pensatrice conferma pienamente l’ammissibilità di tale follia, dato che proprio qui ella afferma che “deve aver sbagliato i suoi calcoli” (“könnte sich schwer verrechnet haben”), ossia si sbaglia di grosso, colui che ha osato pensare che Dio che provveda davvero ad ogni sua necessità. Vi è forse una smentita più violenta e frontale della possibilità del concreto aiuto divino? E dunque, secondo Stein, predicatori e santi come Don Dolindo Ruotolo (che invece parlava apertamente di tale aiuto e peraltro invitava tutti noi a crederci ciecamente) si sbagliavano anche loro di grosso?
C’è da restare davvero sconcertati di fronte alla così profonda frattura che in tal modo emerge nel cuore dell’intera omiletica e teologia cristiana. E pertanto si è portati a chiedersi da che lato si trovi la verità.
Insomma siamo così di fronte al punto e momento più cruciale (il suo fulcro stesso) della definizione cristiana dell’esperienza religiosa. Ed è evidente che esso consiste nell’ammissione o meno del concreto aiuto divino.
Intanto qui (proprio come fece Teresa d’Avila) Stein ci esorta ad essere pronti a prendere dalla mano di Dio qualunque cosa venga. E questo perché solo Lui “sa cosa è bene per noi”, incluso bisogno, spoliazione e insuccesso. Eccoci insomma di fronte alla più aperta e chiara forma della retorica che abbiamo descritto e deplorato all’inizio. Ma di nuovo si è spinti a chiedersi se davvero si può pensare e dire una cosa simile in nome di Gesù. Appare invece molto più probabile che Gesù non c’entri nulla con questo, e che quindi si tratti appena di una retorica umana mimetizzata da ispirato discorso religioso.
Tanto più per il fatto che qui Stein impietosamente continua a rincarare la dose. Ella dice infatti che in
questo senso il “sia fatta la Tua volontà” deve venire considerata una regola generale, ubiquitaria e persistente di comportamento per il cristiano: − essa deve regolare la sua intera vita. Dunque questa deve essere l’”…unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre se le prende il Signore su di sé. Ma intanto questa unica resta a noi per la vita intera”. Il che significa che, anche come cristiani, noi non siamo affatto “assicurati per sempre”. E quindi ognuno di noi cammina sempre sul “filo di rasoio (“Messers Schneide”) tra il “nulla” (“Nichts”) e la “pienezza” (“Fülle”) della vita divina.
Ciò significa insomma che l’esperienza religiosa andrebbe intesa proprio come vissuto contemporaneo e misto di nulla e pienezza.
È di nuovo insomma una frontale smentita del concreto aiuto divino; unita peraltro al solito insopportabile (logicamente sgangherato e pochissimo autentico e credibile) dire e non dire, affermare e negare. Ma intanto, posto che abbiamo già chiarito che è ammissibile invocare l’aiuto divino solo in situazioni estreme e quindi serissime, dove sarà allora la “pienezza” della quale qui Stein blatera? Evidentemente da nessuna parte per il santo martire che si trova in quelle condizioni. E quindi – pur con tutto questo florilegio omiletico-retorico – a questo poveraccio non resterà altro che rassegnarsi al solo “nulla”. Dato che qui della pienezza non vi è alcuna traccia. Ecco di nuovo che la montagna partorisce il topolino, e così l’intera retorica finisce per risolversi nell’esortazione a rassegnarsi al dolore senza via di uscita, senza poter più nemmeno lamentarsi di questo.
Eppure Stein precisa che sta esattamente qui il punto di passaggio tra la fede infantile a quella adulta. Infatti per lei solo nella prima ni sperimentiamo almeno per un po’ una mano sicura e forte. Ma poi, come lei dice, “non sarà sempre così”. E dire che proprio lei aveva visto in Dio quel Fondamento di essere che funge da forte “braccio” che immancabilmente salva noi enti finiti dalla minaccia costante di sprofondare nel nulla [Edith Stein, Endliches…cit., II, 7 p. 59-60; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2003, III, p. 113]. Ma qui ella sostiene che, nel contesto di una fede adulta, noi dobbiamo invece rinunciare a questo Braccio forte in quanto mano che guida, e quindi dobbiamo accettare che la nostra fede implica inevitabilmente l’associazione all’esperienza della Croce.
