È uno spettacolo davvero triste quello della cultura moderna.
Anche laddove si pensa di trovare calore, si finisce invece, infatti, per trovare solo un desolante gelo. È questo il caso anche del peraltro bellissimo, affascinante ed interessantissimo libro di Robert Graves, La Dea Bianca (Milano, Adelphi 2012).
Di esso ho parlato spesso ultimamente in questo blog e recentemente l’ho menzionato come un testo fondamentale per la critica a quella filosofia moderna che è avversa per definizione a tutto ciò che è insieme poeticità, religiosità e mitologicità del pensiero (vedi : “L’ignoranza della filosofia alla luce del linguaggio e del sapere religioso-mitico-poetico”). Eppure il libro alla fine delude cocentemente chi vi cerca un tesi pro-religiosa. Ed in questa recensione cercherò di spiegare perché. Ma prima di farlo vorrei porre a me stesso ed a chi mi legge una domanda. Perché mai sarà che, laddove nel passato così facilmente si trovava il sublime perfino poetico in una figura come quella di Gesù Cristo, oggi invece con la stessa facilità si trova in essa solo del ripugnante, dell’inautentico, del triste, del morboso, del decadente, se non del marcio? Basta prendere atto di come parlava di Gesù Cristo non un mistico ma proprio un vero e proprio poeta, come fu (per fare solo un esempio tra tanti) un Lope de Vega.
Dalla risposta a questa domanda dipende poi il perché del così difficile riscontro, nel panorama della cultura moderna, di un atteggiamento di appassionato interesse per ciò che è religioso in senso pieno ed autentico. Infatti, non a caso, quello che in questo libro Graves ci propone come religioso, alla fine si rivela essere affatto tale. Ed allora, forse che per ascoltare un discorso autenticamente religioso, si sarà costretti a mettersi in sintonia solo con le voci più sbilanciate verso un atteggiamento confessionale ed unilateralmente dal lato della più piatta ortodossia? Proprio ieri costatavamo questo in un blog che si adoperava a difesa del Cristianesimo ortodosso schierandosi intransigentemente contro tesi simili a quelle di Graves.
Si tratta di quelle varie voci moderne che di certo hanno sostenuto in generale la sola umanità e non divinità di Gesù Cristo. Tra le quali poi quelle che pretendono la possibilità di ridurne la figura ad uno scimmiottamento a tavolino di antichi miti pagani. Proprio in questo senso è andata del resto, con un Nietzsche, la filosofia moderna meno avversa alla poesia ed al mito (oltre che la polemica storicistico-riduzionista di un Renan). Ma si tratta anche di quelle voci che, con non poca giustificazione, hanno proposto una strada sulla quale la tradizionale polemica del Cristianesimo contro il Paganesimo potrebbe essere archiviata e finalmente superata.
Pertanto non è proprio alle tesi di un Cristianesimo dogmaticamente confessionale e ortodosso che pensa il lettore che prende in mano il libro di Graves e già dalle prime pagine se ne innamora (come è successo a me). Ciò che egli desidera, nella sua aspirazione religiosa, non è affatto gettarsi nelle braccia di una confortante ortodossia. Per cui poi la delusione provata nel corso della lettura è ancora più cocente. Dunque nemmeno a causa di tale delusione tale genere di lettore si rifugerà nelle braccia dell’ortodossia. Eppure egli dovrà necessariamente prendere posizione.
Pertanto egli continuerà a fare uso della possibilità, offerta dallo studioso, di vedere in Gesù Cristo una figura che non è affatto solo del Cristianesimo più ortodosso, ma può essere condivisa con tutte le forme di Paganesimo storico e geografico, e soprattutto con quello al quale lo studioso da valore, ovvero quello di una Grande Dea. E tuttavia dovrà anche essere estremamente critico verso tutto questo.
Il nucleo di tale critica sta nell’isolamento di un elemento che la visione di Graves non abbraccia. Il nostro ipotetico lettore vi giungerà ponendosi una serie di domande. Cos’è ciò che distingue la religiosità, come da lui intesa, da tutte le altre forme di religiosità, inclusa quella della Grande Dea? E quale risulterà essere allora l’incanto davanti al religioso che la modernità di tale approccio sembra proprio non riuscire più a cogliere? E qual’è infine l’elemento che risulterà sfuggire a tutti i tipi di accomunamento di forme religiose?
