ABSTRACT
In questo articolo discutiamo la relazione di valore che è possibile stabilire tra l’onto-metafisica di Jacques Maritain e quella di Edith Stein in riferimento allo specifico concetto di «atto di esistere».
Ci riferiamo con quest’ultimo in particolare all’individuo ontologicamente ultimo, ossia l’ente quale esistente colto nella sua pienezza, e cioè in quanto caratterizzato dal massimo grado di «indipendenza». La nostra tesi (come sostenuto in alcuni precedenti lavori) è che la Stein dia corpo e volto proprio a questo elemento ontologico, sebbene ella si muova sul piano di un’ontologia condizionata molto più dal concetto di «essenza» che non invece dal concetto di «esistenza».
Ma Maritain ritiene questo genere di ontologia assolutamente insufficiente per configurare quella che egli ritiene un’autentica “filosofia dell’essere”, ossia quella che è totalmente incentrata sull’”esse” tomista – cioè l’essere colto nella primaria valenza di un’”esistenza” che riassorbe in sé totalmente lo stesso concetto di essenza. Su questa base, comunque, il pensatore francese caratterizza l’atto di esistere individuale in una maniera così forte e convincente, da rendere (almeno per certi versi) ben più debole lo stesso concetto così come si lascia cogliere entro la visione steiniana. E tale forza appare essere in primo luogo metafisico-religiosa (ossia teologica), in quanto essa lascia che si delinei in maniera ben più chiara quel concetto di Dio-Essere al quale comunque anche la Stein attribuisce la massima importanza.
In tal modo la critica maritainiana alla “filosofia delle essenze” finisce per apparire davvero essenziale per porre l’atto di esistere in una maniera che sia effettivamente compatibile con una vera e propria filosofia dell’essere. Per la precisione si tratta dell’individuo colto nella sua ultimità ontologica (e quindi nella sua capacità di essere davvero impositivo nella sua vincolante evidenza) solo in quanto esso è totalmente categorizzabile come «atto»; ed in alcun modo invece come «potenza». Solo in questa maniera si delinea infatti per Maritain un esistente che sia capace di rendere secondario qualunque altro livello dell’essere. Invece qualsiasi accento metafisico-filosofico posto sullo strato potenziale dell’essere riduce per lui di molto la portata ontologica dell’esistente, e così pone fatalmente un «atto di esistere» che non è affatto vincolante.
In tal modo, insomma, il pensatore francese da corpo e volto a quell’individuo umano che può e deve venire considerato alla stregua della creatura posta da Dio in essere nella forma di un vero e proprio assoluto esistente.
È pertanto su questa complessiva base che Maritain configura un esistenzialismo fortemente compatibile con la sola tradizionale ed antica onto-metafisica cristiana; e non è quindi in alcun modo coinvolto nelle riletture moderne dell’ontologia (tutte sempre compromesse più o meno direttamente con il primato dell’essenza-potenza, oppure invece sconfinanti nell’aperto nichilismo filosofico-esistenzialista moderno). Proprio questo è a noi sembrato quindi lo sfondo più adeguato per misurare l’onto-metafisica steiniana sul metro di quella maritainiana. E da tale confronto risulta un’oggettiva «insufficienza» dell’ontologia steiniana; almeno in relazione alla posizione di un atto di esistere che risulta troppo condizionato dall’essenza (e quindi anche dalla presa di posizione filosofico-moderna) per poter avere la stessa forza di quello maritainiano.
Di conseguenza presso la Stein la presa di posizione filosofica di tipo «esistenzialista» deve essere anch’essa di portata minore. E pertanto si può presumere che (almeno limitatamente a tali motivi) la sua onto-metafisica non si ponga nell’alveo della “filosofia cristiana” con la stessa decisione di quella maritainiana.
Tale insufficienza può però venire postulata solo partendo dal molto specifico punto di vista costituito dall’onto-metafisica maritainiana, e cioè in relazione all’individuo umano assolutizzato dal fatto di costituire un atto di esistere (e non invece un’essenza-potenza intellettuale destinata a trovare nell’esistenza appena la sua concretizzazione). Vi sono però altrettanti motivi per giudicare l’onto-metafisica steiniana pienamente giustificata (e quindi affatto debole o insufficiente) proprio in forza dell’accento posto dalla pensatrice sull’essenza-potenza umana. Specie sulla base dell’interpretazione critica recentemente offerta dalla Borden [Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010], abbiamo dunque ipotizzato che all’onto-metafisica steiniana possa venire restituito tutto il suo indiscutibile valore una volta che l’atto di esistere (così come affermato dalla pensatrice) venga considerato meglio rappresentato dal primato dell’unicità individuale in quanto “forma individuale”. In altre parole, se che per Maritain l’individuo umano ha il massimo valore in forza dello status di «esistente», per la Stein invece esso lo ha in forza dello status di assoluto ed irriducibile «unicum». E naturalmente, mentre nel primo caso è la sostanza a giocare un ruolo decisivo, nel secondo caso invece è l’essenza a giocarlo.
Pertanto, una volta poste così le cose, la prospettiva si rovescia, e così l’onto-metafisica steiniana assume un valore (relativo) ben maggiore di quella maritainiana.
A noi sembra però che il confronto tra le due visioni ritrovi il suo equilibrio in quella dottrina maritainiano-tomista dell’esistente umano quale sostanziale “soggetto” (o “suppositum”), che trova il proprio corrispettivo nella concezione steiniana di un individuo unicissimo proprio in quanto è incarnazione di un’Idea presente da sempre nella mente divina. In entrambi i casi infatti la forza ontologica condizionante, esercitata dall’individuo umano sull’intero essere mondano, risulta in definitiva dal fatto che esso viene “pensato” (in maniera esauriente ed inoltre da sempre) solo e soltanto da parte di Dio stesso.
NB: Una copia in cartaceo di questo scritto può venire richiesta all’autore per mail.
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