(*) Dottore in filosofia presso la FLUL di Lisbona.
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INTRODUZIONE.
Quando si parla di ontologia ci sembra evidente che non si possa prescindere dal prendere in considerazione e definire il concetto di «essere». E ciò implica necessariamente (che piaccia o meno) doversi riferire alla definizione che ne ha dato Aristotele nel suo quinto Libro della Metafisica come «essere come tale» o anche «essere in quanto essere» [Aristotele, Metafisica, Mondadori, Milano 2008, V, 1, 1003a, 20-30 p. 741].
Si tratta evidentemente dell’essere concepito nella maniera più astratta possibile, ossia come concetto; che poi appare costituire il modo più pienamente metafisico di concepire tale realtà. Ma è comprensibile che questo possa suscitare un forte disagio presso i realisti di tutti i tempi (specie quelli moderni), i quali non a caso hanno cercato sempre di porre il concetto di «Essente» al posto di quello di «essere». Il che corrisponde poi al sottrarre tale realtà alla dimensione astratto-concettuale riportandola interamente sul piano dell’esistenza reale. È evidente che uno dei maggiori protagonisti di questa operazione è stato Heidegger. Ma intanto la lettura di un libro come quello di Nicolai Hartmann Nicolai Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1968 scritto nel 1949 – unitamente alla lettura della sua precedente e più estesa opera Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Wolter de Gruyter, Berlin 1941 – pone davanti a questa operazione in una maniera molto più obiettiva e sobria, in quanto esente dai vertiginosi funambolismi (da giocoliere del pensiero e del linguaggio) ed inoltre astrusità che caratterizzano il pensiero di Heidegger. Per questo l’analisi di queste opere ci sembra particolarmente appropriata per esaminare criticamente l’appello all’ontologia fatto dal fisico quantistico e filosofo Wolfgang Smith nelle sue opere.
In questo articolo ci riferiremo comunque soprattutto alla prima opera menzionata di Hartmann (NWO), in quanto essa è ben più agile e breve della seconda, ed ha inoltre il merito di porre la necessità di una nuova ontologia (incentrata unicamente nell’Essente) in relazione con prospettive filosofiche e scientifiche piuttosto ampie, estremamente attuali ed infine trattate in maniera estremamente pragmatica. E tuttavia in ogni caso ci riferiremo anche alla seconda opera (sebbene in maniera molto ridotta data la sua molte) laddove ciò si rivelasse necessario.
Ma, collateralmente al nostro scopo primario, ci interessa anche chiarire se la nuova ontologia abbia per davvero il diritto di prendere il posto di quella antica, presentandosi così a noi come la disciplina con la quale oggi bisognerebbe confrontarsi allorquando si sente l’esigenza di chiamarla in causa. Del resto a ciò va aggiunto che la trattazione di una nuova ontologia rappresenta comunque un’operazione filosofica che è impossibile trascurare, dato che (aldilà dei tentativi di diversi pensatori del XIX e XX secolo di riesumare quella antica) essa è provocatoria e assertiva per definizione, e quindi non si lascia ignorare tanto facilmente. Infatti il parlare di una nuova ontologia in uno scenario filosofico nel quale si era ritenuto che tale disciplina fosse ormai morta e sepolta per sempre, implica la necessità di constatare che questo seppellimento forse non è mai stato del tutto giustificato. Sta di fatto però che la nuova ontologia di Hartmann non è più nemmeno lontanamente somigliante a quella antica. Essa infatti pretende di essere totalmente realistica (avendo liquidato per sempre il concetto di una realtà trascendente) ed inoltre definisce sé stessa come una vera e propria scienza. Inoltre in ZGO Hartmann chiarisce a più riprese che essa non coincide affatto con la metafisica, e quindi non costituisce affatto (come quella antica) un’«onto-metafisica», sebbene comunque della metafisica sia rimasta in ontologia la dimensione della misteriosità e insolubilità di alcune questioni [Nicolai Hartmann. Zur Grundlegung…cit., Einleitung 1-8 p. 1-12, 10-11 p. 14-19, 13 p. 21-23, 16-17 p. 27-31, I, I, 1a p. 39-40, I, I 2b p. 44-46, I, I 3bc p. 47-49, II, II, 5a p. 57-59, II, II, 7b p. 68, II, III, 8a p. 72-73, II, I, 12bc p. 95-97, III, I, 22d p. 154-156, III, I, 23a p. 156-157]. In ogni caso, se mettiamo insieme l’intera esposizione di Hartmann in ZGO, possiamo constatare che per lui la metafisica è in fondo ancora giustificata, purché si rassegni a costituire appena lo sfondo inconoscibile dell’essere. Pertanto per lui l’ontologia ha semmai l’ambizione di costituire uno sguardo filosofico-scientifico estremamente sobrio gettato sul mondo così com’è. Ed in questo è senz’altro molto diversa dall’antica conoscenza onto-metafisica. E quindi, nello studiarla, si è costretti a prendere atto di prospettive e concetti completamente nuovi rispetto a quelli dell’antica ontologia. In altre parole, chi oggi ritenesse necessario chiamare nuovamente in causa l’ontologia, è costretto a verificare prima se intende riferirsi a quella antica o a quella nuova. E poi (almeno in via di principio) si vede di fatto costretto a riferirsi sola alla prima.
Non sembra proprio però che Smith si sia sentito obbligato a questo atto di scelta. Egli infatti, in veste di
filosofo e fisico quantistico (e quindi di esponente della scienza empirica), sembra aver ritenuto di poter riferirsi unicamente all’antica ontologia, ossia all’onto-metafisica. È dunque in questo modo che egli si è dedicato all’opera di applicare l’ontologia alla scienza, senza preoccuparsi minimamente di ciò di cui invece Hartmann si preoccupa molto, e cioè della necessaria sintonia che oggi l’ontologia (una volta chiamata in causa) dovrebbe avere con la scienza empirica. Laddove egli presuppone che quest’ultima non si occupi di entità para-metafisiche ma invece di entità assolutamente reali (che esse siano fisiche, animiche o spirituali).
Ebbene il nostro scopo primario in questo articolo è quello di capire se questo riferimento all’onto-metafisica antica è davvero giustificato in un ambito eminentemente scientifico com’è quello che Smith indaga. Dobbiamo però a questo punto precisare che noi personalmente non condividiamo affatto il nuovo assetto (iper-realista e scientifico) che Hartmann ha dato all’ontologia. Dato che riteniamo che quest’ultima abbia ricevuto la sua forma definitiva nel suo assetto antico e tradizionale, e quindi corrisponda anche perfettamente alla conoscenza metafisica. Il che fa poi sentire molto la mancanza della trattazione del concetto di «essere» una volta nella sua dimensione astratto-concettuale. E per di più riteniamo che questo concetto abbia ricevuto la sua definizione ben prima che nel pensiero di Aristotele, e cioè nel contesto di quella cosiddetta Scienza Sacra originaria e primordiale che secondo noi rappresenta la vera fonte di ogni filosofia. E questa è quella della quale (riducendo di molto la ricchezza delle fonti) ci hanno parlato pensatori tradizionalisti come Guénon e Schuon specie in alcune loro opere più prossime all’ontologia
[René Guénon. Il Regno della quantità e i segni dei tempi Adelphi Milano 2006; Frihtjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013; Frithjof Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988]. E per questo riteniamo imprescindibile in particolare la riflessione di Guénon, secondo il quale la vera natura dell’essere è effettivamente astratto-concettuale in quanto è radicalmente trascendente, dato che coincide in verità unicamente con il concetto di «essenza» ideale e sovra-essenziale, che poi corrisponde largamente alla visione platonica dell’Idea come la più reale delle cose [René Guénon, Il Regno…cit., 57 p. 300-304; 69-75 p. 355-396]. Ma più o meno delle stesse cose parla anche Schuon [Frithjof Schuon, Sulle tracce… cit., 2 p. 19-29; Frithjof Schuon, Logica… cit., 9 p. 139-144].
Tuttavia è evidente che né Aristotele, né Hartmann né Smith fanno riferimento a questo genere di ontologia, sebbene (come vedremo) l’ultimo pensatore incentri la sua ontologia proprio su questa visione platonica. Anzi uno dei principali bersagli critici di Hartmann, oltre che Aristotele, è proprio Platone con la sua dottrina dell’essere ideale trascendente.
Detto questo, l’appello di Smith dovrebbe sembrarci incondizionatamente giustificato. Eppure non è così. Sia per la scarsa chiarezza del suo concetto di “ontologia” sia anche per il fatto che egli intende applicare quest’ultima ai dilemmi della più avanzata tra le scienze empiriche, e cioè la Fisica quantistica. E questo appare a noi contraddittorio e sospetto per definizione, dato che nulla può essere più lontano dal concetto tradizionale di «essere» quanto lo è la più estremamente moderna delle scienze empiriche. E di questo sembra del resto consapevole lo stesso Smith, dato che egli denuncia la cattiva piega presa dalla scienza empirica a partire dall’Illuminismo e poi ancor più dal Positivismo. Secondo lui infatti le linee lungo le quali si è mossa la Fisica quantistica trovano la loro radice proprio in queste erronee premesse.
A causa di tutto questo, quindi, bisogna secondo noi essere molto prudenti nell’accettare che la correzione di tale tendenza possa avvenire servendosi dell’antica onto-metafisica. Quest’ultima infatti non si presta secondo noi ad alcuna forma di commistione con la moderna scienza empirica (mentre invece vi si presta in qualche modo la nuova ontologia di Hartmann). E questo perché la sua vera natura (anche andando oltre il suo apparente padre, Aristotele) trova la sua espressione solo nella metafisica tradizionalista. Bisogna quindi supporre che, se Smith avesse voluto essere davvero coerente, avrebbe dovuto semmai fare riferimento alla nuova ontologia, ossia una disciplina naturalmente in sintonia con la scienza. Tuttavia non sappiamo se il pensatore abbia mai avuto conoscenza di questa disciplina. E quindi è probabile che egli si sia servito di quello che effettivamente aveva a disposizione.
Vedremo comunque che alla fine Smith, nel suo argomentare, non si trova in linea né con l’antica né con la nuova ontologia. E questo per un fatto sostanzialmente negativo, ossia perché il suo intendimento del termine (e della relativa disciplina) è distorto da una sua interpretazione non solo estremamente personale e arbitraria ma anche evidentemente compromessa dalla carenza di letture in questo ambito, ossia dalla carenza o superficialità delle sue conoscenze in campo ontologico. Ma oltre a ciò è possibile anche che il pensatore abbia comunque intuito che l’ontologia da chiamare in causa non poteva essere compromessa né con le sue forme antiche né con le sue forme moderne. E questo sarebbe estremamente lodevole.