E qui ci troviamo di fronte ad un altro tipico elemento della retorica introduttivamente commentata – quello secondo il quale l’esperienza religiosa cristiana implichi necessariamente la nostra associazione all’integrale esperienza della Croce. Laddove in questa idea si trascura la lapalissiana constatazione che Dio non avrebbe mai scelto volontariamente di sottomettersi allo strazio infinito dell’essere «uomo» se avesse saputo che l’uomo sarebbe stato capace per definizione di sopportare la stessa incommensurabile dose di dolore che egli ha sopportato come Cristo, ossia come pieno Dio-Uomo. È evidente inoltre che Dio in quanto Gesù Cristo è stato capace di sopportare questo insopportabile ed immane strazio solo perché in fondo a sé stesso sapeva di essere un dio, e che quindi tutta quella che Lui ha vissuto sullo sfondo non era che una pantomima, sebbene con tutti i caratteri della realtà (nessun escluso). Ma Egli intanto sapeva esattamente che a questa pantomima (che poi è l’illusoria commedia della morte che viene messa costantemente in atto da Satana) invariabilmente sarebbe seguita la Sua Resurrezione dai morti e il Suo ritorno alla Gloria della condizione divino-celeste.
Pertanto, nel contesto di una logica di tipo religioso, è assolutamente ridicolo pensare che l’uomo possa davvero condividere integralmente la realtà della Croce – per quanto santo possa essere! E pertanto è evidente che chi lo pensa (inclusa purtroppo la nostra carissima Stein) non è altro che uno psicotico (oltre che un indegno antropomorfizzatore).
Ebbene noi riteniamo che stiano proprio qui le risposte alle domande che spontaneamente sorgono di fronte alle affermazioni di tutta questa retorica della necessaria associazione dell’uomo all’esperienza della Croce − è davvero possibile pensare che il partecipare alla vita divina coincida con il vivere solo soffrendo?
È davvero possibile e sano sostenere questo? E queste domande senz’altro ci riconducono all’insidioso rischio insito nella condizione mistica, ossia quello di scambiare i propri deliri per sublimi pensieri religiosi.
Cosa che, a quanto pare, non ha escluso nemmeno Stein ed inoltre l’intera spiritualità carmelitana alla quale ella aveva aderito, e che mostra le sue forme proprio in queste affermazioni.
A quanto prima detto la pensatrice aggiunge comunque qui la costatazione che il dolore non è nulla di fronte all’esperienza terrificante della notte oscura. Ma, ella precisa, sta di fatto che la notte oscura è un altro (ed ancora più fondamentale) momento della nostra partecipazione alla vita divina; in particolare della divinità come liberazione, cosa che avviene solo attraverso il dolore. E questo perché la partecipazione alla vita divina è (dopo l’Incarnazione) anche partecipazione alla vita umana di Dio, nella quale Egli ebbe la possibilità di “soffrire e morire”.
Eccoci insomma di fronte ad un’altra affermazione inaccettabile per l’uomo che si trova pienamente immerso nell’esperienza del dolore come prova (in quanto situazione seria, straordinaria e senza uscita).
Ed ancora una volta Stein sembra pienamente consapevole di questo. Ella afferma infatti che naturalmente per la “ragione naturale” questa è chiaramente “perversione”. Ma aggiunge che invece non è così nella “luce della Liberazione”, nella quale tutto questo si rivela come la “più alta ragione” (“höchste Vernunft”).
Ebbene questo ci dimostra che, nel corso della fase mistico-monastica e contemplativa della sua opera,
ella non seguiva già più la ragione naturale ma invece solo una ragione superiore, ossia un discorso chiaramente iper-razionale. E di questo va preso atto nel corso della comprensione del suo pensiero in fase mistica.