Esso è la santità! Come concetto, come estetica. Dunque come poetica! Essa è solo del Cristianesimo più autentico (oltre che di tutti i monoteismi ad esso affini, incluso quello che il neoplatonismo scoprì stare al culmine dello stesso Paganesimo politeista greco-romano ; e che poi è sempre stato anche al culmine dei politeismi orientali). Con la santità non sono più possibili troppo facili accomunamenti, perché quel paganesimo che non la prende in considerazione è invariabilmente immorale e ferino. Ma soprattutto dal privilegio del suo coglimento sarà esclusa ogni forma di spirito iconoclastico ed anti-religioso. Incluso quello che parla in nome della poesia mitica. Perché per definizione quest’ultimo mette anche, anzi soprattutto, la santità tra i tratti del religioso che sono da disprezzare. E così non ne coglie l’incanto, che non comporta assolutamente alcun sequestro confessionale ed ortodosso dello specifico contenuto religioso. La santità autentica è infatti insieme purezza, candore, semplicità, bellezza, libertà, leggerezza, nudità, povertà. Respiro libero e lieve, essa è. La santità è dunque più che mai poetica. E pertanto, nell’essere religiosa, può anche ben essere mitico-poetica pur senza macchiarsi con ciò di misfatti ferini ed immorali. Ed allora la santità cristiana può bene risollevare dal fango quella religiosità che così opportunamente Graves colloca, dal lato del mito e della poesia, contro la filosofia. Essa può, ma non lo più la finta religiosità di Graves. E non può perché non vuole.
Proprio in questo senso, come dice lo stesso Graves, il Cristianesimo contiene tanto mito quanto ne contiene ogni Paganesimo. E quindi è vero che la sua polemica contro il mito è sempre stata in partenza destituita di ogni fondamento, ed inoltre anche sostanzialmente anti-distruttiva. Pertanto, grazie a tutto questo, fare il meritevolissimo lavoro di scavo che il nostro studioso conduce può recare ai suoi stessi risultati. Ma senza che alla fine ne risulti alcuna storicizzazione e naturalizzazione del religioso (con il conseguente immoralismo ferino, sempre tendenzialmente titanistico-assassino, che inevitabilmente ne risulta). Resteranno dunque intatti anche i contenuti da lui portati alla luce, così come i loro significati interrelati, ma senza che essi conducano tutti insieme alle deludentissime conclusioni alle quali egli perviene, nella seconda parte del suo libro.
E ciò proprio in forza del suo, solo lezioso e vuoto, gioco enigmistico con il “segreto nome del Dio trascendente”.
È dunque inevitabile che il lettore animato dalla mia stessa sensibilità sia portato non ad abbandonare la lettura del libro, una volta giunto alla sua metà, ma a leggerlo più sommariamente.
Il lavoro di Graves è veramente impressionante, così come l’erudizione mitografica che egli mette in campo. Per questo il suo libro è un’autentica e preziosissima miniera di contenuti mitografici e soprattutto dell’intricatissima interrelazione tra di essi. Per questo motivo leggerlo minuziosamente ed assorbirlo fino in fondo può fare solo bene a chi si interessa di questa materia, dato che la sua conoscenza ne sarà accresciuta in modo veramente esponenziale. Eppure non ce la si fa. In primo luogo perché è molto difficile reggere fino alla fino allo sforzo di una lettura minuziosa e del conseguente necessario assorbimento dei quasi infiniti contenuti così ricavati. Ma in secondo luogo perché (più o meno a partire dal capito 11 e pag. 219) Graves rivela finalmente le sue vere intenzioni, così come solleva il velo su quel nome segreto del Dio trascendente di cui prima aveva parlato continuamente. E così tutta la rete intricatissima di correlazioni mitografiche finisce per puntare verso un unico e solo elemento. Il quale poi, una volta colto, si rivela (come spesso accade leggendo i testi di moderni intellettuali ‒ caso emblematico Heidegger) essere di una sconcertante piattezza, banalità e volgarità. Come diremo dopo, appare evidente che, come al solito entro la cultura moderna, si trattava alla fine solo e soltanto di parziale ideologia.
Il lettore autenticamente religioso e cristiano (ed affatto confessionale-ortodosso) era intanto restato affascinato nella prima parte proprio dall’allusione ad un segreto nome del Dio trascendente. E ciò perché era portato a credere che lo studioso volesse con questo sostenere una profonda e fisiologica continuità (alla pari) tra Paganesimo e Cristianesimo. Incentrata su una religione della Grande Dea e Grande Madre, e che alla fine risalisse proprio ad un Dio da intendere come fondamentalmente Femminile (Dio-Donna), ovvero il Dio di Vita o Dio identificabile con la Vita (Dio-Vita). Questa sarebbe stata di certo un’ipotesi in conflitto con la stretta ortodossia cristiana, e da questa condannata come eresia allo stesso modo come lo è una schietta religione della Grande Dea. Ma comunque avrebbe continuato a soddisfare le esigenze del nostro ipotetico lettore (cioè di noi stessi). E ciò proprio in quanto tendente comunque a concepire con tutto ciò un Dio trascendente. Un Dio trascendente che non esclude però più affatto dalla sua sfera il Paganesimo.