In ogni caso vedremo poco a poco – nel corso dell’esposizione sintetica delle idee da lui esposte nel libro “Phisics: a science in quest of a ontology” (PSQO) [Wolfgang Smith, Physics: A Science in Quest of an Ontology, Amazon 2023] − che il riferimento di Smith all’ontologia (nonostante le sue imprecisioni, carenze e contraddizioni) non solo diviene sempre più chiaro ma anche più plausibile, e ci permette così di attribuire (almeno parzialmente) la disciplina di cui egli parla in parte tanto all’antica quanto alla nuova ontologia.
1- Smith e l’ontologia.
A tutto quanto diremo va premesso che, molto in generale, non è assolutamente chiaro, lungo tutto lo scritto, cosa Smith intenda con i termini “ontologia” ed “ontologico”. Ma in diversi punti dell’esposizione è possibile avanzare su questo almeno delle ipotesi. In ogni caso, a moderazione di questa critica, vi è da constatare che in un passo del suo libro Smith parla di “ontologia della fisica”. È ipotizzabile quindi che egli si riferisca ad un’ipotetica ontologia che è ciò che è in quanto è espressamente destinata a venire applicata alla Fisica quantistica. E questo quindi impone al suo appello le restrizioni delle quali abbiamo appena parlato. Quale sia però la fonte filosofica di questa ontologia non è dato saperlo. Quanto poi ai suoi contenuti, essi sarebbero quelli esposti da Smith stesso, così che è estremamente probabile che si tratti non dell’ontologia in assoluto ma invece della sua personale ontologia. In ogni caso, una volta ammesso questo, bisogna concluderne che (almeno nelle sue linee generali, a parte alcune eccezioni) quanto il pensatore definisce come “ontologia” è qualcosa che è stato sempre sconosciuto ai filosofi.
Innanzitutto, diversamente da quanto ci mostra Hartmann in NWO e soprattutto in ZGO, Smith sembra considerare l’ontologia equivalente alla metafisica. Ma sembra inoltre anche considerare quest’ultima come una forma di conoscenza compiuta, e quindi non solo in grado di trattare in maniera esauriente i problemi che affronta ma anche di concorrere pari a pari con la conoscenza scientifico-empirica. Hartmann ci lascia intendere che invece l’ontologia è (almeno in gran parte) diversa dalla metafisica in quanto è sostanzialmente scientifica e non filosofica. Inoltre per lui la metafisica non è affatto in grado di conoscere a fondo gli stessi oggetti della scienza empirica, ma invece si limita a trattare questioni che restano sullo sfondo tanto della ricerca filosofica che di quella scientifica, e ciò per il fatto che tali questioni sono e restano di fatto insolubili. Secondo lui quindi la metafisica non ha alcuna possibilità di costituire una conoscenza compiuta. E quindi si presta molto poco a risolvere i dilemmi della scienza, come invece Smith ritiene che sia pienamente possibile.
A tale proposito abbiamo immediatamente l’immagine della contraddizione alla quale soggiace l’operazione smithiana quando egli invoca in concetto di “totalità irriducibile” (da lui attribuito tanto all’intero essere quanto al cosmo quanto all’individuo), considerandolo peraltro come un concetto squisitamente metafisico. Orbene nulla è più lontano (come poi vedremo) dall’assetto che Hartmann ha dato all’ontologia, dato che essa aborre qualunque tentativo (certamente tipicamente antico-metafisico) di ridurre ad una totale unità l’essere, il mondo e l’uomo. Questo significa infatti per lui tradire la realtà sulla base di visioni pregiudiziali e soprattutto unilaterali, che hanno sempre vanamente tentato di ridurre l’essere ad uno solo dei suoi diversi aspetti; che per lui sono tutti realmente esistenti [Nicolai Hartmann, Zur Grundlegung…cit., Einleitung, 19 p. 33-35, II, II, 6c p. 65-66, II, II, 7a p. 66-68, II, III, 18c p. 129-133, IV, II, 42a p. 267-268]. Mentre invece per Smith (in pieno accordo con le aspirazioni dell’antica metafisica) l’unificazione implica il chiarimento ultimo della realtà. Per Hartmann infatti l’essere è per definizione molteplice (e proprio per questo fatto a strati) per cui non è riconducibile ad alcuna totalità, specie se definita come “irriducibile”. Peraltro Smith afferma che la Fisica quantistica pretende essa stessa di configurare un’unità ed un ordine che fanno di essa (almeno tendenzialmente) un’immagine decisamente “ontologica” del mondo. Ma questo per Hartmann non è altro che uno dei tanti monismi metafisici, e quindi non ha alcun reale valore scientifico. Tuttavia comunque vedremo più avanti quanti dubbi vengono sollevati da una definizione del mondo fisico sub-particellare (il più basso che esista) che pretenda di fare di esso quello che più contraddice quello che Hartmann definisce lo strato più inferiore dell’essere; cioè appena uno degli strati dell’essere ed affatto invece l’essere nella sua totalità ultima. Su questo comunque Smith appare essere assolutamente d’accordo con Smith dato che per lui il mondo sub-particellare quantistico equivale tutt’altro che all’essere. Esso infatti non ha semplicemente i caratteri oggettuali e realistici dell’Essente.
Dall’ontologia Smith si aspetta comunque la soluzione dei misteri che sono derivati allorquando (da Heisenberg a Schrödinger) in poi è crollato per sempre il dogma della Fisica classica, e cioè quello secondo il quale la realtà fisico-materiale (in obbedienza a Cartesio con la sua famosa “biforcazione” dell’essere tra res extensa e res cogitans) non sarebbe stato altro che res extensa, ossia ricadente pienamente nel campo della categoria della spazialità e dell’estensione. Da quel momento in poi è iniziata ad emergere l’evidenza secondo la quale la sub-particella (quella che secondo loro è davvero il fondamento del mondo fisico e quindi della materia) non sarebbe altro che una “funzione d’onda”, e quindi una realtà puramente probabilistica. La sua esistenza è insomma per nulla oggettiva ma invece puramente relativa alla misura.
E ciò ha generato quel mistero della misura che Smith ritiene di poter risolvere nel concepirlo in una maniera “ontologica”. Affermazione con la quale egli intende una serie di evidenze metafisiche che vedremo più avanti, tra le quali si ritrova anche quella della totalità irriducibile. In questo egli trova comunque giustificata l’affermazione di Feynmann secondo la quale la Fisica quantistica sarebbe sostanzialmente incomprensibile. E questo perché anche secondo lui questa serie di rivoluzioni concettuali in Fisica ha stravolto completamente l’evidenza più immediata e razionale.
Ma il senso dell’appello smithiano all’ontologia diviene molto più chiaro allorquando egli – ricollegandosi all’altra sua opera “The Quantum enigma” (QE) [Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001] – ci suggerisce che il biforcazionismo cartesiano ha fatto si che considerassimo irreale il mondo esteriore e conoscibile nel quale siamo immersi. Dunque, secondo lui, l’enigma della misura deve essere risolvibile per via “ontologica” proprio per il fatto che le apparenti stranezze irrazionali della Fisica quantistica (del tutto incompatibili con l’antecedente assetto della Fisica) in realtà nascondono una serie di fenomeni che avvalorano pienamente l’esistenza di un mondo esteriore (res extensa) diverso dal soggetto conoscente (res cogitans). Esse insomma porterebbero alla luce un’autentica ed irriducibile oggettualità oggettiva sulla quale il soggetto non ha alcun influsso. Ed infatti egli ci informa del fatto che il solo apparente mistero della misura fu risolto solo allorquando la premessa cartesiana venne finalmente rigettata dagli stessi fisici quantistici. L’ipotesi guida da lui impiegata in questo (sulla base di esperimenti condotti sulla percezione visuale da Gibson) è che la nostra percezione del mondo esteriore non si verifica per mezzo di elementi derivanti dalla scomposizione atomistica dell’oggetto (che impressionano poi la retina venendo in essa di nuovo riunificati) ma invece avviene invece in blocco, ossia come una vera e propria totalità irriducibile. In termini onto-metafisici ciò corrisponde per lui alla forma dell’antica metafisica. Ma vedremo poi con Hartmann che la nuova ontologia svaluta totalmente la teoria della forma in quanto essa otterrebbe l’unità del mondo per mezzo del sacrificio della molteplicità che invece caratterizza l’essere. Per lui invece la Totalità conoscibile non è altro che l’Essente nella sua piena realtà in quanto “ciò che è”. E per questo rimandiamo il lettore all’analisi più accurata di ZGO che abbiamo fatto in un altro nostro articolo [Vincenzo Nuzzo, “Nicolai Hartmann. La nuova ontologia e la ricostruzione della conoscenza”, in: http//:cieloeterra.wordpress.com/2023/10/27/vincenzo-nuzzo-nicolai-hartmann-la-nuova-ontologia-e-la-ricostruzione-della-conoscenza].
Ed eccoci dunque di fronte all’impiego da parte di Smith di un concetto antico che l’ontologia moderna ha destituito totalmente di fondamento. Questo impiego dell’ontologia induce comunque il pensatore a considerare il “corporale” come la totalità irriducibile che noi cogliamo nel mondo esteriore, senza che il soggetto (res cogitans) giochi alcun ruolo in questo processo. Il che coincide poi con l’oggettivo-oggettuale nella sua indipendenza che rappresenta il mondo reale esteriore. E questo si ricollega per lui alla riflessione sulla relazione che esisterebbe tra l’oggetto corporale effettivo (X) e l’oggetto fisico (SX) che cogliamo unicamente per mezzo della misurazione entro la Fisica quantistica.
Insomma abbiamo immediatamente qui davanti a noi il senso che egli attribuisce all’aggettivo “ontologico” (e quindi anche all’ontologia) – esso corrisponde a quanto è ordinariamente percepibile nel contesto dell’esperienza mondana, ossia il mondo corporale stesso. Ma è assolutamente evidente che questo lo pone fin dall’inizio in radicale dissidio con l’onto-metafisica antica, la quale invece definiva sé stessa come una scienza dell’essere che per definizione trascendeva il sensibile. Ebbene bisogna dire che questo dissidio resta in tutta l’opera di Smith, costituendo così il suo principale limite concettuale (in quanto lampante contraddizione), e dunque mostrandoci chiaramente che (almeno per certi versi) egli ha profondamente frainteso il concetto di ontologia. Egli ha cioè identificato l’«ontos» con la sola dimensione corporale.