Ma intanto la più alta Ragione divina sarebbe quella che avrebbe spinto Dio ad incarnarsi e soffrire solo a condizione che anche noi soffrissimo insieme a Lui? Inoltre ciò sembra voler implicare anche il dovere di resistere perfino nella sensazione di essere stati totalmente abbandonati da Dio. E questa sarebbe liberazione? Ed inoltre addirittura liberazione dall’assolutamente irresistibile pressione del bisogno e da quello dell’istinto di sopravvivenza? Tutti elementi che Dio sa perfettamente essere così profondamente insiti nella natura umana da non poter venire in alcun modo ignorati o eliminati. E forse la “preveggenza divina” (della quale qui Stein parla espressamente) aveva previsto il proprio martirio nel mentre intanto sapeva che questo sarebbe stato liberante soltanto con tutta la zavorra di questi così gravi limiti?
No! È davvero impossibile pensare tutto questo. Perché questo contraddice davvero frontalmente la logica unilateralmente amorosa ed unicamente auto-sacrificale dell’Incarnazione. Pertanto non si può concluderne altro che, entro questo ragionamento, vi devono essere delle gravi lacune logiche che (volutamente o non volutamente) ci si rifiuta di riempire. E questo a sua volta non può essere spiegato da altro che dal fatto di aver abbracciato acriticamente una retorica preformata e rigidamente canonica.
Cosa che per Stein è così sorprendente da lasciare il suo studioso davvero di stucco.
Ma passiamo ora al secondo testo steiniano presente in DWG, ossia “Verborgenes Leben und Epiphanie” (“Vita nascosta ed epifania”) [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., II p. 67-77].
E qui emergono nuovamente in Stein (in maniera di nuovo sorprendente, visti anche i passi appena commentati) dei possibili elementi positivi nella concezione dell’esperienza religiosa – specie come intima relazione personale con Dio.
La pensatrice constata infatti che tutte le persone coinvolte (direttamente o indirettamente) nello scenario del Presepe (Maria, Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, i Re Magi) avevano vite separate, e precisamente nel contesto di una relazione assolutamente solitaria con Dio. Solo che non sapevano di rientrare anche così in una realtà comune, che poi corrisponde al piano divino; elemento che è stato del resto sempre presente nel pensiero steiniano. Per questo, ella dice, al cospetto del Presepe noi ci troviamo davanti ad uno scenario davvero grandioso: − caratterizzato soprattutto dai Pagani (Re Magi) per i quali da Giuda doveva venire la salvezza. Ed essi rappresentano così “i cercatori” di Dio che sono ovunque nel mondo, aldilà di tutte le specifiche religioni e relative Chiese istituzionali.
Ma ciò significa che costoro sono il prototipo di coloro che sperimentano una del tutto pura ed incondizionata “aspirazione” (“Verlangen”) alla verità. La quale evidentemente non conosce confini né limiti di sorta. E questo accade perché “Dio è la Verità e vuole farsi trovare da coloro che la cercano con tutto il cuore”. Questo è insomma, entro la simbologia del Presepe, ciò che accade per mezzo della Stella che mostra la strada.
Ebbene di nuovo ci ritroviamo in tal modo al cospetto di una concezione dell’esperienza religiosa che è caratterizzata dalla singolarità (dell’esperienza di Dio) e che inoltre è di altissimo livello non solo religioso ma anche filosofico, dato che ne va dell’incontro con la Verità per eccellenza. Ma esattamente in tale contesto emerge la constatazione che Dio vuole a tutti i costi venire trovato; il che richiama l’idea berdjaeviana secondo la quale Dio ha un bisogno spasmodico dell’uomo. Ora, una volta posto questo, si può ancora per davvero sostenere che Dio esiga dall’uomo una fede che consiste unicamente nell’esperienza dell’Invisibile, e quindi escluda rigorosamente qualunque frutto tangibile dell’esperienza religiosa, ossia ancora una volta il concreto aiuto divino?
Ma con ciò abbiamo ultimato l’analisi di DWG.
Giunti a questo punto il testo di Le Fort (DEF) ci offrirà solo pochi contributi, dato che, come abbiamo detto, esso si occupa solo marginalmente dell’esperienza religiosa. Cosa che peraltro può venire ridotta entro i termini di quella incondizionata “dedizione” (“Hingabe”) che è tipicamente femminile, ma nello stesso tempo fa da paradigma per la corretta relazione con Dio per qualunque essere umano.