Ma tutto questo si rivela alla fine essere stato solo un sagace trucco dello studioso per mascherare la sua vera idea : ‒ la religione della Grande Dea non è una religione, e ciò in quanto essa è storica e naturalistica. Quindi è vitalista nel senso riduzionista (e tendenzialmente laicista), ed affatto dunque nel senso dell’affermazione secondo cui la Vita è Dio e Dio è la Vita. Quello che egli intende porre in luce (ed anche impersonare ‒ come Fernando Pessoa aveva fatto fare all’Alberto Caeiro del neo-paganesimo ed al Ricardo Reis di un moderno autenticismo eroico-tragico di stampo stoico) è dunque una sorta di iper-Paganesimo europeo-occidentale (in cui l’Oriente è appena quello incluso nella grande unità europeo-occidentale), e che trascende, in quanto storico e vitalista, tutto ciò che è religioso nel senso della trascendenza. La religione-non-religiosa a cui Graves si riferisce è pertanto quella antecedente a tutte le successive religioni europee, e cioè un universale culto della Grande Dea (marina ed agricola) che unisce Europa sud-orientale ed Europa nord-occidentale, vedendo i suoi reciproci poli principali in Grecia-Creta-Medio Oriente (canopico-ebraico-egiziano) da un lato e Britannia-Irlanda dall’altro lato. Con l’intermezzo dei popoli e nazioni celtiche di Spagna, Portogallo e Gallia (specie meridionale : ‒ l’antica colonia fenicio-greca di Massalia, o Marsiglia, e Lione). Su questa base e radice si innestano per lui tutte le religioni pagane e monoteistiche (tutte false, però, in quanto più o meno infette di trascendenza, e quindi non storiche e non naturalistiche). Egli le riassume nella seconda parte del suo libro [cap. 24, pag. 489 ] :‒ cristianesimo, giudaismo, paganesimo teutonico, paganesimo greco-romano, paganesimo celtico (nord-occidentale).
Ma è proprio in tale contesto che alla fine del libro si rivela a noi la questione ideologica che spingeva lo studioso a ricercare ed a scrivere. Come poi vedremo infatti [cap. 26, pag. 487-491] egli salva il giudaismo dalle accuse naziste da lui espressamente menzionate ‒ in quanto ad esso sono state imputate colpe che sono in realtà solo dell’Occidente europeo stesso (capitalismo) e soprattutto del Cristianesimo (religione pragmatica : insieme trascendente, statale e anti-matriarcale). Ma alla fine lo condanna egualmente, in quanto è su di esso che il Cristianesimo si è appoggiato per essere ciò che era ed è. Dunque la sua tesi è al proposito la stessa di Renan, di Nietzsche (ed in fondo anche di Heidegger) ed infine anche di un volgarissimo romanziere moderno, Dan Brown : ‒ Gesù è solo e soltanto un uomo! E peraltro egli è per Graves anche un giudeo convinto, e per questo è in fondo (come per Renan e per Nietzsche) appena un povero diavolo, un uomo mite e ben intenzionato (anche se turbato da un delirio di grandezza) che si arrampica penosamente sugli specchi tentando di farsi passare per il Messia atteso dagli Ebrei. Cosa che però egli non è. Dunque il Cristianesimo lo tradirebbe. Esso tradisce questa figura appena storica, e nello stesso tempo se ne approfitta vergognosamente. Lo farebbe costruendo su di lui un’idea di uomo-dio che egli stesso non aveva in fondo mai sostenuto e nemmeno avrebbe mai potuto sostenere (essendo un giudeo convinto). E con ciò il Cristianesimo costruisce del tutto illegalmente una religione della trascendenza (per quanto avversa alla Legge ed al Dio trascendente inviolabile).
Quanto poi al Cristo prefigurato nella religione-non-religiosa della Grande Dea, anch’esso è appena storico, non essendo altro che lo “Spirito dell’Anno” [cap. 24, pag. 487 ], figlio maschio ed amante della Dea. Che in essa e solo in essa vive, muore e risorge. È questo il rito che secondo Graves sarebbe stato celebrato nei primordiali “cerchi di pietra” (tutti templi solari dedicati al dio-solare, Eracle, impersonato dallo Spirito dell’Anno) tipo Stonhenge. che avrebbero costellato l’Europa di allora e sempre, unitaria in senso mitico-religioso (la vera unità ed identità europea, ci fa capire lo studioso, è proprio questa ‒ il vero e proprio spirito dell’Occidente spengleriano, nietzschiano ed heideggeriano è proprio questo). Dunque si spengono con ciò, e muoiono miseramente, gli entusiasmi che il lettore autenticamente religioso aveva fino a questo momento nutrito verso due temi messi in luce da Graves : ‒ 1) quello del Fanciullo divino come “Figlio della Madre”, e dunque anche “Figlio della Vergine” ; 2) quello dello Spirito come sostanzialmente femminile (identificabile addirittura nella stessa Maria), cioè Pneuma o Vento (ruah, vayu…), Spirito che aleggia (e soffia) sulle acque (dell’Oceano-Grande Dea). E non invece maschile, come il Paracleto del Vangelo giovanneo.