E questo non viene affermato nemmeno da Hartmann, pur con tutto il suo realismo. Dato che per lui l’«ontos» non è altro che la totalità dell’Essente, ossia qualunque aspetto e livello reale del mondo (dal corporale allo spirituale).
Comunque, nel momento in cui Smith affronta il problema della misura quantica, inizia a divenire ancora più chiaro cosa egli intenda come “ontologia”. Egli presuppone infatti una “differenza ontologica” tra l’oggetto fisico (l’oggetto SX, non unitario in quanto rappresentato appena da particelle e quindi privo delle qualità che sono solo dell’oggetto unitario e pertanto non percepibile sensorialmente) e l’oggetto corporeo (l’oggetto X, unitario, provvisto di qualità e percepibile, ma del quale non percepiamo le particelle componenti). Dunque il problema della misura (in Fisica quantistica) è per Smith irrisolvibile perché, essendo lo strumento di misurazione esso stesso corporeo, non permette di percepire ciò che non giunge ad essere corporeo, ossia quell’oggetto fisico che è esclusivamente particellare, anzi radicalmente sub-particellare. Esso è insomma solo «parte» e non «corpo», ossia non è un Tutto.
Ancora una volta sembra quindi che egli si riferisca al dominio ontologico come quello che è caratterizzato dalla categoria della corporeità in quanto percepibile e quindi sensibile. Quanto poi alla fisicità essa sarebbe per lui esclusa dal dominio ontologico in quanto non percepibile.
Insomma il ragionamento scientifico-metafisico è qui alquanto confuso per vari motivi: − attribuzione all’ontologia della sola categoria della corporeità, esclusione della categoria della fisicità dall’ontologia, identificazione totale della sola corporeità con la percepibilità, ipotesi che esista una sorta di secondo mondo «non-ontologico» (caratterizzato da oggetti fisici che di fatto sono dei non-oggetti) e che sarebbe stato aggiunto all’essere da parte della Fisica quantistica. Sembra insomma che vi siano qui diverse illazioni del tutto infondate. Soprattutto ci si chiede a quale ontologia Smith abbia attinto per riconoscere in essa la possibilità di ricavarne questi contenuti e queste affermazioni. Per quanto ne sappiamo non è mai esistita un’ontologia che abbia sostenuto tutto questo, meno che mai quella antica e nemmeno quella moderna di Hartmann. Di conseguenza diviene del tutto arbitrario anche l’aggettivo “ontologico” entro l’uso che Smith ne fa. Certo è che la nuova ontologia di Hartmann menziona chiaramente la dimensione fisica tra le categorie più basse dell’essere; ma senza che la categoria della corporeità sia affatto in concorrenza con essa né la abolisca. Oltre a ciò Smith sembra voler escludere dall’ontologia tutti gli oggetti dei quali si occupa la scienza empirica più avanzata – come se essi non appartenessero affatto all’essere. Ne dobbiamo concludere che in definitiva per lui ontologia è tutto ciò che non è scienza nell’osservazione dell’essere, e quindi che l’ontologia sarebbe una disciplina che si occupa dell’essere in modo solo parziale – e precisamente entro i limiti di un determinato frasario, includente determinati termini (come forma, sostanza etc.) per designare le stesse cose che la scienza designa invece con un altro frasario. La questione insomma sarebbe solo meramente linguistico-concettuale. Ma questa è solo una nostra extrapolazione. L’ipotesi più probabile, invece, è che Smith parli di quella che è appena la «sua» personale ontologia, ossia ciò che egli personalmente (e arbitrariamente) intende con questo termine.
Tuttavia il discorso del nostro pensatore diviene ancora più astruso e arbitrario allorquando – ritenendo di aver finalmente risolto il problema della misura grazie al teorema di Dembski – non solo aggiunge alla causalità orizzontale (essa stessa ben nota categoria dell’essere entro la nuova ontologia di Hartmann) anche una curiosa ed oscura causalità “verticale”, ma ritiene quest’ultima stessa una tipica realtà ontologica. Cosa sia questa causalità verticale non è immediatamente chiaro, anche se il suo riferimento all’”intelligent design” sembra ricollegarla alla classica teleologia dell’antica metafisica. Tuttavia ciò diverrà comunque chiaro più avanti entro un discorso radicalmente metafisico che si rifà a Platone. In ogni caso Dembki ci mostrerebbe come causalità orizzontale (caratterizzata da un rigido determinismo dominato dalla concatenazione causale tra elementi isolati tra loro) non è in grado di spiegare alcuna “l’informazione specificata complessa”, ossia alcuna complessità di essere, e quindi alcun genere di individuo personale o di struttura ad esso somigliante. L’unico modo per spiegare quest’ultimo sarebbe invece una causalità svincolata dal cieco determinismo orizzontale, e quindi anche dalla mera concatenazione, e che quindi deve essere necessariamente verticale. Il che, in termini ontologici, significa per Smith che la causalità verticale deve emanare dal centro dell’essere per puntare direttamente ed incondizionatamente verso quell’unico e solo individuo, ossia verso un fine ben preciso ed assolutamente non preceduto da alcuno sviluppo orizzontale. E qui di nuovo l’ontologia smithiana collide frontalmente con quella di Hatmann, il quale ritiene che nell’essere non possa venire supposta alcuna teleologia [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., I p. 5-11, III-IV p. 20-35, VI, p. 44-51]. Infatti per lui la teleologia non è altro che il frutto dell’antica (e prevalentemente aristotelica) divisione dell’Essente in virtù della postulazione di due sfere completamente diverse e separate dell’essere, ossia la forma e la materia.
Oltre a ciò Smith chiarisce che la causazione verticale è ciò che permette il trapasso dal fisico al corporale, mettendoci così nella condizione necessaria per percepire e misurare. Essa sarebbe comunque per lui “ontologica” perché sfugge all’ambito nel quale operano le sole equazioni matematiche, che Smith dichiara incapaci per definizione di arrivare a comprendere alcuni rilevanti aspetti dell’essere. Ecco allora che per lui l’ambito dell’ontologia (almeno nel contesto dei problemi sollevati dalla Fisica quantistica) è interamente rappresentato dalla distinzione tra corporale e fisico ed inoltre dalla distinzione tra causazione orizzontale e verticale. In questo insomma si riassume la sua ontologia.
A ciò si aggiunge poi l’affermazione davvero incomprensibile secondo la quale il mondo degli oggetti fisici (tutti non percepibili ossia nascosti sotto l’oggetto corporale: particelle, frequenze…) apparterrebbe alla sfera delle res extensae, mentre invece il mondo degli oggetti corporali non vi apparterrebbe. Questo significa dunque due cose: − la corporalità non corrisponde all’estensione spaziale ed inoltre l’ontologia non include la categoria dell’estensione. E ciò sta nuovamente in grave conflitto con l’ontologia di Hartmann, oltre che con qualunque altra ontologia, inclusa quella antica.
Quelle appena menzionate (corporeo VS fisico, causalità orizzontale VS verticale) sarebbero comunque per Smith le prime due “concezioni ontologiche”. La terza concezione ontologica corrisponderebbe poi alla cosiddetta “totalità irriducibile”, che Smith dichiara essere strettamente intrecciata alla causazione verticale.
Si tratterebbe insomma di due facce della stessa medaglia che ancora una volta riguarda direttamente l’oggetto corporeo, dichiarato dal pensatore perfettamente equivalente ad una totalità irriducibile.
Questo perché esso non è in alcun modo una somma di parti, e precisamente di parti costituite dagli elementi tra loro separati di una concatenazione spazio-temporale. Ed ancora una volta l’ontologia collide qui con la Fisica, dato che quest’ultima non conoscerebbe veri oggetti proprio perché conosce solo elementi concatenati lungo una linea spazio-temporale. Ne consegue quindi che anche la spazio-temporalità andrebbe considerata (di nuovo in forte contraddizione con Hartmann) una categoria che non fa parte dell’essere; e questo perché la sua consecuzione non può in alcun modo generale una totalità, ossia un oggetto corporeo. Il che fa emergere poi un’istantaneità (propria dell’oggetto corporale) che diverge totalmente dalla causalità operante nel tempo, appunto la causalità orizzontale. Ecco dunque perché la causalità verticale è per lui l’unica che riguardi l’oggetto corporeo. E per porre tutto questo sul piano metafisico, Smith si riferisce alla stratificazione dell’essere concepita da Platone, entro la quale ha caratteristiche di oggetto soltanto ciò che non è soggetto al divenire. Ne dobbiamo dedurre che il nostro pensatore identifica il nucleo ontico della corporalità con l’idea-essenza di Platone, ossia quella entità ideale (quindi assolutamente non materiale) che ha la valenza di cosa trascendente e paradigmatica. Egli precisa che questo nucleo non è altro che l’eterno (“evi-eterno”), che è poi come un circolo centrato nell’idea-essenza-cosa trascendente, del quale la dimensione corporea rappresenterebbe invece la circonferenza esterna. Egli (richiamando Dante e la Divina Commedia) definisce questo luogo come il “perno” assolutamente centrale intorno al quale gira tutto il cosmo, ossia tutto l’essere percepibile.
Ora, Smith non sembra voler negare che l’oggetto corporale sia immerso anch’esso nel divenire (ossia nella consecuzione spazio-temporale). Ma per lui comunque, prima ancora che ciò avvenga, esso esisterebbe in forza dell’ascendenza al proprio nucleo trascendente. Il quale farebbe di esso una presenza eterna che proprio per questo è saldamente unitaria; almeno tanto quanto esso è insorto istantaneamente in forza dell’emanazione della causalità verticale dal centro assoluto dell’essere. E questa ascendenza è dunque proprio la stessa causalità verticale – laddove il verticale implica l’istantaneità della causazione onto-genetica ed anche della stessa esistenza attuale.
In altre parole l’oggetto corporeo sussisterebbe in virtù di una generazione verticale dal centro − assolutamente sottratta allo spazio-tempo (e quindi eterna), ed anche alla composizione come sommazione di parti nel tempo − che ne sorreggerebbe perennemente la presenza. Insomma essa è “una totalità irriducibile immediata”, come dice Smith.