Infatti Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 9-17] afferma che Maria è da considerate il «religioso» stesso per eccellenza, specie in quanto primaria manifestazione del religioso, attraverso il quale Dio viene venerato.
Il che si giustifica con il fatto che solo il femminile (in quanto capace di illimitata ricezione) può esprimere in pieno la dimensione religiosa in quanto esperienza umana del divino.
A ciò Le Fort [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 95] aggiunge che i moderni deplorevoli fenomeni del distacco del femminile dalla propria simbologia intensamente religiosa (ossia dalla propria vera natura) vanno di pari passo con il fenomeno della separazione tra uomo e Dio che è avvenuto nella società (in gran parte per il prevalere di unilaterali valori maschili sulla invece necessaria stretta collaborazione tra uomo e donna). E la tragica conseguenza di ciò è stato secondo lei lo spostamento della relazione tra uomo e Dio (ossia la stessa esperienza religiosa) in direzione della Fine dei Tempi. Il che equivale poi all’intendimento dell’esperienza religiosa unicamente nel contesto di una prospettiva apocalittica. Infatti quest’ultima si è di fatto sostituita a quella pienezza dei tempi che invece è sempre solo attuale ossia storica. In definitiva, dunque, la relazione con Dio è stata spostata alla fine, e quindi non viene più vissuta attualmente, come invece si potrebbe e si dovrebbe. Ciò significa allora che – come del resto ha sostenuto Guardini [Romano Guardini, Der Her, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585] – se nella storia non vi è traccia del Regno dei Cielo questo è solo frutto della nostra responsabilità, ed inoltre significa anche che tutto ciò non sarebbe avvenuto se la Donna non solo avesse continuato ad essere fedele alla sua vera natura, ma inoltre, proprio su questa base, avesse continuato a costituire il paradigma massimo dell’esperienza religiosa per mezzo della figura della Vergine Maria.
A ciò va comunque aggiunto che Le Fort considera il “si” (o “fiat”) tipicamente femminile-mariano come una forma di collaborazione dell’uomo alla creazione che ci ricorda quanto abbiamo già visto in Berdjaev [Gertrud von Le Fort, Die ewige Frau… cit., p. 18-29, p. 33-95, p. 97-157].
Tutto questo non ha certo relazione con il nostro specifico tema dell’aiuto divino. Ma comunque l’attualità storica del Regno dei Cieli contraddice anch’essa un’esperienza religiosa che (nel contesto della retorica introduttivamente commentata) si incentra unicamente su un vissuto totalmente negativo del divino, sia pur mascherato sotto confuse, contraddittorie ed inautentiche (se non menzognere) formule omiletico-teologiche che vorrebbero convincerci della sua positività.
Conclusioni.
Giunti a questo punto è ormai necessario trarre delle conclusioni dall’intero discorso.
Abbiamo davanti a noi due parti di un unico discorso, ossia il discorso che (direttamente o indirettamente) concerne l’esperienza religiosa in quanto relazione tra uomo e Dio. Abbiamo visto che essa può venire intesa in diversi modi, ed abbiamo però anche visto che, nel contesto della tradizionale dottrina cristiana, si rilutta fortemente (e per vari motivi) in primo luogo a considerarla un’esperienza anche strettamente personale e quindi intima (oltre che collettiva ed ecclesiale) ed in secondo luogo a considerarla un’esperienza produttiva, ossia capace di mettere capo ad un concreto aiuto divino.