Il primo tema lasciava pensare a conclusioni che lo stesso mito di Eleusi effettivamente autorizza a margine della figura di Demetra [questa suggestione mi aveva già colpito leggendo di Paolo Scarpi “Le religioni dei misteri” (Mondadori Milano 2007), dove la Semele ritrovata nei bordelli terrestri, madre di Dioniso, in continuità con Persefone e la stessa Demetra, finisce per davvero per apparire nei fatti come una disgraziata ragazza-madre, vergine ancora un qualche modo, ma solo per un crudele scherzo del destino]. Si tratta insomma del mito di un “Figlio della Vergine” che è leggibile a diversi livelli [quello profano e quello religioso ‒ come suggerisce il prof. Vincenzo Romano in “ La lettura della Sacra Scrittura : Il metodo delle ‘sagome’” (La scuola cattolica, 6, nov-dic, 1989)] e che quindi riporta proprio alla figura di un “Figlio della Madre” che nei fatti è per davvero appena un bambino senza padre (anche Graves ne fa menzione), un figlio illegittimo. Ed è dunque figlio-della-madre proprio nel senso dell’espressione scurrile portoghese di filho da mãe, ovvero filho da puta. Insomma un figlio di puttana che però nei fatti è comunque un supremo Fanciullo divino, quel Figlio della Vergine che nasce (proprio come l’Ercole di Tirinto) per l’incredibile intervento di Dio stesso, o anche Zeus.
Il secondo tema lasciava pensare ad una possibile intrigante rilettura del mistero trinitario, entro il quale avveniva un’inversione del rapporto tra Gesù (Cristo-Figlio) e Maria (Spirito-Madre). In modo tale che quest’ultima, lo Spirito inteso al Femminile (in cui il Figlio nasce ed è custodito), finisce per essere in fondo il Padre stesso, cioè alla fine il fondamentale Dio-Donna / Dio-Vita (autentico Dio trascendente il cui nome deve essere tenuto segreto) che è possibile supporre in base a tutto questo.
Lo so, ce n’è già abbastanza, con tutto ciò, per essere condannati e bruciati sul rogo come eretici da parte del Cristianesimo confessionale ed ortodosso. Eppure c’è comunque moltissimo da meditare, e senza uscire dai confini di un’autentica religiosità, cioè senza alcun sacrificio della Trascendenza. Ma sta di fatto che con il riduzionismo della formula in cui Graves riassume il vero senso della religione della Grande Dea non vi è più spazio nemmeno per queste illazioni comunque eretiche eppure autenticamente religiose. Lo Spirito femminile in cui nasce, vive e muore il Fanciullo divino (abusato sessualmente, castrato, smembrato ed infine divorato e poi ri-partorito ‒ tutto ciò ricorda il demone divino Surya contemplato nello Zohar ed anche nei Veda) è una Grande Dea, che però altro non è se non la vita terrena e terrestre così come essa è nei fatti : ‒ potenza ma entro i limiti del terreno (e della storia) e pertanto anche letteralmente immorale (essa rispecchia la necessità di confrontarsi con la vita e la morte senza alcuna vera speranza di letterale resurrezione trascendente ; quest’ultima è infatti appena il persistere della vita oltre gli individui). Essa è “signora delle creature selvagge” [cap. 24, pag. 487], quindi è naturalmente ferina, e senza assolutamente nulla da scandalizzarsi per questo (lo smembramento orgiastico-eucaristico fa del tutto legittimamente parte del suo culto). La vita nella sua potenza è infatti solo e soltanto selvaggia. Pertanto, secondo questo estremamente sobrio autenticismo naturalistico chiuso a qualunque possibilità di sublimazione, la donna che partorisce è solo e soltanto una belva, così come lo è quella che gode sessualmente ‒ essa tendenzialmente castra sempre il maschio, in quanto sempre sequestra imperiosamente il pene, lo sperma, e così la creatura che per mezzo di essi nascerà. In questo essa è Dea e Regina, dominatrice assoluta. La maternità è dunque legittimamente incestuosa (vedi psicanalisi) e la Donna è legittimamente puttana. Perfino una laida e selvaggia puttana, ma con tutto il diritto di esserlo. Ed inoltre questa Madre incestuosa è effettivamente una donna che partorisce senza marito, una vera e propria ragazza-madre, una vera e proprio madre-vergine “fecondata dal dio”che è tale solo come da operetta e da barzelletta scurrile.
Il tutto, dunque, senza che alcuna illazione moralistica sia ammissibile al riguardo.
È evidente che se si riporta tutto questo a Maria (come è in principio effettivamente possibile), si giunge a risultati veramente inquietanti. Così come si giunge a risultati inquietanti riguardo all’interpretazione di quell’”anima femminile”, che, per esempio, una pensatrice come Edith Stein (“Die Frau”) interpretò, ben cosciente proprio di questi rischi, esattamente sulla base del modello ideale di Maria Vergine
Di conseguenza il Figlio della Vergine è effettivamente divino solo nei limiti di questo riduzionismo naturalistico-ferino. Come tale, egli è lo “Spirito dell’Anno” ed anche l’eroe solare Ercole. Ma nei fatti, nella sua elementarietà, egli è comunque solo un figlio illegittimo e figlio di puttana. Figlio di una madre divina solo in quanto fondamentalmente puttana e Menade. Qui è solo la Natura che domina. È solo la Natura che afferma il diritto di essere “religiosa” al modo che le pare. E basta!