Bisogna dire comunque che questo è forse uno dei pochi punti del libro nel quale è chiaro cosa Smith intenda con il termine “ontologia”. Egli sta infatti richiamando un’ontologia antica ben nota, ossia quella platonica; e peraltro con non pochi addentellati nel pensiero dell’idealismo vedantico [Ananda K. Coomaraswamy, Il Vedānta e la tradizione occidentale, p. 27-47, in: Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, Milano 2017, 1 p. 27-47; Ananda K. Coomaraswamy, Sulla psicologia, o meglio, sulla pneumatologia indiana e tradizionale, ibd. 21 p. 371-418] che però Smith non menziona. E dobbiamo dire che personalmente condividiamo pienamente queste concezioni in quanto esse rientrano in una metafisica religiosa fortemente contemplativa. Sta di fatto però che ciò ha poco a che fare con l’onto-metafisica antica alla quale Smith si riferisce, che non a caso non ha mai visto come protagonista né Platone né l’idealismo vedantico. In effetti invece, come abbiamo visto all’inizio, l’ontologia antica si è basata sempre prevalentemente su quella aristotelica. La quale del resto affronta direttamente il problema della definizione dell’essere. Cosa che invece Platone non fa.
In ogni caso Smith non esclude la totalità irriducibile dal dominio della quantità. E quindi il sussistere di questa categoria fondamentale dell’essere viene da lui rispettata.
Smith parla inoltre di “assiomi ontologici” per descrivere due altri fenomeni oltre quello della causalità verticale che genera l’oggetto corporeo, e cioè la causalità verticale emanante dallo stesso oggetto corporeo e la totalità irriducibile che è il prodotto di questo atto. E di nuovo qui viene un riferimento effettivo e credibile all’antica metafisica, dato che egli afferma chiaramente che la sua definizione di entità corporale corrisponde alla sostanza e precisamente a quella che egli chiama “forma sostanziale”. Si nuovo non è ben chiaro cosa egli intenda con quest’ultima entità, ma è opinabile che si tratti della forma agente sulla materia per produrre la sostanza prima, ossia l’oggetto metafisico trascendente che sta alla radice dell’oggetto corporale. Si tratterebbe insomma di quanto l’antica onto-metafisica aristotelica considerava l’universale sebbene nella sua collocazione immanente. Più avanti, facendo chiaro e coerente riferimento all’antica onto-metafisica (scolastica) Smith dirà poi che si tratta dell’”ens” quale “unum” e quindi della “quiddità”, designante ciò che un oggetto è inequivocabilmente. Ed infatti per la Scolastica l’”unum” rientrava negli Universali o Trascendentali. Ed infatti Smith dirà più avanti anche che la forma sostanziale è ciò che produce la totalità irriducibile, dato che essa si trova sul piano principiale corrispondente al centro dell’essere, ossia il livello più trascendente dell’essere stesso.
In ogni caso il carattere fondamentale di “sostanza” fa si, secondo lui, che l’oggetto corporeo sia un’unità da cima a fondo (un’assoluta unicità), e quindi non sia in alcun modo un composto di parti, né lo è stato mai nel corso della sua insorgenza. Esso è infatti insorto esattamente così com’è nel momento in cui lo osserviamo, ossia come assoluta unità ed inoltre come perfetta identità con sé stesso. È evidente che con ciò Smith (sebbene non lo dica) si riferisce a quella speciale onto-genesi oggettuale che è la Creazione divina.
E questo sarebbe quindi per Smith l’oggetto corporale nella sua effettiva realtà. Ciò significa allora che l’oggetto corporeo non è in alcun modo un “insieme” (come invece è l’oggetto SX della fisica), ossia non è composto di particelle e sub-particelle. Ora, tutto questo è plausibile onto-metafisicamente, eppure sembra che Smith si dimentichi (o forse ignori) del fatto che la sostanza per l’antica ontologia (prevalentemente aristotelica) è sì assolutamente unitaria ma intanto non corrisponde assolutamente all’oggetto corporale. Basta infatti dare anche solo una scorsa alle “Categorie” di Aristotele per comprendere che l’oggetto reale è una sostanza prima solo nella misura in cui contiene in sé altre sostanze (seconde) ad essa strettamente inerenti – e queste ultime non sono veri oggetti corporali in quanto non sono altro che le qualità (in Platone le idee) che confluiscono nell’unità dell’oggetto reale. Quanto poi alla sostanza prima essa non è altro che l’invisibile premessa metafisica dell’oggetto reale, ma non coincide affatto con esso.
Ebbene di tutto questo Smith non parla affatto, così che il suo discorso appare largamente lacunoso in termini onto-metafisici. Egli invece si limita ad insistere unicamente sull’insostenibilità dell’idea secondo la qiale la Totalità sia somma delle parti. Ma questo non è mai stato un oggetto di riflessione di alcuna ontologia (né antica né moderna), bensì appena della recentissima riflessione sulla dimensione «sistemica» dell’essere, ossia sulla natura organismica che caratterizza gli enti. Questa però è un’ontologia solo di riflesso.
Ma comunque Smith ritiene di muoversi sul piano ontologico anche nell’affermare che alla fine la stessa parte, ossia l’oggetto SX, è in fondo una totalità irriducibile ossia un’unità. Ed è proprio in virtù di questa stranezza che secondo lui la fisica quantistica resta incomprensibile. Tuttavia la totalità irriducibile proviene per lui all’oggetto SX unicamente dall’oggetto X, ossia dal vero oggetto corporale, e quindi di fatto l’oggetto SX non la possiede affatto (costituendo in tal mondo un’entità meramente “psichica”, ossia relativa unicamente all’osservazione strumentale). Ne deriva quindi che la scomposizione in parti dell’oggetto corporale comporta la perdita sia delle qualità (che sono solo unitarie) ma anche della stessa totalità irriducibile, e quindi in definitiva dell’oggettualità. E così egli ne conclude che senza totalità irriducibile non vi è essere. Il suo severo rimprovero alla Fisica quantistica è qui chiaro: − scomponendo i veri oggetti per via puramente strumentale, essa non ha ottenuto altro che uno sguardo gettato sul Nulla, ossia su ciò che non è essere (se vogliamo la Materia prima dell’antica metafisica). Ed in tal modo quindi la Fisica quantistica ha finito per non conoscere un bel nulla. Ma comunque, aldilà di questo, possiamo qui comprendere che Smith intende per “ontologia” non la disciplina nota ai filosofi ma semplicemente l’effettiva presenza dell’essere nella sua integralità. La quale però coincide per lui con una ed una sola categoria ossia la corporalità sensibile. L’essere sarebbe quindi mono-categoriale. E questo cozza decisamente sia con l’antica onto-metafisica sia anche con la nuova ontologia di Hartmann.
Ma comunque Smith aggiunge a questo punto all’ontologia una nuova dimensione (corrispondente pienamente all’oggetto SX) e cioè quella “transcorporale”. Naturalmente non vi alcuna traccia di entità come queste nell’ontologia (antica o nuova che sia), per cui appare qui più chiaro che mai che il riferimento del pensatore a questa disciplina è del tutto abusivo e arbitrario, basandosi unicamente su sue personali elucubrazioni e definizioni che non trovano alcun riscontro nelle dottrine note alla filosofia. Eppure egli insiste su questa invocazione dichiarando che il fenomeno paradossale della multilocalizzazione delle particelle si spiega con il fatto che le entità transcorporali sarebbero delle “potentiae”. Ecco ancora una volta il riferimento ad un concetto realmente ontologico (e precisamente di nuovo alla Materia prima).
E però intanto cos’abbia a che fare tutto questo con il concetto di potenza nella sua completezza è davvero difficile comprenderlo.
Dopo aver affermato tutto questo, a Smith non resta che definire l’ontologia come il campo dell’essere oggettivo ed effettivamente oggettuale (percepibile) rispetto al quale la dimensione transcorporale (coincidente con il mondo apparentemente scoperto dalla meccanica quantica) non sarebbe altro che un apparente essere, ossia un vero e proprio non-essere, che sussiste solo in virtù dell’assolutamente nuovo fenomeno (reso possibile da strumenti mai prima esistiti) dell’interazione dell’uomo con la Natura. L’uomo non è più, dunque, spettatore della Natura, ma invece assume rispetto ad essa una posizione «partecipativa» e quindi interattiva. Dunque la Fisica quantistica non sarebbe altro che questo, ossia una specie di artefatto dell’osservazione umana per mezzo dello strumento, e cioè una mera e del tutto vana e vuota creatura del progresso tecnologico. Ma intanto, nonostante questo, per Smith non cesserebbe mai il movimento centrifugo per mezzo del quale, a partire dal nucleo centrale dell’essere (perno del cosmo) l’essere stesso si irradia (per mezzo della causalità verticale) trasferendosi fino alla pur del tutto inconsistente dimensione transcorporale. Ora, è del tutto chiaro che questa non è altro che un’interpretazione molto riduttiva di ciò che è ontologia – un’interpretazione che può venire sostenuta soltanto perché le stranezze della Fisica quantistica costringono a riprendere in considerazione cos’è davvero «essere». Sta di fatto però che qui non si parla affatto dell’essere come vero tema di conoscenza.
Si parla invece soltanto dell’essere che traspare tra le maglie delle astrusità matematiche della Fisica quantistica; e quindi un essere che è stato inutilmente coartato da una ricerca della quale avremmo (almeno filosoficamente) potuto fare benissimo a meno. Quello che è certo è comunque che quest’ultima, come Smith dice a chiare lettere, non ha alcun diritto di ritenere di avere scoperto la realtà prima, ossia la radice dell’essere. Ed a proposito di tale osservazione critica va notato (come abbiamo fatto notare all’inizio) che l’appello del pensatore all’ontologia (per quanto confuso e contraddittorio) diviene almeno in questo del tutto legittimo – cioè almeno dal punto di vista di una giustificata critica filosofico-metafisica alla scienza empirica moderna. Egli ci fa notare infatti che l’ossessiva “caccia all’inosservabile”, iniziata con il Positivismo e raggiungente poi il suo culmine in Einstein, ha portato alla fine alla catastrofica scomparsa del concetto di sostanza, e conseguentemente al dissolversi del concetto di oggettualità. Ciononostante, molto opportunamente, il pensatore ci fa osservare che il mondo transcorporale (e quindi il mondo della Fisica quantistica) non sussisterebbe affatto se esso fosse restato in continuità con la reale fonte dell’essere (il perno del cosmo). E l’intermediario di questa continuità resta quell’oggetto corporeo che noi ancora ordinariamente conosciamo nonostante le astrusità (tutto sommato inutili) della meccanica quantica.