Intanto il pensiero di Berdjaev ci ha fornito molti elementi per considerare l’esperienza religiosa in una maniera che renda plausibili entrambi questi due intendimenti. Ma abbiamo anche visto che ciò a suo avviso non può avvenire se prima non vi è un profondo rinnovamento della dottrina e prassi cristiana, che egli sintetizza come “nuova Rivelazione” e che consiste in definitiva in una sorta di finora mai avvenuta “rivelazione antropologica” [Nikolaj Berdjaev, Il senso…cit., VII p. 214-223, XII p. 334-339, XIII p. 374-376]. Quest’ultima consiste a sua volta nella dichiarazione dell’inalienabile dignità dell’uomo in quanto ente pienamente umano-divino, e quindi necessariamente in intima relazione con Dio. Ed è evidente che tale scenario non solo è tutto di là da venire, ma inoltre non si può assolutamente essere certi che esso un giorno davvero si delineerà davanti al nostro sguardo. Questo significa allora che attualmente abbiamo solo alcune possibilità a disposizione, e tutte peraltro estremamente negative, rispetto alla concezione cristiana dell’esperienza religiosa: − rassegnarci tristemente al dominio della retorica omiletico-teologica che prima abbiamo descritto e deplorato, abbracciare l’immanentismo scettico e tendenzialmente ateo dei nuovi teologi cristiani, oppure addirittura dire addio alla fede cristiana più canonica nella costatazione che essa non intende in alcun modo permetterci un’autentica esperienza di Dio. E a questo punto ci resteranno solo altre due alternative: − professare una fede cristiana tutta nostra, oppure abbandonarla del tutto.
Ma, per l’uomo che ci trova in quelle tremende soluzioni senza uscita delle quali abbiamo parlato, questa ultima possibilità equivale ad abbandonare ogni speranza di uscirne nella giustizia e nell’amore, essendo così costretto ad uscirne solo nell’egoismo e nella violenza, oppure essendo costretto a gettare la spugna ed abbandonarsi del tutto alle soverchianti forze negative che gli si oppongono, offrendo così il capo alla loro affilata scure.
Tuttavia tale scenario diviene ancora più oscuro se teniamo conto del fatto che una pensatrice intensamente religiosa e mistica come Edith Stein sembra aver accettato senza troppe difficoltà la prima tra le soluzioni negative che abbiamo poc’anzi indicato, ossia la via della mera retorica. Ed in essa abbiamo constatato in particolare il sussistere di un discorso che non regge assolutamente nel contesto di una logica del tutto sgangherata (lacunosa, piena di contraddizioni e fortemente sospetta di omissioni, reticenza e mendacia) sia pure molto attenta alle caratteristiche specifiche della fenomenologia religiosa. Proprio a causa di quest’ultima noi veniamo costretti ad accettare un’esperienza religiosa che può venire considerata positiva solo con un immenso sforzo di immaginazione, e peraltro non senza una cieca obbedienza. Il che poi, una volta trasportato sul piano di quelle tremende situazioni senza uscita (delle quali abbiamo più volte parlato), ci obbliga di fatto a rinunciare a qualunque possibilità di un concreto aiuto divino in quanto mera illusione. Cosa che poi (come abbiamo detto poc’anzi) ci precipita nel profondo di un’esperienza religiosa nel contesto della quale, nel mentre siamo totalmente abbandonati alla solitudine ed all’impotenza, o abbracciamo anche noi la retorica omiletico-teologica per pura disperazione (e quindi senza la benché minima speranza) oppure ci rassegniamo all’ineluttabilità dell’esperienza che stiamo vivendo in tutta la sua crudezza. Cosa che ovviamente ci renderà molto difficile, se non impossibile, conservare la fede.
Ebbene, di fronte ad uno scenario così oscuro e desolante ci possono venire in soccorso solo due elementi – la speranza che gli auspici di Berdjaev davvero un giorno trovino realizzazione, e la costatazione che forse una pensatrice come Stein (nello scrivere un’opera come DWG) non ci abbia detto tutto quello che pensava, sentiva e sapeva. Ed abbiamo visto che nel contesto del suo discorso non mancano (per quanto siano molto flebili e timidi) dei segnali che suggeriscono tale ipotesi.
Dunque cosa può essere mai accaduto nel pieno della retorica omiletico-teologica così com’è stata vissuta e pensata da una pensatrice e mistica come Stein – sulla cui onestà, purezza, profondità spirituale e potenza intellettuale è davvero difficile nutrire dei dubbi?