L’insieme dei temi è insomma molto nietzschiano ed in qualche modo anche heideggeriano (autenticismo). Dunque tutto l’apparato mitologico-religioso che aveva sedotto il nostro ipotetico lettore nella prima parte del libro (e che dalla religione della Grande Dea poteva essere pensato trasfondersi nelle religioni successive, tutte però autenticissime) non appare essere altro che la sublimazione scenica di tutto questo estremamente crudo e sobrio autenticismo storicistico e vitalistico. Che in alcuni può anche indurre esaltazione, ma che nei fatti è solo ripugnante ed insopportabile
Un sola, ma prudentissima, eccezione viene fatta da Graves per il culto cattolico di Maria.
Esso infatti non solo viene salvato (essendo considerato del tutto riducibile al culto della Grande Dea) ma viene anche considerato marchio dell’unico Cristianesimo che abbia di fatto una giustificazione. E ciò in quanto tendenzialmente pro-matriarcale, anti-statale, anti-conservatore, anti-puritano, anti-trascendente, ed anti-eroico. In esso è dunque da vedere un vitalismo storico agricolo e marino (dio dei cereali e dea del mare) in sè assolutamente autentico e naturale. E soprattutto esso riconduce all’esigenza fondamentale della religione-non-religiosa della Grande Dea (dichiarata da Graves già nella prefazione al libro) : ‒ la necessità di un culto incondizionato della Donna da parte del maschio. Essa, quale Grande Dea, come lui dice, vuole essere servita in pieno o non essere servita affatto (proprio come tale ci appare la Dea Madre egeo-cretese anche nel “Dioniso” di Karol Kerenyi). Essa è la vita nella sua immediata e stringente necessità, e come tale impone un culto che è da interpretare proprio alla luce di tale sobria necessità. E dunque “religioso” solo per traslato e per metafora (cioè per quanto è reso necessario dallo scopo di attenersi al “vivente”, o anche “essente”, come valore primario : ‒ senza il quale vi è di fatto solo morte). Il vitalismo storico attribuibile a siffatto Cristianesimo affine alla religione della Grande Dea è dunque da considerare anch’esso appena un naturalismo matriarcale.
Insomma tutto ciò è nel complesso appena ideologia laica e come sempre iconoclastica. Ovviamente perdutamente moderna (e quindi profondamente in linea con il vitalismo superomistico ed evoluzionistico nietzschiano, con lo spirito anti-metafisico della cultura moderna, e con il naturalismo in generale). L’essenziale appare essere qui il distruggere tutto ciò che è vera fede, ovvero quel credere che presta fede effettivamente ad un Invisibile divino immateriale.
E l’operazione viene qui portata a termine con assoluta maestria (come accade in modo parallelo anche presso un pensatore raffinatissimo come Heidegger), perché la polemica contro la filosofia (vedi il nostro precedente articolo già menzionato) ed a favore del mito, della poesia, e della religione femminile, parla in qualche modo proprio a favore della fede. Ma una fede-non-fede, proprio come accade per la religione-non-religiosa. Una fede smascherata, denudata ed elementarizzata. Pronta per essere consumata anche dal laico iconoclasta.
E però il nostro ipotetico lettore è uno che crede in primo luogo perché vuole credere, e ciò perché sente, con spirito pascaliano, di dover credere o morire (“Signore, da chi andremo? Solo tu hai parole di vita….!”). Egli sente di aver vitalmente bisogno di un Gesù Cristo che sia un vero dio-uomo e che quindi sia il Dio trascendente stesso nella sua pienezza di Dio vivo.
Non lo disturba affatto che Gesù Cristo venga identificato con la Vita e quindi anche perfino con la Donna (perdendo così gli unilaterali attributi maschili da sempre affibbiatigli). Non lo disturba affatto che Gesù Cristo possa opporsi ad una religiosità solo formalmente istituzionale (unilateralmente statalista, eroica, puritana e patriarcale). E quindi, come tale, anche tendenzialmente dogmatica, confessionale ed ortodossa. Lo disturba solo che il Trascendente venga qui messo radicalmente in discussione. E con esso venga messo in discussione un autentico e pieno Invisibile (cioè la metafisica stessa nella sua radicalità, cioè la metafisica religiosa). Per lui il segreto del nome di Dio è ciò che è in pieno, qualcosa di purissimo, santissimo ed inviolabile. E che dunque sia pure segreto e lo resti! Ma per davvero. E la sua segretezza potrà allora anche riguardare la ben possibile suprema verità esoterica (da non rivelare a chi ne farebbe pessimo uso) secondo la quale Dio è in fondo in qualche modo Donna e quindi Vita. Ma ciò non esime dal dovere di inginocchiarsi davanti ad esso in adorazione. Né rende impossibile che Egli venga, in base ad altre considerazioni, considerato anche come il Maschile per eccellenza.