Ebbene di questo, secondo Smith, bisogna rendere grazie alle osservazioni auto-critiche di Heisenberg.
Posto tutto questo possiamo avere un altro varco di accesso all’intendimento di ontologia da parte di Smith. Egli dice infatti che il mondo della Fisica quantistica rappresenta null’altro che un «micro-mondo» del tutto secondario rispetto al «macro-mondo» costituito dagli oggetti corporali. Ne risulta che “ontologico” è per lui ciò che è davvero primario nella struttura del mondo e conseguentemente anche nella concezione del mondo e nella sua conoscenza. Ed in questo diremmo che (nonostante la mono-categorialità da lui affermata) la sua ontologia coincide abbastanza con quella realistica di Hartmann.
Del resto tutto ciò è estremamente illuminante, servendo anche a riconciliare il filosofo con l’ontologia di Smith. Egli afferma infatti che lo “statuto ontologico” delle sub-particelle quantiche è caratterizzato dal fatto che esse ricevono dal mondo corporeo tutto ciò che sono. Ne risulta (come ancora una volta sospettato da Heisenberg) che esse in sé non sono altro che non-essere, ossia molto probabilmente (come dicevamo) Materia prima, e cioè la pura potenza dell’antica onto-metafisica. Il che ci porta a dover correggere l’affermazione critica che avevamo fatto prima – Smith non aggiunge all’essere alcuna categoria (l’ultracorporeo) ma si limita invece a parlare semplicemente del non-essere, ossia di qualcosa che è stato aggiunto pleonasticamente all’essere da parte della Fisica quantistica. Ma del resto naturalmente l’antica metafisica ha sempre tenuto ben presente la realtà del non-essere. Anzi Parmenide costruì il proprio concetto di essere proprio dalla rigorosa sua differenziazione dal non-essere.
Da tutto ciò risulta, secondo Smith (e qui con tutta la ragione), che non è nemmeno pensabile che le sub-particelle possano essere considerate le parti che vanno a costituire l’oggetto corporeo. Egli afferma infatti a chiare lettere che esse non sono affatto “particelle reali”. E questo significa che le sub-particelle non hanno alcuna possibilità (in quanto parti) di andare a costituire l’oggetto corporeo, dato che non sono altro che “potentiae”. Detto questo appare per lui chiaro che le entità della Fisica classica non ricevono affatto il loro essere dalle sub-particelle classiche, ma invece solo dal dominio corporeo, ossia dal dominio del percepibile o sensibile. E proprio per questo tale disciplina può essere ciò che è nella sua essenza, ossia «scienza della misura». Il che significa che la Fisica può esistere solo come dominio del quantitativo, al di fuori del quale essa non può affermare assolutamente nulla. Ma intanto proprio questo è per Smith “ontologia”, e quindi essa designa semplicemente il reale e del tutto evidente «è» delle cose. In questo senso quindi il nostro pensatore converge nuovamente con l’ontologia assolutamente realista di Hartmann. In ogni caso Smith chiarisce che l’unico modo perché una sub-particella irreale diventi reale (e quindi parte di un corpo) dipende dall’irradiazione della totalità irriducibile da parte di un’entità corporea, il che equivale all’incorporazione della sub-particella da parte dell’oggetto corporeo, che soltanto in tal modo cessa quindi di costituire il non-essere. Questo quindi è il modo in cui l’entità corporea prosegue la primaria ed originaria emanazione di totalità irriducibile dal centro dell’essere. Solo in questo modo è possibile il passaggio della sub-particella dalla potenza all’atto, che non è quindi mai un atto della particella stessa.
Non prenderemo in considerazione la gran parte delle considerazioni di Smith nella seconda parte del suo libro, dato che abbiamo già elementi a sufficienza per chiarire la questione che ci interessa ed anche perché il pensatore si diffonde qui in argomentazioni secondarie. Nel complesso diremo soltanto che in questa seconda parte della sua opera egli dà voce in modo chiaro all’aspirazione che evidentemente sorregge il suo intero progetto scientifico-metafisico, e cioè quella che afferma l’assoluta impossibilità di concepire l’essere come qualcosa che insorga “dal basso”. Il che ci mostra come effettivamente la moderna Fisica quantistica – ben lungi dall’essere una straordinaria rivelazione della vera natura dell’essere (come molti oggi sono disposti a credere) – non è altro che l’estremo frutto scientifico del riduzionismo illuminista e positivista. Non a caso in questo essa converge totalmente con l’evoluzionismo che il nostro pensatore non manca di criticare serratamente in questa parte della sua opera.
E su tutto questo non possiamo che essere totalmente d’accordo con Smith.
2- L’ontologia realista di Hartmann.
Una volta giunti a questa conclusione positiva, dobbiamo però dire che l’analisi degli scritti di Hartmann – entro i quali viene dato un volto a quella che egli definisce nuova ontologia e precisamente un’ontologia realistica, scientifica ed in gran parte non metafisica (se non nelle sue sfumature) – ci permette di osservare che il complessivo progetto di Smith finisce per divenire pericoloso e controproducente proprio per una visione metafisica dell’uomo e del mondo. Infatti, se in esso si introduce l’antica onto-metafisica, la riflessione diviene molto spesso proprio per questo lacunosa, poco autentica e fuorviante (specie a causa della scarsa precisione dei concetti in essa esposta). Mentre, se in esso viene introdotta l’ontologia (sostanzialmente non metafisica) che è emersa nel pensiero più avanzato del XX secolo (come quello di Hartmann), la riflessione diviene addirittura contraddittoria rispetto ai propri scopi. Questa ontologia infatti non ha la benché minima intenzione di correggere la scienza nella sua descrizione della realtà e nei principi che essa ne deduce.
Su questo ci diffonderemo nelle conclusioni, però abbiamo già visto che tutto sommato in Smith non accade né l’una né l’altra cosa; dato che la sua ontologia converge molto spesso sia con quella antica che con quella moderna.
E tuttavia restano nella sua esposizione molte carenze, contraddizioni ed oscurità. Dunque, per questo motivo, anche se non condividiamo affatto l’ontologia scientifica ed iper-realistica di Hartmann, ci sembra necessaria discuterla a margine del progetto di Smith in modo che non insorgano equivoci nell’invocazione da parte di quest’ultimo proprio dell’ontologia come strumento dottrinario per completare una riflessione (quella dei fisici) che a lui appare carente e troppo piena di difficoltà non risolte. Del resto l’onto-metafisica antica alla quale Smith si rifà di fatto non esiste più, mentre invece, nel corso del XX secolo, si sono accumulate troppe revisioni di questa disciplina per permettersi di ignorarle completamente.
Ebbene la nuova ontologia di Hartmann vuole essere una scienza empirica (molto diversa dalla filosofia metafisica e quindi dalla tradizionale onto-metafisica), e precisamente nel porre come primaria l’effettiva conoscenza di un super-oggetto (Essente), i cui principi (categoria) sono molto lontani dai principi della conoscenza critica (teoria della conoscenza). Essi vanno ricercati infatti su un piano che è lo stesso della scienza.
E quindi le aspirazioni di Smith rispetto alla gnoseologia della nuova Fisica si dovrebbero in verità concentrare sull’accento posto sulla conoscenza effettiva di un oggetto, ed in null’altro. Smith afferma del resto proprio questo in QE, ma poi in PQO va alla ricerca di un’ontologia che riempia le lacune della Fisica per mezzo di concetti che in parte derivano dall’antica ontologia ed in parte vengono forgiati da lui stesso in modo autonomo ed arbitrario. Intanto comunque l’antica ontologia viene severamente condannata da Hartmann come del tutto inadeguata a comprendere l’essere. E quindi – posto che Smith è uno scienziato e le sue osservazioni critiche sono dedicate alla correzione della scienza empirica – almeno in via di principio se egli vuole fare ricorso all’ontologia, dovrebbe rivolgersi a quella nuova e non a quella antica. Ma sta di fatto che, se si invoca al suo modo la prima e non la seconda, allora alcuni concetti (come quello di sostanza) appaiono totalmente destituiti di fondamento fin dall’inizio e quindi non si prestano affatto allo scopo perseguito da Smith. Infatti abbiamo constatato che la sua intera ontologia si incentra su questo molto poco chiaro concetto.
Ne deriva che (per quanto il suo complessivo progetto possa venire considerato lodevole) il nostro pensatore rischia fortemente di finire per seguire una strada anacronistica, che (almeno in relazione all’assetto della nuova ontologia) è destinata al fallimento per definizione. Infatti due sono le possibilità: −
1) o si impiega l’antica ontologia, che però non ha nulla a che spartire con la scienza moderna (inclusa la Fisica) e soprattutto non si presta in alcun modo al suo reale chiarimento; 2) oppure si impiega la nuova ontologia che però non aggiunge nulla di nuovo alla moderna scienza e quindi non ambisce nemmeno a risolvere i dilemmi in cui essa si dibatte (essa infatti ricerca i principi dell’essere sullo stesso piano sul quale si muove la scienza moderna). E questo Hartmann lo afferma in modo chiarissimo in ZGO; e rimandiamo il lettore all’altro nostro articolo per prenderne atto.
Una volta chiarito tutto questo, emerge una serie di questioni entro le quali Smith pretende di ricondurre la Fisica a concetti onto-metafisici antichi, specialmente ad una visione metafisica ed animico-spirituale del mondo che intende essere espressamente unilaterale, ossia vuole ridurre l’intero essere ad un solo principio. Sta di fatto però che Hartmann non solo smantella questi concetti eliminandoli totalmente dall’ontologia ma soprattutto spazza via dall’ontologia ogni unilateralismo. E lo fa specialmente mostrandoci le deviazioni alle quali è andata soggetta l’antica metafisica fino all’Idealismo e perfino fino a parti della riflessione del XX secolo (Husserl). E così – almeno sul piano dell’obiettività conoscitiva − la ricerca di Smith minaccia di sprofondare in un vuoto filosofico (almeno nel contesto del pensiero moderno). Essa cioè – anche aldilà delle sue stesse contraddizioni interne – rischia di prestare il fianco ad una moderna critica che è in grado di demolirla completamente. E questo non è affatto desiderabile, dato che nel complesso il progetto del pensatore merita un grande rispetto ed anche un valore non indifferente Per questo motivo questa seconda sezione può sembrare una critica severa a Smith ma è invece un tentativo di difesa della sua visione.