Può essere solo accaduto che, così come ella si era sottomessa di fatto ad una necessaria rinuncia sacrificale pressoché completa all’atteggiamento attivo-assertivo che la filosofia avrebbe potuto consentirle, allo stesso modo ella si sia sottomessa ad un altro atto di rinuncia, che probabilmente è consistito nella scelta (profondamente motivata) di abbracciare in maniera davvero radicalmente incondizionato la spiritualità carmelitana alla quale ella dovette aderire nel varcare per sempre la soglia del Carmelo di Köln; ed ancor più la soglia di quel Carmelo di Echt che poi la condusse al pieno compimento della sua decisione di offrirsi come vittima per l’espiazione dei peccati del mondo. È solo pensando questo che le sue affermazioni riconducibili alla natura dell’esperienza religiosa cessano di essere scandalose ed inaccettabili, e cessano quindi di indurre in noi un moto di profonda indignazione. Ciò significa dunque che probabilmente noi non dobbiamo guardare tanto ai contenuti del suo discorso, ma dobbiamo invece guardare al loro sfondo profondo e nascosto. Che corrisponde esattamente poi a quelle sue radicali scelte che furono insieme religiose ed esistenziali.
Ma quali possono essere state le motivazioni profonde di una scelta di rinuncia così dura?
Ebbene possiamo comprenderlo nel mentre ricolleghiamo la sua scelta monastica al quella che fu la natura più autentica della sua mistica. Esaminando infatti DWG abbiamo constatato che in esso la mistica steiniana si presenta in un aspetto molto dimesso, discreto, poco ambizioso che quindi fa di essa una mistica per nulla rigogliosa (come lo fu invece quella di Teresa d’Avila e Juan de la Cruz, i quali pure furono per lei punti di riferimento esemplari). E questo potrebbe significare allora che, così come la sua stessa scelta monastica, anche perfino la prassi mistica restò per lei sempre sottomessa (e quindi del tutto secondaria) al ben più primario aspetto della sua previa e primaria scelta di offrire sé stessa in olocausto. Il che spiegherebbe per un’altra via anche il perché della sua sottomissione incondizionata alla spiritualità carmelitana con tutto il suo inflessibile rigore quasi militare. A mo’ di esempio ricordo al proposito al lettore un fatto del quale veniamo a sapere mediante le sue lettere, e cioè che al tempo in cui ella entrò in convento la Regola carmelitana proibiva severamente qualunque forma di riscaldamento degli spazi, motivo per cui tutte le monache andavano soggette a malattie respiratorie anche gravi [Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Neyer Maria Amata, Sebstbildniss in Briefen. Zweiter Teil 1933-1943, ESGA 3, Herder, Freiburg Basel Wien 2015, lettere 299, 300, 334, 572, 654, 684, 692). Questa assurda prescrizione fu poi abolita, ma pare che intanto Stein ne abbia sofferto moltissimo, essendo costretta nella sua cella a correre ai ripari coprendosi e riscaldandosi con mezzi di fortuna.
Dunque tutto ciò getta una luce non indifferente sulla retorica alla quale ella si rifà nel descrivere i tratti fondamentali dell’esperienza religiosa. Sembra quasi, insomma, che ella si sia volontariamente sottomessa al compito di affermare cose (ed anche di farle) nelle quali però molto probabilmente nemmeno credeva fino in fondo – e tuttavia con fini che abbiamo visto essere non solo nobili ma perfino sublimi. Sta di fatto che però tali fini erano, dal suo specifico punto di vista, inconfessabili per pudore e discrezione, dato che ella aveva fatto le sue così radicali scelte unicamente nel segreto del proprio intimo ed in privata relazione con Dio. Ciò può venire dimostrato dalla frase, citata da Gerl, che ella pronunciò quando le fu chiesto come si sentisse mentre veniva trasportata verso Borken e poi verso Auschwitz: − “Mein Geheimniss gehört mir”, o “Il mio segreto appartiene solo a me” [Edith Stein, Das Weihnachtsgeheimnis… cit., p. 7-19]. E questo spiegherebbe bene anche le oscillazioni del suo discorso, tra l’affermazione della rigorosità tutta negativa dell’esperienza religiosa ed invece l’apertura ad i suoi aspetti positivi. In sintesi il rigore negativo dell’esperienza religiosa descritta e raccomandata da Stein appare essere molto più relativo che non assoluto – e più precisamente relativo alla sua tutta personale via al divino, via che lei stessa aveva autonomamente scelto e che evidentemente le era stata concessa da Dio. Senza però alcuna intenzione (da parte di entrambi!) di farne un modello obbligatorio e valido per tutti. E questo senz’altro vale anche per la così rigorosa e spietata spiritualità carmelitana di tipo senz’auto-mortificante se non (da un certo punto di vista) sado-masochista.