Insomma è per quest’autentica follia nel suo complesso (la follia della fede) che il nostro lettore-credente è capace di contraddire anche quest’ulteriore storicismo naturalista e laico, ancora più estremistico degli altri. Quello di Graves. Egli, come Pascal, sceglie ed abbraccia la fede. E se ne fa carico per tutta la sua vita come di una tremenda ma vivificante responsabilità. Di fatto senza di essa vi è solo la morte : ‒ quella subita ciecamente (cioè ignorantemente) e quella subita nello sguardo acuto e disincantato dell’erudito e cinico saggio.
Si vedrà poi dopo la morte chi ha ragione! Quando l’Invisibile (ammesso, ovviamente, che ci sia per davvero) si rivelerà finalmente in modo pieno.
Insomma Graves, parlando (per scherzo) del segreto nome del Dio trascendente, voleva solo dire che esso è segreto perché nei fatti non è affatto vero trascendente. Se, dunque, esso è stato nascosto dai poeti mitici (nel suo libro soprattutto il Gwion che nel “Libro rosso di Hergest” parla di sé stesso come un Taliesin che è poi di fatto lo stesso “Figlio-Logos-Fanciullo divino-Fanciullo saggio” presente “fin dall’inizio” dei tempi ‒ e chissà se a questo punto la rilettura di Graves è veramente fedele al suo spirito!), ciò è accaduto solo perché il Cristianesimo ortodosso usava bruciare sul rogo chi pretendeva di ricondurre Gesù Cristo ad un Paganesimo della Grande Dea selvaggia (credo di quella Chiesa celtico-britannica che sarebbe in fondo sempre restata in fondo pagana). Tutto questo appare chiaramente nella seconda parte del suo libro, man mano che ci si approssima alle sue estreme conclusioni. La sua era insomma solo una beffa da erudito. Sbattuta in faccia ad ogni tipo di credente.
Resta però il fatto che egli include tra i credenti anche i “filosofi”. E fa benissimo a farlo. Per cui mi sembra che, al di là dell’autentico prezioso tesoro di conoscenze che egli ci mette comunque a disposizione, l’unica parte del suo libro che veramente si salvi è proprio la Prefazione (che io ho commentato nel già citato articolo). Si tratta della sua polemica introduttiva contro la filosofia ed a favore di una religione che è poesia mitica. Essa può e deve essere salvata. Poco importa che alla fine egli menzioni l’”infezione filosofica” (termine davvero affascinante) solo per considerarla complice in fondo con la deriva del religioso verso il trascendente e verso l’istituzionalità [cap. 24, pag. 487-509] . Questo mi sembra che infami in fondo solo la filosofia e non invece la vera religione.
La vera religione infatti non ha nulla a che fare né con la dittatura della filosofia, né con la dittatura del formalismo del Trascendente, cioè con l’istituzionalità. Essa è vita per davvero per chi decide di credere, così affrontando e prendendo su di sé un supremo e mortale rischio. E come tale essa può bene essere anche poesia e mito. Non è stato forse proprio Graves a dire che il senso della particella “tal” (presente nel Taliesin-Cristo, come in Talo, Tantalo, Atlante, Telamone), che compare dovunque si configuri un eroe solare tipo Ercole (cioè il nucleo di ogni Dio sofferente che sacrifica sé stesso per gli uomini ‒ da Tammuz, a Wotan, a Cristo), è un atlantico ed erculeo reggere, prendere su sé stesso, osare, sopportare, e ciò solo per amore vero gli uomini? [cap. 8, pag. 155-159 ].
Infine credo che valga brevemente di prendere in considerazione le conclusioni a cui egli giunge in tre dei suoi ultimi e decisivi capitoli.
In quello dedicato a rivelare in parte “il sacro ed ineffabile nome di Dio” [cap. 16, pag. 313-346] egli sottolinea quello che abbiamo già detto, e cioè che il Figlio della Madre non è che la rappresentazione del vecchio Anno che trapassa nel nuovo Anno, alludendo così ad una rinascita (dietro la quale si profilano di fatto anche reincarnazione e resurrezione) ma sempre restando nei termini dello storico e senza quindi alcun possibile sconfinamento verso un’autentica eternità. Proprio come per Nietzsche, l’eternità è per Graves appena il prepotente perpetuarsi auto-superantesi della Vita in quello che è di qualche modo un vero e proprio “eterno presente” (la storia della natura). Tutto il suo studio enigmistico sui vari alfabeti in comune tra cultura greco-mediterranea e celtica sfocia dunque nell’affermazione che con le lettere si costruiscono blocchi rettangolari che altro non sono se non i pilastri del Tempio solare.