Ma vediamo ora quali sono gli aspetti, messi in luce da Hartmann, che si prestano di più allo scopo di restituire (sia pure per mezzo della critica) un’appropriatezza ed obiettività filosofica che le permettano di stare in piedi. Nel fare questo, però, faremo come se lo strato di essere posto in evidenza dalla Fisica quantistica non corrisponda al non-essere (come suppone Smith) ma costituisca invece probabilmente l’ultimissimo strato dell’essere, e cioè quello fisico nella sua massima espressione. Inoltre (sebbene con un certo grado di imprecisione) assumeremo che quello che Smith considera lo strato più alto dell’essere (ossia il centro verticale dal quale tutto nasce) corrisponda al supremo strato spirituale supposto da Hartmann, ossia lo strato più immateriale che ci sia.
Va però fatto notare che quest’ultimo pensatore – nel fornirci un’immagine complessiva dell’essere – non considera in alcun modo il mondo delle sub-particelle (se non per rari accenni ad esso). E quindi assumeremo che quest’ultimo corrisponda al più basso strato dell’essere da lui considerato, e cioè quello dell’estensione spaziale. Sebbene evidentemente, seguendo lo schema dell’essere presentato da Smith, bisogna pensare che il mondo sub-particellare non sia altro che il substrato invisibile e profondo dello strato della spazialità e dell’estensione.
Ebbene tutto ciò è valido soprattutto in quanto Smith pretende di mostrarci nel mondo sub-particellare una realtà vagamente spirituale (nel senso primario di immateriale e imprevedibile) del tutto svincolata dalla spazialità e dalla temporalità. Laddove invece questo implica invece per Hartmann la dissoluzione dell’ontologia, che è per lui un tutto compatto (stratificato) nel quale lo spirito non è affatto sconnesso dai caratteri degli strati inferiori e solidamente fisici dell’essere.
Innanzitutto, secondo Hartmann, non è assolutamente possibile introdurre in Fisica un’ontologia che preveda concetti in linea con un essere statico e connotato dal tipico carattere dell’eternità atemporale; per cui i processi dinamici sub-particellari, appunto atemporali, non sono affatto riducibili ad una siffatta ontologia senza venire radicalmente contraddetti nel loro esistere [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, III p. 20-27].
Inoltre non è possibile correggere l’a-finalismo irrazionale e nulliforme del mondo sub-particellare per mezzo della sua riduzione al senso dell’agire ed ancor più ad un fine (teleologia); come per Smith avviene nel mondo corporeo una volta che abbia riassorbito in sé le sub-particelle [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IV p. 27-35].
Ancora una volta ciò significa per Hartmann tradire le caratteristiche ontologiche dell’estremo stato fisico dell’essere (corrispondente all’inanimato nella sua massima espressione), che ha le sue leggi irriducibili a quelle dello spirito. Ed inoltre lo spirito dipende da esse così come dipende dal mondo organico. In altre parole, in termini ontologici moderni, non è possibile in alcun modo razionalizzare e soprattutto spiritualizzare l’irrazionalismo che appare caratterizzare il comportamento delle particelle sub-fisiche. In ogni caso il reciproco compenetrarsi di modi diversi di determinazione rende impossibile ridurre la realtà sub-particellare ad alcuna realtà di ordine superiore, e quindi esautora completamente le aspettative che Smith ha verso un’onto-metafisica in grado di farci comprendere i misteri della Fisica quantistica. Ancora più inadeguato è l’uso dell’ontologia per introdurre la comprensibilità in quel mondo dell’Essente che Hartmann decreta essere e restare in larga parte inesauribile nella sua misteriosità.
A fronte di tutto ciò (ossia l’ontologia descritta nella sua struttura più realistica, ed in questo senso molto poco metafisica) va osservato che, se Smith cerca un’ontologia (come risorsa per la soluzione delle irrazionalità quantiche e quindi cornice di senso), al massimo potrebbe riconoscere nella Fisica un settore dell’essere con le sue proprie categorie [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, V p. 35-44]. Che però non si estende affatto all’intero essere, tanto nella sua forma corporea che nella sua forma sub-corporea. Infatti i processi fisico-energetici non equivalgono per Hartmann affatto all’intero essere, e quindi non ne sono nemmeno il sottofondo nascosto. Meno che mai essi hanno qualcosa a che fare con l’organico (caratterizzato da un continuo rinnovamento) che evidentemente costituisce un settore completamente separato dell’essere.
E quindi bisogna assumere che il mondo corporeo (considerato da Smith l’essere stesso nella sua totalità) diverge drammaticamente dallo strato di essere al quale esso appare più affine, ossia quello organico-vitale.
Per inciso va a tale proposito osservato che, nel libriccino “Die Erkennitns im Lichte der Ontologie” (ELO) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, Meiner Verlag, Hamburg 1982, I p. 1-7] Hartmann ci mostra (in maniera del resto simile a quanto fa anche Smith) che la Fisica sub-particellare è finita in un vicolo cieco proprio per colpa delle distorsioni introdotte dalla filosofia come teoria della conoscenza. E questa colpa consiste in primo luogo nell’aver perso di vista l’Essente come autentico ed unico oggetto di conoscenza, del tutto indipendente dalla coscienza, e molteplice (ossia Totalità di tutto ciò che «è»: fisico, animico e spirituale)), e quindi conoscibile solo mediante un lungo e faticoso cammino di approssimazione, che non conosce né certezze né campi privilegiati di conoscenza (come quello dell’elementare sub-particellare). Però Hartmann osserva il fenomeno in maniera ben più profonda di Smith. Per cui secondo lui l’errore della Fisica non sta affatto negli arzigogoli (di stampo vagamente ontologistico) escogitati da Smith, ma invece nel semplice fatto che essa non riconosce che solo il vero Essente è il reale stesso nella sua complessa Totalità. E quindi non si rende conto del fatto che esso non è stato ancora conosciuto (nè non potrà mai esserlo) per il semplice fatto che si ci è fermati alla scomposizione elementare dell’oggetto. La quale non è dovuta affatto (come dice Smith al solo intervento dello strumento), ma invece avviene già (da sempre e del tutto naturalmente) per l’azione dei sensi su di esso.
Ne consegue che la Fisica quantistica ha lavorato su un campo del totale irreale (quello delle particelle elementari) che è ancora più intenso di quello sul quale aveva sempre lavorato l’empirismo, senza comprendere che questo è invece appena il luogo di passaggio verso il pieno e vero riconoscimento dell’Essente. In altre parole la Fisica quantistica (influenzata dal Positivismo, come dice anche Smith) si è solo illusa di trovarsi davanti ad un vero campo conoscitivo. Tuttavia il fenomeno, secondo Hartmann, non riguarda affatto solo la scienza empirica bensì anche la stessa esperienza quotidiana dell’uomo comune. Anche quest’ultimo soggiace infatti alla confusione tra l’oggetto e le sue molteplici apparizioni. E quindi anch’esso è coinvolto in un cammino conoscitivo fallimentare perché non si rende conto che qualunque genere di conoscenza (filosofica, scientifica e naturale-ingenua) raramente procede fino alla fine, ossia fino al coglimento dell’Essente, con la conseguenza che lungo questo cammino restano molto misteri, che rappresentano poi le inevitabili questioni insolute ed insolubili della conoscenza umana. In tal modo la Fisica quantistica si è solo illusa di avere scoperto il vero fondamento dell’essere. In verità essa si è invece persa nelle paludi dell’elementare. E restando in questo ambito non si va assolutamente da nessuna parte. Questo è quindi il vero errore della Fisica quantistica, e non quello escogitato da Smith per mezzo della sua comparazione con la presunta pienezza della conoscenza ontologica così come da lui concepita.
Intanto va osservato che Smith vorrebbe sottomettere la Fisica (dotata di una sua propria categoria di essere) proprio a categorie generali dalle quale tutto dedurre, ossia la corporeità. E tuttavia la nuova ontologia ha completamente abolito qualunque categoria generale, e quindi ogni possibile monismo, per definizione sempre fatalmente unilateralistico [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit VI, p. 44-51]. Da un punto di vista ontologico-moderno, quindi, nemmeno la corporeità sensibile si presta a rappresentare l’intero essere.
Hartmann afferma che la determinazione del mondo animico-spirituale è e resta del tutto sconosciuta e al massimo può venire definita come spontaneità [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit. VII p. 51-59]. Ora è possibile che nel mondo sub-particellare venga supposto il dominio di un simile meccanismo di determinazione, che quindi è destinato a restare sconosciuto ed incomprensibile (assimilando così il mondo quantico a quello spirituale-immateriale). Certamente però alcun concetto della vecchia metafisica potrà portare chiarezza in esso.
In ogni caso va detto che qui l’imputato non è Smith ma semmai quei fisici quantistici che hanno voluto assimilare (con ragionamenti recentemente in gran parte esoterici) il mondo sub-particellare a quello spirituale-immateriale nella sua estrema libertà e creatività.
Dunque, sulla base di quanto afferma Hartmann (severamente critico verso i concetti dell’antica onto-metafisica), Smith sbaglia se intende applicare la dottrina materia-forma al mondo sub-particellare, dato che questa non sarebbe stata altro che un’inconsistente e fantasiosa illazione dell’antica metafisica che non trova alcun riscontro nel mondo reale [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., VIII p. 59-67]. Allo stesso modo è impossibile ricorrere all’antica idea metafisica del mondo come costituito da spirito e materia tra loro separati [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit., IX p. 67-79]. Ed abbiamo visto che Smith in fondo avvalora proprio questa struttura, delineando un mondo ideale-cosale trascendente (il centro dell’essere) a partire dal quale, per causalità verticale, insorge l’oggetto corporeo quale totalità irriducibile.