Essa può essere effettivamente così in termini oggettivi. Ma evidentemente esistono anime che non possono arrivare a Dio se non per questa via. Il che però non significa affatto che tale via a Dio debba venire descritta come l’unica possibile.
Ma comunque tutto ciò significa allora che le così possenti ed autorevoli esortazioni steiniane ad un’esperienza religiosa integralmente sacrificale (fino al punto di renderla totalmente negativa, una volta che essa venga spogliata di ogni retorica) vanno prese appena come rinvio alla decisione auto-sacrificale che ella intanto aveva preso. Il che però significa che esse sono valide solo relativamente a questo, e non invece in assoluto.
In definitiva insomma sembra che noi non siamo affatto chiamati a prendere come insegnamenti vincolanti le indicazioni che Stein ci da circa ciò che dovrebbe essere un’autentica esperienza religiosa. Il che poi esautora totalmente, ma per una via alternativa, la tradizionale retorica omiletico-teologica.
E dunque, su questa base – sebbene restando comunque orfani di una guida autorevole che ci possa confortare nel nostro intendimento dell’esperienza religiosa (dato che le inattuali considerazioni di Berdjaev restano comunque insufficienti in quanto assolutamente non attuali) – noi potremmo ora ritornare a percorrere da soli il cammino che speriamo possa portare alla concezione di un’esperienza religiosa entro la quale sia pienamente lecito aspettarsi il concreto aiuto divino.
A questo punto, dunque, non ci resta che rivolgere la nostra attenzione agli scritti di Don Dolindo Ruotolo, che abbiamo in questa indagine solo vagamente menzionato senza però poterne trattare per il semplice fatto che conosciamo solo alcune sue isolate affermazioni, ma non invece tutto ciò che ha scritto. Ma sta di fatto che questi libri ci sono, e quindi possiamo citarne anche i titoli: − “Gesù pensaci tu”; “Don Dolindo Ruotolo e gli spiriti celesti” (a cura di Marcello Stanzione e Carmine Alvino); “Atto di abbandono. Mio Dio confido in te!”; “L’Immacolata nella vita di Don Dolindo Ruotolo”; “Don Dolindo sull’altura delle beatitudini” (a cura di Pasquale Rea); “Don Dolindo Ruotolo nei piani di Dio” (a cura di Pasquale Rea).
E quindi l’esame di questi scritti potrebbe essere l’oggetto di una nostra prossima indagine.
Restano comunque intanto lo sconcerto e l’amarezza del credente al cospetto di uno scenario religioso-cristiano nel quale sembra che si tenda a fare (e peraltro con ostinazione e forse perfino con protervia) l’esatto contrario del supportare l’uomo comune nella sua fede vissuta. In altre parole, nell’esortarlo alla fede in Dio, intanto si fa di tutto per togliergli il pane, ossia la speranza in un concreto aiuto divino entro le più gravi avversità. Ed abbiamo visto quanto forte possa essere il contributo di questa prassi all’abbandono della fede da parte di un numero sempre più grande di persone. Infatti, per come siamo fatti noi uomini, l’esperienza di Dio o è tangibile, concreta, realistica, credibile e trasparente (sebbene nel rispetto della sua natura spirituale e non materiale), oppure finisce per diventare una favola se non addirittura una barzelletta. E ci sembra che questo sia esattamente quanto è accaduto nelle nuove generazioni. Le quali ormai, smaliziate come sono, guardano alla fede solo con un atteggiamento di divertita commiserazione piena di scherno.
Che sia anche questo un altro segno dell’odierno potente operare dell’Anticristo non solo nel mondo ma anche nella Chiesa stessa?