Proprio entro tale contesto il supremo e segreto nome divino appare essere comunque quello paradigmatico di JHWH (Jahvè), ma che alla fine esso null’altro non è se non la stessa Grande Dea.
Nel capitolo dedicato all’”unico tema poetico” [ cap. 24, pag. 487-509] egli fa la dichiarazione sintetica già menzionata circa il nucleo della religione-non-religiosa della Grande Dea. La definisce allora come “signora delle creature selvagge” ed afferma che la definizione di ciò che è “poeta” è da cercare nel suo paradigma originario, cioè nel sacerdote danzante intorno all’altare. Laddove poi le danze sono legate alle stagioni dell’anno e quindi al ritmo della rotazione (e qui entra, in modo ovviamente riduttivo, anche il Platone del Timeo), di cui è protagonista lo Spirito dell’anno, maschio che è figlio ed amante della dea.
E la danza è un altro tipico tema nietzschiano. Infatti proprio qui lo studioso si chiede se tutto ciò possa essere compatibile con il Cristianesimo. E ciò che poi dice ci rivela che la risposta è chiaramente “no”! Proprio qui, infatti, egli sostiene che Gesù fu solo un uomo ed inoltre profondamente guidaico. Ne consegue che l’assimiliazione di Cristo al paradigma del dio eucaristico-sacrificale non è altro che un trucco illusionistico del Cristianesimo, dato che tra i due elementi non vi alcuna continuità ma solo invece insanabile frattura. Il dio eucaristico infatti è un paradigma che trascende Cristo e pertanto non lo assimila affatto. E quindi è falso sia quanto afferma il Cristianesimo confessionale ed ortodosso (e cioè che Cristo costituisce il paradigma primario del dio eucaristico-sacrificale) sia quanto afferma un possibile Cristianesimo meno dogmatico ed aperto al valore del Paganesimo. In quanto il dio eucaristico-sacrificale appartiene solo e soltanto al Paganesimo, ed in particolare a quello basico (storico-naturalistico) presupposto dallo studioso.
Ne consegue che anche la figura di Maria non solo non si presta ad alcun recupero della Grande Dea alla sfera della religiosità autentica, specie cristiana, ma è anche in profonda contraddizione con quest’ultima. In particolare essa risulta essere in profonda contraddizione con un Gesù che, dal canto suo, non può essere vero dio. Al massimo egli è dio solo entro di essa, cioè per traslato.
Dunque, egli sostiene, il Cristianesimo edificato falsamente su un Gesù falsificato è solo e soltanto la religione eroica e bellicistica di quel Costantino che ricorse ad esso solo per conquistare i soldati, peccatori ed emarginati, cioè proletari (conquistati dalla nuova fede anti-aristocratica), che servivano per difendere l’Impero dai barbari. Esso non solo non aveva nulla di veramente “ascetico”, limitandosi ad essere appena una religione pragmatica (esattamente entro lo spirito romano), ma inoltre era ed è lontanissimo dalla religione della Grande Dea.
Eppure, egli dice, l’esigenza di quest’ultima restò. E fu per questo che nel XI secolo d.C. Maria venne introdotta nella fede cristiana. Ma in realtà già l’imperatore bizantino Zenone aveva reintrodotto Rea proprio attraverso il Tempio alla Vergine Maria edificato a Costantinopoli. Essa era insomma quella Santa Sofia nella quale lo studioso vede quello Spirito fondamentalmente femminile (di fede gnostica) che però di santo non ha proprio nulla. E così poi il puritanesimo si oppose proprio alla tendenziale orgiasticità di Maria ed i cattolici si irrigidirono infine sulle loro posizioni mariane.
Insomma Gesù e Maria sono entrambi in realtà solo storici, e pertanto la fede in essi come dei è solo e soltanto falsa. Ed in conclusione allora il Cristianesimo, e con esso anche la religiosità autentica, non possono per Graves essere a favore della poesia mitico-religiosa. La poesia mitica è una religione-non-religiosa in quanto basata solo sulla storia e sulla natura. Pertanto la sua condanna della filosofia deve includere anche quello di ogni religione del trascendente.
Giungiamo così al penultimo capitolo prima di un “Poscritto”, e cioè quello da Graves dedicato al “ ritorno della Dea” [cap. 26, pag. 549-564]. E qui si rivela quell’ideologismo al quale abbiamo prima accennato. Graves non poteva che giungere a questo risultato, che tradisce la tipica sensibilità moderna discussa nel commento generale : ‒ anticipata da Maria, la Grande Dea (e con essa la natura e storia, entrambe ferine, selvagge e mondanamente strapotenti) non potrà che tornare. È insomma sempre il discorso spengleriano, nietzschiano ed heideggeriano sulla decadenza dell’Occidente (che agli inizi del XX secolo fu portato avanti da quella “rivoluzione conservatrice” che presto si sarebbe poi smascherata come titanista, nazista ed anti-semita), che non potrà trovare un compenso se non ritorna al ferino ed eroico vitalismo naturalista.