Il tentativo di vitalizzare, finalizzare e dare consistenza ontica (per mezzo dell’ontologia) alle forze irrazionali ed afinalistiche agenti nel mondo sub-particellare – sia pure mediante la sua riduzione al mondo corporeo −non ha dunque alcun senso [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, IX p. 67-79]. Esso infatti rappresenta appena ciò che nudamente è, ossia lo strato fisico nella sua presenza ed anche azione che è del tutto indifferente alla vita ed a qualunque scopo. Le particelle e sub-particelle, dunque, non sono altro che il fondamento fisico ultimo del mondo, e vanno quindi prese appena per quello che sono, senza che l’applicazione ad esse di qualunque visione superiore, possa rendere intelligibile il loro esistere in quel modo specifico. Pertanto la Fisica quantistica non può essere altro che incomprensibile (senza alcuna possibilità di riscatto, cioè di chiarimento ontologico), e quindi può venire appena descritta senza che da ciò si possano trarre conclusioni di sorta. Quindi l’ontologia (anche se autentica) applicata ad essa non risolve alcun dilemma.
Peraltro secondo Hartmann, dato che il mondo sub-particellare costituisce certamente uno strato di essere fisico estremamente inferiore, appare essere impossibile che esso possa venire svincolato dalla rigida legislatività che caratterizza naturalmente l’inanimato [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XII p. 98-106]. Per cui appare molto improbabile che la sua irrazionalità (sicuramente a-finalistica) possa venire ricondotta ad un determinismo non causalistico e finalistico come quello organico ed evoluzionistico. Pertanto la tentazione dei fisici di considerare le sub-particelle come una sorta di enti viventi (totalmente liberi ed auto-determinati, e quindi spirituali nella loro immaterialità) – simili alle monadi di Leibniz − sembra destinata a fallire. Evidentemente tutto ciò è il frutto dello sforzo illegittimo di trasformare il mondo quantico in un mondo fisico che sfugga alle leggi della Natura. Ma del resto è destinato a fallire anche il tentativo smithiano di considerare il mondo corporeo come il luogo dell’essere che (ricomprendendo in sé il mondo sub-particellare e dando così ad esso consistenza ontica) possa rappresentare pienamente tanto il mondo della vita quanto quello spirituale. Del per Hartmann appare inspiegabile perfino la non soggezione del mondo vitale-organico alle leggi fisiche, e quindi forse ci troviamo qui di fronte ad uno di quei dilemmi che il pensatore considera insolubili tanto per la scienza quanto per l’ontologia. E quindi probabilmente alcuna operazione di razionalizzazione appare giustificata. Inclusa quella di Smith.
Del tutto suggestivamente (ma anche paradossalmente) Hartmann afferma comunque che l’ontologia potrebbe aiutare molto nel risolvere le questioni sollevate dalla nuova Fisica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Ma egli non lo afferma allo stesso modo di Smith. Lo afferma invece solo perché, come abbiamo visto in ELO, secondo lui la Fisica quantistica è stata vittima di quel devastante deragliamento conoscitivo di tipo filosofico (teoria della conoscenza) che ha svincolato le categorie della conoscenza dalle categorie dell’essere (e che secondo lui invece Kant aveva cercato di correggere senza poi venire seguito da nessuno) [Nicolai Hartmann, Die Erkenntnis…cit. I p. 1-7]. Tale deragliamento ha fatto sì che il pensiero di fatto dissolvesse la pienezza dell’oggetto, costringendo così la stessa scienza empirica a cercare l’oggetto per vie del tutto devianti. E così è del tutto chiaro perché la nuova ontologia potrebbe collocare nel posto che ad esso compete quel mondo delle sub-particelle che, dopo tante riflessione ed illazioni (specie di non filosofi), ha finito per assumere caratteri categoriali che probabilmente non gli competono affatto. Anzi è estremamente probabile che si tratti appena di una categoria della conoscenza (generata artificiosamente dagli strumenti) e non dell’essere.
E come abbiamo visto la riflessione di Smith converge abbastanza (almeno in parte) con questa conclusione.
Ebbene, questi erano i dettagli di un’analisi dell’ontologia di Hartmann in relazione ad aspetti significativi di quella di Smith. C’è poi un ulteriore aspetto di carattere generale che è di grande importanza, ed al quale abbiamo comunque già accennato. Smith fa riferimento ad un’onto-metafisica (di fatto l’antica metafisica specialmente aristotelica), mentre invece per Hartmann ontologia e metafisica sono due discipline completamente diverse (che convergono unicamente laddove la conoscenza si dissolve in mistero ed in questioni insolute ed insolvibili). La prima infatti è sostanzialmente scientifica, mentre la seconda è sostanzialmente filosofica nel riferirsi ai misteri di fondo che restano sullo sfondo della ricerca sia ontologica che empirico-scientifica. Ma Smith sente intanto l’esigenza di un’ontologia, ossia di una solida e produttiva conoscenza metafisica dell’essere. E quindi (tenendo conto delle rigorose distinzioni fatte da Hartmann), egli in verità fa appello alla metafisica e non all’ontologia. Non si tratta però di una metafisica che illustra appena il mistero (ossia l’inconoscibile oppure il non ancora conosciuto), ma invece si tratta di una metafisica che ha l’ambizione di descrivere l’essere in maniera non meno legittima della scienza empirica. E questa rischia di essere appena una penosa illusione, a meno che (come avviene presso i pensatori tradizionalisti) si ammetta pienamente una conoscenza contemplativa ed irrazionale che non ha alcuna ambizione di essere né rigorosamente filosofica né rigorosamente scientifica, ossia una vera e propria conoscenza dell’inconoscibile (la cui base è la Rivelazione di verità universali contenuta nella Scienza Sacra),
Inoltre, in base alle considerazioni di Hartmann [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, VII p. 51-59], c’è da considerare che in fondo il mondo quantico appartiene già ad un’ontologia, entro la quale domina il principio materia-forma (secondo il paradigma della composizione verticale a partire dal basso), per cui l’atomo è materia della molecola che è la sua forma. Per tale motivo le sub-particelle possono anche venire considerate forse la materia ultima delle forme superiori. Ed infatti abbiamo visto che esse corrispondono molto probabilmente a ciò che l’antica onto-metafisica definiva come Materia prima, ossia un non-essere che costantemente è in procinto di trapassare nell’essere. Questa considerazione esautora ovviamente tutte le affermazioni di Smith circa la totale inconsistenza ontica di questo solo presumibile strato dell’essere. E tuttavia potrebbe costituire un modo meno critico e più positivo per approcciare la questione. Ed in questo caso il merito di tale approccio andrebbe totalmente alla nuova e pragmatica ontologia di Hartmann. Tale merito consisterebbe nel fatto nell’evitare qualunque interpretazione troppo ampia circa questo mondo, limitandosi così semplicemente alla presa d’atto del suo esistere.
In ogni caso la riflessione di Hartmann circa la conoscenza e la verità sembra mostrare che questo è forse l’unico aspetto nel quale Smith ha davvero intercettato correttamente l’ontologia nel contesto dell’analisi critica della Fisica quantistica [Nicolai Hartmann, Neue Wege…cit, XIII p. 106-115]. Entrambi i pensatori infatti mettono in luce la presenza di un’oggettività esteriore indipendente (per Hartmann l’Essente, ovvero l’essere stesso) al quale la conoscenza deve necessariamente mettere capo per poter sussistere. E questo istituisce comunque una certa convergenza, tra i due pensatori, circa la centralità assoluta del mondo corporeo.
Ma bisogna anche dire che in questo non vi era alcun bisogno della nuova ontologia, dato che il concetto antico-metafisico di verità dell’essere si muoveva esattamente in questi paraggi.
Conclusioni.
Crediamo che questo articolo abbia mostrato soprattutto che oggi il rinnovato ricorso all’ontologia in filosofia è estremamente problematico per diversi motivi, sebbene sia comunque estremamente giustificato in quanto chiarificante e de-complessizzante a fronte degli eccessi di epistemologismo della moderna filosofia (con il netto e schiacciante prevalere della teoria della conoscenza su qualunque pensiero riguardante l’essere). In altre parole il richiamo all’ontologia ristabilisce un equilibrio (tra le due questioni dell’essere e della conoscenza) che da troppo tempo era stato infranto, e per motivi affatto necessariamente condivisibili. In ogni caso tutti i moderni richiami all’ontologia ci mostrano che la totale epistemologizzazione della filosofia non ha risposto affatto ad una necessità oggettiva, dato che è ancora oggi pienamente giustificato il fatto che tale disciplina si occupi dell’essere. Si è quindi trattato appena di una del tutto inaccettabile unilateralizzazione della filosofia.
L’aspetto fondamentale della problematicità dell’appello all’ontologia consiste comunque nel fatto che l’antica onto-metafisica è davvero storicamente tramontata nel mondo della filosofia, mentre nel mondo della scienza empirica essa non è mai stato nemmeno presa in considerazione (a parte nei suoi primordii nel contesto della filosofia della Natura del XVII e XVIII secolo). Ebbene, tenuto contro di questo incontrovertibile dato di fatto storico-filosofico, nel contesto di questa nostra ricerca abbiamo assistito a due operazioni molto diverse: − 1) quella di Smith, che invoca un’ontologia dai caratteri molto confusi, oscuri e contraddittori, nel tentativo (pur pienamente giustificato) di criticare l’aspirazione della Fisica quantistica (quale forma estrema della scienza empirica) ad offrirci una visione totalizzante dell’essere movente dal basso più estremo (quello rappresentato dal mondo sub-particellare); 2) quella di Hartmann, che invece si è dedicato a smantellare totalmente le aspettative totalizzanti dell’antica metafisica delineando su questa base una del tutto nuova ontologia realistica e pragmatica, che è poi infine destinata a convergere con la scienza. In qualche modo il primo è un progetto decisamente anti-scientifico mentre il secondo è un progetto decisamente pro-scientifico.
Ma aldilà di tutto questo, uno dei problemi principali del ricorso all’ontologia si è rivelato essere la definizione di ciò che si intende come “ontologia”. Il modo estremamente bizzarro e problematico in cui Smith tratta questo tema è ciò che pone la questione. Per cui da una parte abbiamo il tentativo di Hartmann di rendere l’ontologia una scienza fra le altre (e quindi priva di qualunque aspirazione ad imporsi sulla scienza) per mezzo di una sua revisione (rispetto al suo assetto antico) che è filosoficamente molto solida e ottimamente documentata; e quindi delinea una disciplina capace davvero di presentarsi come una realistica e rispettabile alternativa all’antica ontologia. Dall’altro lato invece assistiamo in Smith ad un richiamo a quella che vorrebbe essere l’antica ontologia, il quale ambisce intanto all’esatto contrario, e cioè a colmare gravi lacune emerse nella scienza ed anche a correggerne alcune conoscenze. E tuttavia ciò avviene per mezzo di affermazioni che (a parte alcune eccezioni) propongono come “ontologia” una visione bizzarra, arbitraria (in quanto puro prodotto della personale interpretazione del pensatore), estremamente limitata (dato che considera come essere unicamente la dimensione corporale) e quindi in larga parte irriconoscibile per il filosofo. Dunque in essa è estremamente difficile riconoscere per davvero l’antica ontologia. Ma oltre a ciò essa è assolutamente inconciliabile con la nuova ontologia proposta da Hartmann.