È estremamente significativo, allora, il fatto che i punti di partenza del discorso dello studioso sono qui Frazer ed Hitler. Il primo tentava per lui di difender la civiltà europea contro l’immoralità religiosa orientale (che toglieva all’uomo la voglia di vivere). Il secondo attaccava poi l’ebraismo come nucleo del capitalismo anti-proletario che aveva portato alla rovina la nazione e razza germanica e così l’intera civiltà europeo-occidentale.
Nessuna delle due tesi è valida, egli dice (e con ragione!). In particolare l’accusa hitleriana agli Ebrei come nucleo del capitalismo usuraio (gli Ebrei furono solo costretti al capitalismo dai veti imposti loro dai cristiani ed il capitalismo non fu affatto una loro invenzione). Ma, egli aggiunge dopo, comunque Frazer ed Hitler “non erano lontani dalla verità”, in quanto il Cristianesimo proprio sull’ebraismo si basò per affermare le sue falsità. In altre parole se l’ebraismo non è colpevole, esso lo è comunque per mezzo del Cristianesimo, che comunque è da vedere come il principale imputato (e qui siamo di nuovo a Nietzsche). Insomma Graves è in fondo anche anti-semita. E del resto non poteva non esserlo essendo anche in questo perdutamente moderno. L’Ebraismo è infatti il nucleo stesso della religiosità del trascendente che la modernità laica ed iconoclastica vuole a tutti i costi distruggere.
Dunque ciò che viene qui discusso è il tema nietzschiano del declino dell’Occidente per colpa dell’Oriente giudaico-cristiano (e schierato contro la pagana grecità originaria) e pertanto religioso, anti-eroico, ed anti-statale. La grecità difesa da Nietzsche era per la verità quella naturale. Ma Graves, sebbene per il resto chiaramente allineato su questa tesi, menziona (sebbene solo criticamente) anche la grecità dell’idea di città-stato, o polis [è questa la tesi difesa da Arnold Toynbee in “Il mondo ellenico” (Einaudi Torino 1967)]. Egli cerca di dimostrare insomma che tale tesi era nel complesso scorretta perché né la grecità era stata mai in pieno solo “statale” né la religiosità era stata mai sostanzialmente “orientale”, e quindi in questo senso giudaica. Con tale polemica egli vuole pertanto affermare proprio che quella che a lui interessa è alla fine solo la tesi naturalistica, cioè quella nietzschiana.
La vera religiosità, egli dice, era invece quella fondamentale del paganesimo della Grande Dea (religione-non-religiosa) e quindi non orientale, ma in verità occidentale, cioè europeo-tracica. Pertanto solo storica (la mitologia unitaria europea è per lui in stretta relazione con vere migrazioni di popoli e quindi con fatti storici). Essa era tipica della Grecia, e da qui venne diffusa a tutto il mondo noto.
E però solo finchè essa stessa non degenerò a causa della filosofia, nella sua opposizione alla poesia mitica. Il vero “idealismo” statalista (in realtà convergente di fatto con il giudaismo della religione patriarcale e dell’uomo-dio o trascendenza) fu solo allora per lui solo quello romano (in sé anti-religioso in quanto fondamentalmente eroico e conservatore). Ma anche quest’ultimo finì per infettarsi di una filosofia (“contrasse l’infezione filosofica” greca, egli dice) anti-religioso-poetica e quindi di fatto complice con la religiosità conservatrice patriarcale e statalista. Per poi sprofondare nella decadenza e nella corruzione.
È proprio qui che per lui si innesta il Cristianesimo (falsificando Gesù) in quanto religione patriarcale e statale. E ciò, come si è detto, solo per salvare l’Impero dai barbari.
Il resto a tale proposito l’abbiamo già detto
Cosa si può dunque dire a proposito di questo comunque grandissimo libro e di questo grandissimo autore?
Proprio come può accadere per un pensatore moderno come Heidegger (anche lui gigante del pensiero), sorge spontanea una considerazione : ‒ quanto inutile spreco di intelligenza e di fatica!
È il frutto, questo, del tipico ossessivo protagonismo dell’intellettuale moderno. Ma qui schierato addirittura anche contro la filosofia, autentico mostro sacro della moderna cultura.
L’avvertimento rivolto ad essa da Graves è dunque di nuovo tipico dell’intellettuale moderno : ‒ Fin qui e non oltre! Ad ogni protagonismo il proprio legittimo ed inviolabile regno!
Il regno e dominio è quello di una poesia mitica che poteva e può essere autenticamente religiosa (e così opporsi alle intolleranti intransigenze della filosofia moderna). Ma di nuovo, sconsolantemente, con Graves non lo è.
Insomma chi crede (ed insieme pensa e contempla) è nel mondo moderno tremendamente solo!
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