Per questa serie di motivi una valutazione dell’ontologia smithiana dovrebbe suggerire solo considerazioni negative. Ed inoltre un suo confronto con l’ontologia di Hartmann dovrebbe mostrarci solo che il progetto di Smith è in effetti filosoficamente di retroguardia (oltre che poco fondato filosoficamente), e quindi non ha alcun valore nello scenario del pensiero attuale.
Abbiamo detto però che noi partiamo da convinzioni tradizionaliste che non ci fanno sentire affatto obbligati ad accettare come praticabili solo le vie di pensiero che oggi vengono ordinariamente percorse.
E quindi l’assoluta attualità dell’ontologia di Hartmann non rappresenta per noi un criterio vincolante di riferimento. Tuttavia il riferirsi ad esso appare essere comunque utile dato che Hartmann come Smith si muove nel mondo della scienza empirica oltre che in quello della filosofia. E quindi la presa in considerazione dell’ontologia del primo può servire a due scopi: − 1) a valutare quanto giustificato e fondato sia l’impiego della sola antica ontologia da parte di Smith; 2) a valutare quanto appropriato sia l’impiego di concetti anti-metafisici allorquando ci si muove in un campo che riguarda la scienza empirica molto da vicino, e quindi tiene strettamente presenti i caratteri del mondo reale.
E nella nostra ricerca sono emersi alcuni interessanti elementi rispetto a questo.
Il riferimento all’ontologia di Hartmann è servito dunque a mettere in luce le molte insufficienze dell’ontologia di Smith; specie una volta che lo strato di essere sub-particellare viene considerato alla stregua del livello più basso dell’essere descritto da Hartmann ed inoltre una volta che si sia preso atto che in relazione a quest’ultimo è ingiustificato e falsificante ogni monismo in ontologia (ossia ogni tentativo di ridurre l’essere all’unità ricorrendo così ad una sola categoria). Riguardo al primo aspetto abbiamo visto che in alcune occasioni la responsabilità dell’errore non va attribuita a Smith ma invece agli stessi fisici quantici. Essi infatti abbastanza spesso – nel contesto di elucubrazioni filosofico-metafisiche costruite sulla natura e senso dello strato sub-particellare – finiscono per attribuire ad esso una confusa valenza spirituale-immateriale (a volte razionale e finalistica) credendo di esorcizzare così l’irrazionalità del comportamento delle sub-particelle. Ed in questo modo contraddicono apertamente la natura delle categorie che secondo Hartman caratterizzano lo strato più basso dell’essere.
Inoltre i fisici quantistici promettono anche addirittura (nelle versioni più esoteriche di queste elucubrazioni) – una volta considerato il mondo sub-particellare come l’essere per eccellenza (cosa comunque severamente condannata da Smith) – di assimilare questo infimo strato di essere a quello spirituale-immateriale che secondo Hartmann è caratterizzato dall’assoluta libertà e quindi dalla totale spontaneità con tendenziali inclinazioni creative. Lo stesso Smith comunque – sulla base di una visione onto-metafisica risalente a Platone – ritiene che le sub-particelle possano entrare nella costituzione delle entità corporali perdendo così tutta la loro irrazionalità ed assumendo così i caratteri di un oggetto che rappresenta l’intero essere, da quello supremamente spirituale a quello infimamente fisico. Inoltre colpisce negativamente anche la bizzarra distinzione istituita da Smith tra corporale e fisico (corrispondente a sua volta al mondo sup-particellare), laddove invece per Hartmann il fisico rientra insieme al corporale entro uno strato inferiore dell’essere che è unitario in quanto caratterizzato dalla concreta categoria della spazialità. Infine colpisce negativamente la davvero incomprensibile assimilazione smithiana del mondo sub-particellare all’estensione spaziale, laddove invece la corporalità sfuggirebbe ad essa. Cosa che risulta assolutamente inconcepibile entro l’ontologia di Hartmann, oltre che essere assolutamente illogica.
A controbilanciare queste osservazioni critiche negative viene però la saggia costatazione di Smith, secondo la quale l’intero campo della Fisica quantica non sarebbe altro che un costrutto ideologico per nulla autentico e perfino poco scientifico. Esso infatti appare essere il puro frutto della costruzione di strumenti che hanno realizzato la “caccia all’inosservabile” inaugurata dall’Illuminismo e dal Positivismo, e che poi trovò realizzazione nelle teorie di Einstein (che il nostro non esita a criticare apertamente). Da questo deriva che il mondo delle sub-particelle non è altro che l’artificio prodotto dall’osservazione da parte del soggetto umano, e quindi non ha alcuna oggettività così come alcuna consistenza ontologica. È insomma un puro mondo della fantasia. Ma questo dovrebbe significare che esso non ha nulla a che fare con il fisico che Smith stesso riconosce come reale in contrapposizione con il corporale (corrispondente comunque per lui all’autentico reale). Ed abbiamo visto che alcune specifiche affermazioni di Hartmann convergono con questo giudizio negativo sulla qualità della conoscenza dell’essere che viene perseguita dai fisici quantistici.
Oltre a ciò l’ontologia di Smith finisce per convergere addirittura con quella di Hartman nel considerare la corporalità come il puro e semplice «è» delle cose esistenti (da sempre riconosciuto dall’antica onto-metafisica) e quindi come il dominio del quantitativo. E peraltro con ciò si riaggancia la dottrina gnoseologica da lui esposta in QE, secondo la quale la conoscenza mette sempre capo ad un’oggettualità reale esteriore che è del tutto indipendente dalla coscienza [Wolfgang Smith, The quantum… cit., I p. 21-28, II p. 33-45]. E questa dottrina poi trova un riscontro ben preciso nelle estreme conclusioni di Hartman a NWO, laddove egli parla di una “conoscenza di essere” che vede la coscienza del soggetto unicamente attiva nel relazionarsi al mondo reale (invece di contenere essa stessa gli oggetti [Nicolai Harmann, Neue Wege… cit., XIII p. 98-106]. Rispetto a questo, quindi, le due ontologie si rivelano essere entrambe estremamente realiste. E questo ha un grande valore filosofico, tenuto conto dello squilibrio affermatosi in filosofia con l’eccessivo ontologismo.
Che conclusioni estreme è possibile dunque trarre da tutto questo?
L’ontologia invocata da Smith è senz’altro in gran parte arbitraria, sia perché essa semplifica ed a volte distorce complessi e profondi concetti dell’antica onto-metafisica (che forse il pensatore non conosce a fondo), sia perché considera come “ontologia” unicamente il mondo corporeo (affermando così un monismo che l’ontologia di Hartmann condanna severamente e con tutta la ragione), sia perché essa introduce una notevole confusione negli aspetti categoriali che invece Hartmann descrive con molto rigore e precisione. E questo dimostra che il confronto della sua personale ontologia con la nuova ontologia di Hartmann serve non poco allo scopo di lasciar emergere distorsioni concettuali estremamente rilevanti, che molto probabilmente inficiano quella di Smith in molte sue parti. Il confronto con la nuova ontologia serve inoltre anche a rendere estremamente problematica l’aspirazione si Smith a riempire le lacune della scienza empirica nel riferirsi ad un’antica ontologia che non solo è ormai tramontata nel mondo filosofico, ma che egli impiega anche in maniera spesso non solo distorta ma anche estremamente carente di profondità e complessità, e quindi in una maniera troppo semplificata. Cosa che inficia in partenza il suo progetto di riforma della conoscenza scientifico-empirica.
Ciononostante, però, egli conferma alcuni aspetti molto rilevanti della nuova ontologia realistica di Hartmann (specie la concezione dell’oggettualità e la teoria della conoscenza applicata ad essa) ed inoltre ha il grande merito di mettere in luce la totale insufficienza del nuovo tentativo di monismo unificante l’essere (peraltro radicalmente “dal basso”) che si è affermato nella Fisica quantistica nel contesto di un nuovo sforzo della scienza empirica di monopolizzare la conoscenza dell’essere. E questa condanna è ancora più giustificata tenendo conto del fatto che, come egli dice, l’intero edificio della Fisica quantistica risulta in definitiva un costrutto del tutto artificioso che è dovuto all’intervento intrusivo dell’uomo nell’essere per mezzo degli strumenti.
Pertanto ci sembra che – a causa di tutti questo motivi − sia ampiamente positivo il bilancio di questa ricerca, che non solo valuta criticamente in assoluto l’intendimento di ontologia impiegato da Smith, ma inoltre si sforza anche di valutarlo relativamente alla nuova ontologia oggi disponibile in filosofia.
Dunque, dal punto di vista che ci sta più a cuore (quello tradizionalista) possiamo concluderne che (anche aldilà dei presumibili obblighi imposti dalle rigorose precisazioni della nuova ontologia) l’impiego dell’antica ontologia, per contrastare le aspirazioni egemoniche della moderna scienza empirica, è assolutamente giustificato. A patto solo che si rinunci ad interpretazioni personali ed arbitrarie della disciplina e la si impieghi quindi nel pieno rispetto della sua effettiva profondità e complessità. Perché se non si fa questo si rischia di vedere dissolversi nell’insufficienza concettuale il proprio intero progetto.
Detto questo ribadiamo che comunque anche il valore dell’antica ontologia va considerato con prudenza, dato che essa (in maniera molto simile alla nuova ontologia) si è distaccata dalla propria fonte originaria (quella costituita dalla Scienza Sacra originaria e primordiale) facendo così risaltare un concetto di essere che pretende di ignorare la primarietà dell’essenza trascendente. E questa distorsione trova peraltro il suo estremo esito nell’equiparazione totale di Essere ed Essente che viene affermata dalla nuova ontologia di Hartmann.
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